ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: è davvero la fine dei processi mediatici?
di Valentina Angela Stella, giornalista del Dubbio News e del Riformista
Sommario: 1. Le novità principali - 2. Profili critici rilevati in fase di dibattito parlamentare - 3. Era necessario questo cambiamento? - 4. Se e come cambieranno i processi mediatici paralleli.
1. Le novità principali
Con ben cinque anni di ritardo, l'Italia ha recepito la direttiva 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul «rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali». Era stata la stessa Ministra della Giustizia Marta Cartabia a spronare il Parlamento in tal senso durante la condivisione delle linee programmatiche alle Camere. Il nostro Consiglio dei Ministri ha dato il via libero definitivo al decreto legislativo lo scorso 4 novembre, preceduto da un iter travagliato di discussione parlamentare: i due schieramenti che si sono fronteggiati sono stati quello del Partito Democratico e del Movimento Cinque Stelle da un lato e quello della destra insieme ad Azione ed Italia Viva dall'altro lato. Il primo gruppo avrebbe voluto un recepimento soft, il secondo limitare al massimo la comunicazione delle Procure. Alla fine, dopo diversi rinvii per l'emanazione dei pareri non vincolanti nelle Commissioni giustizia di Camera e Senato, i partiti hanno trovato un accordo e hanno inviato al Governo un testo (relatori: il senatore leghista Andrea Ostellari e il responsabile giustizia di Azione, l'onorevole Enrico Costa) che è stato recepito in pieno. La norma è in vigore dal 14 dicembre di quest'anno. Vediamo quali sono le novità principali.
L'articolo 2 prevede il divieto per le «autorità pubbliche» (magistrati, forze di polizia, ma anche Ministri) di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini. In caso di violazione di tale divieto, la norma prevede il diritto di rettifica in capo all’interessato, ferme restando le sanzioni penali e disciplinari e il risarcimento del danno.
Secondo l'articolo 3 invece il Procuratore della Repubblica può comunicare con i media solo tramite comunicati stampa. Nei casi di «particolare rilevanza pubblica dei fatti» ci sarà la possibilità di indire da parte del Procuratore, o un magistrato delegato, conferenze stampa ma la decisione di convocarle «deve essere assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano». L' «atto motivato» ha rappresentato un punto cruciale della discussione parlamentare ed ha costituito l'approdo di mediazione, rispetto a chi avrebbe voluto vietare sempre le conferenza stampa.
Lo stesso principio vale per la comunicazione delle forze di polizia giudiziaria: «il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia a fornire, tramite propri comunicati ufficiali oppure proprie conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato»; «l’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano».
Il medesimo articolo prevede anche di non «assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza».
L’articolo 4 prevede invece che nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato (ad esempio quelli cautelari, secondo l'interpretazione di alcuni giuristi), la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza definitiva.
Un ulteriore aspetto molto importante è che «sia specificato all’articolo 314 del codice di procedura penale che la condotta dell'indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere non costituisce, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subìta».
2. Profili critici rilevati in fase di dibattito parlamentare
Prima di arrivare al testo definitivo, le Commissioni parlamentari hanno tenuto un ciclo di audizioni con giuristi, magistrati, avvocati da cui sono emerse alcune problematicità. Ad esempio il dottor Giuseppe Santalucia, Presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, sebbene abbia detto che «il testo complessivamente può trovare condivisione perché il bisogno di rafforzare la presunzione di innocenza è certamente un bisogno meritevole di considerazione», ha però rilevato delle criticità, soprattutto sull'art. 3: «Si sono voluti irrigidire, attraverso l'esclusivo riferimento ai comunicati ufficiali e alle conferenze stampa, i rapporti tra l'ufficio di Procura e la stampa. Ritengo che questa sia una eccessiva ingessatura che bandisce qualsiasi possibilità che il Procuratore della Repubblica possa rendere una dichiarazione ad un giornalista fuori da una conferenza stampa». Santalucia si era chiesto poi «perché le modifiche debbano valere solo per gli uffici di procura e non anche per i giudici». Insomma, aveva concluso: «Mi rendo conto della necessità di richiamare l'attenzione, soprattutto della magistratura requirente, a sobrietà e continenza con i rapporti con la stampa ma credo che questa eccessiva formalizzazione dei canali di comunicazione possa rivelarsi in concreto più lesiva del bisogno di una corretta informazione». Se per l'Anm i paletti erano stati ritenuti troppo rigidi, di parere contrario si era mostrata l'Unione Camere Penali Italiane intervenuta in audizione con gli avvocati Giorgio Varano e Luca Brezigar: « Le norme, così come formulate, rischiano di essere dei meri desiderata che non avranno mai concreta applicazione». Inoltre avevano tacciato la norma di essere troppo indeterminata nel non elencare nel dettaglio le «autorità pubbliche». In aggiunta, avevano stigmatizzato il fatto che a decidere la rilevanza pubblica di un fatto degno di conferenza stampa è la stessa Procura che ha condotto le indagini, la stessa che «decide l’eventuale iscrizione di notizie di reato in tema di diffamazione e l’esercizio dell’azione penale sullo stesso tipo di reato - sulla base magari dell’assenza di rilevanza pubblica della notizia». In generale, per l'Ucpi, « affidare in via esclusiva alla magistratura la tutela del diritto alla presunzione di innocenza » non rappresenta il giusto rimedio che invece potrebbe essere quello di « un Garante per i diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo che potrebbe realmente diventare quel soggetto “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico e di chi viene potenzialmente esposto allo stesso da atti della magistratura violativi dei principi declinati dalla direttiva europea»[1].
3. Era necessario questo cambiamento?
È la domanda che in molti si stanno ponendo. Da un punto di vista formale, e per evitare una possibile procedura di infrazione, il nostro Paese ha dovuto adeguarsi alla prospettiva europea. Tuttavia c'erano diversi modi per farlo. L'articolo 27 della Costituzione recita: « L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Quindi per alcuni commentatori sarebbe potuto bastare ribadire in qualche modo questo concetto per impedire una comunicazione colpevolista da parte, tra l'altro, delle autorità pubbliche fino ad una sentenza passata in giudicato. Ma sappiamo che in molte circostanze lo spirito costituzionale è stato tradito. È innegabile infatti che una fetta della magistratura e un'altra della polizia giudiziaria in questi anni si siano rese protagoniste di scomposte autocelebrazioni pubbliche attraverso reboanti conferenza stampa in pompa magna e mediante produzione audiovideo di materiali d'indagine a mo' di fiction giudiziarie confezionate su misura per i media. Un esempio su tutti: il video confezionato dal Ris del furgone bianco di Massimo Bossetti, che continuava a girare intorno alla palestra di Yara Gambirasio il giorno della scomparsa della 13enne. Fu dato alla stampa prima del processo e descritto come una delle prove decisive della colpevolezza del muratore di Mapello ma poi ci fu un vero colpo di scena. Durante il processo di primo grado, il comandante del Ris ammise, incalzato da uno dei difensori di Bossetti, che il realtà era un montaggio di un unico frame del furgone dell'imputato con molti altri di diversa provenienza, usato solo a scopo mediatico e privo di qualsiasi rilevanza probatoria, tanto è vero che non fu inserito nel fascicolo. A tal proposito qualche mese fa il gip del Tribunale di Milano Fabrizio Filice ha archiviato, come chiesto dal pm, un procedimento penale per diffamazione, partito da una denuncia del comandante dei Ris, a carico di ben sedici giornalisti che avevano definito quel video «un filmino tarocco», una «patacca». Nelle sue motivazioni il gip è lapidario: «è quindi chiaro che la cronaca e la critica giornalistica, nel caso di specie, non solo si sono inserite su un fatto obiettivo, di indubbio interesse pubblicistico e certamente non frutto di loro invenzione o di artefatto, ma siano state anche mosse dal fondamentale principio della presunzione di innocenza dell'imputato che, in base alla direttiva UE n. 343 del 2016, oggetto di recente recepimento da parte dell'Italia, deve proteggere le persone indagate o imputate in procedimenti penali da sovraesposizioni mediatiche deliberatamente volte a presentarli all'opinione pubblica come colpevoli prima dell'accertamento processuale definitivo».
È evidente che servissero delle regole più stringenti per normare la comunicazione di chi indaga, accusa, arresta. In realtà alcune regole già esistevano prima del recepimento della direttiva. Il decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, modificato appunto dall'articolo 3 spiegato all'inizio di questo articolo, già prevede ai comma 2 e 3 dell'articolo 5 che ogni informazione inerente l'attività della Procura deve essere impersonale e che è vietato per i magistrati della Procura rilasciare dichiarazione sull'attività giudiziaria dell'ufficio. Inoltre il Procuratore della Repubblica ha l'obbligo, secondo il comma 4, di segnalare al consiglio giudiziario chi trasgredisce la norma. Questa norma, pensata per i sostituti in cerca di visibilità, è stata chiaramente disattesa. E allora cosa dovremmo aspettarci in merito alla nuova disciplina? Solo il tempo potrà fornire una risposta. Certamente occorrerà osservare se la norma verrà rispettata: è prevista una rilevazione dei procedimenti disciplinari tuttavia, come ha evidenziato in una intervista l'onorevole Enrico Costa, uno dei massimi promotori del recepimento della direttiva, in una intervista: « Io sarò il primo a vigilare e spero che anche gli altri lo facciano, soprattutto gli avvocati»[2]. Sta anche predisponendo moduli perché tutti possano segnalare al Ministero della Giustizia ogni violazione.
4. Se e come cambieranno i processi mediatici paralleli
I grandi sostenitori del recepimento della norma europea hanno cantato vittoria, mettendo in luce che con un fermo stop al processo mediatico si ripristineranno principi di civiltà giuridica che diventano regole di comportamento. Ma è davvero così?
Intanto il 6 dicembre il Procuratore della Repubblica di Perugia Raffaele Cantone, muovendosi in anticipo rispetto all'entrata in vigore della norma, ha emanato una direttiva, indirizzata al Questore e ai comandanti provinciali dei carabinieri e della guardia di finanza, sulle «modalità con cui vanno comunicate ai mass media le informazioni sui procedimenti penali e sugli atti d'indagine». In essa ricorda che le informazioni sui procedimenti penali sono di «esclusiva competenza del Procuratore» che sarà l'unico organo «legittimato a fornire informazioni» o tramite sintetico comunicato stampa o tramite conferenza stampa, specificando che i «provvedimenti, se adottati in fase di indagine, non implicano alcuna responsabilità dei soggetti sottoposti ad indagini. I nomi delle persone raggiunte da misure cautelari personali e reali saranno contenuti nel documento solo quando tale dato si renderà necessario per garantire una effettiva completezza delle informazioni». Poi un passaggio importante che viene letteralmente sottolineato nel documento: «al di fuori di queste informazioni fornite ufficialmente non è consentito ad alcuno, né ai magistrati né agli appartenenti alla polizia giudiziaria, di dare ulteriori notizie ai mezzi di informazione».
Infatti, in teoria, tutto quello che verrà comunicato al di fuori di quanto esplicitato in un comunicato stampa della Procura o condiviso in una conferenza stampa sarebbe da configurarsi come una fuga di notizie, contra legem. Come ha scritto Luigi Ferrarella «si creeranno le condizioni perfette per incrementare, anziché contrastare, il mercato nero della notizia, giacché la nuova norma spingerà i giornalisti all'unica alternativa possibile, e cioè a coltivare nell'ombra rapporti per forza di cose opachi con le varie fonti 'negate' alla luce del sole»[3]. E quando ciò accadrà le Procure indagheranno? La domanda è di per sé oziosa.
Proviamo però a vedere anche noi un lato positivo. Qualche tempo fa il professor Giorgio Spangher descrisse così le conseguenze del processo mediatico il cui seme viene piantato nella fase delle indagini preliminari: «gli imputati sono morti che camminano perché su di loro si posa lo stigma sociale scaturito dal racconto che il pubblico ministero costruisce intorno a loro e che la stampa replica all'infinito. Il pm costruisce una sua notitia criminis che resta storicizzata, anche se il processo farà un altro corso»[4]. Probabilmente adesso, venendo limitata la comunicazione della magistratura requirente e delle forze di polizia, ed essendo richiesto un linguaggio rispettoso della presunzione di innocenza quello stigma di cui parla Spangher sarà fortemente ridimensionato e, seguendo il pensiero dell'ex magistrato Nello Rossi, «si affermerà il principio che c’è un “onore” dell’imputato presunto innocente che non può essere violato impunemente. La novità inciderà perciò anche sui media, abbassando sensibilmente la soglia oltre la quale vi è diffamazione e spostando la frontiera della tutela della reputazione».[5]
Sempre in teoria, poi, non dovremmo più leggere, tra l'altro, tweet di Ministri della Repubblica che, solo per l'apertura di un fascicolo di indagine o per l'applicazione di misure cautelari in carcere ad un indagato, aizzano il pubblico social con espressioni del tipo «brutto bastardo, marcisci in galera».
Dovrebbe essere finito anche il tempo del nome suggestivo dato alle inchieste inaugurato con Mani pulite e proseguito con Angeli e demoni, Mafia capitale, Bocca di Rosa, Terminator 3, solo per citarne alcuni. Ma attenzione: la disciplina di cui stiamo parlando si rivolge principalmente ai magistrati, e non incide tecnicamente sui comportamenti dei media. Pertanto, nulla impedirà alla stampa di assegnare in maniera autonoma un nome all'indagine, che potrebbe cristallizzarsi nel tempo in riferimento al fatto di cronaca specifico.
