ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Elogio di un fascicolo cartaceo, per cortesia.
di Gì D’Andrea, magistrato
Minuto più, minuto meno, è da un paio di millenni che l’essere umano conosce l’uso della carta.
Possiamo annoverare vari formati di questo sconvolgente materiale: formato grande, tipo i cartoni o, per gli storici e per i giuristi, la Magna Charta; poi c’è il formato piccolo, al cui genere appartengono, in via meramente esemplificativa, i cartoncini, o ancora le “cartine”, ossia: a) quelle carte comunemente impiegate dai cartografi per rappresentare il pianeta in modo bidimensionale, in conformità con le dottrine terrapiattistiche più ortodosse; b) quelle carte comunemente impiegate da coloro – forse anche cartografi – che perseguono scopi psicotropo-ricreativi, non sempre del tutto leciti secondo le leggi di questo o di quel Paese.
Sono innumerevoli, in verità, gli impieghi della carta nel corso della storia: in ordine sparso, dipingere paesaggi ad olio su carta, stampare banconote di carta, soffiarsi il naso con fazzoletti di carta, disegnarci sopra l’uomo vitruviano o Paperino, giocare a carte, fare i castelli di carte, giocare alla morra cinese (prima che inventassero la carta, infatti, nelle locande gli avventori si dilettavano giocando principalmente a “sasso-forbici”, versione decisamente meno adrenalinica della più recente “sasso-forbici-carta”).
E scrivere, già. La carta serve a scriverci sopra.
Canzoni, poesie, romanzi, lettere d’amore, saggi, liste della spesa, cartoline, pizzini da scambiare tra i banchi di scuola, ingiurie da lasciare sul parabrezza altrui, atti e provvedimenti giudiziari. Ciò che è scritto sistematicamente prevale su “dove” è scritto. Tutti si ricordano che esiste la Divina Commedia, ma nessuno spende mai una parola per celebrare il materiale su cui è stata scritta, lo si dà per scontato.
Il ruolo della carta, nel corso della storia, è stato sempre ancillare, defilato, lontano dai riflettori.
Supporto, corpo meccanico, contenente, mai contenuto. Solo forma, niente sostanza?
Chi di noi la vorrebbe, in tutta sincerità, una vita così, trascorsa indossando le vesti del principe consorte, all’ombra ingombrante di qualcun altro, qualcun altro “di contenuto”? Una vita vissuta in silenzio, terminata magari in un tritadocumenti. È forse vita, questa, passata in questo modo, da cavalier servente, con il rischio di finire da un momento all’altro accartocciati in strada, senza una degna sepoltura? Che cosa pensereste, sinceramente, se un ragazzino annoiato facesse di voi un aeroplanino e vi lanciasse distrattamente a canestro in un cesto dei rifiuti, lasciandovi lì, a finire placidamente la vostra esistenza come una qualsiasi sostanza biodegradabile? Meglio a quel punto la fiamma del camino. It’s better to burn than to fade away. E farla dunque finita, senza arrovellarsi troppo il cervello sul rischio di reincarnarsi in un altro foglio di carta. Per giunta riciclata.
Ma arriva un giorno in cui la carta rivendica, non dico il primato sul contenuto, ma quantomeno una pari dignità. Un sussulto di ribellione. Un moto d’orgoglio. Una rivendicazione politica, un gesto simbolico, perpetrato silenziosamente, ma in modo decisamente efficace: scomparire e, con la propria assenza, bloccare addirittura la Giustizia. Lì dove non è arrivato il covid, può arrivare la carta?
La storia che mi accingo a presentare è capitata a un mio amico e collega, giudice civile presso uno dei tanti tribunali d’Italia. E’ la storia di un fascicolo cartaceo che rivendica la sua centralità nel processo civile. E’ stato il fascicolo cartaceo, infatti, a fargli percepire, indirettamente, quanto sia importante la carta, quantomeno nel settore giustizia. Più precisamente, è stata la mancanza del fascicolo di carta a farlo riflettere. Non che al collega quel fascicolo mancasse realmente. Nel senso che lui, personalmente, non ne sentiva alcuna mancanza, credetemi. Non è uno di quelli che percepiscono il valore delle cose soltanto quando ormai è troppo tardi, perché non ce le hanno più a disposizione, o melensaggini simili. Più correttamente, il reale valore del fascicolo cartaceo mancante glielo ha fatto intuire, con modi discutibilmente affabili, ma nondimeno incisivi, un’assistente giudiziaria. Convenzionalmente, per questioni di riservatezza, chiameremo l’assistente con nome di pura fantasia, Erinni Brockovich, così da salvaguardare la serenità del rapporto di collaborazione professionale, nonché l’incolumità psicofisica del collega.
Questa, più o meno, la trascrizione del dialogo telefonico avvenuto con la sua cancelleria, secondo quanto mi ha riferito.
Driiin.
Collega civilista: Pronto?
E.B.: Senta, dottore, dopo che è finita l’udienza non mi ha mandato un fascicolo. L’erreggì è il XXXXX/2021. Se non me lo manda, ci impedisce a tutti di lavorare, ci blocca ogni ccosa, santa pazienza!
Collega civilista : p prego…? Buongiorno a Lei, dottoressa Erinni Brockovich. Di che cosa si tratta?
E.B.: E che ne so, non me l’ha mandato il fascicolo, so solo che non posso scaricare il provvedimento se prima non mi porta il fascicolo. E se non posso lavorare per come dico io, l’avverto, mi vedo costretta a parlare con chi di dovere!
Collega civilista: Ma… ma… mi faccia controllare… ma… io quel fascicolo non l’ho messo in uscita perché, a dire il vero, non mi è mai arrivato nemmeno in entrata… ad ogni modo, è tutto telematico, non c’era niente dentro, si trattava al massimo soltanto di una copertina di carta di un fascicolo, la causa è tutta digitale…
E.B.: Allora non mi ha capito bene! Sempre così fa Lei, che perde ogniccosa e poi intralcia il lavoro della cancelleria! Io glielo dico, che se non mi arriva il fascicolo, non posso scaricare il provvedimento e mi vedo costretta a prender provvedimenti!
Evidentemente, non i provvedimenti telematici
La vicenda, di per sé, è di poco conto. I toni concitati di Erinni Brockowich, attutiti nella trascrizione, poco aggiungono alla drammatizzazione degli esiti epistemologici del dialogo. Ciò che rileva, fuor d’ironia, è la prospettiva dischiusa dalle parole dell’assistente giudiziaria, che tradiscono una Weltanschauung interessante, un’impostazione metodologica diffusa, frutto di consolidate abitudini mentali, perpetrate trasponendo, anche in via di semplice prassi operativa, le logiche proprie del processo “tradizionale” alle logiche che dovrebbero presiedere al funzionamento del medesimo processo “tradizionale”, semplicemente declinato secondo modalità telematiche.
Provo a spiegarmi, facendo una breve premessa, di carattere sommario, per coloro che magari hanno meno dimestichezza con la giustizia e col settore civile. Non è vero che il processo civile è telematico. Il processo civile è, potremmo dire, “tendenzialmente” telematico. In via di prima approssimazione, infatti, si può affermare che è obbligatorio il deposito in formato digitale - e in un determinato specifico formato, pdf nativo - per tutti gli atti. Tutti gli atti processuali e i documenti depositati dai difensori delle parti precedentemente costituite. Ciò significa, quindi, che resta facoltativo il deposito in formato cartaceo degli atti introduttivi. Salvo che durante la pandemia, visto che le norme emergenziali hanno imposto l’obbligatorietà del deposito telematico anche per gli atti introduttivi. Chissà fino a quando. (Quindi, tecnicamente è possibile depositare tutti gli atti telematicamente?!). Al di fuori della normativa emergenziale, invece, gli atti introduttivi si possono depositare in cartaceo. Ma questo non vale per il ricorso per decreto ingiuntivo, ad esempio, che devi depositare in formato digitale. Salvo che dal giudice di pace, dove si deposita in cartaceo. Anche nel periodo emergenziale. A fronte di un quadro normativo non immediatamente intellegibile nel suo complesso e non sempre del tutto lineare, la sanzione dell’inammissibilità del deposito degli atti in formato cartaceo per le ipotesi in cui è obbligatorio il deposito in formato digitale non sempre è così nitida, come ha dimostrato la giurisprudenza in materia (che quindi si è dovuta occupare non tanto dei fatti di causa, quanto di come gli atti sono stati presentati). Quasi dimenticavo: l’obbligo di depositare in formato telematico non vale, non si sa per quale motivo, per i provvedimenti del giudice, pandemia o non pandemia. Ragion per cui nel 2021, appena usciti in fondo dall’era mesozoica, alcuni verbali vengono ancora redatti a mano, chissà da chi. Voci di corridoio vogliono che gli amanuensi di turno siano in realtà medici specializzandi di passaggio in tribunale, privi di pollice opponibile, inavvertitamente scambiati dal giudicante per praticanti avvocati e costretti a vergare in udienza sotto dettatura di qualcuno, qualcuno che poi apporrà in calce una sottoscrizione parimenti illeggibile.
Di fronte alle incerte grafie con cui sono scritti certi verbali - che più che altro assomigliano a tracciati di un elettroencefalogramma - alzi la mano (sporca di inchiostro) chi, tra voi giudicanti, non abbia sentito il bisogno di disporre c.t.u. grafologica per decrittarne il contenuto, rifuggendo dalla tentazione - dai plausibili risvolti di rilievo penale - di appallottolare e cestinare tutto di nascosto.
Tornando al caso del mio amico e collega, la sua causa aveva ad oggetto un’opposizione a decreto ingiuntivo. Per la seconda udienza consecutiva nessuno era comparso, quindi il giudice aveva disposto a verbale la cancellazione della causa dal ruolo e aveva dichiarato l’estinzione del processo. Trattandosi di atto endoprocedimentale, la citazione in opposizione a decreto ingiuntivo era, obbligatoriamente, in formato digitale. Altrettanto digitale era il formato della comparsa di costituzione e risposta. Altrettanto digitale, infine, era il formato dei verbali depositati all’esito delle due udienze.
In definitiva, si può candidamente concludere che in quella causa non era mai successo niente di che nel mondo fisico, al di fuori di consolle. Esistevano solo file, bit, algoritmi, segnali elettrici, invisibili all’occhio umano, redimibili nel loro significato ostensibile soltanto attraverso la mediazione di software e di hardware. Consolle, un monitor, qualche cavo, poco di più.
Senza il fascicolo di carta, tuttavia, la giustizia ha subito un insuperabile arresto.
Il provvedimento telematico, secondo la prassi di cancelleria, non sarebbe mai stato scaricato su consolle fintanto che non fosse stato reperito il fascicolo cartaceo (che il mio collega, peraltro, sosteneva di non aver mai ricevuto).
Per intendersi, il “fascicolo” che invocava la cancelleria per poter procedere al deposito telematico del verbale telematico era, tecnicamente parlando, la copertina di un fascicolo cartaceo vuoto. Una classica copertina, una carpetta di cartoncino, formato A-qualcosa, divisa longitudinalmente e ripiegata in due. Una cartellina, non saprei come nominarla tecnicamente in una cartoleria, ma mi avrete già capito. Su questa cartellina, di cui pur ammetteremo l’esistenza per professione di fede, nonostante i dubbi del mio collega, forse c’era pure appiccicato sopra il nome del tribunale, il numero di R.G., il nome delle parti. Nient’altro. Dentro, il vuoto pneumatico.
Eppure, in forza di una qualche prassi inveterata, dal fondamento normativo inesistente, quella causa reale quanto dematerializzata non esisteva per la cancelleria e continuava ad esistere sul ruolo, ancorché fosse stata dichiarata estinta e fosse stata ordinata la cancellazione.
Concettualizzando, sulla scorta della sovrapposizione indebita tra logica tradizionale cartacea e logica telematica, si potrebbe enucleare il seguente principio: la causa integralmente telematica esiste e quindi non esiste più e al contempo non esiste e continua ad esistere, in funzione della possibilità di rinvenire o non rinvenire il fascicolo di carta, contenente niente.
Un paradosso degno di Schrödinger, sissignori.
Il mio amico e collega mi ha confidato di aver liquidato il problema troppo frettolosamente, suggerendo alla sua cancelleria di stampare, se proprio necessario, un (nuovo) fascicolo, parimenti vuoto.
Apprezzabile l’approccio di problem solving, ma questo significa soltanto metterci una pezza sopra, e non andare alla radice del problema. A fronte dell’obiezione - incontrastabile quanto paradossale per lui - secondo la quale “se ogni volta dovessimo fare così, la giustizia rimarrebbe bloccata, dottò”, il mio collega e amico ha persino pensato di creare i presupposti per la ricostituzione d’ufficio del fascicolo cartaceo: sarebbe bastato depositare una lettera minatoria in cui una sedicente associazione malavitosa avrebbe assunto la paternità del rapimento del fascicolo e forse chiesto persino un riscatto, pari al valore del contributo unificato. A frenare questa sua perversa fantasia non è stata tanto la consapevolezza di perpetrare un’improbabile simulazione di reato, un procurato allarme, robe del genere, che ne so io che faccio civile. Lo ha indotto definitivamente a desistere, piuttosto, la consapevolezza che, pur collazionando materialmente una lettera minatoria da inserire nel fascicolo, la sua cancelleria non avrebbe mai acconsentito all’inserimento di un qualcosa in assenza dell’involucro cartaceo deputato a contenerlo. Del pari, una lettera minatoria su word, di più difficile realizzazione, non sarebbe stata comunque scaricata in telematico, sempre per il fatto che non si trovava ancora il fascicolo cartaceo, nonostante fosse stato già allertato il soccorso alpino, con i cani molecolari (nel mentre, il fascicolo continuava verosimilmente a rimanere sempre vuoto).
Come potete intuire, il collega ha sviluppato una forma di ansia generalizzata verso il cartaceo.
Sa che l’universo tende all’entropia e non vede il motivo per cui lui e il mondo giudiziario in generale dovrebbero discostarsene. Il disordine è destinato a prevalere. Spostare fascicoli di carta, di tante tantissime carte, da una parte all’altra comporta l’accettazione di un certo margine di rischio di smarrimento, bisogna ammetterlo. Identica considerazione vale anche le copie cartacee di cortesia degli atti depositati in formato digitale, copie diffusamente “offerte” in sacrificio dai difensori delle parti nel tentativo di attutire l’ingordigia di cellulosa che affligge il settore giustizia. Copie che, riconosciamolo con una certa onestà intellettuale, qualche magistrato semplicemente esige. A quel punto non è più cortesia, è una corvée, nella migliore delle ipotesi. E anche qualora il magistrato non abbia richiesto alcuna copia di cortesia, l’avvocato, disorientato dalle prassi ondivaghe dei vari uffici sulla duplicazione dei depositi in cartaceo e in telematico, si sente comunque in dovere morale di offrire carta, un po’ per cortesia, un po’ per scaramanzia e per il disturbo ossessivo compulsivo ingenerato dall’ansia generalizzata che il giudice non riesca a leggere integralmente sul monitor del computer le 147 pagine di ricorso per decreto ingiuntivo. Come se il Ministero non avesse dotato i magistrati e le cancellerie di stampanti (quasi sempre) funzionanti. Ma “a caval donato non si guarda in bocca”. Pertanto, grazie signor avvocato per la copia di cortesia, non si disturbi per la prossima volta, in realtà non saprei proprio dove mettere la copia, mi hanno appena scaricato sulla scrivania 65 kg di carta che neanche a Fabriano, e quindi non riesco a scorgere, così, di primo acchito, nella stratificazione delle mura megalitiche di cartapesta, il fascicolo di riferimento, forse manca proprio quel fascicolo lì, mi dispiace, forse non me l’hanno mai portato, o forse sì, chissà dov’è, non si disperi, in qualche modo lo cercheremo, andremo in archivio con le unità cinofile, specializzate, con la Sciarelli se necessario, lo troveremo, a costo di dover recuperare in un weekend del 2081 d.C. il tempo irreversibilmente perduto, smarrito come il fascicolo.
