Riduzione in schiavitù e costrizione o induzione al matrimonio: la Cassazione esclude la successione di leggi penali nel tempo
di Domenico Gaspare Carbonari
Con la sentenza n. 30538/2021, la Corte di Cassazione si pronuncia sul rapporto intercorrente tra la fattispecie di riduzione o mantenimento in schiavitù, ex art. 600, comma 1, c.p., e il neo introdotto delitto di costrizione o induzione al matrimonio, ex art. 558 bis, comma 1, c.p. (L. n. 69/2019), escludendo la ricorrenza di un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo.
Sommario: 1. I fatti - 2. Il nuovo delitto di costrizione o induzione al matrimonio e l’armonizzazione giuridica perseguita dal legislatore italiano - 3. Le questioni affrontate dalla Corte: configurabilità del reato di riduzione in schiavitù - 4. Segue: l’assenza di un fenomeno successorio tra l’art. 600, comma 1, c.p., e l’art. 558 bis c.p. - 5. Ulteriori questioni.
1. I fatti
Con la sentenza n. 30538/2021[1], la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Firenze, con la quale un imputato di origine rom veniva condannato per il reato di cui all’art. 600 c.p., aggravato ai sensi dei commi 5 e 6 dell’art. 602-ter c.p., commesso ai danni della figlia. Invero, in assenza del consenso di quest’ultima o prescindendo da un preventivo accordo, il suddetto imputato cedeva la persona offesa al "patriarca" della famiglia cui apparteneva il soggetto promesso sposo.
Dall’istruzione dibattimentale di primo grado emergevano, in particolare, gli elementi sintomatici della sussistenza della fattispecie di riduzione in stato di schiavitù, ex art. 600, comma 1, c.p., consistenti nella cessione della persona offesa e nella corresponsione del c.d. “prezzo della sposa”, inteso quale vantaggio economico riveniente dallo sfruttamento e dal processo di reificazione della persona offesa nel momento della cessione ad altri.
Avverso la sentenza in commento, l’imputato presentava ricorso per Cassazione, deducendo la erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla configurabilità del reato contestato, in primo luogo rilevando come la Corte territoriale non avrebbe specificato quale delle due fattispecie alternativamente previste dall’art. 600 c.p. risultasse integrata[2]. In secondo luogo, osservava come il giudice di merito non avrebbe tenuto in considerazione le c.d. motivazioni culturali, ossia le tradizioni e i costumi sociali della comunità rom e dell’ordinamento giuridico di riferimento, per il quale il “prezzo della vittima” costituirebbe un risalente istituto giuridico privo di natura corrispettiva, ma funzionale al risarcimento della famiglia di origine per la “perdita del proprio componente”. Ne inferiva l’assenza dell’elemento soggettivo, rilevando come l’adesione ai fattori culturali lo abbia generato in lui una ragionevole convinzione di comportarsi lecitamente.
Muoveva, infine, una censura in ordine alla mancata riqualificazione del fatto contestato nella fattispecie di costrizione o induzione al matrimonio, avente natura di fattispecie più favorevole al reo.
2. Il nuovo delitto di costrizione o induzione al matrimonio e l’armonizzazione giuridica perseguita dal legislatore italiano
Preliminarmente, appare opportuno soffermarsi sulla natura della nuova fattispecie, vagliando anche le ragioni politico-criminali che hanno indotto il legislatore ad introdurla nel codice penale, nella specie nel titolo XI relativo ai delitti contro la famiglia e non nel capo III, titolo XII, in materia di delitti contro la libertà individuale. Malgrado la collocazione normativa sia stata criticata da qualche commentatore, tuttavia, deve ritenersi che il nuovo delitto ha natura di fattispecie plurioffensiva, apprestando tutela all’istituzione matrimoniale e, al contempo, alla libertà di autodeterminazione della persona.