Per di più, la nuova norma non potrà forse porre un freno, come ha detto il pm Eugenio Albamonte, «alle esternazioni che alcuni magistrati fanno soprattutto nei talk show, in cui spesso vengono espresse delle considerazioni che non fanno onore alla magistratura e danno una idea della categoria investita di un qualche ruolo morale, come fustigatrice dei costumi, che dà giudizi sommari sui fatti del giorno, tradendo l'idea di ponderazione che la comunicazione di un magistrato dovrebbe sempre soddisfare».[6]
Inoltre, la nuova disciplina interviene principalmente sulla fase delle indagini preliminari ma cosa accade nelle fasi successive? Resta l'annoso problema della pubblicazione di atti del fascicolo di indagine o coperti da segreto, o non pubblicabili o non pertinenti con il quadro probatorio.
Prendiamo due esempi tratti dalla recente cronaca giudiziaria.
- Caso Renzi/Open/Fatto Quotidiano. Il contesto lo riassumiamo brevemente: sul giornale diretto da Marco Travaglio sono stati pubblicati ad inizio novembre i contenuti dei verbali delle indagini della Procura di Firenze sui conti della Fondazione Open, tra cui una informativa del 10 giugno 2020 della Guardia di Finanza che contiene anche gli estratti del conto corrente intestato a Renzi. I cronisti del Fatto nell'articolo del 6 novembre specificano che «Gli incassi dell'ex premier non sono oggetto di indagine: non è per questo che Renzi è finito sotto inchiesta»[7]. Senza entrare nel merito della vicenda, non essendo questa la sede per discuterne, ci siamo però chiesti se la norma sulla presunzione di innocenza, non ancora in vigore in quei giorni, avrebbe potuto impedire quella macchina del fango nei confronti di un indagato. La risposta è chiaramente no, al di là del fatto che in questo caso c'è un personaggio politico al centro della discussione. Se al posto di Matteo Renzi ci fosse stato Mario Rossi, nulla avrebbe potuto fermare la stampa nel pubblicare quegli atti. In questo caso le indagini sono state chiuse e gli atti sottoposti alla discovery. Forse ancora una volta la criticità l'ha centrata il professor Giorgio Spangher: «il problema non riguarda tanto la pubblicabilità o meno degli atti, ma la pertinenza delle acquisizioni al fascicolo. Mentre per le intercettazioni si è riusciti a far inserire nell'archivio riservato quelle irrilevanti ai fini delle indagini, il legislatore ancora non si è posto il tema dell'irrilevanza rispetto all'attività di acquisizione di materiale da perquisizione e sequestro, soprattutto in materia bancaria. Questo episodio dunque deve indurre il legislatore a ripensare la norma».
- Caso plusvalenze Juventus. La Procura di Torino a fine novembre ha diramato un comunicato stampa di poche righe in cui, tra l'altro, informava che «i finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria Torino, delegati alle indagini, sono stati incaricati di reperire documentazione e altri elementi utili relativi ai bilanci societari approvati negli anni dal 2019 al 2021». Il problema è quello che è successo dopo: dopo qualche giorno su quasi tutti i media sono stati pubblicati ampi stralci del decreto di perquisizione. Addirittura una grossa testata nazionale ha aggiunto proprio foto delle pagine originali del decreto. Per alcuni, come l'onorevole Catello Vitiello (IV), autore di una proposta di legge che estenderebbe il segreto istruttorio all'arco temporale in cui gli atti di indagine sono conosciuti dalle parti, cioè fino a quando non inizia il processo vero e proprio, «che l'atto di perquisizione venga notificato agli indagati, non significa che cade il segreto investigativo. C'è un errore tecnico di fondo in quanto si confonde la conoscenza dell'atto da parte del soggetto interessato con l'opponibilità dell'atto erga omnes. La conoscibilità non riguarda tutti e in più siamo ancora nella fase dell'indagine preliminare». Per altri invece entra poi in gioco l'interpretazione dell'articolo 114 cpp, forse uno dei più ambigui e peggio scritti del codice: che ci si riferisca ad atti coperti da segreto (art. 114 comma 1) o ad atti non più coperti da segreto ma non divulgabili (art. 114 comma 2) quel decreto di perquisizione non andava reso noto integralmente o parzialmente sulla stampa[8].
C'è poi tutto un altro filone che, a parere di chi scrive, non subirà alcuna limitazione, ed è quello della cronaca giudiziaria che si trasforma in voyeurismo. Era il 1983 e i militari, per trasferire Enzo Tortora, accusato ingiustamente di associazione camorristica, nel carcere di Regina Coeli, aspettarono che fosse mattina presto per garantire ai fotografi la prima fila davanti all'Hotel Plaza e riprendere il giornalista con i ceppi ai polsi. Da allora è stato un susseguirsi di processi mediatici, che sempre più hanno invaso quella sfera che dovrebbe rimanere circoscritta nelle aule giudiziarie o almeno dovrebbe essere trattata sulla stampa spiegando i termini della questione, non imbastendo un criminal show[9]. Salvatore Ferraro, Giovanni Scattone, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi, Annamaria Franzoni, la famiglia Ciontoli, Cosima Serrano, Sabrina Misseri, Antonio Logli, Massimo Bossetti, il generale Mario Mori, Mario Oliverio, Clemente Mastella, Nunzia De Girolamo: sono solo alcuni dei nomi più noti di persone che hanno subìto nel nostro Paese i più morbosi processi mediatici. Non importa se tanti di loro siano stato poi condannati: nel momento in cui erano presunti non colpevoli sono stati attenzionati da un voyeurismo giudiziario senza precedenti, che ha costruito mostri da prima pagina, rovinando carriere e relazioni personali. Il fenomeno del processo mediatico è complesso e, come scrive il professore avvocato Vittorio Manes in un contributo dal titolo ‘La “vittima” del “processo mediatico”: misure di carattere rimediale’, alla base «si pone il conflitto, difficilmente superabile, tra diritti contrapposti: il diritto di cronaca giudiziaria, da un lato, e dall’altro i diversi diritti che fanno capo a chi lo subisce (vita privata, riservatezza, presunzione di innocenza), oltre a più generali istanze di imparzialità del giudizio». Molti sono gli studiosi che da anni analizzano la questione e cercano delle soluzioni per bilanciare tutte le esigenze in gioco. Il professore avvocato Ennio Amodio, in un documento pubblicato dalle Camere Penali, descrive una situazione allarmante: «L’onda impetuosa dei media si abbatte sul processo penale e ne deforma lo scenario fino a renderlo irriconoscibile persino a chi, come difensore, ha vissuto in prima persona le vicende giudiziarie che la stampa e la televisione scelgono di raccontare». Ecco il nodo della questione: la norma di recepimento della direttiva europea, come abbiamo visto, agisce principalmente sulla fase delle indagini preliminari non su quella del processo che potrà comunque essere raccontato in maniera distorta. Certo, se la comunicazione colpevolista verrà effettivamente limitata e sgonfiata, forse qualche giornalista dovrà impegnarsi maggiormente nel suo lavoro e frequentare di più le aule di tribunale, fino ad ora quasi sempre disertate. E potremmo così sperare nel racconto del contraddittorio delle parti, che non ha mai quasi interessato la nostra categoria, impegnata molto spesso a fare da cassa di risonanza alle ipotesi delle Procure e a presentarsi in Tribunale solo il giorno della sentenza, con pesanti conseguenze sulla narrazione del processo. A me personalmente, ad esempio, è capitato di confrontarmi durante l'ultima udienza di un processo dal clamore nazionale con una collega di una emittente nazionale che non sapeva distinguere gli avvocati di parte civile da quelli della difesa.
In ogni modo, a delineare quasi scientificamente le differenze tra processo penale e processo mediatico ci ha pensato il professor Glauco Giostra in un elaborato dal titolo ‘Processo penale e mass media’: «il processo giurisdizionale ha un luogo deputato, il processo mediatico nessun luogo; l’uno ha un itinerario scandito, l'altro nessun ordine; l'uno un tempo (finisce con il giudicato), l'altro nessun tempo; l’uno è celebrato da un organo professionalmente attrezzato, l’altro può essere “officiato” da chiunque. Ma vi sono anche differenze meno evidenti e più profonde. Il processo giurisdizionale seleziona i dati su cui fondare la decisione; il processo mediatico raccoglie in modo bulimico ogni conoscenza che arrivi ad un microfono o ad una telecamera: non ci sono testi falsi, non ci sono domande suggestive, tutto può essere utilizzato per maturare un convincimento. Il primo, intramato di regole di esclusione, è un ecosistema chiuso; il secondo invece è aperto, conoscendo soltanto regole d’inclusione; la logica dell’uno è una logica accusatoria, quella dell’altro, inquisitoria».
Ma tutto questo può inficiare il giudizio della Corte? Per la Cassazione non esiste questo pericolo: «le campagne stampa quantunque astiose, accese e martellanti o le pressioni dell’opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare il giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che sia menomata la sua indipendenza» (Cass. Sez. V, 12.5.2015, Fiesoli). Si tratta dello stereotipo del giudice con la corazza: ma è davvero così? La diffusione al di fuori del processo degli atti di indagine, coperti da segreto o non pubblicabili, costituisce certamente un ostacolo all’esercizio del diritto di difesa a causa del forte pregiudizio che arreca all’indipendenza psicologica del giudice. Quest'ultimo dovrebbe conoscere il materiale probatorio solo durante la sua formazione nella dialettica tra le parti. Qualche giurista sostiene che in realtà i giudici sono strutturati in modo da non farsi condizionare, tuttavia una volta un famoso avvocato, durante una cena, partecipò ai commensali che un magistrato gli aveva confessato che in realtà si lasciano in parte influenzare. Nondimeno, cosa accade invece per le giurie popolari, molto spesso composta da persone prive delle adeguate conoscenze giuridiche e facilmente influenzabili? Se la risposta è che in fin dei conti decidono i giudici togati, allora discutiamo seriamente affinché vengano soppresse. Se, invece, il loro giudizio ha un peso allora pensiamo a come metterli al riparo dall'influenza della stampa colpevolista.
Tutto questo purtroppo non avrà mai fine se non cambierà la cultura di tutti i protagonisti. I magistrati e le forze di polizia dovranno chiudere i rubinetti tramite i quali passano gli atti alla stampa nelle fasi in cui gli stessi non sono conoscibili; la stampa dovrebbe cominciare a rispettare il proprio codice deontologico. Pensiamo all'articolo 8 del Testo Unico dei doveri del giornalista che da solo se rispettato, come l'articolo 27 della Carta costituzionale, basterebbe a far andare le cose in maniera corretta: «Il giornalista: a) rispetta sempre e comunque il diritto alla presunzione di non colpevolezza. In caso di assoluzione o proscioglimento, ne dà notizia sempre con appropriato rilievo e aggiorna quanto pubblicato precedentemente, in special modo per quanto riguarda le testate online; [...] d) nelle trasmissioni televisive rispetta il principio del contraddittorio delle tesi; [...] cura che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi». Queste regole vengono rispettate? Altra domanda oziosa. Anche gli avvocati hanno la loro parte di responsabilità: talvolta per convenienza personale - un lauto gettone di presenza in una trasmissione, o per farsi pubblicità, o per creare empatia intorno alle presunte vittime - alimentano la gogna mediatica. Forse sarebbe il caso anche di cominciare a chiudere le porte dei salotti televisivi ai familiari delle vittime che, animati da comprensibile vendetta punitiva, si esibiscono in un coro colpevolista contro indagati impotenti. Volendo allargare il campo visivo dovremmo cominciare seriamente a interrogarci sulla qualità del pubblico che ci legge, ci ascolta, ci vede. Siamo un Paese in cui l'emotività e la paura hanno il sopravvento sull'analisi dei fatti, l'angoscia collettiva reclama pene sempre più severe nonostante i crimini siano in calo, e dove appunto processi pubblici e gogne mediatiche hanno perfettamente preso il posto delle tricoteuses settecentesche. Inoltre «siamo in presenza - come mi disse in una intervista il sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi[10] - di un circuito chiuso dove quello che lei chiama il Tribunale del Popolo alimenta il sistema dell’informazione, e quest’ultimo incentiva gli umori e i rancori del Tribunale del Popolo. L’uno giustifica l’altro. Il primo asseconda e accende, eccita e rinfocola il secondo, e ne viene, a sua volta, stimolato e blandito. Senza sottovalutare nemmeno per un attimo le responsabilità dei media, non si deve dimenticare che una domanda di giustizia sommaria e di rivalsa sociale cova nel profondo dell’animo umano. E si alimenta di relazioni private e scambi domestici, di frustrazioni personali e di sentimenti familiari persino prima di entrare in rapporto con il sistema dell’informazione».
È chiaro che la nuova normativa sulla presunzione di innocenza è inerme dinanzi a questa gigantesca rappresentazione che può essere ridisegnata in chiave garantista, costituzionale solo con un cambiamento culturale che parta dalle scuole. Anche per frenare un fenomeno che dovrebbe preoccuparci, ossia l'analfabetismo funzionale, che oggi è la «più grande emergenza» secondo il report 'Ridisegnare l’Italia. Proposte di governance per cambiare il Paese' a cura del The European House-Ambrosetti[11].