La cortesia, a livello sistematico, in certe situazioni diventa una iattura per la società, quantomeno secondo certe visioni utilitaristiche.
Il collega non ne fa nemmeno un discorso di tipo ecologistico. Pazienza per gli alberi sacrificati in nome della cortesia. Non è nemmeno allergico alla polvere e alle spore di tetano che si annidano in certi fascicoli risalenti, non gli fanno nemmeno schifo i pesciolini d’argento che sbucano dai faldoni del processo Dreyfus. La sua è un’impostazione potremmo dire ideologica, più che di fondamento positivo, indotta e corroborata dall’insano terrore di essere redarguito ancora da Erinni Brockowich, nell’ipotesi in cui non salti fuori il fascicolo cartaceo che l’assistente giudiziaria reclama.
Il telematico, epurato dal regime ibrido e soprattutto dalle applicazioni distorte, sembrerebbe poter ovviare a molti problemi di ordine logistico, garantendo una certa efficienza a livello organizzativo, oltre che una chance di maggiore serenità mentale per il mio amico e collega. A livello operativo, se i fascicoli potessero essere integralmente telematici, i fascicoli cartacei non avrebbero più ragione di esistere. Quindi nessuno dovrebbe prendersi la briga di crearli, nutrirli, farli crescere, farli riposare sotto un tetto (le stanze, tendenzialmente, non abbondano nell’edilizia giudiziaria), spostarli, recapitarli, trasferirli fisicamente in Corte d’Appello, in Cassazione, recuperarli in caso di furto o smarrimento, ricostituirli.
Diversamente, nella ingiustificata duplicazione dei fascicoli, telematico e cartaceo, e comunque nel sistema ibrido vigente, anche qualora tutto vada liscio, senza intoppi, accade di dover assistere, per esempio, a questi passaggi: 1) un assistente giudiziario prende una cartellina di carta; 2) stampa un foglio recante i dati della causa; 3) appiccica il foglio sopra la cartellina, la quale, bidibibodibibù, diventa così un bellissimo fascicolo giudiziario cartaceo (vuoto); 4) l’assistente giudiziario consegna il fascicolo a un commesso; 5) il commesso (vettore) carica il fascicolo su un carrello, insieme ad altri millemila fascicoli; 6) il commesso trasporta il carrello dalla cancelleria fino alla stanza del giudice; 7) il commesso scarica fisicamente i millemila fascicoli su un tavolo denominato “in entrata”; 8) il giudice, se riesce a riemergere dalla colata di carta in cui è stato inavvertitamente appena sepolto, cerca e preleva il fascicolo di causa, se presente tra i miellemiila consegnati, lo apre, è vuoto, lo richiude, fa udienza, verbale telematico; 9) il giudice appoggia il fascicolo cartaceo vuoto su un tavolo, denominato “in uscita”; 10) il commesso, con quel diffuso trasporto emotivo di poco inferiore a quello del monatto che passa ogni giorno a fare il suo giro, va nella stanza del giudice e preleva il fascicolo; 11) il commesso carica fisicamente il fascicolo nel carrello, insieme ad altri millemila fascicoli, come al punto 5); 12) il commesso trasporta il fascicolo dalla stanza del giudice fino alla cancelleria (tragitto inverso rispetto a quello di cui al punto 6); 13) il commesso consegna il fascicolo, sempre vuoto, all’assistente giudiziario; 14) l’assistente giudiziario, rinvenendo il fascicolo cartaceo, scarica su consolle il verbale (telematico); 15) l’assistente consegna il fascicolo cartaceo al commesso; 16) il commesso deposita il fascicolo cartaceo (vuoto) in una stanza di cancelleria, piena di altri millemila fascicoli (alcuni millemila dei quali altrettanto vuoti); 17) il fascicolo rimane lì fino alla successiva data di udienza, quando l’assistente giudiziario impartisce al commesso l’istruzione di prelevare il fascicolo (vuoto); 18) arretrate di 13 caselle e ripartite dalla casella n. 5, fino alla fine dei tempi (moderni).
Può accadere, per congiunture astrali insondabili, che in questi inutili plurimi passaggi, in barba al rasoio di Occam, l’entropia possa avere il sopravvento e che quindi il fascicolo, sempre vuoto, possa essere smarrito. Può accadere, ammettiamolo.
L’atteggiamento zelante dell’incolpevole assistente giudiziaria di fronte alla scomparsa del fascicolo cartaceo non è un mero accidente, è un’occasione preziosa per riflettere. Personalmente, non ho risposte adeguate. Mi restano solo quesiti, ovviamente disordinati. Ha un senso la prassi della duplicazione dei depositi? Sono insuperabili gli ostacoli che impediscono il deposito di tutti gli atti, documenti, provvedimenti in via esclusivamente telematica? Che senso ha la pluralità dei passaggi sopra isolati, per il commesso, per il giudice, per l’assistente giudiziario? La ripetizione senza fine di azioni prive di qualsivoglia utilità giova all’umore degli operatori del diritto e al contempo favorisce l’incremento della produttività? Le prassi operative fondate sulla duplicazione dei canali, telematico e cartaceo (dal magistrato che esige la copia, all’avvocato che la offre, al cancelliere che se non la trova non sa come fare) sottendono esigenze occupazionali di stampo keynesiano? La domanda aggregata è davvero così flebile da giustificare, nella teoria generale, l’esigenza di scavare ancora buche per poi riempirle?
Stremato dalla futile riflessione, anche a nome del mio amico e collega ringrazio di cuore il lettore telematico per la pazienza, e vado dal dottore, quello vero, il mio medico di base. A riposarmi. Facendogli scrivere una mia sentenza, sotto dettatura. A mano.
Carta canta, giudicante dorme.
Il voto ai diciottenni per il Senato: una modifica inevitabile in attesa del Parlamento che verrà
di Corrado Caruso*
1. Lo scorso 8 luglio il Senato della Repubblica ha varato, in via definitiva, la modifica del primo comma dell’art. 58 Cost., eliminando l’inciso che conferiva il diritto di elettorato attivo ai maggiori di 25 anni. La riforma non tocca invece il comma secondo, che limita l’elettorato passivo ai cittadini ultraquarantenni. La legge di revisione costituzionale non ha raggiunto il quorum dei due/terzi: una volta pubblicata, a fini notiziali, sarà necessario attendere, per la sua entrata in vigore, lo spirare dei tre mesi previsi dall’art. 138 Cost., così da consentire l’eventuale iniziativa referendaria ivi prevista.
Dopo la riduzione del numero dei parlamentari, è stata portata a compimento un’ulteriore tappa del percorso di riforme istituzionali inaugurato in questa legislatura. Accomunate dall’abiura della “grande riforma”, che aveva caratterizzato i precedenti tentativi di revisione costituzionale, le attuali forze politiche (il M5S, partito di maggioranza relativa, e gli alleati che, dal 2018 ad oggi, si sono alternati alla guida della compagine di governo) hanno adottato una strategia puntinistica di riforma della Costituzione, da realizzare attraverso revisioni minimali ad oggetto limitato. Nelle intenzioni dei proponenti, simile tecnica sarebbe maggiormente rispettosa dell’art. 138 Cost. poiché consentirebbe all’opinione pubblica e al corpo elettorale di determinarsi consapevolmente circa le scelte compiute dal legislatore di revisione[1].
Quanto al metodo, come si è sostenuto altrove[2], simile strategia non convince: non solo perché, dal punto di vista formale, l’art. 138 Cost. nulla dice sull’estensione delle modifiche costituzionali (salvi, ovviamente, i principi fondamentali della Costituzione), ma soprattutto perché la frammentazione in una pluralità di singole proposte rischia di smarrire la finalità complessiva del disegno riformatore. Le manutenzioni della Costituzione devono essere sorrette, invece, da una «logica riformatrice» coordinata e univoca[3], da un unitario principio di revisione che consenta di cogliere obiettivi e finalità degli interventi unitariamente considerati. Non è possibile avallare una lettura insulare delle proposte di revisione, quasi sia possibile delimitare il significato della singola modifica avulsa dal disegno complessivo. È vero invece l’opposto: il senso della modifica può cogliersi solo con una lettura sistematica e unitaria del pacchetto di riforme. Se contestualizzata, la singola proposta può colorarsi di nuove sfumature, obiettivizzando la propria ratio oltre l’intenzione soggettiva del legislatore storico. Si pensi alla riduzione del numero dei parlamentari: difficile sfuggire dalla sensazione che quella modifica, collocata in origine a fianco del rafforzamento degli istituti di democrazia diretta (come, ad esempio, l’iniziativa legislativa rafforzata) fosse ispirata da un disegno antiparlamentare[4]; letta insieme alla proposta di valorizzare la funzione legislativa della Camera dei deputati, con concentrazione, in capo al Parlamento in seduta comune, del rapporto fiduciario, la medesima innovazione può essere percepita alla stregua di un tentativo di razionalizzazione delle istituzioni rappresentative[5].
2. Nel merito, non vi è dubbio che l’equiparazione del diritto di elettorato attivo elimini una asimmetria figlia delle indecisioni del Costituente intorno alla composizione e al ruolo da attribuire alla seconda camera. Originariamente privo di funzioni di indirizzo politico[6], l’attuale Senato è frutto del compromesso tra le sinistre, monocameraliste e fautrici dell’elezione diretta, e il centro a trazione democristiana, volto a privilegiare una seconda camera di rappresentanza delle categorie produttive e delle autonomie regionali o comunque dotato di compiti “riflessivi”, di moderazione degli “ardori” della camera politica. Questa soluzione al ribasso (quanto meno rispetto alle aspirazioni dei protagonisti del processo costituente), conseguenza anche del deterioramento dei rapporti tra i partiti costituenti nel 1947, ha portato all’odierno bicameralismo “perfetto”, e cioè paritario (nessuna delle due camere prevale sull’altra) e indifferenziato (analoghe funzioni e simile composizione).
Le incertezze sul ruolo della seconda camera hanno lasciato diverse tracce in Costituzione: la rappresentanza degli interessi trova un’eco nel CNEL, organo ausiliario delle Camere, ove siedono i rappresentanti delle categorie produttive (art. 99 Cost.); la rappresentanza territoriale viene richiamata dal riparto dei seggi che, al Senato, avviene su «base regionale» (art. 57.1 Cost.); l’idea della camera “riflessiva”, volta a calmierare il confronto politico, trova conferma nella nomina presidenziale dei senatori a vita, personalità che hanno dato «lustro alla Patria per altissimi meriti nel campo sociale, artistico e letterario», e nell’originaria sfasatura della durata in carica di Camera e Senato (pari, rispettivamente, a cinque e sei anni, secondo una differenziazione poi uniformata dalla l. cost. n. 2 del 1963)[7].
Anche la differente modulazione dell’elettorato attivo si spiega con la necessità di innestare un elemento “riflessivo” nella rappresentanza politica, assegnando al Senato una sorta di funzione pedagogica rispetto alla camera bassa. Un compito che, a oltre settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, può dirsi diluito nella parificazione delle funzioni (legislativa, di indirizzo e controllo, di rappresentanza politica) svolte dalle due Camere. L’essenza del bicameralismo perfetto ha prevalso sulle tenui differenziazioni pure accolte dal testo costituzionale, tanto da spingere la Corte costituzionale, nella sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’Italicum, ad affermare che la «parità di posizione e funzioni delle due Camere elettive» impone un sistema elettorale idoneo a favorire, all’esito delle elezioni, «la formazione di maggioranze parlamentari omogenee»[8]. In un simile contesto, le ragioni che storicamente hanno supportato la limitazione dell’elettorato attivo sono andate offuscandosi, sino a smarrirsi del tutto dopo la revisione costituzionale che ha ridotto il numero dei senatori: è evidente, infatti, che simile diminuzione, accompagnata da una limitazione anagrafica del diritto di voto capace di escludere circa quattro milioni di cittadini dalla partecipazione elettorale[9], avrebbe provocato irragionevoli distorsioni in termini di rappresentatività del corpo elettorale.
Stupisce invece la scelta, compiuta dal legislatore di revisione, di non toccare il diritto di elettorato passivo, che il secondo comma dell’art. 58 Cost. riserva agli ultraquarantenni: allargata la partecipazione elettorale, il mantenimento di simile limitazione appare ingiustificata, quanto meno nella prospettiva dell’eguale composizione di Camera e Senato. Lo stesso andamento dei lavori preparatori, sul punto, non è stato lineare: alla Camera dei deputati, infatti, il Presidente della Commissione affari costituzionali, on. Brescia[10], ha giustificato il mancato intervento in tema di elettorato passivo per ragioni di etichetta, di rispetto istituzionale nei confronti del Senato (motivazioni che però non hanno evidentemente impedito ai deputati di dare avvio al procedimento di revisione del primo comma dell’art. 58 Cost.). Nel dibattito al Senato, il relatore, sen. Parrini, è addirittura tornato sui suoi passi rispetto all’articolato approvato in Commissione, che equiparava le due Camere anche nell’elettorato passivo, rilevando non meglio precisate riserve e contrarietà tra le forze politiche. L’Assemblea plenaria ha quindi votato un emendamento sostitutivo volto a circoscrivere la revisione al solo elettorato attivo, assimilando la formulazione normativa a quella voluta dalla Camera[11]. Non è da escludere che tale scelta sia motivata da ragioni di stretta convenienza elettorale degli incumbents, a maggior ragione a seguito della riduzione dei seggi: i senatori attualmente in carica potrebbero avere maggiori chances di rielezione proprio grazie alla persistenza del requisito anagrafico per l’elettorato passivo.
3. Al netto di simili perplessità, la riforma in esame si inserisce nella tendenza, da tempo perseguita dal legislatore, a ridurre le diversità strutturali delle due Camere nel nome di un bicameralismo “ancora più perfetto”: si pensi non solo alla già citata parificazione della durata dei due rami del Parlmento, risalente al 1963, ma anche all’identico meccanismo di trasformazione dei voti in seggi previsto dall’attuale sistema elettorale[12]. Simile tendenza dovrebbe essere portata a compimento tramite l’eliminazione della «base regionale» delle circoscrizioni elettorali del Senato (art. 57.1 Cost.)[13] e, appunto, con l’equiparazione del diritto di elettorato passivo. Con l’avvertenza, però, che quanto più si volge verso l’equiparazione della composizione dei due rami del Parlamento, tanto meno trova giustificazione l’esistenza di due camere eguali ma divise, incaricate di svolgere le medesime attività ma separate nella struttura e nel funzionamento. Non rimarrebbe allora che compiere un ulteriore passo in nome della funzionalità del sistema rappresentativo: valorizzare, a partire dal rapporto fiduciario per poi arrivare a tutte le funzioni di «maggiore rilievo costituzionale» (sessione di bilancio, di politica internazionale e comunitaria, conversione dei decreti-legge)[14], i compiti del Parlamento in seduta comune, trasformando il claudicante bicameralismo perfetto in un efficiente «monocameralismo temperato»[15]. Non bastano piccoli atti di maquillage istituzionale a migliorare il rendimento del circuito democratico-rappresentativo.
* Professore associato di diritto costituzionale, Università di Bologna.
[1] Cfr. L. Spadacini, Prospettive di riforma costituzionale nella XVIII legislatura, in Astrid Rassegna, n. 13/2018.
[2] Cfr., se si vuole, C. Caruso, Il forum – In tema di riforme costituzionali in itinere, in Gruppo di Pisa. Dibattito aperto sul Diritto e la Giustizia costituzionale, 2019/02, pp. 218 e ss.
[3] In tal senso, v. C. Fusaro, Contributo scritto all'istruttoria legislativa relativa alle proposte di legge cost. nn. 726 Ceccanti e 1173 D'Uva recanti modifiche all'art. 71 Cost. in materia di iniziativa legislativa popolare, reperibile all’indirizzo https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/upload_file_doc_acquisiti/pdfs/000/000/515/Memorie_prof._FUSARO.pdf.
