ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La lesione dell’affidamento: i dubbi sulla giurisdizione e sulla tutela del privato (Nota a margine dell’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria n. 3701 del 2021)
di Giorgio Capra
Sommario: 1. Il caso dinanzi alla Quarta Sezione e i quesiti rimessi alla Plenaria - 2. Il problema della giurisdizione sulla domanda risarcitoria da lesione dell’affidamento: il ragionamento della Sezione remittente - 3. La seconda e la terza questione rimesse all’Adunanza Plenaria: le condizioni per configurare un affidamento giuridicamente tutelabile e la colpa dell’Amministrazione - 4.1. Prime riflessioni a margine dell’ordinanza: in tema di giurisdizione… - 4.2. (segue) e in tema di affidamento e colpa dell’Amministrazione - 5. Rilievi conclusivi in attesa dell’Adunanza Plenaria.
1. Il caso dinanzi alla Quarta Sezione e i quesiti rimessi alla Plenaria
L’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria si inscrive in una complessa vicenda di cui è necessario dare sommariamente conto. La pronuncia trae origine da una domanda risarcitoria proposta dinanzi al TAR Marche da un privato che lamentava di aver subito dei danni in conseguenza dell’annullamento giurisdizionale[1] degli atti di pianificazione urbanistica e dei titoli edilizi rilasciati dal Comune a favore del proprio dante causa. Inoltre, in sede di ottemperanza era stata dichiarata nulla[2] anche la successiva delibera del Consiglio comunale che, ritenendo di poter applicare l’art. 38 d.p.r. n. 380 del 2001, aveva riapprovato la variante annullata.
Nello specifico, la ricorrente – che aveva acquistato il terreno nelle more del giudizio sulla legittimità della variante urbanistica – deduceva a fondamento della propria domanda risarcitoria la lesione dell’affidamento dalla stessa riposto sulla legittimità degli atti emanati dall’Amministrazione.
Il TAR accoglieva il ricorso[3] e condannava il Comune al risarcimento del danno, quantificato nella differenza tra il prezzo pagato dalla ricorrente ed il valore agricolo del terreno nonché nelle spese di costruzione e demolizione dalla stessa sopportate. Infatti, nei giudizi aventi ad oggetto gli atti di pianificazione urbanistica ed i titoli edilizi, la sospensione cautelare del permesso di costruire[4] consentiva comunque la prosecuzione dei lavori fino al livello del piano di campagna.
Il Comune, non costituito in primo grado, appellava quindi la sentenza, lamentando, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e, nel merito, l’erroneità della pronuncia del TAR sotto due distinti profili: da un lato, il giudice di prime cure non avrebbe adeguatamente considerato il comportamento del privato, il quale avrebbe proceduto alla realizzazione delle opere nonostante pendesse un giudizio sul titolo edilizio; dall’altro, il TAR non avrebbe correttamente valutato il requisito della colpa in capo al Comune, nel caso concreto insussistente alla luce della complessità dell’iter amministrativo e giudiziario che aveva interessato, dapprima, la variante al piano regolatore generale e, poi, il permesso di costruire.
La Quarta Sezione investita dell’impugnazione ha rimesso all’Adunanza Plenaria la risoluzione di tre importanti questioni: in primo luogo, se della domanda con cui il privato chiede il risarcimento del danno derivante dall’affidamento dallo stesso riposto sulla legittimità del provvedimento amministrativo annullato giudizialmente debba conoscere il giudice amministrativo; in secondo luogo, in caso di risposta affermativa, quali siano i presupposti perché possa configurarsi un affidamento giuridicamente tutelabile; infine, in presenza di quali condizioni possa escludersi la colpa dell’Amministrazione.
L’ordinanza in commento è ricca di contenuti ulteriori rispetto a quelli che vengono qui presi in considerazione, cionondimeno si reputa opportuno soffermarsi esclusivamente sulla posizione dell’affidamento e sulla giurisdizione sulla domanda risarcitoria da lesione dello stesso per l’indubbia rilevanza che tali profili rivestono da un punto di vista di ricostruzione del sistema di tutela del privato nei confronti della Pubblica Amministrazione.
2. Il problema della giurisdizione sulla domanda risarcitoria da lesione dell’affidamento: il ragionamento della Sezione remittente
Come accennato, il primo quesito sottoposto all’attenzione dell’Adunanza Plenaria è quello relativo all’individuazione del giudice fornito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno proposta da un privato, avente causa del destinatario di una favorevole variante urbanistica, per i pregiudizi conseguenti all’annullamento giurisdizionale dell’atto di pianificazione e del conseguente permesso di costruire.
La Sezione ritiene opportuno investire la Plenaria in quanto la querelle appare tutt’altro che risolta, stante l’inesistenza di un univoco orientamento sul punto della Cassazione e del Consiglio di Stato. Del resto, il Collegio rileva che la risoluzione della questione non interessa solamente i casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ma anche le controversie soggette alla giurisdizione generale di legittimità. Della centralità del problema è prova evidente che proprio la questione della giurisdizione sul danno da affidamento era stata già, poco più di due mesi prima dell’ordinanza in commento, rimessa all’esame della Plenaria[5].
La Sezione rimettente, prima di formulare il quesito, procede alla sintetica ricostruzione degli orientamenti emersi in giurisprudenza. Come noto, si contrappongono due indirizzi specularmente opposti: l’uno attribuisce la giurisdizione sulle controversie risarcitorie del ‘danno da affidamento’ al giudice ordinario, l’altro al giudice amministrativo.
Entrambi gli orientamenti muovono dall’assunto per cui la giurisdizione amministrativa è volta ad apprestare tutela contro l’agire pubblicistico dell’Amministrazione – e, quindi, presuppone che si controverta in ordine alla legittimità dell’esercizio del potere amministrativo in relazione alla lesione di un interesse legittimo – e che l’azione risarcitoria costituisce uno strumento ulteriore per rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della P.A..
Invero, il primo indirizzo[6] attribuisce la giurisdizione al giudice ordinario sul presupposto che in tali casi la causa petendi dell’azione di risarcimento non sarebbe l’illegittimità del provvedimento: il danno, in altri termini, non sarebbe causalmente ricollegato all’illegittimo esercizio del potere, bensì alla lesione dell’affidamento dell’attore nella legittimità del provvedimento.
Il secondo orientamento[7], invece, afferma la giurisdizione del giudice amministrativo, tenuto conto che, a ritenere il contrario, si introdurrebbe una inversione logica tra causa petendi della domanda risarcitoria e illegittimità del provvedimento, ritenendo la prima non causalmente ricollegata all’annullamento del provvedimento. Inoltre, la tesi favorevole alla giurisdizione del giudice ordinario finirebbe con l’operare una non condivisibile distinzione nell’ambito dell’interesse legittimo pretensivo tra il conseguimento legittimo dell’atto ed il suo successivo mantenimento, trascurando del tutto la natura relazionale del nesso che si instaura tra Amministrazione e privato nel rapporto giuridico procedimentale.
Allontanandosi incidentalmente dalla pronuncia in commento, si reputa opportuno, al fine di meglio comprendere le critiche mosse dalla Sezione remittente all’indirizzo favorevole alla giurisdizione del giudice ordinario, riepilogare brevemente i principali nodi argomentativi sviluppati negli arresti inquadrabili nel primo indirizzo, partendo dall’analisi delle ordinanze gemelle del 2011 e, successivamente, delle pronunce nn. 17586 del 2015 e 8236 del 2020.
In particolare, le ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 motivano la sussistenza della giurisdizione ordinaria in ragione del fatto che, nel caso di danno da provvedimento amministrativo illegittimo favorevole annullato, in via di autotutela o all’esito di un giudizio, la parte che invoca una tutela risarcitoria non lamenterebbe “un esercizio illegittimo del potere consumato in suo confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale, ma la colpa che connota un comportamento consistito per contro nella emissione di atti favorevoli, poi ritirati per pronuncia giudiziale o in autotutela, atti che hanno creato affidamento nella loro legittimità e orientato una corrispondente successiva condotta pratica, poi dovuta arrestare”[8].
In sintesi: nel caso di danno da provvedimento favorevole illegittimo non potrebbe esservi giurisdizione del giudice amministrativo in quanto il danno, di cui il privato chiede il ristoro, non sarebbe causalmente ricollegato all’illegittimità dell’atto o del provvedimento amministrativo. L’indirizzo viene, poi, meglio specificato con la successiva, e meglio argomentata[9], ordinanza n. 17586 del 2015. Con tale pronuncia le Sezioni Unite, a seguito del vivace dibattito scaturito dopo le ordinanze del 2011, confermano la giurisdizione del giudice ordinario sulla base di due ulteriori argomenti.
In primo luogo, le Sezioni Unite ritengono che nel contenuto e nell’oggetto della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo pretensivo rientrerebbe esclusivamente l’interesse positivo ad ottenere il provvedimento, mentre resterebbe fuori l’interesse a che l’Amministrazione provveda legittimamente[10]. Sicché, da un lato, con il rilascio del provvedimento favorevole illegittimo, l’interesse legittimo non potrebbe dirsi leso, e, dall’altro, dopo l’annullamento dello stesso disposto dal giudice o dall’Amministrazione in autotutela, l’interesse legittimo non potrebbe dirsi insoddisfatto illegittimamente.
Di conseguenza, l’impossibilità di riscontrare nel caso di specie una ingiusta lesione dell’interesse legittimo conduce le Sezioni Unite ad individuare in capo al privato una diversa situazione giuridica soggettiva: il danno patito dall’amministrato sarebbe ricollegato alla “lesione di una situazione di diritto soggettivo rappresentata dalla conservazione dell’integrità del suo patrimonio”[11].
Alla luce di questi due argomenti, la Cassazione esclude altresì che nelle materie di giurisdizione esclusiva di tali controversie possa conoscere il giudice amministrativo, posto che, in questi casi, non verrebbe in rilievo alcuna controversia sul potere dell’Amministrazione ma solamente una questione relativa alla “attitudine del pregresso esercizio del potere siccome sfociato nel provvedimento illegittimo a determinare come conseguenza causale l’insorgenza di un incolpevole affidamento del privato beneficiario nella permanenza della situazione di vantaggio”[12].
Le Sezioni Unite, da ultimo con l’ordinanza n. 8236 del 2020, hanno portato ‘a compimento’[13] l’indirizzo in esame, affermando la giurisdizione del giudice ordinario anche nel caso in cui l’affidamento non fosse ingenerato da un precedente provvedimento, bensì da un mero comportamento dell’Amministrazione.
Tale ultima pronuncia si segnala per due ulteriori ragioni: in primis, per l’affermazione che, nei casi di danno da affidamento, la lesione non discende dalla violazione delle regole pubblicistiche che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo ma dalla violazione delle regole di diritto privato di correttezza e buona fede – la cui violazione non dà vita a invalidità ma a responsabilità – e, in punto di situazione giuridica soggettiva lesa, per la sostituzione della nozione di ‘diritto alla conservazione dell’integrità del patrimonio’ con un quella di ‘affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione’.
Riepilogate sinteticamente le ragioni della giurisprudenza favorevole alla giurisdizione del giudice ordinario e tornando all’ordinanza in commento, la pronuncia si segnala per le interessanti obiezioni mosse a tale indirizzo.
Infatti, la Sezione ritiene debba affermarsi in materia la giurisdizione del giudice amministrativo sulla base di tre argomenti.
Primo: la natura del ‘diritto all’affidamento’ e quella relazionale dell’interesse legittimo.
Il giudice rimettente ritiene che la situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo pretensivo esprima al contempo due posizioni: un interesse ‘sostanziale’, rappresentato dalla pretesa ad ottenere il ‘bene della vita’, e un interesse che viene definito ‘procedimentale’ a che il provvedimento venga emanato nel rispetto della legge. L’interesse legittimo non può essere ritenuto, utilizzando una locuzione tipica degli albori del diritto amministrativo, un interesse occasionalmente protetto, tutelato esclusivamente – e nei limiti in cui – ciò consenta di soddisfare l’interesse pubblico alla legalità dell’azione amministrativa.
Nella ricostruzione della Sezione, infatti, l’interesse legittimo è la posizione giuridica soggettiva correlata all’esercizio del potere amministrativo ed esso deve essere necessariamente riferito al rapporto, complessivamente inteso, tra richiedente e P.A.: risulterebbe artificioso sovrapporre a tale posizione giuridica soggettiva la diversa situazione sostanziale del ‘diritto all’affidamento’.
Ciò posto, la Sezione remittente vuole dimostrare che, nel caso di danno da provvedimento illegittimo favorevole, non potrebbe neanche configurarsi in astratto una lesione di un diritto soggettivo.
La lesione potrebbe, infatti, essere riferita unicamente ad un interesse legittimo in ragione del fatto che, una volta annullato l’atto abilitativo, verrebbe meno il diritto ad esso conseguente e, quindi, il soggetto che si era visto attribuito il provvedimento annullato, tornerebbe ad essere titolare di un mero interesse legittimo.
Secondo: la nozione di potere amministrativo e il ruolo del giudice amministrativo come giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica.
Ad avviso della Sezione rimettente, l’esercizio di un potere amministrativo si configura, non solo nel caso di diniego illegittimo di un atto amministrativo, ma altresì quando l’istanza venga assentita con un provvedimento illegittimo, con conseguente piena riconducibilità delle controversie de qua all’ambito dell’art. 7 c.p.a..
A tal proposito, il Collegio afferma espressamente che “la pretesa risarcitoria – quando si basa su quanto è accaduto in sede di esercizio del potere amministrativo ‘autoritativo’ o nel corso del procedimento amministrativo’ – non è riconducibile ad un comportamento o a una condotta di rilievo privatistico o svolta in via di mero fatto […] ma si duole dell’esercizio del potere amministrativo, disciplinato dal diritto pubblico”[14] sotto gli aspetti oggettivo, soggettivo e funzionale. In questi casi, la domanda risarcitoria non si basa sulla illiceità di un comportamento ma sull’emanazione – anche se illegittima – del provvedimento amministrativo.
Terzo: incompatibilità con il criterio di riparto della giurisdizione previsto dall’art. 103 della Costituzione.
Assegnando la giurisdizione al giudice ordinario, si introdurrebbero dei criteri di riparto della giurisdizione non compatibili con il dettato costituzionale. E ciò, sia a ritenere che vi sarebbe lesione dell’interesse legittimo – e quindi giurisdizione del giudice amministrativo – solo laddove il provvedimento sia stato illegittimamente negato e non anche nel caso in cui sia stato illegittimamente rilasciato; sia ad aderire alla tesi per cui, nel caso di danno da affidamento, le regole violate avrebbero natura privatistica – in quanto riconducibili ai principii di buona fede e correttezza – e le controversie in materia dovrebbero essere conosciute esclusivamente dal giudice ordinario.
Invero, si finirebbe per veicolare un criterio di riparto basato, nell’un caso, sul carattere satisfattivo o meno del provvedimento e, nell’altro, sulla natura privatistica ovvero pubblicistica delle regole violate, il che, non solo contrasta apertamente con l’art. 103 Cost., ma anche con il principio di concentrazione delle tutele che governa il processo amministrativo.
3. La seconda e la terza questione rimesse all’Adunanza Plenaria: le condizioni per configurare un affidamento giuridicamente tutelabile e la colpa dell’Amministrazione
Nel caso in cui l’Adunanza Plenaria dovesse affermare la giurisdizione del giudice amministrativo, la Sezione ritiene debba essere altresì chiarito in presenza di quali condizioni possa insorgere un affidamento giuridicamente rilevante, anche in relazione al fattore temporale.
Il Collegio sostiene che non si potrebbe riconoscere al privato un affidamento risarcibile in tutti i casi in cui il provvedimento amministrativo favorevole sia stato poi annullato, ma dovrebbe sempre tenersi conto delle peculiarità della fattispecie concreta, da apprezzarsi caso per caso, alla luce delle vicende occorse nell’ambito del procedimento amministrativo.
A ritenere diversamente, infatti, qualsivoglia affidamento del privato potrebbe essere posto a fondamento di una domanda risarcitoria.
La Sezione, a questo punto, procede a richiamare i passaggi logico-argomentativi della precedente ordinanza di rimessione n. 2013 del 2021, distinguendo due orientamenti: un primo indirizzo, più restrittivo, secondo cui la sentenza di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo, avendo acclarato la non spettanza del bene della vita, determinerebbe l’assenza del danno ingiusto e, conseguentemente, l’irrisarcibilità dell’affidamento; un secondo indirizzo che, invece, non nega a priori la tutelabilità dell’affidamento nel caso di provvedimento annullato in sede giurisdizionale, ma condiziona la domanda risarcitoria del privato alla dimostrazione di stringenti requisiti quali la colpa dell’amministrazione, il danno subito dall’istante e il nesso di causalità.
Il Collegio ritiene espressamente che gli esiti interpretativi del primo orientamento siano maggiormente condivisibili.
In particolare, affinché vi sia un affidamento tutelabile, occorre che il privato, oltre a versare in una situazione di buona fede ed assenza di colpa, ritenga di avere titolo a conseguire o mantenere un bene della vita[15]. Sul punto, la Sezione precisa che non si potrebbe configurare un affidamento giuridicamente tutelabile non solo nel caso in cui il provvedimento sia stato annullato giudizialmente, posto che in tale caso sarebbe accertata la non spettanza del bene della vita, ma anche qualora l’illegittimità del provvedimento poteva essere riscontrata dallo stesso beneficiario.
Tale conclusione sarebbe imposta sia alla luce del principio di autoresponsabilità, per cui chi propone un’istanza non accoglibile non può chiedere alcun risarcimento, sia in quanto si verrebbero a determinare inaccettabili conseguenze con riguardo all’assetto del potere di autotutela: l’Amministrazione, in quanto esposta a conseguenze risarcitorie, potrebbe temere di esercitare il proprio potere di secondo grado.
Inoltre, la Sezione rimettente ritiene che nel caso di specie si dovrebbe escludere un affidamento risarcibile: lo stesso potrebbe essere ravvisato solo a condizione che sia trascorso un adeguato lasso di tempo dal conseguimento del provvedimento, tale da ingenerare una ragionevole un’aspettativa alla sua conservazione. Il requisito temporale, invero, difficilmente potrebbe essere soddisfatto nel caso in cui il provvedimento ampliativo venga immediatamente impugnato da un controinteressato.
La terza ed ultima questione rimessa all’Adunanza Plenaria è volta, poi, a chiarire le condizioni in presenza delle quali si possa escludere la colpa dell’Amministrazione.
Nel caso sub judice, infatti, non potrebbe dirsi sussistente la colpa del Comune, in quanto l’annullamento dei provvedimenti sarebbe in concreto dipeso non dalla superficialità dell’Amministrazione nella fase di emanazione dei permessi di costruire, ma esclusivamente per la complessa vicenda amministrativa e giudiziaria riguardante la variante urbanistica; sicché dovrebbe escludersi la rimproverabilità dell’agire dell’Amministrazione e, con essa, la risarcibilità del danno.
4.1. Prime riflessioni a margine dell’ordinanza: in tema di giurisdizione…
L’ordinanza di rimessione appare condivisibile laddove sostiene le ragioni dell’attribuzione alla giurisdizione amministrativa delle controversie in tema di danno da affidamento.
Sin dal 2011, la dottrina giuspubblicistica ha evidenziato – pur con diversità di posizioni[16] – le criticità dell’indirizzo volto ad attribuire la giurisdizione al giudice ordinario. E, a testimonianza di un proficuo dialogo tra accademia e giurisprudenza, gli argomenti utilizzati dalla Sezione rimettente per sostenere le ragioni della giurisdizione del giudice amministrativo sembrano recepire le riflessioni della dottrina.
Il primo argomento utilizzato dalla Sezione rimettente è quello relativo alle posizioni giuridiche soggettive che vengono in rilievo nel rapporto con l’Amministrazione. È un argomento che, nonostante la perdurante difficoltà nel delineare le nozioni di interesse legittimo e di affidamento, dà l’opportunità di inquadrare il problema in un’ottica più generale: v’è, infatti, il serio rischio che la figura del danno da lesione dell’affidamento del cittadino nei confronti dell’Amministrazione, così come ricostruita dalla Cassazione, “manc[hi] di un reale fondamento sistematico e si confond[a] con altre ipotesi, ricondotte al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi”[17].
Come accennato, la questione viene impostata dalla Sezione rimettente nei seguenti termini: l’interesse legittimo è la posizione che si correla all’esercizio del potere, l’interesse legittimo pretensivo esprime sia l’interesse ‘sostanziale’ all’ottenimento del bene della vita, sia l’interesse ‘procedimentale’ a che il provvedimento sia emanato seguendo il procedimento previsto dalla legge. La natura sostanziale, e non meramente processuale, della posizione di interesse legittimo renderebbe improprio sovrapporre a tale situazione giuridica soggettiva la diversa figura dell’affidamento.
Date queste premesse, il ragionamento della Sezione appare pregevole ma non del tutto lineare.
Deve essere necessariamente condiviso nella parte in cui afferma la natura relazionale dell’interesse legittimo. L’interesse legittimo è, infatti, la posizione giuridica soggettiva che si confronta con il potere amministrativo[18] e la relazione che si viene ad instaurare tra il potere e l’interesse legittimo non può che dare luogo ad un particolare rapporto giuridico[19], regolato dal diritto pubblico.
Ed è proprio alla luce della particolare natura della relazione che si instaura tra Amministrazione e privato che non risulterebbe sistematicamente corretto introdurre all’interno di una tale dinamica pubblicistica una diversa situazione di diritto soggettivo, avente ad oggetto il comportamento dell’Amministrazione da un punto di vista prettamente privatistico.
Il ragionamento, invece, appare non del tutto lineare laddove il giudice remittente, ponendo l’accento sia sull’aspetto ‘sostanziale’ sia su quello ‘procedimentale’ dell’interesse legittimo, sembra aderire all’opzione interpretativa che riconduce all’interno della nozione di interesse legittimo, oltre all’interesse all’ottenimento del bene della vita, anche la pretesa alla legittimità dell’agire della pubblica amministrazione. Se questa è la ricostruzione fatta propria dalla Sezione – secondo la tesi già autorevolmente sostenuta da Carlo Emanuele Gallo a margine dell’ordinanza n. 17586 del 2015[20] – se ne dovrebbe logicamente dedurre che il rilascio di un provvedimento favorevole ma illegittimo leda non un diritto soggettivo[21], ma direttamente la posizione di interesse legittimo del privato, con conseguente e obbligata attribuzione della controversia de qua alla giurisdizione del giudice amministrativo.
A questo punto, però, non si comprende la ragione per cui la Sezione abbia ritenuto necessario approfondire la questione, soffermandosi sulla impossibilità di rinvenire diritti soggettivi nelle vicende in cui vengono in rilievo danni da affidamento. L’assenza di diritti soggettivi viene motivata in base alla circostanza per cui, una volta annullato l’atto abilitativo, non sarebbe più configurabile il diritto ad esso conseguente e l’originario richiedente tornerebbe ad essere titolare di un mero interesse legittimo.
Sembra che la Sezione, per superare la giurisdizione del giudice ordinario, avverta la necessità di escludere in concreto la presenza di diritti soggettivi.
In realtà, la controversia dovrebbe spettare alla giurisdizione del giudice amministrativo non tanto per l’impossibilità di riscontrare diritti soggettivi in conseguenza dell’annullamento dell’atto abilitativo, ma, piuttosto, perché non può ragionevolmente ritenersi che l’interesse legittimo pretensivo esprima esclusivamente l’interesse al conseguimento del provvedimento e non anche l’interesse alla sua conservazione.
Del resto, il privato che entra in relazione con l’Amministrazione non solo vuole che la stessa gli riconosca il provvedimento favorevole, ma ha anche un interesse alla stabilità del provvedimento, a mantenerlo una volta ottenuto[22]. Sicché l’annullamento del provvedimento favorevole illegittimo, disposto all’esito di un giudizio amministrativo, lede non un diritto soggettivo all’integrità del patrimonio o un diritto all’affidamento ma direttamente l’interesse legittimo pretensivo del privato. E la lesione dell’interesse legittimo – più che riconducibile all’illegittimità del provvedimento favorevole – sembra determinata dal fatto che la rimozione del provvedimento si riverbera direttamente sull’interesse alla stabilità dello stesso.
Gli altri argomenti richiamati dalla Sezione per affermare la giurisdizione del giudice amministrativo sono quelli relativi al collegamento della controversia con il potere amministrativo e all’incompatibilità dei criteri di riparto derivanti dall’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario con il dato costituzionale.
Com’è noto, l’art. 103 Cost. stabilisce che il criterio di riparto della giurisdizione sia quello della situazione giuridica soggettiva che viene in rilievo: assegna al giudice ordinario le controversie in materia di diritti soggettivi e alla giurisdizione del giudice amministrativo la tutela degli interessi legittimi. La Corte costituzionale ha ulteriormente chiarito che la natura delle materie devolute alla giurisdizione generale di legittimità “è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino dinanzi al giudice amministrativo”[23]. La presenza e l’esercizio del potere autoritativo sono, dunque, indicatori della presenza di una situazione di interesse legittimo[24], la cui tutela anche risarcitoria è assegnata alla giurisdizione del giudice amministrativo[25].
La Sezione rimettente, del tutto condivisibilmente, ritiene che le controversie relative al danno da affidamento siano riconducibili all’esercizio del potere, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.
Del resto, questo profilo era stato evidenziato, sin dal 2011, dalla migliore dottrina che ha affermato che “il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico”[26] e che la tesi della Cassazione “non convince in quanto la controversia è pur sempre collegata all’esercizio di poteri nel quale l’Amministrazione è presente come autorità”[27].
È, infatti, del tutto evidente che tra gli atti di esercizio di un potere amministrativo rientrano non solo il diniego illegittimo di un atto amministrativo ma, altresì, l’assenso ad un’istanza per mezzo di un provvedimento illegittimo[28]. Affermare che la giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario in quanto la causa pretendi del risarcimento risiede “non nel cattivo esercizio del potere amministrativo, bensì, […] in un comportamento (nel cui ambito l'atto di esercizio del potere amministrativo - provvedimentale o adottato secondo moduli convenzionali - rileva come mero fatto storico) la cui illiceità venga dedotta prescindendo dal modo in cui il potere è stato (o non è stato) esercitato e venga prospettata come violazione di regole comportamentali di buona fede e correttezza alla cui osservanza è tenuto qualunque soggetto, sia esso pubblico o privato”[29] sarebbe del tutto improprio.
E ciò a tacer del fatto che l’attribuzione al giudice ordinario delle controversie relative al ‘danno da affidamento’ si accompagna, inevitabilmente, alla prospettazione di criteri di riparto che sembrano inconciliabili con l’art. 103 Cost. così come interpretato dalla Corte costituzionale. A tale risultato si perviene, sia nel caso in cui la giurisdizione venga fatta dipendere dalla satisfattività o meno del provvedimento, sia nel caso in cui si ritenga che la lesione derivi “dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell’Amministrazione”[30]. Nel primo caso, si verificherebbe una frantumazione della giurisdizione anche in relazione a vicende unitarie, perché un provvedimento satisfattivo per il destinatario potrebbe non esserlo con riferimento alla posizione dei terzi[31] e viceversa; nel secondo, si opererebbe un’artificiosa differenziazione, sezionando “in due parti un procedimento che si presenta unitario e orientato, nella sua destinazione, all’interesse pubblico e che non sembra poter essere scisso, a tal punto da determinare l’osservanza di regole differenti aventi diversa destinazione”[32].
4.2. (segue) e in tema di affidamento e colpa dell’Amministrazione
Affrontato il tema della giurisdizione, è ora possibile soffermarsi sulla ricostruzione dell’affidamento proposta nella ordinanza in commento.
Come accennato, la Sezione rimettente muove dalle affermazioni per cui il mero annullamento di un provvedimento favorevole non potrebbe, di per ciò solo, essere posto a base di una domanda risarcitoria e che, affinché possa dirsi sussistente un affidamento, occorrerebbe sempre tenere conto delle peculiarità del caso concreto.
Partendo da questa prima considerazione, la Sezione sviluppa il suo ragionamento, che è in parte non del tutto lineare e in parte solleva alcune perplessità.
Appare ambiguo nella parte in cui, richiamata la precedente ordinanza di rimessione n. 2013 del 2021 e i due orientamenti in tema di danno da affidamento in caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento favorevole, ma illegittimo, il Giudice ritiene di accogliere l’indirizzo più restrittivo, secondo il quale, una volta acclarata, con la sentenza di annullamento del provvedimento, la non spettanza del bene della vita, dovrebbe escludersi sia l’ingiustizia del danno che, conseguentemente, la sua risarcibilità[33]. Infatti, non sembra possibile sostenere che la accertata non spettanza del bene della vita escluda il risarcimento e, contemporaneamente, che il mero annullamento non possa, di per sé solo, essere posto a base della domanda risarcitoria, dovendosi valutare le circostanze del caso concreto. Se, infatti, l’annullamento giurisdizionale del provvedimento esclude l’ingiustizia del danno, non possono – neanche astrattamente – configurarsi particolari circostanze occorse nell’iter procedimentale che consentano di fondare un affidamento giuridicamente tutelabile.
Il Collegio, quindi, pur dichiarando di aderire all’orientamento restrittivo, sembra discostarsene laddove procede, poi, alla disamina dei requisiti della posizione di affidamento per suggerirne la insussistenza nel caso di specie. A prescindere dal fatto che non ci si avvede della ragione per cui, accolta la tesi che nega la tutela risarcitoria del legittimo affidamento in caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento favorevole, il Collegio si soffermi nella ricostruzione della posizione di affidamento, gli esiti interpretativi cui la Sezione rimettente perviene suscitano talune perplessità.
Com’è noto, affinché possa insorgere una posizione di affidamento devono sussistere congiuntamente tre requisiti[34]: uno di carattere soggettivo, consistente nella buona fede e nell’assenza di colpa dell’amministrato; uno di carattere oggettivo, nel senso che l’affidamento deve trovare la propria fonte in un provvedimento o in un comportamento tenuto dall’Amministrazione; e uno temporale, nel senso che l’aspettativa alla stabilità deve essere ritenuta tanto più forte quanto maggiore sia il tempo trascorso.
Ebbene, con riferimento al requisito c.d. soggettivo, la Sezione ritiene che “per aversi affidamento giuridicamente tutelabile in capo al privato, occorra che questi – in buona fede e senza sua colpa – ritenga di avere titolo al conseguimento o alla conservazione di un bene della vita”[35].
Se non può che concordarsi su questa affermazione, non essendo possibile che l’ordinamento tuteli l’interesse – maturato colposamente o, addirittura, in mala fede[36] – alla conservazione del provvedimento favorevole, appaiono discutibili gli approdi successivi.
Il Giudice, infatti, ritiene condivisibile la deduzione difensiva per cui chi si avvale di un provvedimento tempestivamente impugnato lo fa ‘a suo rischio e pericolo’: non potrebbe sussistere un affidamento risarcibile quando il beneficiario dell’atto, dopo l’impugnazione ad opera di un controinteressato, ritenga di effettuare spese che ragioni di prudenza imporrebbero di evitare. La Sezione prosegue affermando che tale principio dovrebbe rilevare a maggior ragione quando l’interessato abbia cominciato l’attività sulla base di una d.i.a./s.c.i.a. e poi il giudice abbia ravvisato l’insussistenza dei relativi presupposti, censurando la mancanza di provvedimenti repressivi dell’amministrazione.
