Un errore procedurale nel labirinto delle questioni di costituzionalità, in tema di titolo esecutivo
di Giorgio Spangher
Un giudice dell’esecuzione deve decidere di una pena relativamente ad un soggetto al quale viene revocata la sospensione condizionale effetto di un patteggiamento applicato quando è stato ritenuto erroneamente maggiorenne e definito con sentenza passata in giudicato.
Ritenendo che l’ordinamento non prevede un adeguato strumento per rimediare all’errore, solleva una questione di legittimità costituzionale dell’art. 670 c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 25 primo comma e 117 primo comma Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 5, § 1, lett. a e 4 della Cedu, nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito passata in giudicato derivante dalla violazione della competenza funzionale del Tribunale per i minorenni.
Con la sentenza n. 2 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato la questione non fondata in relazione a tutti i profili sollevati dal giudice a quo, soprattutto in relazione alla dedotta questione di nullità assoluta per difetto di competenza funzionale, così da far dichiarare nullo il titolo esecutivo, per poi procedere ad un nuovo giudizio innanzi al competente tribunale per i minorenni.
Al di là della corretta prospettazione della tipologia di invalida, è evidente che un accoglimento di questo profilo avrebbe determinato in termini di sistema, come non manca di sottolineare la Corte, “gravi squilibri nei meccanismi della rilevazione delle nullità, così come disegnati dal Codice di procedura penale”.
Del resto, la Corte non manca di sottolineare come il giudice a quo espressamente ritenga, con motivazione più o meno ampia, che alcune ipotesi alternative, pur prospettate nel corso del processo, avesse ritenuto di non sollevarle. Il riferimento è alla possibile operativa della revisione ed all’inquadramento della questione nel novero dell’inesistenza (radicale).
Se in relazione al primo profilo, i giudici costituzionali non mancano di evidenziare che la questione avrebbe dovuto essere oggetto della prospettazione della Corte d’appello, quanto al secondo i giudici costituzionali evidenziano qualche possibile “apertura”, sottolineando la decisa opzione del giudice a quo per la questione di nullità dell’art. 670, comma 1, c.p.p.
A superare i riferiti limiti di rilevabilità, secondo la Corte, non potrebbero essere addotte neppure le nullità relative a diritti fondamentali, essendo queste già ricomprese tra le ipotesi di invalidità previste dalla disciplina codicistica.
In questa stessa prospettiva non potrebbero rilevare neppure le violazioni di garanzie costituzionali come quella, pur sostenuta dal giudice a quo, della lesione del principio del giudice naturale di cui all’art. 25 Cost., pur non mancando numerose decisioni costituzionali che collocano in questo ambito la posizione del giudice minorile.
Inoltre la Corte, pur essendo in questi ultimi tempi emersa una progressiva erosione del giudicato, in relazione al tema delle prove illegali, non manca di sottolineare come le decisioni in materia siano riconducibili ad interventi giurisprudenziali legati a situazioni di sopravvenienza costituzionalmente rilevata, con conseguente esclusione di “interventi a ritroso del giudice dell’esecuzione”.
Complessivamente, quindi, secondo la Corte deve ritenersi che l’irrevocabilità della res iudicata sia un fisiologico argine rispetto alla possibilità di interventi correttivi, una volta che siano intervenute le decisioni dei giudici chiamati anche a verificare su iniziativa delle parti eventuali errori procedurali.
Pur nella piena percezione dei termini della questione – senza evocare quanto previsto dal comma 4 dell’art. 24 Cost. – la Corte costituzionale, nella consapevolezza delle non secondarie ricadute che un’eventuale decisione di accoglimento potrebbe determinare, si muove nel solco dei termini nei quali il giudice a quo ha proposto la questione, secondo la logica delle rime obbligate o baciate, tenendo presenti i limiti che essa ed il diritto vivente hanno già fissato in punto di erosione del giudicato.
Sotto questo profilo, dalla lettura della motivazione sembrerebbe possibile affermare che ove la questione fosse stata prospettata nei termini dell’inesistenza (come sostenuto dalla difesa) l’esito avrebbe potuto essere diverso, ovvero, forse poteva lo stesso giudice di sorveglianza determinarsi in tal senso. È noto, infatti, che l’inesistenza, concepita ai tempi delle nullità relative, sanabili – perché non riconosciute – costituiva (1930) lo strumento per ovviare a gravi patologie processuali e come l’introduzione nel 1955 delle nullità assolute ne avesse ridimensionato la presenza,
Invero, la residualità delle situazioni di inesistenza - vizio di natura giurisprudenziale - non avrebbe messo in discussione l’esigenza per la Corte ed il sistema di preservare l’autorità del giudicato e l’assorbimento da parte della sentenza definitiva soprattutto delle cause di nullità ancorché assolute che, seppur insanabili, si afferma essere “coperte” dal giudicato.
Significativo, in tal senso, il passaggio della motivazione nella quale la Corte sottolinea come il giudice a quo sollecita questa Corte ad intervenire con una pronuncia additiva sul testo dell’art. 670, comma 1, c.p.p., che consenta al giudice dell’esecuzione di dichiarare (non già la “mancanza” o l’“inesistenza”, bensì) la nullità del titolo esecutivo, sulla base di un vizio esso stesso qualificato dal rimettente in termini di “nullità”.