La fattispecie astratta costituisce la trasposizione normativa parziale dell’art. 37 della Convezione di Istanbul e del contenuto della Direttiva 2012/29/UE[3]. Invero, la novità legislativa assolve all’esigenza di apprestare tutela penale ai soggetti che vengono obbligati, per mezzo della violenza o della minaccia, o indotti tramite approfittamento delle condizioni di vulnerabilità, a contrarre matrimonio o unione civile. Ed infatti, in assenza di una disciplina specifica e peculiare, la precedente dottrina e giurisprudenza di legittimità hanno ipotizzato la sussumibilità della fattispecie concreta nell’ambito applicativo dei reati previsti dagli artt. 558 c.p. (induzione al matrimonio mediante inganno), 573 c.p. (sottrazione consensuale di minorenni, fattispecie attenuata nella ipotesi in cui il fatto fosse stato commesso “per fine di matrimonio”), 574 c.p. (sottrazione di persone incapaci), 605 c.p. (sequestro di persona), 574-bis (sottrazione e trattenimento di minore all’estero) e 610 c.p. (violenza privata)[4]. Fattispecie che presentano alcuni elementi costitutivi in comune con la nuova disposizione, evidenziando come tra di esse non sia stata mai annoverata la riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù. Ciò lascerebbe intendere, almeno in linea teorica, l’inesistenza di punti di contatto tra le due fattispecie, così come sostenuto dalla Corte nella sentenza in commento, nella quale si è osservato che mai in passato è stato “ipotizzato che il “matrimonio forzato e/o precoce” integrasse di per sé il reato di cui all’art. 600 comma 1 c.p.”.
Quanto alla struttura, la formulazione legislativa depone per la natura comune del reato, in quanto le condotte contestate possono essere poste in essere da chiunque; inoltre, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, che si sostanzia nella mera coscienza e volontà di costringere o indurre qualcuno a contrarre matrimonio o unione civile, a nulla rilevando le motivazioni specifiche che hanno animato la condotta del reo. Più articolato appare, invece, l’elemento oggettivo, la cui individuazione dipende dalla formulazione dell’art. 558 bis c.p. in due fattispecie: al comma 1, viene sanzionata la condotta costrittiva posta in essere con violenza o minaccia[5]; al comma 2, invece, viene punita la condotta induttiva consistente, da un lato, nell’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità, di inferiorità psichica o di necessità di una persona e, dall’altra, dall’abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile[6].
3. Le questioni affrontate dalla Corte: configurabilità del reato di riduzione in schiavitù
Nella pronuncia in commento, i giudici di legittimità hanno confermano la ricostruzione operata dai giudici di merito, ritenendo sussistenti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 600, comma 1, c.p. Sotto il profilo soggettivo, pur non negando che il reo abbia agito sotto l’impulso dell’adesione al sistema culturale di riferimento, tuttavia, la Corte ha osservato che lo stesso agiva nella consapevolezza di porre in essere un comportamento illecito per l’ordinamento giuridico italiano, deponendo in tal senso la risalente presenza sul territorio italiano e le dichiarazioni divergenti acquisite in fase di indagini[7].
Anche sul versante oggettivo la Corte conferma le argomentazioni dei giudici di merito, rilevando come il reo avesse sottoposto la vittima ad un processo di reificazione: si richiede, infatti, che la vittima sia stata “oggettivizzata” e che l’autore del fatto illecito eserciti sulla stessa i poteri corrispondenti al diritto di proprietà[8]. La cessione contro la corresponsione del c.d. “prezzo della sposa”, in particolare, è stata ritenuta espressione di quella condizione di schiavitù di fatto idonea, da un lato, a limitare la libertà di autodeterminazione della vittima e, dall’altro, a configurare l’essere umano quale mera merce di scambio.
4. Segue: l’assenza di un fenomeno successorio tra l’art. 600, comma 1, c.p., e l’art. 558 bis c.p.
Il profilo più interessante della pronuncia attiene al rapporto tra le due fattispecie, il quale è stato dedotto dal ricorrente in termini di specialità diacronica[9] e, quindi, in un rapporto di successione di leggi penali nel tempo, con presunta applicazione dell’art. 2, comma 4, c.p. In particolare, il ricorrente osservava che l’introduzione dell’art. 558 bis c.p. configurava una ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, capace di assorbire il disvalore di quelle condotte che, prima di tale innovazione legislativa, sarebbero state riconducibili al campo applicativo dell’art. 600 c.p.
