ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’attuazione dell’Ufficio per il processo (di cassazione): panacea o utopia?
di Antonio Scarpa
I. Nell’ambito degli interventi strutturali volti a porre rimedio ai permanenti “ritardi eccessivi nella giustizia civile”, i quali comportano un “impatto negativo sugli investimenti e sulla produttività”, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, presentato dal Governo italiano alla Commissione europea il 30 aprile 2021 per poter beneficiare delle risorse messe a disposizione dal Next Generation EU, comprende un “ambizioso progetto di riforme” che avrebbe “l’obiettivo di affrontare i nodi strutturali del processo civile e penale e rivedere l’organizzazione degli uffici giudiziari”.
In realtà, stando alle stime degli istituti di ricerca, si sa che la cattiva percezione dell’Italia da parte degli investitori stranieri è solo in parte (e neppure nella parte più rilevante) imputabile ai tempi della giustizia civile, su ciò incidendo anche, e talvolta di più, l’incertezza del quadro normativo, il carico burocratico, la stabilità e l’efficacia dell’azione di governo, la presenza di corruzione. Ci precedono, del resto, nella classifica delle economie mondiali con maggiore capacità di attrazione di investimenti, stati che non fanno dell’efficienza della giustizia civile il loro fiore all’occhiello.
II. È un fatto, tuttavia, che la CEPEJ (European Commission for the Efficiency of Justice) del Consiglio d’Europa continua ad additare l’Italia per l’eccessività della sopravvenienza, della pendenza e della durata media dei processi civili (in proporzione al numero di abitanti, la misura dei giudizi di cassazione introdotti da noi è cinque volte quella tedesca), sicché le Raccomandazioni specifiche del Consiglio Europeo e le Relazioni della Commissione Europea ci invitano costantemente a migliorare l’efficienza del sistema giudiziario civile.
III. Tra le finalità delle misure espressamente dedicate al sistema giudiziario dal Piano nazionale di ripresa e resilienza è individuata prioritariamente quella di “portare a piena attuazione l’Ufficio del processo”. Si tratta, com’è noto, di modello organizzativo già introdotto in via sperimentale dall’art. 50 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114. Tale disposizione, inserendo l’art. 16-octies nel d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n. 179, prevede, “[a]l fine di garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l'innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione”, la costituzione, presso le corti di appello e i tribunali ordinari, di strutture organizzative mediante l'impiego del personale di cancelleria e di coloro che svolgono, presso i predetti uffici, il tirocinio formativo a norma dell'art. 73 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla legge n. 98 del 2013, o la formazione professionale a norma dell'art. 37, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, nonché dai giudici onorari di tribunale e dai giudici ausiliari presso le corti d’appello.
IV. Con gli articoli da 11 a 17 del d.l. 9 giugno 2021, n. 80 (Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e per l'efficienza della giustizia), sono state quindi disciplinate le procedure di reclutamento del personale addetto all'ufficio del processo, autorizzando l'assunzione (subordinatamente all'approvazione del PNRR da parte della Commissione europea) in due scaglioni, con contratto di lavoro a tempo determinato, di 16.500 unità nell'ambito della giustizia ordinaria. Nell'ambito di tale contingente, alla Corte di cassazione sono destinati addetti all'ufficio per il processo in numero non superiore a 400, da assegnarsi in virtù di specifico progetto organizzativo del Primo Presidente della Corte, con l'obiettivo del contenimento della pendenza nel settore civile e del contenzioso tributario. Il personale da assumere nell'amministrazione della giustizia ordinaria deve essere in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza ovvero, per una quota dei posti a concorso da indicarsi nel bando, del diploma di laurea in economia e commercio e scienze politiche. Quanto al trattamento economico fondamentale ed accessorio, gli addetti all'ufficio per il processo sono equiparati ai profili dell'area III, posizione economica F1. Si prevede che il servizio prestato con merito e debitamente attestato al termine del rapporto costituisce titolo per l'accesso al concorso per magistrato ordinario, equivale ad un anno di tirocinio per l'accesso alla professione di avvocato e di notaio, ovvero ad un anno di frequenza dei corsi della scuola di specializzazione per le professioni legali, e costituisce altresì titolo di preferenza per l'accesso alla magistratura onoraria. Nel d.l. n. 80 del 2021 sono quindi specificati i titoli ed i profili professionali occorrenti per l’accesso, è demandata al Ministero della giustizia l'individuazione dei tribunali o corti di appello cui assegnare gli addetti all'ufficio per il processo e viene imposto l'obbligo di permanenza nel distretto di assegnazione per l'intera durata del contratto a tempo determinato.
Già il PNRR afferma che l’ufficio per il processo “mira ad affiancare al giudice un team di personale qualificato di supporto, per agevolarlo nelle attività preparatorie del giudizio”. Viene perciò identificato l’obiettivo principale di “offrire un concreto ausilio alla giurisdizione così da poter determinare un rapido miglioramento della performance degli uffici giudiziari per sostenere il sistema nell’obiettivo dell’abbattimento dell’arretrato e ridurre la durata dei procedimenti civili e penali”. Si intende realizzare tale obiettivo “in primo luogo, attraverso il potenziamento dello staff del magistrato con professionalità in grado di collaborare in tutte le attività collaterali al giudicare (ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti)”.
V. L’art. 12 del d.l. n. 80/2021 detta, così, le modalità di impiego degli addetti all'ufficio per il processo, facendo rinvio all'Allegato II, numero 1, che definisce le seguenti attività di contenuto specialistico dovute dagli addetti all’ufficio per il processo: “studio dei fascicoli (predisponendo, ad esempio, delle schede riassuntive per procedimento); supporto il giudice nel compimento della attività pratico/materiale o di facile esecuzione, come la verifica di completezza del fascicolo, l’accertamento della regolare costituzione delle parti (controllo notifiche, rispetto dei termini, individuazione dei difensori nominati ecc.), supporto per bozze di provvedimenti semplici, il controllo della pendenza di istanze o richieste o la loro gestione, organizzazione dei fascicoli, delle udienze e del ruolo, con segnalazione all’esperto coordinatore o al magistrato assegnatario dei fascicoli che presentino caratteri di priorità di trattazione; condivisione all’interno dell’ufficio per il processo di riflessioni su eventuali criticità, con proposte organizzative e informatiche per il loro superamento; approfondimento giurisprudenziale e dottrinale; ricostruzione del contesto normativo riferibile alle fattispecie proposte; supporto per indirizzi giurisprudenziali sezionali; supporto ai processi di digitalizzazione e innovazione organizzativa dell’ufficio e monitoraggio dei risultati; raccordo con il personale addetto alle cancellerie”.
VI. Viene subito da chiedersi in che modo e misura gli addetti dell’ufficio per il processo potranno significativamente contribuire al perseguimento dell’obiettivo dell’abbattimento dell’arretrato e della riduzione della durata dei procedimenti civili di cassazione.
Dai dati contenuti nella Relazione del Primo Presidente sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, nel 2019 risultano definiti 33.048 procedimenti civili e pendenti 117.33; nel 2020 definiti 29.108 procedimenti e pendenti 120.473. Ciò a fronte di 82 vacanze nei posti di Consigliere dell’organico della Corte.
L’idea di richiedere agli addetti dell’ufficio per il processo la redazione di “bozze di provvedimenti semplici”, a contenuto inevitabilmente decisorio, anche nell’ambito dei giudizi civili di legittimità, impone di pensare innanzitutto ad un’elevata professionalità del personale da assumere, o, viceversa, ad un contributo non rilevante sotto il punto di vista strettamente numerico. Se un consigliere delle sezioni civili della Corte redige al momento in media duecentocinquanta provvedimenti l’anno, quante bozze di sentenze o ordinanze potrà predisporre, con rassicurante autonomia operativa, il singolo addetto all’ufficio per il processo che dovrà affiancarlo nei prossimi mesi?
C’è poi un problema pratico di intuibile complessità: in quale spazio del Palazzo di Piazza Cavour potranno svolgere le loro attività gli addetti dell’ufficio per il processo?
L’utilità dell’apporto degli addetti dell’ufficio per il processo nella Corte di Cassazione sarà comunque per forza direttamente proporzionale (anche in ragione della carenza di spazi fisici di lavoro nel Palazzo) alla progressiva digitalizzazione degli atti già depositati in originale cartaceo secondo le forme ordinarie nei procedimenti civili pendenti, non potendosi affidare il recupero del macroscopico digital divide del nostro supremo organo di giurisdizione alla sola collaborazione degli avvocati, in forza del Protocollo d’intesa del 27 ottobre 2020. L’inoltro, comunque facoltativo, da parte dei difensori, degli atti processuali del giudizio di cassazione, in precedenza depositati nelle forme ordinarie previste dalla legge, avviene, infatti, solo dopo la comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza pubblica o dell’adunanza camerale, e quindi suppone già svolte tante delle attività in cui sarebbe davvero proficua l’attività degli addetti dell’ufficio per il processo, ovvero quella volta all’esame preliminare del fascicolo per una oculata e non occasionale formazione dei ruoli.
Ogni ottimistico progetto di conseguire l’abbattimento dell’arretrato e la riduzione della durata dei procedimenti civili di cassazione resterà, dunque, utopia, pur con l’aiuto degli addetti all'ufficio per il processo, se anzitutto non si pone termine a quella “estenuante manipolazione di documenti cartacei” tramite “penna, inchiostro e calamaio”, che Stefano Zan già nel 2003 (Fascicoli e tribunali, Il Mulino) individuava fra le cause principali delle disfunzioni organizzative del nostro sistema giudiziario. Atti nativi digitali dei giudizi di merito convertiti in cartacei per il deposito in cassazione, spesso scansionati dal consigliere di cassazione relatore per convertirli in file digitali di provvedimenti che vengono stampati in documenti cartacei depositati in cancelleria e ritrasformati in file dal C.E.D.
La disponibilità immediata dell’archivio digitale dei processi pendenti consentirebbe una organizzata classificazione dei ricorsi da avviare, a seconda della questione di diritto su cui pronunciare, per l’udienza pubblica, l’adunanza camerale o il nuovo “procedimento accelerato” delineato nelle Proposte della Commissione presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso. Queste attività di studio, selezione ed accorpamento dei ricorsi pendenti, affidate ai singoli consiglieri individualmente coadiuvati da un addetto dell’ufficio per il processo, ove tempestivamente svolte ben prima dell’occasionale fissazione della data dell’udienza o dell’adunanza, rimedierebbero alle insufficienze dell’attuale sistema di spoglio dei ricorsi nel settore civile della Corte ed all’estemporaneità delle formazioni dei ruoli di udienza, garantendo soluzioni contestuali e coordinate, e dunque più utili ed agevoli.
Se si pensa che l’ufficio per il processo nella Corte di cassazione possa davvero servire a qualcosa, che non sia meramente simbolico, senza aver prima risolto le condizioni di arretratezza tecnologica della stessa Suprema Corte e dei suoi giudizi civili, è inutile, ed anzi pericoloso, continuare a proporre baratti fra ulteriori aumenti della produttività dei consiglieri e ulteriori mistificanti semplificazioni motivazionali delle decisioni dei giudici di legittimità. Innanzitutto, la motivazione minima, costituzionalmente sufficiente, di un provvedimento della Corte di cassazione che accoglie o rigetta un ricorso, non può discendere dal rito che sia prescelto dal presidente in sede di fissazione dell’udienza o dell’adunanza, ovvero dalla veste formale di sentenza o ordinanza, ma dipende sempre, nel concreto, dalla rilevanza e dal numero delle questioni su cui il collegio deve pronunciare.
E comunque il “peso del giudicare” è dato dal decidere, cioè dal trasformare il processo in sentenza, e non dal motivare: perciò l’insostenibile carico del giudice è e sarà sempre il “decidere troppo”, giammai il “motivare abbastanza”.
All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative
di Ruggiero Dipace
La questione della proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico ricreative è oggetto di un vivace dibattito sia in dottrina sia in giurisprudenza alimentato da un quadro normativo non del tutto chiaro e in possibile contrasto con il diritto europeo.