[4] Cfr. M. Luciani, Audizione resa alla commissione affari costituzionali della camera dei deputati, 27 marzo 2019, reperibile all’indirizzo https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/upload_file_doc_acquisiti/pdfs/000/001/370/2019.03.27-LUCIANI_-_Audizione_Riduzione_numero_parlamentari.pdf).
[5] Cfr. XVIII legislatura, A.S. n. 1960, Modifiche alla parte seconda della Costituzione concernenti le competenze delle Camere e del Parlamento in seduta comune, la composizione del Senato della Repubblica, il procedimento legislativo e i procedimenti di fiducia e sfiducia, presentato pochi giorni dopo il referendum del settembre 2020 sul taglio dei parlamentari.
[6] Cfr. artt. 87 e 88 del Progetto di Costituzione deliberato dalla Commissione dei 75.
[7] Un indizio di una ulteriore differenziazione, di oggi si è persa traccia, può rinvenirsi nell’approvazione il 7 ottobre 1947, in Costituente, dell’odg. Nitti, in virtù del quale la Camera avrebbe dovuto essere eletta con il sistema elettorale proporzionale, mentre il Senato con i collegi uninominali. L’odg. venne superato dalla legge pseudo-uninominale del 1948 (l. n. 29/1948), che individuò una soglia molto alta, pressoché irraggiungibile, per la conquista del Collegio (65% dei voti validi). Riferimenti in A. Barbera, La nuova legge elettorale e la «forma di governo» parlamentare, in Quad. cost., 2015, p. 663.
[8] Corte cost., sent. n. 35 del 2017, cons. dir. 15.2. Sottolinea tale aspetto anche N. Lupo, Il “mezzo voto” ai cittadini più giovani: un’anomalia da superare quanto prima, in Osservatorio AIC, 2019, p. 74.
[9] Cfr. il dossier del 21 ottobre 2019 del Servizio studi del Senato e della Camera intitolato Note sull’A.S. n. 1440 modificativo dell’articolo 58 della Costituzione approvato dalla Camera dei deputati in prima deliberazione, p. 6, reperibile all’indirizzo https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01124873.pdf.
[10] Resoconto stenografico dell'Assemblea Seduta n. 219 di mercoledì 31 luglio 2019.
[11] Cfr. Senato, seduta del 9 settembre 2020.
[12] Cfr. l. n. 165 del 2017, cd. Rosatellum.
[13] Come nella proposta deposita alla Camera, XVIII legislatura, A.C. 2238. Il ddl di revisione mira a ridurre a due il numero dei delegati regionali nell’elezione del Presidente della Repubblica, per riequilibrare la riduzione della componente parlamentare nel collegio elettorale chiamato a designare il Capo dello Stato.
[14] Così E. Cheli, Editoriale. Dopo il referendum costituzionale. Quale futuro per il nostro Parlamento?, in Quad. cost., 2020, 699.
[15] A. Manzella, Elogio dell’Assemblea, tuttavia, Modena, 2020, p. 30.
La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l'Adunanza Plenaria n. 7 del 2021
di Enrico Zampetti
SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La responsabilità dell’amministrazione come responsabilità extracontrattuale - 3. La responsabilità dell’amministrazione come responsabilità contrattuale - 4. La posizione della Plenaria - 5. Osservazioni critiche sul prospettato inquadramento nella responsabilità extracontrattuale - 6. Sul requisito dell’ingiustizia del danno - 7. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Con la sentenza n. 7 del 2021 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affrontato alcune rilevanti questioni in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per i danni cagionati nell’esercizio della funzione autoritativa, con particolare riferimento alle ipotesi di ritardo nella conclusione del procedimento[i].
La vicenda contenziosa origina dalla domanda proposta da un’impresa per il risarcimento dei danni subiti a causa del ritardo nel rilascio delle autorizzazioni per la realizzazione di impianti fotovoltaici. Seppur tardivamente, l’amministrazione aveva comunque rilasciato le autorizzazioni richieste, ma in un momento in cui risultava ormai abrogata la disciplina sugli incentivi a favore degli operatori economici autorizzati. Sicchè, al momento del rilascio delle autorizzazioni l’impresa non aveva più potuto beneficiare degli incentivi di cui avrebbe beneficiato se le autorizzazioni fossero state rilasciate tempestivamente. Da qui il danno lamentato a titolo di lucro cessante, per non avere l’impresa potuto realizzare e gestire gli impianti alle più vantaggiose condizioni derivanti dall’applicazione dei benefici. Il Tar adito in primo grado dichiarava inammissibile la domanda risarcitoria e la decisione veniva appellata al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana. Ritenuta ammissibile la domanda risarcitoria, il giudice di appello riteneva d’investire la Plenaria di una serie di quesiti, che riguardano essenzialmente due questioni principali tra loro connesse.
La prima questione attiene all’esatta individuazione del fattore causale del danno lamentato dall’impresa, ossia se il pregiudizio sia effettivamente arrecato dal ritardo dell’amministrazione nel rilascio delle autorizzazioni, o se invece vada autonomamente ascritto alla sopravvenienza normativa abrogativa del regime incentivante, con esclusione di un rapporto di causalità diretta tra pregiudizio e condotta inerte dell’amministrazione.
La seconda questione concerne la natura della responsabilità della pubblica amministrazione e richiede di chiarire se tale responsabilità debba intendersi come responsabilità extracontrattuale oppure come responsabilità contrattuale. È noto al riguardo che, a fronte del prevalente orientamento propenso all’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale, alcune pronunce del giudice amministrativo e una più marcata posizione espressa dalla giurisprudenza ordinaria prospettano il diverso inquadramento nella responsabilità contrattuale[ii].
Prima di esaminare più a fondo la pronuncia della Plenaria, occorre dare atto delle diverse posizioni sulla natura giuridica della responsabilità civile della pubblica amministrazione. Solo così potrà essere meglio colta l’effettiva portata della Plenaria, anche con riferimento ad alcuni aspetti di criticità che ne caratterizzano il percorso argomentativo.
2. La responsabilità dell’amministrazione come responsabilità extracontrattuale
La responsabilità della pubblica amministrazione per illegittimo esercizio della funzione autoritativa viene tradizionalmente inquadrata nel modello della responsabilità extracontrattuale. Tale inquadramento ha avuto il suo pieno riconoscimento con la sentenza della Cassazione n. 500 del 1999 e si basa su un’interpretazione dell’articolo 2043 c.c. per la quale il danno ingiusto sarebbe anche quello arrecato agli interessi legittimi e non soltanto quello inferto ai diritti soggettivi[iii]. Sul piano generale, l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale viene implicitamente giustificato sul presupposto che l’esercizio della funzione autoritativa non instaurerebbe alcun rapporto contrattuale tra privato e amministrazione, venendo così a mancare il principale elemento costitutivo della responsabilità contrattuale. Conseguentemente, i danni causati dall’esercizio del potere, o dal suo mancato o ritardato esercizio, non sarebbero il frutto di un inadempimento contrattuale, ma di un’indebita lesione della sfera giuridica altrui, in contrasto con il divieto del neminem laedere.
Tuttavia, la stessa sentenza del 1999 ha ridimensionato l’enunciata risarcibilità degli interessi legittimi, assumendo che, per accordare la tutela risarcitoria, la lesione non debba riguardare solo l’interesse legittimo ma anche il bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla[iv]. Condizionare il risarcimento alla lesione del bene della vita implica che il bene della vita spetti effettivamente al privato, poiché, se il bene della vita non dovesse spettargli, una sua ipotetica lesione non sarebbe nemmeno ipotizzabile. Nell’originaria impostazione della Cassazione, il giudice sarebbe pertanto chiamato a compiere un giudizio prognostico che accerti o meno la spettanza del bene della vita in capo al privato, con la conseguenza che, solo nel caso in cui tale giudizio dia esito positivo, il danno sarà ingiusto e meritevole di risarcimento[v]. La ricostruzione implica una concezione che tenderebbe ad ancorare l’interesse legittimo al bene della vita e, conseguentemente, ad identificare il primo nel secondo. Al di là dell’apparente distinzione prospettata dalla Cassazione tra interesse legittimo e bene della vita, è, infatti, evidente che, se si ammette la risarcibilità soltanto nei casi di lesione del bene della vita, riesce difficile separare l’interesse legittimo dal bene della vita e il bene della vita risulta direttamente incluso tra gli elementi costitutivi dell’interesse legittimo[vi].
Successivamente alla sentenza del 1999, la giurisprudenza prevalente ha confermato l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale apportandovi alcuni adattamenti, in un contesto generale nel quale, con la legge n. 205 del 2000, al giudice amministrativo era ormai attribuita la giurisdizione sul risarcimento del danno[vii]. Si è così evidenziato che, al cospetto di un’attività discrezionale, un’eventuale valutazione del giudice sulla spettanza del bene della vita, sia pur prognostica e virtuale, verrebbe a interferire con le valutazioni riservate all’amministrazione. Pertanto, la giurisprudenza ha progressivamente escluso la possibilità di effettuare il giudizio prognostico nei casi di attività discrezionale, assumendo che, in queste ipotesi, la tutela risarcitoria sia accordabile solo quando la spettanza del bene della vita non sia più in discussione, ossia quando l’amministrazione abbia adottato il provvedimento favorevole dopo l’annullamento giurisdizionale dell’originaria determinazione negativa, oppure abbia superato l’inerzia adottando il provvedimento originariamente richiesto dal privato[viii].
Tuttavia, più di recente, si registrano posizioni che ritengono configurabile la tutela risarcitoria anche in assenza di un accertamento sulla spettanza del bene della vita e, talvolta, anche a prescindere dalla illegittimità del provvedimento. Si tratta di ipotesi in cui l’amministrazione viola determinati obblighi di condotta, quali ad esempio i doveri di diligenza e correttezza, incidendo lesivamente su una situazione giuridica (ritenuta prevalentemente) di diritto soggettivo, variamente riconducibile all’affidamento, alla libertà di autodeterminazione negoziale o, più in generale, alla sfera personale o patrimoniale degli interessati. Se è pur vero che tali posizioni si ambientano principalmente nella fase formativa dei contratti pubblici, intercettando le dinamiche proprie della responsabilità precontrattuale[ix], è innegabile che possiedano una capacità espansiva idonea a coinvolgere più in generale l’azione amministrativa, anche oltre lo specifico settore contrattuale. Si pensi ai danni causati dall’annullamento di un precedente provvedimento favorevole, che alcune pronunce della Cassazione riconducono alla responsabilità extracontrattuale per lesione di un diritto soggettivo riconducibile all’affidamento[x], ovvero ai danni da ritardata conclusione del procedimento che, secondo quanto prospettato dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 2018, possono investire anche il diritto all’autodeterminazione negoziale senza necessariamente interessare il bene della vita sotteso all’istanza del privato[xi].
Sotto altro profilo, l’inquadramento nella responsabilità aquiliana richiede una condotta rimproverabile sotto il profilo della colpa secondo quanto previsto dall’articolo 2043 c.c. Per la sentenza del 1999, la colpa si anniderebbe in una condotta inosservante dei principi generali dell’azione amministrativa quali i principi d’imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ma non potrebbe desumersi dalla mera illegittimità del provvedimento adottato[xii]. Si tratta di un concetto di colpa piuttosto impreciso e indefinito, poiché non sempre è agevole distinguere la semplice illegittimità dalla violazione dei principi generali che presiedono allo svolgimento dell’azione amministrativa. Questa scarsa precisione può indurre ad un aggravamento dell’onere probatorio, imponendo al privato la dimostrazione di un quid pluris non automaticamente deducibile dall’illegittimità del provvedimento. Proprio al fine di rendere meno gravoso l’onere del privato, la giurisprudenza ha pertanto ammesso che la colpa possa essere presuntivamente desunta dall’illegittimità del provvedimento, sicchè, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento, sarebbe l’amministrazione a dover provare l’assenza di una condotta colposa adducendo un eventuale errore scusabile[xiii].
3. La responsabilità dell’amministrazione come responsabilità contrattuale
Successivamente alla sentenza del 1999, la stessa Cassazione e alcune pronunce del giudice amministrativo hanno prospettato l’inquadramento della responsabilità dell’amministrazione nell’ambito della responsabilità contrattuale.
L’inquadramento nella responsabilità contrattuale non presenta alcuna criticità nelle ipotesi in cui tra privato e pubblica amministrazione intercorra un rapporto contrattuale, e può agevolmente prospettarsi anche nei casi in cui l’obbligo di compiere una determinata attività derivi da un compiuto assetto provvedimentale. Più problematico è quando un siffatto inquadramento voglia riferirsi alla relazione tra privato e amministrazione nell’ambito del procedimento amministrativo, poiché in tal caso occorre verificare se il rapporto procedimentale possa assimilarsi ad un rapporto obbligatorio propriamente inteso.
Sul piano generale, va precisato che non sempre l’esistenza di un rapporto obbligatorio è condizione necessaria per l’insorgenza di una responsabilità di tipo contrattuale. Secondo un consolidato orientamento, la responsabilità contrattuale assume specifico rilievo anche nell’ambito di quelle relazioni particolarmente qualificate non propriamente riconducibili al rapporto contrattuale, ma che pur sempre implicano il compimento di un’attività che coinvolge le parti della relazione. Si ritiene che, sebbene in questi casi non sussista un obbligo di prestazione principale, le parti debbano comunque comportarsi in maniera corretta e secondo buona fede, in attuazione dei c.d. obblighi di protezione desumibili dagli agli artt. 1175 c.c. e 1337 c.c., i quali, come ne suggerisce la denominazione, sono posti a protezione delle sfere personali e patrimoniali dei soggetti coinvolti[xiv]. Poiché agli obblighi di protezione sarebbe correlato il diritto ad un comportamento corretto e diligente, la violazione degli obblighi di protezione determinerebbe in capo alla parte inadempiente una responsabilità di tipo contrattuale, anche nelle ipotesi in cui manchi un vero e proprio rapporto contrattuale, a condizione che la relazione raggiunga un consistente grado di qualificazione[xv]. Tra le ipotesi più note in cui si è riconosciuta rilevanza agli obblighi di protezione anche al di fuori di un rapporto contrattuale, il caso emblematico è quello del medico dipendente di una struttura sanitaria che esegue una prestazione medica nei confronti del paziente. Sebbene tra medico e paziente non sussista alcun rapporto contrattuale, perché il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il paziente e la struttura sanitaria, il medico è pur sempre obbligato a comportarsi in maniera corretta e diligente nell’esecuzione della propria attività, con la conseguenza che dovrà risarcire gli eventuali danni cagionati dall’inadempimento agli obblighi di protezione[xvi].