La Corte di legittimità ha diversamente opinato, esprimendo il principio di diritto per cui, in applicazione del c.d. criterio strutturale in astratto, tra le due fattispecie non può predicarsi una successione di leggi penali nel tempo, difettando l’area di coincidenza strutturale tra le stesse: l’imputato non può giovarsi dell’effetto favorevole di cui all’art. 2, comma 4, c.p. Si conclude, pertanto, per l’assenza di un rapporto in termini di “specialità diacronica”, escludendosi l’applicazione dell’art. 558-bis c.p. al caso di specie.
In particolare, al fine di individuare il criterio di soluzione della presunta questione successoria, per un verso, la Corte contesta il richiamo implicito al criterio della c.d. doppia incriminabilità in concreto[10], osservando che può discutersi di fenomeno successorio tra leggi penali, ex art. 2, comma 4, c.p., quando la fattispecie prevista dalla legge successiva fosse punibile anche in base alla legge precedente. Situazione, questa, che – come si vedrà – non è ritenuta ricorrente dai giudici di legittimità, per i quali non è “stato mai ipotizzato che il matrimonio forzato e/o precoce integrasse di per sé il reato di cui all’art. 600, comma 1, c.p.”.
Per altro verso, aderisce all’orientamento pacifico della giurisprudenza della legittimità e della dottrina, opinando per il c.d. criterio del confronto strutturale[11] o della doppia incriminabilità in astratto: quest’ultimo, invero, valorizza il confronto strutturale tra le fattispecie astratte e ricerca “quell’area di coincidenza tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo”. Ed infatti, in applicazione del suddetto criterio, si ha fenomeno successorio nel caso in cui, a fronte di una comparazione, si evince un rapporto strutturale di continenza tra le due fattispecie, tal per cui la norma successiva presenta elementi di specialità rispetto a quella originaria generale e sia idonea ad inglobarla.[12]
In particolare, la continuità normativa tra due fattispecie non deve basarsi meramente su “criteri valutativi, come quelli relativi ai beni tutelati e alle modalità di offesa, assai spesso incapaci di condurre ad approdi interpretativi sicuri”[13], bensì su una comparazione organizzata su due livelli: da un lato, si tiene conto del grado di specificazione della fattispecie successiva rispetto a quella originaria e, dall’altro, e si procede all’attività di sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta delineata da una delle due norme. Pertanto, solo ove la fattispecie concreta oggetto di attenzione fosse effettivamente annoverabile nella sfera di disciplina della fattispecie della costrizione al matrimonio, ex art. 558 bis c.p., allora potrà sostenersi la ricorrenza di un fenomeno di successione favorevole al reo.
Nella specie, dal confronto strutturale tra le due fattispecie emerge che “i fatti tipizzati dalle due norme incriminatrici non presentano alcun elemento di contatto”, perché la fattispecie della riduzione e mantenimento in schiavitù, ex art. 600, comma 1, c.p., non contempla gli elementi della violenza e della minaccia, intesi quali elementi costitutivi della fattispecie di matrimonio forzato e/o precoce (secondo la formulazione di cui al comma 1 dell’art. 558 bis c.p.). Ed invero, ricopre un ruolo dirimente la circostanza della cessione della vittima che, in assenza di fatti di violenza o minaccia[14], integra gli estremi della reificazione e dello sfruttamento riconducibile alla nozione di riduzione in schiavitù[15]. Inoltre, in virtù di un criterio storico, i giudici di legittimità hanno evidenziato che, anche prima dell’introduzione dell’art. 558-bis c.p., le ipotesi di matrimonio forzato e/o precoce non hanno mai integrato, di per sé, il reato di cui all’art. 600, comma 1, c.p., così come addebitato all’imputato.
In definitiva, la comparazione tra le fattispecie astratte “non può che avere esito negativo, non registrandosi alcuna coincidenza tra le fattispecie a confronto”. La soluzione scelta dalla Corte è preferibile perché, in difetto di comunanza di elementi costitutivi, non può predicarsi l’applicazione della nuova fattispecie più favorevole, anche se questa sanziona la specifica condotta della costrizione o induzione al matrimonio: non è la sola finalità, ossia la contrazione del matrimonio, a caratterizzare la specialità dell’art. 558 bis c.p. rispetto al delitto di cui all’art. 600, comma 1, c.p., in quanto quest’ultima fattispecie astratta, configurando un reato di mera condotta, è integrata in presenza dell’esercizio, su di una persona, dei poteri assimilabili a quelli del diritto di proprietà[16].