Al fine di dirimere le numerose questioni interpretative in materia, il Presidente del Consiglio di Stato, con decreto 24 maggio 2021, n. 160, ha deferito d’ufficio all’Adunanza plenaria due appelli in materia. Il potere officioso ex art. 99 c. 2 c.p.a. è stato utilizzato raramente e ciò dimostra la rilevanza delle questioni sottoposte al massimo organo della giustizia amministrativa.
Come noto la questione riguarda la necessità o meno, alla luce del diritto europeo e in particolare della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006 (c.d. direttiva Bolkestein) di procedere, una volta scadute le concessioni, a una selezione pubblica per l’individuazione del nuovo concessionario. In tal senso si era espressa la Corte di giustizia UE (sez. V, 14 luglio 2016, C-458/14 e C-67/15) secondo la quale l’art. 12, par. 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE “deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati”. Tali concessioni, quindi, rientrano nel campo applicativo della direttiva fermo restando il potere del giudice nazionale di valutare la natura “scarsa” o meno della risorsa naturale attribuita in concessione. Infatti, la direttiva prevede che “qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”. In questi casi, quindi, l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata e non può prevedere alcuna “procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami”.
A discapito del dato normativo europeo e dell’interpretazione della Corte di Giustizia, il legislatore nazionale ha previsto continue proroghe automatiche alla durata delle concessioni evitando così il ricorso alle procedure a evidenza pubblica imposte dal diritto europeo. In particolare, l'art. 1, c. 682 della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019), ha prorogato per quindici anni le concessioni demaniali marittime (quindi fino al 2033). Tali norme hanno peraltro causato l’avvio di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea in data 3 dicembre 2020.
Da ultimo, per far fronte alla crisi economica derivante dall’emergenza sanitaria, l’art. 182, c. 2, del d.l. n. 34 del 2020, ha previsto una moratoria generalizzata al ricorso alle gare per le concessioni.
A contribuire a rendere il quadro ancora più complesso si sono inserite alcune disposizioni regionali che hanno nella sostanza replicato le norme statali riguardanti le proroghe automatiche delle concessioni.
Tali leggi regionali, però, sono state impugnate dallo Stato che le ha ritenute lesive delle competenze delle proprie competenze in materia di tutela della concorrenza (ex art. 117, c. 2, lett. e, Cost.). Da ultimo, la questione è stata affrontata dalla Corte costituzionale con la decisione 9 giugno 2021, n. 139. In quel contenzioso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha impugnato la legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 maggio 2020, n. 8 che prevedeva che la validità delle concessioni con finalità turistico-ricreativa e sportiva, diportistica e attività cantieristiche connesse in essere alla data del 31 dicembre 2018, con scadenza antecedente al 2033, si estendesse, a domanda dei concessionari, fino al 31 dicembre 2033. Si trattava, quindi, di una legge regionale che replicava il meccanismo statale della proroga automatica delle concessioni.
La Corte costituzionale con la decisione 139/2021 ha statuito che la regione Friuli Venezia Giulia, pur essendo titolare di competenze legislative primarie in materia di ittica, pesca e turismo, nonché delle competenze amministrative sul demanio marittimo, lacuale e fluviale, ha leso la competenza legislativa statale in materia di concorrenza prevedendo una proroga delle concessioni in essere sino al 2033 non favorendo il ricorso a procedure di selezione pubblica e, quindi, limitando la concorrenza fra imprese (sul punto si veda anche la Corte cost. 12 gennaio 2021, n. 10; tale principio è stato affermato anche dal Consiglio di Stato con sentenza sez. IV, 16 febbraio 2021, n. 1416 secondo la quale il mancato ricorso a procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati, tale da determinare un ostacolo all'ingresso di nuovi soggetti nel mercato, ove previsto dalla legislazione regionale, comporta non solo l'invasione della competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza ma anche il contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost., per lesione dei principi di derivazione europea nella medesima materia). La Corte, inoltre, ha precisato che nel campo della tutela della concorrenza la regione non può ventare alcuna competenza statutaria.
Tale contraddittorio quadro normativo ha dato luogo a differenti approcci delle amministrazioni concedenti alcune delle quali, in ossequio alla normativa europea favorevole alle procedure a evidenza pubblica, hanno negato le proroghe, disapplicando la normativa nazionale (in alcuni casi sono state concesse solo mere proroghe tecniche in attesa delle gare); altre amministrazioni hanno deciso in senso diametralmente opposto concedendo proroghe in applicazione della disciplina nazionale. Ovviamente, tale complessa situazione ha ingenerato un consistente contenzioso con decisioni ondivaghe sia di primo sia di secondo grado.
Proprio il decreto presidenziale deferisce all’Adunanza Plenaria due ricorsi in appello su controversie concernenti il rigetto di istanze di proroga di concessioni ma le cui decisioni di primo grado avevano avuto esiti opposti. Si tratta degli appelli su Tar Puglia, Lecce, sez. I, 13 gennaio 2021, n. 73 e Tar Sicilia, Catania, 15 febbraio 2021, n. 504.
Con la prima decisione, il Tar Puglia ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento del Comune di Lecce con il quale si rigettava la richiesta della proroga automatica di una concessione in quanto in palese contrasto con la normativa nazionale ritenuta l’unica applicabile stante la sua prevalenza rispetto alla direttiva Bolkestein ritenuta non autoesecutiva e, pertanto, non suscettibile di diretta e immediata applicazione.
Infatti, secondo il Tar Puglia, la direttiva non può essere autoesecutiva in quanto non vengono normati alcuni aspetti fondamentali della disciplina delle gare per le concessioni. Quindi, è necessaria una normativa nazionale attuativa e di riordino del settore che individui la durata delle concessioni; le norme in materia di procedure selettive; la previsione di un indennizzo per i precedenti concessionari e, quindi, norme a tutela del loro legittimo affidamento.
Stante la natura non autoesecutiva della direttiva non sussisterebbe in capo alla pubblica amministrazione alcun obbligo di applicazione immediata della norma europea. Per cui un provvedimento amministrativo che disapplichi la norma nazionale sarebbe illegittimo per violazione di legge.
Con la decisione del Tar Sicilia n.504/2021, si afferma chiaramente il principio della necessità di ricorrere alle gare per l’assegnazione delle concessioni. Infatti, si ricorda che già la giurisprudenza, anche prima della sentenza della Corte di Giustizia del 2016, aveva in via maggioritaria aderito all’interpretazione favorevole all’esperimento delle procedure a evidenza pubblica in adesione ai principi comunitari di libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza, previsti dalla direttiva n. 123/2016. Tale indicazione si è rafforzata con la sentenza della Corte di giustizia del 2016 di modo che la proroga ex lege delle concessioni demaniali non può essere generalizzata, dovendo la normativa nazionale uniformarsi al quella europea sulle gare. Le concessioni, infatti, rientrano in linea di principio nell’ambito di applicazione della direttiva. Semmai, come già affermato dalla Corte di Giustizia, resterebbe devoluta al giudice nazionale la valutazione circa la natura “scarsa” della risorsa. Secondo il Tar, quindi, ogni regime che preveda una proroga automatica delle concessioni, indipendentemente dalla valutazione della natura scarsa o meno della risorsa naturale, sarebbe illegittimo. In tale contesto, il Tar affermava il potere/dovere non solo del giudice ma anche del funzionario pubblico di disapplicare la normativa nazionale in contrasto con quella comunitaria.
Nella sostanza queste conclusioni erano state già raggiunte dal Consiglio di Stato con la citata sentenza sez. IV, 1416/2021. Con tale decisione si è affermato il principio che il mancato ricorso a procedure di selezione pubbliche crea un ostacolo all’ingresso di nuovi operatori in un settore come quello delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative le quali hanno a oggetto un bene/servizio limitato nel numero e nell’estensione a causa della scarsità delle risorse naturali.
In questa decisione il tema della scarsità della risorsa appare di rilievo ed è elemento di differenziazione rispetto alla sentenza del Tar Sicilia. Il Consiglio di Stato, infatti, ritiene di per sé la spiaggia un bene limitato e scarso con la conseguenza che ogni concessione deve essere assegnata con selezione pubblica.
Nel caso della decisione del Tar Sicilia, invece, l’affermazione sembra essere più sfumata. Di volta in volta, infatti, l’amministrazione (e, quindi, il giudice) dovrebbe valutare sulla natura scarsa o meno della risorsa e, conseguentemente, decidere se ricorrere a una procedura selettiva.
L’elemento della valutazione caso per caso della natura scarsa della risorsa spiaggia sembra, quindi, essere dirimente nell’ambito della decisione sul ricorso alle procedure a evidenza pubblica e, a dire il vero, appare la soluzione più in linea con la normativa comunitaria. Su tale questione, quindi, si potrà trovare il giusto equilibrio tra l’esigenza di garantire l’attuazione del principio della concorrenza e quello di salvaguardare le esigenze degli operatori già presenti sul mercato.
I temi sono effettivamente di notevole portata e interesse e dal contrasto giurisprudenziale evidenziato deriva la decisione del Presidente del Consiglio di Stato che con il citato decreto ha rimesso all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti:
“1) se sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative; in particolare, se, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro sussista, o no, l’obbligo di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea e se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati, nonché se, nel caso di direttiva self-excuting, l’attività interpretativa prodromica al rilievo del conflitto e all’accertamento dell’efficacia della fonte sia riservata unicamente agli organi della giurisdizione nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva;
2) nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell’Unione europea o, comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990 e s.m.i., nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio;
3) se, con riferimento alla moratoria introdotta dall’art. 182, comma 2, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, come modificato dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77, qualora la predetta moratoria non risulti inapplicabile per contrasto col diritto dell’Unione europea, debbano intendersi quali “aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” anche le aree soggette a concessione scaduta al momento dell’entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri nel disposto dell’art. 1, commi 682 e seguenti, l. 30 dicembre 2018, n. 145.”
Come è facile rilevare, le questioni che si pongono in materia sono numerose e di interesse. Si parte dalla natura giuridica delle concessioni ai fini dell’applicazione della direttiva europea, al tema della scarsità del bene, più in generale al rapporto fra normativa nazionale ed europea e al conseguente potere di disapplicazione normativa. Proprio sotto quest’ultimo aspetto i quesiti sottoposti all’Adunanza plenaria hanno un rilievo che va ben oltre il tema della conformità o meno delle proroghe automatiche al diritto europeo. Lasciando in disparte ogni considerazione sulla portata e sui limiti del potere officioso del Presidente del Consiglio di Stato ex art. 99, c. 2, c.p.a., la decisione dell’Adunanza plenaria, infatti, dovrà delineare l’ampiezza del potere di disapplicazione della normativa nazionale in conflitto con quella europea e, in particolare, se questo sia obbligatorio anche per le amministrazioni, gli enti pubblici e i soggetti a essi equiparati. Inoltre, dovrà essere chiarita la portata dell’esercizio del potere in autotutela da parte delle amministrazioni in adempimento al predetto obbligo disapplicativo.
La decisione, quindi, è attesa non solo per la risoluzione dello specifico problema riguardante le concessioni ma anche per le sue implicazioni di carattere generale in materia di disapplicazione normativa.
Immagine politica e sostanza concettuale nella tassazione minima dei gruppi multinazionali
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Tassazione minima delle multinazionali tra effetti annuncio e problemi concettuali - 2. Frammentazione societaria dei gruppi multinazionali - 3. Logiche generali della tassazione internazionale dei redditi delle società del gruppo (pianificazione, elusione e concorrenza fiscale sleale) - 4. La “minimum tax “ come livello di tassazione e problemi di effettività.