Gli obblighi di protezione hanno un ruolo centrale per l’inquadramento della responsabilità della pubblica amministrazione nella responsabilità contrattuale. Si è al riguardo evidenziato che, con l’instaurarsi del procedimento amministrativo, nascerebbe tra privato e pubblica amministrazione una relazione qualificata, nell’ambito della quale l’amministrazione non sarebbe soggetta soltanto alle norme di diritto pubblico, ma anche agli obblighi di correttezza, diligenza e buona fede secondo le norme generali dell’ordinamento civile, ossia a quegli stessi obblighi di protezione che caratterizzano i rapporti obbligatori tra privati. Tuttavia, nell’ambito di tale relazione, gli obblighi di protezione includerebbero anche gli obblighi specificamente codificati nella legge n. 241 del 1990 e s.m.i. Il riferimento è principalmente alle prescrizioni che impongono all’amministrazione di concludere tempestivamente il procedimento, di garantire la partecipazione dei privati, di motivare i provvedimenti amministrativi. Il rapporto procedimentale renderebbe possibile inquadrare tali obblighi in un contatto qualificato assimilabile a un rapporto obbligatorio, con la conseguenza che il loro inadempimento determinerebbe l’insorgenza di una responsabilità contrattuale[xvii]. Secondo alcune ricostruzioni, la posizione del privato a fronte degli obblighi di protezione o procedimentali sarebbe inclusa nella situazione giuridica d’interesse legittimo, senza necessariamente doversi mutare in diritto soggettivo. In tale prospettiva, l’interesse legittimo verrebbe ad assumere una piena autonomia dal correlato bene della vita, poiché non sarebbe specificamente incentrato sulla pretesa sostanziale, ma sul regolare svolgimento del procedimento amministrativo in vista del conseguimento dell’utilità anelata. La lesione dell’interesse legittimo rilevante a fini risarcitori andrebbe così individuata (anche) nel mero inadempimento alle regole di svolgimento dell’azione amministrativa, con la conseguenza che, se l’inadempimento cagiona dei danni, il risarcimento è dovuto anche a prescindere da un accertamento sulla spettanza del bene della vita[xviii]. Secondo altra impostazione, il privato vanterebbe un vero e proprio diritto soggettivo, autonomo dalla situazione giuridica d’interesse legittimo, che avrebbe ad oggetto la pretesa ad un comportamento amministrativo corretto e diligente, a tutela dell’affidamento riposto dal privato nei confronti dell’azione amministrativa[xix]. Anche in tal caso i danni arrecati al diritto soggettivo in ragione dell’inadempimento agli obblighi procedimentali sarebbero risarcibili senza necessità di provare la spettanza del bene della vita. Nei suoi più recenti arresti, la Cassazione mostra di seguire questa impostazione, con particolare riferimento alle ipotesi in cui l’affidamento del privato sia pregiudicato da una condotta procedimentale incoerente e contraddittoria, che si concretizzi, alla fine, nella mancata adozione del provvedimento atteso[xx]. Tuttavia, la richiamata impostazione richiede di coniugare la posizione di diritto soggettivo con quella d’interesse legittimo, la quale ultima, quando il campo non sia occupato dal diritto soggettivo, resta pur sempre rilevante al cospetto del potere amministrativo[xxi].
Va ancora aggiunto che, talvolta, il fondamento della responsabilità contrattuale viene desunto direttamente dalle norme che sanciscono gli obblighi procedimentali. Secondo il modello dell’obbligazione ex lege, l’amministrazione sarebbe gravata dagli obblighi procedimentali previsti dalla legge n. 241 del 1990, il cui inadempimento determinerebbe l’insorgere di una responsabilità contrattuale. Se è la legge la fonte diretta degli obblighi procedimentali, più che nel contatto qualificato, il fondamento della responsabilità contrattuale andrebbe appunto individuato nella legge[xxii].
Ad ogni modo, quale che sia il più corretto fondamento della responsabilità contrattuale, resta il fatto che il danno risarcibile è anche quello derivante dall’inadempimento agli obblighi procedimentali e che la tutela risarcitoria non è necessariamente condizionata dall’accertamento sulla spettanza del bene della vita. A prescindere dalla sua esatta configurabilità come diritto soggettivo o interesse legittimo, la situazione giuridica del privato non si correla direttamente al bene della vita, ma trova la sua naturale ambientazione nel procedimento amministrativo, restando incentrata sul comportamento dell’amministrazione in vista del conseguimento del bene della vita.
Secondo un’affermazione più volte ripetuta, l’inquadramento nella responsabilità contrattuale renderebbe più agevole la tutela del privato, assorbendo il problema del giudizio prognostico, della spettanza del bene della vita e della dimostrazione della colpa. Tuttavia, il pregiudizio cagionato dall’inadempimento agli obblighi procedimentali deve essere provato e ciò non sempre è agevole a causa del carattere formale della violazione[xxiii]. Fermo restando che l’entità del danno sarà probabilmente inferiore a quella direttamente rapportabile al mancato conseguimento del bene della vita[xxiv].
4. La posizione della Plenaria
Così ricostruito l’attuale contesto di riferimento, si può esaminare più a fondo la decisione della Plenaria, al fine di meglio precisarne la portata e le relative implicazioni.
Nel dirimere la questione relativa alla natura giuridica della responsabilità da illegittimo esercizio della funzione autoritativa, la pronuncia propende per l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale anziché nella responsabilità contrattuale[xxv]. A sostegno la Plenaria evidenzia che l’amministrazione “mantiene rispetto al privato la posizione di supremazia necessaria a perseguire i fini determinati dalla legge con atti di carattere autoritativo in grado di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del privato”, precisando che nel “rapporto amministrativo” si creano le condizioni perché la pubblica amministrazione “non possa essere assimilata al debitore obbligato per contratto ad adempiere in modo esatto nei confronti del privato”. Né il rapporto tra privato e amministrazione potrebbe essere ricondotto “alla dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, nozione di contatto sociale, in quanto, a tacer d’altro, oltre a quanto osservato sulla natura del rapporto amministrativo, la relazione tra privato e amministrazione è comunque configurata in termini di supremazia, e cioè da un’asimmetria che mal si concilia con le teorie sul contatto sociale che si fondano sulla relazione partitaria”. Conseguentemente, “l’esercizio della funzione pubblica, manifestatosi tanto con l’emanazione di atti illegittimi quanto con un’inerzia colpevole, può quindi essere fonte di responsabilità sulla base del principio generale del neminem laedere”. La Plenaria ribadisce che, nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, il danno può ritenersi ingiusto solo “se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi”, ma non quando manchi l’accertamento sulla fondatezza della pretesa e la violazione riscontrata sia di carattere meramente formale. Lo stesso vale per il danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento, dal momento che il requisito dell’ingiustizia “esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole per il quale aveva presentato istanza”.
L’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale renderebbe inapplicabile il limite sulla prevedibilità del danno previsto dall’articolo 1225 c.c. per la responsabilità contrattuale, sicchè sarebbero astrattamente risarcibili anche i danni imprevedibili. Ai fini dell’individuazione del danno risarcibile, la decisione invoca l’articolo 1223 c.c., espressamente richiamato dall’articolo 2056 c.c., secondo il quale il risarcimento del danno comprende la perdita subita e il mancato guadagno “in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”. Il criterio rilevante sarebbe, pertanto, quello della c.d. causalità giuridica, in base al quale i danni risarcibili, siano essi prevedibili o imprevedibili, sono soltanto quelli rispetto ai quali il fatto illecito “si pone in rapporto di necessità o regolarità causale”.
Proprio in applicazione del criterio della causalità giuridica, la Plenaria dirime l’altra questione relativa al rapporto di causalità tra condotta dell’amministrazione e mancato accesso al regime incentivante, distinguendo il periodo anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina dal periodo successivo alla vigenza del nuovo quadro normativo. Per il periodo anteriore non vi sarebbero dubbi sulla sussistenza del rapporto di causalità tra condotta inerte e perdita degli incentivi, dal momento che “la regolarità causale che lega i due eventi – ritardo dell’amministrazione nel provvedere e perdita degli incentivi – non può infatti ritenersi recisa dalla sopravvenienza normativa, per la decisiva considerazione che è stato proprio il ritardo a rendere la sopravvenienza rilevante, come fatto impeditivo per l’accesso agli incentivi tariffari altrimenti ottenibili”. Per il periodo successivo andrebbe, invece, approfondita la sorte delle erogazioni eventualmente avviate nella vigenza del pregresso quadro normativo, verificando se la nuova disciplina imponga l’immediata cessazione dei benefici in corso ovvero li faccia salvi attraverso la previsione di un apposito regime transitorio.
In quest’ultimo caso, il nesso di causalità tra condotta inerte e perdita del beneficio risulterebbe attuale, dal momento che la sopravvenienza normativa non intaccherebbe i benefici maturati nella vigenza della disciplina anteriore e la loro perdita resterebbe imputabile al ritardo dell’azione amministrativa. Nell’altro caso, invece, la perdita del beneficio sarebbe imputabile allo ius superveniens, poichè, una volta sopravvenuta la nuova normativa, l’impresa non avrebbe comunque più avuto accesso agli incentivi, con immediata cessazione delle erogazioni eventualmente già avviate. In questa specifica ipotesi, lo ius superveniens verrebbe così ad interrompere il nesso di causalità tra condotta inerte e pregiudizio subito, ergendosi a fattore causale autonomo del mancato accesso agli incentivi, con esclusione di responsabilità a carico dell’amministrazione.
Nell’approfondire la questione, la decisione si sofferma anche sul requisito dell’ingiustizia del danno, ribadendo l’orientamento che, ai fini della qualificazione del danno come ingiusto, richiede che sia accertata la spettanza del bene della vita. Nel caso di specie – rileva la sentenza - l’ingiustizia del pregiudizio sarebbe pacificamente acclarata dal fatto che l’amministrazione, sia pur tardivamente, ha rilasciato le autorizzazioni richieste, riconoscendo così la fondatezza della pretesa sostanziale. Poiché trattasi di danno da lucro cessante proiettato nel futuro, come tale non determinabile con la certezza dei danni (emergenti) “verificabili sul piano storico”, la Plenaria evidenzia che l’effettiva consistenza del pregiudizio andrebbe provata secondo i criteri generalmente impiegati per la risarcibilità della chance. Quanto, infine, alla liquidazione del danno, la pronuncia ritiene che, ai sensi dell’articolo 2056 c.2. c.c., debba essere rimessa al giudice con “equo apprezzamento delle circostanze del caso”, precisando che, in ragione della consistenza probabilistica della prospettiva di guadagno, il lucro cessante lamentato dall’impresa non possa comunque equivalere “a quanto l’impresa avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione”.
5. Osservazioni critiche sul prospettato inquadramento nella responsabilità extracontrattuale
5.1. Il prospettato inquadramento nella responsabilità aquiliana conferma il prevalente orientamento inaugurato dalla sentenza n. 500 del 1999. La continuità con l’orientamento maggioritario non esime, tuttavia, dal verificare l’adeguatezza del percorso motivazionale alla base delle conclusioni raggiunte.
Come si è già precisato, le ragioni addotte dalla Plenaria per giustificare il prospettato inquadramento si risolvono nell’escludere l’equiparazione del rapporto procedimentale tra privato e pubblica amministrazione ad un rapporto contrattuale, sul presupposto che, nel perseguire i fini determinati dalla legge, l’amministrazione eserciterebbe un potere autoritativo idoneo ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica del privato. Queste ragioni non risultano pienamente soddisfacenti, in quanto non spiegano esaurientemente perché il contatto procedimentale tra amministrazione e privato non possa essere assimilato ad un rapporto contrattuale, o comunque ad un rapporto qualificato assoggettabile al regime della responsabilità contrattuale. L’assunto che il potere amministrativo incida unilateralmente nella sfera giuridica del privato non appare, infatti, decisivo a giustificare il prefigurato inquadramento, poiché è incentrato esclusivamente sulle modalità di esercizio del potere e non sul tipo di rapporto che effettivamente intercorre tra privato e pubblica amministrazione. Del resto, anche l’esecuzione dei rapporti obbligatori può essere contraddistinta da modalità che implicano un’incidenza unilaterale nella sfera giuridica delle parti. Più pertinente è il richiamo della sentenza al vincolo funzionale che impone all’amministrazione di perseguire i fini predeterminati dalla legge, ma l’argomento non viene ulteriormente sviluppato con riferimento al procedimento amministrativo e alla sua rilevanza per l’effettiva concretizzazione dell’interesse pubblico prefigurato dalla norma. In sostanza, gli argomenti addotti si arrestano alla posizione di supremazia dell’amministrazione quale soggetto deputato a curare autoritativamente l’interesse pubblico, senza confrontarsi adeguatamente con le teorie del contatto sociale e senza più di tanto approfondire le ragioni che impedirebbero di equiparare il rapporto procedimentale al rapporto obbligatorio.
Per meglio cogliere la critica che s’intende muovere alla sentenza, si segnalano di seguito alcuni degli aspetti che, ad avviso di chi scrive, sembrano tuttora opporsi ad un inquadramento nella responsabilità contrattuale.
5.2. Anzitutto, il riferimento alle teorie del contatto sociale per sostenere la tesi della responsabilità contrattuale non appare del tutto conferente, nella misura in cui, salvo casi eccezionali[xxvi], l’amministrazione è giuridicamente obbligata a concludere il procedimento adottando il provvedimento finale. Quale espressione del principio di legalità, l’obbligo deriva direttamente dalla legge ed è preordinato a garantire la cura in concreto dell’interesse pubblico. Il contatto tra privato e amministrazione implica pertanto la doverosità della “prestazione” principale, a differenza di quanto accade nei contatti sociali invocati per giustificare l’inquadramento nel modello contrattuale, che si caratterizzano per l’insussistenza di un obbligo di prestazione principale e per la sola sussistenza dei c.d. obblighi di protezione[xxvii].
D’altra parte, il fatto che l’obbligo di concludere il procedimento sia previsto dalla legge non consente di inquadrare tale obbligo in una fattispecie tipica di obbligazione legale. Nelle obbligazioni legali, la prestazione è generalmente predeterminata nei suoi esatti contenuti, in funzione della “esauriente composizione degli interessi in contrasto”[xxviii]. Senonchè, quantomeno al cospetto di un’attività discrezionale, l’obbligo normativo che impone di concludere il procedimento è del tutto neutro rispetto al contenuto della “prestazione” amministrativa, poiché implica unicamente che l’amministrazione prenda posizione sul “problema” che ha determinato l’avvio del procedimento. Il contenuto della prestazione è determinato solo ex post nella fase conclusiva del procedimento, poiché è solo in esito all’istruttoria procedimentale e al contemperamento di tutti gli interessi coinvolti che l’amministrazione sarà nella condizione di adottare la propria scelta finale[xxix]. La “esauriente composizione degli interessi” non è desumibile a monte dalla legge che impone la doverosità dell’azione, ma ricavabile ex post in funzione dei concreti esiti del procedimento[xxx]. Vero è che, nelle ipotesi di attività vincolata, la prestazione sembrerebbe invece risultare predeterminata dalla legge, ma è pur vero che la scelta finale è sempre concretamente condizionata dallo svolgimento del procedimento[xxxi].
Sotto altro profilo, la prestazione dedotta nei rapporti obbligatori, e quindi anche nei rapporti ad essi potenzialmente assimilabili, è generalmente il frutto di una relazione assunta spontaneamente e volontariamente dalle parti in funzione della soddisfazione dei reciproci interessi. Un discorso a parte vale per le fattispecie di obbligazione legale, laddove spontaneità e volontarietà non hanno probabilmente lo stesso rilievo che assumono nelle altre fattispecie obbligatorie, ma resta fermo che la prestazione individuata dalla legge mira pur sempre a comporre l’interesse del debitore con quello del creditore. Viceversa, la “prestazione” implicata nel rapporto procedimentale non è né caratterizzata dalla stessa spontaneità e volontarietà, né mira a garantire i contrapposti interessi delle parti. Nelle ipotesi di procedimento avviato d’ufficio, l’assenza di volontarietà e spontaneità è fin troppo evidente, perché l’amministrazione attiva il procedimento di propria iniziativa e il privato subisce l’iniziativa del soggetto pubblico. Diversa parrebbe la situazione quando il procedimento è avviato su istanza di parte, ma deve pur sempre considerarsi che il procedimento non è preordinato alla composizione di interessi appartenenti rispettivamente a un creditore e a un debitore. Infatti, nell’esercizio del potere l’amministrazione non persegue un proprio interesse, ma, nel rispetto del vincolo funzionale, agisce per la cura concreta di un interesse riconducibile alla collettività. Ciò implica che, a differenza di quanto accade per i rapporti obbligatori, il contatto tra privato e pubblica amministrazione non si risolve nella composizione dell’interesse del creditore con quello del debitore, ma nella scelta più adeguata per garantire l’interesse del privato nel contesto di un interesse generale che appartiene alla collettività (e, talvolta, anche con riferimento ad interessi di soggetti non direttamente destinatari dell’azione amministrativa).