5. Ulteriori questioni
In altro passaggio della sentenza, la Corte accenna ad una ulteriore questione fondata sulla considerazione per cui la “violenza e minaccia non sono tratti costitutivi del delitto di riduzione in schiavitù […] bensì di quello di riduzione o mantenimento di persona in uno stato di soggezione continuità”. Anche se implicitamente, i giudici di legittimità sembrano accostare la fattispecie della riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa a quella di cui all’art. 558 bis c.p., caratterizzata dall’impiego della violenza, della minaccia o delle modalità induttive.
Con riferimento a questo punto, la prospettiva di analisi potrebbe non essere quella della specialità diacronica, bensì della specialità di tipo sincronico, ossia del rapporto tra due norme compresenti nel sistema giuridico, senza che si verifichi la sostituzione di una norma generale con una caratterizzata da elementi di specialità: in questo caso, si ricorre al principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. Ed invero, le classi di fattispecie che potrebbero presentarsi all’attenzione dell’interprete comprendono le ipotesi in cui il matrimonio è evento conseguente all’impiego sia della violenza o della minaccia, sia di un’attività di induzione[17]: si tratta, infatti, di condotte astrattamente riconducibili anche al delitto di riduzione e mantenimento in servitù.
In applicazione del criterio di specialità, l’attività prodromica dell’interprete consiste nell’individuazione della “stessa materia” che, in virtù del confronto strutturale tra le fattispecie astratte, conduce ad accertare la “esistenza di un’area di disvalore comune e sovrapponibile tra le condotte descritte nelle norme concorrenti”[18], area che descrive un rapporto di continenza verificabile “mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse”. In particolare, il concetto di stessa materia esula dall’identità del bene giuridico tutelato, tal per cui può risolversi il conflitto anche in favore di una fattispecie che, nonostante la diversità de bene, presenta gli stessi elementi costitutivi di altra fattispecie.
Ebbene, nella specie, il confronto strutturale tra l’art. 600, comma 2, c.p. e le ipotesi disciplinate dall’art. 558 bis c.p. sembrerebbe avere esito positivo, nel senso che la seconda fattispecie condivide parte degli stessi elementi costitutivi della prima, ossia: la celebrazione del matrimonio in stato di costrizione (violenza o minaccia) o di induzione al matrimonio, quest’ultima caratterizzata dallo sfruttamento delle condizioni o di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità psichica o di una situazione di necessità. A questi si accostano ulteriori elementi specializzanti (c.d. specificazione per aggiunta), individuabili, da un lato, nella finalità della condotta costrittiva o induttiva verso la contrazione del matrimonio e, dall’altro, nell’approfittamento delle suddette condizioni congiunto all’abuso delle relazioni familiari, domestiche o derivanti dall’affidamento della persona offesa per ragioni di cura, istruzione o educazione.
L’art. 558 bis c.p., pertanto, sembrerebbe condividere gli stessi elementi, o parte di essi, della fattispecie di riduzione o di mantenimento in una condizione di servitù, con gli ulteriori elementi di specificazione dati dal tipo di relazione che connota l’abuso (approfittamento delle condizioni personali, domestiche, etc.) e dalla finalità propria dell’attività costrittiva o induttiva. Si perviene alla medesima conclusione, inoltre, anche se il bene giuridico tutelato è diverso a seconda della fattispecie che si considera.
Con specifico riferimento all’ipotesi dell’induzione al matrimonio, ad essa può ricondursi l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, in materia di riduzione e mantenimento in servitù, alle espressioni “sfruttamento delle condizioni o di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità psichica o di una situazione di necessità, anche con abuso di autorità”, ossia la compromissione della libertà di autodeterminazione della vittima rispetto alla generalità delle scelte che connotano la sua esistenza, anche se questa non risulti del tutto alterata; e ciò anche nell'ipotesi – specifica la Corte - in cui la vittima conservi una parziale libertà di autodeterminazione[19].