1. Tassazione minima delle multinazionali tra effetti annuncio e problemi concettuali
Dietro quello che tutti i mezzi di comunicazione, e gli uffici stampa dei governi, presentano come giro di vite sulla tassazione dei gruppi multinazionali, non c’è un preciso documento politico, una dichiarazione congiunta sulle finalità dell’operazione. Non ci sono cioè dettagli dell’accordo politico cui fa riferimento il documento tecnico sul sito OCSE, a questo link https://www.oecd.org/tax/beps/statement-on-a-two-pillar-solution-to-address-the-tax-challenges-arising-from-the-digitalisation-of-the-economy-july-2021.pdf. Esso è già molto preciso nelle indicazioni, persino in alcuni dettagli, ma è assertivo, senza esaminare la possibilità di raggiungere gli stessi obiettivi con strumenti più semplici, nel quadro dei principi di tassazione societaria internazionale indicati ai punti successivi. Abbiamo quindi da un lato enunciazioni politico mediatiche quantomeno generiche e dall’altro un tecnicismo asettico. Sullo sfondo si concepisce la presentazione antropomorfica delle aziende multinazionali, confuse con i loro titolari, che invece spesso mancano del tutto, in quanto non ci sono certo da qualche parte il signor Nestlè o il signor Apple, per non dire i due soci signor Coca e signor Cola. Viene cavalcata politicamente la visione personalistica delle aziende, come artigiani o piccoli commercianti troppo cresciuti, anche da parte di economisti guru del pensiero liberal , con un semplicismo uguale e contrario a quello liberista (concetto opposto a quello di liberal) sull’autosufficienza del mercato. Le aziende vengono viste come moderni Paperoni anziché come gruppi di migliaia o decine di migliaia di persone, aggregate dalla produzione di merci o di servizi, che ne limitano l’orizzonte, tanto che molti comunicati stampa di aziende multinazionali hanno persino plaudito al quadro confusionario che si sta delineando sul nostro tema. È la conferma, qualora ce ne fosse bisogno, del business as usual, lo stesso atteggiamento con cui le aziende si sono poste di fronte alle possibilità di pianificazione fiscale internazionale, ritenendo doveroso profittare di tutte le scappatoie legali per ridurre il carico tributario. Sia la pianificazione fiscale internazionale, sia l’accettazione del ruolo di capro espiatorio del malessere delle società occidentali confermano la mancata consapevolezza delle aziende di essere gruppi sociali pluripersonali e la loro incapacità di esprimere una loro weltanschauung (salvo il capitalismo renano giapponese, più istituzionalizzato di quello finanziario anglosassone e familiare italiano ). La tassazione minima al 15% è un episodio di queste incomprensioni culturali, con riflessi farseschi di cui ai punti successivi.
2. Frammentazione societaria dei gruppi multinazionali
Invece di divagare pro o contro le aziende multinazionali bisogna mettere alcuni punti fermi per il giurista non tributarista cui è indirizzata Giustizia insieme. Prima di tutto si tratta di questioni interpretative, collegate alla ricerca del regime tributario più conveniente su operazioni aziendali registrate, senza evasioni in senso materiale, cioè rappresentazioni alterate degli eventi aziendali, ad esempio mancata registrazione di ricavi o annotazione di documenti fittizi; questi comportamenti sono semplicemente incompatibili coi controlli interni delle aziende pluripersonali, dove la proprietà non si occupa della gestione, o è addirittura diluita tra migliaia di piccoli azionisti, come indicato al punto 1. I vantaggi fiscali delle multinazionali riguardano invece il regime giuridico di flussi economici palesi, risultanti dai bilanci, riguardanti solo le imposte sui redditi e connesse spesso agli scoordinamenti tra sistemi fiscali dei vari paesi coinvolti. Tali scoordinamenti tra regimi tributari possono essere sfruttati opportunisticamente dai gruppi multinazionali in quanto essi non costituiscono un soggetto unitario di diritto. I gruppi sono infatti frammentati tra una pluralità di società giuridicamente autonome, residenti in stati diversi. Ciò accade per ragioni di praticità, benchè l’organizzazione complessiva consideri sé stessa, nella sostanza economico-gestionale, un’unica entità mondiale. La frammentazione del gruppo in tante società, giuridicamente autonome in ogni ordinamento nazionale in cui operano, ha molteplici ragioni. Una di esse era costituita dalle frontiere commerciali, dogane e dazi, con conseguente necessità di decentrare la produzione in siti industriali specifici per i mercati di sbocco. Questa necessità è meno pressante con la globalizzazione, ma restano motivi innumerevoli per strutturare i gruppi multinazionali in società autonome; ci sono ad esempio le limitazioni di responsabilità, fino alla praticità di interlocuzione con le istituzioni nazionali, compresi i tribunali, ed eventuali partners locali, omogenei per lingue e mentalità. Questi motivi di praticità operativa, di vendita e di logistica, benché alleggeriti dall’utilizzazione di internet, spingono ancora oggi alla divisione giuridica dei gruppi multinazionali in società autonome nazionali, legate da un rapporto di controllo, diretto o indiretto, cioè a catena, alla capogruppo. Con questa modalità organizzativa delle aziende in questione deve ancora oggi fare i conti l’imposizione tributaria, come indicato al prossimo paragrafo.
3. Logiche generali della tassazione internazionale dei redditi delle società del gruppo (pianificazione, elusione e concorrenza fiscale sleale)
Il gruppo multinazionale, per i motivi indicati al paragrafo precedente, è molto affidabile ai fini delle imposte sui consumi, come l’IVA sulle vendite a consumatori finali che acquistano online da aziende come Amazon. Le pianificazioni tributarie derivano invece da un’allocazione accorta, tra le società appartenenti al gruppo, delle componenti reddituali positive e negative in cui si articolano i flussi reddituali delle società del gruppo, vista la frammentazione di cui al punto precedente. La pianificazione spinge a massimizzare i costi attribuiti agli ordinamenti tributari con aliquota maggiore, ed i ricavi attribuiti a quelli con aliquota modesta o addirittura assente. I vincoli esterni sono la collocazione dei ricavi verso i clienti finali, i mercati di approvvigionamento delle materie prime e la materiale collocazione degli impianti produttivi. Una oggettiva convenienza tributaria si autoproduce anche quando le imposte sui redditi societari, nei paesi dove l’azienda è naturalmente collegata dai motivi suddetti, sono modeste o addirittura inesistenti; si pensi a molti paesi petroliferi o a paesi che esonerano da imposte societarie gli insediamenti produttivi, come gli stabilimenti, in quanto produttivi di sviluppo e know how per la manodopera locale, nonché di ritenute e contributi sociali su erogazioni a dipendenti e collaboratori.
Su queste premesse il reddito del gruppo multinazionale si frammenta, ai fini dell’imposizione tributaria, tra i vari ordinamenti nazionali suddetti; ciò porta ad un’aliquota fiscale effettiva sui redditi data dal rapporto tra imposte complessive dalle società del gruppo e il reddito totale del gruppo stesso, risultante dal bilancio consolidato, irrilevante ai fini tributari; a questo carico fiscale effettivo si riferisce l’aliquota del 15% proposta dall’OCSE. Per capire questo correttivo basta osservare cosa accadrebbe senza la frammentazione societaria di un al punto precedente; la tassazione del reddito di un’impresa unica multinazionale seguirebbe i due momenti logici tipici di ogni contribuente. In primo luogo si avrebbe l’imposizione sul reddito riferibile ai vari paesi di operatività aziendale, da parte di questi ultimi. In seconda battuta verrebbe l’imposizione nel paese di residenza, che accrediterebbe alla casa madre le imposte pagate nei vari paesi di produzione del reddito. È la logica, relativamente elementare, della sede centrale e delle stabili organizzazioni di un’azienda giuridicamente unitaria, che si modifica invece per la frammentazione in società nazionali, indicata al punto precedente. Il basso carico fiscale complessivo che ha tanto impressionato le opinioni pubbliche, trova comunque i suoi correttivi nel tempo; la capogruppo dovrà infatti prima o poi ad incassare i dividendi, nel qual caso molti ordinamenti, come quello statunitense, prevedono un conguaglio delle imposte pagate nei paesi esteri dalle società controllate, e l’imposta statunitense dovuta. È uno dei tanti elementi da cui si capisce che il problema della tassazione delle multinazionali è tecnicamente meno drammatico di come viene politicamente presentato.
4. La “minimum tax “ come livello di tassazione e problemi di effettività
L’aliquota del 15% non è quindi una imposta autonoma, ma un livello di tassazione medio derivante dal complesso delle imposte sui redditi delle società del gruppo. Nei disegni dell’OCSE il paese della capogruppo applicherà le proprie imposte sul reddito globale del gruppo, in modo che il carico fiscale medio sul reddito del gruppo sia pari al 15 percento; l’aliquota necessaria a tal fine, nel paese della capogruppo, è quindi variabile gruppo per gruppo, nella misura necessaria a raggiungere il livello globale del 15%. In questa prospettiva le imposte corrispondenti a tutti i paesi in cui si divide la filiera reddituale del gruppo saranno sommate, con corretti effetti di compensazione tra aliquote superiori e inferiori al 15%, non in assoluto, ma a seconda della fetta della torta reddituale spettante a ciascun paese (non si tratta cioè di una media delle aliquote delle società del gruppo, ma di una media ponderata in base al reddito di ciascuna).
Già da questo si comprende benissimo la possibilità di ciascun paese di procedere unilateralmente in questo senso, per tutte le società capogruppo, finali o intermedie, residenti nella sua sfera di sovranità fiscale, la c.d. tax jurisdiction. Quindi la necessaria multilateralità, cui enfaticamente si fa riferimento a livello mediatico-politico, è priva di giustificazioni tecnico-concettuali. Se alcuni paesi non aderiscono all’accordo, magari Ungheria, e qualche paese baltico, ciò riguarderà le società capogruppo in essi ubicate, ma non impedirà che i redditi ungheresi o baltici concorrano alla tassazione minima delle capogruppo di altri paesi. Sembra quasi che la tanto sbandierata multilateralità sia un pretesto politico per giustificare a posteriori la presumibile scarsa efficacia di una manovra farraginosa rispetto ad altri noti strumenti tecnici per raggiungere gli stessi risultati. Sembra quasi, in termini geopolitici, che gli USA della nuova amministrazione Biden vogliano dare un segnale ai vari movimenti che riferiscono lo slogan tax the rich alle organizzazioni aziendali pluripersonali (sopra punto 1) anziché alle persone fisiche che ne sono titolari. Le amministrazioni fiscali degli stati in cui risiede la casa madre sono infatti perfettamente al corrente delle pianificazioni fiscali poste in essere dai gruppi multinazionali, come nel caso Apple , in cui il vero danneggiato, assolutamente consapevole, fu il fisco USA , come spiegato nel video su youtube dal titolo PARADISI FISCALI? Il caso FCA |Raffaello Lupi , Gianluigi Bizioli. Consentire queste pianificazioni serve come agevolazione fiscale selettiva, molto meno costosa, e più discrezionale, di agevolazioni fiscali generalizzate. Oggi, evidentemente, l’amministrazione liberal di Biden , pur potendo a rigore procedere in via unilaterale, cerca di mediare tra varie tendenze politiche USA, da una parte i suoi sostenitori occupy wall street e dall’altra wall street e relative lobbies. Una mediazione, per dire di fare senza fare, è appunto la pretesa multilateralità, di cui giuridicamente non c’è alcun bisogno. Spero di sbagliarmi a pensare male, ma viene il sospetto di un gigantesco alibi, costruito perché ogni stato, USA in prima fila, possa proclamare “io lo farei, ma lo dobbiamo fare tutti e ci sono altri che non lo fanno”. Tuttavia, sempre sul piano politico, e di giustizia fiscale, questo nuovo clima limiterà di fatto la connivenza statunitense verso pianificazioni fiscali aggressive come quelle indicate sopra. La domanda che sorge spontanea è però se c’è bisogno di sconquassare il sistema di tassazione internazionale per consentire all’amministrazione USA di gestire al meglio la propria pubblica opinione. È infatti possibile contrastare le tecniche di pianificazione fiscale delle aziende multinazionali senza complicate attrazioni alla casa madre di tutti i redditi mondiali, magari in società dove la partecipazione non è al 100% ma ci sono soci di minoranza. Si tratta, ripetiamo, di pratiche alla luce del sole, verso le quali basta far funzionare i controlli a valore normale dei prezzi intragruppo tra le società dei gruppi multinazionali. Rispetto al controllo dei prezzi di trasferimento e dei costi attribuiti alle società del gruppo da parte di altre, ubicate in paesi a bassa tassazione o comunque agevolate, la considerazione unitaria del gruppo come soggetto d’imposta è enormemente più complicata; essa infatti riguarda in buona parte vicende collocate all’estero, sfuggenti rispetto ai poteri di indagine degli uffici tributari, detrazioni di imposte estere di cui spesso non si conosce la natura, definitiva o meno, o il riferimento ai redditi o al patrimonio. Poi si tratta di conciliare l’imposta minima di conguaglio, necessaria a raggiungere il livello minimo di tassazione al 15%, con la distribuzione di dividendi, cui tutti i paesi già oggi accompagnano nuovi conguagli basati su vari parametri, dall’ubicazione della società erogante a tentativi di calcolo del carico fiscale effettivo a monte. Quest’imposta minima di conguaglio vanificherebbe poi i regimi fiscali strutturali previsti a regime in paesi in cui effettivamente si collocano le fonti di materie prime o gli stabilimenti in cui avviene l’attività d’impresa. Tali stati spesso si fanno pagare con diritti di vario tipo, come quelli di estrazione di minerali (petrolio), che non sarebbero considerati come imposte sui redditi ai fini del calcolo del 15 percento; inoltre si penalizzerebbe la genuina collocazione di fabbriche in paesi in via di sviluppo, come indicato al par.2, con un effetto anti-delocalizzazione anche positivo, ma estraneo agli obiettivi del diritto tributario.