Queste considerazioni, oltre a porsi in contrasto con il principio di presunzione di legittimità dei provvedimenti amministrativi, nonché con la regola per cui, in pendenza di giudizio e in assenza di misura cautelare di sospensione[37], il provvedimento amministrativo continua ad essere pienamente efficace, rischiano di rappresentare un vero e proprio boomerang sulla ripresa economica, specie a seguito della crisi pandemica.
Se, in ragione della impugnazione avverso il provvedimento favorevole, la tutela risarcitoria dell’affidamento venisse esclusa de plano – sulla base della circostanza che l’operatore economico accorto, in una ottica prudenziale, non dovrebbe effettuare spese – si verificherebbero conseguenze non certo auspicabili. Infatti – a portare alle naturali conseguenze l’affermazione della Sezione – sembra che la semplice proposizione di un ricorso giurisdizionale da parte di un soggetto controinteressato valga a determinare una sorta di surrettizia sospensione dell’efficacia del provvedimento: non v’è operatore economico che – a seguito del ricorso di un controinteressato – si accollerebbe, per tutto il tempo necessario a definire il giudizio, il rischio di effettuare spese di importi anche considerevoli laddove, sopraggiunto l’annullamento, verrebbe a trovarsi privo di tutela.
In sostanza, in presenza di un ricorso proposto avverso il provvedimento ampliativo rilasciato a proprio favore, l’operatore economico non intraprenderebbe alcuna attività giacché la risarcibilità del proprio interesse alla stabilità del provvedimento sarebbe sic et simpliciter esclusa, a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto della vicenda.
La criticità di siffatta interpretazione del requisito soggettivo dell’affidamento è tanto più grave laddove il Giudice ritiene che una simile soluzione si imporrebbe, a maggior ragione, per le attività avviate a seguito di segnalazione certificata di inizio attività. E ciò, non solo in quanto le norme di liberalizzazione “celano in realtà l’ingiusto trasferimento dalle amministrazioni ai privati delle responsabilità della ricerca e della lettura delle regole applicabili alle singole fattispecie”[38], ma soprattutto perché tale ricostruzione del requisito soggettivo – se intesa nel senso di escludere la tutela dell’affidamento nel caso in cui l’istanza di sollecitazione dei poteri di controllo dell’Amministrazione sia stata proposta dal controinteressato dopo sessanta giorni dalla presentazione della segnalazione – renderebbe definitivamente la s.c.i.a. uno strumento del tutto inadeguato ai fini del superamento dei regimi autorizzatori ex ante. Dal disposto dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, infatti, sembra emergere che il segnalante debba sopportare il rischio che la propria attività possa essere vietata, inibita o sospesa, esclusivamente per i sessanta giorni successivi alla presentazione dell’istanza. Trascorso quel momento – e stante la fondamentale diversità dei presupposti dell’esercizio dei poteri di controllo dopo i sessanta giorni – deve potersi ammettere, in linea generale, che il segnalante possa maturare un affidamento sulla stabilità del titolo.
Con riferimento al requisito oggettivo, la Sezione osserva che non potrebbe configurarsi un affidamento giuridicamente tutelabile ogniqualvolta il richiedente abbia presentato un’istanza non assentibile. Nel ragionamento del giudice, affermare che il beneficiario del provvedimento annullato possa chiedere il risarcimento del danno significherebbe esonerarlo dalle conseguenze di tale illegittimità: anzi ne trarrebbe vantaggio in relazione alla possibilità di ottenere il ristoro economico dall’Amministrazione[39].
Anche sotto tale profilo, la ricostruzione proposta suscita alcune perplessità.
L’Amministrazione, lungi dall’essere un soggetto incapace per il quale l’ordinamento deve apprestare una particolare tutela[40], occupa una posizione che genera di per sé un affidamento – lato sensu inteso – in capo ai cittadini[41], vieppiù quando riscontra l’istanza del privato con un provvedimento espresso.
Del resto, subordinare la tutela dell’affidamento alla assentibilità dell’istanza e, quindi, alla spettanza del bene della vita, pone un rilievo critico difficilmente superabile: si andrebbe, infatti, a risarcire non l’affidamento ma, direttamente, l’interesse al bene della vita.
Infine, con riferimento all’elemento temporale, si può in linea di massima condividere il principio affermato dalla Sezione, per cui l’affidamento necessita di un certo lasso di tempo per consolidarsi e difficilmente, nel caso di provvedimento favorevole tempestivamente impugnato dal controinteressato, tale requisito potrebbe dirsi integrato.
Tuttavia, occorre osservare come la valutazione circa la sufficienza dell’elemento temporale per maturare un affidamento debba essere, comunque, effettuata alla luce della fattispecie concreta, considerando anche gli altri due elementi: non si dovrebbe negare una tutela risarcitoria dell’affidamento sul solo presupposto dell’esiguità del lasso temporale intercorso dall’emanazione del provvedimento favorevole.
Analizzato il tema della posizione di affidamento è ora possibile soffermarsi brevemente sull’argomento della colpa dell’Amministrazione, oggetto della terza questione rimessa all’Adunanza Plenaria.
In merito si può condividere quanto sostenuto dalla Sezione rimettente: la colpa dell’Amministrazione ben potrebbe non sussistere nel caso in cui il danno sia imputabile alla particolare complessità della vicenda amministrativa.
5. Rilievi conclusivi in attesa dell’Adunanza Plenaria
L’ordinanza in commento rimette alla Plenaria alcune questioni connesse ad un tema complesso e, al contempo, fondamentale nella ricostruzione del sistema di tutela del privato nei confronti dell’Amministrazione, e lo fa sia sotto il profilo della giurisdizione sull’azione risarcitoria da lesione dell’affidamento, sia con riguardo alla ricostruzione di tale posizione sul piano sostanziale.
Sotto il profilo della giurisdizione, non può non auspicarsi che l’Adunanza Plenaria confermi la giurisdizione amministrativa nelle controversie relative al danno da affidamento. Si sono sopra evidenziate le convincenti ragioni che impongono tale soluzione: la giurisdizione del giudice ordinario rischia di non essere sostenibile sotto il profilo sistematico, svalutando la connessione delle controversie con il potere amministrativo e introducendo criteri di riparto che sembrano avulsi da quello previsto dall’art. 103 della Costituzione.
Venendo, invece, alla posizione di affidamento sembra che la ricostruzione proposta dalla Sezione sia eccessivamente restrittiva. È opportuno che la Plenaria si esprima sul punto in modo da non impedire a priori la tutela contro i danni patrimoniali sopportati dall’amministrato che abbia confidato nella stabilità del provvedimento amministrativo. In particolare, i requisiti oggettivo, soggettivo e temporale dovrebbero essere valutati sempre in concreto, alla luce delle vicende del caso specifico. In altri termini: sarebbe opportuno considerare i tre requisiti non come dei compartimenti stagni, bensì come dei vasi comunicanti in grado di compensarsi a vicenda. Dovrebbe, quindi, riconoscersi un affidamento suscettibile di ristoro anche nel caso in cui il provvedimento favorevole, seppur tempestivamente impugnato, sia stato accompagnato da un contegno dell’Amministrazione volto a rassicurare il privato circa la legittimità dello stesso, così da sopperire all’esiguo lasso di tempo entro cui l’affidamento in questione si è consolidato.
Con riferimento alla terza questione rimessa alla Plenaria, pur dovendosi concordare, in linea di principio, con le argomentazioni della Sezione, occorrerà che il giudice amministrativo applichi tale scusante in modo rigoroso ed equilibrato. È, infatti, evidente che riconoscere sic et simpliciter l’assenza di colpa dell’Amministrazione per errore scusabile determinerebbe un vuoto di tutela a danno dell’amministrato.
Infine, corre l’obbligo di rilevare che nell’economia complessiva dell’ordinanza sembrano non essere stati adeguatamente valorizzati due rilevanti elementi del caso concreto: da un lato, la ricorrente aveva acquistato il terreno quando era già pendente il ricorso giurisdizionale per l’annullamento dell’atto di pianificazione – situazione ben diversa rispetto a quella in cui versa il destinatario originario del provvedimento favorevole impugnato – e, dall’altro, successivamente all’annullamento della variante urbanistica e del permesso di costruire, era intervenuta una delibera di riapprovazione della variante, finalizzata alla sanatoria delle opere edilizie ex art. 38 d.p.r. n. 380 del 2001.
Se la prima circostanza, insieme con la sospensione cautelare dei provvedimenti impugnati, potrebbe far ritenere insussistente l’elemento soggettivo dell’affidamento[42], alla luce del fatto che non può certo definirsi non colposo il contegno di chi acquista un terreno edificabile sulla base di una variante urbanistica tempestivamente impugnata, il sopravvenire della ‘sanatoria’ introduce un elemento di ulteriore complicazione, potendo – in astratto – fondare un affidamento distinto rispetto a quello maturabile sul permesso di costruire.
Non sembra che la questione sia risolvibile unicamente sulla base del criterio della spettanza del bene della vita.
Infatti, da una parte, in difetto della reintrodotta variante, si potrebbe dubitare della sussistenza, oltre che dell’elemento soggettivo, anche dell’elemento oggettivo su cui maturare un affidamento. Questo dubbio riporta alla annosa questione della trasmissibilità dell’interesse legittimo[43] e non è certo questa la sede per soffermarsi su un argomento che presenta profili di indubbia complessità. Tuttavia, si deve evidenziare che, eccezion fatta per la voltura[44] del permesso di costruire, in assenza della nuova variante la ricorrente non avrebbe avuto direttamente alcun ‘rapporto amministrativo’ con il Comune, in quanto sia la prima variante urbanistica che il titolo edilizio impugnati erano stati rilasciati a favore del suo dante causa[45].
D’altra parte, la ricorrente aveva comunque ottenuto la ‘sanatoria’ e, quindi, si tratterà di valutare se, ed in che termini, il contegno dell’Amministrazione comunale, insieme agli altri requisiti, avrebbe potuto integrare un affidamento giuridicamente rilevante.
[1] Annullamento avvenuto con sentenza TAR Marche, sez. I, 1.8.2011, n. 630 e confermato con sentenza Cons. St., sez. IV, 19.6.2014, n. 3114.
[2] Con sentenza TAR Marche, sez. I, 8.10.2015, n. 698.
[3] Cfr. TAR Marche, sez. I, 6.5.2020, n. 268.
[4] Concessa con ordinanza TAR Marche, sez. I, 8.7.2010, n. 444 e confermata con ordinanza Cons. St., sez. IV, 29.9.2010, n. 4458.
[5] Con ordinanza Cons. St., sez. II, 9.3.2021, n. 2003. Per un commento all’ordinanza si rinvia a C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[6] Come noto l’indirizzo ha preso avvio dalle ordinanze Cass., SS.UU., 23.3.2011, nn. 6594, 6595 e 6596 – su cui si veda la relazione al convegno svoltosi presso l’Università di Roma Tre l’11 maggio 2011, intitolato “L'azione risarcitoria nei confronti delle pp.AA. e l'eterno dibattito sulle giurisdizioni”, di F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito sulle giurisdizioni tra diritti incomprimibili e lesione dell’affidamento in Foro amm. TAR, 2011, 9, LXVII, nonché M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e la nascita di nuove questioni in Federalismi.it, 2011, 7, 1 e ss. – ed è stato successivamente confermato con ordinanze Cass., Sez. Un., 4.9.2015, n. 17586; 22.5.2017, n. 12799; 22.6.2017, n. 15640; 23.1.2018, n. 1654; 2.3.2018, n. 4996; 24.9.2018, n. 22435; 13.12.2018, n. 32365; 19.2.2019, n. 4889; nonché, da ultimo con ordinanze Cass., Sez. Un.,28.4.2020, n. 8236 e 22.1.2021, n. 615. Anche il Consiglio di Stato ha aderito a questo indirizzo, sul punto, si vedano: Cons. St., sez. V, 27.9.2016, n. 3997; Id., sez. IV, 25.1.2017, n. 293; Id., 20.12.2017, n. 5980; Id., sez. VI, 13.8.2020, n. 5011.
[7] In particolare, si vedano: ordinanze Cass., Sez. Un., 21.4.2016, n. 8057 e 29.5.2017, n. 13454 nonché Cons. St., sez. V, 23.2.2015, n. 857; TAR Abruzzo, sez. I, 20.6.2012, n. 312.
[8] cfr. punto n. 3 di Cass. civ., Sez. Un., ord. 23.3.2011, n. 6596.
[9] C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione in Dir. Proc. Amm., 2016, 2, 564.
[10] Questa è la ricostruzione dell’interesse legittimo autorevolmente sostenuta da Franco Gaetano Scoca. Sul punto, funditus, si veda: F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017.
[11] Cfr. il punto n. 8.3 dell’ordinanza delle Sezioni Unite n. 17586 del 2015.
[12] Così sempre il punto n. 8.3 dell’ordinanza delle Sezioni Unite n. 17586 del 2015.
[13] G. Tropea, A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[14] Cfr. il punto n. 28.8 dell’ordinanza in commento.
[15] Secondo la Sezione, non potrebbero dirsi sussistenti gli estremi per configurare un affidamento tutelabile, non solo, nel caso in cui il privato abbia dolosamente o colpevolmente indotto in errore l’Amministrazione, ma anche laddove la sua pretesa non sia conforme al quadro ordinamentale e non possa, quindi, essere assentita. Si vedano i punti nn. 33.1 e 33.7 della ordinanza in commento.
[16] A favore della giurisdizione del giudice amministrativo si sono, negli anni, espressi: R. Villata, F.G. Scoca, C.E. Gallo, A. Travi. Si distingue la posizione di M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e la nascita di nuove questioni in Federalismi.it, 2011, 7, 11; per cui la giurisdizione dovrebbe spettare al giudice amministrativo “almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva”.
[17] Così A. Travi, Il giudice amministrativo come risorsa? in Questione Giustizia, 2021, 1, 27. La mancanza di reale fondamento sistematico della figura citata e la confusione con altre ipotesi di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi è stato un profilo su cui si è ampiamente soffermata la dottrina amministrativistica. Sul punto, si vedano: M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento in Dir. Proc. Amm., 2011, 2, 899-900, per cui la Cassazione, nel delineare un diritto all’affidamento sulla legittimità dell’atto amministrativo, in realtà sta configurando “un a pretesa al corretto svolgimento dell’azione amministrativa, cioè una posizione che si confronta con l’esercizio del potere, e che dunque non può non dare luogo, secondo le correnti qualificazioni, che ad un interesse legittimo”; A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione in Foro it., 2011, I, 2398, in cui “l’utilità della figura dell'affidamento non deve andare a detrimento della possibilità di identificare una ordinaria situazione soggettiva di interesse legittimo (esattamente come non vi è bisogno di scomodare la figura dell'affidamento, per ammettere il risarcimento nel caso di violazione di obbligazioni contrattuali)”; C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione in Dir. Proc. Amm., 2016, 2, 569; G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo in Riv. giur. ed., 2016, 5, 484, per il quale “la Cassazione sembra volersi ritagliare uno spazio di giurisdizione in questioni che sono chiaramente di interessi legittimi” .
[18] Il rapporto tra potere e interesse legittimo è riconosciuto da tutta la letteratura. Sia da coloro che sostengono che l’interesse legittimo sia una posizione giuridica soggettiva sostanziale strumentale (su tutti: F.G. Scoca, Interesse legittimo: storia e teoria, Torino, 2017, passim) sia da coloro che sostengo la tesi c.d. finale (su tutti G. Greco, Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino in Dir. Amm., 2014, 4, 585) sia, infine, dalla Scuola che riconduce l’interesse legittimo ad un diritto di credito (su tutti: L. Ferrara, Statica e dinamica dell’interesse legittimo: appunti in Dir. amm., 2013, 475; Id., Le ragioni teoriche del mantenimento della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo e quelle del suo superamento in Dir. Pubbl., 2019, 3, 725).
[19] Tale relazione è stata espressamente definita dall’Adunanza Plenaria n. 7 del 2020 in termini di ‘rapporto amministrativo’. Di ‘rapporto amministrativo’ parlano apertamente anche: M. Nigro, Ma che cos’è questo interesse legittimo in Foro it., 1997, V, 469, per cui v’è “un contatto amministrazione-privato che non si esaurisce nel momento di sintesi autorità-libertà, costituita e espressa dall’atto amministrativo, ma si prolunga nel tempo prima e oltre quel momento […] un rapporto amministrativo perché non si saprebbe come definire altrimenti questo contatto durevole in cui si manifestano da una parte e dall’altra poteri, soggezioni, oneri, aspettative, ecc.”; F.G. Scoca, Interesse legittimo: storia e teoria, Torino, 2017, 458 e G. Greco, Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino in Dir. Amm., 2014, 4, 589.
[20] C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione in Dir. Proc. Amm., 2016, 2, 564 e ss.
[21] E ciò a prescindere dal fatto che lo stesso venga ricostruito come diritto all’integrità del patrimonio, come nell’ordinanza n. 17856/2015, o diritto all’affidamento, come da ultimo sostenuto dalle Sezioni Unite con l’ordinanza n. 8236/2020.
[22] Cfr. F.G. Scoca, L’interesse legittimo cit., pag. 466-467 e G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo in Riv. giur. ed., 2016, 5, 495.
[23] Cfr. il punto n. 3.2. della sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004.
[24] F. Caringella, Il riparto di giurisdizione in www.giustizia-amministrativa.it, 2008.
[25] Sui ‘rischi’ che la tutela risarcitoria comporta per il giudice amministrativo si veda F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria in Questione Giustizia, 2021, 1, 133 e ss.
[26] M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e la nascita di nuove questioni in Federalismi.it, 2011, 7, 11.
[27] R. Villata, «Lunga marcia» della Cassazione verso la giurisdizione unica («Dimenticando» l’art. 103 della Costituzione)? in Dir. Proc. Amm., 2013, 1, 349.
[28] M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento in Dir. Proc. Amm., 2011, 2, 898-899; sostiene che all’origine dell’affidamento vi è comunque un provvedimento e, ai fini del riparto, “poco importa che questo sia stato annullato, così come poco importa che si sia trattato un provvedimento illegittimo «favorevole»” mentre “ciò che conta è che l’azione dell’amministrazione, la si qualifichi come si preferisce (atto o comportamento), rimanga pur sempre da collegare, immediatamente o mediatamente, all’«esercizio» del potere pubblico”. Per F.G. Scoca, Il processo amministrativo ieri, oggi, domani (brevi considerazioni) in Dir. Proc. Amm., 2020, 4, 1103; con riferimento, però all’ordinanza n. 8236 del 2020 (che, come accennato, ha assegnato alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia risarcitoria anche nel caso in cui l’affidamento sia maturato non su un previo provvedimento ma su un comportamento della P.A.), ha affermato – con un ragionamento a maiori ad minus estensibile anche al caso di cui occupa – che la Cassazione erroneamente ritiene “vi sia esercizio del potere solo con l’adozione del provvedimento e non nel corso del procedimento, con l’adozione, o non adozione, degli atti endoprocedimentali, o anche con assunzione di comportamenti significativi [e, quindi,] non vede il collegamento (se si vuole indiretto, ma forse anche diretto) tra l’affidamento e l’esercizio del potere, appunto, nel corso del procedimento”.
[29] cfr. il punto 27.2. dell’ordinanza n. 8236/2020 cit..
[30] cfr. il punto n. 26.1 dell’ordinanza n. 8236 del 2020 cit.. Cfr. G. Tropea - A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche in www.giustiziainsieme.it, 2020 che hanno evidenziato come “l’iter prodromico all’esercizio (o al non esercizio) di un potere non possa essere privato della sua prima materia pubblicistica, e dunque derubricato alla stregua di un mero comportamento materiale”.
[31] Sul punto si veda: M. Mazzamuto, op. cit., 906 e C.E. Gallo, op. cit., 575.
[32] A. Di Majo, La responsabilità pre-contrattuale della Pubblica Amministrazione tra tutela dell’interesse pubblico e privato in Riv. giur. ed., 2020, 4, 2, 291.
[33] Sulla criticità di questa interpretazione si veda C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato in www.giustiziainsieme.it, 2021. L’A. ha altresì rilevato una contraddittorietà nel ragionamento della Sezione rimettente laddove, in controversia del tutto analoga a quella che ha dato avvio all’ordinanza in commento, il Giudice, da un lato, “sostiene la connessione del danno al potere amministrativo per richiamare a sé la giurisdizione” e, dall’altro, “sembra negare la risarcibilità del danno [sul presupposto che] non sussisterebbe il comportamento tipico che fonda la lesione dell’affidamento legittimo per ius commune ovvero per la violazione del divieto di venire contra factum proprium”.
[34] Da ultimo, si veda, anche se con riferimento ad una fattispecie relativa all’autotutela, la sentenza Cons. St., sez. III, 8.7.2020, n, 4392 in cui il Giudice afferma “affinché un affidamento sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all’uopo rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l’aspettativa del suo consolidamento, e un requisito soggettivo, che coincide con la buona fede non colposa del destinatario del vantaggio (l’affidamento non è quindi legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa)”. In dottrina, nel fondamentale testo di F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “trenta” all’“alternanza”, Milano, 2001, 127; si definisce l’affidamento come “una situazione giuridica soggettiva caratterizzata da un’aspettativa generata dall’altrui comportamento (che può essere anche inerzia) e tutelata dal principio di buna fede che, in questo caso, prescrive che il successivo comportamento dell’affidante sia coerente con quello che, in precedenza, ha generato l’altrui fiducia”.
[35] Cfr. punto n. 33.1. dell’ordinanza in commento.
[36] Ad esempio, nel caso di provvedimento ictu oculi illegittimo.
[37] Che, si ricorda, nel caso sub judice era stata concessa, pur consentendo la prosecuzione dei lavori fino al livello del piano di campagna.
[38] M.A. Sandulli, La “risorsa” del giudice amministrativo in Questione Giustizia, 2021, 1, 39. Sul tema della liberalizzazione e dei rischi derivanti per il privato si rinvia a: M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in Giustizia insieme, 2 giugno 2020 nonché a M.A. Sandulli, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio, in Id. (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020.
[39] Secondo le argomentazioni già contenute nella sentenza Cons. St., sez. V, 29.10.2014, n. 5346, in cui: “nel caso di proposizione di una domanda non accoglibile, il ‘bene della vita’ non spetta ab origine e il successivo annullamento del titolo abilitativo illegittimamente formatosi non consente di chiedere un risarcimento del danno per la perdita di un quid sostanzialmente non spettante” e, quindi, “non può […] dolersi del danno chi – per una qualsiasi evenienza e con un provvedimento espresso, ovvero a seguito di un silenzio assenso o una s.c.i.a. – abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto oggettivamente non assentibile: in tal caso il richiedente sotto il profilo soggettivo ha manifestato quanto meno una propria colpa (nel presentare il progetto assentibile solo contra legem) e sotto il profilo oggettivo attiva con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno”.
[40] Come sembra emergere dal punto 33.7 dell’ordinanza in commento laddove si legge che “il controinteressato soccombente […] vanta indubbiamente una pretesa risarcitoria nei confronti del progettista che ha elaborato la domanda, la quale è accolta (de plano o previ accertamenti) perché l’Amministrazione la ha considerata attendibile, ‘fidandosi’ del titolo professionale di chi la ha predisposta”. L’ordinanza, sempre al punto 33.7, afferma che in questi casi sarebbe esclusivamente responsabile il progettista: “il controinteressato soccombente – a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale del titolo – vanta indubbiamente una pretesa risarcitoria nei confronti del progettista che ha elaborato la domanda”.
[41] E. Casetta, Buona fede e diritto amministrativo in L. Garofalo (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, I, Padova, 2003, 380.
[42] Come ha ritenuto – estendendo impropriamente tale principio anche alla posizione dell’originario destinatario del provvedimento – la Sezione al punto n. 34.2. dell’ordinanza in commento.
[43] In dottrina, si rinvia ai già citati F.G. Scoca, Interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 468-475; G. Greco, Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino in Dir. Amm., 2014, 4, 616-625; nonché ad A. Nicolussi, Diritto soggettivo e rapporto giuridico. Cenni di teoria generale tra diritto privato e diritto pubblico, in A. Travi (a cura di), Colloquio sull’interesse legittimo, Napoli, 2014, 76 e ss..
[44] Che, comunque, è atto vincolato. Sul punto, si vedano, ex multis: Cons, St., sez. VI, 20.10.2014, n. 5159; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 22.10.2020, n. 2736; Id., sez. I, 15.2.2007, n. 276; Cass. civ., sez. un., 22.10.2003, n. 15812.
[45] In questa ipotesi, ben diverso sarebbe stato se la ricorrente avesse ricevuto rassicurazioni dal Comune circa la legittimità della variante e del titolo edilizio rilasciati al suo dante causa oppure se la stessa – acquistato il terreno dopo che l’atto di pianificazione e il titolo edilizio fossero divenuti inoppugnabili – fosse stata destinataria di un annullamento d’ufficio, casi in cui – a rigore – dovrebbe riconoscersi un affidamento giuridicamente rilevante.
Mahienour El-Masry: difendere ad ogni costo i diritti umani in Egitto prima e dopo la “rivoluzione del Nilo”
di Federico Cappelletti
Sommario. 1. Premessa. La difesa dei diritti umani in Egitto oggi: una missione ad alto rischio - 2. Mahienour el-Masry e la libertà ritrovata dopo 665 giorni di carcerazione preventiva - 2.1. Le tappe della persecuzione giudiziaria iniziata nel 2014 - 3. Avvocati per i diritti umani perseguitati ed uccisi in Egitto a causa dell’esercizio della professione - 4. L’intervento delle istituzioni e della comunità forense internazionali a sostegno degli avvocati egiziani ingiustamente perseguitati - 5. Conclusioni. Dedicato a tutte le anime e gli esseri coraggiosi.
1. Premessa. La difesa dei diritti umani in Egitto oggi: una missione ad alto rischio
I casi di Giulio Regeni e Patrick George Zaky - che hanno scosso l’opinione pubblica italiana ed internazionale disvelando ai più come gli abusi di potere e le violazioni di diritti umani in danno di attivisti, studenti, ricercatori e oppositori del governo siano all’ordine del giorno - incarnano il paradigma delle modalità con le quali si esplica ai giorni nostri la repressione del dissenso in Egitto.
Giulio Regeni, giovane ricercatore italiano che frequentava il dottorato in Studi dello Sviluppo presso l’Università di Cambridge, fu sequestrato la sera del 25 gennaio 2016 al Cairo e ritrovato cadavere la mattina del 3 febbraio successivo sopra un cavalcavia nel deserto fra il Cairo ed Alessandria, con il corpo completamente sfigurato, la pelle marchiata da bruciature di sigaretta, le ossa di polsi, spalle e piedi frantumate[1].
Patrick George Zaky, ricercatore egiziano e studente del Master internazionale in Studi di genere all’Università di Bologna, il 7 febbraio 2020 è stato arrestato all’aeroporto del Cairo dove era atterrato dall’Italia per una breve vacanza in famiglia. Di lui si sono perse le tracce per quasi 24 ore durante le quali sarebbe stato interrogato subendo torture arrecategli con scosse elettriche e percosse, tuttavia, in modo da non lasciare tracce sul suo corpo. Da un anno e mezzo a questa parte è detenuto in custodia cautelare per i reati di “istigazione a proteste e propaganda di terrorismo sul proprio profilo Facebook”[2].
I rapporti annuali tanto di organizzazioni internazionali[3], quanto delle rappresentanze diplomatiche in Egitto[4], segnalano, infatti, tra le violazioni significative in tema di diritti umani uccisioni illegali o arbitrarie, comprese le esecuzioni extragiudiziali da parte del governo o dei suoi agenti; sparizioni forzate; tortura e casi di trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti da parte delle autorità; condizioni carcerarie dure e tali da mettere a repentaglio la vita stessa dei detenuti; detenzioni arbitrarie o per fini politici; rappresaglie a sfondo politico contro individui situati fuori dal paese; interferenze arbitrarie o illegali nella privacy; gravi restrizioni alla libertà di espressione, alla stampa e a internet, tra cui arresti o procedimenti giudiziari nei confronti di giornalisti, censura, blocco dei siti; sostanziali interferenze con i diritti di riunione pacifica e la libertà di associazione, come le leggi eccessivamente restrittive che regolano le organizzazioni della società civile; restrizioni alla partecipazione politica; violenza contro persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali e uso della legge per arrestarle e perseguirle arbitrariamente. Viene, altresì, evidenziato come i funzionari che hanno commesso abusi, sia nei servizi di sicurezza che altrove nell’apparato di governo, siano stati puniti o perseguiti in modo incoerente. Nella maggior parte dei casi, non sono state condotte indagini esaustive sulle accuse di violazioni dei diritti umani, compresa la maggior parte degli episodi di violenza da parte delle forze di sicurezza, contribuendo, così, a generare un clima di impunità.
Tra i difensori dei diritti umani vittime della repressione figurano anche molti appartenenti al ceto forense fra i quali l’avvocata Mahienour el-Masry, che più volte è stata privata della libertà personale a causa dell’indefesso impegno profuso per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali.
2. Mahienour el-Masry e la libertà ritrovata dopo 665 giorni di carcerazione preventiva
Nel pomeriggio di domenica 18 luglio 2021 le agenzie di stampa hanno rilanciato la notizia, pubblicata sui social media dalla sorella, della tanto inattesa quanto desiderata scarcerazione di Mahienour el-Masry, rinomata avvocata ed attivista dei diritti umani egiziana di Alessandria, che, a dispetto dei suoi 35 anni, è da tempo un punto di riferimento nel suo Paese per la difesa dei diritti dei lavoratori, delle donne e dei rifugiati.
Era detenuta dal 22 settembre 2019, quando tre agenti di polizia in borghese l’avevano tratta in arresto e rinchiusa in un minivan fuori dalla sede della tristemente nota Procura Suprema di Sicurezza dello Stato[5], nel quartiere del Quinto Insediamento del Cairo, dove si trovava per assistere diversi suoi clienti arrestati durante le proteste scoppiate in tutto il paese il 20 e 21 settembre 2019 volte a chiedere le dimissioni del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Nel corso di tali manifestazioni sono state incarcerate decine di persone - minorenni inclusi - oltre a giornalisti, avvocati e membri dei partiti politici di opposizione, in una vera e propria ondata di repressione della società civile[6].
Successivamente è stata interrogata dal Procuratore supremo per la sicurezza dello Stato nell’ambito del procedimento penale n. 488/2019, relativo alle accuse di “aiutare un gruppo terroristico a raggiungere i suoi obiettivi” e “diffondere notizie false”, per aver preso parte alle proteste del marzo 2019 scatenate da un incidente ferroviario mortale al Cairo che aveva provocato la morte di 25 persone e decine di feriti. A seguito dell’incombente, il Procuratore aveva ordinato la sua detenzione cautelare nel carcere femminile di Al-Qanater, ove, allo scoppio della pandemia da COVID-19, si vedeva revocare dalle autorità il permesso di inviare lettere alla famiglia.