L’impossibilità o la ridotta capacità di resistenza può ben configurarsi anche nell’ipotesi di una vittima che, benché non opponga resistenza alla limitazione della libertà personale, vi aderisce in conformità ai costumi e alle usanze della cultura di riferimento. In altri termini, l’approfittamento della condizione può concretizzarsi anche nella induzione c.d. implicita a contrarre matrimonio, in virtù del richiamo alle tradizioni cui la famiglia della vittima aderisce, costituendo una sorta di “adesione obbligata e incondizionata e senza possibilità di scelta” (senza, dunque, che assuma efficacia scriminante il consenso o l’acquiescenza della vittima). Conseguenza, questa, resa complessa dall’inserimento della vittima in un sistema familiare caratterizzato dal patriarcato o, comunque, dall’esercizio di una radicale e rigorosa patria potestà sui figli, configurandosi un abuso delle relazioni familiari in materia di cura, educazione e vigilanza dei figli[20].
A fronte di un contesto familiare indicativo di uno “stato di soggezione implicito”, riconducibile alle indicazioni delineate dall’art. 600, comma 2, c.p., ma caratterizzato anche da un abuso sistematico dell’autorità derivante dall’affidamento della vittima ad un capo famiglia (ex art. 558 bis, comma 2, c.p.), l’interprete potrebbe aderire ad un’interpretazione evolutiva, che tenga conto della specificità del contesto delittuoso in cui le condotte si esplicano.
I vantaggi dell’impiego di questa modalità operativa rivengono dalla considerazione oggettiva dello svolgimento delle singole fattispecie e dei contesti di riferimento, al contempo, evitando i rischi connaturati ad un uso eccessivamente discrezionale o e valoriale di criteri astratti ad opera del giudice. Rilevano, dunque, il rapporto tra la vittima e l’autore del reato, il contesto familiare e quello culturale, che potrebbero deporre, anche in presenza di un contesto tipico di riduzione e mantenimento in servitù, per l’applicazione della fattispecie speciale di cui all’art. 558 bis, comma 2, c.p.[21]
In virtù di quanto su esposto, e come accennato dalla Corte, ben potrebbe in futuro porsi la necessità di definire il rapporto tra gli artt. 600, comma 2, e 558 bis c.p., per lo più in termini di specialità sincronica, con applicazione del principio di specialità.
[1] Cassazione, Sezione I, n. 30538/2021.
[2] Il ricorrente osservava che le due fattispecie alternative fossero accumunate dall’elemento deIl’asservimento della vittime ai fini dello sfruttamento: quest’ultimo individuato nel vantaggio economico che l’imputato avrebbe tratto dalla cessione della persona offesa alla famiglia cui apparteneva il soggetto a cui era stata promessa in sposa sulla base di un accordo a cui la persona offesa è rimasta estranea.
[3] L’art. 37 della Convenzione di Istanbul impone agli Stati firmatari di reprimere tutti quei comportamenti consistenti nel costringere un adulto o un minore a contrarre matrimonio e nell’attirare un adulto o un minore nel territorio di uno Stato estero diverso da quello in cui risiede, con lo scopo di costringerlo a contrarre un matrimonio. La Direttiva 2012/29/UE, volta a dettare norme minime in materia di diritti all'assistenza, informazione, interpretazione e traduzione nonché protezione nei confronti di tutte le vittime di reato, nel considerando n. 17), include nella violenza di genere anche quella posta in essere nelle relazioni strette e i cd. matrimoni forzati.
[4] In tal senso, la Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione sulla Legge 19 luglio 2019, n. 69, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. In dottrina, G. Pepe, I matrimoni forzati presto previsti come reato anche in Italia? Qualche approfondimento sul fenomeno ed un primo commento alla norma volta a contrastarlo, contenuta nel Disegno di Legge “Codice Rosso”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, maggio 2019, prima dell’approvazione della legge, ipotizzava de iure condito il ricorso alle fattispecie degli “artt. 572, 605, 610, 609-bis, 609-quater c.p., rilevando come, tuttavia, si configurasse “una tutela poco uniforme, che non si rivolge in modo puntuale allo specifico bene giuridico della libertà di autodeterminarsi sulla propria vita sentimentale e matrimoniale e non riesce a cogliere compiutamente il fatto lesivo, come invece cerca di fare, attraverso un’incriminazione specifica, la proposta di legge oggi all’esame del Senato”. Differente si mostra la tendenza di alcuni paesi europei, nello specifico, Danimarca, Germania, Spagna, Slovacchia e Regno Unito, i quali hanno provveduto in tempi celeri a criminalizzare le condotte in questione.