Insomma, questo quadro, che non pretende affatto di essere esaustivo della questione, fa capire che il recepimento della direttiva sulla presunzione di innocenza è stato sì necessario ma non rappresenta la panacea di tutti i mali che affliggono la narrazione dei processi nel nostro Paese.
[1] Tratto da un articolo del Dubbio del 29 settembre 2021
[2] Intervista a Enrico Costa, Il Riformista 6 novembre 2021
[3] Corriere della Sera, 27 novembre 2021
[4] Intervista a Giorgio Spangher, Il Dubbio 17 maggio 2021
[5] Intervista a Nello Rossi, Il Dubbio 27 ottobre 2021
[6] Intervista ad Eugenio Albamonte, Il Riformista 7 dicembre 2021
[7] Tratto da un articolo del Dubbio del 9 novembre 2021
[8] Tratto da un articolo del Dubbio del 30 novembre 2021
[9] Tratto da un articolo del Dubbio del 15 ottobre 2021
[10] Intervista a Luigi Manconi e Federica Graziani, Il Dubbio 15 ottobre 2020
[11] Fonte: https://www.ambrosetti.eu/news/ridisegnare-litalia-proposte-di-governance-per-cambiare-il-paese/
Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza
di Federica Resta*
Al fine di determinare il “compiuto adeguamento” dell’ordinamento interno alla direttiva 2016/343/UE, il dlgs 188 del 2021 introduce innovazioni importanti nello statuto delle garanzie del processo penale e nella disciplina della comunicazione giudiziaria. Si prevedono, infatti, non soltanto un articolato sistema di tutele del diritto dell’indagato o dell’imputato a non essere indicato “pubblicamente come colpevole” finché non ne sia definitivamente accertata la responsabilità penale, ma anche nuove modalità di gestione del rapporto tra giustizia e informazione. Parallelamente a queste garanzie extraprocessuali della presunzione d’innocenza, si introducono poi ulteriori garanzie specificamente intraprocessuali, rilevanti (anche) quali parametri di redazione degli atti e regola di “trattamento” dell’indagato e dell’imputato, nella fase anteriore all’accertamento definitivo di responsabilità.
Sommario: 1. La scelta in favore della delega – 2. Le innovazioni del decreto- 2.1. Il diritto a non essere indicato pubblicamente come colpevole- 2.2. Presupposti e forme della comunicazione giudiziaria – 2.3.2.3. Garanzie e rimedi procedimentali
1.La scelta in favore della delega
Il dlgs 188 del 2021, in vigore dal 14 dicembre, segna un passaggio importante nello statuto delle garanzie del processo penale e nel rapporto- complesso tanto quanto centrale per la democrazia – tra giustizia e informazione.
Sotto il profilo del metodo, rileva anzitutto la scelta parlamentare (derivante dall’accoglimento di un emendamento dell’On. Costa) di conferire al Governo una nuova delega per l’attuazione della direttiva (UE) 2016/343(il cui termine di recepimento era scaduto il 1^ aprile 2018). Una prima delega era, infatti, stata già prevista dalla l. 163 del 2017, ma non era stata esercitata ritenendosi l’ordinamento interno già conforme alla direttiva. La valutazione è tuttavia mutata con la prima Relazione della Commissione europea, del 31 marzo scorso, sullo stato di attuazione della direttiva, rendendo così opportuna anche ad avviso del Governo (che ha reso parere favorevole sull’emendamento) la reintroduzione della delega legislativa all’interno del d.d.l. di delegazione europea e, successivamente, l’emanazione del decreto legislativo in tempi celeri.
E che si tratti di un tassello ulteriore (non certo l’unico) nel mosaico di norme interne a tutela della presunzione d’innocenza è evidente sin dal titolo del decreto legislativo, che individua nel “compiuto adeguamento” della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva l’obiettivo delle norme introdotte. Gli aspetti più innovativi della direttiva che il Governo ha ritenuto necessario recepire con disposizioni specifiche riguardano, in particolare, il diritto dell’indagato e dell’imputato:
-a non essere oggetto di dichiarazioni di autorità pubbliche o di decisioni giudiziarie diverse da quelle relative alla responsabilità penale, in cui egli venga pubblicamente presentato come colpevole, nonostante la mancata conclusione del processo (art. 4);
-a non essere sottoposto a mezzi di coercizione fisica anche in aula di udienza, durante il processo, o comunque in altre circostanze pubbliche, salva la necessità per specifiche esigenze di sicurezza (art. 5):
-a disporre in caso di violazione di tali garanzie di un ricorso effettivo (art. 10), ovvero di un rimedio processuale tale da “porre l'indagato o imputato nella posizione in cui questi si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata, così da salvaguardare il diritto a un equo processo e i diritti della difesa” (C 44).
Benché “integrative” rispetto al quadro normativo vigente (art. 1 del d.lgs.), quelle previste dal d.lgs. 188 sono, tuttavia, disposizioni di notevole rilevanza. Esse, infatti sanciscono non soltanto un articolato sistema di tutele (anche remediali) del diritto dell’indagato o dell’imputato a non essere indicato “pubblicamente come colpevole” finché non ne sia definitivamente accertata la colpevolezza, ma anche nuove modalità di gestione della comunicazione giudiziaria, suscettibili di avere effetti importanti sulla qualità dell’informazione. Parallelamente a queste garanzie extraprocessuali della presunzione d’innocenza[1] (intesa non solo “come canone di giudizio ma anche come “canone di trattamento” dell’indagato e dell’imputato nella fase antecedente ad una pronuncia definitiva”[2]) l’articolo 4 introduce poi ulteriori garanzie specificamente intraprocessuali, rilevanti (anche) quali parametri di redazione degli atti. Essa declina dunque, in rigorosi canoni di continenza espressiva, il “senso del limite e [..]l’etica del dubbio[3]” cui devono conformarsi le asserzioni dell’autorità giudiziaria prima dell’accertamento definitivo di responsabilità.
2.Le innovazioni del decreto
2.1Il diritto a non essere indicato pubblicamente come colpevole
Sotto il primo profilo rileva, in particolare, l’articolo 2 del d.lgs. 188, che vieta alle “autorità pubbliche” di “indicare pubblicamente” l'indagato o l'imputato come "colpevole", prima dell’adozione di un provvedimento definitivo di condanna. Il ricorso alla nozione lata di “autorità pubbliche” è diretto specificamente ad includere ogni autorità, anche esterna all’ambito giudiziario, titolare di un pubblico potere, conformemente a quanto sancito dalla giurisprudenza della Corte EDU (che ha esteso anche ad autorità politiche, amministrative, elettive l’obbligo del rispetto della presunzione d’innocenza) oltre che dal C 17 della direttiva.
Quali rimedi attivabili in caso di violazione (ferme le eventuali responsabilità penali e disciplinari dell’autore), la norma prevede la tutela risarcitoria per equivalente (rispetto al danno, da ritenersi sia patrimoniale che non) e in forma specifica, da attuarsi nelle forme della rettifica, mediante un procedimento speciale rispetto a quello previsto in via generale dalla legge sulla stampa. A fronte dell’istanza di rettifica avanzata dall’interessato, l’autorità pubblica, ritenendo la richiesta fondata, è tenuta a disporre la rettifica (avvisandone l’interessato) entro 48 ore, con le stesse modalità proprie della dichiarazione contestata o, in caso d’impossibilità, con modalità tali da garantire alla rettifica lo stesso rilievo e lo stesso grado di diffusione che hanno caratterizzato la dichiarazione. In caso di mancato accoglimento dell’istanza o di esecuzione della rettifica con modalità diverse da quelle prescritte (proprio per assicurare corrispondenza e omogeneità formale della prima alla dichiarazione originaria), l’interessato ha facoltà di richiedere al tribunale, ex art. 700 c.p.c., l’ordine di pubblicazione della rettifica. Pur nel silenzio della norma, un’interpretazione della direttiva volta a garantirne l’ “effetto utile” impone di ammettere l’esperibilità di tale rimedio anche nel caso di inerzia, dell’autorità adita, rispetto all’obbligo di provvedere sull’istanza.
La norma presenta alcune affinità con altre già proposte in passato, in particolare nella XVI legislatura con l’emendamento a prima firma Casson n.1.287 al disegno di legge in materia di intercettazioni, AS 1611 e il sub-emendamento 1.0.4 all’ AS 3491, in materia di diffamazione. Tuttavia, diversamente dalla norma attuale che circoscrive il proprio ambito applicativo alle dichiarazioni dell’autorità pubblica, le proposte Casson riferivano il diritto di “chiunque” a non essere indicato come autore di reato, prima della definizione del relativo giudizio, genericamente alle dichiarazioni rese “a mezzo della stampa o di qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. La proposta Casson (che pure introduceva una tutela remediale attivabile ex art. 700 c.p.c., oltre a quella risarcitoria espressamente estesa anche al danno non patrimoniale) si caratterizzava, dunque, per uno spettro applicativo più ampio, tale da onerare del dovere di rispetto della presunzione d’innocenza anche i giornalisti. In senso analogo si muovevano anche le proposte di revisione del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica discusse, su impulso del Garante per la protezione dei dati personali nel 2014, ma senza esito risolutivo.
La limitazione (conforme alla direttiva) della norma attuale alle sole comunicazioni rese dalle autorità pubbliche non esclude, tuttavia, l’autonomo dovere delle testate (in particolare telematiche) di aggiornare, alla sopravvenuta rettifica, la notizia eventualmente riportata sulla base della dichiarazione scorretta degli inquirenti. Tale dovere autonomo deriva, infatti, dall’osservanza del principio di esattezza nel trattamento dei dati (art. 5, p.1, lett.d) Reg. Ue 2016/679), in base al quale una consolidata prassi del Garante per la protezione dei dati personali impone alle emeroteche on line di segnalare l’evoluzione subita dalla notizia (cfr., ad es, provv. n. 286 del 10.12.2020).
L’assenza di una espressa clausola di salvaguardia (presente invece nel C 17 della direttiva) in favore delle prerogative immunitarie previste dall’ordinamento (si pensi all’insindacabilità dei parlamentari) non osta, comunque, alla loro applicazione. Essa è, infatti, dovuta secondo un’interpretazione sistematica delle norme, che tenga conto anche del rango normativo (in particolare, costituzionale) delle garanzie considerate.
2.2. Presupposti e forme della comunicazione giudiziaria
Particolarmente rilevante è, poi, l’articolo 3 che novella il decreto legislativo n. 106 del 2006, in relazione ai rapporti del procuratore della Repubblica con gli organi di informazione, innovandone la disciplina sull’an e sul quomodo. In particolare, si introduce un vincolo di esclusività nelle forme da osservare per la gestione di tali rapporti, circoscrivendole ai soli comunicati ufficiali o, nei casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, alle conferenze stampa, in quest’ultima ipotesi previa determinazione assunta con atto motivato in ordine alle “specifiche ragioni di pubblico interesse” legittimanti l’iniziativa[4]. Con le stesse modalità, la polizia giudiziaria può essere autorizzata dal procuratore della Repubblica a fornire al pubblico informazioni sugli atti di indagine compiuti. Tale previsione induce a ritenere che la polizia giudiziaria debba ottenere la prescritta autorizzazione in tutte le fasi in cui opera, sia autonomamente ex artt. 347, comma 1, e 348, comma 1, c.p.p. sia dopo l’intervento del Pubblico Ministero ex art. 348, comma 3, c.p.p..
Le sole forme di comunicazione ammesse divengono, dunque, quelle ufficiali, con assunzione in capo allo stesso Procuratore della Repubblica della responsabilità in ordine alla scelta di attivare o meno la via, a maggiore risonanza, della conferenza stampa in ragione di specifiche ragioni di interesse pubblico che sono oggetto di un peculiare onere motivazionale.
In ordine all’an della comunicazione, lo stesso articolo subordina l’ammissibilità della “diffusione di informazioni sui procedimenti penali” a presupposti di stretta necessità (della diffusione stessa) per la prosecuzione delle indagini ovvero alla ricorrenza di “altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Si introduce anche un vincolo contenutistico all’informazione, precisando che le informazioni fornite alla stampa debbano chiarire la fase in cui il procedimento si trova e assicurare, in ogni caso, il diritto dell’indagato e dell'imputato a non essere indicati come colpevoli fino a condanna definitiva. Come rileva il Consiglio superiore della Magistratura nel parere del 3 novembre 2021 sullo schema di decreto, il riferimento alla fase procedimentale è particolarmente importante per far comprendere, soprattutto in sede d’indagini preliminari, l’eventuale provvisorietà e transitorietà di alcuni atti e conclusioni.
Si vieta infine l’assegnazione ai procedimenti penali pendenti, nell’ambito delle comunicazioni ufficiali, di denominazioni lesive della presunzione di innocenza. Si tratta di un criterio di sobrietà comunicativa (applicabile anche alle comunicazioni ufficiali della polizia giudiziaria) che, se osservato nella lettera e nella ratio, potrebbe essere utile a contenere, di riflesso, anche la tendenza al sensazionalismo che spesso caratterizza la cronaca giudiziaria.