Il 30 agosto 2020 è stata sottoposta ad indagini in un nuovo procedimento penale (n. 855/2020) con l'accusa di “adesione ad un’organizzazione terroristica” insieme ad altri difensori dei diritti umani, avvocati e giornalisti, come Esraa Abdelfattah, Solafa Magdy e Mohamed el-Baqer.
2.1. Le tappe di una persecuzione giudiziaria iniziata nel 2014
Quella appena descritta, purtroppo, non è che l’ultima tappa di una vera e propria persecuzione giudiziaria in atto nei suoi confronti, dato che dal 2014, suo malgrado, è entrata ed uscita più volte dal carcere a causa del suo attivismo per i diritti umani e dell’esercizio legittimo dei suoi diritti alla libertà di espressione e di riunione pacifica.
La polizia l’ha arrestata una prima volta il 12 aprile 2014 mentre si trovava in un negozio di abbigliamento nel distretto di Mohram Bey ad Alessandria.
Il 2 gennaio 2014, infatti, era già stata condannata in contumacia alla pena di due anni di reclusione ed alla multa di 50 mila sterline egiziane per aver violato la legge n. 107 del 2013 - che vieta di riunire 10 o più persone senza un permesso rilasciato dalle autorità[7] - aggressione alle forze di sicurezza e blocco del traffico, in relazione agli eventi accaduti il 2 dicembre 2013 quando l’avvocata el-Masry aveva preso parte ad una manifestazione pacifica di solidarietà dinnanzi al Tribunale di Alessandria ove si stava svolgendo la quarta udienza del processo per omicidio di Khaled Saeed, figura emblematica della rivoluzione del 25 gennaio 2011, rapito in un internet cafe e torturato a morte da due poliziotti a Sidi Gaber il 6 giugno 2010[8].
Il processo di primo grado è stato celebrato nuovamente in sua presenza e la condanna inflittale in absentia è stata confermata il 20 maggio 2014 dal Tribunale penale di Sidi Gaber ad Alessandria dopo aver rigettato la richiesta dei difensori di rinviare il processo.
Il 20 luglio 2014, la Corte d'appello ha ridotto la pena detentiva a 6 mesi e confermato nel resto.
Nel corso della carcerazione ha rifiutato qualsiasi amnistia a meno che non fosse abrogata la legge contro le manifestazioni ed ha evidenziato l’incongruenza ed il paradosso della situazione che si trovava a vivere riassunto efficacemente dalle sue stesse parole: “Abbiamo protestato per abbattere un sistema politico e giudiziario e ora c'è un regime che è arrivato al potere attraverso le manifestazioni che ci mette in prigione per aver protestato”[9].
Il 21 settembre 2014 è stata scarcerata dopo che la Corte d'Appello di Alessandria ha sospeso la sua condanna a sei mesi di carcere a seguito di ricorso alla Corte di Cassazione[10].
Ciò le ha permesso di presenziare il 31 ottobre 2014 a Firenze[11] alla consegna del prestigioso premio internazionale Ludovic Trarieux - un riconoscimento conferito agli avvocati per i loro contributi alla difesa dei diritti umani - che le era stato assegnato mentre si trovava in detenzione[12].
Nel febbraio del 2015 è stata condannata a due anni di reclusione, ridotti a un anno e tre mesi in appello, per “protesta senza autorizzazione”, “danneggiamento di proprietà della polizia”, “attacco alle forze di sicurezza” e “minaccia alla sicurezza pubblica”, imputazioni afferenti la sua partecipazione, il 29 marzo 2013, a una protesta davanti alla stazione di polizia di al-Raml ad Alessandria per solidarizzare con gli avvocati che erano stati colà trattenuti e interrogati e che avevano accusato gli agenti di polizia di averli aggrediti verbalmente e fisicamente. Il 13 agosto 2016 è stata scarcerata dopo aver scontato l’intera pena. Il 14 giugno 2017, Mahienour, e gli attivisti Moataseem Medhat, Asmaa Naeem, Waleed el-Amry e Ziad Abu el-Fadl hanno partecipato a una protesta ad Alessandria contro la decisione del governo egiziano di cedere il controllo di due isole, Tiran e Sanafir, al Regno dell'Arabia Saudita. Il 18 novembre 2017, il Tribunale per i reati minori Montazah di Alessandria ha ordinato la detenzione preventiva di Mahienour el-Masry e Moataseem Medhat. Il 30 dicembre 2017, lo stesso Tribunale ha condannato entrambi a due anni di carcere per “partecipazione a una protesta non autorizzata” e “dimostrazione di forza”. Il Tribunale ha anche condannato gli altri tre attivisti a tre anni di prigione, in absentia. Il 13 gennaio 2018, la Corte d'appello di Montazah ad Alessandria ha assolto l’avvocata el-Masry e Moataseem Medhat da tutte le accuse.
In realtà Mahienour el-Masry, molto prima della rivolta del 25 gennaio 2011, la c.d. “rivoluzione del Nilo”, si era già messa in luce per la sua volontà di aiutare coloro che non erano in grado di rivendicare diritti per sé stessi, per i più indifesi. Fin dall’inizio della sua carriera si era, inoltre, contraddistinta per l’impegno in favore dell’indipendenza della magistratura, dei diritti dei detenuti, fra i quali i prigionieri politici, del diritto di organizzare manifestazioni pacifiche, utilizzando i social media per veicolare le denunce delle violazioni dei diritti umani. Ha fornito assistenza legale alle famiglie dei martiri, a centinaia di lavoratori licenziati pretestuosamente e fondato insieme al medico ed attivista Taher Mukhtar, il Refugee Solidarity Network, un’associazione volta a garantire l'assistenza medico-legale ai rifugiati sirani e siriano-palestinesi detenuti nelle carceri di Alessandria per aver tentato di raggiungere clandestinamente le coste europee via mare.
Dopo la rivoluzione del 2011 ha continuato, come continua, instancabilmente ad adoperarsi credendo fermamente che i cittadini rivestano un ruolo centrale per il cambiamento del sistema egiziano e che lo scopo della rivolta fosse quello di cambiare il regime e non il tiranno.
3. Avvocati per i diritti umani perseguitati ed assassinati in Egitto a causa dell’esercizio della professione
La storia di sofferenza ed attaccamento ai valori della professione forense dell’avvocata el-Masry non è, purtroppo, isolata e la comunità dei giuristi e della società civile ne è ben consapevole.
Lo testimonia il fatto che nel 2020 il premio per i diritti umani del CCBE, il Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa, è stato assegnato proprio a sette avvocati egiziani, fra i quali la stessa Mahienour el-Masry, che si sono distinti nella difesa dei diritti umani[13]. Si tratta di Haytham Mohammadein[14], avvocato per i diritti umani e attivista sindacale già arrestato più volte, l’ultima delle quali il 12 maggio 2019, tuttora, in custodia cautelare in carcere; di Hoda Abdelmoniem[15], avvocata, - già componente del Consiglio nazionale per i diritti umani, portavoce della Coalizione rivoluzionaria delle donne egiziane e consulente del Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà - brutalmente arrestata nel cuore della notte del 1 novembre 2020 da 20 agenti che hanno forzato la porta del suo appartamento e l’hanno bendata; di Ibrahim Metwally Hegazy[16], avvocato, tra gli altri, della famiglia di Giulio Regeni, membro della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (ECRF) e co-fondatore dell'Associazione egiziana delle famiglie degli scomparsi (EAFD), arrestato il 10 settembre 2017 all’aeroporto del Cairo mentre stava partendo per Ginevra dove lo attendeva una vertice del Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite e, tuttora, in detenzione preventiva nel carcere di Aqrab; di Mohamed el-Baqer[17], avvocato specializzato nella difesa dei diritti umani, fondatore e direttore del Centro Adalah per i diritti e le libertà, che si occupa dal 2014 dell’assistenza legale delle vittime di detenzione arbitraria, della difesa dei diritti degli studenti, nonché delle questioni relative al trasferimento forzato della popolazione nubiana. Si trova in custodia cautelare in carcere dal 29 settembre 2019 quando è stato arrestato nell’edificio della Procura Generale mentre rappresentava il blogger e difensore dei diritti umani Alaa Abdel Fattah. Entrambi sono stati arrestati con l’accusa di diffondere informazioni false e utilizzazione abusiva dei social media, così come di aver fondato e fatto parte di un gruppo terroristico. Entrambi sono stati trasferiti nell’ala 2 del carcere di Tora, nota per le sue condizioni di detenzione inumane.
Inoltre, sono stati premiati Mohamed Ramadan, avvocato che patrocina abitualmente i casi dei difensori dei diritti umani, arrestato il 10 dicembre 2018, attualmente in detenzione preventiva e Zyad El-Eleimy, avvocato ed ex parlamentare, arrestato il 25 giugno 2019 al Cairo a tutt’oggi in custodia cautelare nel carcere di Tora[18].
Da quanto sin qui esposto emerge chiaramente come gli avvocati ed, in generale, i difensori dei diritti umani che esercitino la loro professione in coscienza, libertà ed indipendenza diventino automaticamente dei bersagli da silenziare definitivamente - come accaduto a Karim Hamdy, avvocato di 27 anni che nel febbraio del 2015 è stato prelevato dalle forze di sicurezza presso la sua abitazione del Cairo, sequestrato, torturato fino alla morte come ha testimoniato dagli esiti dell’autopsia sul cadavere che dava conto della frattura di alcune costole e di percosse che avevano causato lividi ed emorragie al petto e alla testa[19] - o temporaneamente, come nei casi di Amr Imam, Zyad El-Elaimy e Gamal Eid.
Il 16 ottobre 2019, l’avvocato Amr Imam[20] è stato arrestato dalla polizia presso il suo domicilio dopo aver annunciato l’intenzione di intraprendere uno sciopero della fame per protestare contro gli arresti arbitrari dei difensori dei diritti umani e gli abusi della polizia.
Gli è stato impedito di telefonare al suo avvocato ed ai propri famigliari ed il luogo di detenzione è rimasto sconosciuto per 24 ore.
Il 17 ottobre 2019 è comparso davanti al Procuratore supremo per la sicurezza dello Stato ed è stato formalmente sottoposto ad indagini per “collaborazione con un’organizzazione terroristica”, “diffusione di notizie false” e “utilizzo abusivo di un social network”. Si trova attualmente detenuto in custodia cautelare presso il carcere di Tora, dove le visite dei famigliari e l’accesso degli avvocati sono fortemente limitati[21].
Nel gennaio 2014 era stato minacciato con la pistola alla stazione di polizia Maadi quando insisteva nel chiedere di vedere dei suoi clienti arrestati durante una manifestazione[22].
L’avvocato per i diritti umani ed ex parlamentare Zyad El-Elaimy[23] è stato arrestato nel 2019 e si trova tuttora in detenzione preventiva per “aver diffuso informazioni false con l’intenzione di creare panico tra la popolazione e disturbare l’ordine pubblico” avendo rilasciato un’intervista alla BBC in cui ha denunciato la pratica delle sparizioni forzate e l’uso della tortura da parte delle autorità egiziane. È stato, altresì, inserito per cinque anni nella lista dei terroristi suscitando la presa di posizione da parte degli esperti delle Nazioni Unite, che, tuttavia, non ha sortito gli effetti sperati[24].Ezzat Ghoneim è un avvocato e difensore dei diritti umani impegnato nella difesa delle garanzie del giusto processo e nel monitoraggio delle sparizioni forzate. Dal 2014 è direttore esecutivo della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (ECRF), organizzazione che denuncia arresti arbitrari, sparizioni forzate, violazioni della libertà di espressione, negligenza medica e tortura nelle carceri.Dopo essere scomparso per quasi cinque mesi è stato fatto comparire avanti al Tribunale di Tura il 9 febbraio 2019. Continua ad essere detenuto in custodia cautelare, con le accuse di “diffamazione” e “adesione a un gruppo illegale”[25].
Dal 2016, l’avvocato Gamal Eid[26] è vittima di persecuzione giudiziaria nell’ambito del caso sui “Finanziamenti esteri”, chiamato caso n°173, che coinvolge più di 40 organizzazioni della società civile ed i loro rappresentanti. I suoi conti ed i beni familiari sono stati sottoposti a sequestro per ordine del Tribunale penale del Cairo. Non può uscire dall’Egitto e rischia fino a 25 anni di prigione.
Gamal Eid è un eminente avvocato e difensore dei diritti umani in Egitto soprattutto dei diritti correlati alla libertà di espressione. È il fondatore dell’Arabic Network for Human Rights Information (ANHRI), rete istituita nel 2003, che promuove la libertà di espressione in Egitto e fornisce assistenza giuridica ai difensori dei diritti dell’uomo e ai giornalisti. L’associazione ha ricevuto lo Human Dignity Award nel 2011 da parte della fondazione Roland Berger.
Dal 30 settembre 2019 è vittima di minacce, aggressioni e di atti di vandalismo. Ha ricevuto numerose telefonate e messaggi in cui gli si intimava di interrompere l’attività che stava svolgendo e di “comportarsi bene”. La sua automobile è stata rubata il 30 settembre in una delle strade principali del Cairo all’ora di punta. L’automobile è stata identificata da diverse telecamere di sorveglianza, ma l’inchiesta non ha avuto seguito.
Il 10 ottobre 2019 è stato vittima di un’aggressione da parte di due uomini armati in abiti civili che hanno tentato di rubargli il telefono ed il computer, è stato ferito ad un braccio e alla gamba ed ha riportato la frattura di diverse costole. Nessuna indagine è stata avviata in relazione a questi accadimenti nonostante siano stati denunciati dall’avvocato Eid.
Il successivo 30 ottobre ha ricevuto una chiamata telefonica durante la quale è stato minacciato e il giorno dopo l’automobile che aveva noleggiato, a seguito del furto del proprio veicolo, è stata vandalizzata. I suoi vicini hanno testimoniato di aver visto diverse persone armate fermarsi davanti all’automobile e poi chiamare qualcuno per comunicare i dettagli dell’automobile[27].
4. L’intervento e le iniziative delle istituzioni internazionali e della comunità forense a sostegno degli avvocati egiziani ingiustamente perseguitati
I continui arresti, spesso senza mandato, il mantenimento in isolamento e la prolungata carcerazione preventiva di difensori dei diritti umani, fra i quali, come evidenziato, molti avvocati, accusati di aver commesso ipotesi di reato pretestuose ed infondate, hanno suscitato molteplici prese di posizione da parte delle istituzioni e dell’Avvocatura internazionali.
In particolare, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani, Mary Lawlor, è intervenuta due volte nel corso di quest’anno. Una prima, nel mese di gennaio, per stigmatizzare l’abuso delle leggi antiterrorismo e di sicurezza nazionale per criminalizzare il lavoro dei difensori dei diritti umani nel paese. Ciononostante, molti altri sono stati successivamente incarcerati in attesa di giudizio per fattispecie di reato previste da tali normative che comportano dei considerevoli aggravi di pena.
“Esercitare il proprio diritto alla libertà di espressione, associazione o riunione pacifica non è un crimine. Tutti hanno il diritto di promuovere e proteggere i diritti umani. Non c'è alcuna giustificazione per le azioni intraprese contro i difensori dei diritti umani dalle autorità egiziane”: è la sintesi del pensiero espresso della relatrice speciale in un nuovo comunicato del 15 luglio 2021, che ha, altresì, evidenziato come essi vengano abitualmente sottoposti a detenzione preventiva per periodi di quindici giorni rinnovati in continuazione fino ad arrivare comunemente a due anni senza che sia celebrato il processo, col rischio di essere associati a nuovi casi per presunti crimini previsti dalla stessa normativa, pratica particolarmente comune per neutralizzare le scarcerazioni disposte dai tribunali[28].
In precedenza, l’Alta Commissaria per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, aveva condannato gli arresti di alcuni esponenti dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona (EIPR), fra i quali Patrick George Zaki, inquadrandoli in un modello più ampio di intimidazione delle organizzazioni che difendono i diritti umani e dell’uso della legislazione antiterrorismo e di sicurezza nazionale per silenziare il dissenso.
Del pari, era stato denunciato come l’uso sovrabbondante delle leggi antiterrorismo e di accuse indefinite come “unirsi a un'organizzazione terroristica” e “diffondere false informazioni” per vessare e criminalizzare il lavoro dei difensori dei diritti umani non fosse coerente con lo stato di diritto e con gli obblighi assunti a livello internazionale dall'Egitto in tema di diritti umani[29].
Anche il Parlamento Europeo con risoluzione del 16 dicembre 2020 sulle violazioni dei diritti umani in Egitto, citando come esempi i casi di Giulio Regeni e Patrick George Zaki, ha deplorato la crescente repressione in atto in Egitto per mano delle autorità statali e delle forze di sicurezza, da un lato, invitando l’Unione Europea ad avvalersi di tutti gli strumenti a disposizione per rispondere alle gravi violazioni, inclusa la possibilità di adottare misure restrittive nei confronti di funzionari egiziani di alto livello responsabili delle violazioni più gravi, dall’altro, chiedendo agli Stati membri di astenersi dal concedere riconoscimenti ai leader politici responsabili di violazioni dei diritti umani[30].
Sul versante dell’Avvocatura, se l’Ordine nazionale egiziano, che consta di circa seicentomila iscritti, ha manifestato scarsa reattività rispetto alla violazione dei diritti fondamentali[31], la comunità forense internazionale ha, viceversa, dimostrato, come dimostra, una grande attenzione nei confronti delle Colleghe e dei Colleghi ingiustamente perseguitati a causa dell’esercizio della propria attività.
In particolare, è stata loro dedicata l’edizione del 2018 della giornata internazionale dell’avvocato minacciato[32], sono periodicamente redatti appelli e petizioni in loro favore ed esercitate azioni di lobbying nei confronti delle istituzioni internazionali per sensibilizzare al tema in generale e a casi specifici[33], nonché organizzate fact-finding missions[34] all’esito delle quali stilare report da diffondere e valorizzare anche in ambito giurisdizionale.
Il comune denominatore di tutte le suesposte iniziative è quello di richiamare l’attenzione del Governo egiziano e della comunità internazionale affinché venga assicurato il rispetto dei Principi Fondamentali relativi al Ruolo degli avvocati, adottati dalle Nazioni Unite nel corso dell’Ottavo Congresso sulla prevenzione del crimine e sul trattamento degli autori di reati tenutosi a L’Avana dal 27 agosto al 7 settembre 1990[35]. Fra di essi, in particolar modo, il Principio 16: “I governi devono garantire che gli avvocati (a) siano in grado di svolgere tutte le loro attività professionali senza intimidazioni, ostacoli, molestie o interferenze improprie; (b) siano in grado di viaggiare e di consultare liberamente i loro clienti sia all'interno del loro paese che all’estero; e (c) non debbano subire, o essere minacciati di subire, azioni penali o sanzioni amministrative, economiche o di altro tipo per qualsiasi attività compiuta in conformità ai doveri professionali riconosciuti, agli standard ed alla deontologia”, il Principio 17: “Qualora la sicurezza degli avvocati sia minacciata nell’esercizio della loro professione, essi devono essere protetti adeguatamente dalle autorità”, cosi come il Principio 18: “Gli avvocati non devono essere identificati con i loro clienti o con le cause dei loro clienti come conseguenza dell’esercizio delle loro funzioni”. Si tratta di regole che devono rimanere inviolabili perché sono dei modelli da seguire per i Paesi delle Nazioni Unite che vogliono dotarsi di una vera giustizia e che fanno derivare un vero e proprio obbligo in capo agli Stati di protezione degli avvocati nell’esercizio della loro professione[36].
Anche l’organizzazione di eventi volti a far sì che il Foro e l’opinione pubblica si preoccupino e, soprattutto, si occupino delle Avvocate e degli Avvocati minacciati in Egitto, così come nel mondo, assume una grande importanza.
Proprio dall’invito rivolto, per il tramite del sottoscritto, alla comunità internazionale, ed a quella dei giuristi in particolare, dall’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh - orgoglio e simbolo di un’Avvocatura disposta a rinunciare anche alla propria libertà per difendere i diritti degli altri e dei più deboli, in particolare - di dedicare la stessa attenzione con la quale sono seguite le sue vicende anche alla situazione degli altri avvocati e difensori dei diritti umani ingiustamente perseguitati è nato lo scorso mese di giugno il progetto “Adopt an Endangered Lawyer / Adotta un avvocat@ minacciat@” dell’Unione delle Camere Penali Italiane[37] col patrocinio del Global Campus of Human Rights e la collaborazione dell’artista ed attivista Gianluca Costantini, che si propone di tener sempre viva l’attenzione della società, del Foro e dei media sulle loro storie perché non vengano mai dimenticate. Fra di essi, ovviamente, anche le Colleghe ed i Colleghi egiziani rappresentati nell’illustrazione di lancio dell’iniziativa proprio da Mahienour el-Masry.
5. Conclusioni. Dedicato a tutte le anime e gli esseri coraggiosi
Attraverso questo percorso - al tempo stesso doloroso ma che è anche, e soprattutto, fonte d’ispirazione - di condivisione delle storie di donne e uomini che sono giunti e giungono a rinunciare alla propria libertà ed anche alla propria vita pur di adempiere fino in fondo al loro mandato professionale nel nome della difesa dei diritti fondamentali, come d’abitudine, si è inteso prestar loro voce per ricordarli ed onorarli. In quest’ottica, pertanto, la conclusione di questo breve scritto è affidata alle parole - sempre attuali - pronunciate da Mahienour el-Masry alla consegna del Premio Trarieux a Firenze nel 2014, che rappresentano il manifesto stesso di un’Avvocatura libera, indipendente, che crede nel valore della solidarietà ed è baluardo della democrazia e dello stato di diritto nel mondo.
Dedico questo premio a tutte le anime e gli esseri coraggiosi[38].
Cari servitori della giustizia e difensori dei diritti umani, oggi sono qui fisicamente con voi, sebbene fino a poco tempo fa ciò non sarebbe stato possibile in quanto detenuta in un carcere dal maresciallo al Sisi come più di 41 mila prigionieri politici.
Sono stata accusata insieme ad altre 8 persone, quattro delle quali sono tuttora in carcere a scontare una pena di due anni.
Sono stata condannata a due anni e la pena è stata ridotta in appello e poi sospesa grazie alla vostra solidarietà e ai vostri sforzi.
Sono stata più fortunata di altre persone alle quali non è dedicata molta attenzione.
Sono rimasta sorpresa quando ho saputo che avevo vinto questo prestigioso premio; in quel tempo ero in carcere privata della possibilità di ogni tipo di comunicazione con il mondo esterno.
Non credo di aver meritato questo grande onore perché per molto tempo ho fatto parte di un gruppo più grande, prima come socialista rivoluzionaria, fino a diventare un avvocato volontario per difendere i manifestanti di Alessandria; sono stata un’attivista per dire no ai processi militari e per il movimento di solidarietà dei rifugiati, ma, soprattutto, sono stata uno dei milioni di egiziani che hanno sognato la giustizia. Abbiamo avuto una rivoluzione che ha rovesciato due dittatori e stiamo incrociando le dita per rovesciare il terzo.
Mi riferisco a quello che è successo il 3 luglio 2013, quando al Sisi, il leader della controrivoluzione, ha posto in essere un colpo di stato, non perché ha rovesciato un altro dittatore ma perché ha manipolato le masse. Penso che dovrebbe essere considerato un criminale di guerra perché era il capo dell'intelligence militare e ha usato dei pretesti per imporre test di verginità alle donne durante le proteste del marzo 2011. Era il ministro della difesa all'epoca del presidente Morsi che ha ucciso molti egiziani nella città di Port Said, e quando ha rovesciato Morsi, ha compiuto uno dei più grandi massacri di questo nuovo secolo, che ha avuto luogo a Rabaa, dove più di 1.000 persone sono state assassinate. E ora è in atto una repressione che ha portato all’incarcerazione di migliaia di persone e persino all'evacuazione di persone e alla demolizione delle loro case nel Sinai, sotto lo slogan della guerra al terrorismo.
In ogni situazione in cui un dittatore rafforza i suoi poteri, tra i suoi principali nemici ci sono sempre i difensori dei diritti umani e, in particolare, gli avvocati.
Un avvocato deve tenere gli occhi aperti sulla quantità di ingiustizia nella società; gli avvocati devono scegliere di servire la giustizia o accettare di servire la legge, anche se la legge è contro gli interessi del popolo. La legge è una parola astratta, per me la legge è la legge della classe dirigente e in paesi come l'Egitto, dove c'è autocrazia e tirannia, ci sono leggi emanate per mettere a tacere le persone o per confiscare i loro diritti. Gli avvocati hanno anche un grande ruolo di sensibilizzazione e devono essere lo scudo per proteggere gli emarginati e la voce di chi non ha voce.
Vorrei dedicare questo premio a Omar, Loay, Islam, Nasser, quattro persone che mi sono state molto vicine e che sono ancora in prigione; a Sanaa Seif, Yara Sallam e i manifestanti di Ithadia; a Mohamed Hissny, Alaa Abdelfattah e Shura, manifestanti imprigionati; a Mahmoud Nasr, ed ai giornalisti inglesi di El Jazeera che sono in prigione in Egitto; a Mohamed Sultan e Ibrahim el Yamany che stanno entrando nel loro 300° giorno di sciopero della fame, a tutti i 41 mila prigionieri politici in Egitto; al popolo palestinese che ci ha insegnato a resistere e ad avere speranza per il futuro; al popolo di Kobane che sta combattendo gli estremisti; a Rihana Gerabi, una ragazza iraniana che è stata condannata a morte perché ha ucciso il suo stupratore per autodifesa; dedico il mio premio a tutte le anime e gli esseri coraggiosi.
Vi ringrazio molto e spero che noi, come avvocati, possiamo contribuire a costruire un mondo migliore e una società più umana.
[1] Per approfondire la vicenda, “Perché un ricercatore universitario italiano è stato torturato e uccio in Egitto?”, di D. Walsh, in The New York Times Magazine, 23.08.2017.
[2] Per approfondire la vicenda, “Patrick Zaky: chi è l’attivista in carcere in Egitto e perché è stato arrestato”, di A. Facchini, in Osservatorio Diritti, 13.02.2020; si veda anche, “Patrick George Zaki, l’Egitto e noi”, di A. Schiavello, in Giustizia Insieme, 29.03.2021.
[3] In particolare si segnalano i report di Amnesty International, “Cosa vuoi che m’importi se muori? Negligenza e diniego di cure mediche nelle prigioni egiziane”, 2021 (ENG); “Ufficialmente tu non esisti. Scomparsi e torturati in nome della lotta al terrorismo”, 2016, ed il report 2021 di Human Rights Watch.
[4] Si veda, “2020 Country Reports on Human Rights Practices: Egypt” a cura dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America al Cairo
.
[5] Si veda il report di Amnesty International, “Stato d’eccezione permanente. Abusi della Procura Suprema di Sicurezza dello Stato”, 2019 (ENG).
[6] Si veda, Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH), “Egitto: arresto arbitrario di Mahienour El-Massry” (ENG), 23.09.2019.
[7] La Legge n. 107 sul diritto alle riunioni pubbliche, alle manifestazioni e alle dimostrazioni pacifiche è stata adottata il 24 novembre 2013 ed ha attirato ampie critiche da parte degli esperti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni della società civile per essere in violazione degli standard internazionali. La legge, infatti, attribuisce poteri eccessivi alle forze di sicurezza per vietare e disperdere arbitrariamente le proteste pacifiche, imponendo pesanti sanzioni ai manifestanti. Dalla sua adozione, la legge n. 107 è stata regolarmente utilizzata per reprimere le manifestazioni pacifiche e perseguire i difensori dei diritti umani che protestano contro la crescente intolleranza del governo egiziano nei confronti del dissenso. Tratto dalla scheda di Civicus su Mahienour el-Masry.
[8] Il 26 ottobre 2011 entrambi gli agenti di polizia sono stati giudicati colpevoli di omicidio colposo e condannati a sette anni di reclusione. Sia l’accusa che la difesa hanno impugnato la sentenza ed è stato ordinato un nuovo processo. Il 3 marzo 2014, il Tribunale di Alessandria ha aumentato la pena di tre anni condannando gli imputati a dieci anni di carcere. Qui la notizia sul sito Ahram online (ENG), 03.03.2014.
[9] Tratto dal discorso dell’Avv. Bertrand Favreau, Presidente della Giuria, alla cerimonia di consegna del Premio Internazionale per i diritti dell’uomo “Ludovic Trarieux” svoltasi a Firenze il 31.10.2014 (FRA).
[10] Si veda, Front Line Defenders, “Case history: Mahienour el-Masry” (ENG).
[11] Si veda, la scheda dell’evento sul sito del Premio Internazionale dei Diritti dell’Uomo “Ludovic Trarieux”.
[12] Creato nel 1984, il “Premio Internazionale dei Diritti dell’Uomo - Ludovic Trarieux”, “L’omaggio degli avvocati ad un avvocato”, è attribuito ad “un avvocato senza distinzione di nazionalità o di foro d’appartenenza che abbia contribuito, con il proprio impegno, la propria attività e le proprie sofferenze, alla difesa dei diritti dell’uomo, alla supremazia del diritto, alla lotta contro il razzismo e l’intolleranza”.
Il Premio “Ludovic Trarieux” rappresenta il più antico e prestigioso riconoscimento riservato ad un avvocato. La sua origine deriva dal messaggio di Ludovic Trarieux (1840-1904), avvocato del Foro di Bordeaux, e successivamente di Parigi, Ministro della Giustizia (1895), fondatore nel 1898 (al momento del caso Dreyfus) della « Lega francese dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino », all’origine di tutte le leghe successivamente create.
Il primo Premio Ludovic Trarieux è stato attribuito il 29 marzo 1985 a Nelson Mandela, allora in prigione da 23 anni in Sud Africa. Il premio è stato ufficialmente consegnato a sua figlia il 27 aprile 1985, in presenza, per la prima volta, di 40 presidenti di Consigli degli Ordini degli Avvocati dell’Europa e dell’Africa.
Oggi il premio è un omaggio annuale ad un avvocato nel mondo. E’ conferito congiuntamente dall’Istituto dei Diritti dell’Uomo dell’Ordine degli Avvocati di Bordeaux, dall’Istituto di formazione sui Diritti dell’Uomo dell’Ordine degli Avvocati di Parigi, dall’Istituto dei Diritti dell’Uomo degli avvocati di Bruxelles, dagli Ordini degli Avvocati di Lussemburgo, di Ginevra, di Amsterdam, dalla Rechtsanwaltskammer di Berlino, dall’Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani, dalla Union Internationale des Avocats (UIA) e dall’Institut des Droits de l’Homme des Avocats Européens (IDHAE).
[13] Si vedano il documento di base con le informazioni sui premiati ed il comunicato stampa (ENG) a cura del CCBE.
[14] Qui la lettera della Presidente del CCBE al Presidente al-Sisi del 26.03.2021 (ENG), con il collegamento ipertestuale a precedenti documenti relativi alla situazione dell’Avv. Haytham Mohammadein.