Quest’enorme e velleitaria complicazione rafforza le perplessità di chi scrive sulla padronanza, da parte di un organo politico-economico come l’OCSE, di alcuni concetti di base giuridico-sociali sulla determinazione dei presupposti economici d’imposta. Proprio l’OCSE infatti ha fortemente pregiudicato i suddetti controlli dei prezzi di trasferimento intragruppo insistendo sul confronto esterno coi prezzi praticati tra parti indipendenti per operazioni similari, che però in genere mancano vista la profonda integrazione economica dei gruppi multinazionali; ne sono risultati paragoni assolutamente forzati con aziende esercenti attività solo apparentemente affini (sono comici per chi li conosce i c.d. set di comparables). Risultati molto più proficui avrebbero potuto derivare dall’individuazione e remunerazione delle funzioni produttive, nel c.d. confronto interno nella ripartizione della torta reddituale del gruppo. Una cosa che l’OCSE avrebbe potuto dire, ma non ha detto, è estendere il controllo dell’amministrazione fiscale della capogruppo alle operazioni a monte, non riguardanti direttamente lei, ma controllate indirette, non rettificate dagli stati di residenza.
L’astrattezza economicistico-burocratica dell’OCSE si vede anche nell’idea, presente nel documento citato all’inizio, tassare parte del reddito nei paesi in cui avviene esclusivamente il consumo, come suggeriscono taluni economisti fiscali (Devereux di Oxford). Si tratta di idee del tutto stridenti ed eterodosse rispetto alla riferibilità soggettiva dei presupposti economici d’imposta; il reddito richiede infatti un qualche contributo causale, legato alla sfera territoriale dello stato impositore. L’idea che anche il consumatore contribuisca alla produzione è invece surreale, un po' come pensare che il cibo si produca mangiandolo o i vestiti si producano indossandoli. Bisognerebbe chiedersi cosa pensano i produttori di questa nuova singolare divisione internazionale del lavoro, e cosa accadrebbe se tutti decidessero di svolgere il ruolo dei consumatori. La tassazione nello stato del consumo di una quota del redditp del produttore sarebbe infatti una variazione sul tema delle imposte sul consumo, precisamente una contorta versione reddituale dei dazi doganali. Il che dopotutto è accaduto con la farraginosa web tax, quando sarebbe stato molto più facile formalizzare la stabile organizzazione digitale integrando, anche per norma interna, le lacune delle convenzioni contro le doppie imposizioni. L’intera vicenda conferma le difficoltà della politica, dei mezzi d’informazione e delle varie burocrazie quando mancano adeguate spiegazioni sociali dei fenomeni da regolare.
Da minoranza a maggioranza: la diversità di genere influenza il processo decisionale?
di Maddalena Ronchi e Viola Salvestrini
Negli ultimi decenni, la magistratura italiana è stata protagonista di una marcata trasformazione in termini di composizione demografica. Dal 1965, anno in cui le prime otto donne entrarono a far parte della professione, vi è stato un progressivo incremento della partecipazione femminile in magistratura. Nel 1987, per la prima volta ci furono più donne che uomini tra i vincitori di concorso, ed è dal 2015 che il numero di donne in magistratura ha superato quello degli uomini. Oggi, il 54% dei magistrati è donna – e questa percentuale è probabilmente destinata ad aumentare nei prossimi anni, dal momento che le donne sono la maggioranza sia dei laureati in giurisprudenza che dei vincitori di concorso in magistratura. Sebbene le donne siano tuttora sottorappresentate negli organi più alti della magistratura (ad esempio, solo il 28% delle magistrate ricoprono incarichi direttivi, e il Consiglio Superiore di Magistratura è, per la grande maggioranza, composto da uomini), suggerendo quindi la presenza di un “soffitto di cristallo”, sembrerebbe solo una questione di tempo prima che la magistratura diventi, a tutti gli effetti, un organo “al femminile”. Viene dunque spontaneo chiedersi se e quali conseguenze questa progressiva trasformazione comporterà circa l’operato della magistratura stessa.
Sostenere infatti una equilibrata rappresentanza dei sessi negli organi decisionali, anche e soprattutto in magistratura, non è solo una questione di eguaglianza: “organi più equilibrati sotto il profilo del genere sono organi capaci di migliori decisioni e organi più attenti e sensibili”, come sottolineato da Marilisa D’amico, Professore ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano[1]. Il tema dell’equilibrio di genere appare infatti strettamente connesso alla funzionalità dell’organo. Tale concetto è stato ben messo in evidenza dal Giudice amministrativo, a proposito della composizione delle Giunte regionali e locali, affermando che “organi squilibrati nella rappresentanza di genere (…) risultano (…) potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato” (TAR Lazio sent. n. 6673 del 2011). La differenza e la complementarità fra i generi costituiscono a tutti gli effetti una risorsa, per via “di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere” (TAR Lazio sent. n. 6673 del 2011). Risorsa che viene a mancare nel momento in cui uno dei due generi non si trovi adeguatamente rappresentato. Dunque, se è condiviso e condivisibile, come sottolineato da Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale e professore emerito all'Università di Milano, e dalla Prof.ssa D’Amico, che “una giustizia in cui siano rappresentati sia donne che uomini è una giustizia migliore”[2] e che “una bassa presenza di donne all’interno di un organo incide negativamente sulla qualità delle determinazioni che quell’organo è chiamato ad assumere”[3], sarebbe importante verificare, dati alla mano, se la presenza sempre più numerosa delle donne in magistratura abbia influito sul modo di fare giustizia, e se una progressivamente ridotta presenza di uomini abbia effetti simili.
L’impatto della diversità di genere all’interno di un organo sul processo decisionale e sulla performance dello stesso è centrale nella letteratura scientifica, ed in particolare in quella economica. Studi hanno dimostrato che la presenza di donne all’interno di organi decisionali influenza le preferenze del gruppo, il processo decisionale e l’esito dello stesso[4]. Gruppi con una composizione più equa in termini di genere sembrano ottenere risultati migliori[5], ed avere diversi processi decisionali[6], un insieme di competenze più ampio[7] e stili diversi di corporate leadership[8] [8]. Tuttavia, l’evidenza scientifica sugli effetti della diversità di genere è limitata a pochi contesti, spesso circoscritti ad esperimenti di laboratorio dove le decisioni che il gruppo si trova a compiere sono di importanza marginale; oppure, nei casi in cui tali decisioni siano invece rilevanti, variazioni nella diversità di genere del gruppo raramente emergono spontaneamente – si pensi, ad esempio, alle quote rosa. Dunque, l’evidenza fornita dagli studi esistenti non sembrerebbe poter essere facilmente estesa al contesto della magistratura italiana.
Il nostro progetto di ricerca si propone di colmare questa lacuna nella letteratura studiando gli effetti della diversità di genere all’interno dei Tribunali Italiani, nelle istanze in cui questi operano collegialmente. Il contesto dei tribunali collegiali è particolarmente idoneo allo studio dell’impatto della diversità di genere all’interno di un organo decisionale per tre principali motivi.
In primo luogo, ci consente di verificare se collegi che si trovano a deliberare su reati comparabili raggiungano decisioni diverse a seconda della loro composizione di genere (mista o omogenea) e, ove ciò avvenga, se tale effetto sia diverso per gruppi omogenei composti da sole donne o da soli uomini. Affinché sia possibile attribuire con precisione tali effetti alla composizione di genere del gruppo, occorre che questa sia casuale; ciò è garantito grazie all'assegnazione predeterminata, e soprattutto indipendente dal loro genere, dei magistrati ai collegi, per quei reati che ne prevedono l’istituzione. In secondo luogo, il contesto giudiziario offre l'opportunità di esaminare empiricamente se la diversità di genere di un collegio influisca sulla tenuta di una sentenza, stimando la probabilità che questa venga confermata o riformata in appello, e comprendere se ciò dipenda anche dalla composizione del collegio che delibera in secondo grado. Infine, traendo vantaggio dal marcato cambiamento demografico tuttora in atto, abbiamo la possibilità di studiare il processo decisionale in contesti in cui gli uomini e le donne possono rappresentare, di volta in volta, sia la maggioranza che la minoranza, fornendo nuove testimonianze sugli effetti della transizione da un'occupazione esclusivamente maschile a un'occupazione dominata dalle donne.
Grazie alla disponibilità dei Presidenti di alcuni Tribunali, che hanno accettato di collaborare a questo ambizioso progetto, analizzeremo un elevato numero di sentenze penali emesse in composizione collegiale degli ultimi 20 anni. In tal modo, saremo in grado di sfruttare variazioni temporali nella composizione in termine di genere dei collegi giudicanti. Inoltre, grazie alla presenza di diverse sezioni, potremo restringere l’analisi a reati comparabili e, al tempo stesso, capire se eventuali risultati sono specifici a un particolare reato o se invece sono comuni a più reati. Il nostro metodo di ricerca, basato su consolidate e comprovate tecniche econometriche, ci permetterà dunque di confrontare collegi che deliberano su uno stesso reato e in condizioni comparabili (ovvero, stesso tribunale, tipologia di reato, simili caratteristiche dei giudici, e così via), ma che hanno differenti composizioni di genere, in modo tale da essere in grado di attribuire eventuali differenze nei processi decisionali proprio a quest’ultime.
Sebbene le decisioni che i collegi, ed i magistrati tutti, si trovano a prendere siano estremamente complesse e i fattori in gioco molteplici, riteniamo che la nostra analisi, basata su metodologie econometriche già utilizzate nel contesto giudiziario, possa aiutare a comprendere e quantificare l’importanza di una rappresentazione equilibrata in termini di genere, nella magistratura ed altrove. Poiché la segregazione occupazionale di genere non solo non è equa, ma non è neppure efficiente – sia in istanze in cui le donne siano sottorappresentate, sia in istanze in cui gli uomini lo siano.
Chi fosse disponibile a collaborare a questo progetto di ricerca, può contattarci ai seguenti indirizzi: v.salvestrini@qmul.ac.uk e maddalena.ronchi@unibocconi.it. Consapevoli della natura sensibile dei dati contenuti nelle sentenze, vorremmo chiarire quanto segue: a) la nostra ricerca non è attinente ai dati dell’imputato, che quindi potranno essere anonimizzati; b) l’analisi si baserà su un grande numero di sentenze aggregate tra loro e non sarà possibile, sulla base dei risultati, identificare né una particolare sentenza né i giudici coinvolti; c) i dati saranno conservati su un server sicuro messo a disposizione da Queen Mary University of London. Per la realizzazione di questo progetto, abbiamo ricevuto un assegno di ricerca dall’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanza (EIEF). L'EIEF è un Istituto di Ricerca fondato dalla Banca D'Italia nel 2008.