Naturalmente, resta valida per i giornalisti la possibilità di acquisizione di specifiche informazioni sul procedimento penale, non coperte da segreto investigativo, in virtù di istanza di accesso ex art. 116 c.p.p. (ancorata al parametro dell’interesse), valorizzata in particolare da alcuni uffici giudiziari. La Procura di Napoli, ad esempio, con ordine di servizio n. 118/2019 (e dapprima la Procura di Torino, con provvedimento dell’8 ottobre 2018), ha chiarito che l’ostensione di provvedimenti non coperti da segreto investigativo, agli organi di informazione che ne facciano richiesta, deve considerarsi «funzionale ad assicurare, da un lato, il corretto esercizio del diritto di cronaca e, dall’altro, il soddisfacimento dell’interesse pubblico ad un’informazione obiettiva e trasparente in relazione a fatti di rilevanza ed interessi collettivi, fermo restando il divieto di pubblicazione del testo dei provvedimenti giudiziari di cui all’art. 114 c.2 c.p.p.»[5]. Può, anzi, ragionevolmente ipotizzarsi che proprio la limitazione dei casi e dei modi nei quali è ammessa la comunicazione da parte degli uffici giudiziari, valorizzi ulteriormente lo strumento dell’accesso, da parte dei giornalisti, agli atti procedimentali ex art. 116 c.p.p. Questa soluzione potrebbe contribuire, in particolare, ad evitare il rischio che al “possibile arbitrio della parola si sostituisca un “arbitrio del silenzio”, che sottragga, per tempi più o meno lunghi, alla conoscenza ed al controllo dell’opinione pubblica informazioni non coperte da alcun segreto, che vengono mantenute riservate solo per valutazioni di opportunità compiute dagli inquirenti”[6].
In linea generale, attraverso la riduzione delle possibilità di comunicazione “della giustizia sulla giustizia” ai soli canali ufficiali e formali, si riduce significativamente “il rischio di trascinamento del pubblico ministero in sistemi di relazione non coerenti con il suo statuto di imparzialità[7]”.
2.3. Garanzie e rimedi procedimentali
L’articolo 4 interviene, invece, sulla dimensione processuale della presunzione di innocenza, rendendola più espressamente criterio di redazione anche degli atti processuali[8]. Con uno specifico articolo (il 115-bis, inserito tra le disposizioni generali del Libro II del codice di rito e rubricato "Garanzia della presunzione di innocenza"), si vieta l’indicazione come colpevole dell’indagato o dell’imputato, prima della condanna definitiva, nei provvedimenti adottati nel corso del procedimento, diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale e dagli atti con i quali il Pubblico Ministero tende a dimostrare la colpevolezza del soggetto.
Il rimedio attivabile in caso di ritenuta violazione del suddetto divieto consiste nell’istanza di correzione, necessaria alla salvaguardia della presunzione d’innocenza, da presentare- a pena di decadenza entro dieci giorni dalla conoscenza del provvedimento- al giudice procedente (il gip per le indagini preliminari), che provvede con decreto motivato entro 48 ore. Il decreto, che è notificato all'interessato e alle altre parti e comunicato al Pubblico Ministero, è opponibile (a pena di decadenza entro dieci giorni) al Presidente del Tribunale o della Corte (ovvero, ove siano opposti provvedimenti di questi ultimi, rispettivamente, al presidente della Corte d’appello o al Presidente della Corte di cassazione), che decide “con decreto senza formalità di procedura”. La norma è stata così modificata, rispetto alla versione originaria del decreto (che prevedeva l’opposizione dinanzi alla stessa autorità procedente) sulla scorta dei rilievi contenuti nei pareri parlamentari, al fine di assicurare maggiore conformità alla garanzia, di cui all’art. 10 della direttiva, di effettività del ricorso attivabile in caso di violazione.
Il rimedio endo-procedimentale introdotto dal d.lgs. 188 si aggiunge, dunque (escludendone, per il principio di specialità, la concorrenza) a quello previsto in via generale dall’art. 14 del d.lgs. 51 del 2018 per la rettifica, limitazione (del trattamento) o cancellazione di dati (di “chiunque”) illegittimamente trattati nell’ambito del procedimento penale. Prima dell’introduzione, da parte del d.lgs. 188, dello specifico rimedio su descritto, la procedura (modulata su quella per la correzione degli errori materiali) di cui al citato art. 14 ben avrebbe potuto, infatti, prestarsi alla rettifica del dato (trattato appunto illegittimamente perché in violazione della presunzione di innocenza) relativo a un’anticipazione di giudizio di colpevolezza dell’indagato o dell’imputato.
Come ulteriore criterio di continenza espressiva, relativamente agli atti (ad esempio quelli in materia cautelare) che presuppongono la valutazione di prove o di indizi di colpevolezza, si impone di limitare i riferimenti alla colpevolezza dell'indagato o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti previsti dalla legge per l'adozione del provvedimento stesso.
In ottemperanza ai rilievi delle Commissioni parlamentari, conformemente all’articolo 7 della direttiva sul diritto al silenzio e a non autoincriminarsi, l’art. 4, comma 1, lettera b) del d.lgs. 188 novella l’articolo 314 c.p.p. precisando che l’esercizio del diritto al silenzio ex art. 64, comma 3, lett. b), c.p.p. non incide sul diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. La previsione supera, dunque, un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui «la condotta dell'indagato che, in sede di interrogatorio, si avvalga della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell'accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, poiché è onere dell'interessato apportare immediati contributi o riferire circostanze che avrebbero indotto l’autorità giudiziaria ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare» (cfr., Cass. pen., 18 dicembre 2020, Gallo, Ced Cass. n. 280082; Cass. pen., 30 maggio 2018, Stamatopoulou, ivi, n. 273744; Cass. pen. 29 novembre 2011, Messina e altro, ivi, n. 251325). La norma valorizza, dunque, gli effetti pur extraprocessuali del diritto al silenzio, sviluppando così in senso ulteriormente garantista le norme della direttiva.
L'articolo 4 novella, inoltre l’articolo 329 c.p.p. limitando- in aderenza alla previsione dell'articolo 4, par. 3, della direttiva -ai soli casi di “stretta” necessità per la prosecuzione delle indagini l’ammissibilità della pubblicazione di singoli atti relativi alle indagini preliminari in deroga al segreto investigativo. La norma è evidentemente funzionale a ridurre quanto più possibile l’ammissibilità della discovery di atti interni ad indagini ancora in corso e, dunque, “potenzialmente idonei a fornire [ dell’indagato] un’immagine in contrasto con la presunzione di innocenza” (parere CSM, cit.).
Viene inoltre modificato l’articolo 474 c.p.p., in ordine al diritto dell'imputato di assistere all'udienza libero nella persona, anche se detenuto, salve in questo caso le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenza. Sul punto, il d.lgs. 188 precisa che le eventuali cautele sono disposte dal giudice con ordinanza, sentite le parti e devono essere rimosse con revoca quando ne siano cessati i presupposti. Si impone, poi, di garantire sempre il diritto dell'imputato e del difensore (dunque anche laddove il primo sia allontanato dal secondo perché sottoposto a misure restrittive) di consultarsi riservatamente, anche attraverso l'impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili.
Tali ultime modifiche muovono dall’esigenza di garantire una maggiore conformità al diritto – sancito dall’articolo 5 della direttiva in capo all’imputato e all’indagato- di non essere presentato come colpevole, in tribunale o in pubblico, mediante il ricorso a misure di coercizione fisica. Si tratta di un’implicazione delicatissima della presunzione d’innocenza, che attiene a una prassi – più volte denunciata dal Garante per la protezione dei dati personali, nei confronti degli organi d’informazione ma anche, talora, della stessa polizia giudiziaria- fortemente lesiva della dignità, anche in ragione dell’eco mediatica che hanno le riprese della persona soggetta a misure restrittive[9]. I divieti già previsti agli articoli 114, c.6-bis, c.p.p., 42-bis, comma 4, l. 354 del 1975 e 8, c.3 delle Regole deontologiche relative al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica non hanno, infatti, sinora rappresentato un argine significativo alla tendenza alla spettacolarizzazione della cronaca giudiziaria, che si esprime anche mediante l’esibizione dell’indagato o dell’imputato in vinculis.
La previsione si lascia comunque apprezzare anche e soprattutto perché, procedimentalizzando forma e presupposti per l’adozione del provvedimento limitativo della libertà personale dell’imputato in udienza, impone una precisa e motivata assunzione di responsabilità dell’autorità procedente, nel confronto con le parti, in ordine alla disposizione di mezzi coercitivi. Ciò dovrebbe servire a eradicare una prassi secondo cui tali scelte (e in particolare la collocazione dell’imputato nelle gabbie o in “banchi dedicati” che ancora caratterizzano molte aule di giustizia) sono spesso assunte, secondo automatismi dettati da mere esigenze facilitative, dagli agenti di scorta.
Fra l’altro, la circostanza che l’intero intervento normativo in esame riconosca specificamente come lesivo del diritto dell’imputato ogni intervento illegittimamente lesivo della presunzione di innocenza, comporterà probabilmente effetti espansivi, interni al processo, dell’eventuale accertamento, anche successivo, di tale lesione. Con riferimento alla norma sui mezzi coercitivi in udienza, ad esempio, l’accertamento, anche successivo, dell’assenza di ragioni legittimanti l’adozione degli stessi potrebbe determinare conseguenze processuali non irrilevanti. La naturale forza espansiva del concetto di “intervento” dell’imputato, di cui all’art. 178, comma 1, lett. c) c.p.p. sembra, infatti, poter includere il momento decisivo della sua partecipazione all’udienza, di cui all’art. 474 c.p.p. Del resto, anche la previsione del diritto dell'imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l'impiego di strumenti tecnici idonei- in modo analogo a come oggi previsto in caso di partecipazione all’udienza da remoto- induce a ritenere leso il diritto di assistenza dell’imputato da parte del suo difensore, ancora una volta tutelato dall’art. 178, comma 1, lett. c) c.p.p., laddove non gli sia garantita la possibilità di consultazione riservata.
Anche sotto questo profilo, dunque, il d.lgs. 188 potrebbe indurre, effettivamente, un mutamento importante nella comunicazione sulla giustizia; non solo per le disposizioni introdotte ma anche per le ragioni che sottendono e la “cultura” che intendono promuovere.
In un contesto di costante trasposizione in rete non soltanto dell’informazione, ma anche della stessa vita, pubblica e privata, uno dei maggiori rischi del “trial by media” è infatti quello di indurre una generale sottovalutazione delle garanzie proprie del processo penale: dalla presunzione d’innocenza al regime di pubblicità degli atti, volto a coniugare esigenze informative, investigative e neutralità conoscitiva del giudice. Come osserva Nello Rossi, infatti, i “pregiudizi” (certo alimentati dalla mediatizzazione dei processi) rischiano di “sminuire, offuscare, compromettere il valore delle procedure legali di accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità (…). Come la CEDU ha più volte avvertito «il costante spettacolo di pseudo-processi condotti dai media potrebbe nel lungo periodo, avere nefaste conseguenze quanto all’accettazione, da parte dell’opinione pubblica, dei tribunali ufficiali come reale e unico foro per la determinazione della colpevolezza o dell’innocenza dei singoli”[10]. La rete rischia, in altri termini, di divenire quel giudice “che infligge ciecamente destino” cui alludeva Walter Benjamin.
Naturalmente, non saranno solo le norme a poter garantire un equilibrio, democraticamente sostenibile, tra diritto di (e all’) informazione, dignità dei soggetti coinvolti nel processo, presunzione d’innocenza ed esigenze di accertamento dei reati. Molto dipenderà da come, magistratura e organi d’informazione, interpreteranno il loro ruolo, prescindendo la prima dalla ricerca del consenso e i secondi da quello che Luciano Violante definisce “giornalismo per trascrizione”. Ma alla promozione di questa cultura (della giurisdizione e dell’informazione e del loro rapporto reciproco), norme quali quelle introdotte dal decreto sono certo funzionali.
* le opinioni contenute nel contributo sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Autorità di appartenenza
[1]La presunzione d’innocenza si riferisce, già nella direttiva, esclusivamente alle persone fisiche, ritenendone allo stato attuale “prematura” – precisa il Considerando 14- l’estensione alle persone giuridiche.
[2] N. Rossi, Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questionegiustizia.it
[3]A. SPATARO, “Processi in tv, troppi magistrati tra i nuovi “mostri”, in Il dubbio, 5 novembre 2021; dello stesso Autore v. anche il contributo sul d.lgs. 188 pubblicato su questa Rivista.
[4] Quest’onere procedurale è stato introdotto nella versione finale del decreto legislativo, in recepimento di specifico rilievo contenuto nel parere delle Commissioni parlamentari.
[5] L’ordine di servizio indica, inoltre, quali parametri in base ai quali valutare la meritevolezza di accoglimento dell’istanza i seguenti: il rilascio della copia non deve interferire con le investigazioni in corso e con l’esercizio dell’azione penale e deve avere luogo nel rispetto del segreto delle indagini e del principio di riservatezza; ii) il rilascio della copia non deve ledere la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi; iii) il rilascio della copia è effettuato evitando ogni ingiustificata comunicazione di dati sensibili ed assicurando l’osservanza del divieto di diffusione delle generalità di minori e, più in generale, dell’obbligo della loro protezione; iv) il rilascio della copia è effettuato evitando ogni ingiustificata diffusione di notizie ed immagini potenzialmente lesive della dignità e della riservatezza delle vittime e delle persone offese dai reati, in particolari se minori.