Nemmeno l’esistenza di obblighi di protezione o procedimentali gravanti sull’amministrazione appare di per sé decisiva per giustificare l’inquadramento nella responsabilità contrattuale. Tali obblighi caratterizzano necessariamente l’esercizio del potere amministrativo in applicazione dei principi d’imparzialità, correttezza e buona amministrazione, atteggiandosi come doveri comportamentali che l’amministrazione è tenuta a rispettare quando la propria azione incide nella sfera giuridica altrui. Essi risultano perfettamente compatibili con l’inquadramento nella responsabilità aquiliana, nella misura in cui identificano il contenuto comportamentale del divieto del neminem laedere, negli specifici casi in cui il soggetto agente sia una pubblica amministrazione[xxxii]. Del resto, al di fuori dei rapporti propriamente obbligatori, la disciplina legislativa di determinate attività prevede spesso degli obblighi di comportamento proprio a tutela dei soggetti coinvolti nel compimento dell’attività. Inoltre, è indubbio come il rispetto di precisi doveri comportamentali assuma uno specifico rilievo nella valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito civile. Infine, l’eventuale qualificazione come diritto soggettivo della posizione correlata agli obblighi procedimentali non esclude affatto l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale, per la semplice ragione che la responsabilità extracontrattuale origina sia per la lesione dei diritti soggettivi che per la lesione degli interessi legittimi. Ciò che osterebbe all’inquadramento nella responsabilità aquiliana è l’esistenza di un rapporto obbligatorio tra privato e amministrazione, ma, per quanto si è detto, un siffatto rapporto non appare configurabile nel procedimento amministrativo.
Da ultimo, restano da considerare quelle posizioni che sostengono la natura contrattuale qualificando la relazione procedimentale nei termini di un più generale rapporto giuridico, irriducibile sia ai rapporti obbligatori sia alle relazioni ad essi assimilabili, ma pur sempre collocabile nel modello della responsabilità contrattuale[xxxiii]. La tesi è argomentata sul rilievo che, nella definizione concettuale di rapporto giuridico, rientrerebbero sia i rapporti legati da un nesso di “funzionalità”, come quello che contraddistingue i rapporti obbligatori, sia i rapporti legati da un diverso nesso di “complementarietà”, come quello che, fra gli altri, caratterizzerebbe il rapporto tra privato e amministrazione scolpito nella “dinamica “potere – interesse legittimo”[xxxiv]. In altri termini, l’interesse legittimo e l’interesse alla base del potere autoritativo sarebbero avvinti da un nesso di complementarietà, proprio nella misura in cui “la realizzazione dell’uno dipende da ed implica la realizzazione dell’altro”[xxxv]. Si tratta di argomentazioni di estremo interesse, che di fatto, sia pur da una rinnovata prospettiva relazionale, mantengono la tradizionale contrapposizione tra interesse legittimo e potere amministrativo, sfuggendo così alle criticità insite nell’equiparazione del rapporto procedimentale al rapporto propriamente obbligatorio. Non è certamente questa la sede per trattare l’argomento con il dovuto approfondimento, anche in relazione al concetto di rapporto giuridico e alla sua non univoca riconducibilità al rapporto obbligatorio. In senso critico, si può solo osservare che la disciplina positiva della responsabilità contrattuale sembra avere come principale punto di riferimento il rapporto di tipo obbligatorio e non già ogni relazione che intercorra tra i soggetti dell’ordinamento. Diversamente, ne risulterebbe un’eccessiva erosione dell’ambito della responsabilità extracontrattuale, in assenza di un’adeguata rispondenza al modello normativo della responsabilità contrattuale. Senza inoltre considerare che, come anche evidenziato da una parte della dottrina, la responsabilità extracontrattuale non può ritenersi priva di una dimensione relazionale, sia pur non riducibile ad un “rapporto obbligatorio di adempimento di una prestazione a fronte di una pretesa creditoria”[xxxvi].
5.3. Siano o meno condivisibili, tutte le considerazioni espresse nei punti precedenti danno un quadro, sia pure incompleto, delle questioni che agitano il dibattito sulla natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione, evidenziando quali siano i possibili elementi di ostacolo ad un inquadramento nella responsabilità contrattuale. La sentenza in commento non prende specificamente posizione su questi aspetti, deducendo l’inquadramento nella responsabilità aquiliana essenzialmente dalla posizione di supremazia dell’amministrazione quale soggetto preposto alla cura autoritativa dell’interesse pubblico. Un più ampio e diffuso confronto con tutti i profili segnalati, in particolare con quelli riguardanti le teorie del contatto sociale e gli obblighi procedimentali, avrebbe reso più solide le conclusioni raggiunte, dirimendo con maggiore chiarezza e definitività una questione così rilevante sul piano sistematico e per le concrete implicazioni.
6. Sul requisito dell’ingiustizia del danno
Come si è in precedenza esposto, la Plenaria, nel solco dell’orientamento espresso dalla sentenza n. 500 del 1999, assume che l’ingiustizia del danno derivante dall’illegittimo esercizio della funzione autoritativa richieda l’accertamento della pretesa sostanziale del privato, anche nelle ipotesi di ritardata conclusione del procedimento. Se ne deduce che il risarcimento debba escludersi nelle ipotesi in cui, a seguito del giudizio amministrativo, residui in capo all’amministrazione uno spazio di discrezionalità tale da rendere problematico il giudizio prognostico. Una siffatta impostazione implica una concezione dell’interesse legittimo fortemente appiattita sul bene della vita che, almeno per quanto concerne la tutela risarcitoria, viene di fatto a privare il momento procedimentale di una sua autonoma e specifica rilevanza. La stessa impostazione appare inoltre in contrasto con quegli orientamenti giurisprudenziali che, pur da una prospettiva che non esclude l’inquadramento nel modello aquiliano, ritengono risarcibili anche i danni provocati dalla violazione dei doveri di diligenza, correttezza e buona fede, come anche precisati e implementati dalla legge n. 241 del 1990, assumendo che tale violazione incida lesivamente su una posizione di diritto soggettivo, variamente riconducibile all’affidamento riposto in una condotta corretta e diligente, all’autodeterminazione della libertà negoziale o, più in generale, all’ambito della sfera personale o patrimoniale dei soggetti[xxxvii]. In questo contesto, più che l’ammissibilità della tutela risarcitoria, la vera questione da approfondire riguarda la natura della situazione giuridica lesa dall’inadempimento agli obblighi di protezione o procedimentali, se, cioè, essa sia effettivamente identificabile con il diritto soggettivo, o se invece debba pur sempre ricondursi all’interesse legittimo. Ma è questione che non può essere affrontata in questa sede e basti averne accennato[xxxviii].
In ogni caso, quale che sia l’esatta natura giuridica della situazione lesa, non sembra in discussione che i danni causati dal comportamento scorretto dell’amministrazione siano meritevoli di risarcimento, anche ove non sia dimostrata la spettanza del bene della vita, a condizione che sia lesa una situazione giuridicamente rilevante, che un pregiudizio sussista effettivamente e che il danno sia debitamente provato. Sotto questo profilo, condizionare l’ingiustizia del danno all’accertamento della pretesa sostanziale può segnare una regressione nella tutela, in contrasto con l’evoluzione riscontrabile in una parte della giurisprudenza. Tuttavia, l’affermazione della sentenza va probabilmente riferita alla peculiarità del caso di specie, dove la spettanza del bene della vita risulta pacificamente accertata dal tardivo rilascio delle autorizzazioni, e non andrebbe pertanto intesa come il riconoscimento di un limite generale alla tutela risarcitoria.
Quanto alla rilevanza della normativa sopravvenuta sul nesso di causalità tra condotta e pregiudizio lamentato, la prospettata distinzione tra il periodo anteriore e il periodo successivo all’entrata in vigore della nuova disciplina rappresenta un compromesso ragionevole basato sul criterio della c.d. causalità giuridica, che riflette il principio per cui un soggetto deve ritenersi responsabile dei soli danni direttamente riferibili alla sua condotta. Quanto, infine, all’entità del danno e ai criteri per la sua liquidazione, le conclusioni della Plenaria appaiono in linea con la disciplina positiva e i principi della materia.
7. Osservazioni conclusive
Si possono così formulare alcune osservazioni conclusive.
L’inquadramento nel modello della responsabilità extracontrattuale prescinde e non è necessariamente condizionato dalla natura della situazione giuridica lesa. Ciò che configura la responsabilità aquiliana è una condotta lesiva della posizione giuridica altrui, sia essa identificabile in una posizione d’interesse legittimo o diritto soggettivo, al di fuori di un rapporto propriamente obbligatorio.
Per le ragioni che si è cercato di esporre il rapporto procedimentale tra privato e pubblica amministrazione non sembra riconducibile né a un vero e proprio rapporto obbligatorio, né ad un contatto qualificato nel quale siano rilevanti esclusivamente gli obblighi di protezione. L’amministrazione è tenuta a perseguire il fine previsto dalla legge, ma la prestazione alla quale il soggetto pubblico è tenuto non è predeterminabile a priori, ma solo a posteriori in esito allo svolgimento del procedimento, dopo che l’amministrazione abbia contemperato tutti gli interessi coinvolti dalla sua azione e non solo quello dei soggetti che ne sono immediati e diretti destinatari. L’assenza di una prestazione predeterminabile nei suoi contenuti ma ciò non di meno doverosa, l’esistenza del vincolo funzionale e la necessità di una scelta finale che coniughi l’interesse generale con l’interesse del privato escludono l’equiparazione del rapporto procedimentale ad un tipico rapporto obbligatorio, o comunque ad un rapporto ad esso assimilabile secondo le teorie del contatto sociale. Il fatto che l’amministrazione sia gravata da puntuali obblighi di protezione (o procedimentali) non muta la natura della responsabilità da extracontrattuale in contrattuale, ma risponde soltanto all’esigenza che il potere amministrativo sia esercitato nel rispetto dei principi d’imparzialità, correttezza e buona amministrazione. In altri termini, si tratta di obblighi che l’amministrazione è tenuta a rispettare quando la sua azione incide nella sfera giuridica del privato e che, in quanto tali, identificano il contenuto comportamentale dell’azione amministrativa rapportabile al divieto del neminem laedere. Ciò, ovviamente, non significa che tra privato e pubblica amministrazione non intercorra un rapporto giuridico, ma si tratta di un rapporto compatibile con la responsabilità aquiliana, se e in quanto irriducibile ad un rapporto propriamente obbligatorio. Come si è già precisato, l’esistenza di una dimensione relazionale non confligge necessariamente con il modello della responsabilità extracontrattuale, soprattutto se la relazione si attua in un procedimento dal quale matura una scelta non altrimenti derivabile o (pre)determinabile[xxxix].
Va aggiunto che, nell’attuale contesto di riferimento, appare in parte venuta meno l’esigenza originaria alla base dell’inquadramento nella responsabilità contrattuale, ossia quella di garantire la tutela risarcitoria anche in assenza di una dimostrazione sulla spettanza del bene della vita. Ciò trova conferma in una parte della giurisprudenza esaminata che, pur non escludendo la natura extracontrattuale della responsabilità, tende ad accordare il risarcimento anche a prescindere dall’accertamento della pretesa sostanziale, a condizione che la violazione degli obblighi di protezione cagioni effettivamente un danno e che il danno sia debitamente provato. Il fatto che, allo stato, la natura della situazione giuridica pregiudicata dalla violazione sia prevalentemente inquadrata in un diritto soggettivo può avere dei riflessi soltanto sulla giurisdizione, considerato che, nel caso di lesione del diritto soggettivo, la giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario, salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il che, come è stato osservato, potrebbe creare delle complicazioni “per la possibile coesistenza di processi amministrativi (per l’azione demolitrice del provvedimento) e civili (per l’azione risarcitoria per lesione dei “diritti” partecipativi), tutte le volte in cui non sussista la giurisdizione esclusiva”[xl]. Sotto questo profilo ingenera, pertanto, attesa l’imminente decisione della Plenaria, che dovrà pronunciarsi in merito alla sussistenza della giurisdizione amministrativa sulle controversie relative ai danni cagionati dall’annullamento di un precedente provvedimento favorevole[xli].
Infine, deve ridimensionarsi l’assunto secondo il quale l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale determinerebbe una tutela più gravosa di quella che l’inquadramento nella responsabilità contrattuale garantirebbe al privato. Il fatto che, nell’ambito della responsabilità aquiliana, non si applichi il limite del risarcimento dei soli danni prevedibili e siano ormai ammessi meccanismi presuntivi per la dimostrazione della colpa, già di per sé riduce il prefigurato divario di tutela tra i due modelli di responsabilità. Né particolari problemi derivano dalla previsione di un termine di prescrizione più breve di quello applicabile alle fattispecie di responsabilità contrattuale, considerato che il codice del processo amministrativo prevede una disciplina speciale sui termini di proposizione dell’azione risarcitoria per lesione d’interessi legittimi. Il diverso termine prescrizionale avrebbe rilevanza solo nella prospettiva della responsabilità contrattuale, ove si configuri come diritto soggettivo la natura giuridica della situazione lesa dalla violazione dell’obbligo procedimentale. Forse, anche sotto questo aspetto, l’attesa decisione della Plenaria potrà assumere una qualche rilevanza.
[i] Cons. St., Ad. Pl., 23 aprile 2021 n. 7.
[ii] La sentenza non definitiva del CGARS, 15 dicembre 2020 n. 1136, recante la rimessione alla Plenaria, pone anche altre questioni connesse alle due principali. Tuttavia, ci si soffermerà in particolare sulle due principali, poiché è essenzialmente su di esse che s’incentra la decisione della Plenaria; per approfondimenti sulla decisione, M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza Plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur.,15 dicembre 2020 n. 1136), in questa Rivista, 17 febbraio 2021.
[iii] Per un commento a Cass. civ, Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500, si veda, in particolare, F.G. Scoca, Per un’amministrazione responsabile, in Giur. cost., 1999, 4045 ss.; F. Satta, La sentenza n. 500 del 1999: dagli interessi legittimi ai diritti fondamentali, in Giur. cost., 1999, 3233 ss.; A. Romano, Sono risarcibili, ma perché devono essere legittimi?, in Foro it., 1999, 3222 ss.
[iv] Cass., n. 500/1999, cit., secondo cui il risarcimento sarebbe dovuto “soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo”.
[v] Con riferimento agli interessi pretensivi, Cass., n. 500/1999, cit., precisa che, ai fini dell’ingiustizia del danno, occorre vagliare “la consistenza della protezione che l'ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioé di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta”. Secondo una parte della giurisprudenza successiva, questa impostazione viene estesa anche ai danni cagionati dal ritardo nella conclusione del procedimento: “il risarcimento del danno da ritardo è subordinato alla prova della spettanza definitiva del bene della vita correlato ad un interesse legittimo pretensivo, ovvero alla dimostrazione che l'aspirazione al provvedimento richiesto abbia dato esito favorevole” (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione IV, 2 gennaio 2019, n. 20; Sezione V, 10 ottobre 2018, n. 5834).
[vi] Sulla configurazione dell’interesse legittimo e le relative questioni, si rinvia per tutti a F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 296 ss., nonché a G. Greco, Dal dilemma di diritto soggettivo – interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale – interesse finale, in Dir. amm., 3/2014, 479 ss.; di recente, A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. Situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento, Torino, 2020.
[vii] In un contesto di generalizzata possibilità per il giudice amministrativo di disporre il risarcimento dal danno, valgano da monito le considerazioni di F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, 24 maggio 2021, secondo cui la patrimonializzazione dell’interesse legittimo non deve diventare un pretesto per “abbandonare la forma di tutela specifica dell’annullamento, l’erogazione della quale ha rappresentato la ragione primaria per cui è stata introdotta nel nostro ordinamento una giurisdizione generale di legittimità re se ne è individuato il suo giudice naturale in quello amministrativo”.