[1] M. D'Amico, C. M. Lendaro e C. Siccardi, Eguaglianza di genere in Magistratura: quanto ancora dobbiamo aspettare?, Franco Angeli, 2017, p. 24.
[2] V. Onida, «La parità di genere in magistratura: tra eguaglianza e differenza,» in Eguaglianza di genere in Magistratura: quanto ancora dobbiamo aspettare?, Franco Angeli, 2017, p. 28.
[3] M. D'Amico, «Magistratura e questione di genere: alcune riflessioni sulla (necessaria) presenza femminile nel Consiglio Superiore della Magistratura,» Forum di Quaderni Costituzionali, n. 4, 2020, p. 386.
[4] G. Azmat, «Gender diversity in teams,» Iza World of Labor.
[5] S. H. Hoogendoorn, Oosterbeek e M. v. Praag, «The impact of gender diversity on the performance of business team: Evidence from a field experiment,» Management Science, vol. 59, n. 7, pp. 1514-1528, 2013.
[6] J. Apesteguia, G. Azmat e N. Iriberri, «The impact of gender composition on team performance and decision-making: Evidence from the field.,» Management Science, vol. 58, n. 1, pp. 78-93, 2012.
[7] D. Kim e L. Starks, «Gender diversity on corporate boards: Do women contribute unique skills?,» American Economic Review, vol. 106, n. 5, pp. 267-271, 2016.
[8] D. A. Matsa e A. Miller., «A female style in corporate leadership? Evidence from quotas.,» American Economic Journal: Applied Economics, vol. 5, n. 3, pp. 136-169, 2013.
Illegittima erogazione dei bonus Covid e protezione dati personali. Il sindacato del Garante sulle modalità di organizzazione della verifica della spettanza.
di Domenico Bottega
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda - 3. La condotta contestata - 4. Le violazioni alla normativa in materia di protezione dei dati personali - 4.1. Le violazioni del principio di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento - 4.2. La pianificazione dei controlli - 4.3 Il principio di responsabilizzazione - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Una “fuga di notizie” relativa alla presentazione della richiesta per il cosiddetto “bonus Covid” da parte di cinque deputati ha puntato il riflettore, nel corso dell’estate 2020, sul trattamento dei dati personali svolto dall’INPS per l’erogazione di tale indennità, trattamento su cui il Garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto opportuno aprire un procedimento.
Benché l’Authority abbia espresso alcune perplessità sul convincimento dell’Istituto per cui l’origine delle indiscrezioni non fosse da individuarsi nel personale in forze all’INPS stesso[1], altro non ha potuto fare – così scrive – che “limitarsi alle dichiarazioni rese dal titolare, che fanno fede a tutti gli effetti fino a querela di falso” e circoscrivere la propria istruttoria alle modalità con cui i dati dei richiedenti sono stati trattati.
L’esito dell’indagine svolta dal Garante è presto detto: è risultato accertato che l’INPS avrebbe sottovalutato i rischi della propria attività, non l’avrebbe pianificata a dovere e sarebbe quindi incorso in plurime violazioni dei principi sanciti nel G.D.P.R.
Scopo di questo contributo è allora quello di approfondire la condotta dell’Ente previdenziale per comprendere se e in che misura la stessa abbia violato la disciplina di settore.
2. La vicenda
Per non poco tempo il dibattito pubblico dell’estate 2020 è stato occupato dalla discussione sul fatto che alcuni “politici”[2] avessero presentato domanda all’INPS per l’erogazione di quel bonus (inizialmente di 600 euro, poi innalzato a 1.000) varato per sostenere i redditi dei lavoratori autonomi.
La notizia, riportata inizialmente dal quotidiano La Repubblica il 9 agosto 2020, non conteneva i nomi di chi avesse presentato tale istanza, ma le informazioni riportate erano non poco circostanziate: la stampa scriveva di cinque deputati e di un gran numero (oltre duemila) tra sindaci, consiglieri comunali e regionali (addirittura – si diceva – vi sarebbe stato qualche Presidente di Giunta regionale) tra i richiedenti.
Il clamore e la pubblica indignazione che ne sono seguiti hanno funzionato a mo’ di ricatto per i diretti interessati, che, in alcuni casi, si sono “autodenunciati” pubblicamente, con conseguenze di non poco conto: per alcuni di questi, infatti, l’aver presentato la richiesta di accedere al bonus (al di là, poi, di averlo ricevuto o meno e, nel primo caso, di essere disposti a restituirlo) ha comportato l’esclusione dalle liste dei candidati delle elezioni regionali che si sono celebrate nel successivo mese di settembre, senza contare l’impatto mediatico derivante dalla divulgazione di queste indiscrezioni in prossimità del referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, tenutosi sempre nel mese di settembre.
Ebbene, il provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante per la protezione dei dati che, in questa annotazione, si cercherà di commentare prende le mosse da qui: lo stesso, però, non si occupa della diffusione della notizia[3], bensì delle ragioni per cui l’INPS si sia occupato di verificare se alcuni dei soggetti sopra menzionati avessero presentato domanda per il bonus e delle modalità con cui sono stati trattati i relativi dati personali.
Come si è anticipato, l’esito dell’istruttoria è stato infausto per l’INPS, riconosciuto quale autore di plurime trasgressioni alle prescrizioni contenute nel G.D.P.R. nell’ambito del trattamento predetto: il Garante ha infatti ritenuto accertati la violazione dei principi di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento[4], di minimizzazione dei dati[5], di esattezza[6], di responsabilizzazione[7], dell’obbligo di effettuare la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati[8], nonché la mancata protezione dei dati personali fin dalla progettazione e per impostazione predefinita[9].
Su tutti questi profili ci si concentrerà ora partitamente, non prima di aver fornito qualche dettaglio in più sulla condotta tenuta dall’INPS.
3. La condotta contestata
Come noto, il D.L. n. 18/2020 (cosiddetto “Decreto Cura Italia”)[10] ha attribuito ai liberi professionisti titolari di partita iva attiva[11], ai lavoratori titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa[12], ai lavoratori autonomi[13], ai dipendenti stagionali del settore del turismo[14], agli operai agricoli[15] e ai lavoratori iscritti al Fondo pensioni Lavoratori dello spettacolo[16] il diritto a percepire il cosiddetto “bonus Covid”[17], un’indennità economica finalizzata a contenere i danni risentiti a causa dell’emergenza economica e sociale conseguente alla pandemia da Covid-19.
È emerso che l’INPS abbia erogato il “bonus Covid” a tutti i richiedenti che avevano superato i cosiddetti “controlli di primo livello”, effettuati mediante procedure informatiche basate sul confronto automatico tra le informazioni fornite dall’istante nella domanda con quelle presenti nelle banche dati detenute dall’Istituto.
Solo in un secondo momento – successivo all’erogazione dell’indennità – l’INPS ha proceduto coi “controlli di secondo livello”, effettuati dalla propria “Direzione centrale antifrode, anticorruzione e trasparenza”, la quale si è concentrata su tutte quelle situazioni che potevano essere state non rilevate nella prima fase della procedura: come si è detto, questa seconda verifica è stata effettuata a valle dell’erogazione, al fine di non ritardare la liquidazione dei bonus, considerato il contesto di crisi economica causata dal blocco delle attività produttive.
L’oggetto del procedimento sanzionatorio del Garante sono stati proprio i “controlli di secondo livello” effettuati sulla posizione dei parlamentari e dei titolari di cariche presso le amministrazioni locali e regionali.
In proposito, l’INPS ha dichiarato che la peculiarità delle posizioni dei parlamentari e degli amministratori regionali e locali ha richiesto specifici approfondimenti per verificare la spettanza del bonus, in considerazione della singolare situazione previdenziale di tali categorie di soggetti e, con specifico riferimento agli amministratori locali, “sia in ordine alla natura dell’iscrizione di tali soggetti ad altre forme di previdenza obbligatoria sia in ordine all’equiparazione della tutela assicurata dalle indennità percepite da tali soggetti rispetto a quella garantita da un reddito di lavoro dipendente”. Al riguardo, l’Istituto ha affermato che “in relazione a tale prima disamina e alle perplessità insorte in ordine alla spettanza del bonus, si è reso necessario comprendere se il problema fosse concreto, verificando se tra i soggetti percettori vi fossero anche parlamentari o titolari di cariche presso le amministrazioni locali e regionali”[18].
Tali verifiche sono state effettuate “con l’acquisizione dei dati anagrafici di deputati e amministratori regionali e locali dai dati aperti (open data) resi disponibili a chiunque, tramite le apposite pagine web messe a disposizione dalla Camera dei deputati (http://dati.camera.it/sparql) e dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno (https://dait.interno.gov.it/elezioni/open-data/amministratori-locali-in-carica)”. A partire da queste informazioni l’INPS ha calcolato, in maniera automatizzata, il presunto codice fiscale che, successivamente, è stato posto in raffronto con quello indicato nelle domande presentate dai richiedenti il “bonus Covid”. All’esito di tale raffronto, l’Istituto ha accertato che tra i richiedenti vi erano anche deputati o soggetti titolari di incarichi di amministratori regionali o locali.
In contemporanea al raggiungimento di tale risultato da parte dell’Istituto è accaduto che tale notizia sia stata diffusa a mezzo stampa: il clamore mediatico suscitato, le numerose richieste di accesso agli atti pervenute all’INPS e l’apertura del procedimento del Garante hanno indotto l’Istituto a sospendere ogni attività di accertamento, “nel rispetto dei principi di precauzione e prevenzione”, e a “differire ogni valutazione in ordine alle richieste di ostensione e diffusione dei dati all’esito delle determinazioni” dell’Authority.
Così ricostruita la condotta tenuta dall’Amministrazione, è ora tempo di prendere in esame le singole contestazioni mosse dal Garante.
4. Le violazioni alla normativa in materia di protezione dei dati personali
Come si è anticipato, sei sono le violazioni emerse dall’istruttoria del Garante che l’INPS avrebbe commesso; vi è però un filo rosso che le accomuna tutte: l’assenza, prima dell’avvio del trattamento in questione, della predeterminazione della decisione circa la spettanza (o meno) del bonus Covid in capo ai titolari delle diverse tipologie di cariche politiche coinvolte.
Infatti, ciò che, a più riprese e sotto diversi profili, viene contestato all’INPS è l’assenza di un’adeguata progettazione del trattamento, indispensabile per assicurare, ed essere in grado di dimostrare, la conformità dello stesso al Regolamento.
Tale mancanza sarebbe ancor più grave perché commessa da un ente pubblico nell’ambito dell’esercizio dei propri legittimi poteri di controllo, la cui esecuzione ci si attende sia preceduta “da un’idonea valutazione dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati e [dal]la conseguente adozione delle misure necessarie per mitigarli”.
4.1. Le violazioni del principio di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento
Come si è anticipato, l’Authority ha ritenuto che “i trattamenti di dati personali necessari nell’ambito dei predetti controlli si sarebbero dovuti effettuare solo dopo aver superato le manifestate incertezze interpretative e avere quindi predeterminato, in astratto, la spettanza del bonus (non procedendo quindi all’incrocio dei dati prima di aver determinato la spettanza dell’indennità). Ciò, in quanto i trattamenti di dati personali per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri devono avvenire sulla base di un quadro normativo il più possibile chiaro e preciso la cui applicazione possa essere prevedibile per gli interessati (cfr. cons. 41 del Regolamento)”.
Agendo diversamente – sostiene il Garante –, la condotta dell’INPS si sarebbe posta in violazione del principio di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento, di cui all’art. 5, par. 1, lett. a), del Regolamento.
Merita allora indugiare sul tema, onde comprendere se effettivamente la procedura svolta dall’INPS si sia posta in spregio del disposto recato dall’articolo appena menzionato.