[6]N. Rossi, op.loc.ult.cit.
[7]G. MELILLO, La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero, in questa Rivista.
[8]Riferimenti in questo senso erano comunque contenuti già nelle Linee guida del CSM dell’11 luglio 2018.
[9]Cfr., ad es., Garante per la protezione dei dati personali, provv. n. 80 del 2021, nonché Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, circolare 19.12.2017, diretta tra l’altro alle autorità di polizia, secondo cui “le SS.LL. vorranno assicurare – impartendo ogni opportuna disposizione agli uffici e ai comandi dipendenti – la più scrupolosa osservanza del divieto di indebita diffusione di fotografie o immagini di persone arrestate o sottoposte ad indagini nell’ambito di procedimenti la cura dei quali competa a questo Ufficio, segnalando preventivamente le specifiche istanze investigative o di polizia di prevenzione ritenute idonee a giustificare eventuali, motivate deroghe al principio sopra richiamato”.
[10] Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questionegiustizia.it
CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: portata, rispettivi ambiti applicativi e (possibili) sovrapposizioni
di Bruno Nascimbene*
Sommario. 1. Premessa. – 2. L’attualità del tema. Le pronunce rilevanti. – 3. La pluralità delle fonti. – 4. La Carta dei diritti fondamentali, il Trattato di Lisbona, l’armonia delle soluzioni. – 5. La rilevanza della CEDU nel sistema del Consiglio d’Europa e l’ordinamento interno. – 5.1. L’orientamento della Corte costituzionale. – 5.2. L’orientamento della Corte di giustizia. – 6. I rapporti fra Corte costituzionale e Corte di giustizia. – 6.1. La vicenda sul “diritto al silenzio”. – 6.2. La vicenda sul “bonus bebè”. – 7. I possibili contrasti. L’auspicata armonia.
1. Premessa
In occasione di un corso dedicato dalla Scuola Superiore della Magistratura alle fonti sovranazionali e all’intreccio delle diverse norme di derivazione europea con le norme nazionali, si presenta l’opportunità di ritornare su un tema che era stato oggetto di esame, almeno per alcuni profili, in un precedente corso organizzato dalla stessa Scuola. Erano stati presi in esame, allora, nel quadro della tutela dei diritti fondamentali in Europa, i cataloghi dei diritti e gli strumenti a disposizione del giudice nazionale per fornire la più ampia tutela ai diritti fondamentali del singolo[1].
L’attenzione era dedicata, in particolare, al giudice comune che deve applicare il diritto nazionale conformandosi a fonti sovraordinate: al diritto internazionale, dunque, consuetudinario e convenzionale, al diritto europeo convenzionale o speciale quale è il diritto dell’Unione europea, nel rispetto degli obblighi imposti dalla Costituzione. Norme rilevanti di questa sono gli artt. 10, 11, 117, e con riguardo ai diritti fondamentali, l’art. 2.
2. L’attualità del tema. Le pronunce rilevanti
Il tema è sempre di attualità, grazie anche alla discussione, e polemica (giuridica e politica) sul rispetto dello Stato di diritto in Europa. La presente relazione su CEDU e Carta dei diritti fondamentali riprende alcuni profili, per così dire tradizionali del tema, ma affatto scontati. Ne è un esempio una recente sentenza della Corte di Cassazione sulla non sindacabilità in sede di controllo della giurisdizione ex art. 111, 8° comma Cost., della violazione da parte del Consiglio di Stato sia del diritto dell’Unione europea, sia della CEDU, così equiparando le due fonti almeno al fine di escluderne la rilevanza quanto al rispetto dei limiti esterni della giurisdizione, ritenendo che la violazione di legge sostanziale o processuale rientra nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione[2].
Altro esempio è rappresentato da due pronunce della Corte di giustizia e della Corte costituzionale, di cui si dirà nel prosieguo, ma che fin d’ora si ritiene opportuno ricordare.
a) La Corte cost. si è rivolta alla Corte di giustizia ponendo una questione pregiudiziale di validità e d’interpretazione in tema di “diritto al silenzio”, che è espressione del fondamentale diritto di difesa tutelato sia dalla Carta (art. 47), sia dalla CEDU (art. 6), nell’ambito di procedimenti amministrativi, e si è quindi pronunciata adeguandosi ai principi affermati dalla Corte di giustizia, dichiarando la illegittimità di norme nazionali contrastanti (o confliggenti)[3].
b) Vi è stata una seconda occasione di rinvio da parte della Corte costituzionale alla Corte di giustizia, ponendo una questione di interpretazione in tema di assegno di natalità (c.d. bonus bebè) e di assegno di maternità, dubitando della conformità di norme nazionali rispetto a norme di diritto UE (regolamento e direttiva), in particolare rispetto a varie disposizioni della Carta. Si è quindi pronunciata la Corte di giustizia, ritenendo il contrasto delle norme nazionali che limitano le predette prestazioni sociali (la limitazione riguardava gli stranieri titolari di un permesso unico di lavoro, non beneficiari delle prestazioni, diversamente dagli stranieri soggiornanti da lungo periodo). La Corte costituzionale (al momento in cui si scrive) non si è ancora pronunciata[4].
c) A conferma di un diritto vivente in continua evoluzione[5], si ricordano sia le questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte di Cassazione (Randstad, su cui le conclusioni, del settembre 2021, dell’avvocato generale Hogan; la Corte, al momento in cui si scrive, non si è ancora pronunciata), con riguardo alla competenza delle S.U. in tema di rinvio ex art. 111, 8°comma Cost. (prima ricordato)[6]; sia quelle sollevate dal Consiglio di Stato (Hoffmann-La Roche) sugli eventuali limiti del rinvio alla Corte di giustizia quando il giudice a quo abbia già compiuto un altro rinvio pregiudiziale nella stessa causa (la questione è pendente)[7].
d) Il tema “rinvio” ex art. 267 TFUE, definito da una giurisprudenza consolidata come architrave o “chiave di volta” del sistema giurisdizionale[8], è stato rivisitato, in epoca recente, quanto agli obblighi (o non obblighi) che esso pone al giudice nazionale, dalla Corte di giustizia che ha ripreso la nota giurisprudenza Cilfit, ricordando la necessità, spesso trascurata, dell’obbligo di motivazione in caso di non rinvio (obbligo che può assumere rilevanza anche sotto il profilo CEDU, violazione dell’art. 6)[9].
e) Il dibattito circa una nuova, seppur diversa forma di rinvio, rappresentata dal Protocollo 16 alla CEDU, non ancora ratificato dal nostro Paese, è peraltro in corso ed è utile ricordare la speciale attenzione che è stata dedicata, anche di recente a questo tema [10].
3. La pluralità delle fonti
I diversi sistemi di protezione dei diritti fondamentali sono almeno tre, a livello nazionale ed europeo: costituzionale il primo; CEDU e diritto UE il secondo e il terzo, ricordando comunque la possibile rilevanza e applicabilità di altri strumenti internazionali, quali la Carta sociale in ambito europeo e il Patto sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici sociali, in ambito internazionale. Essi, pur vincolanti, sono tuttavia privi di un proprio sistema giurisdizionale. Possono certamente assumere il ruolo di parametri interposti ai sensi dell’art. 117, 1° comma Cost., ma si tratta di fonti che non assumono lo stesso rilievo della CEDU o della Carta dei diritti fondamentali [11].
Il giudice nazionale deve dunque confrontarsi con una pluralità di fonti, risolvere possibili conflitti o antinomie, in un contesto in cui si dovrebbe sempre cercare l’armonia attraverso il dialogo. Il principio, che importa qui sottolineare, perché utile alla migliore comprensione dei rapporti CEDU-diritto UE, è ben indicato dalla Corte cost., non solo con riferimento ai rapporti fra Costituzione, CEDU e diritto UE, ma anche a quelli fra Costituzione e diritto internazionale. Il richiamo a quest’ultimo è meno usuale, ma sicuramente significativo dal punto di vista sistematico. Si ricorda in proposito la sentenza 63/19 sull’applicazione retroattiva della lex mitior in caso di sanzioni amministrative con funzioni punitive), richiamata dalla sentenza n. 11/20 che menziona e rende applicabili fonti diverse da quelle interne, facendo quindi riferimento a un “diritto internazionale dei diritti umani” che comprende norme vincolanti per il nostro ordinamento, quale è il Patto sui diritti civili e politici, che si ispirano ai medesimi principi della Costituzione[12]. La Corte ben riconosce il significato (e la rilevanza) di fonti internazionali, esprimendosi a favore della “massimizzazione” ovvero dell’ “integrazione delle tutele”: il rispetto degli obblighi internazionali “deve costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa”, mirando alla “massima espansione delle garanzie”. La tutela offerta dalla Corte cost. è diversa da quella offerta dalla Corte EDU, perché “opera una valutazione sistemica e non isolata” ovvero “non frazionata” per quanto riguarda i “valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinati”[13]. A queste fonti convenzionali internazionali si aggiunge, come già si è accennato, la fonte europea “Carta sociale” e la fonte rappresentata delle norme generali del diritto consuetudinario, cui rinvia l’art. 10, 1°comma Cost. Un complesso di norme, insomma, che mira alla tutela degli stessi diritti: quelli, fondamentali, della persona.
4. La Carta dei diritti fondamentali, il Trattato di Lisbona, la CEDU. L’armonia delle soluzioni
Non v’è dubbio che il Trattato di Lisbona, con le modifiche introdotte dall’art. 6 TUE, abbia rafforzato la tutela dei diritti fondamentali, conferendo alla Carta dei diritti fondamentali lo stesso valore giuridico dei trattati e prevedendo sia una (futura) adesione dell’Unione alla CEDU, sia, comunque, un riconoscimento, come principi generali dell’Unione, dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Queste tre fonti distinte (Carta, CEDU, principi generali) rappresentano “un sistema di protezione assai più complesso e articolato del precedente” (cioè pre-Lisbona); si è voluto “garantire un certo grado di elasticità al sistema” e quindi “evitare che la Carta ‘cristallizzi’ i diritti fondamentali, impedendo alla Corte di giustizia di individuarne di nuovi, in rapporto all’evoluzione delle fonti indirettamente richiamate”[14]. La Carta, d’altra parte, è stata accettata con riserva da alcuni Stati (Polonia, Regno Unito, il riferimento è al Protocollo n. 30 al Trattato di Lisbona con riguardo ai diritti sociali), e l’adesione non è avvenuta, per una serie di motivi. Già Corte cost., peraltro, sembra individuare, prima del parere 2/13 della Corte di giustizia sull’adesione dell’Unione europea alla CEDU, un punto debole della norma relativa all’adesione perché l’Unione, in quanto tale, a seguito dell’adesione, dovrebbe “sottoporsi” a un sistema internazionale di controllo in ordine al rispetto “dei diritti fondamentali”. La fonte CEDU, tuttavia, cioè i diritti garantiti dalla stessa, resta vincolante nella sua integrità poiché tali diritti (art.6, par. 3) “fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”[15].
La coerenza CEDU-Carta, pur restando esse distinte, è d’altra parte affermata da una delle c.d. norme orizzontali della Carta, l’art. 52, par. 2, che prevede, in caso di corrispondenza fra “diritti CEDU” e “diritti Carta”, l’obbligo di interpretare il significato e la portata di questi ultimi in modo uguale ai primi, salva la possibilità, per la Carta, di concedere una protezione più estesa.
La ricerca di coerenza e armonia è pure espressa dal par. 4 dell’art. 52 che prevede l’obbligo di interpretare i diritti tutelati dalla Carta, che risultino anche dalle tradizioni costituzionali comuni, “in armonia” con le predette tradizioni.
Carta e CEDU restano fonti distinte seppur coordinate, l’art. 52 contenendo una clausola di equivalenza che non incide sulla diversità dei sistemi cui appartengono le fonti. Anzi, ne rappresenta una conferma, seppur nel necessario contesto di coerenza e armonia che contraddistingue i diritti fondamentali. Tale diversità è ribadita, nel diritto UE, in più occasioni quando se ne definisce l’ambito di applicazione: la Carta non estende “in alcun modo” le competenze dell’Unione definite nei “trattati” (art. 6, par. 1; Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona); non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione (art. 51, par. 1); non introduce competenze nuove o compiti nuovi, né modifica compiti o competenze definite nei Trattati (art. 51, par. 2; Dichiarazione n. 1 cit.). Si applica alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, e agli Stati membri “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” (art. 51, par. 1). Il perimetro, cioè i limiti materiali di applicazione della Carta sono ben definiti dall’applicabilità materiale del diritto UE, e quindi deve trattarsi di norme di diritto UE oppure di norme nazionali che siano attuazione di quel diritto, non già di una qualunque norma priva “di ogni legame con tale diritto”[16]. La CEDU, insomma, non si è trasformata in diritto UE grazie all’art. 6: non vi è stata “lisbonizzazione” o “trattatizzazione” indiretta della CEDU e il giudice nazionale non può disapplicare o non applicare la norma nazionale contrastante sulla base dell’art. 11 Cost., poiché non è individuabile, rispetto a tale norma costituzionale, “alcuna limitazione della sovranità nazionale”.