[viii] Più precisamene, viene affermato che “il giudizio di spettanza del bene della vita, necessario a fini risarcitori, potrà essere condotto unicamente laddove l'amministrazione abbia riesercitato il proprio potere discrezionale a seguito dell'annullamento giurisdizionale, riconoscendo la spettanza del bene al privato e, in tal caso, il danno sarà solo un danno da ritardo; o, deve aggiungersi, il giudizio di spettanza potrà esser condotto dal giudice amministrativo in tutte le ipotesi di c.d. esaurimento della discrezionalità amministrativa, che, a seconda delle diverse opzioni giurisprudenziali emerse sul punto, su cui non è in questa sede rilevante soffermarsi, possono ricondursi ad ipotesi di c.d. "giudicato a formazione progressiva" (ex multis, da ultimo, TAR Sardegna, Cagliari, Sez. I, 8 marzo 2021 n. 143).
[ix] La giurisprudenza qualifica la responsabilità precontrattuale nei termini di “una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull'interesse legittimo pretensivo all'aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell'altrui scorrettezza” (Cons. St., Sez. VI, 1 febbraio 2013 n. 633).
[x] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595, 6596, relative ad ipotesi di danni cagionati dall’intervenuto annullamento di precedente provvedimento favorevole, che, nel ritenere sussistente la giurisdizione ordinaria sulle relative controversie, assumono che l’amministrazione risponda a titolo di responsabilità extracontrattuale “per violazione del principio del neminem laedere”, per avere ingenerato con l’adozione dell’atto poi annullato un incolpevole affidamento la cui lesione è meritevole di risarcimento (per approfondimenti sul tema, M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni (brevi note a margine di Consiglio di Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS.UU. 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595, 6596, sulla giurisdizione ordinaria per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in Federalismi.it, 21 marzo 2011); tuttavia, successivamente, con riferimento ad una vicenda parzialmente diversa, in cui il danno era cagionato dal comportamento ondivago e incoerente dell’amministrazione, concretizzatosi alla fine nel mancato rilascio del provvedimento, la Cassazione ha ricondotto la responsabilità per lesione da affidamento alla responsabilità da contatto qualificato inquadrabile nel modello della responsabilità contrattuale (Cass. civ., Sez. Un., 28 aprile 2020 n. 8236, con commento di G. Tropea - A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del giudice ordinario, in questa Rivista, 15 maggio 2020). Sebbene la fattispecie esaminata da questa sentenza sia diversa da quelle trattate nelle pronunce del 2011, la pronuncia del 2020 parrebbe (implicitamente) prefigurare l’inquadramento nella responsabilità contrattuale anche per le ipotesi in cui il danno sia arrecato dall’annullamento del precedente provvedimento favorevole, dal momento che anche in questi casi, così come nel caso di comportamento ambiguo e incoerente, la lesione riguarda pur sempre l’affidamento del privato.
[xi] Significativa in tal senso, Cons. St. Ad. Pl., 4 maggio 2018 n. 5, secondo cui il danno da ritardo si configura anche “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione d’interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento”, con la precisazione che il danno “deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale”. La pronuncia evidenzia che il ritardo nell’adozione del provvedimento genera una “situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione”. Nella prospettiva indicata, verrebbe quindi in rilievo un danno “da comportamento” e non da provvedimento, nel senso che la violazione del termine di conclusione del procedimento non determina l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo, ma “rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali”. La decisione non prende specificamente posizione sulla natura della responsabilità, ma, come emerge dal percorso motivazionale, non esclude che i danni così determinati siano ascrivibili ad una responsabilità extracontrattuale: “si potrà discutere se, ed eventualmente in quali casi, a seconda dell’intensità e della pregnanza del momento relazionale e della forza dell’affidamento da esso ingenerato, la correttezza continui a rilevare come mera modalità comportamentale la cui violazione dà vita ad un illecito riconducibile al generale dovere del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c., o diventi l’oggetto di una vera e propria obbligazione nascente dal contatto sociale”. Le implicazioni insite nelle conclusioni della Plenaria andrebbero misurate e approfondite con riferimento all’orientamento che esclude la tutela risarcitoria per lesione dei c.d. interessi procedimentali puri sul presupposto che “il giudicato di annullamento di un provvedimento amministrativo per vizi formali (quali il difetto di istruttoria o di motivazione), in quanto pacificamente non contiene alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento impugnato, non consente di fondare la pretesa al risarcimento del danno” (Cons. St., Sez. IV, 8 febbraio 2018 n. 825). Per approfondimenti sulle implicazioni della pronuncia n. 5 del 2018, si veda L. Lorenzoni, I principi di diritto comune nell’azione amministrativa tra regole di validità e regole di comportamento, in Dialoghi di diritto amministrativo. Lavori del laboratorio di diritto amministrativo 2019, Roma, 2020, 53 ss., a cura di F. Aperio Bella - A. Carbone, E. Zampetti, 53 ss.; sul piano generale, il tema è affrontato da A. Romano Tassone, La responsabilità della p.a. tra procedimento e comportamento, (a proposito di un libro recente), in Dir. amm., 2/2004, 224; sempre in argomento, cfr. L. Lorenzoni, I principi di diritto comune nell’azione amministrativa, Napoli, 2018; M. Trimarchi, La validità del provvedimento amministrativo. Profili di teoria generale, Pisa, 2013, 187; E. Zampetti, Contributo allo studio del comportamento amministrativo, Torino, 2021, 222 ss.
[xii] Secondo la sentenza n. 500 del 1999, “l'imputazione ex art. 2043 c.c. alla P.a. di una responsabilità extracontrattuale (in materia diversa da quella degli appalti pubblici) non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente e da riferire ai parametri della negligenza o imperizia, ma dell'amministrazione intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo e lesivo dell'interesse del danneggiato siano avvenute in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi”.
[xiii] La giurisprudenza ritiene che, per dimostrare la colpa, possono “operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie”, precisando che “il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile” e che “spetterà, di contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata" (Cons. St., Sez. III, 5 giugno 2014 n. 2867; ex multis, cfr. Cons. St., Sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3981).
[xiv] La giurisprudenza ritiene che “l'applicazione del disposto dell'art. 1218 cod. civ. oltre i confini propri del contratto ad ogni altra ipotesi in cui un soggetto sia gravato da un'obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte, si giustifica considerando che quando l'ordinamento impone a determinati soggetti, in ragione della attività (o funzione) esercitata e della specifica professionalità richiesta a tal fine dall'ordinamento stesso, di tenere in determinate situazioni specifici comportamenti, sorgono a carico di quei soggetti, in quelle situazioni previste dalla legge, obblighi (essenzialmente di protezione) nei confronti di tutti coloro che siano titolari degli interessi la cui tutela costituisce la ragione della prescrizione di quelle specifiche condotte”, precisando che, nelle descritte situazioni, “la responsabilità deriva dal mero contatto e serve ad evidenziare la peculiarità della fattispecie distinguendola dai casi nei quali la responsabilità contrattuale deriva propriamente da contratto (cioè dall'assunzione volontaria di obblighi di prestazione nei confronti di determinati soggetti)”; la responsabilità da contatto originerebbe dalla violazione di tali obblighi di protezione e troverebbe il proprio fondamento normativo nel riferimento di cui all’art. 1173 cod. civ. “agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico” (ex multis, cfr. Cass. civ., Sez. I, 11 luglio 2012 n. 11642).
[xv] Per approfondimenti sulle teorie del contatto sociale, si veda, in particolare, V. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Terza edizione, Milano, 2006, 443 ss.; più di recente, F. Venosta, «Contatto sociale» e affidamento, Milano, 2021; in una prospettiva critica, M. Barcellona, Trattato della responsabilità civile, Torino, 2011, 65 ss.; Id., La responsabilità civile, Torino, 2021, 120 ss.; P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2019, 67 ss.; A. Zaccaria, Der Aufhaltsame aufstieg des sozialen kontakts (la resistibile ascesa del «contatto sociale»), in Riv. dir. civ., 2013, 77 ss.
[xvi] Cass. civ, Sez. III, 22 gennaio 1999 n. 589, secondo cui “la pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo al sanitario dipendente nei confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la professionalità (secondo determinati standard accertati dall'ordinamento su quel soggetto), che qualifica ab origine l'opera di quest'ultimo, e che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in "contatto" con lui” (successivamente, cfr. Cass., civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26973). Si segnala che, attualmente, l’art. 7 co.3 l. n. 24/2017 dispone che l’esercente la professione sanitaria “risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”, escludendo così che la responsabilità possa essere configurata come responsabilità contrattuale nelle ipotesi in cui il medico non abbia assunto un’obbligazione contrattuale con il paziente. La giurisprudenza ha ravvisato la sussistenza della responsabilità da contatto anche in altri casi “accomunati dalla violazione di obblighi di comportamento, preesistenti alla condotta lesiva, posti dall'ordinamento a carico di determinati soggetti” (così, Cass. civ., Sez. I, n. 11642/2012, cit.). Viene, ad esempio, inquadrata nella responsabilità contrattuale la responsabilità dell’insegnate per autolesione dell’allievo; la responsabilità della banca negoziatrice di assegno bancario non trasferibile pe il pagamento a soggetto non legittimato; la responsabilità del mediatore nei confronti dei soggetti che mette in contatto ai fini della conclusione di un contratto. Per approfondimenti e relativi riferimenti giurisprudenziali, si veda F. Venosta, Contatto sociale e affidamento, cit., 87 ss.
[xvii] Cass. civ., Sez. I, 10 gennaio 2003 n. 157, in Foro it., 2003, 79 ss., con nota di F. Fracchia, Risarcimento del danno causato da attività provvedimentale dell’amministrazione: la Cassazione effettua un’ulteriore (ultima?) puntualizzazione. La pronuncia evidenzia che “il contatto del cittadino con l'amministrazione è oggi caratterizzato da uno specifico dovere di comportamento nell'ambito di un rapporto che in virtù delle garanzie che assistono l'interlocutore dell'attività procedimentale, diviene specifico e differenziato. Dall'inizio del procedimento l'interessato, non più semplice destinatario passivo dell'azione amministrativa, diviene il beneficiario di obblighi che la stessa sentenza 500-99-SU identifica nelle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione pubblica deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità". Come si desume dalla disciplina positiva recata nella legge n. 241 del 1990, tali obblighi mirano specificamente a garantire la partecipazione al procedimento, la sua tempestiva conclusione, la considerazione delle osservazioni presentate nell’ambito del procedimento, la motivazione della decisione finale, e il loro inadempimento verrebbe a generare una responsabilità di tipo contrattuale; per la giurisprudenza amministrativa, si veda in particolare Cons. St., Sez. V, 6 agosto 2001 n. 4239; Cons. St., Sez. VI, 15 aprile 2003 n. 1945; Cons. St., Sez. VI, 20 gennaio 2003 n. 204; più di recente, Cons. St., Sez. II, 17 febbraio 2021 n. 1448. Tuttavia, va precisato che la giurisprudenza amministrativa, più che affermare un generalizzato inquadramento nella responsabilità contrattuale, deduce dall’esistenza degli obblighi procedimentali la “misura della diligenza” che deve connotare la condotta del soggetto pubblico affinchè sia il “garante del corretto sviluppo del procedimento e della sua legittima conclusione”. Conseguentemente, la valorizzazione del rapporto procedimentale consente di “affermare che l’onere della prova dell’elemento soggettivo dell’illecito va ripartito tra le parti secondo criteri sostanzialmente corrispondenti a quelli codificati dall’articolo 1218 c.c.”. Come si vede, l’inquadramento nella responsabilità contrattuale resta tendenzialmente circoscritto alla rilevanza della colpa, “senza implicare la soluzione del più ampio problema dell’attuale fisionomia del rapporto amministrativo e della sua distanza concettuale dallo schema della obbligazione di diritto civile”.
[xviii] È questa l’impostazione di Cass. civ., Sez. I, n. 157/2003, cit., secondo cui “il fenomeno, tradizionalmente noto come lesione dell'interesse legittimo, costituisce in realtà inadempimento alle regole di svolgimento dell'azione amministrativa, ed integra una responsabilità che è molto più vicina alla responsabilità contrattuale nella misura in cui si rivela insoddisfacente, e inadatto a risolvere con coerenza i problemi applicativi dopo Cass. 500-99-SU, il modello, finora utilizzato, che fa capo all'art. 2043 c.c.: con le relative conseguenze in tema di accertamento della colpa”. La pronuncia sottolinea come il rispetto delle regole procedimentale costituisca la “vera essenza dell’interesse legittimo”, il quale si riferisce a “fatti procedimentali” e mantiene una “carattere del tutto autonomo rispetto all’interesse al bene della vita”. I fatti procedimentali cui si riferisce l’interesse legittimo investono anche il bene della vita, ma quest’ultimo “resta però ai margini, come punto di riferimento storico”; per la concezione che inquadra nell’interesse legittimo la situazione giuridica del privato al cospetto degli obblighi procedimentali, si veda, in particolare, F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 255, secondo cui “le pretese o facoltà partecipative sono strumenti di sostegno, e di esercizio, nel procedimento, dell’interesse legittimo, di cui sono titolari i privati”; in argomento, M. Occhiena, Situazioni giuridiche soggettive e procedimento amministrativo, Milano, 2002; D.U. Galetta, Violazione di norme sul procedimento amministrativo e annullabilità del provvedimento, Miano, 2003; da un punto di vista generale, sulla difficoltà di classificare nel diritto soggettivo o nell’interesse legittimo le pretese del cittadino che si attuano nella partecipazione procedimentale, A. Travi, Interessi procedimentali e pretese partecipative: un dibattito aperto (a proposito di due contributi di Duret e di Zito), in Dir. pubbl., 1997, 531 ss.; sulla questione generale dell’autonomia o meno degli interesse procedimentali dall’interesse legittimo, si veda M. Nigro, Ma che cos’è questo interesse legittimo. Interrogativi vecchi e nuovi spunti di riflessione, in Foro it.,1987, ora anche in Scritti giuridici, III, Milano, 1996, 1883 ss.
[xix] In dottrina, questa impostazione generale risulta variamente articolata in diverse posizioni ciascuna delle quali presenta delle proprie peculiarità. Senza alcuna pretesa di completezza, A. Orsi Battaglini, Attività vincolata e situazioni soggettive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 3 ss. ora anche in Scritti giuridici, Milano, 2007, 1213 ss.; Id., Alla ricerca dello stato di diritto, Milano, 2005; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione, Milano, 2003; Id.; C. Cudia, Funzione amministrativa e soggettività della tutela: dall’eccesso di potere alla regole del rapporto, Milano, 2008; A. Zito, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1996; M. Renna, Obblighi procedimentali e responsabilità dell’amministrazione, in Dir. amm., 3/2005, 557 ss.; L. Perfetti, Pretese procedimentali come diritti fondamentali. Oltre la contrapposizione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, in Dir. proc. amm., 3/2012, 850 ss.
[xx] Cass. civ., Sez. un., n. 8236/2020, cit., secondo cui, nelle ipotesi indicate, la violazione degli obblighi di protezione determinerebbe una responsabilità da “contattato sociale qualificato”, ascrivibile al modello della responsabilità contrattale, ossia una “responsabilità che sorge tra soggetti che si conoscono reciprocamente già prima che si verifichi il danno; danno che consegue non alla violazione di un dovere di prestazione ma alla violazione di un dovere di protezione, il quale sorge non da una contratto ma dalla relazione che si instaura tra l’amministrazione e il cittadino nel momento in cui quest’ultimo entra in contatto con la prima”; per un commento alla pronuncia, G. Tropea – A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del giudice ordinario, cit.; C. Scognamiglio, Sulla natura della responsabilità della pubblica amministrazione da lesione dell’affidamento del privato a seguito di un comportamento della medesima, in Corr. Giur., 8-9/2020, 1033 ss.