[15] Si vedano la lettera del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria del 17.02.2021 (ENG) e la lettera della Presidente del CCBE al Presidente al-Sisi del 20.04.2021 (ENG), con il collegamento ipertestuale a precedenti documenti relativi alla situazione dell’Avv. Hoda Abdelmoniem.
[16] Si vedano, Federazione Internazionale per i Diritti Umani, “Egitto: proroga della custodia cautelare in carcere di Ibrahim Metwally Hegazy” (ENG), 24.09.2020; OHCHR, “Secondo gli esperti delle nazioni Unite, l’Egitto deve liberare un avvocato per i diritti umani detenuto in violazione del divieto di doppia incriminazione” (ENG), 20.11.2019.
[17] Si vedano la scheda dell’Avv. Mohamed el-Baqer sul sito dell’Osservatorio Internazionale degli Avvocati in Pericolo (OIAD), e l’appello per la sua liberazione a cura della coalizione globale con la partecipazione del CCBE, in data 26.07.2021.
[18] Per ulteriori informazioni su questi Avvocati, si veda il documento di base con le informazioni sui premiati (ENG), a cura del CCBE.
[19] Per la notizia completa si veda, BBC, “Poliziotti egiziani incarcerati per la morte dell’avvocato Karim Hamdy” (ENG), 12.12.2015.
[20] Si veda la scheda dell’Avv. Amr Imam sul sito dell’Osservatorio Internazionale degli Avvocati in Pericolo (OIAD).
[21] Si veda la scheda sulla situazione dei difensori dei diritti umani e degli attivisti in Egitto di EuroMed Rights (ENG).
[22] Si veda il rapporto informativo “Difendere i diritti in Egitto” a cura degli Avvocati Nicola Canestrini, Ezio Menzione e Barbara Spinelli per Unione delle Camere Penali Italiane, Giuristi Democratici, European Association of Lawyers for Democracy and World Human Rights, Legal Team Italia, Avocats Européens Démocrates – European Democratic Lawyers, Day of the Endangered Lawyer Foundation, 2017, pag. 12.
[23] Si veda la scheda dell’Avv. Zyad El-Elaimy sul sito dell’Osservatorio Internazionale degli Avvocati in Pericolo (OIAD).
[24] Si veda, OHCHR, “Gli esperti delle Nazioni Unite chiedono la rimozione dei difensori dei diritti Ramy Shaath e Zyad El-Elaimy dalla lista dei terroristi” (ENG), 11.02.2021.
[25] Si veda, Front Line Defenders, scheda relativa all’Avv. Ezzat Ghoneim (ENG).
[26] Si veda, Front Line Defenders, scheda relativa all’Avv. Gamal Eid (ENG).
[27] Si veda la scheda dell’Avv. Gamal Eid sul sito dell’Osservatorio Internazionale degli Avvocati in Pericolo (OIAD).
[28] Si veda OHCHR, “Egitto: secondo l’esperto delle Nazioni Unite i difensori dei diritti umani vengono trattenuti in isolamento ed affrontano accuse pretestuose” (ENG), 15.07.2021. In particolare, la Relatrice Speciale sulla situazione dei difensori dei diritti umani ha sottolineato il ruolo vitale che la società civile svolge in Egitto ed ha assicurato che continuerà a seguire i casi di difensori dei diritti umani detenuti portati alla sua attenzione, chiedendo, altresì, l’immediata scarcerazione di: Mohamed Ramadan, difensore dei diritti umani e avvocato; Mohamed el-Baqer, difensore dei diritti umani e avvocato; Ezzat Ghoneim, difensore dei diritti umani e avvocato, direttore del Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà (ECRF); Aisha el Shatr, difensore dei diritti umani e membro del consiglio dell'ECRF; Mohamed Abo Horira, difensore dei diritti umani e membro del consiglio dell'ECRF; Hoda Abdel Moneim, difensore dei diritti umani e membro del consiglio dell'ECRF; Ibrahim Ezz el-Din, difensore dei diritti umani e ricercatore; Ramy Kamel Saied Salib, difensore dei diritti umani e capo della Fondazione giovanile Maspero; Mahienour el-Masry, difensore dei diritti umani e avvocato; Amr Imam, difensore dei diritti umani e avvocato della Rete araba per l'informazione sui diritti umani; Walid Ali Saleim Mohammed Hamada, difensore dei diritti umani e avvocato.
[29] OHCHR, nota informativa per la stampa (ENG), 20.11.2020.
[30] Qui il testo integrale della risoluzione dal sito del Parlamento Europeo.
[31] Si veda il rapporto informativo “Difendere i diritti in Egitto”, cit., pag. 8.
[32] L'iniziativa che si celebra tutti gli anni nel mondo a partire dal 2010, è l'anniversario della strage avvenuta il 24 gennaio 1977 e ricordata in Spagna col nome di "Matanza de Atocha", allorquando un commando di terroristi neofascisti entrò in un ufficio di avvocati giuslavoristi situato, per l'appunto a Madrid, in Calle de Atocha, ed aprì il fuoco uccidendone cinque e ferendone quattro. Scopo della manifestazione è quello di richiamare l’attenzione dell'opinione pubblica sulla situazione di uno specifico Paese nel quale gli avvocati che si spendono per la tutela dei diritti umani sono esposti ad un grave rischio di persecuzione con conseguenze infauste per la democrazia e lo Stato di diritto.
[33] Oltre a quelli già segnalati nelle note relative ai singoli casi, si veda, da ultima, l’appello per la scarcerazione di Mohamed el-Baquer a firma del CCBE e di numerose altre associazioni.
[34] Si ricorda quella condotta da Unione delle Camere Penali Italiane, Giuristi Democratici, European Association of Lawyers for Democracy and World Human Rights, Legal Team Italia, Avocats Européens Démocrates – European Democratic Lawyers, Day of the Endangered Lawyer Foundation, di cui al rapporto informativo “Difendere i diritti in Egitto”, cit..
[35] Si vedano, Principi Fondamentali relativi al Ruolo degli avvocati, adottati dalle Nazioni Unite nel corso dell’Ottavo Congresso sulla prevenzione del crimine e sul trattamento degli autori di reati tenutosi a L’Avana dal 27 agosto al 7 settembre 1990 (A/RES/45/121), in www.ohchr.org; essi riprendono per una parte i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, in particolare gli articoli 7, 8, 10, 11, ma anche gli articoli 2, 14, 26 della Convenzione relativa ai diritti civili e politici.
[36] Si veda, B. Favreau, “L’indépendance de l’avocat”, Edizioni del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 2003 e B. Favreau “L’indépendance des avocats et des magistrats: une condition de l’état de droit”, in Rivista Ellenica dei diritti dell’Uomo - n 24, Sakkoulas, Atene, 2004, pp. 1101-1132, cit. da F. Cappelletti, “Gli attacchi alla funzione difensiva nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo : il caso Azerbaigian ed il valore della solidarietà nell’Avvocatura”, in Diritto di Difesa, Giuffrè Francis Lefebvre, 15.02.2021.
[37] Per approfondire, si veda la notizia del lancio del progetto sul sito dell’Unione delle Camere Penali Italiane, richiamata con i disegni raffiguranti i volti di alcuni avvocati in pericolo sul sito Channeldraw di Gianluca Costantini e nell’articolo di L. Lipari, “Avvocati nel mirino dei regimi autoritari”, su HuffPost Italia, 05.07.2021.
[38] Mahienour el-Masry, discorso di accettazione del Premio alla cerimonia di consegna del Premio Internazionale per i diritti dell’uomo “Ludovic Trarieux” svoltasi a Firenze il 31.10.2014 (FRA).
L’esercizio dei pubblici poteri, il contenzioso e la funzione tributaria
di Raffaello Lupi
Sommario:1. Le proposte della commissione e i veri punti di divergenza - 2. Il ruolo del giudice in una funzione non giurisdizionale.
1. Le proposte della commissione e i veri punti di divergenza
Le divergenze all’interno della commissione interministeriale cui sono dedicati i presenti articoli partivano tutte da posizioni meritevoli di considerazione, come è emerso anche nel dibattito in webminar del 21 luglio u.s. con alcuni membri della commissione. C’era una convergenza generale sulla necessità di un giudice preparato in materia tributaria e dedicato ad essa a tempo pieno, cioè senza altre parallele occupazioni; il mantenimento a regime di magistrati onorari in primo grado è una sfumatura della proposta di minoranza (dei giudici). Questa differenza sfumava rispetto alla riutilizzazione, anche da parte della proposta di maggioranza (dei tributaristi), dell’esperienza maturata dalle attuali commissioni tributarie. Tutti riconoscevano infatti che in esse molti giudici hanno imparato la materia sul campo, essendovisi anche appassionati, confermando le convergenze suddette.
Le divergenze riguardano questioni che agli inizi del suddetto webminar ho definito scherzosamente di pubblico impiego , anche per sdrammatizzarle, ma che hanno un alto valore simbolico e istituzionale, su come collocare le suddette condivise esigenze negli assetti ordinamentali della giurisdizione, anche con riflessi costituzionali.
Sul piano costituzionale, una volta riconosciuta natura giurisdizionale alle attuali commissioni tributarie, sono forti gli argomenti per la legittimità di trasformare una magistratura onoraria (part time) in una magistratura a tempo pieno con proprio reclutamento e status. Chissà cosa sarebbe accaduto se la giurisprudenza costituzionale, che ha salvato le commissioni di cui alla riforma tributaria del 1972, si fosse trovata di fronte all’istituzione di una nuova magistratura, da conciliare con le disposizioni costituzionali ordinarie sull’ordinamento giudiziario. Il carattere onorario, cioè part time, di tali commissioni, ha consentito di affermarne la natura giurisdizionale, con sentenze politicamente necessitate per salvare l’esistente. Tali sentenze hanno potuto cioè evitare di affrontare i problemi costituzionali della creazione di un’ulteriore magistratura con un proprio ordinamento istituzionale, che vada al di là dell’attuale consiglio di presidenza della Giustizia Tributaria. Al di là delle suddette mie provocazioni sul pubblico impiego, il giudice tributario a tempo pieno pone cioè problemi istituzionali di ordinamento giurisdizionale che le precedenti commissioni non ponevano, proprio in quanto onorarie; esse erano tali in quanto formate da estranei all’ordine giudiziario, i c.d. laici, oppure da appartenenti agli altri ordini giudiziari. Il reclutamento per concorso di giudici a tempo pieno incide quindi sull’assetto dell’ordine giudiziario con una serie di problematici coordinamenti, che travalicano la ridotta e diluita nel tempo consistenza numerica delle assunzioni.
Bisogna in proposito domandarsi laicamente quale fosse il modo migliore per dare alla materia un giudice sostanzialmente competente, cioè preparato nel settore tributario, tenendo conto di una pluralità di parametri. Tra essi inserisco non solo il bagaglio di conoscenze/esperienze creatosi nelle commissioni tributarie e di cui diremo, ma anche l’assetto del diritto tributario. Quest’ultimo rileva per lo svolgimento di prove d’accesso in numerose magistrature, compresa una prova scritta per quella amministrativa. Occorrerebbe valutare la tradizione del diritto tributario, la sua esperienza professionale, la sua accademia, la sua manualistica, la sua pubblicistica tecnica, e vari altri profili per comprendere in quale misura una prova d’accesso contribuirebbe alla suddetta auspicata padronanza sostanziale dei contenuti e all’inquadramento delle controversie sottoposte al neo-giudice. Non mi sembra che la manualistica universitaria e la pubblicistica dottrinal-professionale, dalle riviste accademiche a quelle c.d. operative, colgano il cuore della funzione tributaria per un’appagante prova selettiva. Non mi pare infatti colta l’essenza della funzione tributaria, riguardante le entrate pubbliche rappresentate dalle imposte e la determinazione giuridica dei loro presupposti economici (reddito, consumo, ricavi, etc.). Del tutto trascurato mi sembra cioè il c.d. oggetto economico della funzione tributaria, che non comporta rinvii all’economia, generale o aziendale, ma richiede riflessioni giuridiche oggi del tutto carenti. Si tratta della specificità della funzione tributaria rispetto agli altri settori del c.d. diritto amministrativo speciale, come l’istruzione, l’urbanistica, l’ambiente, i beni culturali, la sanità ed altre funzioni pubbliche non giurisdizionali; come tali intendo quelle che traggono la loro giuridicità dall’esercizio di incarichi pubblici, da esercitare in base a valori e regole, in modo socialmente valutato, e dove il giudice non è l’istituzione di riferimento. Basta un minimo di cultura spazio-temporale per rendersi conto infatti che le rimostranze contro il cattivo esercizio di pubbliche funzioni si indirizzano in prima battuta alle gerarchie politico-amministrative, che eventualmente delegano organi di contenzioso amministrativo da esse dipendenti; è tra l’altro una tradizione secolare della determinazione delle imposte, in cui bisognava dare uno sfogo alle rimostranze connesse alle diverse determinazioni, all’epoca valutative (c.d. estimazione) dei suddetti presupposti economici. Solo in circoscritti assetti pluralisti il sistema di controlli e contrappesi delle società complesse, talvolta denominato “stato di diritto”, si spinge ad un giudice delle pubbliche funzioni gerarchicamente indipendente dalla politica.
Il diritto tributario è una di queste funzioni non giurisdizionali, probabilmente la più corposa, sulle cui particolarità si sarebbero dovuti personalizzare molti principi generali del diritto amministrativo. Pur rendendosi conto di quanto sopra l’accademia del diritto tributario si è invece posta in prospettive da un lato privatistico-giurisdizionali, e dall’altro sociologico-economicistiche, variamente combinate. C’è stata una separazione dall’alveo dello studio giuridico sociale delle funzioni pubbliche, come spiego al par.4.3 del mio volume La funzione amministrativa d’imposizione nel quadro delle pubbliche entrate-Spiegazioni giuridico sociali e tecniche di determinazione dei presupposti economici d’imposta, scaricabile qui in accesso aperto https://didatticaweb.uniroma2.it/it/files/index/insegnamento/188769/27335 .
Questo sfasamento teorico dello studio del diritto tributario alimenta fondati dubbi sull’idoneità del materiale formativo disponibile in materia per alimentare culturalmente la neo-magistratura ipotizzata dalla relazione di maggioranza della commissione; l’utilità della prova d’ingresso lascia perplessi anche per l’aggiunta di economia aziendale, materia estranea ai rapporti giuridico sociali interni all’azienda, nonché tra essa e istituzioni/stakeholders. La relazione di maggioranza appare cioè ottimistica nel presupporre un sapere organico del settore tributario da mettere a base dei concorsi di ammissione. A mio avviso invece il sapere specialistico tributario non è abbastanza messo a fuoco, né consapevole di se stesso, per potervi fondare una quarta giurisdizione. Si può cioè dubitare che i giudici tributari a tempo pieno vincitori dell’ipotizzato concorso d’ingresso possiedano la preparazione specialistica universalmente desiderata. A quest’ultima dovrebbe contribuire, in capo ai neomagistrati vincitori, il training on job nelle attuali commissioni, in cui sarebbero via via distribuiti, nella lunga fase transitoria ipotizzata dalla relazione di maggioranza. Questo indica che forse proprio nelle attuali commissioni, giustamente criticate, si è sedimentata una tradizione culturale più solida di quella sopra indicata per la dottrina. All’interno delle commissioni operano infatti appartenenti ai vari ordini giurisdizionali che nei decenni, pur con tanti infortuni, hanno inconsapevolmente sedimentato una tradizione. Quest’ultima è molto minore di quella esistente in altri settori del diritto, come quello penale, ma ha una qualche consistenza. Si sarebbe quindi potuto impiegare a tempo pieno chi aveva già acquisito on job una sensibilità specialistica, utilizzando alcuni esperti giudici togati delle commissioni. Essi avrebbero potuto costituire il primo nucleo di una sezione specializzata della magistratura ordinaria, in luogo dei suddetti magistrati a tempo pieno assunti per concorso esterno in una nuova magistratura speciale. Avremmo avuto magistrati già esperti in grado di operare a tempo pieno, operando con distacchi per i magistrati contabili e amministrativi. La risposta dei circa 1700 togati con esperienza nella magistratura tributaria avrebbe forse potuto essere sufficiente rispetto alle 100 posizioni l’anno di magistrati a tempo pieno; se non lo fosse stata si sarebbe potuto aprire un concorso riservato con contenuti tributari ai circa diecimila tra magistrati ordinari, amministrativi e contabili in servizio. Il tutto cioè senza avviare l’ulteriore neo-magistratura su cui si mostra giustamente perplesso anche Claudio Consolo. L’aspirazione della proposta “di maggioranza” ad una preparazione tributaria specifica avrebbe cioè potuto essere collocata nel quadro di chi è già giudice, articolando ulteriormente le mansioni in relazione alla domanda di “servizio giustizia”. L’ordine giudiziario è infatti già abbastanza frammentato tra ordinario, amministrativo e contabile e su questo sarebbe bene, al di là dei condizionamenti dell’esistente e del diritto tributario, aprire nelle università una serena riflessione giuridico sociale. L’occasione è anche la discussione sulla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati penali giudicanti, peraltro ispirata da ragioni di indipendenza reciproca, e di garantismo penale, non di diversità di saperi. È invece la parziale diversità di saperi che potrebbe giustificare una specializzazione di carriere, all’interno di un’ipotetica unica magistratura, tra specificità penali (inquirenti e giudicanti), civili e amministrative, comprensive di questioni contabili (corte dei conti) e tributarie. In margine alla discussione sull’ipotetica ulteriore magistratura tributaria si tratterebbe di indagare in quale misura l’unità della magistratura, e la sua indipendenza dal potere politico, siano compatibili con varie specializzazioni interne, sul modello tedesco evocato nel webinar da Enrico Manzon. Queste specializzazioni potrebbero anche portare a una specificazione delle prove di accesso, oggi difficile “barriera all’ingresso” degli ordini giurisdizionali, con notevole mobilità successiva. Forse invece l’efficienza della macchina della giustizia potrebbe aumentare con una base comune di accesso e varie specializzazioni, contestuali o successive, soggette a prove specifiche. E’ l’ottica di una formazione permanente, soggetta a scrutinio, all’interno dell’ordine giudiziario, dando sfogo controllato al legittimo desiderio di chi volesse modificare le proprie attività.
Abbandonando scenari concettuali globali, e tornando alla magistratura tributaria, la gestione dell’esistente, che ispira la politica, consiglia di incardinare l’auspicata preparazione tributaria sulle giurisdizioni già in essere. Per chi già sia giudice, e voglia dedicarsi a tempo pieno alla funzione tributaria, la relativa sensibilità non è difficile da raggiungere, e potrebbe essere accertata con una prova d’ingresso, più gestibile del concorso specifico per i neomagistrati tributari reclutati dall’esterno. Non mi sembra il caso di insistere in una ricerca di specificità che non ha portato fortuna agli studi tributari; questi ultimi, cercando giustamente la propria identità rispetto all’economia dei tributi, si sono separati dallo studio generale delle funzioni amministrative, cadendo in una trappola privatistico-giurisdizionale e in un destabilizzante isolamento. Quest’ultimo riduce il diritto tributario ad una specie di oggetto misterioso anche agli occhi degli altri operatori del diritto; da un punto di vista giuridico sociale occorrerebbe invece muoversi in senso inverso, accorpando le accademie nei modi indicati al par.2.6 del mio Studi sociali e diritto scaricabile qui in open access https://didattica.uniroma2.it/files/index/insegnamento/188770-Scienza-Delle-Finanze. La giurisdizione tributaria autonoma non farebbe neppure, a ben guardare, l’interesse dello stesso diritto tributario, aumentandone l’isolamento suddetto, tra le materie privatistiche, pubblicistiche e processualistiche. Esso sarebbe come oggi costretto ad affrontare da solo temi comuni alla generalità delle funzioni pubbliche. Tra questi anche la tutela contro il cattivo esercizio del potere , in cui si inquadra il ruolo del giudice nella funzione tributaria, di cui al punto seguente.
2. Il ruolo del giudice in una funzione non giurisdizionale
La commissione, concentrata sui problemi istituzionali sopra descritti, non poteva certo interrogarsi sui profili concettuali anticipati al punto precedente, cioè il posto del giudice in una funzione non giurisdizionale, nel senso sopra chiarito. La mancanza di accenni a questo profilo, ed anche gli equivoci nell’interlocuzione con alcuni colleghi, confermano la già indicata solitudine culturale dell’accademia tributaristica rispetto alla discussione generale su rimedi verso l’ipotetico cattivo esercizio dei pubblici poteri. Questa cornice generale su cosa deve fare il giudice avrebbe anche potuto essere d’ausilio nella suddetta accesa discussione su chi debba fare il giudice tributario.
Nella relazione della commissione echeggia spesso un equivoco di fondo, diffuso anche oltre l’ambiente tributario, cioè concepire l’intervento del giudice secondo le logiche della funzione di giustizia privatistica (ne cives ad arma veniant), per risolvere le controversie salvaguardando la “pace sociale”, senza esercizio privato delle proprie ragioni ( autotutela privata), ritorsioni , faide ecc. L’equivoco è quello di concepire l’intervento del giudice tributario come un’estensione alle pubbliche amministrazioni della suddetta necessità di comporre conflitti tra privati, trascurando quanto detto al punto precedente sul giudice amministrativo come evoluzione di rimedi politico-amministrativi relativi al cattivo esercizio di altre funzioni pubbliche. Qui la parità sostanziale si raggiunge attraverso la valorizzazione delle diversità tra ricorrenti privati ed esercenti pubbliche funzioni, ivi compresa incidentalmente la magistratura inquirente. Il processo sulle funzioni non giurisdizionali è in altri termini “giusto” non perché presuppone una fantomatica parità, ma perché valorizza le concrete disparità, anche in materia tributaria. Anche il giudice tributario indipendente, dalla politica è il punto d’arrivo, come quello amministrativo, di un percorso di reclami gerarchico politici in cui si è evoluto pian piano il sistema di controlli e contrappesi (checks and balances) che caratterizza la ripartizione di competenze di uno stato moderno; è un processo avviato già nello stato assoluto, che non significava ingerenza casuale e estemporanea del sovrano in tutte le questioni, inconcepibile in una collettività organizzata, ma subordinazione ad esso di tutte le altre funzioni pubbliche (è il vero senso del quod principi placuit legis habet vigorem).
Si coglie la diversità del percorso concettuale rispetto all’estensione ai rapporti tra funzioni pubbliche e individui dell’ordinaria funzione di giustizia, per la quale l’indipendenza dalle parti è un presupposto di credibilità.
Benchè indipendente dalla politica, il giudice delle funzioni non giurisdizionali è consapevole di controllare una diversa funzione pubblica. Ne discende che chiunque sia giudice di una funzione pubblica, esaminando la correttezza del suo comportamento, entra senza saperlo oggettivamente a far parte di questa funzione. Se per avventura affidassimo il controllo della funzione tributaria al tribunale delle imprese, come suggerisce Claudio Consolo nel suo intervento, quest’organo preposto alla soluzione di liti private diventerebbe automaticamente, e magari inconsapevolmente, giudice amministrativo.
La conseguenza di quanto sopra è che l’attenzione del giudice si appunta sulla correttezza dell’agire amministrativo, tenendo conto delle sue modalità e possibilità; in queste operazioni mentali è del tutto normale capire che la funzione sottostante è stata esercitata male, senza però avere idea di come sostituirvisi, esercitandola di nuovo. Senza l’adeguata cornice culturale di cui al punto 1 questo genera pregiudizi positivi e negativi verso l’ufficio pubblico coinvolto. Il rischio è che, senza una cornice culturale amministrativistica e tributaria, scattino innumerevoli sfumature tra giustizialismo casistico pro privato e pro ufficio tributario, a seconda di come il giudice è stato . impressionato dalla controversia. In materia tributaria purtroppo, pesa la vischiosa tradizione delle commissioni, geneticamente amministrative e imbellettate di giurisdizionalità per poterle far passare indenni alle riforme del 1972 e del 1992. E’ mancata quindi la dimensione culturale (par.1) per adeguare le appena menzionate caratteristiche generali del controllo giurisdizionale sul cattivo esercizio delle funzioni pubbliche alle specificità di quella tributaria. Occorre quindi oggi superare gli equivoci derivanti dall’aver affrontato il processo tributario con concetti privatistici, come se fosse “la soluzione finale” alle controversie sulla determinazione dei presupposti economici d’imposta, ed esse non potessero essere rinviate, per molti aspetti, agli uffici tributari nella logica conformativa del giudicato amministrativo. L’operato del giudice tributario, comunque individuato, va quindi riportato all’alveo del controllo generale sul cattivo esercizio di pubbliche funzioni, con una fase rescindente e una rescissoria, che può e deve essere svolta dalla stessa amministrazione in sede di rinvio. La mancata percezione di questo aspetto, e l’idea privatistica del giudice come “soluzione finale” della controversia, sono alla radice dell’atteggiamento degli uffici tributari di notificare l’accertamento e poi far decidere il giudice, così deresponsabilizzandosi e diminuendo l’impatto sociale della propria funzione. Per liberarsi della responsabilità di decidere, si tende a notificare accertamenti sovradimensionati, ma da cui si capisca che in qualche misura il contribuente ha evaso; l’idea dell’impugnazione merito, eredità del vecchio contenzioso amministrativo, costringe il giudice a rideterminare la pretesa, sgravando comunque l’ufficio della relativa valutazione e responsabilità. Scatta così il meccanismo mentale dell’io ho fatto, passo la palla al giudice, con la difesa ostinata di qualsiasi provvedimento, e l’inutile moltiplicazione dei processi. E’ la cannibalizzazione processuale della funzione tributaria, come s’intitola questo mio video su youtube https://www.youtube.com/watch?v=ZoliQyp-zEc , che diminuirebbe se il giudice potrebbe invece limitarsi a censurare il cattivo esercizio del potere, facendo rideterminare l’imposta all’ufficio tributario, nei limiti quali-quantitativi dell’atto impugnato. In questo caso l’Agenzia non potrebbe più arroccarsi dietro la prassi sopradetta, deresponsabilizzandosi rispetto alla determinazione dell’imposta.
Si tratta quindi di superare la fuorviante impugnazione merito, eredità del contenzioso amministrativo, col suo ruolo sostitutivo del giudice, anomalo rispetto ai principi generali della giurisdizione amministrativa. Nessuno si scandalizzerebbe, certo, davanti a decisioni dirette, e sostitutive, da parte del giudice, qualora le ritenga alla sua portata, su questioni di diritto o di fatto estremamente puntuali. L’importante è che il giudice non si trovi costretto a sostituirsi all’ufficio nei lavori complessi da cui l’amministrazione ha abdicato per scaricare sul giudice la responsabilità. Chiunque sia il futuro giudice tributario a tempo pieno (par.1) occorrerà lavorare per riportarne l’opera in quest’alveo naturale della giurisdizione contro il cattivo esercizio di pubbliche funzioni.
Nemo tenetur se detegere: potenzialità espansive della recente giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale sul sistema tributario
di Andrea Sciacca
Sommario: 1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 30 aprile 2021 - 2. Il diritto al silenzio nel sistema interno e sovranazionale - 2.1. Lo ius tacendi nel quadro della garanzia dell’art. 24, comma 2, Cost. e dell’art. 27, comma 2, Cost. - 2.2. SEGUE: Il diritto al silenzio oltre il ristretto ambito del processo penale - 3. La vis espansiva del diritto al silenzio nei procedimenti tributari volti ad irrogare sanzioni - 4. Diritto al silenzio e obblighi di collaborazione - 4.1. Le sanzioni tributarie - 4.2. Le sanzioni improprie - 4.2.1. L’inosservanza dell’ordine di esibizione disposto dal Giudice - 4.2.2. Le preclusioni probatorie.
1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 30 aprile 2021
Queste brevi riflessioni alla sentenza n. 84 del 30 aprile 2021 della Corte Costituzionale, che consacra l’operatività del diritto al silenzio nel campo del diritto sanzionatorio generale, si prefiggono l’obiettivo di esaminare le ripercussioni della pronuncia nell’ordinamento tributario italiano, costellato da norme che non solo garantiscono all’Amministrazione Finanziaria un ampio potere di accesso alle informazioni ma che prevedono sanzioni per il contribuente nelle ipotesi di “rifiuto alla collaborazione”.
La questione sottoposta al vaglio della Consulta nasce dalla vicenda di un amministratore di società assoggettato a sanzione pecuniaria per non avere risposto alle “domande” della Consob su operazioni finanziarie sospette da lui compiute[1].
L’interessato aveva impugnato la sanzione, sostenendo di aver esercitato legittimamente il diritto costituzionale di non rispondere a domande da cui sarebbe potuta emergere la propria responsabilità.
La Corte di Cassazione, investita del caso, aveva sollevato nel 2018 questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies TUF, che prevede una sanzione da 50.000 a un milione di euro (nella formulazione vigente al momento del fatto addebitato al ricorrente) a carico di chi “non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia o della CONSOB”, senza alcuna eccezione in favore di chi sia già sospettato di avere commesso un illecito[2]. Con l’ordinanza n. 117 del 2019, la Corte Costituzionale, nella considerazione che la questione di legittimità proposta dalla Suprema Corte implicasse la valutazione di una pluralità di assetti normativi sia di matrice nazionale sia di diretta derivazione comunitaria, sottoponeva alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: “se l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura punitiva”[3].
Con la sentenza del 2 febbraio 2021, causa C-481/19[4], la Corte di Giustizia chiariva che il diritto al silenzio è parte integrante dei principi dell’equo processo, così come riconosciuti dalla stessa Carta dei diritti fondamentali UE.
Tale diritto – proseguivano i giudici di Lussemburgo – opera anche nell’ambito di quei procedimenti all’esito dei quali possono essere irrogate sanzioni aventi carattere punitivo, come quelle previste nell’ordinamento italiano per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate.
La Consulta, rilevando che l’interpretazione della disciplina comunitaria fornita dalla Corte di Giustizia collima con la lettura del diritto al silenzio che la stessa Corte italiana aveva offerto nel proprio rinvio pregiudiziale, in armonia con le indicazioni provenienti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, con la pronuncia in commento dichiarava incostituzionale l’art. 187 quinquiesdecies citato, “nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.
Ad avviso della Corte italiana, dunque, dal diritto al silenzio discende l’impossibilità di punire una persona fisica che si sia rifiutata di rispondere a domande, formulate in sede di audizione o per iscritto dalla Banca d’Italia o dalla Consob, dalle quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo o addirittura penale[5].
2. Il diritto al silenzio nel sistema interno e sovranazionale
Non v’è chi non veda nella commentata sentenza l’occasione per tracciare direttrici di sorprendente rilevanza in materia di diritto al silenzio anche nell’ordinamento tributario.
Tuttavia, prima di procedere allo studio del tema, si rivelano opportune alcune considerazioni di carattere generale e storico al fine di individuare le radici su cui poggia lo ius tacendi ed il terreno su cui esso si è sviluppato al fine di meglio comprenderne la vis espansiva.
2.1. Lo ius tacendi nel quadro della garanzia dell’art. 24, comma 2, Cost. e dell’art. 27, comma 2, Cost.
Quello del diritto al silenzio rappresenta uno dei temi classici, tra i più coinvolgenti e ricorrenti, nella storia del processo penale, in quanto corollario essenziale dei principi fondamentali, riconosciuti negli ordinamenti democratici, propri di un processo accusatorio che è, per l’appunto, imperniato sul nemo tenetur se detegere che è massima enunciata da Thomas Hobbes e recepita nel diritto inglese sin dal XVI secolo[6].