5. La rilevanza della CEDU nel sistema del Consiglio d’Europa e l’ordinamento interno.
5.1. L’orientamento della Corte costituzionale
Il Consiglio d’Europa, nel cui contesto si collocano la CEDU e l’attività interpretativa della Corte EDU, “è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea”[17]. Il “diritto CEDU” è pur sempre diritto internazionale, privo, è vero, dei requisiti di “primazia” e diretta applicabilità propri del diritto UE, ed è quindi applicabile nelle ipotesi in cui non è applicabile il diritto UE. La CEDU rappresenta a livello internazionale, la forma più evoluta o comunque una delle forme più evolute per la protezione dei diritti fondamentali. E’, invero, qualificata dalla Corte EDU come “uno strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo”, un mezzo rilevante per “promuovere e conservare gli ideali e i valori di una società democratica” in cui la democrazia politica è “un elemento fondamentale dell’ordine pubblico europeo”[18]. La CEDU offre una garanzia collettiva del rispetto degli obblighi e diritti previsti e, a “differenza dei trattati internazionali di tipo classico [essa] travalica l’ambito della semplice reciprocità tra gli Stati contraenti”[19].
Poiché la CEDU non ha le caratteristiche del diritto UE, essa, così come interpretata dalla Corte EDU, integra (quale norma interposta), “il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”[20].
Il giudice comune, in caso di contrasto fra norme interne e CEDU, se non riesce a conseguire un’interpretazione conforme della prima rispetto alla seconda e, quindi, a risolvere il contrasto per via interpretativa, deve proporre una questione di legittimità costituzionale, non potendo disapplicare la norma nazionale contrastante: proporrà, infatti, la questione in riferimento all’art. 117, 1°comma Cost. oppure all’art. 10, 1°comma Cost. qualora si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta”[21]. La Corte costituzionale, procedendo a una valutazione (come si è prima detto) sistemica e non frazionata, e operando il consueto bilanciamento fra fonti (la norma CEDU è norma interposta) deve procedere a una “integrazione delle tutele” non già ad una “affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale” [22].
5.2. L’orientamento della Corte di giustizia
La Corte di giustizia conferma la diversità delle fonti e dei sistemi, soprattutto quando, in occasione del parere 2/13 negativo (prima ricordato) sull’adesione alla CEDU, si è espressa sulle caratteristiche specifiche, sulle competenze e sull’autonomia del diritto dell’Unione che verrebbe compromessa qualora si procedesse all’adesione. Premesso che i diritti fondamentali, quali garantiti dalla CEDU, fanno parte del diritto UE in quanto principi generali ex art. 6, par. 3 TUE, la CEDU tuttavia, in assenza di adesione, “non costituisce uno strumento giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione”. L’accordo di adesione, in quanto accordo internazionale, vincolerebbe ex art. 216, par. 2 TFUE le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri, divenendo parte integrante del diritto UE; tuttavia sottoporrebbe l’Unione e la Corte di giustizia a un controllo esterno che pregiudicherebbe l’autonomia del diritto UE e vincolerebbe l’Unione e le sue istituzioni, in particolare la Corte di giustizia, all’interpretazione fornita dalla Corte EDU[23].
La Corte afferma l’esistenza di una “costruzione giuridica” al centro della quale si collocano i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta (il rispetto di tali diritti costituisce un presupposto della legittimità degli atti). Una costruzione, questa, caratterizzata sia dal fatto di derivare da una fonte autonoma, costituita dai Trattati, sia dal primato del diritto UE sul diritto nazionale, sia dall’effetto diretto di norme (che presentino determinate caratteristiche) applicabili ai cittadini degli Stati membri nonché agli Stati stessi. Proprio per preservare le caratteristiche specifiche e l’autonomia di tale ordinamento giuridico i Trattati hanno istituito un sistema giurisdizionale destinato ad assicurare la coerenza e l’unità nell’interpretazione del diritto UE[24]. Il giudice nazionale deve garantire la piena efficacia del diritto UE e deve disapplicare “all’occorrenza di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore”; deve impedire situazioni di incompatibilità derivante da norme o da “qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, che porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto dell’Unione”[25].
Il sistema presenta peculiarità. Malgrado quanto previsto dall’art. 6, par. 3 TUE e dall’art. 52, par. 3 Carta sul riconoscimento dei diritti fondamentali tutelati dalla CEDU come appartenenti ai principi generali e sulla corrispondenza fra “diritti CEDU” e “diritti Carta”, la Carta non è, almeno fino a quando l’Unione non abbia aderito (già si è detto) alla CEDU, “un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giudico dell’Unione” e conseguentemente “il diritto dell’Unione non disciplina i rapporti tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale”[26].
6. I rapporti fra Corte costituzionale e Corte di giustizia
Alcuni rilievi meritano i rapporti fra Corte costituzionale e Corte di giustizia. Esempi concreti e recenti di dialogo fra Corte costituzionale e Corte di giustizia, che riguardano la tutela di diritti fondamentali, sono rappresentati dai casi prima ricordati del c.d. “diritto al silenzio” nell’ambito di un procedimento amministrativo (nella specie avanti alla Consob, ma poi esteso a quello avanti alla Banca d’Italia)[27] e del “bonus bebè”.
6.1. La vicenda sul “diritto al silenzio”
Nel primo caso, (deciso con sentenza n. 84/2021) la Corte costituzionale aveva posto (con ordinanza n. 117/2019) una questione pregiudiziale non solo di interpretazione, ma di validità, ritenendo “necessario sollevare un chiarimento” nello “spirito di leale cooperazione tra Corti nazionali ed europee nella definizione di livelli comuni di tutela dei diritti”[28]. Le norme in questione riguardano gli abusi di mercato (direttiva 2003/6, art. 14, par. 3 e regolamento 596/2014, art. 30, par. 1, lett. b), in riferimento o più precisamente “alla luce” non solo degli articoli 47 (diritto ad un ricorso effettivo) e 48 (presunzione di innocenza e diritti della difesa) della Carta, ma anche (“alla luce”) della giurisprudenza della Corte EDU, dell’art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri nella misura in cui le predette norme impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente, violando il diritto al silenzio, ovvero il diritto a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, peraltro tutelato dall’art. 24 Cost.
L’interpretazione riguardava l’obbligo, o non, per lo Stato di prevedere sanzioni a carico di chi si rifiuta di rispondere: se fosse stato affermato l’obbligo, il che non è avvenuto, si sarebbe posto un problema di compatibilità (validità) con gli articoli 47 e 48 Carta. La Corte di giustizia ha risposto ai quesiti pregiudiziali dichiarando (alla luce, appunto, della giurisprudenza della Corte EDU sul diritto ad un equo processo e della Carta) che il diritto al silenzio è “al centro della nozione di equo processo” (costituisce, invero, anche “una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta”) ed osta, in particolare, a che una persona fisica “imputata” venga sanzionata a causa del suo rifiuto a fornire all’autorità competente risposte che possano fare emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale o la sua responsabilità penale[29]. Le norme UE applicabili sugli abusi del mercato consentono agli Stati di non sanzionare il rifiuto a rispondere utilizzando “il potere discrezionale ad essi conferito da un testo di diritto derivato dell’Unione in modo conforme ai diritti fondamentali”. Viene così rispettato il diritto al silenzio, la Corte tenendo conto dell’interpretazione degli artt. 47 e 48 Carta, dei diritti corrispondenti garantiti dall’art. 6 CEDU (ai sensi del combinato disposto dell’art. 6, par. 3 TUE e dell’art. 52, par. 3 Carta) e dalla giurisprudenza della Corte EDU in quanto soglia di protezione minima): le norme UE sono dunque valide perché non impongono una sanzione[30]. Sono interpretate in senso conforme alla tutela del diritto al silenzio, nel senso che non impongono una sanzione[31].
La Corte costituzionale, a seguito della sentenza della Corte di giustizia, conferma l’interpretazione dalla stessa fornita. L’interpretazione “collima”, precisamente, con la propria “ricostruzione” circa la “portata del diritto al silenzio nell’ambito dei procedimenti amministrativi” che prevedono l’inflizione di sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente penale[32]. Un diritto, questo, che “può essere ricavato altresì” da altra fonte internazionale, quale il Patto sui diritti civili e politici (art. 14, par. 3, lett. g). Si tratta, insomma, di norme nazionali e sovranazionali che “si integrano completandosi reciprocamente nella interpretazione” e “nella definizione dello standard di tutela delle condizioni essenziali” del diritto in questione[33].
6.2. La vicenda sul “bonus bebè”
La seconda ordinanza della Corte, n. 182/20, richiamate le sentenze n. 269/17, n. 20/19, n. 63/19 sui rapporti fra pregiudiziale costituzionale e pregiudiziale comunitaria, in particolare sulla funzione del rinvio pregiudiziale, sottolinea la necessità di assicurare una «garanzia di uniforme interpretazione dei diritti e degli obblighi che discendono dal diritto dell’Unione», «in un quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia». Lo spirito, invero, è quello prima ricordato nella vicenda del “diritto al silenzio”. La Corte rivendica il proprio ruolo, nel quadro giurisdizionale disegnato dall’art. 47 Carta, di «interrogare la Corte di giustizia» prima di decidere la questione di legittimità costituzionale, e dunque di esaminare se una norma nazionale «infranga in pari tempo i principi costituzionali e le garanzie sancite nella Carta»[34]. Alla Corte era stata posta la questione di legittimità delle norme nazionali che prevedono la concessione di un assegno di natalità (c.d. bonus bebè) e un assegno di maternità per gli stranieri soggiornanti di lungo periodo (disciplinati dalla direttiva 2003/109; il beneficio è a questi applicabile in virtù del regolamento 1231/2010), non anche agli stranieri che sono titolari di un permesso unico di lavoro (disciplinati dalla direttiva 2011/98; si tratta di un permesso, rilasciato ai sensi della direttiva 2011/98 che consente agli stranieri di soggiornare regolarmente in uno Stato per fini lavorativi, e che non possiedono i requisiti dei c.d. lungosoggiornanti; la direttiva richiama espressamente il regolamento 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale).
Giudice remittente era la Corte di Cassazione che prospettava una discriminazione “fra stranieri” in ordine al beneficio di dette prestazioni sociali, e dubitava della legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 31, 117, 1°comma Cost., quest’ultimo in relazione a varie disposizioni della Carta UE: 20, 21, 33, 34. La Corte cost. poneva il quesito pregiudiziale con riferimento all’interpretazione del solo art. 34 che riguarda la sicurezza sociale e l’assistenza sociale, chiedendo di conoscere se «nel suo ambito di applicazione rientrino l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, in base» al regolamento e alla direttiva ricordati (art. 3, par. 1, lett. b) e j) del regolamento richiamato dall’art. 12, par. 1, lett. e) della direttiva 2011/98). La domanda riguardava, insomma, la compatibilità, o non, con l’art. 34, delle norme nazionali che escludono dai benefici sociali i titolari di un permesso unico [35].
La Corte di giustizia[36] si è pronunciata per l’incompatibilità delle norme nazionali, poiché i predetti assegni rientrano nei settori della sicurezza sociale. Il diritto di accesso alle prestazioni sociali è inteso in senso ampio. La sua lettura è strettamente connessa alla direttiva ricordata (e al regolamento richiamato), perché questa “rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla Carta”[37] e perché con il rinvio al regolamento 883/2004 la direttiva “dà espressione concreta” al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’art. 34, paragrafi 1 e 2 della Carta[38]. Si tratta di una direttiva che concretizza un diritto fondamentale previsto dalla Carta e vincola gli Stati, che adottano misure rientranti in questa direttiva, ad agire nel rispetto della stessa[39].
Il contrasto delle norme nazionali viene dunque ritenuto sussistente con la direttiva (art. 12) e, si può dire, per via derivata con l’art. 34 Carta. L’interpretazione della direttiva insieme al regolamento richiamato ha, come risultato, di qualificare (a prescindere da ogni definizione di diritto nazionale)[40], l’assegno di natalità (in quanto prestazione familiare ex art. 3, par. 1 lett. j) e l’assegno di maternità (ex art. 3, par. 1 lett. b) rientrano nei settori di sicurezza sociale e debbono essere riconosciuti, in virtù del principio di parità di trattamento, anche ai cittadini di Paesi terzi titolari di un permesso unico (art. 12, par. 1, lett. b e c della direttiva).
La Corte non affronta il tema dell’effetto diretto dell’art. 34 e della direttiva, non essendo stata posta la questione interpretativa specifica. D’altra parte, in altra occasione in cui erano oggetto di interpretazione l’art. 34, parr. 1 e 2 e alcune norme del regolamento 883/2004, la Corte, dopo aver ritenuto inapplicabile il regolamento, ha considerato superfluo esaminare la questione alla luce dell’art. 34[41]. L’art. 34 è norma “mista” di principi e diritti, le “Spiegazioni” relative alla Carta precisando che il par. 1 è un principio (e tale sembra essere il par. 3), mentre il par. 2 sul diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali per chi risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione è un diritto[42]. Una più ampia disamina dell’art. 34 e dei suoi effetti sarebbe stata auspicabile. La formula utilizzata, secondo cui il diritto derivato dà concretezza a un diritto fondamentale, richiama quanto afferma la Corte a proposito del principio generale di non discriminazione fondato sull’età, ove le direttive in questione (in materia di occupazione e condizioni di lavoro, e sul lavoro a tempo determinato), in quanto diritto derivato, furono utilizzate per dare concretezza al principio[43].
7. I possibili contrasti. L’auspicata armonia
Una riflessione conclusiva.