Come è stato annotato da una certa dottrina, il principio di liceità, di primo acchito, potrebbe apparire quasi pleonastico[19], risultando superfluo consacrare in una norma ad hoc che il trattamento dei dati debba rispettare le norme sancite dalla legge e, in particolare, dal Regolamento.
Indagando più a fondo, tuttavia, ci accorge che l’art. 6 G.D.P.R. (rubricato “liceità del trattamento”) ha invero una portata concreta nel fissare i casi in cui il trattamento può dirsi lecito: si ha infatti una violazione del principio in parola nel momento in cui il trattamento dei dati non sia legittimato da alcuna della fattispecie elencate dall’art. 6 medesimo.
Così interpretata, ci si avvede come la norma non abbia una portata così ampia da finire per dover essere considerata ultronea, ma sia finalizzata a elevare a principio ciò di cui l’art. 6 è declinazione.
Come noto, il trattamento può dirsi lecito solo se: a) l’interessato ha espresso il suo consenso; b) il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte; c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica; e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi.
Nel caso che ci riguarda il Garante rinviene unicamente nell’“esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” (art. 6, par. 1, lett. e]) la base legittimante l’attività dell’INPS, non risultando invocabile – come invece aveva tentato di fare l’Istituto – il “legittimo interesse” (art. 6, par. 1, lett. f]) alla prevenzione delle frodi: e ciò in quanto un soggetto che effettua un trattamento necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico non può avvalersi della condizione di liceità del legittimo interesse di cui all’art. 6, par. 1, lett. f), del Regolamento, come precisato dal considerando 47 del medesimo G.D.P.R.
La conclusione cui giunge il Garante in ordine all’individuazione della base legittimante il trattamento è condivisibile, non fosse altro perché l’art. 6, par. 1, ultimo periodo del G.D.P.R. chiarisce espressamente che le autorità pubbliche non possono invocare il “legittimo interesse” come fondamento di un trattamento effettuato nell’esecuzione dei propri compiti.
Ma, una volta chiarito che l’attività di controllo – di primo e di secondo livello – svolta dall’INPS deve essere annoverata entro l’ambito dell’esecuzione di un pubblico potere (e, in particolare, può essere vista come necessaria al fine di reprimere indebiti accessi a indennità economiche da parte di chi non ne ha diritto), pare doversi dubitare che la stessa sia da considerarsi illecita[20].
Anche a volersi ammettere che l’assenza di un convincimento certo sulla spettanza del bonus ai parlamentari prima dell’inizio del trattamento dei dati abbia un rilievo in punto di liceità, tale circostanza al più potrebbe avere un rimbalzo nella valutazione della correttezza del trattamento.
Il principio di correttezza, intrinseco alla liceità ma da essa distinto in ragione della specificità che esso assume”[21], sembra riconducibile, cercando concetti noti alla nostra cultura giuridica, alla regola di buona fede, la quale impone al titolare del trattamento di porre in essere “tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendono necessari alla salvaguardia” dell’interessato, “nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico”[22] in ogni fase del rapporto, dalla raccolta, all’elaborazione fino alla conservazione dei dati.
Il quesito da porsi è quindi se possa ritenersi – più che illecita – scorretta la condotta di quell’Amministrazione che, nutrendo un forte sospetto sulla spettanza di una certa indennità in capo ad alcuni soggetti, decida, nelle more che si sia formato un convincimento definitivo sul punto, di valutare se tale fattispecie effettivamente ricorra o meno[23].
Perché, in altre parole, questo è ciò che viene contestato all’INPS: che questi abbia iniziato il trattamento in esame prima che fosse prestabilita la spettanza del bonus Covid a parlamentari e amministratori locali. Anzi, da un punto di vista strettamente formalistico, sarebbe mancato, nel caso di specie, un “att[o], anche intern[o], legittim[o] in base alla normativa che disciplina l’esercizio dei compiti da parte dell’Istituto”, che si esprimesse sulla questione e che potesse costituire il presupposto per il successivo trattamento.
L’assenza di tale provvedimento pare essere decisiva nella valutazione sull’eventuale violazione del principio di correttezza: ciò, tuttavia, solo per l’ipotesi in cui si possa affermare che l’INPS non ha adeguatamente pianificato i propri controlli, esponendo gli interessati ai rischi connessi a trattamenti non necessari.
Per comprendere quindi se vi sia stato un trattamento non tanto illecito quanto scorretto, si dovrà ora concentrarsi sulla pianificazione dei controlli e sulla disciplina relativa sancita dal Regolamento.
4.2. La pianificazione dei controlli.
Prima di scandagliare la condotta dell’Istituto, per quel che è possibile grazie agli elementi che emergono dal provvedimento sanzionatorio, pare opportuno concentrarsi su un aspetto innovativo contenuto nel Regolamento, che ha un’importanza centrale nel caso che ci riguarda: la progettazione del trattamento.
Rispetto alla normativa precedente, il G.D.P.R. segna un “cambio di rotta” sotto diversi profili: uno di questi è che il Regolamento, a differenza del Codice Privacy, non si fonda sul rispetto di numerosi obblighi di carattere squisitamente formale, bensì essenzialmente sul richiamo al principio dell’accountability, ossia l’adozione di “comportamenti attivi tesi a dimostrare l’effettivo rispetto del Regolamento”[24].
Tale condotta, che si concretizza nell’adozione di misure tecniche ed organizzative adeguate proprio al conseguimento dello scopo, si colloca in due precisi momenti: una prima fase preliminare, prodromica al trattamento, nella quale al titolare competono scelte ed oneri organizzativi e decisionali quali la predisposizione dei mezzi dei quali avvalersi, cui ne segue una seconda, operativa, in cui si concreta il trattamento vero e proprio.
Questa impostazione, che va sotto il nome di “privacy by design”, ha lo scopo di assicurare che le garanzie di protezione dei dati siano osservate dalla progettazione iniziale dei sistemi di trattamento fin ai loro successivi funzionamenti e sviluppi[25].
Tali prescrizioni sono contenute nell’art. 25 G.D.P.R., a mente del quale “il titolare del trattamento mette in atto misure tecniche e organizzative adeguate, quali la pseudonimizzazione, volte ad attuare in modo efficace i principi di protezione dei dati, quali la minimizzazione, e a integrare nel trattamento le necessarie garanzie al fine di soddisfare i requisiti del presente regolamento e tutelare i diritti degli interessati”: a ciò provvede “tenendo conto dello stato dell’arte e dei costi di attuazione, nonché della natura, dell’ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento, come anche dei rischi aventi probabilità e gravità diverse per i diritti e le libertà delle persone fisiche costituiti dal trattamento, sia al momento di determinare i mezzi del trattamento sia all’atto del trattamento stesso”.
Come si vede, la disposizione non contiene, al di là della menzione della pseudonimizzazione, un’elencazione delle misure che devono essere adottate dal titolare: l’intento è quello che quest’ultimo non si reputi adempiente agli obblighi del G.D.P.R. per il sol fatto di aver adottato strumenti volti a garantire e ad accrescere la sicurezza della conservazione e della protezione dei dati[26], ma che sia consapevole di dover fare un quid pluris, che sta al medesimo titolare individuare in cosa si concretizzi.
La privacy by design si sostanzia quindi in un approccio sistemico-gestionale, che ha come obiettivo finale quello di progettare sistemi di gestione dei dati in grado di ridurre, in senso selettivo e sostenibile, i rischi di data breach nei sistemi informativi: per fare ciò, è indispensabile che il trattamento dei dati sia preceduto da un’attività di design basata sul risk based approach e il goal oriented approach. In altre parole, la normativa eurounitaria non si è posta come obiettivo quello di ricercare dei rimedi ex post[27], quanto più che altro di imporre al titolare del trattamento di compiere un esame prudenziale delle attività che andrà a compiere e di adottare quelle misure di sicurezza – tecniche e organizzative – che garantiscono la protezione dei dati.
Insomma, non è possibile semplicemente affidarsi alle best practices del settore per assicurarsi un corretto sviluppo della progettazione: il titolare dovrà, infatti, secondo criteri di ragionevolezza e diligenza, valutare l’adeguatezza delle misure tecniche ed organizzative e garantire che esse tutelino al massimo le istanze degli interessati.
Oltre alle pseudonimizzazione di cui si è detto sopra, tra le tecniche di sicurezza cui il Regolamento conferisce carattere obbligatorio vi è anche la minimizzazione dei dati, ossia l’utilizzo solamente delle informazioni che sono necessarie rispetto alle finalità per cui il trattamento è svolto.
Ciò chiarito in via generale, è ora possibile tirare le fila su quanto è risultato accertato con riguardo alla condotta dell’INPS.
Dall’istruttoria condotta dal Garante sarebbe emerso che i controlli “di secondo livello” compiuti dall’Istituto avrebbero avuto a oggetto non solo i dati personali di coloro che hanno effettivamente percepito il bonus Covid, ma anche dei soggetti richiedenti che, a seguito di presentazione della relativa domanda, erano stati esclusi dal riconoscimento dell’indennità già all’esito dei controlli di primo livello.
Secondo quanto dichiarato, tale circostanza è stata determinata dal fatto che “la banca dati dell’Istituto relativa al bonus […] conteneva un insieme di dati disomogenei, che andavano dalle domande accolte, a quelle non ancora elaborate, a quelle in corso di riesame, ecc.” e, “posto che le istanze di accesso al bonus pervenute all’Istituto, da chiunque provenienti, compresi parlamentari, amministratori locali o regionali potevano trovarsi in una qualunque delle predette fasi di trattazione (accolte, non ancora elaborate, in corso di esame), l’incrocio dei dati doverosamente doveva essere globale […] senza escludere nulla all’esame dell’attività ispettiva”.
Da quel che ha dichiarato l’INPS sembra quindi che la verifica in ordine al fatto che l’istanza fosse stata presentata da un parlamentare o da un amministratore locale ovvero regionale si sia sommata alle altre in corso, non tenendosi in conto che la domanda poteva essere stata respinta per altre ragioni, indipendentemente dalla circostanza che il richiedente fosse titolare di un incarico tra quelli predetti.
A detta del Garante il trattamento risulterebbe esorbitare da quanto necessario rispetto alle finalità per le quali i dati sono trattati, ponendosi quindi in violazione del principio di minimizzazione di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), del Regolamento, il quale impone di contenere i dati oggetto di trattamento a quelli indispensabili per il raggiungimento dello scopo perseguito[28].
Non solo. Come già anticipato sopra, l’Istituto ha proceduto alla raccolta di dati personali da banche dati esterne, detenute dalla Camera dei deputati e dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno: mancando, tra i dati resi fruibili liberamente, il codice fiscale, l’Istituto ha proceduto a calcolarlo in autonomia, in base ai parametri contenuti nel d.m. 12 marzo 1974, n. 2227, e ha quindi operato un raffronto con quelli riportati dagli interessati nelle domande presentate per l’erogazione del “bonus Covid”.
Su tale modalità di calcolo il Garante rileva che esso potrebbe comportare errori, non tenendosi in conto i casi di cosiddetta “omocodia”, cioè di coincidenza, tra più interessati, di alcuni dati, che impone all’Agenzia delle Entrate di assegnare loro un particolare codice fiscale diverso da quello ottenuto mediante la procedura di calcolo.
Così riassunti la condotta tenuta dall’INPS e gli aspetti che della stessa rilevano ai fini della valutazione di eventuali violazioni del G.D.P.R., in particolar modo dell’obbligo di pianificare il trattamento, pare potersi affermare che solo per l’effetto di un esame parcellizzato e non globale del comportamento dell’INPS il Garante abbia potuto decidere nei termini anzidetti.
Vale la pena sgombrare subito il campo dalla questione relativa all’esattezza dei dati trattati.