Già all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione italiana, con la proclamazione dell’inviolabilità del diritto alla difesa di cui all’art. 24, comma 2, e del principio di presunzione di non colpevolezza ex art. 27, comma 2, emerse con chiarezza una ritrovata sensibilità per la problematica relativa alla posizione dell’imputato e alle forme e limiti del suo diritto di (auto)difesa.
In tale contesto, la possibilità per un soggetto di invocare il “privilegio” contro l’auto-incriminazione rappresenta la principale facoltà sottesa al diritto di autodifesa passiva, cioè al diritto di non fornire elementi di prova in proprio danno, preferendo rimanere – totalmente o parzialmente – in silenzio, in luogo di rendere dichiarazioni, verosimilmente, autoincriminanti[7].
Sebbene nel nostro ordinamento sia ormai incontestabile che il diritto al silenzio sia un corollario del diritto fondamentale garantito dall’art. 24, comma 2, Cost.[8] (che, comunque, non riconosce espressamente la facoltà di non collaborare con l’autorità procedente), il testo costituzionale non fornisce alcuna precisazione circa le modalità o i confini del suo esercizio.
In ambito penale, tale privilegio trova, oggi, ampio riconoscimento nella disciplina codicistica. In particolare, a titolo esemplificativo, la persona sottoposta alle indagini preliminari deve essere avvertita che, salvo l’obbligo di dichiarare le proprie generalità e quant’altro valga ad identificarla (artt. 66, comma 1, c.p.p., 21 disp. att. c.p.p.), “ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda” (art. 64, comma 3, lett. b) c.p.p.). Tale avviso è obbligatorio, a pena d’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’interrogato (art. 64, commi 3, lett. b) e 3-bis, c.p.p.)[9].
La regola descritta si applica durante ogni fase del procedimento penale, nella totalità degli atti costituenti formalmente un “interrogatorio” dell’indagato o dell’imputato; come pure in tutti quelli che risultano, sostanzialmente, ad esso assimilabili, in quanto possibili sedi di domande all’incolpato[10].
2.2. Segue: Il diritto al silenzio oltre il ristretto ambito del processo penale
Benché il privilegio contro l’auto-incriminazione sia nato e si sia sviluppato nel campo del processo penale, a partire dagli anni Ottanta, prima la Commissione e, dopo, la Corte europea dei diritti dell’uomo nonché la Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno intrapreso un articolato cammino nell’evidente tentativo di ampliare lo spettro di applicazione del diritto al silenzio e riconoscere un’anticipazione della tutela processuale posta dalla Convenzione EDU, nonché dal Patto sui diritti civili e politici, a fasi che precedono il momento della formalizzazione dell’accusa penale da parte degli organi inquirenti.
La ricerca della formula corretta che consentisse l’estensione delle garanzie sul “giusto processo” a contesti esterni – e precedenti – rispetto al processo, ha difatti permesso di guardare oltre il ristretto ambito del processo penale, determinando, così, la possibilità che il diritto al silenzio potesse applicarsi a settori in cui si ravvisa l’esercizio di meri poteri amministrativi di indagine e controllo nei confronti dei cittadini[11].
Pur nel rispetto delle esigenze di sintesi che si impongono in questa sede, si rende necessaria una rapida ricognizione delle principali “tappe” sul tema al fine di cogliere lo spunto logico-concettuale al quale la decisione in commento è ispirata.
La sentenza 84 del 2021 della Corte Costituzionale (a cui non si nega il carattere innovativo) si innesta in un percorso già intrapreso dalla stessa Consulta – nel dialogo con la Corte di Strasburgo – allorquando, con precedenti pronunce, aveva affermato che singole garanzie riconosciute in materia penale dalla CEDU e dalla stessa Costituzione italiana si estendono anche a tutte le sanzioni di natura punitiva.
Il presupposto di un simile approccio deve individuarsi nella consolidata giurisprudenza europea sulla nozione sostanziale di sanzione penale, basata sui parametri enucleati dalla sentenza Engel (c.d. Engel criteria)[12].
Ai fini dell’applicazione delle garanzie previste dalla Convenzione, sono infatti riconducibili alla materia penale tutte quelle sanzioni che, pur se non espressamente qualificate come penali dagli ordinamenti nazionali, hanno una connotazione afflittiva, sono rivolte alla generalità dei consociati e perseguono uno scopo repressivo e preventivo.
Tali criteri non trovano applicazione in via cumulativa, ma alternativa, sicché è sufficiente l’integrazione anche di uno solo di essi per giungere a considerare come lato sensu “penale” un illecito[13].
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha così offerto un’interpretazione autonoma della nozione di “accusa penale”[14]; approccio fatto proprio anche dalla Corte di Giustizia.
Sulla base di tali premesse concettuali, i Giudici di Strasburgo sono stati più volte chiamati a pronunciarsi sulla compatibilità con la Convenzione di procedimenti amministrativi non rispettosi delle garanzie da essa riconosciute tra cui, per l’appunto, il diritto al silenzio.
L’apertura alla più ampia tutela dell’esercizio del diritto a non autoincriminarsi, quale manifestazione delle garanzie previste dalla CEDU, fu tale da includere anche la materia tributaria[15].
Va segnalata, al riguardo, un’importante evoluzione della giurisprudenza europea.
Storicamente, le prime pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano inquadrato la questione sull’applicazione del diritto al silenzio alla materia fiscale, in assenza di una espressa disposizione, nell’ambito dell’art. 8 della Convenzione[16] il quale, nel disciplinare il “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, al secondo paragrafo, dispone che “non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Com’è noto, la Corte EDU ha escluso l’applicazione dell’art. 6 della Convenzione alle liti tributarie in quanto, attesa la natura pubblicistica del rapporto tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria, esse vertono su obbligazioni che, seppur di contenuto patrimoniale, riguardano doveri civici imposti in una società democratica[17].
A sostegno di tale impostazione milita un argomento di carattere letterale in quanto l’art. 6 prevede una serie di garanzie procedurali per i casi in cui vi sia una contestazione su “diritti e doveri di carattere civile” ovvero si verta “sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata” nei confronti della persona.
In tempi più recenti, la Corte EDU ha dimostrato un’insolita apertura rispetto al granitico orientamento espresso nella sentenza Ferrazzini[18], riconoscendo l’operatività di alcune prerogative del giusto processo – come quella del diritto al silenzio – anche in controversie di natura prettamente fiscale[19].
Invero, la Corte europea dei diritti dell’uomo, mutando prospettiva, ha ricondotto la questione nell’ambito dell’art. 6 della Convenzione, ritenendo che la posizione del contribuente sottoposto ad accertamento sia sostanzialmente equiparabile a quella del soggetto indagato in un procedimento penale.
Il licenziamento dell’art. 8 in favore dell’art. 6 della Convenzione, ha fatto sì che l’oggetto della tutela fosse non più di carattere sostanziale (diritto alla riservatezza) ma di natura eminentemente processuale (diritto di difesa)[20], sicché lo stesso art. 6 va, oggi, riconosciuto come parametro di legalità che il Legislatore ed Giudice tributario devono rispettare tutte le volte in cui la sanzione comminata dall’Amministrazione tributaria sia connotata dal carattere di afflittività[21].
3. La vis espansiva del diritto al silenzio nei procedimenti tributari volti ad irrogare sanzioni
Le argomentazioni addotte dalla Consulta nella sentenza del 30 aprile 2021 si pongono in soluzione di continuità con quanto affermato dalla giurisprudenza europea; a ben vedere, i parametri normativi nazionali e non richiamati, segnatamente, l’art. 24 Cost., l’art. 6 CEDU e gli artt. 47 e 48 CDFUE contribuiscono, complessivamente considerati, alla definizione della nozione di diritto di difesa e degli standard minimi di tutela per il suo esercizio.
Nel solco di detto corposo e ormai prevalente orientamento, può sostenersi che la difesa può realmente essere detta inviolabile solo ove sia garantita la libera scelta di tacere, in quanto non v’è dubbio che ove sussistesse un generale obbligo di rispondere secondo verità, altro non vorrebbe dire che riconoscere un obbligo di confessione. Affermare l’esistenza di un simile obbligo verso un’autorità diversa da quella giudiziaria, ma che a questa abbia l’obbligo di riferire, comporta un’innegabile esposizione a rischio di incriminazione.
Pur partendo dal dato acquisito con le recenti pronunce della Corte di giustizia UE, 2 febbraio 2021, C-481/19, DB c. Consob e della Corte costituzionale qui in commento, secondo cui il diritto al silenzio deve essere rispettato anche nell’ambito di procedure di accertamento di illeciti amministrativi, suscettibili di sfociare nell’inflizione di sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente penale, non può comunque affermarsi che le molteplici e complesse problematiche inerenti al sistema tributario possano tout-court dirsi risolte.
L’applicabilità del diritto in questione alla materia tributaria rimane, infatti, controversa sotto diversi profili.
Se in generale il diritto al silenzio, nella sua impostazione penalistica classica, implica, da un lato, che le autorità statali debbano esercitare i loro poteri di indagine senza ricorrere ad abusi o a coercizioni della volontà del soggetto imputato e, dall’altro, che l’indagato venga tutelato dalle illegittime pressioni delle stesse autorità sin dalla fase delle indagini per assicurare un equo processo, gli aspetti applicativi sono tutt’altro che di immediata soluzione.
Volere definire l’esatta portata del diritto al silenzio comporta l’analisi di quattro tradizionali problemi interpretativi: stabilire quale rischio legittimi l’attivazione di tale diritto; stabilire il contesto in cui possa essere esercitato tale diritto; stabilire quali siano le condotte consentite nell’esercizio di tale diritto; stabilire quali conseguenze giuridiche, quali regimi giuridici possano confliggere con tale diritto.[22]
Si può, oggi, affermare che la Consulta abbia dato puntuali risposte (solo) ad alcuni di tali quesiti rendendo, comunque, la materia tributaria potenzialmente fertile all’attuazione del principio del nemo tenetur quo detegere.
Una prima risposta all’interrogativo su quale sia il rischio al ricorrere del quale può essere invocato il privilegio contro l’auto-incriminazione si desume dalla condivisione, da parte della Corte costituzionale, dei principi espressi dalla giurisprudenza europea secondo cui le singole garanzie previste per la materia penale vadano estese alle sanzioni che derivano da procedimenti amministrativi, pur se non qualificate come penali dall’ordinamento nazionale, purché assumano una natura punitiva (secondo gli Engel criteria)[23].
Per quanto concerne il contesto in cui può essere esercitato il diritto al silenzio, ci si chiede(va) se esso è invocabile nel solo ambito del procedimento/processo penale o anche in una fase antecedente ed esterna a questo.
Superando la propria impostazione restrittiva, la Consulta, con la pronuncia in commento, ampliando lo spettro d’azione del diritto in esame, ha dato una risposta positiva alla seconda alternativa.
Decisivo, in tal senso, estendere la garanzia in capo a colui a cui vengono richiesti documenti o informazioni, indipendentemente dalla eventualità che gli sia già stata contestata la commissione di un reato[24].
Sostiene la Consulta, difatti, che il diritto al silenzio opera “nell’ambito di procedimenti amministrativi che – come quello che ha interessato il ricorrente nel giudizio a quo – siano comunque funzionali a scoprire illeciti e a individuarne i responsabili, e siano suscettibili di sfociare in sanzioni amministrative di carattere punitivo”[25].
Per quanto concerne le condotte protette da tale diritto, considerato che il silenzio – alla luce di quanto fin qui esposto – va inteso come astensione dal “parlare” (o mostrare), vanno ritenute scriminate solamente le condotte omissive e non anche quelle positive quali, per esempio, le condotte di mendacio, o di falsificazione materiale o ideologica, ovvero di frode.
È, dunque, giustificato astenersi per non cooperare alla propria incriminazione ma non agire allo scopo di evitarla.
Così delineata, traslata nell’articolato ordinamento tributario (dagli obblighi di dichiarazione al contenzioso), tale facoltà riconosciuta al contribuente si rivela foriera di conseguenze di notevole impatto, posto che la normativa fiscale è fitta di obblighi di condotta (di collaborazione) che potrebbero portare ad una autodenuncia della commissione di illeciti.
Ne consegue che tutte le volte in cui la collaborazione che viene chiesta implichi l’esposizione al rischio di una conseguenza punitiva, il contribuente non può essere costretto, neppure mediante la minaccia di sanzioni per l’omessa collaborazione, a rivelare alcunché[26].
Rivelandosi di particolare complessità, e incidendo su fattispecie eterogenee, nel prosieguo verranno delineate le ipotesi che maggiormente (e potenzialmente) vengono “incise” dall’applicazione del diritto al silenzio.
4. Diritto al silenzio e obblighi di collaborazione
Quanto esposto finora offre un’utile piattaforma su cui sviluppare l’esame della normativa vigente nel nostro ordinamento tributario al fine di identificare perplessità e incertezze applicative provocate dell’esercizio del diritto a non autoincriminarsi.
Come anticipato, la normativa tributaria contiene numerose norme che prevedono, a fronte di oneri e obblighi di collaborazione (si pensi all’obbligo di dichiarazione, di autoliquidazione, di versamento, di tenuta della contabilità, ecc.), sanzioni per il contribuente che si rifiuti di adempiervi.
Indubbiamente il “peso” gravante sul contribuente costituito dalla presenza di tali obblighi non implica un problema di possibile conflitto con il diritto al silenzio.
Essi trovano il loro fondamento nell’art. 2 Cost., che impone l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale, specificato poi dall’art. 53 Cost., e sono volti a far ostendere e rilevare la ricchezza e si pongono come strumentali al dovere gravante su ogni individuo di partecipare e concorrere alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva.
Il problema del diritto al silenzio non può dunque porsi rispetto agli obblighi dichiarativi e strumentali all’adempimento dei doveri tributari primari, in un momento in cui non può neppure astrattamente esistere una violazione, ma per gli eventuali doveri di collaborazione al controllo dell’avvenuto adempimento dei propri obblighi.
Sicuramente lo svolgimento dell’attività istruttoria da parte dell’Amministrazione finanziaria comporta un’intromissione nella sfera soggettiva del contribuente. Si tratta, tuttavia, di un’ingerenza che deve realizzare il giusto contemperamento fra opposte esigenze: da un lato, quella degli Uffici di ricercare e raccogliere dati ed elementi rilevanti ai fini dell’accertamento, nonché ai fini dell’individuazione delle violazioni delle norme tributarie; dall’altro, quella del contribuente a che l’attività di indagine cui viene sottoposto sia svolta in modo legittimo, non travalichi i limiti imposti dalla legge e non arrechi pregiudizio a situazioni giuridiche soggettive.
Orbene, in taluni casi, può verificarsi la circostanza in cui l’adempimento da parte del contribuente dei doveri di collaborazione nei confronti dell’Amministrazione finanziaria nell’esercizio di poteri di accertamento e controllo, implichi per lo stesso contribuente l’obbligo di fornire informazioni riguardanti l’esistenza di fatti fiscalmente rilevanti; il disvelamento di tali informazioni assolve, com’è ovvio, la funzione di garantire il regolare svolgimento dell’attività di accertamento da parte dell’Ufficio, evitando che il contribuente possa, mediante azioni od omissioni, intralciarne l’esercizio.
Tuttavia, tale forma di collaborazione richiesta al contribuente non può ritenersi illimitata, al punto da porre il contribuente nella situazione di dover rendere dichiarazioni o esibire documenti che possano esporlo al rischio di “autoincriminarsi”.
Pertanto, se l’ordinamento tributario prevede degli obblighi di cooperazione ai controlli contra se, sono questi a poter confliggere con il diritto al silenzio, in quanto obblighi di collaborazione all’accertamento della commissione di eventuali violazioni proprie, già ipoteticamente avvenute[27].
L’impatto del diritto al silenzio, dunque, dovrebbe dispiegarsi soltanto rispetto a quelle fattispecie in cui il dovere di collaborare con l’autorità amministrativa è volto esclusivamente ad agevolare la funzione investigativa/accertativa/sanzionatoria della pubblica autorità.
Posta tale premessa, ci si deve chiedere se, in quali ipotesi ed in che misura può postularsi, all’interno del sistema di tutela dei diritti del contribuente, un generale diritto al silenzio invocabile allorché la risposta alla richiesta di informazioni o esibizione di documenti da parte dell’Amministrazione finanziaria risulti potenzialmente idonea ad esporlo al rischio di incorrere in sanzioni sia penali sia di natura amministrativa.
4.1. Le sanzioni tributarie
Si pone il problema, anzitutto, di coniugare il diritto al silenzio con le sanzioni pecuniarie, in materia di imposte dirette e IVA, disposte dal D.Lgs. n. 471/1997, agli artt. 9 e 11, per chi ometta di rispondere alle richieste istruttorie dell’Agenzia delle Entrate. Ci troviamo dinanzi a sanzioni punitive, in palese conflitto con il diritto a tacere e, pertanto, da ritenersi illegittime[28].
In tema di sanzioni dirette suscettibili di entrare nel fuoco di un possibile conflitto con il diritto in esame, è evidente che è il campo penale tributario (reati in materia di imposte sui redditi e IVA) quello che si espone maggiormente all’utilizzo della strategia difensiva del silenzio, che si rivela particolarmente efficace soprattutto nei casi in cui vi è consapevolezza, nel soggetto sottoposto a verifica, di essere colpevole di reati di notevole gravità.
Diversi interrogativi sulla compatibilità del diritto si pongono in relazione:
- all’art. 10, D.Lgs. n. 74/2000 che punisce chi occulta o distrugge scritture contabili o documenti di cui è obbligatoria la conservazione. La fattispecie di reato consiste, pertanto, nell’occultamento, totale o parziale, di documenti rilevanti ai fini fiscali.
- all’art. 11, D.L. n. 201/2011, che punisce trasmissioni mendaci, incomplete o semplicemente non veritiere di documenti necessari al completamento delle procedure d’accertamento;
- (per stretto collegamento) all’art. 216, comma 1, n. 2) R.D. n. 267/1942 (bancarotta fraudolenta) e alla fattispecie generale prevista all’art. 490 c.p. (soppressione, distruzione e occultamento di atti veri).
Va osservato che l’efficacia scriminante del diritto al silenzio va perimetrata con riguardo soltanto – per quanto già esposto al paragrafo precedente – alle condotte di omessa collaborazione, cioè condotte di natura omissiva: le condotte di distruzione delle scritture contabili vanno ben oltre la semplice omissione e quindi non appaiono coperte dal diritto al silenzio.
Analogamente, non si pongono in conflitto con la portata del diritto al silenzio le sanzioni previste per l’eventuale commissione di delitti di falso durante i controlli. Le condotte che integrano il falso, ideologico o materiale, vanno ben oltre l’omettere di cooperare.
Controversa è, invece, la configurazione delle condotte di occultamento[29] che, a ben vedere, si prestano a tratteggiare linee diametralmente opposte.
Potrebbe presentarsi la situazione in cui il contribuente soggetto a verifica fiscale possa “per strategia” rifiutarsi di produrre documenti richiesti con l’intenzione di potere invocare successivamente, in giudizio, la tutela del diritto al silenzio e, così, godere della copertura delle garanzie previste dalla Costituzione e dall’art. 6 CEDU, evitando di essere sanzionato.
Può affermarsi che non è concettualmente equiparabile una condotta negativa (omissiva) all’occultamento. In effetti, l’occultamento postula un’azione, una condotta positiva ulteriore rispetto a quella di non fornire o non indicare la collazione di documenti o atti richiesti consistente, per l’appunto, a spostare, a nascondere le scritture contabili dalla loro collocazione originaria in modo da sottrarla temporaneamente alla cognizione altrui.
Tuttavia – si potrebbe obiettare – è sufficiente ai fini dell’integrazione dell’occultamento il fatto che i documenti contabili non siano rinvenuti? È sufficiente che il contribuente non le fornisca o bisogna dimostrare che il contribuente le ha spostate rispetto a un luogo “fisiologico”?[30]
Tale onere, in questa prospettiva, spetterebbe all’Amministrazione finanziaria che, non potendo obbligare il contribuente alla consegna materiale dei documenti, neppure con la previsione di una sanzione[31], sarebbe costretta, per ovviarvi, ad approfondite indagini che richiedono l’aumento dell’attività ispettiva tributaria e di vigilanza.
In un contesto ancora così nebuloso, spetterà all’interprete stabilire e delineare la corretta interazione tra condotte di occultamento e diritto al silenzio.
Sicuramente, sul tema non va sottaciuto un interrogativo, che rimarrà senza risposta: qualora la domanda dell’Autorità dovesse riguardare (come nella maggior parte dei casi) documenti fiscali per cui ex legibus[32] è obbligatoria la tenuta e la conservazione, si delinea uno vero e proprio paradosso in cui, da un lato, il contribuente è giuridicamente obbligato a detenere tale materiale (con quale fine?) ma, dall’altro, ha facoltà di non esibirlo esercitando, attraverso una condotta “omissiva”, il diritto di difesa.
4.2. Le sanzioni improprie
Conseguenze maggiormente innovative potrebbero configurarsi rispetto alle c.d. sanzioni improprie.
Ci si deve interrogare sulla portata del diritto al silenzio rispetto a quelle conseguenze sfavorevoli, anche se non propriamente definite sanzionatorie, cui un contribuente è in astratto esposto qualora non collabori.
Sotto il profilo procedurale, la prima conseguenza, forse quella che più incide sul contribuente e che non può non essere classificata come sfavorevole, è l’applicazione da parte dell’Amministrazione del metodo di accertamento di tipo induttivo extracontabile di cui all’art. 39, co. 2, D.P.R. n. 600/1973[33] in conseguenza della mancata produzione nel corso di attività ispettive o indagini delle scritture previste dalla legge.
Al ricorrere delle circostanze di cui al citato art. 39, l’Amministrazione può determinare la ricchezza del contribuente sulla base di uno standard probatorio attenuato, ossia avvalendosi di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Potrebbe sostenersi, prima facie, che tale attenuazione, comportando conseguenze sfavorevoli al contribuente si porrebbe in contrasto con il diritto al silenzio esercitato dallo stesso.
In realtà, l’inquadramento della fattispecie in esame non è univoco.
Da un lato, la scelta di procedere all’accertamento della ricchezza con degli standard accertativi minori, potrebbe rivelarsi necessaria, proporzionata e ragionevole a fronte di un contesto probatorio povero[34].
Invero, se il silenzio è esercitato per l’esigenza di non autoincriminarsi, può ammettersi una minor garanzia di precisione dell’accertamento solo qualora la non collaborazione del contribuente abbia comportato un contesto conoscitivo scarso tale da legittimare accertamenti meno analitici e puntuali da parte degli Uffici.
Diversamente, sarebbe da considerare illegittimo l’accertamento disposto come sanzione conseguente alla mancata collaborazione a fronte di un quadro probatorio che permette un accertamento comunque più preciso perché, cosi operando, l’accertamento induttivo “punirebbe” il contribuente che vedrebbe accertata con imprecisione e approssimazione la propria ricchezza laddove tale verifica potrebbe essere fatta comunque in modo preciso e puntuale.
4.2.1. L’inosservanza dell’ordine di esibizione disposto dal Giudice
Altro settore che può essere interessato dalla portata del diritto al silenzio è quello relativo alle conseguenze giuridiche per l’inottemperanza all’ordine di esibizione di documenti disposto dal Giudice.
Si pensi all’art. 2711 c.c. che disciplina le ipotesi di comunicazione ed esibizione dei libri e delle scritture contabili. Le norme ivi contenute si collocano tra le regole sull’istruzione probatoria e completano la disciplina probatoria delle scritture contabili di cui agli artt. 210 e 212 c.p.c., espressamente dedicati all’esibizione delle prove e, in particolare, all’esibizione dei documenti.
L’inosservanza dell’ordine di esibizione di documenti (nel caso dell’art. 210 c.p.c. ammesso nel processo tributario come strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte instante non abbia finalità esplorativa), integra un comportamento dal quale il giudice può, nell’esercizio di poteri discrezionali, desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116, comma 2, c.p.c.[35].
Per cui, sebbene le norme in tema di esibizione non contemplino sanzioni, l’inottemperanza all’ordine comporta delle conseguenze negative nei confronti della parte su cui grava tale onere, parte che potrebbe legittimamente decidere di non esibire i documenti richiesti, non collaborando ad una completa istruzione probatoria invocando il diritto al silenzio.
Sul tema è determinante stabilire, in mancanza di una sanzione (neppure astratta), fin dove possa “spingersi” il giudice nel valutare, ai fini del decidere, la mancata osservanza dell’ordine di esibizione e se le conseguenze siano tali da comportare una frizione con l’esercizio del diritto al silenzio.
4.2.2. Le preclusioni probatorie
Altro campo che si presta ad un esame di compatibilità con il diritto al silenzio è quello delle preclusioni probatorie, ossia la conseguenza per le condotte di omessa collaborazione di inutilizzabilità di documenti non esibiti durante le indagini amministrative nella successiva sede contenziosa[36].
L’esercizio del diritto a non autoincriminarsi potrebbe spingere il contribuente/indagato ad invocare tale privilegio anche sul piano procedimentale al fine di avvalersi del materiale probatorio non esibito durante le ispezioni nelle successive fasi di accertamento e contenzioso.
Bisogna domandarsi se, secondo tale lettura, il diritto al silenzio possa attaccare le preclusioni procedimentali di cui all’art. 32 D.P.R. n. 600/1973 e artt. 51 e 52 D.P.R. n. 633/1972.
Tali norme impediscono al contribuente il pieno esercizio del diritto di difesa in giudizio in conseguenza dell’omessa collaborazione giustificata, a monte, dalla scelta di non autoincriminarsi.
Quest’ultima prospettiva tratteggia scenari conflittuali nel nostro ordinamento, ponendosi in contrasto non solo con la normativa in materia di imposte e con il principio di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente[37], ma anche con il consolidato orientamento della Corte di cassazione[38], avallato dalla Corte costituzionale[39], secondo cui la mancata esibizione da parte del contribuente di documenti richiesti nel corso di ispezioni determina “l’inutilizzabilità” degli atti da parte del contribuente nel procedimento accertativo e contenzioso.
Sebbene le preclusioni di cui agli artt. 32, 51 e 52 citati non siano tecnicamente delle sanzioni, esse comportano innegabilmente una notevole limitazione alla strategia difensiva del contribuente e, pertanto, se ne può riconoscere la natura di sanzioni improprie.
Anche in questo caso è evidente la necessità di un corretto contemperamento fra opposte esigenze. Da un lato, la volontà dell’Amministrazione di scoraggiare l’inattività del contribuente o l’atteggiamento ostruzionistico; dall’altro, la posizione del medesimo contribuente sottoposto a verifica, chiaramente in situazione di soggezione, il quale non conosce ancora le contestazioni che verranno mosse nei suoi confronti e, legittimamente, modula la propria difesa.
Ne consegue che gli artt. 10 dello Statuto del contribuente e gli artt. 32 , 51 e 52 cit. non possono essere considerati in grado di rappresentare una disciplina generalizzata del contraddittorio anticipato che obbliga il contribuente alla collaborazione, con le conseguenze appena esaminate, ma dovranno essere applicati nel pieno rispetto della proporzionalità, coerenza e ragionevolezza che ampliano il diritto di difesa quale principio generale operante anche in ambito CEDU e UE, necessario ad assicurare una effettiva parità delle parti in ordine alla prova[40].
Secondo la lettura appena offerta, le preclusioni in esame si rivelano di dubbia legittimità e in contrasto col diritto di non cooperare alla propria incriminazione sancito dalle Corti internazionali e dalla Corte Costituzionale[41].
[1] Si veda tutta la vicenda riassunta nella sentenza n. 84 del 30 aprile 2021 della Corte costituzionale in materia di diritto al silenzio e c.d. sanzioni Consob.
[2] La Suprema Corte, con ordinanza n. 3831 del 16 febbraio 2018, sospendeva il giudizio, investendo la Corte Costituzionale questione di legittimità costituzionale dell’articolo 187 quinquiesdecies T.U.F., nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lett. b), L. n. 62/2005, di recepimento della Direttiva 2003/6/CE (Market Abuse Directive), oggi sostituito dall’art. 30, par. 1, lett. b) Reg. UE n. 596/2014 (Market Abuse Regulation), in relazione agli articoli 24, 111 e 117 Cost., all’art. 6 CEDU nonché all’art. 47 CDFUE, nella parte in cui il predetto art. 187 quinquiesdecies sanziona la condotta consistente nella mancata tempestiva ottemperanza alle richieste di Consob o nella causazione di un ritardo nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza nell’ipotesi di contestazione di un illecito di abuso di informazioni privilegiate. La Cassazione sottolinea, infatti, come dalla lettura della Direttiva 2003/6/CE si evinca un generale obbligo di collaborazione con l’Autorità di vigilanza, la cui violazione deve essere sanzionata dallo Stato membro ai sensi dell’art. 14, par. 3, della direttiva medesima; evidenzia, altresì, come tale obbligo sia sancito anche dal MAR.
[3] Corte Costituzionale, ordinanza 6 marzo 2019, n. 117.
[4] Corte di Giustizia UE, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19.
[5] Ufficio Stampa della Corte Costituzionale, comunicato del 30 aprile 2021, Il “diritto al silenzio” vale anche nei confronti della banca d’Italia e della Consob.
[6] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari-Roma, III ed., 1996, p. 623.
[7] P. Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 613.
[8] La giurisprudenza costituzionale sul riconoscimento della valenza costituzionale dello ius tacendi: C. cost., ord., 26 giugno 2002, n. 291; C. cost., sent., 2 novembre 1998, n. 361. Per la giurisprudenza di legittimità: Cass., Sez. III, 19 gennaio 2010, n. 9239, in CED Cass., n. 246233; Cass., Sez. V, 22 dicembre 1998, in CED Cass., n. 212618.
[9] Per uno studio organico ed esaustivo si rimanda a: V. Grevi, “Nemo tenetur se detegere”. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel diritto penale italiano, Milano, 1972.
[10] P. Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, cit., p. 615.
[11] G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, p. 310 ss. Corte EDU, 17 dicembre 1993, Funke c. Francia; 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito; 4 ottobre 2005, Shannon c. Regno Unito; 21 aprile 2009, Marttinen c. Finlandia.
[12] Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, par. 82.
[13] Corte EDU, 21 febbraio 1983, Öztürk c. Germania.
[14] F. Buffa, Le principali questioni in materia tributaria, in Questione Giustizia, 2019, p. 522 ss.
[15] A.E. La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione Finanziaria, Torino, 2012, in Collana “Studi di diritto tributario”, p. 27 ss.
[16] Commissione europea dei diritti umani Hardy Spirlet c. Belgio, n. 9804/82, 7 dicembre 1992; Corte EDU, Miailhe c. France, n. 12661/87, 25 febbraio 1993, Cremieux c. France, n. 11471/85, 25 febbraio 1993.