Il giudice italiano, la Corte costituzionale in particolare, ha posto problemi interpretativi alla Corte di giustizia su questioni che riguardano la tutela di diritti fondamentali, previsti da fonti diverse: Carta e CEDU, ma anche altri strumenti internazionali.
Si dovrebbero comunque evitare ipotesi di contrasto e di ricorso da parte nazionale ai “controlimiti”, se è vero che esiste, o comunque dovrebbe esistere (come sottolinea la Corte costituzionale), una «costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia» dei diritti fondamentali, e che i principi e diritti sono «tra loro armonici e complementari». Il rapporto fra fonti e Corti, insomma, deve, o comunque dovrebbe essere «di mutua implicazione e di feconda integrazione»[44].
*Professore emerito, già ordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università degli Studi di Milano.
[1] La relazione dal titolo La tutela dei diritti fondamentali in Europa: i cataloghi e gli strumenti a disposizione dei giudici nazionali (cataloghi, arsenale dei giudici e limiti o confini), svolta nel precedente corso (settembre 2020) è leggibile in eurojus, 2020. La relazione, qui pubblicata, tenuta in occasione del corso della Scuola Superiore della Magistratura (novembre 2021, “Fonti del diritto e giurisprudenza internazionali. Strumenti di tutela e di soluzione delle antinomie”) sarà pubblicata prossimamente in un Quaderno della Scuola. Considerata la natura del presente lavoro, i riferimenti in nota sono di carattere essenziale. Più recentemente, sul tema dei rapporti o intreccio fra “Carte” e “Corti” si veda I. Anrò, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e CEDU: dieci anni di convivenza, in Federalismi, 2020, p. 109 ss.; per altri riferimenti cfr. il nostro La tutela cit.
[2] Cass. S.U., 5.10.2021, n. 2690, Hoffman-La Roche e a. Per un richiamo congiunto alla tutela affermata dalla CEDU (“ordinamento convenzionale”) e dal diritto UE (“ordinamento europeo”), verificandosi una “concorrenza di tutele che si traduce in un’integrazione di garanzie” cfr. Corte cost. 30.7.2021, n. 182, punti 4.1., 11. del “Considerato in diritto”; sul concorso di tutele si veda anche oltre, parr. 6.1., 7. Cfr. inoltre i rifer. nella nota 33.Sul tema del rispetto dello Stato di diritto si permette rinviare al nostro Il rispetto della rule of law e lo strumento finanziario. La “condizionalità”, in eurojus, 2021 (riferimenti ivi).
[3] Ordinanza della Corte cost. n. 117/2019; sentenza della Corte di giustizia 2.2.2021; sentenza della Corte cost. n. 84/2021, su cui oltre, par. 6.1.
[4] Cfr. l’ordinanza della Corte cost. n. 182/2020, la sentenza della Corte di giustizia 2.9.2021, su cui oltre par. 6.2.
[5] Sul diritto vivente ricordato si vedano le altre relazioni al corso della Scuola (novembre 2021) di prossima pubblicazione nel Quaderno cit. nota 1.
[6] Ordinanza della Cass. S.U. 18.9.2020, n. 19598, Randstad; conclusioni dell’avvocato generale del 9.9.2021, causa C-497/20, in EU:C:2021:725; per un commento, recentemente E. Tosto, Saga Randstad, atto I: a che punto siamo, in Federalismi, 2021, p. 207 ss.
[7] Sulle ordinanze della Cassazione, Sezioni unite, e del Consiglio di Stato cfr., anche per riferimenti, B. Nascimbene, P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 2020 e degli stessi Rinvio pregiudiziale e garanzie giurisdizionali effettive. Un confronto fra diritto dell’Unione e diritto nazionale. Commento all’ordinanza 2327/2021 del Consiglio di Stato, ibidem, 2021. La scelta delle Sezioni unite è stata di adire con rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia, non già la Corte cost., che con sentenza 18 gennaio 2018, n. 6 aveva ritenuto non rientrante nella nozione di motivo inerente la giurisdizione ex art. 111, 8°comma la violazione del diritto UE, rientrante invece nella nozione di violazione di legge, rilevante ex art. 360 cod. proc. civ.; le Sezioni unite avevano prospettato la violazione degli artt. 19 TUE e 47 Carta (denegata giustizia) qualora fosse escluso il ricorso ex art. 111 Cost. Per le conclusioni dell’avvocato generale cfr. la nota precedente; la causa pendente su rinvio del Consiglio di Stato è C-261/21.
[8] In questi termini, il parere della Corte di giustizia 2/13 del 18.12.2014, EU:C:2014:2475, punto 176.
[9] Cfr. la sentenza 6.10.2021, C-561/19, Consorzio Italian Management, EU:C:2021:799 e la sentenza 6.10.1982, C-283/81, Cilfit, EU:C:1982:335. Per un commento cfr. P. De Pasquale, Inespugnabile la roccaforte dei criteri CILFIT, in BlogDue, 2021; F. Ferraro, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, in questa Rivista, 2021. Recentemente, sull’obbligo, o non, di rinvio e sulla necessità di motivazione, si vedano le sentenze (sul c.d. caso dei “balneari”) del Consiglio di Stato, Ad. plen., 9.11.2021, n. 17 e n. 18, punto 29 (di entrambe).
[10] Cfr. i vari contributi pubblicati in questa Rivista 2020 e 2021 di S. Bartole, Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare, P. Biavati, Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, E. Cannizzaro, La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16, M. Castellaneta, Ratificato il Protocollo n. 15 …aspettando il Prot. n.16. Al via le modifiche alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, A. Esposito, La riflessività del protocollo n. 16 alla Cedu, C.V. Giabardo, Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts, E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, nonché gli interventi (ibidem, 2021) di E. Albanesi, B. Biancardi, F. Buffa, G. Cerrina Ferroni, R. Conti, M. Lipari, M. Luciani, A. Ruggeri, R. Sabato, F. Vari, in occasione del convegno del 22.6.2021 “Protocollo n. 16. Riaprire il cantiere in Parlamento”.
[11] Alla Carta sociale si riferisce Corte cost. 13.6.2018, n. 120; 8.11.2018, n. 194; al Patto internazionale si riferisce Corte cost. 21.3.2021, n. 63; 30.4.2021, n. 84, di cui oltre; sulla possibile rilevanza del diritto consuetudinario ex art. 10, 1° comma Cost., cfr. Corte cost. 28.12.2012, n. 264, su cui oltre.
[12] Cfr. Corte cost. 21.3.2019, n. 63, punto 6.1. del “Considerato in diritto”; 9.1.2020, n. 11, punto 3.4. del “Considerato in diritto”.
[13] Cfr. Corte cost. 28.12.2012, n. 264, punti 4.1., 4.2., 5.4. del “Considerato in diritto”; ordinanza 10.5.2019, n. 117, punto 3 del “Considerato in diritto” sul rinvio ad una pluralità di fonti internazionali.
[14] Cfr. Corte cost., 11.3.2011, n. 80, punto 5.2. del “Considerato in diritto”.
[15] Cfr. Corte cost. n. 80/11, punto 5.3. del “Considerato in diritto”; Corte di giustizia, parere 2/13 cit., spec. punti 164, 179-189.
[16] Corte cost. n. 80/11, punto 5.5. del “Considerato in diritto”.
[17] Cfr. Corte cost. n. 80/2011, punto 5.1. del “Considerato in diritto”, richiamando Corte cost. 24.10.2007, n. 349.
[18] Cfr. Corte EDU, 23.3.1995, Loizidou c. Turchia, par. 75; 17.2.1994, Gorzelik e a. c. Polonia, par. 89.
[19] Cfr. Corte EDU 18.1.1978, Irlanda c. Regno Unito, par. 239.
[20] Cfr. Corte cost., 28.11.2012, n. 264, punto 4.1. del “Considerato in diritto”.
[21] Corte cost. 264/12, punto 4. del “Considerato in diritto” con riferimento alla giurisprudenza precedente.
[22] Cfr. Corte cost. n. 264/12, punto 4.2. del “Considerato in diritto”.
[23] Cfr. il parere 2/13 cit., spec. punti 179-185.
[24] Cfr. Corte, 24.10.2018, C-234/17, XC, YB, ZA, EU:C:2018:853, punti 36-37, 39 con ampi riferimenti giurisprudenziali.
[25] Cfr. Corte, 26.2.2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, EU:C:2013:105, punti 45-46, con ampi riferimenti giurisprudenziali.
[26] Sentenza Åkerberg Fransson cit., punto 44, ricordando negli stessi termini 24.4.2012, C-571/10, Kamberaj, EU:C:2012:233, punto 62.
[27] Nella pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. 24.2.1998, n. 58 (TUIF) e modifiche successive la Corte, in via consequenziale, ha dichiarato l’illegittimità della norma anche in riferimento al procedimento in cui la persona si rifiuti di fornire risposte alla Banca d’Italia: cfr. il punto 4. del “Considerato in diritto”.
[28] È stata la prima volta, nel rapporto fra le due Corti, che è stata posta una questione di validità: cfr. il punto 10. dell’ordinanza 10.5.2019, n. 117.
[29] Corte 2.2. 2021, causa C-481/19, DB, EU:C:2021:84. Per rilievi in proposito cfr., su questa sentenza e su quella della Corte cost., di cui oltre, M. Aranci, Da Roma a Lussemburgo… e ritorno: la pronuncia della Consulta sul diritto al silenzio, in eurojus.it, 2021; E. Basile, La Corte di giustizia riconosce il diritto al silenzio nell’ambito dei procedimenti amministrativi “punitivi”, in Sistema penale, 2021; D. Coduti, Il diritto al silenzio nell’intreccio tra diritto nazionale, sovranazionale e internazionale: il caso D.B. c. CONSOB, in Federalismi, 2021, p. 121 ss.; P. Gambatesa, Riflessioni sulla prima occasione di “dialogo” tra Corte Costituzionale e Corte di giustizia in casi di doppia pregiudizialità, in Federalismi, 2021, p. 64 ss. Sul riferimento all’art. 6 CEDU e alla centralità del diritto, sentenza DB cit., punti 33, 37-40. La Corte precisa, tuttavia (punto 41) che non può comunque essere giustificata «qualsiasi omessa collaborazione con le autorità competenti, qual è il caso di un rifiuto di presentarsi ad un’audizione prevista da tali autorità o di manovre dilatorie minanti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa». Tale “valutazione” sul diritto al silenzio «non trova smentita nella giurisprudenza della [stessa] relativa alle norme dell’Unione in materia di concorrenza», l’impresa non potendo «vedersi imporre l’obbligo di fornire risposte in virtù delle quali essa si troverebbe a dovere ammettere l’esistenza di una violazione» di dette norme (giurisprudenza che, «come indicato dallo stesso giudice del rinvio», «non può applicarsi per analogia quando si tratta di stabilire il diritto al silenzio di persone fisiche»).
[30] Sentenza DB, cit., punti 56-58 ove si afferma che la validità delle norme UE non viene pregiudicata dal fatto che manchi, nelle stesse, una esplicita esclusione dell’inflizione di una sanzione.
[31] Sull’interpretazione conforme, cfr. Corte, DB, cit., punti 50,55; su tale principio, in generale, Corte, 24.6.2019, C-573/17, Poplawski, EU:C:2019:530, punti 55-57. Sulla rilevanza dell’interpretazione conforme, nella specie ai due parametri interposti rappresentati dalla CEDU e dal diritto UE, essendo presente, e tutelato, in entrambi gli ordinamenti (“convenzionale” e “europeo”), il principio della presunzione di innocenza (“come delineato nell’ordinamento convenzionale dalla giurisprudenza della Corte EDU e come riconosciuto nell’ordinamento dell’Unione europea”) cfr. Corte cost., n. 182/21, punti 9, 10, 14, 16 del “Considerato in diritto”.
[32] Cfr. la sentenza n. 84/21, spec. i punti 3.4. e 3.5. del “Considerato in diritto”. La Corte ha concluso per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies t.u.f. «nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato»; la Corte precisa altresì che è compito del legislatore “la più precisa declinazione delle ulteriori modalità di tutela” del diritto al silenzio, “in modo da meglio calibrare” la tutela dell’ambito dei procedimenti amministrativi che vengono in considerazione” nel rispetto dei principi discendenti non solo dalla Costituzione, ma dalla CEDU e dal diritto UE (“Considerato in diritto”, punto 5). Cfr. in argomento i riferimenti alla nota 29.
[33] Sentenza n. 84/2011, punto 3.5. del “Considerato in diritto”, richiamando le sentenze n. 388/1999 e n. 187/2019. Sull’integrazione fra fonti ovvero “coincidenza” cfr. anche la sentenza della Corte cost. 29.3.2021, n. 49, punto 9.2. del “Considerato in diritto”, e sulla “concorrenza” fra fonti i riferimenti nella nota 2.
[34] Cfr. Corte cost. ordinanza 30.7.2020, n. 182, punti 3.1. e 3.2. del “Considerato in diritto”. Il precedente orientamento richiamato è alle sentenze 14.12.2017, n. 269; 21.2.2019, n. 20; 21.3.2019, n. 63; 5.2.2020, n. 11; le stesse sentenze sono richiamate da Corte cost. n. 49/2021, punto 9.2. e da n. 182/2021, punto 4.2. Sull’ordinanza n. 182/20 si vedano, in particolare, i commenti di D. Gallo, A. Nano, L’accesso agli assegni di natalità e di maternità per i cittadini di Paesi terzi titolari di permesso unico nell’ordinanza n. 182 del 2020 della Corte costituzionale, in eurojus.it, 2020; N. Lazzerini, Dual Preliminarity Within The Scope of the UE Charter of Fundamental Rights in the light of Order 782/2020 of the Italian Constitutional Court, in European Papers, 2020.