[5] La ratio della generica previsione della “costrizione” è quella di sanzionare, in modo incondizionato e senza categorizzazioni di sorta, qualsiasi condotta realizzata tramite violenza o minaccia. In particolare, la Corte di Cassazione ha evidenziato come il comma 1 ricalchi la formulazione dell’art. 610 c.p., in materia di violenza privata, “di cui pare costituire norma speciale”, tal per cui la nozione di “violenza e minaccia” viene a coincidere con l’interpretazione fornita dalla prassi giurisprudenziale in tema di art. 610 c.p.
[6] Ulteriori profili di disciplina attengono all’applicazione nello spazio della nuova fattispecie e all’interpretazione estensiva della nozione “matrimonio ed unioni civili”. Con riferimento al primo profilo spaziale, l’ultimo comma dell’art. 558 bis c.p. consente all’autorità giudiziaria italiana di perseguire, in deroga la principio di territorialità, le condotte commesse all’estero anche da cittadini italiani, in considerazione, da un lato, della natura transfrontaliera dei matrimoni forzati e, dall’altro, dell’eventuale trasferimento della vittima da un territorio nazionale ad un altro (artt. 36, 37, 38 e 39 della Convenzione di Istanbul). Quanto al secondo profilo, invece, la giurisprudenza di legittimità ritiene che la nozione di matrimonio o unione civile possa essere estesa anche a tutte quelle ipotesi di relazioni personali che producono gli stessi effetti di un matrimonio o unione civile, pur sotto diversa denominazione: se la volontà legislativa è quella di sanzionare una “pratica che sovente si manifesta al di fuori del territorio di appartenenza”, allora, la disposizione sembrerebbe riferirsi anche rapporti o vincoli di natura personale e riconducibili, pur se con diversità sul piano effettuale, alle ipotesi disciplinate dall’ordinamento giuridico italiano (in tal senso, Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione sulla Legge 19 luglio 2019, n. 69, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere).
[7] La sussistenza dell’elemento soggettivo si fonda anche su altra argomentazione, ossia sull’esclusione della rilevanza del c.d. fattore culturale. Ed infatti, aderendo all’indirizzo prevalente in dottrina e in giurisprudenza, la Corte sostiene che le condotte di riduzione in schiavitù non possono essere scriminante sulla base del c.d. movente culturale, con riferimento a tutti i casi in cui l'esercizio del diritto dell'agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento si traduca nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall'ordinamento costituzionale, presidiati dalle norme penali violate. Inoltre, ai fini dell’esclusione della rilevanza penale di un fatto, il giudice di merito è chiamato a valutare congiuntamente “la natura della regola culturale in adesione alla quale la condotta è stata posta in essere - se cioè di matrice religiosa, consuetudinaria o positiva (prevista cioè dall’ordinamento giuridico di eventuale originaria appartenenza) - nonché il suo carattere vincolante per l’agente, ma altresì il livello di integrazione di quest’ultimo nel contesto sociale dominante”. Conseguenza di questa argomentazione è quella per cui, in tema di riduzione in schiavitù, “non assume rilievo scriminante il movente culturale in tutti i casi in cui l'esercizio del diritto dell'agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento si traduca nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall'ordinamento costituzionale, presidiati dalle norme penali violate”.
[8] La Corte, infatti, avalla una interpretazione ampia del processo di reificazione della vittima, osservando come ad esso si possa ricondurre non solo una “condizione di schiavitù di diritto, ma altresì quelle situazioni nelle quali di fatto venga esercitata su di un altro essere umano una signoria così pervasiva da risultare equivalente nel suo contenuto alle forme di manifestazione del diritto di proprietà”.
[9] Per una trattazione esaustiva della categoria e delle relative differenze con la specialità sincronica, si è ampiamente espressa sia la Corte Costituzionale (sentenze nn. 196/2004 e 324/2008) che la Corte di Cassazione (sentenze nn. 24834/2017 e 1418/2017). In dottrina, tra tutti, M. Gambardella, Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in Cassazione Penale, 2007.