[17] Corte EDU, 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia, par. 29. Si veda anche Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia; Corte EDU, 9 dicembre 2004, Schouden e Meldrum c. Olanda; Corte EDU, 13 gennaio 2005, Emesa Sugar c. Paesi Bassi.
[18] Solo per dovere di completezza si segnala la sentenza della Corte di Giustizia UE (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Commissione tributaria centrale, sezione di Bologna – Italia) – Ufficio IVA di Piacenza c. Belvedere Costruzioni Srl, 29 marzo 2012, causa C-500/10, che mette in discussione il consolidato orientamento della Corte EDU sull’inapplicabilità dell’art. 6 CEDU al processo tributario. Si afferma che “l’obbligo di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Unione (nel caso di specie l’Iva) non può contrastare con il rispetto del principio del termine ragionevole di un giudizio il quale, in forza dell’art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si impone agli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione e la cui tutela si impone anche in forza dell’art. 6, par. 1, della Cedu”. Sul rapporto tra materia tributaria e CEDU: A. Marcheselli, Il giusto procedimento tributario. Principi e discipline, Padova, 2013; A. Marcheselli, Giustizia tributaria e diritti fondamentali. Giusto tributo, giusto procedimento e giusto processo, Torino, 2016.
[19] Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila v. Filandia, in cui si afferma che una sanzione, pur non essendo qualificata come penale, avendo carattere afflittivo e deterrente, deve rispettare il principio del “giusto processo” statuito nell’articolo 6 CEDU e, in particolare, nel caso di specie, l’obbligo della pubblica udienza. Sul tema si rimanda a A.E. La Scala, I principi del “giusto processo” tra diritto interno, comunitario e convenzionale, in Riv. dir. trib., n. 3, IV, 2007, 54 e ss.. Analogamente, la stessa Corte con sentenza 21 febbraio 2008, Ravon v. Francia, ha espresso il contrasto tra l’art. 6 CEDU e una disposizione domestica che abilita l’amministrazione finanziaria ad eseguire atti di ispezione domiciliare, in assenza di un controllo giurisdizionale effettivo.
[20] Sulla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia UE, si veda L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 45 – 48.
[21] N. Durante, Compatibilità dell’assetto ordinamentale della giustizia tributaria con l’art. 6 della CEDU, in “Relazione resa all’incontro di studio su “Rapporti contribuente-Fisco, tra giurisprudenza tributaria e Corte europea di Strasburgo – Novità fiscali – Rientro dei capitali – Autoriciclaggio”, organizzato a Catanzaro il 3 dicembre 2014, dalla Sezione Calabria dell’A.N.T.I. - Associazione nazionale tributaristi italiani”, p. 2.
[22] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria (spunti critici a margine di Corte cost. n. 84/2021), in Consulta Online, 2021 Fasc. II, p. 457.
[23] Corte cost., sent. n. 84/2021, par. 3.2 che richiama Corte cost., ord. n. 117/2019, p. 7.1 del considerato in diritto.
[24] Corte cost. sent. n. 84/2021, par. 2.2 del Considerato in diritto, “Anche a prescindere da tale considerazione, è peraltro decisivo il rilievo che il diritto al silenzio è qui invocato dal giudice rimettente quale garanzia in capo a colui che possa essere successivamente accusato di avere commesso anche solo un illecito amministrativo, ma suscettibile di dar luogo all'applicazione di una sanzione amministrativa dal carattere punitivo. Indipendentemente, dunque, dalla eventualità che nei suoi confronti venga effettivamente contestata la commissione di un reato”.
[25] Corte cost., sent. n. 84/2021, par. 3.5 del Considerato in diritto.
[26] A. Marcheselli, Giustizia tributaria e diritti fondamentali, cit., pag. 116.
[27] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria, cit., p. 461.
[28] A.E. La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione Finanziaria, cit. p. 24.
[29] Si potrebbe sostenere che il confine tra il rifiuto e l’occultamento sia molto incerto, soprattutto quando la condotta consista nella mera scelta di esibire determinati documenti piuttosto che altri, “ove l’incompletezza della risposta equivalga alla non rispondenza al vero”, così G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., p. 311.
[30] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria, cit., p. 463.
[31] G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., p. 310. La Corte EDU, sent. 5 aprile 2012, Chambaz c. Svizzera, la Corte di Strasburgo ha riscontrato una violazione dell’art. 6 CEDU (e, in particolare, del diritto a non contribuire alla propria incolpazione) nell’imposizione di una sanzione di tipo pecuniario al ricorrente che, sottoposto a un procedimento accertativo di tipo fiscale, non aveva consegnato alla pubblica amministrazione i documenti richiesti, contenendo tale documentazione indizi di reità a suo carico.
[32] L’obbligo della tenuta e conservazione delle scritture contabili è espressamente previsto sia dalla normativa civilistica (art. 2214 ss. c.c.) sia tributaria (artt. 22 del D.P.R. n. 600/1973 e 8, comma 5, della legge n. 212/2000).
[33] Ai sensi dell’art. 39, comma 2, D.P.R. n. 600/1973, l’accertamento induttivo può essere esperito dall’Ufficio, oltre che in caso di contabilità inattendibile, anche nelle seguenti ipotesi: - quando dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973 risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all’ispezione una o più scritture contabili ovvero quando le scritture contabili non sono disponibili per causa di forza maggiore; - quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti dell’Ufficio ai sensi dell’art. 32, comma 1, numeri 3) e 4), del presente decreto o dell’art. 51, comma 2, numeri 3) e 4) del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.
[34] A. Marcheselli, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria, cit., p. 464.
[35] Cassazione civile, Sez. I, 13.08.2004, n.15768.
[36] G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, p. 310 ss.
[37] Previsto dall’art. 10, Legge 27 luglio 2000, n. 212. Sul tema: A. Marcheselli, Il principio di buona fede e le preclusioni per i documenti sottratti alla verifica, in Corr. trib., 2010, 53.
[38] Cass., 17 giugno 2011, n. 13289; Cass., 13 aprile 2007, n. 8886; Cass., 28 gennaio 2002, n. 1030.
[39] La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 181/2007, ha escluso qualsiasi vizio di costituzionalità della normativa che prevede la decadenza dalla facoltà di dedurre documenti in giudizio in riferimento all’art. 53, comma 1, Cost., chiarendo che “la preclusione prevista dalla norma censurata, risolvendosi in un divieto di allegazione in giudizio dei dati e dei documenti non forniti dal contribuente in risposta all’invito dell’amministrazione finanziaria, opera sul piano esclusivamente processuale ed è perciò inidonea a menomare il principio di capacità contributiva”.
[40] G. Ingrao, La valutazione del comportamento delle parti nel processo tributario, Milano, 2008, p. 227
[41] A. Marcheselli, Giustizia tributaria e diritti fondamentali, cit., pag. 119.
Rinvio pregiudiziale e garanzie giurisdizionali effettive. Un confronto fra diritto dell’Unione e diritto nazionale*.
Commento all’ordinanza n. 2327/2021 del Consiglio di Stato
di Bruno Nascimbene e Paolo Piva
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. 2. La vicenda processuale avanti al giudice nazionale e il rinvio alla Corte di giustizia. 3. Il rimedio della revocazione e la sua “novità” nella prospettiva del principio di effettività della tutela giurisdizionale. 4. Il principio dell’intangibilità della regiudicata nazionale nella giurisprudenza della Corte: dai più lontani precedenti Eco Swiss e Köbler fino ai più recenti Pizzarotti e Telecom (“passando attraverso” Künhe&Heitz, Kapferer, Kempter, Lucchini, Fallimento Olimpiclub). 5. Sul significato concreto del rinvio. La distinzione fra interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione europea alla luce dell’art. 19 TUE e del diritto a un ricorso effettivo di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali (la possibile risposta al secondo quesito). 6. Considerazioni conclusive. La possibile risposta ai quesiti pregiudiziali.
1. Considerazioni introduttive
Il Consiglio di Stato, con l’ordinanza qui in commento, ritorna sul delicato tema della necessità ovvero dell’opportunità del rinvio alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE in vista, ed in funzione, di una maggiore effettività della tutela giurisdizionale, in un’ipotesi in cui le parti non potrebbero più contestare, alla stregua del diritto interno, la pronuncia, resa dallo stesso organo giurisdizionale amministrativo (a seguito e in attuazione di una decisione della Corte di giustizia in sede pregiudiziale), che ha deciso la controversia oggi pendente a seguito del rinvio .
Le parti ricorrenti si lamentano circa l’“esecuzione” da parte del Giudice nazionale dei principi stabiliti dalla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE: decisione che avrebbe (in thesi) violato in modo grave e manifesto il diritto dell’Unione europea. Sollevano, inoltre, la questione del giudice competente a “verificare” la corretta applicazione di tali principi (giudice nazionale di ultima istanza o Corte di giustizia), nonché la questione dell’incompatibilità “comunitaria” della disciplina processuale italiana afferente al rimedio della revocazione della sentenza di cui agli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. nella misura in cui non ammette una ipotesi speciale di revocazione “in un caso di violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”, non consentendo, dunque, di prevenire un giudicato contrastante con il diritto dell’Unione europea.
I tre quesiti, strettamente connessi l’uno con l’altro, vanno letti avendo presente la parte motiva dell’ordinanza di rinvio. Essi sono così formulati.a) se il giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, in un giudizio in cui la domanda della parte sia direttamene rivolta a far valere la violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio al fine di ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, possa verificare la corretta applicazione nel caso concreto dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio, oppure se tale valutazione spetti alla Corte di Giustizia; b) se la sentenza del Consiglio di Stato n. 4990/2019 abbia violato, nel senso prospettato dalla parti, i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 23 gennaio 2018 in relazione a) all’inclusione nel medesimo mercato rilevante dei due farmaci senza tener conto delle prese di posizioni di autorità che avrebbero accertato l’illiceità della domanda e dell’offerta di Avastin off-label; b) alla mancata verifica della pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle società; c) se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ostino ad un sistema come quello concernente gli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consente di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, ed in particolare con i principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”[1].
2 . La vicenda processuale avanti al giudice nazionale e il rinvio alla Corte di giustizia
In sede amministrativa, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) aveva accertato la sussistenza di un’intesa orizzontale restrittiva (c.d. hardcore restriction) della concorrenza fra due imprese farmaceutiche concorrenti in violazione dell’art. 101 TFUE, con il fine di ostacolare (questo l’asserito intento restrittivo) la possibilità di impiego off-label ad esclusivo uso ospedaliero di “Avastin”, ovvero l’uso (secondo le indicazioni del foglio illustrativo del farmaco) anziché per il trattamento di pazienti affetti da alcuni tipi di tumore avanzato, per la cura di diverse patologie oculari.
Come si legge nell’ordinanza di rinvio, l’intesa avrebbe “mirato a ridurre la domanda, e quindi le quantità vendute, di un prodotto meno costoso (Avastin, pari a € 81,64 per iniezione) a favore del più costoso prodotto concorrente (Lucentis, inizialmente pari a € 1.100 ad iniezione, e poi sceso a € 902 dal novembre 2012), attraverso il condizionamento dei soggetti responsabili delle scelte terapeutiche”. L’obiettivo di massimizzare i rispettivi introiti sarebbe derivato: a) nel caso del gruppo Novartis, dalle vendite dirette di Lucentis e dalla partecipazione del 33% detenuta da Novartis in Roche; b) nel caso del gruppo Roche, dalle royalties ottenute sulle stesse tramite la propria controllata Genentech, in un contesto di accordo di licenza. Tale strategia sarebbe stata posta in essere “nonostante le imprese fossero consapevoli della scarsità e discutibilità dei dati sugli eventi avversi derivanti dall’uso off-label di Avastin”.
Le due imprese Hoffman La Roche e Novartis avrebbero perseguito un’anomala strategia defatigatoria in sede sia amministrativa, sia giurisdizionale (nota in antitrust come sham o vexatious litigation, che spesso viene apprezzata come forma di abuso di posizione dominante), consapevoli della “scarsità e discutibilità dei dati sugli eventi avversi derivanti dall’uso off-label di Avastin”: il tutto con la finalità di ottenere una differenziazione artificiosa tra i farmaci Avastin e Lucentis, manipolando nel contempo la percezione dei rischi dell’uso in ambito oftalmico dell’Avastin.
Avanti al Giudice amministrativo, il provvedimento dell’AGCM, scrutinato come immune da censure dal Tar Lazio (cfr. la sentenza n. 12168/2014) era poi approdato in sede di appello avanti il Consiglio di Stato.
Stante la rilevanza e la delicatezza delle questioni, il massimo organo di giustizia amministrativa si determinava a rinviare in Corte di giustizia ex art. 267 TFUE al fine di chiarire alcuni aspetti della disciplina antitrust europea in relazione ai fatti contestati.
Con pronuncia del 23 gennaio 2018, la Corte di giustizia aveva raggiunto conclusioni apparentemente lineari sull’interpretazione dell’art. 101 TFUE in relazione alla fattispecie. Precisamente:
a) l’art. 101 TFUE dev’essere interpretato nel senso che, ai fini della sua applicazione, un’autorità nazionale garante della concorrenza può includere nel mercato rilevante, oltre ai medicinali autorizzati per il trattamento delle patologie di cui trattasi, un altro medicinale la cui autorizzazione all’immissione in commercio non copra detto trattamento, ma che è utilizzato a tal fine e presenta quindi un rapporto concreto di sostituibilità con i primi. Per determinare se sussista un siffatto rapporto di sostituibilità, tale autorità deve – sempreché le autorità o i giudici competenti a tal fine abbiano condotto un esame della conformità del prodotto in questione alle disposizioni vigenti che ne disciplinano la fabbricazione o la commercializzazione – tener conto del risultato di detto esame, valutandone i possibili effetti sulla struttura della domanda e dell’offerta;
b) l’art. 101, par. 1, TFUE dev’essere interpretato nel senso che un’intesa convenuta tra le parti di un accordo di licenza relativo allo sfruttamento di un medicinale la quale, al fine di ridurre la pressione concorrenziale sull’uso di tale medicinale per il trattamento di determinate patologie, miri a limitare le condotte di terzi consistenti nel promuovere l’uso di un altro medicinale per il trattamento delle medesime patologie, non sfugge all’applicazione di tale disposizione per il motivo che tale intesa sarebbe accessoria a detto accordo;
c) l’art. 101, par. 1, TFUE dev’essere interpretato nel senso che costituisce una restrizione della concorrenza «per oggetto» (ai sensi di tale disposizione) l’intesa tra due imprese che commercializzano due medicinali concorrenti, avente ad oggetto – in un contesto segnato dall’incertezza delle conoscenze scientifiche– la diffusione presso l’Agenzia europea per i medicinali, gli operatori sanitari e il pubblico, di informazioni ingannevoli sugli effetti collaterali negativi dell’uso di uno di tali medicinali per il trattamento di patologie non coperte dall’autorizzazione all’immissione in commercio di quest’ultimo, al fine di ridurre la pressione concorrenziale derivante da tale uso sull’uso dell’altro medicinale;
d) l’art. 101 TFUE dev’essere interpretato nel senso che una siffatta intesa non può giovarsi dell’esenzione prevista al par. 3 di tale articolo[2].
I principi affermati della Corte non sembra che lasciassero molto spazio, almeno ad una prima delibazione, a “letture” particolarmente favorevoli alle imprese ricorrenti, ed il Consiglio di Stato, in sede di attuazione della pronuncia al caso di specie, concludeva per il rigetto del ricorso [3].
La sentenza di rigetto, tuttavia, veniva gravata dalle imprese farmaceutiche, avanti alla medesima sezione del Consiglio di Stato, con le forme della revocazione ex artt. 395-396 c.p.c., lamentando, fra l’altro, la sussistenza di un errore revocatorio per più motivi: l’assenza di una qualsivoglia responsabilità diretta o indiretta (parentale) di Novartis[4]; il mancato accertamento del rispetto della disciplina farmaceutica dell’uso off-label dell’Avastin; l’omessa valutazione dell’effettiva ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle cause farmaceutiche.
Secondo la difesa delle società farmaceutiche, l’affermazione in un caso eiusdem generis, del carattere “per oggetto” dell’intesa restrittiva non poteva che passare attraverso l’accertamento del carattere lecito dell’immissione in commercio del farmaco, sia pure nel circuito “limitato” dell’off-label e per l’accertamento della natura effettivamente ingannevole delle informazioni diffuse, esame che spetta al Giudice del rinvio. Si trattava dunque di comprendere se quell’indagine fattuale che, secondo le ricorrenti, era un prius logico-giuridico inestricabilmente connesso ai principi affermati dalla Corte fosse stato apprezzato (o non) dal Consiglio di Stato in sede applicativa della pronuncia ex art. 267 TFUE.
La Corte di giustizia aveva, invero, osservato, quanto al carattere ingannevole delle informazioni, “che le informazioni la cui comunicazione all’EMA e al pubblico è stata oggetto, secondo la decisione dell’AGCM, di un’intesa tra la Roche e la Novartis dovrebbero, qualora non rispondenti ai criteri di completezza e di precisione di cui all’articolo 1, punto 1, del regolamento n. 658/2007, essere considerate ingannevoli se – circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare – dette informazioni miravano, da un lato, a indurre l’EMA e la Commissione in errore e ad ottenere l’aggiunta della menzione di effetti collaterali negativi nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, per consentire al titolare dell’AIC di avviare una campagna di sensibilizzazione dei professionisti della sanità, dei pazienti e delle altre persone interessate, al fine di amplificare artificiosamente tale percezione e, dall’altro lato, ad enfatizzare, in un contesto di incertezza scientifica, la percezione da parte del pubblico dei rischi connessi all’uso off-label dell’Avastin, tenuto conto, in particolare, del fatto che l’EMA e la Commissione non hanno modificato il riassunto delle caratteristiche di tale medicinale in termini di «effetti indesiderati», ma si sono limitate a formulare «avvertenze speciali e precauzioni d’impiego»”[5].
Si potrebbe osservare a margine che se, a seguito dell’intervento della titolare dell’AIC supportato in ciò dal proprio concorrente, EMA e Commissione hanno imposto la modifica del “bugiardino” in termini di “avvertenze speciali e precauzioni di impiego” e non già di “effetti indesiderati”, ciò parrebbe di per sé escludere un “automatico” intento decettivo idoneo ad integrare un’intesa restrittiva “per oggetto”, dal momento che il “comune operare” nel contesto dell’autorizzazione del farmaco per una corretta indicazione, da parte delle Autorità, degli effetti avversi non parrebbe indicativo di un intento anticoncorrenziale per se[6].
Anche la non esentabilità dell’intesa dal divieto ai sensi dell’art. 101, n. 3 TFUE potrebbe lasciare perplessi[7], posto che nella strategia restrittiva perseguita dalle imprese farmaceutiche una parte del beneficio andava innegabilmente a favore degli utilizzatori finali ovvero dei pazienti. Ma quel che qui rileva, particolarmente, è che secondo la Corte “non spetta alle autorità nazionali garanti della concorrenza la verifica della conformità al diritto dell’Unione delle condizioni alle quali un medicinale quale l’Avastin è, dal lato della domanda, prescritto dai medici e, dal lato dell’offerta, riconfezionato per l’uso off-label. Una simile verifica può infatti essere effettuata in maniera esaustiva soltanto dalle autorità preposte al controllo del rispetto della normativa farmaceutica o dai giudici nazionali”[8]. Il che non può apparire quantité négligeable ai fini della legittimità dell’accertamento dell’AGCM, specie laddove questo tipo di indagine sia stato effettuato dalla medesima in completa autonomia e al di fuori di ogni controllo dell’autorità deputata.
In altre parole, non può dubitarsi del fatto che la verifica in fatto della completezza e precisione delle informazioni ai fini dell’AIC, come pure dell’assenza in concreto dell’induzione in errore, siano tutti elementi di decisiva importanza ai fini dell’applicazione dell’art. 101, par.1, TFUE, secondo la prospettiva della Corte. Il che ci riporta al tema dell’operato del Consiglio di Stato in sede di applicazione della sentenza della Corte di giustizia.
3. Il rimedio della revocazione e la sua “novità”[9] nella prospettiva del principio di effettività della tutela giurisdizionale
Come si è osservato, le società farmaceutiche, richiamando i principi affermati dslla Corte, contestavano da un lato l’assenza di accertamenti in ordine all’illiceità delle condizioni di ri-confezionamento e di prescrizione dell’Avastin destinato all’uso off-label; dall’altro lato, lamentavano altresì l’omessa pronuncia in relazione al profilo dell’ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle case farmaceutiche, precisando come tale profilo dovesse intendersi come “cumulativo” rispetto alla prova della concertazione e pertanto decisivo ai fini della definizione del giudizio.
Sotto una diversa prospettiva, si chiedeva di sottoporre alla Corte di giustizia la questione circa la compatibilità comunitaria di un sistema come quello derivante dal combinato disposto di cui agli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c., nella misura in cui le regole processuali italiane non consentirebbero un’ulteriore speciale ipotesi di revocazione (in presenza di violazione manifesta dei principi di diritto stabiliti ex parte Curiae in sede pregiudiziale) e sarebbero pertanto inidonee a prevenire la formazione di un giudicato contrario al diritto dell’Unione europea.
Il ragionamento peraltro sarebbe suffragato dalle seguenti circostanze: a) le sentenze della Corte hanno valenza di “fonte del diritto” (cfr. Corte Cost., 23.4.1985, n. 113); b) il giudice nazionale, particolarmente quello del rinvio, non può discostarsi dalla sentenza resa in via pregiudiziale (cfr. Corte di giustizia, 5.10.2010, causa C-173/09)[10]; c) l’eventuale assenza di un motivo revocatorio comporterebbe che sarebbero violati principi fondamentali quali la funzione nomofilattica della Corte di giustizia; la vincolatività delle sentenze della Corte di giustizia nell’interpretazione autentica del diritto UE; l’applicazione uniforme del diritto UE e infine l’obbligo di collaborazione tra giudice nazionale e giudice UE.
Dopo aver richiamato principi e norme comunitarie e nazionali rilevanti in materia, il Consiglio di Stato ricorda la pronuncia dell’Ad. Plen. n. 12/2017, secondo cui: “all’esito della decisione della Corte Costituzionale n. 123 del 26 maggio 2017 […] è evidente che il ricorso per revocazione […] deve essere dichiarato inammissibile, in quanto risulta essere stato proposto per una ipotesi non contemplata dall’ordinamento giuridico, ed è noto che per la costante giurisprudenza civile ed amministrativa, attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell'art. 14 delle preleggi”.
Vi è da osservare che pure Corte cost. n. 6/2018 (sentenza del 18.1.2018) aveva osservato (analogamente) sul punto: “rimane il fatto che, specialmente nell’ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 cod. proc. civ., come auspicato da questa Corte con riferimento alle sentenze della Corte EDU (sentenza n. 123 del 2017)”.
Insomma, secondo il Consiglio di Stato, si tratterebbe di un tema interessante, ma di pertinenza del legislatore, con la conseguenza che, per l’ordinanza di rinvio nel “sistema giuridico nazionale non sussiste uno strumento atto a verificare e a garantire che una sentenza emessa da un organo giurisdizionale di ultimo grado non si ponga in contrasto con il diritto comunitario e, nello specifico, con i principi espressi della Corte di giustizia” (punto 8).
E pur tuttavia, secondo il Collegio che cita la nota sentenza della Corte di giustizia Köbler al riguardo, “la possibilità di incidere sulla decisione prima che la stessa passi in giudicato, al fine di scongiurare il consolidamento della violazione del diritto dell’Unione Europea, appare preferibile rispetto al possibile rimedio, solo successivo, del risarcimento del danno, che in ogni caso implicherebbe per la parte gli oneri di un nuovo giudizio e per il quale è in ogni caso necessario che la violazione del diritto unionale sia non solo sussistente, ma anche manifesta”[11].
Al fine di spiegare la rilevanza della questione, viene ricordato che, con sentenza non definitiva, il Collegio aveva già dichiarato l’inammissibilità dei motivi di revocazione dedotti dalle società ricorrenti in termini di errore di fatto revocatorio, non sussistendo i presupposti di cui all’art. 395 c.p.c., così come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, in particolare perché si è trattato di “punti controversi” e non propriamente di “abbaglio dei sensi” e/o di “omessa pronuncia”. Sotto questo profilo, si potrebbe osservare, per così dire, nihil sub sole novi: la giurisprudenza nazionale rende particolarmente arduo, se non già inutile o impraticabile, l’introduzione di un ricorso ex art. 395, n. 4 c.p.c. in termini di errore revocatorio.
In effetti, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, come del resto quella della Corte di Cassazione, sono unanimi nel precludere, sostanzialmente, ogni possibilità di azione sotto questo profilo, dal momento che l’orientamento costante del primo, “in tema di errore di fatto revocatorio (sez. IV, 25 novembre 2016 n. 4983; 24 gennaio 2011 n. 503), è nel senso che la “svista” che autorizza e legittima la proposizione del rimedio della revocazione, tendenzialmente eccezionale anche nei casi di c.d. revocazione ordinaria (cfr. Cass., n. 1957/1983), è rappresentata o dalla mancata esatta percezione di atti di causa, ovvero dall'omessa statuizione su una censura o su una eccezione ritualmente introdotta nel dibattito processuale”[12].
Analogamente, le Sezioni Unite[13], “rincarando la dose”, ricordano che “l’impugnazione per revocazione delle sentenze della Corte di cassazione è ammessa nell'ipotesi di errore compiuto nella lettura degli atti interni al giudizio di legittimità, errore che presuppone l'esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa; pertanto, è esperibile, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, comma 1, n. 4, c.p.c., la revocazione per l'errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità che non abbia deciso su uno o più motivi di ricorso, ma deve escludersi il vizio revocatorio tutte volte che la pronunzia sul motivo sia effettivamente intervenuta, anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi di censura del punto, perché in tal caso è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva immediatamente percepibile), bensì un’errata considerazione e interpretazione dell'oggetto di ricorso e, quindi, un errore di giudizio” (corsivo aggiunto).
Ciononostante, atteso il senso originario dell’art. 395 c.p.c. n. 4, dovrebbe prevalere un’interpretazione che faccia salva l’effettività del mezzo di ricorso anche alla luce del principio “comunitario” di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali[14]. Si può aggiungere che la tematica della revocazione impinge quasi naturalmente in quella della responsabilità dello Stato-Giudice, dal momento che, laddove si intenda contestare la violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea ai sensi della pronuncia Köbler[15], nonché Traghetti del Mediterraneo[16] e infine Commissione c. Italia[17], una certa interpretazione mirerebbe a subordinare l’azione avanti al Giudice della responsabilità al previo esperimento di ogni azione ordinaria, ivi compresa l’azione di revocazione ex art. 395 c.p.c.[18].
Al di là della correttezza dell’assunto (che potrebbe avrebbe un senso solo se la revocazione fosse effettivamente un rimedio vero e non già un mezzo di ricorso – notoriamente - del tutto inefficace), per apprezzare correttamente una domanda di revocazione si dovrà ricordare che “il diritto dell'Unione osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado, per il motivo che la violazione controversa risulti da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale” [19]. È altrettanto incompatibile con il diritto dell'Unione una legislazione che, nelle ipotesi in cui opera la responsabilità statale per i danni prodotti dall'esercizio della funzione giurisdizionale, limiti tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione escluda la sussistenza della responsabilità dello Stato membro nei casi in cui sia stata accertata una violazione manifesta del diritto applicabile.
In una prospettiva interna, giova ricordare che già la Corte costituzionale, con pronuncia n. 17/1986, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'art. 395 prima parte e n. 4, nella parte in cui non prevede la revocazione di sentenze della Corte di cassazione rese su ricorsi basati sul n. 4 dell'art. 360 e affette dall'errore di cui al n. 4 dell'art. 395, posto che “il diritto di difesa, in ogni stato e grado del procedimento garantito dall’art. 24 comma secondo Cost., sarebbe gravemente offeso se l’errore di fatto, così come descritto nell'art. 395 n. 4, non fosse suscettibile di emenda sol per essere stato perpetrato dal Giudice cui spetta il potere-dovere di nomofilachia”[20].
Ancora, è stato osservato condivisibilmente che “allorquando [la Corte] prenda in considerazione la Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (invocata frequentemente in sede di revocazione in Cassazione), tenuto conto dell’obbligo per il giudice comune di procedere ad una interpretazione convenzionalmente orientata (si vedano C. Cost. n. 348/2007 e 349/2007; n. 49/2015), ai fini della revocazione i giudici nazionali sono chiamati ad un'applicazione rigorosa e ad una valutazione molto attenta di ogni elemento anche in fatto della relativa fattispecie, essendo indispensabile che la risposta concreta regga ad un vaglio di proporzionalità e così di adeguatezza, nell’equilibrio raggiunto tra l'esigenza dell'interesse generale e la salvaguardia del diritto fondamentale[21].
Se tanto vale per le pronunce della Corte EDU, un’interpretazione ancor più favorevole ad un’ammissibilità ampia di censure, anche di natura revocatoria, dovrebbe essere scontata, specie laddove l’esame di determinate circostanze di fatto fosse conseguenza diretta ed immediata del pronunciamento della Corte come nel caso di specie.
Nel caso concreto, tuttavia, il Consiglio di Stato “consegna” all’attenzione della Corte i risultati della propria indagine di merito, osservando di avere sostanzialmente “obbedito” ai principi affermati dalla Corte: si deve tuttavia rilevare che l’atteggiamento del massimo organo di giustizia amministrativa suscita qualche perplessità dal momento che si è limitato a ribadire che “l’avvio di un procedimento presso l’EMA al fine di includere tali informazioni nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, incombono al solo titolare dell’AIC del medicinale in questione e non ad un’altra impresa che commercializza un medicinale concorrente”[22]. Se questo aspetto può certamente essere rilevante al fine di far sorgere un sospetto che vi sia un’intesa e che le informazioni non siano genuinamente improntate a tutelare la salute delle persone (o quanto meno non solo), non si può tuttavia ritenere che in tal modo sia stata effettuata un’indagine attenta sul carattere ingannevole delle informazioni. Carattere ingannevole che, come si è già osservato, parrebbe invece essere escluso dalla semplice circostanza quale “la decisione di Ema di respingere la richiesta di Roche di modificare la sezione 4.8 (effetti indesiderati) del RCP di Avastin, e la modifica solo della diversa sezione 4.4 (avvertenze e precauzioni d’uso) del RCP, per segnalare la specificità delle applicazioni a mezzo d’iniezione intravitreale, cui conseguono rischi di possibili infezioni” (grassetto aggiunto). Rilievo che non sembra irrilevante, specie in un contesto di salute pubblica, come lo si è visto anche di recente con le indicazioni assai contraddittorie e tendenzialmente “negazioniste” di EMA e AIFA, in tema di effetti avversi dei vaccini in commercio al tempo della pandemia.
Insomma, in termini di errore revocatorio, pare proprio che una maggiore preoccupazione per la giustizia in concreto avrebbe potuto e dovuto indurre il Consiglio di Stato a diversi approdi, anche se è innegabile che le strettissime maglie (per usare un eufemismo) di ammissibilità dell’azione di revocazione previste dal diritto vivente, come usa dire, rendevano l’esito del tutto scontato.