[xxi] Sul tema, si veda in particolare A. Romano Tassone, Situazione giuridiche soggettive (diritto amministrativo), in Enc. dir. II, aggiornamento, Milano, 1988, 981 ss.,
[xxii] M. Renna, Obblighi procedimentali e responsabilità dell’amministrazione, cit., 566-567.
[xxiii] Sul punto, si vedano i rilievi di F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 249-250.
[xxiv] Sul punto, M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza Plenaria, cit., 23.
[xxv] Più esattamene, la Plenaria ritiene che “la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 cod. civ. –da ritenere espressione di un principio generale dell’ordinamento- i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 cod. civ.; e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 cod. civ”.
[xxvi] Ci si riferisce, ad esempio, ai casi in cui l’istanza del privato sia palesemente abnorme o talmente generica da mancare di una concreta individuazione dell’oggetto (cfr. Cons. St.,sez. IV, 14 dicembre 2004 n. 7975); attualmente, la questione deve misurarsi con l’articolo 2, co.1, l. 241 del 1990 che, nella vigente formulazione, prevede che se le pubbliche amministrazioni “ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”.
[xxvii] Sulla doverosità della funzione amministrativa, si veda, in particolare, S. Tuccillo, Contributo allo studio della funzione amministrativa come dovere, 2016.
[xxviii] Così R. Scognamiglio, Responsabilità contrattuale e extracontrattuale, in Noviss. dig. it., 1968, ora anche in Responsabilità civile e danno, Torino, 2010, 100, con riferimento alle fattispecie di cui agli artt. 433, 2028 e 2041 c.c.
[xxix] In argomento, si rinvia per tutti a F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 118 ss.
[xxx] Tuttavia, si vedano al riguardo le considerazioni di F.G. Scoca, Per un amministrazione responsabile, cit., 4060 ss., il quale, se, da un lato, sottolinea che “non è possibile costruire sul procedimento un rapporto obbligatorio nel senso pregnante della locuzione”, perché “vi si oppongono non solo ( o non tanto) la unilateralità della decisione, quanto il carattere normalmente discrezionale di quest’ultima, al quale non segue, ma precede, il definitivo assetto degli interessi”; dall’altro, rileva che, in ragione degli obblighi di protezione o procedimentali gravanti sull’amministrazione non “sia possibile negare che tra amministrazione e il privato, uniti nel (o dal) procedimento, si instauri un vero e proprio rapporto giuridico (abbia esso o meno natura di rapporto obbligatorio). Tanto basta per escludere l’estraneità tipica della responsabilità extracontrattuale”; ma, si vedano le ulteriori considerazioni successivamente sviluppate dall’A., L’interesse legittimo, cit., 317, nota 114, laddove non si esclude l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale, se e in quanto si riconosca che anche la responsabilità extracontrattuale possa avere una “dimensione relazionale”, pur diversa dalla relazione che contraddistingue il rapporto obbligatorio.
[xxxi] L’aspetto è preso specificamente in considerazione da F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 437 – 438 e, in particolare, alla nota 84; per una diversa prospettiva, A. Orsi Battaglini, Attività vincolata e situazioni soggettive, cit., 1213.
[xxxii] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., nn. 6594, 6595, 6596 del 2011, cit.
[xxxiii] Recentemente, la tesi è stata sostenuta da G. Poli, Potere pubblico, rapporto amministrativo e responsabilità della p.a.. L’interesse legittimo ritrovato, Torino, 2012, 107 ss.; più in generale, sul tema del rapporto giuridico tra privato e pubblica amministrazione, M. Protto, Il rapporto amministrativo, Milano, 2008; F. Gaffuri, Il rapporto procedimentale, Milano, 2013.
[xxxiv] G. Poli, Potere pubblico, rapporto amministrativo e responsabilità della p.a., cit., 126.
[xxxv] G. Poli, Potere pubblico, rapporto amministrativo e responsabilità della p.a., cit., 127.
[xxxvi] F. D. Busnelli, La responsabilità per esercizio illegittimo della funzione amministrativa vista con gli occhi del civilista, in Dir. amm., 4/2012, 542, secondo cui la responsabilità extracontrattuale non “è più necessariamente la responsabilità del passante ma può assumere una dimensione relazionale che non si traduca in uno specifico rapporto obbligatorio di adempimento di una prestazione a fronte di una pretesa creditoria”; sulla possibilità di inquadrare la responsabilità dell’amministrazione nella responsabilità extracontrattuale muovendo da una dimensione relazionale non riconducibile alla relazione del rapporto obbligatorio, F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 317, nota 114.
[xxxvii] Cons. St. Ad. Pl., n. 5 del 2018, cit., che, come si è già precisato, ritiene che il danno da ritardo sia risarcibile anche “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione d’interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento”, precisando che il danno “deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale”. Come si è detto, la decisione non prende specificamente posizione sulla natura della responsabilità, ma non esclude che i danni così determinati siano ascrivibili ad una responsabilità extracontrattuale (cfr. supra, nota n. 11); cfr. anche Cass. civ., Sez. un., nn. 6594, 6595, 6596 del 2011, cit., relative ad ipotesi di danni cagionati dall’intervenuto annullamento di precedente provvedimento favorevole, che, nel configurare una responsabilità extracontrattuale dell’amministrazione pe lesione di un diritto soggettivo riconducibile all’affidamento, precisano che il danno deriva dalla violazione di doveri di comportamento gravanti sull’amministrazione, quali “la perizia, la prudenza, la diligenza, la correttezza” (cfr. supra nota n. 10); tuttavia, come si è già precisato, la successiva giurisprudenza della Cassazione, in particolare Cass. civ., Sez. un., n. 8236/2020, cit., parrebbe implicitamente prefigurare il diverso inquadramento nella responsabilità contrattuale (da contatto qualificato) anche per le fattispecie esaminate dalle pronunce del 2011, sebbene il caso esaminato dalla sentenza del 2020 non coincida esattamente con l’ipotesi in cui il danno scaturisca dall’annullamento di precedente provvedimento favorevole.
[xxxviii] Per approfondimenti sulla questione, si rinvia a F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 229 ss.
[xxxix] A proposito dei caratteri peculiari del procedimento amministrativo, A. Travi, Interessi procedimentali e pretese partecipative, cit., 546, secondo cui il procedimento amministrativo “è ben più di una serie di rapporti giuridici, e si caratterizza proprio per «l’evolversi delle situazioni attraverso l’esercizio dei poteri» (Mandrioli)”, sicchè “frazionare il procedimento in una serie di rapporti non è coerente con i caratteri del fenomeno procedimentale e impostare la tutela dei cittadini in funzione di quei singoli rapporti appare inadeguato”.
[xl] Così F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 250.
[xli] La questione è stata sollevata dal Cons. St., Sez. II, ord. 9 marzo 2021 n. 2013. Per approfondimenti, C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla Plenaria sul danno da provvedimento favorevole (nota a Cons. St., II, ord. 9 marzo 2021 n. 2013), in questa Rivista, 27 aprile 2021.
Il termine del procedimento amministrativo tra clamori di novità ed intenti di pietrificazione [1]
di Antonio Bartolini
1. Con queste brevi note si vogliono mettere in evidenza le più recenti novità, in tema di ”tempi del procedimento amministrativo”.
Da un lato, verranno evidenziate le novità introdotte dal d.l. 31 maggio 2021, n. 77, che hanno apportato delle modifiche alla l. n. 241/90, volte a dare certezza ai tempi del procedimento amministrativo. Dall’altro lato, si considererà la recente pronuncia di Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 23 aprile 2021, n. 7, con cui sono stati espressi importanti principi sulle vicende riguardanti i tempi procedimentali.
2. Il d.l. n. 77/2021, come noto, ha introdotto misure organizzative, di accelerazione e di semplificazioni dirette a consentire al nostro paese di rispettare i milestones segnati dal c.d. recovery plan (PNRR).
Tra queste misure, alcune hanno riguardato la legge n. 241/90, con particolare riguardo ai poteri sostitutivi in caso di inerzia della amministrazione, alla certezza della formazione del silenzio assenso ed all’abbreviazione del termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio.
Principiando dalle modifiche apportate all’art. 2 della l. 241/90, il d.l. n. 77/2021 con l’art. 61, ha modificato sia il comma 9-bis che il comma 9-ter del predetto art. 2.
La novità è consistita nell’aver dato il potere alle amministrazioni di ”individuare” una ”unità organizzativa” cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia (mentre la regola previgente, peraltro confermata dalla novella del 2021, era solamente quella di dover individuare un dirigente apicale responsabile del potere sostitutivo).
La seconda novità è quella di aver stabilito che il predetto potere sostitutivo non sia più ad inziativa di parte, ma che debba essere esercitato d’ufficio dall’unità organizzativa preposta o dal dirigente apicale.
La portata delle due disposizioni è, a mio avviso minimale, e non tocca i veri problemi che riguardano il rispetto sui tempi del procedimento: ma su qusto aspetto avremo modo di tornarci sopra amplius infra.
3. Con l’art. 62, del d.l. 77, si introducono, invece, disposizioni volte a dare certezza sulla formazione del silenzio assenso previsto dall’art. 20, l. 241/90.
Si stabilisce, infatti, che l’interessato possa chiedere all’amministrazione competente di rilasciare in via telematica un’attestazione circa la formazione o meno del silenzio: in particolare si dispone che l’amministrazione rilascia un’attestazione ”circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda” (così il nuovo art. 20, comma 2-bis).
Inoltre, se l’amministrazione non provvede nel termine di dieci giorni, l’interessato può attestare, con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, la formazione del silenzio-assenso.
Analoga disposizione era già stata introdotta per il permesso di costruire con la l. 120/2020: peraltro, questa disposizione (art. 20, comma 8, t.u. edilizia) non prevede il meccanismo della dichiarazione sostitutiva. Sicchè, per il noto principio della lex generalis si deve ritenere che la disciplina speciale contenuta nel t.u. dell’edilizia vada integrata con quella della l. 241/90, per cui anche per il permesso di costruire dovrebbe valere il nuovo meccansimo, affidato alla dichiarazione sostitutiva dell’interessato, introdotto dal d.l. 77/2021.
La novella all’art. 20 presenta, peraltro, alcune questioni problematiche.
In primo luogo, non è chiarissimo l’ambito di estensione della attestazione, meglio della certificazione, ovvero se riguardi solamente l’an della formazione del silenzio assenso, oppure anche il quomodo, coinvolgendo pure la legittimità della sua formazione.
Il dubbio nasce dal fatto che la disposizione dapprima prevede che l’attestazione riguardi non solo “l’avvenuto decorso dei termini del procedimento”, ma anche “l’intervenuto accoglimento della domanda”: infatti, se l’amministrazione è tenuta ad attestare “l’intervenuto accoglimento della domanda”, questo potrebbe portare a dire che l’attestazione della formazione del silenzio è un vero e proprio provvedimento espresso comportante esercizio di discrezionalità sulla sussistenza dei presupposti di formazione.
Questo dubbio, però va fugato: si tratta pur sempre di un’attestazione, di una certificazione, priva di contenuto volitivo, essendo una dichiarazione di scienza riferibile solo alla scadenza del termine. Cioè l’attestazione non può essere equiparata a provvedimento espresso e non impone all’amministrazione di fare verifiche sui presupposti relativi ai presupposti sull’accoglibilità. Se, infatti, l’amministrazione a seguito della richiesta si accorge che il silenzio è intervenuto contra legem, sarà semmai tenuta ad avviare un procedimento di annullamento del silenzio attestato.
In secondo luogo, problemi interpretativi li pone la natura della dichiarazione sostitutiva. Trattasi infatti di una dichiarazione che sostituisce una attestazione, cioè una certificazione: e qui già c’è una confusione di piani.
Orbene tale dichiarazione è equipollente alla attestazione amministrativa, sicchè ci si deve chiedere se si tratti di atto privato o, invece, di una vera e propria attestazione rilasciata nell’esercizio privato di pubbliche funzioni.
La ratio della norma sembrerebbe deporre a favore di quest’ultima tesi (per la necessità di chiudere il cerchio): sicchè sembrerebbe che l’interessato sia diventato un commissario civico alla certezza dei tempi procedimentali.
4. Con l’art. 64, si è proceduto a modificare l’art. 21-nonies, l. 241/90, riducendo il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio degli atti autorizzatori e delle sovvenzioni, passando da 18 a 12 mesi. C’è peraltro da chiedersi se un termine così ridotto sia effettivamente ragionevole.
5. A mio modo di vedere, queste disposizioni sono assolutamente insufficienti, se lo scopo – come lo è – è quello di di accelerare i procedimenti amministrativi, in relazione al PNRR che impone il rispetto rigorso dei miles stonesindividuati dal medesimo Piano.
Il giudizio di insufficienza deriva dalla constatazione che mentre il legislatore spinge per accelerare, la giurisprudenza come Penelope di notte, disfa di notte la tela legislativa faticosamente creata.
Cerco di spiegarmi meglio.
Non si può sottacere che nell’aprile scorso il Consiglio di Stato, con adunanza plenaria n. 7, ha perso la grande occasione di un avanzamento di tutela in materia di tempi e termini del procedimento amministrativo.
Come noto, difatti, il CGA per la regione sisiciliana aveva posto la questione se la responsabilità da ritardo avesse, o meno, natura contrattuale.
La risposta del Consiglio di Stato è stata negativa.
A tal fine, è stato evidenziato dall’adunanza plenaria che la disciplina dei tempi del procedimento si inserisce nel rapporto potestà-soggezione, sicchè le relative pretese si risolvono in interesse legittimi, con conseguente configurazione della natura della responsabilità da ritardo in termini extracontrattuali.
Diverse potrebbero essere le critiche da rivolgere a questa pronuncia: me ne limiterò a due.
In primo luogo, la sentenza risulta essere in controcorrente rispetto agli orientamenti legislativi che, in maniera sempre più crescente, tendono a considerare il ”fattore tempo” come un bene della vita a sè, e come obiettivo prioritario dell’ordinamento giuridico. Non solo, dunque, un diritto, ma un vero e proprio ”interesse pubblico alla celerità del procedimento ”, da intendersi come valore primario dell’ordianmento.
In secondo luogo, si negano, dunque, i più autorevoli e maggioritari orientamenti dottrinali che avevano configurato la pretesa al rispetto dei tempi procedimentali come un ”diritto al termine” Inquadrando il ”tempo” come un bene a sè stante, che si inserisce in un rapporto obbligatorio, secondo lo schema diritto-obbligo.
Ecco il salto di cui ci sarebbe veramente bisogno: una espressa previsione legislativa volta a configurare l’aspettativa al rispetto dei tempi procedimentali in termini di ”diritto pubblico soggettivo”, come diritto chiaro, preciso ed incondizionato.
Occorre, dunque, passare dalla logica del potere discrezionale a quella del rapporto obbligatorio.
Se, infatti, la questione della celerità del procedimento è concepita come un fattore lasciato al potere amministrativo ed al suo agire discrezionale, ciò equivale adagiarsi alla diuturnitas amministrativa fatta di lungaggini, riposi, sospensioni, rimandi, navette, rimbalzi di competenza, etc.
Occorre, invece, affermare la natura obbligatoria, in termini di rapporto obbligatorio, della disciplina sul termine del procedimento.
Occorre affermare nettamente che il rispetto del termine è un obbligo dell’amministrazione ed un correllativo diritto del privato.
Se non si taglia la nuova ”foresta pietrificata” eretta dalla giurisprudenza, sarà difficile che l’amministrazione sia capace di adeguarsi alla pressante richiesta di riforme da parte dell’Europa.
Nessun passo decisivo in avanti altrimenti può essere fatto e ci dovremmo rassegnare ad una amministrazione dai ”tempi senza tempo”.
[1] Intervento al webinar “Stato, Autonomie territoriali, imprese e cittadini per l’attuazione del PNRR”, Fondazione Flaminia e Spisa, Ravenna, 15 luglio 2021.