Il rischio di omocodia paventato dal Garante, benché ovviamente esistente, è tuttavia di portata limitata (in Italia ci sarebbero all’incirca 30.000 persone che potrebbero condividere lo stesso codice fiscale) e, nonostante non possa negarsi che il metodo adottato dall’INPS avrebbe potuto condurre a errori, il Garante, sotto questo profilo, pare non tenere in conto che l’Istituto, una volta aperto il procedimento di verifica sul trattamento dei dati in questione, ha interrotto ogni attività e non ha mai portato a termine i controlli di secondo livello. L’Authority avrebbe dovuto accertare – cosa che invece non ha fatto – quali ulteriori adempimenti sarebbero stati messi in campo dall’INPS prima di pronunciare un provvedimento di revoca del contributo, adempimenti che avrebbero potuto includere anche meccanismi di correzione delle eventuali inesattezze (fermo restando, e questo è indubitabile, che le stesse non sono state preventivate a monte e che quindi un meccanismo correttivo avrebbe potuto essere adottato solo “in corsa”).
Al di là di questo profilo che, se pur discutibile, non pare dirimente, la contestazione relativa alla mancata pianificazione dei controlli risiede ancora una volta nel fatto di aver proceduto a trattare i dati dei parlamentari (e degli altri amministratori locali), senza aver prima accertato in via ultimativa se a questi spettasse il bonus oppure no.
Ridotta a questi termini, la questione sembra ricondursi a un’eventuale inversione logica del procedimento, dovendosi imputare all’INPS di aver prima voluto comprendere la portata del problema e poi acclarare se di un problema effettivamente si potesse discorrere.
Un approccio di questo tipo da parte del Garante, però, pare, oltre che fondato su presupposti in fatto erronei, estremamente miope, perché inevitabilmente finisce per osservare la fattispecie da lontano, senza metterne a fuoco i dettagli, concentrandosi solamente su una serie di aspetti di secondario rilievo, che assumono importanza solo perché vicini allo sguardo di chi giudica.
L’Authority, infatti, ha valorizzato, in sostanza, un solo elemento: la mancanza di un atto – ossia di un documento – in cui l’INPS abbia versato il proprio parere in ordine alla spettanza del bonus. Così facendo, però, è mancato qualsiasi tipo di accertamento sui “comportamenti attivi” tenuti dall’Istituto.
Pare evidente, dalla ricostruzione dei fatti che emerge dal provvedimento, che l’INPS ha agito seguendo binari paralleli, dovendo perseguire finalità diverse nella sua azione.
L’Istituto doveva infatti bilanciare, da un lato, l’interesse dei soggetti istanti a vedersi corrisposto il bonus nel più breve tempo possibile, pena l’inefficacia di una misura che fosse stata erogata a emergenza conclusa; dall’altro lato, l’INPS doveva evidentemente evitare di erogare il bonus a chi erroneamente ne aveva fatto richiesta.
Esauriti quindi i controlli di primo grado, in grado di rilevare i casi più evidenti di trasgressione, è iniziato il secondo livello di verifiche, processo che comunque non poteva avere una durata irragionevole, pena non solo la difficoltà per l’erario di recuperare le somme illegittimamente erogate e magari già impiegate dai beneficiari, ma anche la lesione dell’affidamento ingenerato in questi ultimi dall’erogazione e dalla mancata sollecita revoca del bonus stesso.
A fronte di un dato legislativo piuttosto incerto, che ha costretto l’INPS a chiedere un parere anche al Ministero del Lavoro, l’Amministrazione ha ritenuto opportuno – si appende dalla lettura del provvedimento – cominciare le attività di verifica sui parlamentari, e ciò sulla base del convincimento che essi non avessero diritto alla percezione del contributo.
Come rimarca il Garante, tale convincimento non è stato consacrato in alcun atto interno, ma è altrettanto vero che tale incombente non era necessario, dovendo i casi di revoca del bonus risultare dalla mera interpretazione del dato letterale legislativo.
Insomma, sembra che il sintomo dell’assenza di pianificazione sia stata l’incertezza della legge sul punto e la manifestazione che anche per l’INPS il tema non era chiaro, avendo l’istituto domandato un parere al Ministero (che peraltro ha tardato mesi prima di fornirlo).
È passata invece sotto silenzio l’efficienza di questa Amministrazione e l’efficacia della sua azione: l’INPS, infatti, senza attendere per lungo tempo un parere non necessario da parte di un altro ente, ha intrapreso quelle attività prodromiche al recupero dei contributi erogati a soggetti non legittimati a riceverlo: attività che è stata compiuta non sulla base dell’incertezza normativa, ma del convincimento dell’ente della correttezza dell’interpretazione che esso stesso vi aveva fornito.
Al di là quindi di alcuni profili di inesattezza nel trattamento dei dati (come, ad esempio, aver calcolato il codice fiscale in modo automatico) e di un loro utilizzo sovrabbondante rispetto alle finalità (costituito dal fatto di aver cercato se vi fossero dei parlamentari tra gli istanti, anche tra coloro che già erano stati esclusi all’esito dei controlli di primo livello), non sembra potersi affermare che sia mancata una pianificazione dei controlli da parte dell’INPS e che il Garante sia giunto a questa erronea conclusione valorizzando un elemento di fatto non decisivo (l’assenza di un atto interno che desse conto della spettanza del “bonus Covid” ai parlamentari).
Ciò detto, però, al fine di comprendere se effettivamente la condotta tenuta dall’INPS possa dirsi o meno conforme al G.D.P.R., deve verificarsi se la stessa sia in grado di superare l’esame dell’accountability, che, come si è detto, costituisce il core della disciplina contenuta nel G.D.P.R.
4.3 Il principio di responsabilizzazione
Come si evince da quel che si è detto, l’art. 25 del G.D.P.R. rappresenta a buon diritto “una tra le norme più ambiziose dell’intera riforma”, racchiudendosi qui uno tra i principali obiettivi del Regolamento: la responsabilizzazione del titolare.
Essa va intesa secondo una duplice accezione: come anticipazione responsabile di tutele, misure e procedure (responsabilizzazione vera e propria) e come rendicontazione, ossia dimostrazione di aver rispettato le regole.
Il principio è consacrato al secondo paragrafo dell’art. 5 del G.D.P.R., il quale individua l’oggetto della responsabilità nei principi di cui al primo paragrafo. In verità, come è stato sottolineato, “esso costituisce una forza sotterranea che informa di sé pressoché tutti gli istituti del Regolamento”: esso è “il verso nella cui direzione occorre applicare e interpretare le norme de qua”[29].
Pare quindi che esso costituisca il parametro migliore per testare la condotta dell’INPS: bisognerà quindi verificare se, come insegna l’art. 25 a proposito della privacy by design, l’Istituto si sia dimostrato responsabile (e responsabilizzato) prima del trattamento. Il controllo, collocandosi ex post, sarà quindi finalizzato a verificare se il titolare sia in grado di fornire prova non solo dell’an (ossia di aver adottato delle misure), ma anche del quomodo e del quantum, cioè dell’efficacia delle scelte compiute.
Per rispondere quindi al quesito se l’INPS abbia effettivamente omesso di pianificare i propri controlli, si deve ripartire da ciò che ha fatto l’Istituto, così come emerso nell’istruttoria.
Nel provvedimento in commento il Garante ricostruisce nei dettagli la condotta tenuta dall’INPS, concentrandosi in particolar modo su tutti quegli elementi fattuali che dovrebbero rendere palese che l’Istituto avrebbe agito in modo casuale, in assenza di un progetto a monte sui controlli da svolgere.
Risulterebbe infatti che il trattamento di dati personali in questione sia stato effettuato prima della fine del mese di maggio 2020[30], quindi – annota il Garante – in un momento anteriore a quando è stato chiarito in via definitiva se gli incarichi di parlamentare e di amministratore regionale o locale costituissero una condizione ostativa alla spettanza del bonus Covid.
L’Authority àncora il momento in cui sarebbe stata raggiunta una ragionevole certezza sulla questione alla data in cui è giunto il parere – richiesto dall’INPS – al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, pervenuto il 2 dicembre 2020 (ossia nel corso del procedimento), dando scarso rilievo al fatto che la Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza dell’INPS era già giunta in autonomia alla medesima conclusione[31].
La ricostruzione così proposta non sembra però corretta.
L’INPS ha infatti dichiarato che “la Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza, secondo un’interpretazione letterale della norma alla luce dei parametri costituzionali di riferimento, considerava la prestazione non spettante ai parlamentari ed ai titolari di cariche presso le amministrazioni locali”, ma che “la complessità delle questioni in gioco richiedeva un approfondimento da parte delle Direzioni amministrative competenti e del vigilante Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali”.
Non è dato sapere se la Direzione Centrale predetta abbia cristallizzato in un atto interno il proprio convincimento, ma pare che, per quanto oscura fosse la questione, ben avesse interpretato la normativa di settore e che, sulla base di ciò, abbia deciso di intraprendere i controlli di secondo livello relativamente alle categorie soggettive di cui si è detto.
Peraltro, il parere del Ministero non era certo presupposto necessario per le attività di recupero che l’INPS sarebbe andato poi a compiere: insomma, anche a fronte di un’opinione diametralmente opposta che il Ministero avesse formulato, nulla avrebbe vietato all’Istituto di ritenere prevalente – perché migliore – la propria interpretazione delle disposizioni rilevanti.
Non pare, poi, che si possa biasimare la scelta dell’INPS di cominciare l’attività di controllo nel più breve tempo possibile, considerando l’esito che tali controlli hanno: quello di recupero di somme già versate ai richiedenti, risultando quindi certamente preferibile per chi si è visto accreditare il bonus, così come per l’Istituto che deve procedere al recupero, che tale attività si svolga nell’immediatezza e non a distanza di parecchi mesi.
Quanto al principio di responsabilizzazione, il Garante scrive che, alla luce della documentazione prodotta nell’ambito dell’istruttoria, l’INPS non è stato, in generale, in grado di comprovare, con argomenti logici o prove di fatto, le ragioni delle decisioni assunte nell’ambito del complesso trattamento di dati personali effettuato, al fine di dimostrare all’Autorità il rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali secondo quanto previsto dal «principio di responsabilizzazione» (art. 5, par. 2 del Regolamento).
Prova di ciò si avrebbe dalle dichiarazioni rilasciate con riferimento, ad esempio, alla questione dell’individuazione dei casi di spettanza del bonus, cui si aggiungerebbe il fatto che quanto dichiarato nelle predette note non sarebbe supportato da un’adeguata documentazione atta a comprovare quali livelli decisionali sono stati coinvolti, le valutazioni effettuate, le ragioni sottese alle decisioni prese e le misure adottate in relazione al trattamento dei dati personali in esame.
Ad avviso di chi scrive, il giudizio del Garante sembra eccessivamente severo, considerati le risultanze istruttorie e il significato delle disposizioni che il titolare avrebbe violato.
Nella valutazione dell’eventuale violazione del principio di responsabilizzazione è necessario, come si è detto, porsi idealmente nel momento precedente l’inizio del trattamento e considerare le attività che in quel momento sono state messe in atto: con specifico riferimento alla condotta dell’INPS, si può dire che quest’ultimo, in quella fase prodromica, si trovava in una situazione di incertezza normativa, da un lato, e di necessità di operare un bilanciamento tra interessi, dall’altro.
Quanto a questo secondo profilo, l’INPS, incaricato per legge di gestire l’erogazione del bonus Covid, ha condivisibilmente soddisfatto l’interesse della platea di professionisti che attendevano la nota indennità programmando solamente un controllo di primo livello di tipo automatico, garantendo così la liquidazione del danaro in tempi rapidi; così facendo, peraltro, già ha fatto fronte al rischio di frodi, eliminando dalla platea dei beneficiari una parte dei richiedenti. Le situazioni personali che, invece, richiedevano un maggior livello di indagine sono state riservate a una seconda fase, nella quale si è posto il problema che qui ci riguarda. La questione relativa alla spettanza del bonus ai parlamentari risulta essere stata risolta dalla Direzione Centrale Antifrode dell’INPS, che, sulla base di quel risultato, ha proceduto alle verifiche su descritte.