La conclusione dell’ordinanza di rinvio è nel senso che, dovendosi escludere la sussistenza di una violazione dal punto di vista sia della sua configurazione astratta, sia da quello fattuale, del diritto dell’Unione europea e dei principi affermati dalla sentenza della Corte di giustizia del 23 gennaio 2018, non sussisterebbe neppure la rilevanza della questione pregiudiziale sollevata dalle parti[23]. Tuttavia (continua l’ordinanza) “la Sezione si pone l’interrogativo se debba essere il Giudice nazionale a sindacare la sussistenza di una violazione del diritto dell’Unione Europea, piuttosto che la Corte di Giustizia, che ai sensi dell’art. 267 TFUE ‘è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: […] b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione’, tra cui ben può farsi rientrare anche una pronuncia della stessa Corte di Giustizia”[24].
Anche a questo quesito, il Consiglio di Stato sembra già fornire una risposta precisando che “è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia che quest’ultima non è competente a decidere lo specifico caso e spetta unicamente al giudice nazionale esaminare e valutare i fatti del procedimento principale nonché determinare l’esatta portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative applicabili (cfr. sentenza 3 ottobre 2019 C-632/18; 13 aprile 2010, Bressol e a., C73/08; 21 giugno 2017, W e a., C-621/15); esula delle competenze della Corte la verifica e la valutazione delle circostanze di fatto relative al procedimento principale, spetta invece al giudice nazionale effettuare «una valutazione globale di tutti gli elementi relativi a detto procedimento» (sentenza 6 settembre 2012, C – 273/11)”.
E, pur tuttavia, stante l’enfatizzata “peculiarità” del caso, l’ordinanza si chiede se non si debba pensare che questa indagine spetti alla Corte di giustizia, “potendosi prospettare – quale precipitato del dovere di cooperazione al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione nell’insieme degli Stati membri – che ad esso debba essere deputata la stessa Corte di Giustizia, quale organo che ha dettato la specifica regola di giudizio che doveva applicare il giudice nazionale e di cui la parte lamenta la violazione”.
Se queste sono le ragioni, appare tuttavia discutibile la “peculiarità” del caso, dal momento che avviene sempre, in sede di rinvio pregiudiziale, che la Corte detti la specifica regola di giudizio che il giudice nazionale deve applicare e di cui la parte lamenta la violazione.
Suscitano qualche perplessità le considerazioni in tema di inammissibilità del rimedio alla luce delle pronunce della Corte costituzionale n. 123/2017 e dell’Ad. Pl. n. 12/2017 di “esecuzione” della prima, a maggior ragione riguardando un’ipotesi differente, precisamente “quella di un contrasto con una decisione della Corte Europea dei Diritti Umani”. In primo luogo, invero, stante la diversità strutturale, anche nella considerazione della Corte costituzionale (si vedano le sentenze nn. 348/2007 e 349/2007), fra il diritto dell’Unione e il diritto internazionale convenzionale, la pronuncia della Corte costituzionale pare poco rilevante; la Corte costituzionale, inoltre, stava “ragionando” di vera e propria ipotesi di cosa giudicata, non già di questione ancora sub judice ovvero di “sentenza contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata” ai sensi e agli effetti dell’art. 395, n. 5 c.p.c. In secondo luogo, non pare nemmeno che il tenore di cui all’art. 395, n. 5 sia assistito da “eccezionalità” ex art. 14 delle preleggi, non foss’altro per il fatto che si fa riferimento genericamente a un “precedente” avente autorità di cosa giudicata fra le parti e i rimedi di cui ai nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. sono considerati pacificamente “ordinari” e non già “straordinari”[25].
Pur con tutte le “peculiarità” del caso (sentenza resa dalla Corte di giustizia nello stesso processo e risultante da una sospensione c.d. impropria del processo secondo la nota terminologia di Liebman), la dottrina tradizionale da sempre si è espressa per le pronunce della Corte rese in sede pregiudiziale come sentenze aventi l’autorité de chose interpretée, se non già di chose jugée[26].
In ogni caso, pare difficile negare che la pronuncia della Corte rispetto alle parti in causa abbia un’autorità assai simile nella sostanza a quella della cosa giudicata, sia cioè vincolante e non impugnabile. E’ proprio la possibilità rinviare nuovamente (già segnalata nella risalente pronuncia Da Costa[27]) ad impedire di parlare tout court di “cosa giudicata”, senza tuttavia che queste caratteristiche speciali del giudicato comunitario (differenziato notoriamente in ‘di invalidità’ ed ‘interpretativo’ in senso stretto) sia suscettibile di essere sussunto nell’art. 396 n. 5 c.p.c. ai fini di una maggior tutela.
Non va sottaciuto, poi, che i casi di “precedenti” sono tutt’altro che tassativi, se solo si considera che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 3, c. 2 della l. 14 gennaio 2013, n. 5 (Adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli di Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004 nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), le sentenze passate in giudicato del giudice italiano che siano in contrasto con una sentenza della Corte internazionale di giustizia che abbia accertato il difetto di giurisdizione possono essere impugnate per revocazione e, in tal caso, non si applica l’art. 396 c.p.c.
In altre parole, l’obbligo di interpretazione conforme, unitamente alla circostanza che non si tratterebbe di una interpretazione contra legem, potrebbe consentire un’interpretazione analoga dell’art. 395, n. 5 c.p.c. anche in relazione alle pronunce rese dalla Corte fra le stesse parti (in quanto fonte di diritto), come ricordato dall’ordinanza.
4 - Il principio dell’intangibilità della regiudicata nazionale nella giurisprudenza della Corte: dai più lontani precedenti Eco Swiss e Köbler fino ai più recenti Pizzarotti e Telecom (“passando” attraverso Künhe&Heitz, Kapferer, Kempter, Lucchini, Fallimento Olimpiclub). L’autonomia procedurale nazionale.
L’ordinanza in commento sembra negare la possibilità dell’utilizzo del diritto processuale nazionale con la finalità di creare innovativamente rimedi processuali a favore di una maggiore effettività del diritto dell’Unione.
In altri termini, l’invocabilità dell’art. 395 c.p.c. in funzione di garanzia dell’effettività della pronuncia della Corte di giustizia resa ai sensi e agli effetti dell’art. 267 TFUE sarebbe impedita da una duplice difficoltà: a) avanti al Consiglio di Stato non si è ancora creato un giudicato; b) la stessa pronuncia della Corte non può dirsi un vero giudicato, avendo le caratteristiche ontologicamente diverse.
Il tema che qui si intende illustrare (eventuale “superamento” di una nozione formalistica della cosa giudicata nazionale in virtù del principio della tutela effettiva) è fra quelli che più hanno suscitato, in dottrina, accese discussioni (peraltro non ancora sopite) in ordine ad una possibile forzatura, ex parte Curiae, del fondamentale principio di effettività ben oltre i limiti della ragionevolezza.
Storicamente, pare che la Corte di giustizia si sia posta per la prima volta il problema di un’eventuale neutralizzazione degli effetti propri del giudicato interno alla luce del principio dell’effettività nella pronuncia Eco Swiss. In quel caso, invero, dopo aver ricordato che le disposizioni nazionali che impediscono di rimettere in discussione un lodo arbitrale avente – in quanto non impugnato – natura di regiudicata, sono giustificate dal “principio della certezza del diritto e [da] quello del rispetto della cosa giudicata che ne costituisce l’espressione”, la Corte ha sostanzialmente negato che il valore di un giudicato possa essere rimesso in discussione, sia pure alla luce di una norma di diritto “comunitario” di carattere imperativo (artt. 101-102 TFUE)[28].
Qualche anno più tardi, nella nota sentenza Köbler, lo stesso problema si ripropose a fronte dell’affermazione del principio di responsabilità dello Stato-giudice a fini risarcitori (come applicazione della c.d. dottrina Francovich), di talché non è stato difficile per la Corte osservare, analogamente peraltro a quanto accade nel contesto della CEDU, che “il principio della responsabilità dello Stato inerente all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno”[29]. Da queste prime prese di posizione, si comprende come, in linea di principio, la Corte attribuisca il giusto valore al principio della res judicata, la cui importanza “non può essere contestata (v. sentenza Eco Swiss, cit., punto 46). Infatti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione”[30].
Ma la démarche della Corte verso un possibile superamento (sia pure eccezionale, come si vedrà, per condizioni e presupposti) dell’intangibilità della cosa giudicata è stata successivamente piuttosto netta. È nel caso Kühne & Heitz, che la Corte afferma, per la prima volta, che il primato, letto alla luce della c.d. Bundestreue e all’esigenza di effettività di applicazione della norma dell’Unione, può portare talora a questo risultato[31]. A seguito di un rinvio pregiudiziale del College van Beroep voor het bedrijfsleven (giudice olandese competente in tema di questioni doganali) originato da una controversia in tema di errata qualificazione di voci e sottovoci della tariffa doganale (precisamente, su cosa si debba intendere per coscia di pollo), la Corte ha avuto modo di affermare che “il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 CE [oggi art. 4.3 TFUE] impone ad un organo amministrativo, investito di una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte qualora: - disponga secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; - la decisione in questione sia divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; - tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse adita in via pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234, n. 3,CE, e - l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza”[32].
Una tale conclusione viene raggiunta, comunque, se non dopo aver ricordato e ribadito come, in linea di principio, “la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario. Il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza e da ciò deriva che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo”[33].
Successivamente a questo importante precedente, la Corte si è dovuta confrontare con alcuni casi in cui i giudici nazionali chiedevano lumi al fine di una migliore comprensione ed applicazione concreta del rationale sotteso a Kühne & Heitz.
Il primo di questi, in termini temporali, è la pronuncia Kapferer, sollevata dal Landesgericht Innsbruck. Pur muovendo da una questione di interpretazione degli artt. 10 CE (oggi, art. 4.3. TUE) e 15 del regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001 (c.d. Bruxelles I, poi sostituito dal reg. n. 1215/2012, c.d. Bruxelles I bis)[34], la questione si è trasformata, per la Corte, concretamente, in quella relativa alla trasponibilità dei principi della Kühne & Heitz al c.d. giudicato sostanziale.
La Corte, seguendo in ciò il suggerimento dell’avvocato generale Tizzano, ha precisato che “anche ammettendo che i principi elaborati in tale sentenza Kühne & Heitz siano trasferibili in un contesto che, come quello della causa principale, si riferisce ad una decisione giurisdizionale passata in giudicato, occorre ricordare che tale medesima sentenza subordina l’obbligo per l’organo interessato, ai sensi dell’art. 10 CE [art. 4.3. TUE], di riesaminare una decisione definitiva che risulti essere adottata in violazione del diritto comunitario, alla condizione, in particolare, che il detto organo disponga, in virtù del diritto nazionale, del potere di tornare su tale decisione (v. punti 26 e 28 della detta sentenza). Orbene, nel caso di specie, è sufficiente rilevare che dalla decisione di rinvio risulta che la suindicata condizione non ricorre” [35].
In realtà, il precedente invocato dalla consumatrice austriaca in detta causa impingeva già, indubitabilmente, nel principio della regiudicata, posto che, come ricordato in Kühne & Heitz dall’avvocato generale Léger, “la risposta data dalla Corte nella citata sentenza Larsy” poteva “essere integralmente trasposta alla situazione della causa principale, anche se la decisione giurisdizionale nazionale a cui si richiamava l’organo amministrativo coinvolto (nella citata causa Larsy) non era definitiva quando quest’ultimo ha adottato la decisione controversa, per cui essa era semplicemente dotata dell’autorità di cosa giudicata, e non della forza di cosa giudicata o dell’autorità della cosa definitivamente giudicata come avviene nella causa in discussione”[36].
In un diverso caso, Kempter[37], la Corte dovette affrontare nuovamente la spinosa questione, e ciò in una controversia relativa a (solo) parziali restituzioni all’esportazione ottenuti, dalla ditta esportatrice di bovini in diversi paesi terzi, presso lo Hauptzollamt Hamburg-Jonas. La questione sottoposta dal Finanzgericht di Amburgo, in buona sostanza, riguardava la possibilità di Kempter KG di rimettere in discussione un giudicato e una decisione amministrativa definitiva in applicazione degli artt. 48 e 51 della legge sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz) del 25 maggio 1976, invocando un precedente della Corte di cui era venuto a conoscenza dopo il passaggio in giudicato della pronuncia sulla sua controversia, precedente che effettivamente gli avrebbe consentito di recuperare integralmente le restituzioni de quibus. In particolare, il giudice nazionale si interrogava su due circostanze di applicabilità della dottrina Kühne & Heitz: ovvero, se a) sia necessario che il privato interessato abbia sollevato la questione di diritto comunitario in precedenza ed abbia ottenuto un rigetto e se b) sia necessario che il privato chieda immediatamente la revisione della pronuncia definitiva. La Corte risponde negativamente ad entrambi i quesiti. Ed invero, quanto alla prima, osserva che “nell’ambito di un procedimento dinanzi ad un organo amministrativo diretto al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva in virtù di una sentenza pronunciata da un giudice di ultima istanza, la quale, alla luce di una giurisprudenza successiva della Corte, risulta basata su un’interpretazione erronea del diritto comunitario, tale diritto non richiede che il ricorrente nella causa principale abbia invocato il diritto comunitario nell’ambito del ricorso giurisdizionale di diritto interno da esso proposto contro tale decisione”[38] .
Quanto poi al decorso del tempo e alla diligenza nell’attivarsi in tal senso, la Corte precisa che “il diritto comunitario non impone alcun limite temporale per presentare una domanda diretta al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva. Gli Stati membri rimangono tuttavia liberi di fissare termini di ricorso ragionevoli, conformemente ai principi comunitari di effettività e di equivalenza”[39] . Si può osservare al riguardo che, quanto alla prima precisazione, essa non sembra così coerente con la giurisprudenza della Corte in tema di applicabilità d’ufficio, ex parte judicis, del diritto dell’Unione di natura imperativa (pur accennata dalla Corte per giustificare la propria soluzione); quanto invece alla lettura dell’aspetto temporale della giustiziabilità di una domanda “alla Kühne & Heitz”, essa appare sostanzialmente riconducibile nel solco tradizionale della giurisprudenza in tema di termini processuali, materia di per sé di diritto processuale nazionale per eccellenza (ancorché con le dovute e note precisazioni).
Quanto al caso Lucchini, si ricorda che la controversia dinanzi al giudice italiano era sorta in relazione ad aiuti concessi dallo Stato italiano in favore della società Lucchini, che erano stati oggetto di una decisione CECA (90/555/CECA) di incompatibilità, decisione divenuta inoppugnabile per il decorso del termine di un mese per l’eventuale impugnativa ex art. 33, 3° comma, CECA[40].
In modo del tutto scollegato dalla loro sede e regime naturali, gli aiuti in parola erano stati oggetto di azioni di accertamento e di condanna che avevano visto il Ministero dell’industria, commercio e artigianato soccombere, nei confronti della Lucchini, davanti al Tribunale civile di Roma, prima, e poi, in secondo grado, davanti alla Corte d’appello (con sentenza passata in giudicato). Successivamente, tuttavia, l’autorità amministrativa italiana – che pur era stata costretta ad erogare l’aiuto per la soccombenza in sede civile – procedeva, anche su pressioni della Commissione, alla revoca dell’aiuto: revoca impugnata dal privato beneficiario, prima di fronte al Tar Lazio e dopo, in sede di gravame, avanti al Consiglio di Stato. E mentre il giudice amministrativo di prime cure dava ragione alla Lucchini in virtù del c.d. giudicato implicito, intervenuto prima della decisione definitiva di incompatibilità, da parte della Commissione, il massimo organo di giustizia amministrativa sollevava due questioni pregiudiziali con la finalità di chiarire se il primato e la diretta efficacia della decisione della Commissione imponessero alle autorità nazionali di recuperare l’aiuto illegittimo anche in presenza di un giudicato interno che, almeno formalmente, impedisce, lege fori, il recupero o se, invece, alla luce del precedente Deutsche Milchkontor[41], il recupero debba essere retto dal diritto nazionale con conseguente applicazione della regola di cui all’art. 2909 c.c.
Sotto questo profilo, la soluzione della Corte sul tema dell’applicazione del 2909 c.c., a tenore del quale, “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa” e che copre anche il c.d. giudicato implicito o deducibile, non poteva che essere scontata: “il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva”[42].
La sentenza Lucchini non sposta, sostanzialmente, la giurisprudenza della Corte, tutto sommato equilibrata in linea di principio, ancorché non sempre coerente, sul tema dell’autonomia processuale degli Stati membri e sulla necessità, di regola, di “accettare” i valori processuali provenienti dalla lex fori, compreso quello fondamentale della res judicata. Il valore della res judicata nazionale non è inficiato (è anche un principio fondamentale di diritto processuale dell’Unione), ma non ha più di tanto rilevanza in una materia dove vigono procedure di controllo e sanzioni europee. Più rilevanti in questa prospettiva di “revisione” del giudicato interno paiono essere i casi Fallimento Olimpiclub e Pizzarotti.
Nel primo, Fallimento Olimpiclub, a proposito della teoria unitaria o frammentaria del giudicato fiscale, la Corte ha osservato che “il diritto comunitario osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’IVA concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta”[43].
Nella causa Pizzarotti in tema di formazione progressiva del giudicato amministrativo in sede di ottemperanza, la Corte ha potuto affermare che “se le norme procedurali interne applicabili glielo consentono, un organo giurisdizionale nazionale, come il giudice del rinvio, che abbia statuito in ultima istanza senza che prima fosse adita in via pregiudiziale la Corte di giustizia ai sensi dell’articolo 267 TFUE, deve o completare la cosa giudicata costituita dalla decisione che ha condotto a una situazione contrastante con la normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici di lavori o ritornare su tale decisione, per tener conto dell’interpretazione di tale normativa offerta successivamente dalla Corte medesima”[44].
Infine, in maniera assai più piana e rispettosa dell’autonomia procedurale degli Stati membri, la Corte ha riaffermato, recentemente, che “il diritto dell’Unione dev’essere interpretato nel senso che esso non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme di procedura interne che riconoscono autorità di cosa giudicata a una pronuncia di un organo giurisdizionale, anche qualora ciò consenta di porre rimedio a una violazione di una disposizione del diritto dell’Unione, senza con ciò escludere la possibilità per gli interessati di far valere la responsabilità dello Stato al fine di ottenere in tal modo una tutela giuridica dei loro diritti riconosciuti dal diritto dell’Unione”[45].
Quali conclusioni trarre, dunque, da questa giurisprudenza non sempre così lineare e coerente in tema di cosa giudicata interna?
Come osserva l’avvocato generale Bobek[46], “La giurisprudenza sviluppatasi nel corso degli anni è variegata […]. Essendo legata al caso specifico, essa resiste a generalizzazioni. Sono rinvenibili esempi di approcci diversi. Tale giurisprudenza spazia da posizioni alquanto benevole nei confronti degli Stati membri, in cui l’equivalenza è tendenzialmente considerata sufficiente, a perentorie istanze di effettività, in cui lo Stato membro è tenuto a fare (molto) di più rispetto a ciò che è normalmente possibile ai sensi del suo diritto nazionale. Ad un estremo vi sono cause in cui la Corte ha accettato le norme processuali in questione, dopo aver reso il rispetto della condizione dell’equivalenza il punto focale della sua analisi. In tali cause, la valutazione della condizione dell’effettività è stata oggetto di un approccio particolarmente tenue. A tale riguardo, la Corte ha chiarito che il principio di equivalenza non può essere interpretato nel senso di obbligare uno Stato membro ad estendere a tutte le azioni fondate sul diritto dell’Unione le sue norme processuali più favorevoli. Tale criterio di controllo «clemente» sembra essere stato impiegato soprattutto in materia di istituti e meccanismi di diritto processuale comuni a tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, essendo connaturati a qualsiasi sistema giuridico (come, ad esempio, l’autorità di cosa giudicata, i termini e così via). All’estremo opposto si rinvengono cause quali Simmenthal, San Giorgio, Factortame, Cartesio, Elchinov, o Klausner, in cui la Corte ha insistito in modo categorico su una solida concezione dell’effettività. Tali cause riguardavano situazioni in cui un ordinamento giuridico nazionale era privo di un determinato tipo di rimedio, mentre la prassi nazionale in questione era percepita come fonte di ostacoli sistemici alla piena effettività del diritto dell’Unione o a una tutela rapida e completa dei singoli lesi nei loro diritti”[47].
A tal riguardo, è stato osservato che “the important point is that, in all such situations, Union law itself determines the scope and limits of the principle of supremacy – by examining the role of that principle relative to other basic tenets of the Union legal order (…) By contrast, it is in principle impermissible for national courts or tribunals to condition the supremacy of Union provisions unilaterally upon the requirements of purely domestic law (however fundamental)”[48].
In altre parole, e in conclusione, pare poco credibile che si rappresenti alla Corte che un certo risultato processuale, laddove davvero imposto dal primato del diritto dell’Unione, non sarebbe possibile solo in virtù di esigenze di puro diritto processuale nazionale, perché, ad esempio, le ipotesi di revocazione sono tassative o altro. Se una siffatta necessità di interpretazione conforme o di disapplicazione della norma processuale interna deriva da effettive esigenze di primato, nessuna difficoltà processuale interna presunta o tale può ostacolarne l’interpretazione conforme o la stessa disapplicazione.
Nel caso di specie, un analogo trattamento ai fini dell’ammissibilità del rimedio di cui all’art. 395, nn. 4 e 5 c.p.c. viene riservato alle sentenze della Corte EDU o a quelle della Corte internazionale di giustizia, e non si vede per quale ragione non possa e non debba essere riservato anche alle pronunce della Corte di giustizia, sulla base dei medesimi presupposti di fatto e di diritto. Si tratta, ancora una volta, di una conseguenza necessitata derivante dal principio di equivalenza, interpretato secondo un approccio “serio” e non già troppo “clemente”.
5. Sul significato concreto del rinvio. La distinzione fra interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione europea alla luce dell’art. 19 TUE e del diritto a un ricorso effettivo di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali (la possibile risposta al secondo quesito).
Il Consiglio di Stato parte dalla premessa, indubitabilmente corretta, che secondo una giurisprudenza nazionale che potremmo definire pietrificata, “l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (cfr. Corte di Cassazione ordinanza n. 3340 del 05/02/2019; Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017)”.
In effetti, questo tipo di contestazione vis-à-vis del giudice incaricato di applicare il principio afferisce piuttosto ad un problema di responsabilità del Giudice. Afferma il Consiglio di Stato:“tale assetto dei rapporti tra Giudice della nomofilachia e Giudice di merito appare replicabile anche nella prospettiva dei rapporti tra Giudice nazionale e Corte di giustizia, posto che la indiscussa vincolatività che deriva dalla pronuncia adottata da quest’ultima non può confondersi con la funzione giurisdizionale riservata al giudice nazionale, neanche quando è in discussione una controversia per la quale rileva il diritto dell’Unione, al cui interno si inserisce il rinvio pregiudiziale: al giudice nazionale, invero, appartiene in via esclusiva il potere di decidere la controversia e di valutazione dei fatti e delle emergenze istruttorie (cfr. sentenza, 19 marzo 1964, causa 75/63, Unger; sentenza, 26 settembre 1996, causa C-341/94)”.
Al Giudice nazionale remittente (continua il Consiglio di Stato con articolata argomentazione) spetta il compito di applicare le norme di diritto “comunitario” al caso concreto; pertanto: “la Corte non è competente a pronunciarsi sui fatti della causa principale, dato che tali questioni rientrano nella competenza esclusiva del giudice nazionale (sentenza 22 giugno 2000, causa C-318/98, Fornasar e a., Racc. pag. I-4785, punto 32) (sentenza 16.10.2003, Causa C-421/01)”.
A fronte di un siffatto argomentare, il riparto di competenze proprio di questa speciale procédure de juge à juge parrebbe condurre ad una sorta di risposta per così dire scontata, una sorta di truismo. Ma non è propriamente così. Sin dai primi precedenti della Corte in materia, la risposta sembra essere più complicata: secondo l’avvocato generale Lagrange, ad esempio, nel caso Costa c. Enel, dopo aver ricordato che l'interpretazione astratta del testo del Trattato o della legislazione secondaria viene sempre data in relazione al caso concreto che costituisce l’oggetto della controversia, “tracciare il confine tra applicazione e interpretazione è senza dubbio uno dei problemi più complessi sollevati dall'art. 177 [oggi, art. 267 TFUE], tanto più che detto confine coincide con quello tra competenza del giudice comunitario e competenza del giudice nazionale, e non vi è alcun foro per dirimere un'eventuale conflitto. Orbene, è palese che un conflitto tra la Corte di Giustizia ed i supremi fori nazionali potrebbe mettere in serio pericolo il sistema di controllo giurisdizionale istituito dal Trattato, sistema il quale è basato sulla collaborazione stretta, e spesso persino organica, fra l'una e gli altri” [49] . O, ancora, l’avvocato generale Capotorti, nelle conclusioni nella causa CILFIT, osservava: “l'applicazione di una norma a un determinato caso richiede sempre, logicamente e praticamente, l'identificazione del significato e della portata di quella norma, senza la quale non si giunge a stabilire che essa è adatta al caso di specie, né a trarre dal suo contenuto tutte le conseguenze riferibili al caso. Si può forse dire che, quando si applica una norma, interpretazione e applicazione si intrecciano e si fondono, ma non è certo concepibile che una norma sia applicata senza bisogno di interpretarla, a meno che non si travisi il significato della parola «interpretazione», attribuendole necessariamente un carattere di difficoltà”[50].
Parole che sembrano in qualche modo riecheggiare ante litteram le difficoltà con cui qui, oggi, ci si confronta[51].
Si deve osservare, tuttavia, che il Trattato di Lisbona ha rafforzato l’obbligo del Giudice nazionale di rispettare le sentenze della Corte in concreto, dal momento che all’art. 19, comma 1, secondo alinea, TUE, si precisa icasticamente che “gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione”.
L’effettività della tutela richiama subito alla mente una sorta di rafforzamento in concreto della vincolatività della pronuncia della Corte, rafforzamento che certamente abilita la parte ad invocare nuovamente, avanti al Giudice nazionale, l’opportunità o necessità del rimedio del rinvio pregiudiziale per verificare il significato veritiero, proprio ed “effettivo” del diritto dell’Unione nel momento dell’attuazione del principio interpretativo ex parte judicis.
In una questione decisa dalla Corte nella causa Ognyanov si discettava, precisamente, dell’interpretazione degli artt. 267 TFUE e 94 del regolamento di procedura della Corte[52], nonché dell’art. 47, secondo comma, e dell’art. 48, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea avanti al Giudice nazionale[53]. Il thema decidendum era di quelli di particolare delicatezza, involgendo una questione di possibile parzialità del collegio nazionale giudicante: la legittimità, alla luce del diritto dell’Unione, di una normativa nazionale che obbliga il collegio giudicante di un organo giurisdizionale a dichiarare la propria incompetenza qualora abbia espresso, nella domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte, un parere provvisorio nell’esporre il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale, e questo prima della decisione finale.
La Corte di giustizia ha concluso che “il diritto dell’Unione, segnatamente l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che non impone né vieta al giudice del rinvio di procedere, in seguito alla pronuncia della sentenza emessa in via pregiudiziale, ad una nuova audizione delle parti nonché a nuove misure istruttorie che possano indurlo a modificare gli accertamenti di fatto e di diritto da esso effettuati nell’ambito della domanda di pronuncia pregiudiziale, purché tale giudice dia piena attuazione all’interpretazione del diritto dell’Unione data dalla Corte di giustizia dell’Unione europea” (corsivo aggiunto)[54].
Si potrebbe osservare che la Corte di giustizia abbia così già risposto al secondo quesito contenuto nell’ordinanza del Consiglio di Stato, essendo pacifico vuoi che, a seguito della pronuncia ex art. 267 TFUE, il Giudice nazionale possa modificare il proprio giudizio sul fatto riaprendo la causa in istruttoria, vuoi soprattutto che esso dia piena attuazione all’interpretazione del diritto dell’Unione, data dalla Corte di giustizia e che, dunque, quest’ultima possa essere chiamata a verificare la correttezza dell’attuazione da parte del Giudice nazionale che non può, in tutta evidenza, limitarsi ad un lip-service rispetto al pronunciamento della prima.
Un particolare passaggio nell’ordinanza qui in commento merita di essere sottolineato e ripreso tout court: “nel peculiare caso in esame, la domanda di parte ricorrente - nella parte in cui punta all’annullamento della sentenza impugnata - ha ad oggetto la dedotta violazione da parte di quest’ultima dei principi dettati dalla Corte di Giustizia nell’ambito del giudizio principale all’interno del quale la stessa era stata adita. In altre parole, la domanda proposta dalla società, nella sua fase rescindente, si fonda soltanto, e necessariamente, sulla supposta violazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nella precedente fase processuale, sicché anche le circostanze di fatto e i relativi elementi di prova, che in base alla giurisprudenza già citata dovrebbero essere di esclusiva valutazione del giudice nazionale, vengono a costituire – nella loro prospettata errata o mancata valutazione da parte del giudicante – gli specifici parametri alla stregua dei quali verificare la sussistenza o meno della dedotta violazione dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia”.
Va detto, oltre ad essere scontato che il Giudice nazionale possa investire nuovamente la Corte per ottenere un nuovo chiarimento (come del resto avvenuto in molti casi)[55] o anche (perché no ?) per una verifica della correttezza dell’attuazione dei principi affermati dalla Corte al caso concreto, non c’è dubbio che se, nella controversia specifica sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato, come sottolinea l’ordinanza di rinvio, la verifica del fatto pare inestricabilmente connessa con il principio di diritto, ciò possa e debba avvenire a fortiori, senza che ciò implichi una (pericolosa) messa in discussione del riparto delineato dai Trattati in ordine al rimedio di cui all’art. 267 TFUE[56].
6. Considerazioni conclusive. La possibile risposta ai quesiti pregiudiziali.
Senza volersi, per così dire, cimentare (a tutti i costi) in una previsione di quella che sarà la risposta della Corte, habent sua sidera lites (che vale anche a Lussemburgo, ovviamente), si può ritenere, e auspicare, che i quesiti siano valutati e apprezzati nella prospettiva qui indicata di diritto dell’Unione.
a)Quanto al primo quesito si deve osservare che la premessa sembra soffrire di una sorta di petizione di principio, alla luce del noto rinvio Randstad, operato dalle Sezioni Unite, pendente avanti alla Corte di giustizia[57].
b)Quanto al secondo quesito sottoposto, suscita perplessità il fatto che il Consiglio di Stato esprima, rispetto allo stesso, dubbi in termini sia di fondatezza, sia di rilevanza o interesse attuale della questione (si ricordi che il Collegio ha già emesso una sentenza non definitiva di rigetto di tutti i pretesi vizi revocatori), al punto che ci si potrebbe persino chiedere per quale motivo, allora, un tale quesito venga sottoposto alla Corte, stante in qualche modo la “signoria” del Giudice nazionale nel valutare in modo decisivo tale aspetto del rinvio (cioè la sua pertinenza). Ed in effetti, ricorda l’ordinanza, “sul piano dell’astratta configurabilità, nel caso di specie, di una violazione del diritto comunitario, deve rilevarsi che il Giudice, nel giudizio proposto avverso il provvedimento n. 24823 del 27.2.2014, vista la rilevanza comunitaria della materia: a) ha sollevato specifico quesito pregiudiziale alla Corte di Giustizia; b) ha recepito la relativa pronuncia, citandone le conclusioni e richiamandola in diversi passaggi della motivazione della sentenza n. 4990/2019 impugnata in questa sede”.
c) Non rimane che provare a scorgere, nel case-law della Corte, quale sarà il possibile orientamento della medesima a fronte del terzo quesito, l’unico (a ben vedere) avente una vera e propria rilevanza rispetto alla controversia sub judice. L’ordinanza chiede di conoscere, come già si è ricordato, se “gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” ostino ad un sistema, quale derivante dal combinato disposto degli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui queste disposizioni nazionali impediscono al giudice il ricorso al rimedio del ricorso per revocazione per contestare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di giustizia ed i principi di diritto affermati da quest’ultima in sede di rinvio pregiudiziale[60].