Note brevi a margine della proposta “Cartabia” di riforma della prescrizione penale*
di Licia Siracusa
Sommario: 1. La genesi della riforma - 2. La prescrizione (sostanziale) del reato - 3. La prescrizione del processo - 4. Discrasie e cortocircuiti logici.
1. La genesi della riforma
Fra gli emendamenti del Governo al D.D.L. AC 2435 recante la Delega per la riforma della giustizia penale quelli in materia di prescrizione sono certamente i più discussi e controversi. Attorno ad essi si è rinfocolato un acceso confronto tra posizioni contrapposte tanto sul fronte giuridico, quanto sul terreno politico, a conferma dell’estrema delicatezza delle questioni che vi sono implicate. La prescrizione costituisce in effetti uno snodo cruciale del sistema penale sia rispetto ai rapporti di reciproca interferenza tra diritto penale sostanziale e processo, sia sotto il profilo del raccordo tra la teoria del reato e la teoria della pena. In essa, le ragioni del punire incrociano le istanze del “non punire” legate all’elemento del tempo.
Le modifiche in cantiere si innestano in un più ampio disegno di riforma della giustizia penale voluto dall’ex ministro Bonafede e ora ripreso dall’esecutivo in carica il quale in vista degli obiettivi indicati come prioritari dall’UE ai fini del PNRR, ha preferito percorrere la strada dell’aggiustamento puntiforme del testo, piuttosto che quella di una sua radicale riscrittura. Gli emendamenti approvati si rifanno in gran parte (ma con alcune significative differenze) alle soluzioni prospettate dalla Commissione di studio presieduta da Giorgio Lattanzi cui la ministra Cartabia ha affidato il mandato di elaborare le singole proposte emendative al disegno di legge. La scelta di collegare a doppio filo le novità in materia di prescrizione alla riforma del processo penale rappresenta dunque la naturale prosecuzione dell’impostazione seguita dal precedente esecutivo che il nuovo ha inteso mantenere, nel quadro delle esigenze di speditezza dell’iter di riforma imposte dal Recovery Fund.
Si è trattato di una scelta non neutra né nei contenuti, né rispetto ai possibili esiti, come dimostra il fatto che il nuovo testo colloca sul terreno del diritto processuale i principali rimedi alle storture di sistema create dalla legge “spazzacorrotti” in materia di prescrizione. Se infatti sul versante della disciplina sostanziale, l’emendamento all’art. 14 complessivamente riprende - seppure con taluni correttivi - l’impianto della riforma “Bonafede”, confermando il blocco del decorso della prescrizione a partire dalla sentenza di primo grado, le novità più importanti riguardano proprio il fronte processuale ove si introduce un’inedita “prescrizione del processo” per le fasi del gravame. Facile intravedere dietro tali posizioni il condizionamento esercitato dalla forze politiche di maggioranza che erano state promotrici della legge n. 3/2019 e che non avrebbero gradito un suo radicale superamento.
Sarebbe tuttavia errato giudicare la validità delle proposte avanzate esclusivamente sulla base delle variabili di contesto che ne hanno condizionato la genesi, anche tenuto conto che gli effetti indotti dalla peculiarità del momento storico-politico in cui tali iniziative sono maturate non sembrano essere stati del tutto negativi. Essi hanno per esempio favorito la scelta di un metodo di lavoro improntato ad un certo pragmatismo e l’instaurarsi di un rapporto di collaborazione serrata tra il governo e gli esperti della Commissione Lattanzi. Ne ha giovato il risultato finale tanto in termini di contenimento delle possibili derive populiste in chiave “giustizialista”, quanto sotto il profilo del livello di accuratezza tecnica del testo esitato.
2. La prescrizione (sostanziale) del reato
Sul versante della prescrizione del reato, l’emendamento proposto dal governo conferma - come detto - la scelta compiuta dalla legge n. 3/2019 di bloccare il decorso del termine di prescrizione con la pronuncia della sentenza di primo grado, sia di condanna che di assoluzione. Viene però corretto l’erroneo inquadramento di tale stop tra le cause di sospensione della prescrizione attraverso una nuova collocazione topografica. Si passa dall’art. 159 co. 2 c.p. al coniando art. 161 bis c.p. rubricato “Cessazione del corso della prescrizione”.
La cessazione definitiva del corso della prescrizione non opera però in caso di emissione di un decreto penale di condanna il quale diviene un atto interruttivo della prescrizione. L’emendamento colma inoltre il vuoto della disciplina vigente rispetto alla mancata considerazione degli effetti della sentenza di annullamento della pronuncia di primo grado e prevede espressamente che la prescrizione cominci nuovamente a decorrere dalla data in cui la sentenza di primo grado sia dichiarata nulla.
Infine, si ripristina l’originario limite di efficacia temporale degli atti interruttivi pari “a non più della metà del tempo necessario a prescrivere” che la legge “ex-Cirielli” aveva - com’è noto - da un lato, drasticamente abbassato (non più di un quarto del tempo necessario a prescrivere), dall’altro lato, fortemente parcellizzato, introducendo eccezioni di carattere oggettivo per i reati di particolare allarme sociale di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p. e censurabili deroghe di tipo soggettivo per talune categorie di autori (recidivi, delinquenti abituali e professionali).
Qui si arrestano le modifiche suggerite dal Governo.
La riforma Bonafede non viene drasticamente abrogata, bensì semplicemente emendata. Se ne ribadisce l’impianto complessivo attraverso il mantenimento della sopravvenuta imprescrittibilità del reato a seguito della pronuncia della sentenza di primo grado e se ne limano alcune imprecisioni, ma nulla viene disposto rispetto ad altre questioni cruciali, di indubbio rilievo sistemico che invece rimangono sul tappeto: dalla necessità di una revisione dei criteri di determinazione del tempo necessario a prescrivere introdotti dalla legge “ex-Cirielli” alla riconsiderazione dei rapporti tra prescrizione del reato e prescrizione della pena, in una prospettiva di possibile ricorso a quest’ultima quale “sanzione” per l’irragionevole durata del processo.
La logica del compromesso ha imposto di percorrere la strada di una soluzione ibrida in cui l’intangibilità delle opzioni di fondo della previgente riforma ha costituito il prezzo da pagare per una rapida definizione delle linee di azione del cd. “pacchetto giustizia” dalla cui approvazione dipende non soltanto la buona riuscita del PNRR ma anche la possibilità di introdurre finalmente nel sistema importanti e attese misure di deflazione penalistica tanto in materia processuale, quanto sul versante del sistema sanzionatorio.
3. La prescrizione del processo
Più dirompenti sono invece le modifiche prospettate in materia di prescrizione processuale. L’emendamento governativo prevede una nuova causa di improcedibilità sopravvenuta per superamento dei termini di durata massima del procedimento penale. Dopo la sentenza di primo grado, inizia a decorrere la prescrizione del processo per un tempo pari a due anni per il giudizio di appello e ad un anno per quello di cassazione. Un volta trascorsi tali termini, il giudice dispone il non luogo a procedere.
La soluzione prospettata non costituisce, com’è noto, un’assoluta novità. Essa si colloca nel solco di analoghe proposte in passato presentate al Parlamento[1] e riecheggia posizioni autorevolmente sostenute con varietà di accenti in dottrina, soprattutto tra gli studiosi di diritto processuale[2]. Altrettanto intuibile è la ragione di fondo che la ispira e che è riassumibile nella necessità di impedire che il blocco del tempo dell’oblio del reato lasci l’imputato prigioniero di un processo irragionevolmente lungo, mortificandone il diritto fondamentale “ad essere lasciato in pace” dallo Stato ove il procedimento volto ad accertare il fatto non si sia concluso entro un congruo lasso di tempo.
La nuova “prescrizione del processo” ha dunque ratio e finalità eterogenee rispetto a quella del reato. Essa trae fondamento nel principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) - la cui piena attuazione costituisce a sua volta garanzia per altri diritti fondamentali (difesa, finalismo rieducativo etc.) - e mira a sanzionare i processi irragionevolmente lunghi.
Malgrado siano rispettivamente orientati a soddisfare esigenze diverse, i “due orologi” - quello sostanziale e quello processuale - recano tuttavia effetti sostanzialmente identici. In entrambi i casi, il semplice decorso del tempo rende non punibile il fatto (ed irripetibile il processo).
Eppure, mentre nei confronti dell’orologio che scandisce il tempo della prescrizione del reato l’ordinamento è tenuto, per consolidata giurisprudenza costituzionale, ad assicurare una piena conformità ai fondamentali principi penalistici (riserva di legge, irretroattività in malam partem, finalismo rieducativo della pena etc.), così potrebbe non essere nei riguardi della prescrizione del processo data la sua natura processuale. Che tale sospetto non sia del tutto infondato, lo dimostra la presenza nel testo dell’emendamento di una disposizione temporale transitoria che restringe l’applicazione dei nuovi termini del procedimento ai giudizi di impugnazione aventi ad oggetto reati commessi dal 1°gennaio 2020[3] .
La causa di improcedibilità di nuovo conio è in sostanza, senza alcun dubbio - almeno nelle intenzioni del legislatore - un istituto di natura processuale, come tale sottratto ai vincoli imposti dallo “statuto costituzionale” della prescrizione del reato. Con buona probabilità, la Corte costituzionale farebbe grande fatica ad estendergli la rigida e ampia copertura costituzionale della prescrizione sostanziale.
4. Discrasie e cortocircuiti logici
Alle preoccupazioni espresse riguardo il pericolo che un istituto da cui discende un esito liberatorio dalla scure penale identico a quello della prescrizione del reato resti assoggettato esclusivamente alle garanzie costituzionali relative al piano del processo ma non anche a quelle del diritto penale sostanziale, si aggiungono altri elementi di perplessità sui quali vale la pena di soffermarsi sia pure brevemente, anche in prospettiva di un futuro miglioramento del testo.
- La scelta di non prevedere termini di fase per il primo grado del processo presenta profili di incoerenza rispetto al principio che ispira la riforma. Blindando una fase del processo, essa assegna al diritto dell’imputato “ad essere lasciato in pace” due distinte velocità. Ciò però, di fatto, frustra le istanze di garanzia sottese al diritto in questione, rispetto alla prima fase del processo ove il tempo può invece dilatarsi sine die.
Tale soluzione rischia poi di produrre effetti distorsivi rispetto all’obiettivo di garantire una ragionevole durata del processo, tenuto conto che un processo troppo lungo per un reato non ancora prescritto potrebbe continuare nei successivi gradi, per il tempo previsto, nonostante la violazione della garanzia della ragionevole durata si sia oramai pienamente consumata. Simmetricamente, vi è la possibilità che un processo molto rapido in primo grado svanisca ingiustamente in fase di gravame.
Rimane inoltre in questo modo irrisolto il nodo del grosso numero di reati che si prescrivono in primo grado o nella fase delle indagini preliminari.
- La pronuncia di improcedibilità esclude l’applicazione dell’art. 129 c.p.p., con la conseguenza che l’imputato innocente non avrà altro strumento per ottenere una decisione assolutoria che rinunciare alla prescrizione, accollandosi, con tutta evidenza, il rischio dell’imprevisto. Potrà invece aspirare al proscioglimento pieno l’imputato di un reato che si prescriva prima della fase del gravame.
- Non del tutto in linea con la ratio della riforma appare altresì l’esclusione dalla prescrizione processuale dei procedimenti che hanno ad oggetto reati puniti con la pena dell’ergastolo. Considerato che il nuovo istituto mira a soddisfare istanze garantiste di tipo strettamente processuale - in particolare, il diritto alla ragionevole durata del processo -, a rigor di logica, non dovrebbero prevedersi eccezioni all’improcedibilità per decorso del tempo incentrate su ragioni relative al diritto sostanziale, come invece accade per l’eccezione in questione, chiaramente ispirata al principio di proporzione. Coerenza imporrebbe che tali deroghe sorgessero esclusivamente in presenza di precise esigenze di carattere processuale.
- Dubbi di illegittimità costituzionalità per violazione dell’art. 25 Cost. potrebbero riguardare il comma 4 art. 14 bis nella parte in cui per i delitti di cui all’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p. e per la stragrande maggioranza dei reati contro la pubblica amministrazione affida alla discrezionalità del giudice procedente - in totale assenza di contraddittorio con le parti - la facoltà di prorogare i termini di fase, senza descrivere in modo tassativo le ipotesi che possono giustificare tale decisione.
In tale previsione sembrano peraltro annidarsi anche ulteriori problemi. In primo luogo, la straordinaria ampiezza della gamma di fattispecie incriminatrici per le quali può operare la deroga rischia di annacquare, nei fatti, la finalità di accelerazione della macchina giudiziaria perseguita dalla riforma. Un enorme mole di procedimenti giunti in fase di gravame potrebbe sfuggire alla mannaia del processo breve attraverso un escamotage sostanzialmente rimesso all’arbitrio del giudice ed interamente sottratto al controllo della difesa e delle parti civili.
Un cortocircuito logico parrebbe inoltre delinearsi anche nel rapporto tra il comma 8 e il comma 4 dell’art. 14 bis. L’eccezione prevista dal primo di tali commi si ispira a principi di diritto sostanziale che però perdono inaspettatamente di rilievo rispetto all’insieme di reati di particolare allarme sociale di cui al comma 4, per i quali si prevede invece una deroga incentrata esclusivamente su ragioni di carattere esclusivamente processuale. Così come non si rintracciano ragioni diverse da quelle di un mero opportunismo politico alla base della scelta di includere nel suddetto comma 4 anche i delitti contro la pubblica amministrazione.
- Siano da ultimo consentite due battute conclusive.
Sul versante teorico/sistematico, a fronte dell’obbligatorietà dell’azione penale, la previsione di una prescrizione processuale costituisce un ossimoro difficilmente superabile. Nessuna modifica in tal senso è davvero possibile senza un contestuale ripensamento di tale principio la cui vigenza contribuisce peraltro ad incrementare in materia considerevole il sovraccarico giudiziario e la lentezza della giustizia penale.
Dal punto di vista delle conseguenze pratiche invece, ad assetto organizzativo invariato della macchina giudiziaria e senza un incremento delle risorse materiali e umane disponibili, vi è il serio rischio che la contrazione dei tempi del processo voluta dal governo si compia a spese dei diritti delle parti offese e a costo di significative ricadute in termini di tenuta general-preventiva del sistema. Di tali possibili effetti collaterali occorrerà indubbiamente farsi carico in sede di approvazione definitiva del testo.
*Sul medesimo argomento si rinvia, in questa Rivista, a L'improcedibilità non è la soluzione di Giorgio Spangher
[1] Il riferimento è al DDL. n. 260 presentato al Senato il 20 giugno 2001 dal sen. Fassone ed altri, al DDL. n. 1302 presentato alla Camera l’11 luglio 2001 dall’on. Kessler ed altri ed infine al DDL. n. 1880 approvato in Senato il 20 gennaio 2010 sul cd. “processo breve”. Anche la bozza di Disegno di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice di procedura penale elaborata dalla Commissione Riccio proponeva di affiancare alla prescrizione del reato la prescrizione del processo.
[2] Mazza O., La riforma dei due orologi: la prescrizione fra miti populisti e realtà costituzionale, in Sistema penale online, 21 gennaio 2020; Giostra C., La prescrizione: aspetti processuali, in Giurisprudenza italiana, 2005, p. 2221 e ss.; Id., Un giusto equilibrio dei tempi, sfida per la nuova prescrizione, in Sistema penale online, 13 gennaio 2020.
La proposta fa propria una soluzione minoritaria che era stata discussa e poi non votata in seno alla Commissione Lattanzi e che per questo non è transitata nel testo finale esitato, v. Relazione finale e proposte di emendamenti al DDL AC. 2435, p. 54 e ss.
[3] Ad eccezione di quelli per i quali alla data di entrata in vigore della legge siano già pervenuti gli atti al giudice di appello o alla Corte di cassazione e rispetto ai quali i termini di durata massima del procedimento decorrerebbero dalla data di entrata in vigore della riforma.
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