[10] Tesi della doppia punibilità in concreto o del fatto concreto, per la quale si ha successione favorevole al reo se un fatto risulta concretamente punibile sia in base alla vecchia norma che alla nuova più favorevole.
[11] Il percorso si è sviluppato su tre diverse tappe: in un primo momento, veniva avallata la tesi del c.d. fatto concreto o della doppia punibilità in concreto, superata dalla posizione di altra dottrina e giurisprudenza in favore del criterio valutativo o della c.d. continuità del tipo di illecito. A questo, faceva seguito l’attuale orientamento maggioritario in favore del criterio strutturale.
[12] In giurisprudenza di legittimità, le pronunce a SS.UU. Magera del 2007, Niccoli del 2008 e Rizzoli del 2009. Di recente, SS.UU., sentenza n. 25887/2003 e SS.UU., sentenza n. 20664/2017. Nello stesso senso, Cass., Sez. VI, sentenza n. 30227/2020 e 36317/2020. In dottrina, G.L. Gatta, la Cassazione applica il 'criterio strutturale' e ribadisce: nessuna abolitio criminis del peculato commesso dall'albergatore prima del 'decreto-rilancio', www.sistemapenale.it, dicembre 2020.
[13] In aderenza al principio di diritto sancito da Sez. U, Sentenza n. 25887/2003.
[14] La figura disciplinata dal comma 1 dell’art. 600 c.p. è rappresentata dall'esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà (ipotesi corrispondente a quella descritta nella rubrica come "schiavitù"); la figura disciplinata dal comma 2 è rappresentata dalla riduzione o dal mantenimento di una persona, attuati con le modalità previste dal secondo comma, in uno stato di soggezione continuativa, nella quale la vittima venga costretta a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (ipotesi descritta dalla rubrica come "servitù").
[15] Ciò in quanto il delitto di cui all’art. 600 c.p. è configurabile anche quando il soggetto passivo non sia consapevole del suo stato, essendo, dunque, sufficiente l’esercizio sulla vittima di poteri corrispondenti al diritto di proprietà o la sua riduzione o mantenimento in stato di soggezione continuativa.
[16] Pertanto, in aderenza alla suddetta conclusione, può ben escludersi un fenomeno successorio favorevole al reo e, quindi, anche un’eventuale abolitio parziale, in virtù della diversità strutturale tra le due fattispecie e, in particolare, dell’assenza di precedenti giurisprudenziali che riconducessero le precedenti fattispecie concrete di matrimoni forzati e/o precoci nel novero delle ipotesi disciplinate dall’art. 600, comma 1, c.p.
[17] Attività di induzione consistente nell’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia.
[18] Cass., SS.UU., n. 1963/2011.
[19] Dirimente, per lo più, l’approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica che, insieme allo sfruttamento della condizione di vulnerabilità e dell’abuso di relazioni domestiche o familiari, viene ricondotto alla generale formula della condizione di vulnerabilità della vittima, alla quale la giurisprudenza di legittimità riconduce la “condizione di diminuita capacità di resistenza della vittima, la quale renderà irrilevante la sua eventuale acquiescenza al volere dell'agente”.
[20] A corroborare questa conclusione potrebbe dedursi la questione circa la possibilità di considerare, ai fini del concetto di “stessa materia”, l’eventuale area comune determinata dai c.d. reati culturalmente orientati. Nell’ambito di contesti delittuosi caratterizzati dall’adesione a valori o matrici culturali contrastanti con l’ordinamento giuridico, l’area comune tracciata dal criterio strutturale potrebbe essere rinvenuta nel contesto multiculturale in cui la vittima è collocata e nelle condotte materiali che la stessa subisce o cui implicitamente aderisce.
[21] A conferma di questa conclusione si possono dedurre, altresì, le intenzioni del legislatore eurounitario, per il quale le fattispecie di matrimonio forzato e/o precoce devono essere sanzionate a maggior ragione quando si innestano in contesti o ambienti caratterizzati dal costante impiego dei poteri tipici della riduzione o del mantenimento in schiavitù o servitù.