E’ pur vero, in effetti, che la Corte di giustizia, di per sé, non può interferire autonomamente nell’accertamento del diritto nazionale vigente (per così dire as it stands), e quindi come è descritto dal Giudice nazionale, ma è evidente che, da un lato, un rinvio già pendente sembra rappresentare esattamente il contrario, rivendicando la competenza del giudice nazionale.
Non si comprende precisamente (in altre parole) se il senso della premessa dell’ordinanza qui in commento sia finalizzato per l’appunto a rafforzare nella Corte di giustizia l’idea che le pronunce del Consiglio di Stato non siano suscettibili di alcun sindacato, non essendo l’art. 111, comma 8, Cost. interpretabile come abilitante ad un ricorso di giurisdizione avverso le pronunce del Consiglio di Stato per ineffettività in concreto della tutela; ovvero se siffatta premessa sia dettata da un vero e proprio souci d’efficacité in vista della soluzione del terzo quesito pregiudiziale. Soluzione che potrebbe essere formulata, in realtà, nei termini seguenti: “stante l’impossibilità di altra tutela, dica la Corte di giustizia che il giudice nazionale può riconoscere l’utilizzabilità, in concreto, in virtù del principio di equivalenza o dell’effettività, del rimedio di cui all’art. 395 c.p.c., n. 5 anche in relazione alle pronunce della Corte di giustizia”.
In ogni caso, un rinvio, dopo una precedente pronuncia ex art. 267 TFUE, può essere sollevato e finalizzato a verificare la corretta applicazione al caso concreto dei principi espressi dalla Corte di giustizia nel medesimo giudizio. Tanto può dirsi scontato e lo impone la giurisprudenza della Corte[58] e l’art. 19, 1° comma, secondo alinea, TUE rettamente inteso.
In verità, quanto all’indagine fattuale sottesa dalle risposte della Corte di giustizia (come si è già osservato) il Consiglio di Stato sembra in qualche modo “accontentarsi” dei principi astratti affermati dalla Corte di giustizia: il che, a ben vedere, potrebbe costituire un motivo di “non attuazione” del giudicato della Corte. Certo, l’indagine non può essere rifiutata tout court perché nella pronuncia ex parte Curiae si rinviene l’inciso “se del caso”. Si tratta di un’espressione di per sé anodina, tecnicamente ed ermeneuticamente dipendente dalle circostanze del caso, ma giammai espressiva dell’idea di lasciare all’arbitrio del giudice nazionale se verificare (o non). Si aggiunga che anche il recente rinvio del Consiglio di Stato, ord. n. 7713/2020 sulla necessità di un’analisi degli effetti economici dell’abuso di posizione dominante in presenza di quello che autorevole dottrina definisce abuse of dominant position by object (pur non essendo cioè presente nell’art. 102 TFUE, diversamente che nell’art. 101 TFUE per le restrizioni, la distinzione fra effect-abuses e per se o by object-abuses)[59] risponde, in fondo, a medesime esigenze di maggior certezza “fattuale” o “specifica”: fino a che punto il principio stabilito dalla Corte, in particolare nella materia antitrust, impone o può imporre al giudice nazionale una sorta di indagine fattuale “vincolata” dal principio di diritto stabilito dalla prima ? La risposta non può che essere rinvenuta nelle esigenze di effettività della tutela giurisdizionale e, coerentemente, di uniformità dell’applicazione del diritto dell’Unione (funzione nomofilattica a garanzia della vera sostanza della lex communis).
Si è già osservato come il principio di interpretazione conforme possa essere d’ausilio nel “leggere” le disposizioni interne come abilitanti il Giudice nazionale ad un’interpretazione della fonte di diritto costituita dalla sentenza resa in sede di art. 267 TFUE in termini di precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, ai sensi dell’art. 395, n. 5 c.p.c., anche alla luce degli artt. 4.3. e 19, 1°comma, 2° alinea TUE, nonché art. 47 della Carta, al fine di consentire un maggior effetto utile e di vincolatività al principio espresso dalla Corte[61].
In fondo, se le sentenze della Corte di giustizia sono vincolanti (il che è finanche scontato) e non sono suscettibili di impugnazione stricto sensu (altro è la necessità-opportunità di ulteriore rinvio per chiarimenti ed approfondimenti), non si vede per quale motivo non si possa, in virtù del principio di equivalenza[62], utilizzare il rimedio della revocazione con la finalità di impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme “comunitarie”, in conformità alla stessa ratio dell’art. 395 c.p.c. e a quel che accade con pronunce di altre Corti “sopranazionali”.
Una conclusione, infine, che si può trarre da questo nuovo rinvio alla Corte di giustizia è che, come amava dire il Giudice americano Jackson, “only the untaught layman or the charlatan lawyer can answer that procedure matters not”[63].
* Il commento è frutto di una elaborazione comune: il par. 1 è comunque attribuibile a Bruno Nascimbene (già professore ordinario di diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea); i parr.2-6 a Paolo Piva (professore associato di diritto dell’Unione europea).
[1]La causa, pendente a seguito dell’ordinanza di rinvio del 18.3.2021, è la C-261/21;per un commento all’ordinanza , cfr. R. Pappalardo, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2327, in questa Rivista. Sulla attuale pendenza avanti alla medesima Corte, causa C-497/20,Randstad , a seguito di rinvio da parte delle S.U della Corte di Cassazione, ordinanza del 18.9.2020, n. 19598 ( in cui viene in rilievo, fra l’altro, in sede di esame di questione di motivi attinenti la giurisdizione ex art. 111, 8° comma Cost., la possibile violazione in modo grave e manifesto del diritto dell’Unione europea da parte del Consiglio di Stato), cfr. l’ordinanza delle S.U. n. 19598/2020 oggetto di una varietà di commenti e di numerosi richiami anche in questa Rivista, per i quali v., senza pretesa di completezza: cfr. F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione, 11 novembre 2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598);M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, 30 novembre 2020; P.Biavati, Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., S.U., 30 ottobre 2020, n. 24107). Fra questi, si permette ricordare anche B. Nascimbene, P. Piva Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni grave e manifeste del diritto dell’Unione europea?
[2] Sentenza 23.1.2018, causa C-179/16, Hoffmann La Roche, EU:C:2018:25.
[3] Cons. Stato, VI, 19.7.2019, n. 4990. Sul tema, si vedano L. Arnaudo, R. Pardolesi, La saga Avastin /Lucentis: ultima stagione, in Foro.it, 2010, III, c. 533 ss.
[4] A margine della teoria dell’unità del gruppo (o single economic entity), circa l’irrogabilità della sanzione a carico della succursale o della casa madre, si veda recentemente G. Contaldi, Diritto europeo dell’economia, Torino, 2019, p. 187 ss..
[5] Cfr. il regolamento della Commissione relativo alle sanzioni pecuniarie in caso di violazione di determinati obblighi connessi con le autorizzazioni all'immissione in commercio rilasciate a norma del regolamento (CE) n. 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio. In esso si precisa, fra l’altro, la necessità della “completezza e accuratezza delle informazioni e dei documenti contenuti in una domanda di autorizzazione all’immissione in commercio in forza del regolamento (CE) n. 726/2004 ovvero di tutti gli altri documenti e dati presentati all’Agenzia europea per i medicinali istituita da detto regolamento” (corsivo aggiunto).
[6] Tanto parrebbe ancor più vero alla luce delle conclusioni raggiunte dalla stessa Corte nella sentenza 21.11.2018, C-29/17, Novartis Farma c. Aifa e a., EU:C:2018:931, in cui si autorizza l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) a monitorare l’Avastin, il cui impiego per un uso non coperto dall’autorizzazione all’immissione in commercio («off-label») è posto a carico finanziario del Servizio Sanitario Nazionale (Italia) e, se del caso, ad adottare provvedimenti necessari alla salvaguardia della sicurezza dei pazienti. Non sembra, invero, individuabile in concreto “un grado di dannosità per la concorrenza sufficiente perché si possa ritenere che l’esame dei loro effetti non sia necessario” (punto 78, sentenza Hofmann La Roche cit. ). Si aggiunga che, alla luce della nota giurisprudenza Groupement Cartes Bancaires, C-57/13 P, 11.9.2014, EU:C:2014:2204, la Corte di giustizia aveva già avuto modo di criticare e stigmatizzare un approccio largheggiante, sotto questo profilo, da parte del Tribunale nell’individuare ipotesi di restrictions by object: in quella pronuncia si legge infatti che “il Tribunale ha erroneamente ritenuto, al punto 124 della sentenza impugnata, e poi anche al punto 146 della medesima, che la nozione di restrizione della concorrenza «per oggetto» non debba essere interpretata «restrittivamente». Infatti, salvo esimere la Commissione dall’obbligo di provare gli effetti concreti sul mercato di accordi rispetto ai quali non è affatto dimostrato che siano, per loro natura, dannosi per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza, la nozione di restrizione della concorrenza «per oggetto» può essere applicata solo ad alcuni tipi di coordinamento tra imprese che presentano un grado di dannosità per la concorrenza sufficiente perché si possa ritenere che l’esame dei loro effetti non sia necessario. La circostanza che i tipi di accordo menzionati dall’articolo 81, paragrafo 1, CE non esauriscano le possibili ipotesi di collusioni vietate è, a tal proposito, irrilevante” (punto 58). Sul tema si veda, fra gli altri, D. Bailey, Reinvigorating the Role of Article 101(3) under Regulation 1/2003, in Antitrust Law J., vol. 81, n. 1 (2016), 111-144.
[7] Se è vero infatti che per la Corte “la diffusione di informazioni ingannevoli su un medicinale non può essere considerata «indispensabile», ai sensi della terza condizione richiesta, per beneficiare di un’esenzione ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE” (punto 98), è altrettanto vero che queste informazioni presuppongono una induzione in errore di EMA e Commissione che non può dirsi scontata a fronte dell’aggiunta di “avvertenze speciali e precauzioni d’impiego”. In altri termini la stessa esentabilità dell’accordo ex art. 101, par. 3 dal divieto di cui all’art. 101, par.1 TFUE può risultare ammissibile sicut et in quantum sia negata in concreto l’induzione in errore. Si può forse ricordare che, secondo una giurisprudenza risalente ma ancora valida, “non vi può essere, in via di principio, una pratica anticoncorrenziale la quale, quale che sia l’intensità dei suoi effetti su un determinato mercato, non possa essere esentata, qualora siano cumulativamente soddisfatte le condizioni stabilite dall’art. 85, par. 3, del Trattato, [poi art. 101, par. 3, TFUE] e sempre che la pratica di cui trattasi sia stata regolarmente notificata alla Commissione” (causa T-17/93, sentenza 15.7.1994, Matra Hachette SA c. Commissione, EU:T:1994:89). Ovviamente, dopo il Regolamento n. 1/2003, è venuta meno la necessità della previa notifica dell’accordo.
[8] Cfr. il punto 60.
[9] Il tema, invero, non è propriamente nuovo se solo si pensa che, già ai tempi dei noti precedenti della Corte Lucchini (sentenza 18.7.2007, C-119/05, EU:C:2007:434) e Fallimento Olimpiclub (sentenza 3.9.2009, C-2/08, EU:C:2009:506) la dottrina si era così espressa: è “opportuno che, ad esempio, nel nostro Paese in una prospettiva de iure condendo, non sia la giurisprudenza comunitaria a farsi carico di una lacuna regolamentare al fine di porre rimedio alle ipotesi di violazione dei principi comunitari da parte dei giudici nazionali, bensì direttamente il legislatore mediante una modifica del codice di rito, magari introducendo un n. 7 all’art. 395 c.p.c. che consenta di ridiscutere i provvedimenti definitivi laddove si lamenti la mancata applicazione del principio di primauté del diritto europeo su quello interno [in proposito v. C. Consolo, La sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. dir. proc., 2008, 1, 224 ss.]: in questi termini F. Fradeani, La sentenza «Olimpiclub» della Corte di giustizia CE e la stabilità del giudicato, inhttps://www.treccani.it/magazine/diritto/approfondimenti/diritto_processuale_civile_e_delle_procedure_concorsuali/1_Fradeani_olimpiclub.html.
[10] Cfr. la sentenza 5.10.2010, causa C-173/09, Elchinov, EU:C:2010:581.
[11] Il Cons. Stato ricorda in proposito le sentenze 30.9.2003, C-224/01, Köbler, EU:C:2003:513; 10.6.1999, C-302/97, Konle, EU:C:1999:271.
[12] Cfr. la sentenza del 7.1.2021, IV, n. 175.
[13] Sentenza del 27.11.2019, n. 31032
[14] Sul quale, si vedano, fra gli altri, D. P. Domenicucci, F. Filpo, Art. 47. Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, in AA.VV., Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, a cura di R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini, Milano, 2017, p. 864 ss.
[15] Fra i molti commenti alla pronuncia Köbler, si vedano P.D. Simon, La responsabilité des Etats membres en cas de violations du droit communautaire par une juridiction suprême, in Juris-Classeur, Europe, 2003, p. 3 ss.; O. Dubos, La violation du droit communautaire par une juridiction nationale: quis custodes custodiet? Custodes ipsi, scilicet, J.C.P., La Semaine juridique, Administrations et Collectivités territoriales, 2003, p. 1384 ss.; N. Scafarto, L’effettività del diritto comunitario travolge anche la giurisdizione, in Dir. e giust., 2003, pp. 45, 96 ss; S. Bastianon, Giudici nazionali e responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, in Resp. civ. prev., 1, 2004, p. 57 ss.; A. Barav, Non discrimination des enseignants en raison de la nationalité dans la jurisprudence de la Cour de Justice des Communautés Européennes, in Libertés, justice, tolérance, Mélanges Gérard Cohen-Jonathan, Bruxelles, 2004, I, p. 189 ss.; D. Sarmiento Ramirez-Escudero, Responsabilidad de los Tribunales Nacionales y Derecho Comunitario, in www.danielsarmirnto.eu/pdf/responsabilidad_tribunales.pdf; P.J.Wattel, Köbler, Cilfit and Welthgrove: We Can’t Go On Meeting Like This, in CML Rev., 41, 2004, 177-190; E. Scoditti, «Francovich» presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivato in Foro it., 2004, IV, 4; N. Zanon, La responsabilità dei giudici, relazione al convegno annuale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Padova, 22-23 ottobre 2004, in http://www.magna- carta.it/riforme; R. Conti, Giudici supremi e responsabilità per violazione del diritto comunitario, in Danno e resp. 1, 2004, p. 26 ss.; J. Komarek, Federal Elements In The Community Judicial System: Building Coherence In The Community Legal Order, in CML Rev., 42, 2005, p. 9ss. Ci si permette di rinviare anche a P. Piva, La tradizionale irresponsabilità del giudice davanti al diritto comunitario. Note a margine della köblerizzazione del diritto comunitario e del diritto degli Stati membri, in Il dir. della reg., 5-6, 2004, p. 809 ss.. Cfr. inoltre G. Di Federico, Risarcimento del singolo per violazione del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali: il cerchio si chiude?, in Riv. Dir. Int. Priv. e Proc., 2004, 1, p. 133 ss. e, più di recente, F. Ferraro, Noterelle sulla recente prassi interna in tema di responsabilità risarcitoria dello Stato per violazione del diritto dell’Unione, in Riv. DPCE Online, Vol 33 No 4 (2017).
[16] Sentenza del 13.6.2006, C-173/03, EU :C:2006:391.
[17] Sentenza del 24.11.2011, C-379/10, EU :C :2011:775.
[18] Cfr. G. Amoroso, Sul bilanciamento tra responsabilità civile dei giudici e garanzie costituzionali della giurisdizione: dubbi di legittimità costituzionale dell’eliminazione del filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria, in Giustizia Civile Riv. Trim., 3 – 2015, p. 455 ss.
[19] In questi termini la sentenza Commissione c. Italia cit., punto 35 (ricordando la sentenza Traghetti del Mediterraneo cit.) (grassetto aggiunto).
[20] Cfr. la sentenza del 28.1.1986, n. 17. Sul tema della revocazione, si veda il classico contributo di A. Attardi, La revocazione, Padova, 1959, nonché, sul più specifico problema della revocazione delle pronunce di Cassazione si veda, per tutti, C. Consolo, La revocazione delle decisioni di Cassazione e la formazione del giudicato, Padova, 1989.
[21] Cfr. Cass. VI, 27.4.2016, n. 18619, ord. In questi termini F. Sorrentino, La revocazione delle pronunce della Corte di Cassazione, rinvenibile in www.cortedicassazione.it
[22] Corsivo aggiunto. Anche per l’altro profilo della liceità dell’immissione in commercio del farmaco off-label, sembra un poco limitativo rispondere, ancora una volta, con il richiamo ad un principio (astratto) di diritto: “la prescrizione da parte di un medico dell’uso off- label di un farmaco è in linea di principio lecita (cfr. Corte di Giustizia del 21 novembre 2018, nella causa C-29/17 e Consiglio di Stato 15 luglio 2019, n. 4967 relative al medicinale Avastin), sicché al fine di identificare il mercato rilevante dei prodotti farmaceutici, rilevano le indicazioni terapeutiche fornite dai medici, le quali inevitabilmente fanno sì che, indipendentemente dal contenuto più o meno esteso delle AIC, rientrino nel medesimo mercato tutti i farmaci che i medici nella loro competenza e responsabilità prescrivono per la cura delle medesime patologie”. Cfr., al riguardo, il punto 60 della decisione della Corte.
[23] Di tutt’altro avviso è autorevole dottrina che, in una riflessione sul caso Avastin/Lucentis, ha osservato senza mezzi termini: “il Consiglio di Stato, pronunciatosi sulla questione, non ha dato seguito alcuno a quanto richiesto dalla Corte di giustizia ed anzi ha provveduto direttamente e con affermazioni in contrasto con quanto rilevato dalla Corte di giustizia”: così G. Tesauro, Sui vincoli (talvolta ignorati) del giudice nazionale prima e dopo il rinvio pregiudiziale: una riflessione sul caso Avastin/Lucentis e non solo, in Federalismi.it, 18 marzo 2020, n.6/2020.
[24] Probabilmente il Consiglio di Stato si riferisce all’ipotesi del doppio rinvio (un secondo rinvio, dopo il primo, non ritenuto esaustivo, essendo ritenuti necessari dei chiarimenti) non potendo la Corte interpretare in via pregiudiziale le proprie sentenze: in tal senso 16.5.1968, ord. causa 13/67, Becher, EU:C:1968:26, pp. 262-263; 18.10.1979, ord., causa 40/70, Sirena, EU:C:1979:236, p. 3171; 9.2.2011, ord., causa C-262/88 INT., Barber, EU:C:2010:795, punto 3. Quanto al ricorso per interpretazione ex art. 43 Statuto Corte e art. 158 Reg. procedura si vedano i commenti di F. Spitaleri, in C. Amalfitano, M. Condinanzi, P. Iannuccelli (a cura di), Le regole del processo dinanzi al giudice dell’Unione europea, Napoli, 2017, pp. 205, 809 ss., nonché di G. Grasso sull’art. 104 Reg. procedura, ibidem, p. 651. Sulla possibilità del doppio rinvio, fra le altre, 27.3.1963, cause riunite 28, 29 e 30/62, Da Costa, EU:C:1963:3; 5.3.1986, ord., causa 69/85, Wünsche, EU:C:1986:104, punti 11-14; 11.6.1987, causa 14/86, Pretore di Salò, EU:C:1987:275, punto 12; sull’ampio potere del giudice nazionale di disporre un rinvio pregiudiziale, sentenza Elchinov cit., punti 26, 29-31.
[25] Cfr. ex multis, G. Arieta, F. De Santis, L. Montesano, Corso di base di diritto processuale civile, VII ed., Milano, 2019, p. 628. Annota fra gli altri E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, XII ed., Milano, 2010, p. 923: “si ricordi che la revocazione è un rimedio generale: esso è ammesso nei confronti delle ordinanze cautelari (art. 58, c.p.a.) ed è ritenuto esperibile avverso le decisioni amministrative rese in materia di ricorso straordinario e di ricorso gerarchico”.
[26] G. Vandersanden, De l’autorité de chose jugée de arrêts préjudiciels d’interprétation rendus par la Cour de justice(nota a Cassazione belga 24.12 1970), in Revue cr. Jur. Belge, 1972, p. 572.
[27] Cfr. la sentenza cit. alla nota 24 e ivi i riferimenti circa la possibilità di un rinvio successivo al primo.
[28] Cfr. la sentenza 1.6.1999, causa C-126/97, Eco Swiss, EU:C:1999:269, spec. punto 46.
[29] Sentenza Köbler cit., punto 39.
[30] Sentenza Köbler cit., punto 38.
[31] Sentenza 13.1.2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz, EU:C :2004 :17. Si vedano, sul tema, D. Simon, Obligation de réexamen d'une décision administrative définitive. L'autorité d'un arrêt préjudiciel en interprétation postérieur à une décision administrative devenue définitive impose la prise en compte de la demande de retrait de celle-ci, Europe 2004 Mars Comm. nº 66 p.14 ss., nonché il commento di R. Caranta, in Common Market Law Review, 2005, p.179 ss.. Sull’importanza del principio stabilito in Kühne & Heitz è tornato, recentemente, F. FERRARO, Giudice nazionale, centro di gravità e doppia pregiudiziale, in ANNALI AISDUE, Napoli, 2021, p. 511 ss.
[32] Cfr. la sentenza cit., punto 28.
[33] Cfr. la sentenza cit., punto 24.
[34] Sentenza 16.3.2006, causa C-234/04, Kapferer, EU:C:2006:178.
[35] Sentenza cit., punto 23.
[36] Cfr. le conclusioni del 17.6.2003, EU:C:2003:350, causa C-453/00, Kühne & Heitz, punto 66.
[37] Sentenza 12.2.2008, causa C-2/06, Kempter, EU:C:2008:78.
[38] Sentenza cit., punto 46.
[39] Sentenza cit., punto 60.
[40]Sentenza 18.7.2007, causa C-119/05, Lucchini, EU:C:2007:434. La pronuncia ha avuto un interessante restatement nella sentenza 11.11.2015, causa C-505/14, Klausner, ECLI:EU:C:2015:742, in virtù del quale “il diritto dell’Unione osta, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, a che l’applicazione di una norma di diritto nazionale volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata impedisca al giudice nazionale, il quale abbia rilevato che i contratti oggetto della controversia sottopostagli costituiscono un aiuto di Stato, ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE, attuato in violazione dell’articolo 108, paragrafo 3, terza frase, TFUE, di trarre tutte le conseguenze di questa violazione a causa di una decisione giurisdizionale nazionale, divenuta definitiva, con cui, senza esaminare se tali contratti istituiscano un aiuto di Stato, è stata dichiarata la loro permanenza in vigore”.
[41] Sentenza 21.9.1983, causa C-205/82, Deutsche Milchkontor, EU:C:1983:233.
[42] Sentenza Lucchini cit., punto 63.
[43] Sentenza Fallimento Olimpiclub cit., punto 32.
[44] Sentenza 10.7.2014, causa C-213/13, Pizzarotti, EU:C:2014:2067, punto 64.
[45] Sentenza 4.3.2020, causa C-34/19, Telecom, EU:C:2020:148, punto 71.
[46] Conclusioni del 14.1.2021, causa C‑64/20, UH , EU:C:2021:14, punti 47-48.
[47] Conclusioni cit., punti 47-49. Sul tema si veda anche E. Storskrubb, Civil Procedure and EU Law, A Policy Area Uncovered, Oxford, 2008, p. 13 ss.
[48]Cfr. D.A. Wyatt, A.Dashwood, European Union Law, London, 2011, p. 278.
[49] Conclusioni del 25.6.1964, causa C-6/64, Costa c. Enel, EU:C:1964:51
[50] Conclusioni del 13.7.1982, causa C-283/81, CILFIT, EU:C:1982:267. L’avvocato generale richiamava come una sorta di leading case il precedente della Corte, proprio in materia di antitrust, in cui i Giudici di Lussemburgo, inter alia, avevano “posto in evidenza, al punto 5 della motivazione, sia la finalità dell'articolo 177 (poi 267 TFUE) («garantire che il diritto comunitario sia interpretato e applicato in modo uniforme in tutti gli Stati membri»), sia lo scopo specifico del terzo comma («impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie»): si tratta, in particolare, della sentenza 24.5.1977, causa C-107/76, Hoffmann-La Roche. EU:C:1977:89.
[51] Osserva l’avvocato generale Jacobs (con il solito acume e franchezza) che qualunque lettura dell’art. 267 TFUE volta a trovare un bilanciamento degli interessi in gioco e una corretta visione del riparto di competenze fra giudici nazionali e Corte (e potremmo aggiungere anche quella dell’avvocato generale Bobek nelle sue conclusioni del 15.4.2021 in causa C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, EU:C:2021:291) “will not in any event resolve the problem if the national court is deliberately taking a different view”: F. Jacobs, The Role of National Courts and of the European Court of Justice in ensuring the uniform application of Community Law: is a new approach needed ?, in AA.VV., Studi in onore di F. Capotorti, Vol. II, Milano, 1999, p. 175 ss. L’idea, in ogni caso, è che “any application of Community law can be regarded as raising a question of interpretation” (ancora F. Jacobs, op. cit., ibidem). Il che ci riporta all’attualità del rinvio Randstad e al dibattito dottrinale, non sempre giustificato, che la stessa ordinanza n. 19598/2020 delle S.U. della Cassazione cit. ha sollevato: cfr. la nota 1 per riferimenti. Sulle conclusioni dell’avvocato generale Bobek sopra richiamate, si veda P. De Pasquale La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, in Osservatorio europeo, maggio 2021, p. 1 ss.
[52] Per un commento all’art. 94 del Reg. di procedura della Corte, cfr. G. Grasso, in C. Amalfitano, M. Condinanzi, P. Iannuccelli (a cura di), Le regole cit., p. 586 ss.
[53] Sentenza del 5.7.2016, causa C-614/14, Ognyanov, EU:C:2016:514.
[54] Sentenza cit., punto 30.
[55] Cfr. per esempio le note cause Foglia c. Novello, C-104/79, sentenza 11.3.1980, EU:C:1980:73 e C-244/80, sentenza 16.12.1981 , EU:C:1981:302; Mosconi, ord. 5..2004 in G.U.U.E. C 118/25 del 10.4.2004 e sentenza 21.2.2013, C-111/12, EU:C:2013:100. Sull’ipotesi del doppio rinvio si vedano, inoltre, i riferimenti nella nota 24.
[56] Sul tema dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, 3° comma, TFUE, si veda, per tutti, F. Ferraro, Le conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, p. 139 ss., e A. Adinolfi, C. Morviducci, Elementi di diritto dell’Unione europea, Torino, 2020, p. 180 ss. Sulla giurisprudenza della Corte EDU in argomento, con particolare riguardo all’ipotesi del mancato rinvio, cfr. B. Nascimbene, Le renvoi préjudiciel de l’article 267 TFUE et le renvoi prévu par le protocole no. 16 à la CEDH, in Annuaire de droit de l’Union Européenne, 2019, p. 127 ss. Sul più recente dibattito in Italia in relazione alla giurisdizione amministrativa, cfr. S. Foa’, Giustizia amministrativa e rinvio pregiudiziale alla CGUE: da strumento “difensivo” a mezzo per ridiscutere il sistema costituzionale, in Federalismi.it, 10 febbraio 2021, n. 4/2021, p. 126 ss. Si vedano altresì A. Guazzarotti, Un “atto interruttivo dell’usucapione” delle attribuzioni della Corte costituzionale? In margine alla sentenza n. 269/2017, in Forum di Quaderni costituzionali,http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wpcontent/uploads/2017/11/nota_269_2017_guazzarotti.pdf; R. Mastroianni, Da Taricco a Bolognesi, passando per la ceramica Sant'Agostino: il difficile cammino verso una nuova sistemazione del rapporto tra Carte e Corti, in Osservatorio sulle fonti, 1/2018, pp. 1-36. Va da sé che il significato della giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenze 19.1.2009, in causa C-314/08, Filipak, EU:C:2009:719; 20.12.2017, causa C-322/16, Global Starnet, EU:C:2017:985 e 24.6.2019, causa C-573/17, Popławski, EU:C:2019:530, fra le altre) non è propriamente in linea con Corte costituzionale n. 269/2017, come correttamente rilevato da attenta dottrina (cf. R. Mastroianni, op. cit., rilevando peraltro un improvvido inciso “per altri profili”: p. 27, 28). Sul tema si veda, da ultimo, L.R. Rossi, Effetti diretti delle norme dell’Unione europea ed invocabilità di esclusione: i problemi aperti dalla seconda sentenza Popławski, in questa Rivista, 3 febbraio 2021. Ancora, sul tema delle difficoltà di gestire i rapporti fra Giudici supremi e primato del diritto dell’Unione, nell’ottica della distribuzione interna della giurisdizione, cfr., da ultimo, G. Agrati, A. Ciprandi, R. Torresan, Il rinvio pregiudiziale nel “caso Randstad”: riflessioni critiche sul fragile primato del diritto dell’Unione europea, I Post di AISDUE, III (2021), aisdue.eu Sezione “Note e commenti”, n. 2, 10 giugno 2021.
[57] Sull’ordinanza n.19598/2020 cfr. i riferimenti nella nota 1.
[58] Cfr. da ultimo la sentenza Ognyanov cit.
[59] Cfr. l’ordinanza, VI sezione, del 7.12.2020, n. 7713. Sul tema, si vedano R. Whish, D. Bailey, Competition Law, VII th ed., Oxford, 2015, p. 2010 ss.
[60] Per un rinvio alle norme indicate del TFUE e della Carta si veda il secondo quesito posto dall’ordinanza delle S.U. Randstad cit. (con i commenti ricordati nella nota 1).
[61] Sulla rilevanza del principio dell’interpretazione conforme si veda, fra le altre, la sentenza Poplawski cit., punti 56-58.
[62] Sui principi di autonomia, equivalenza ed effettività, si veda fra gli altri K. Lenaerts, I. Maselis, K. Gutman, EU Procedural Law, Oxford, 2014, p.107 ss.
[63] Nella sua dissenting opinion in U.S. Supreme Court, Shaughnessy v. Mezei, 345 U.S. 206, 224-225 (1953).
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