Benché manchi agli atti un provvedimento in cui l’Istituto abbia dato conto del proprio parere in ordine alla spettanza del “bonus Covid” ai soggetti titolari di incarichi politici, è incontestato che a tale convincimento l’INPS sia giunto prima di cominciare il trattamento (e certamente non potranno avere un impatto sulla condotta tenuta dall’Istituto le ragioni che lo hanno condotto a questa conclusione, rilevando solamente che tale scelta sia stata compiuta prima di cominciare il trattamento, e non a valle).
Non sembra quindi potersi concludere che sia mancata una pianificazione delle attività di controllo, ma semmai che l’Istituto non sia stato in grado di costituirsi la prova dell’esistenza di un proprio parere sulla disciplina da applicare. Prova che, lo si ripete, si dubita che dovesse esistere, considerato che la pianificazione ben può risultare anche da comportamenti tenuti dal titolare del trattamento.
In ordine poi all’efficacia delle scelte compiute, poco dice il provvedimento, limitandosi a rilevare che sarebbe mancata a monte la scelta di domandare all’Agenzia delle Entrate i codici fiscali dei parlamentari (invece che procedere a un calcolo automatico degli stessi).
Al netto di tale superficialità, che certo non può essere scusabile (benché non risulti aver condotto a qualche errore), non sembra potersi predicare che l’essenzialità della pianificazione dell’INPS si sia riverberata in gravi violazioni del G.D.P.R.
5. Conclusioni
Essendo risultato indimostrabile che la diffusione delle notizie in ordine al fatto che alcuni parlamentari avevano presentato istanza per ottenere il cosiddetto “bonus Covid” fosse attribuibile dall’INPS, il Garante ha intrapreso un’indagine in ordine al relativo trattamento dei dati.
È risultato accertato, in modo peraltro condivisibile, che l’Amministrazione abbia compiuto degli errori, avendo proceduto a calcolare il codice fiscale dei parlamentari in modo automatico e in autonomia (senza tenere in conto il rischio di omocodia) e abbia compiuto un trattamento inutile, verificando se vi erano dei parlamentari e degli amministratori locali non solo tra coloro cui il bonus era stato erogato ma anche tra gli esclusi all’esito dei controlli di primo livello (avendo utilizzato una banca dati che sommava tutti gli istanti).
È stato tuttavia stabilito che l’INPS non avrebbe adeguatamente pianificato l’attività di controllo, non avendo predeterminato la spettanza del bonus in capo ai titolari di incarichi politici prima di verificare se alcuni di questi avevano presentato istanza. Tale conclusione, come si è detto, appare erronea in punto di fatto, non avendo il Garante tenuto in considerazione che la Direzione Antifrode era giunta a formulare un parere prima di procedere al trattamento.
Di più, dalla ricostruzione sopra esposta pare che l’INPS abbia agito in modo tutt’altro che casuale, abbia compiuto un’indagine legale sulla spettanza del contributo e, sulla base dei risultati cui è giunto, abbia cominciato il trattamento dei dati finalizzato a recuperare le elargizioni illegittimamente disposte.
Si rivela poi eccessiva la contestazione del Garante, sempre con riguardo alle lacune nell’attività di pianificazione, in ordine all’assenza di prova di quali livelli decisionali siano stati coinvolti dall’INPS, di che valutazioni in concreto esso abbia fatto e che ragioni abbia posto alla base delle decisioni prese. Anzi, un’affermazione di questa portata, che impone un surplus di pianificazione non richiesto dal G.D.P.R., sembra, ad avviso di chi scrive, un aggravamento procedimentale inutile, finalizzato più che altro alla precostituzione di una prova in capo al titolare dell’attività svolta, piuttosto che a verificare l’evidenza che quell’attività sia stata effettivamente svolta.
Un approccio di questo genere, focalizzato sugli adempimenti formali piuttosto che sulla valorizzazione dei comportamenti attivi, sembra una regressione al Codice Privacy, regressione che non tiene conto del progresso fatto dalla legislazione eurounitaria, la quale, anche attraverso il Regolamento, impone non atti formali ma condotte concrete, in grado di dimostrare l’effettivo e sostanziale rispetto del G.D.P.R. Condotte che nel caso di specie non si può dubitare che non vi siano state.
[1] Nel provvedimento in commento si può leggere che è “verosimile che l’origine della diffusione della notizia e dei nomi dei cinque deputati richiedenti il sussidio sia interna all’INPS, al tempo l’unico ente a conoscenza di tali informazioni a seguito dei controlli che essa sola stava effettuando”.
[2] Il riferimento è a membri della Camera dei deputati, di Consigli e Giunte regionali, provinciali e comunali.
[3] Con riferimento alla divulgazione degli esiti di tali controlli alla stampa, l’INPS ha dichiarato che, “nessuna attività di comunicazione a terzi è stata effettuata dall’Istituto in ordine all’attività ispettiva in essere”; circostanza che è stata più volte ribadita dall’Istituto, anche in sede di audizione parlamentare, nel corso della quale il Presidente ha precisato di aver informato, già a fine maggio, il Consiglio di amministrazione dell’Istituto dell’esito dei primi controlli effettuati.
[4] di cui all’art. 5, par. 1, lett. a), del Regolamento.
[5] di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), del Regolamento (cfr. par. 6.2).
[6] di cui all’art. 5, par. 1, lett. d), del Regolamento (cfr. par. 6.3).
[7] di cui agli artt. 5, par. 2 e 24, del Regolamento (cfr. par. 6.6).
[8] di cui all’art. 35 del Regolamento (cfr. par. 6.5).
[9] di cui all’art. 25 del Regolamento (cfr. parr. 6.1 e 6.4).
[10] Il riferimento è ai suoi artt. 27, 28, 29, 30, 31 e 38.
[11] Non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie (così l’art. 27).
[12] Non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie (così l’art. 27).
[13] Iscritti alle gestioni speciali dell’Ago, non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, ad esclusione della Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (così l’art. 28).
[14] Nonché ai dipendenti degli stabilimenti termali che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del decreto, non titolari di pensione e non titolari di rapporto di lavoro dipendente (così l’art. 29).
[15] Impiegati a tempo determinato, non titolari di pensione, che nel 2019 abbiano effettuato almeno 50 giornate effettive di attività di lavoro agricolo (così l’art. 30).
[16] Con almeno 30 contributi giornalieri versati nell’anno 2019 al medesimo Fondo, cui deriva un reddito non superiore a 50.000 euro, e non titolari di pensione (così l’art. 38).
[17] Diritto subordinato per legge alla mancata titolarità di una pensione, all’assenza di iscrizione ad altra forma previdenziale obbligatoria, ovvero, nei casi in cui il diritto nascesse in virtù di un rapporto di lavoro dipendente svolto nell’anno 2019, all’insussistenza di un rapporto di lavoro dipendente alla data di entrata in vigore del decreto (17 marzo 2020).
[18] Si tornerà nel prosieguo a discutere sul fatto se l’INPS abbia commesso un’inversione logica, nel momento in cui ha deciso prima di verificare se vi fossero dei parlamentari tra i richiedenti il “bonus Covid” e poi di acclarare se questi avessero diritto a percepirlo; vale la pena subito anticipare che la tesi del Garante è che l’Istituto avrebbe dovuto agire in senso opposto, ossia prima accertarsi se i membri delle due Camere e gli amministratori locali e regionali avessero astrattamente titolarità a ricevere il bonus in parola e, di poi, in caso di esito negativo, cercare i trasgressori.
[19] Così Piraino, La liceità e la correttezza, in Panetta (a cura di), Libera circolazione e protezione dei dati personali, I, Milano, 2006, 750 (benché con riguardo alla disciplina previgente il G.D.P.R.).
[20] Del resto, come annota attenta dottrina, il riferimento al legittimo interesse del titolare è posto, nelle argomentazioni del regolatore, a presidio del soddisfacimento di interessi pubblici: così Bosa, Commento all’art. 6 del G.D.P.R., in Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle persone – Leggi collegate, vol II, Milano, 2019, 132 s.
[21] Si veda Navarretta, Art. 11, in Nuove leggi civ., 1999, 251, per la quale “la loro distinzione … consiste nella diversità del precetto violato. Tramite la liceità il legislatore detta specifiche regole di condotta, il cui contenuto – di matrice integralmente eteronoma – è in toto determinato a priori. Tramite la correttezza il legislatore indica all’agente un canone generale cui deve attenersi la sua condotta, che rimane fondamentalmente libera, ma nel rispetto della clausola generale che colora tale autonomia di una connotazione discrezionale”.
[22] Vedi Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, 211.
[23] Lo si ripete: ammesso che tale convincimento non vi sia. Anche se, per quel che si dirà nel prosieguo, tale conclusione sembra da rifiutarsi.
[24] Montanari, Commento all’art. 25 del G.D.P.R., in Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle persone – Leggi collegate, vol II, Milano, 2019, 524 ss.
[25] Tale approccio e la stessa formula privacy by design si devono ad Ann Cavoukian, Information and Privacy Commissioner dell’Ontario, che già negli Anni ‘90 elaborò questi concetti. L’autrice canadese scrive che “Privacy by Design advances the view that the future of privacy cannot be assured solely by compliance with regulatory frameworks; rather, privacy assurance must ideally become an organization’s default mode of operation”: cfr. Cavoukian, The 7 Foundational Principles, in https://www.ipc.on.ca/wpcontent/uploads/Resources/7foundationalprinciples.pdf . I concetti di privacy by design sono stati poi oggetto di discussione in seno alla Conferenza mondiale dei Garanti per la protezione dei dati personali tenutasi a Gerusalemme il 27-29 ottobre 2010, all’esito della quale è stata adottata una Resolution on Privacy by design, nella quale sono stati adottati i “sette principi” elaborati da Cavoukian. Essi sono: 1. Proactive not Reactive; Preventative not Remedial; 2. Privacy as the Default; 3. Privacy Embedded into Design; 4. Full Functionality: Positive-Sum, not Zero-Sum; 5. End-to-End Lifecycle Protection; 6. Visibility and Transparency; 7. Respect for User Privacy. La risoluzione è disponibile sul sito del Garante: https://www.garanteprivacy.it/documents/10160/10704/1807346.pdf/e2a585d9-7863-468c-81f5-0d5c57815b54?version=1.0 Sull’importanza del concetto di privacy by design e sulle sue ripercussioni, si veda quel che afferma la dottrina tedesca, in particolare Martini, in Paal, Pauly, Datenschutz-Grundverordung Bundesdatenschutzgesetz, München, 2018, 319, sub Art. 25: “Das Konzept „privacy by design” setzt entspr. auf der Erkenntnis auf, dass sich der Schutz informationeller Selbstbestimmung am besten sicherstellen lässt, wenn er bereits in die Programmierung und architektonische Konzipierung der Datenverarbeitungsvorgänge sowie der Datenverarbeitungstechnik integriert ist und bei deren Entwicklung Berücksichtigung findet“.
[26] Ci si riferisce qui alle Privacy Enhancing Technologies (PET), ossia quelle tecniche finalizzate alla minimizzazione dei dati personali raccolti e utilizzati, consistenti nell’adozione di pseudonimi, credenziali di accesso e ogni altro strumento volto a garantire anonimato e sicurezza dei dati.
[27] Rimedi che comunque non mancano. Sul tema non ci si concentra, ma si rinvia ai contributi di Mantelero (Cap. 6, par. 3) e Ratti (Cap. 13, par. 1) in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, opera diretta da Finocchiaro, Bologna, 2017.
[28] Resta, Commento all’art. 5, in Riccio, Scorza, Bellisario (a cura di), G.D.P.R. e normativa privacy, Milano, 2018, 58.
[29] Così Achille, Commento all’art. 5 del G.D.P.R., in Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle persone – Leggi collegate, vol II, Milano, 2019, 114.
[30] Come è emerso dall’audizione del Presidente alla Camera dei deputati.
[31] Nel provvedimento del garante viene citata una nota di INPS dove questi dichiara: “la Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza, secondo un’interpretazione letterale della norma alla luce dei parametri costituzionali di riferimento, considerava la prestazione non spettante ai parlamentari ed ai titolari di cariche presso le amministrazioni locali”.
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