[35] Cfr. il dispositivo dell’ordinanza e, quanto al riferimento al diritto secondario, il punto 7.1.2., ove la Corte costituzionale precisa la propria richiesta tesa a conoscere se l’assegno di maternità «debba essere incluso nell’art. 34 CDFUE, letto alla luce del diritto secondario».
[36] Sentenza 2.9.2021, causa C-350/20, O.D. e a., EU:C:2021:659. Per un commento, D. Gallo, Assegni di natalità e maternità nella recente sentenza della Corte di giustizia: riflessioni “a caldo”, in eurojus, 2021; A. Torrice, Siglata la pace tra Corte di giustizia e Corte costituzionale sul difficile terreno della sicurezza sociale, in questa Rivista, 2021.
[37] Cfr. il considerando 31 della direttiva richiamata dalla sentenza O.D. e a. cit., punto 45.
[38] Cfr. la sentenza O.D. e a. cit., punto 46.
[39] Cfr. la sentenza O.D. e a. cit., punto 47, ricordando, in materia di discriminazioni fondate sull’età, la sentenza 11.11.2014, Schmitzer, C-530/13, EU:C:2014:2359, punto 23 con riferimenti di giurisprudenza.
[40] Cfr. su questi problemi di definizione la sentenza Kamberaj cit., punti 77-78.
[41] Cfr. in questi termini 18.12.2019, C-447/18, UB, EU:C:2019:1098, punti 33-34.
[42] Sui problemi relativi alla diretta applicabilità di norme della Carta e sulla distinzione fra principi e diritti cfr. i rilievi svolti nel nostro Carta dei diritti fondamentali, applicabilità e rapporti fra giudici: la necessità di una tutela integrata, in European Papers, 2021, p. 81 ss.
[43] Cfr. la sentenza 22.11.2005, C-144/04, Mangold, EU:C:2005:709.
[44] Cfr. l’ordinanza n. 182/20, punto 3.2. del “Considerato in diritto”. Per alcuni rilievi sui comuni intenti delle Corti europee cfr. L.S. Rossi, I rapporti fra la Carta dei diritti fondamentali e la CEDU nella giurisprudenza delle rispettive Corti, in I Post di AISDUE, 2020; S. Sciarra, Lenti bifocali e parole comuni: antidoti sull’accentramento nel giudizio di costituzionalità, in Federalismi, 2021, p. 37 ss.; cfr. anche E. Lamarque, I poteri del giudice comune nel rapporto con la Corte costituzionale e le Corti europee, in Questione giustizia, 2020; R. Conti, CEDU e Carta UE dei diritti fondamentali, tra contenuti affini e ambiti di applicazione divergenti, in Consulta on line, 2020.
Sciascia, i giudici e il danno da eccessiva professionalità di Giovanbattista Tona
Sommario: 1. “Il problema vero, assoluto” della giustizia – 2. Ripensare il ruolo del giudice nel crogiolo delle inquietudini sciasciane – 3. La bilancia tra diritto e drogheria – 4. L’etica imperscrutabile e professionale – 5. L’approccio di “sistema” – 6. La destinazione di un percorso.
1. “Il problema vero, assoluto” della giustizia
Interrogare Sciascia, interrogarsi su Sciascia o lasciarsi interrogare da Sciascia?
Il centenario della nascita del grande letterato di Racalmuto incrocia uno dei periodi più bui (nella percezione pubblica – che più della concretezza conta – certamente il più buio) per chi esercita il mestiere del giudicare in Italia.
E il confronto con lo scrittore che ha posto la giustizia al centro delle sue riflessioni, delle sue denunce e dei suoi tormenti è pertanto ineludibile e drammatico per la magistratura italiana sulla quale dall’esterno si indirizzano, e nella quale all’interno si dibattono, divergenti e nel loro complesso confuse ansie riformatrici e rigeneratrici.
Mentre si ricercano i modi più adeguati a garantire il retto ed imparziale giudizio dei magistrati attraverso la predisposizione di strumenti più aggiornati e rigorosi di valutazione della professionalità o di selezione meritocratica dei capi degli uffici o ancora di investitura dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura fuori dalle dinamiche elettorali e correntizie, ci si dimentica che gli esiti scandalosi delle più recenti prassi, oggi aborrite unanimemente da tutti, anche da chi continua a praticarle, sono i purulenti epigoni non della conservazione dell’antico, ma di precedenti mirabolanti riforme innovatrici, sulle quali si sono innestate le attività di giovani e meno giovani talenti, che dovevano perseguire – alcuni anche con ampio sostegno interno all’ordine giudiziario – gli obiettivi di palingenesi oggi ancora agognati.
Chi ha passione per i numeri conterà quante volte negli ultimi venti anni sono state modificate le norme sull’ordinamento giudiziario, sul processo civile e sul processo penale; e quando avrà finito, potrà cominciare a contare quante volte siano state modificate le circolari del CSM – ovviamente sempre per migliorare e per evitare prassi discutibili – su valutazione di professionalità, incompatibilità, incarichi e organizzazione degli uffici. Chi si annoia a fare la conta, però, di questa opera incessante può constatare egualmente i risultati.
Leonardo Sciascia già nel suo risalente saggio su “I fatti di Bronte” (datato 1960, poco dopo “Le parrocchie di Regalpetra”, prima ancora de “Il giorno della civetta” e di “Morte dell’inquisitore”), cominciava a denunciare le dinamiche di potere che in ogni tempo – e non meno quando ci sono rivolgimenti o riforme – hanno condizionato l’amministrazione della giustizia, facendola diventare strumento funzionale ad un proclamato rinnovamento morale e istituzionale (l’Unità d’Italia, ma poi anche il fascismo, e ancora dopo a rovescio l’AMGOT) cui corrispondevano, invece, meri riequilibri o consolidamenti di rapporti di forza.
Cosa penserebbe oggi delle sempre più indispensabili riforme dell’organizzazione giudiziaria?
Sciascia in vita era capace di assumere posizioni e proporre letture del tutto asimmetriche rispetto alle linee di pensiero, tracciate dal dibattito pubblico, e la sua voce sorprendente e originale spezzava sempre i ritornelli delle fazioni in lotta, persino di quelle che sembravano più vicine alle sue opinioni.
Chi si ricorda di questo o chi semplicemente legge oggi quello che disse allora ma nella temperie di allora e non sotto la luce del consenso unanime e (spesso ipocritamente) devoto riservatogli oggi, si renderà conto che vi è solo da compatire – sempre che non siano, come talvolta viene il sospetto che siano, in mala fede – coloro i quali ritengono dai suoi scritti di ricavarne il pensiero sui fatti dell’attualità: su quali proposte sosterrebbe, su quali scelte condividerebbe, su quali rimedi suggerirebbe.
Regole e riforme sono infrastruttura sotto la quale, comunque, rimane irrisolto il tormento sciasciano, mutuato dalla constatazione drammatica che Alessandro Manzoni appunta nella “Storia della colonna infame”: il continuo rischio che nell’amministrazione della giustizia ci si possa scoprire “un’ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano”.
L’essenza immortale della critica di Sciascia ai giudici e la pretesa che essi soffrano e non si fregino del ruolo da essi scelti si concretizza in un monito: “devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perchè il potere è esercitato in libertà ed autonomia”.
Non sono parole di Sciascia. Sono parole di Rosario Livatino.
Quelle di Sciascia hanno un suono più cupo ma il concetto che esprimono (assai tenace, sciascianamente lo potremmo definire) è lo stesso: “la scelta della professione del giudicare dovrebbe avere radice nella ripugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere (…) nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”.
La differenza tra i due sembra davvero misurabile in quegli scarsi venti chilometri di strada statale che separano Racalmuto da Canicattì. E se poi si rilegge in Sciascia che “il problema vero, assoluto” non si risolve con riforme o referendum, perché “è di coscienza, è di religione”, mentre oggi tutti rileggono Livatino perché il suo essere giudice si è incarnato proprio in una religione, allora si capisce che tra le campagne dei due paesi dell’agrigentino ci saranno forse dei sentieri che li separano appena appena di un soffio.
2. Ripensare il ruolo del giudice nel crogiolo delle inquietudini sciasciane
Nel volume curato da Andrea Apollonio, dal titolo “Verità impossibili. Voci della magistratura siciliana sull’opera di Leonardo Sciascia”, una di queste voci ha ipotizzato che un giudice dei nostri tempi, alla ricerca di un ripensamento sulla fisionomia ideale che l’amministratore della giustizia dovrebbe assumere nel quotidiano, constatata la confusione che, dietro la sicumera dell’indignazione e la professione dei principi, regna tra molte delle agenzie di etica istituzionale, possa essersi rivolto proprio agli scritti, alle epigrammatiche annotazioni e ai personaggi del Maestro di Regalpetra per ritrovare gli orizzonti di senso della sua dolorosamente necessaria professione.
“Un’intervista impossibile a delle pagine scritte o meglio ancora la richiesta di un consulto ad un oracolo che, tra il fruscio e gli odori di carta stampata e talvolta ingiallita anziché tra i fumi del fuoco perenne di farina d’orzo e foglie d’alloro, pronunci responsi da decifrare senza pretendere chiarezza.”
I frammenti sciasciani sono stati generosi di inquietudini per il giudice alla ricerca dell’essenza del giudicare:
“E se non si torna a chieder alle persone il conto preciso di quello che sono, di quello che fanno, di come vivono; se non si torna a giudicare un’azione per quella che è, senza far caso se è fatta con la mano sinistra (che sa quello che fa la destra) o con la mano destra (che sa quello che fa la mano sinistra), temo che nessuna riforma o rivolgimento varrà a cavare il classico ragno dal classico buco: immagine del tutto pertinente alla situazione, e anzi da moltiplicare – tanti buchi, tanti ragni”
(Nero su Nero, 1979)
“…quelle apparenze che da un certo punto in poi non sono apparenza, ma condizionamenti e condanne”
(Cruciverba, 1983)
“ Un fatto è un sacco vuoto. Bisogna metterci l’uomo, la persona, il personaggio perché stia su”
(Il contesto, 1971)
“…Non si può pretendere da un contadino la razionale fatica di uomo senza contemporaneamente dargli il diritto ad essere uomo… Una campagna ben coltivata è immagine della ragione: presuppone in colui che la lavora l’effettiva partecipazione alla ragione universale, al diritto…”
(Il Consiglio d’Egitto, 1963)
“…quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia – che non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto.”
(Corriere della sera, 14 ottobre 1983).
E in quest’ultima affermazione, di apparente irresolubile contraddizione, contraddittoria in sé e inconciliabile con il rigore argomentativo richiesto a chi, come Sciascia, predica il primato della ragione, sì proprio in quest’ultima affermazione c’è il cuore del metodo sciasciano. Che dice e si contraddice. Per esigere dal giudice che non chiuda la sua ragione in un recinto di tecnica, che non consenta alla Ragion di Stato o alle convenienze di ruolo di rendere irrilevanti davanti al suo giudizio le ragioni della dignità dell’uomo, che non cerchi di sfuggire al confronto – a volte pericoloso, spesso impari – con le attese delle folle e le pretese dei poteri.
3. La bilancia tra diritto e drogheria
Etica e professionalità sono le parole elevate che salveranno la magistratura dalla sua crisi. Ovviamente se si tradurranno in prassi quotidiane. Bene! Questa è la strada. Ma rileggere Sciascia insegna la diffidenza verso chi invoca l’etica e la professionalità, così come verso chi invoca la verità, fino a farne strumenti ciechi o fonti germinatrici di pregiudizio.
Etica e professionalità, tecnica e scienza, possono diventare nient’altro che armi affilate per la conquista di porzioni di potere, talvolta anche molto miserabile.
Possono creare la familiarità di gioco con “quella bilancia che, incisa sul davanti della scranna presidenziale, dava l’illusione o la delusione, a seconda la si guardava dalla gabbia o da fuori, che il tribunale fosse soltanto una drogheria accreditata”, come icastico e irriverente Sciascia la definì nel racconto “Il signor T protegge il paese”.
In “Morte dell’inquisitore”, Sciascia ci racconta che, mentre supreme ingiustizie si consumavano con lo strazio degli eretici nello Spettacolo generale di Fede, il più ingrato lavoro di Monsignor de Los Cameros, inquisitore di Sicilia, era quello di stabilire il ruolo delle precedenze nelle solenni processioni che precedevano l’esecuzione delle sentenze del Sant’Uffizio.
“I qualificatori teologi avevano attaccato briga coi consultori giuristi: i primi ritenevano di dover avere vantaggio sui secondi per il fatto stesso che di un reo prima veniva qualificato l’errore teologico, e poi scendevano in campo i giuristi; ma questi da parte loro definivano, l’Atto di Fede pubblico come un atto giudiziario. I consultori ecclesiastici contendevano con i consultori laici; e il partito dei consultori laici era a sua volta internamente agitato dal contendere tra togati, avvocati semplici, avvocati del segreto.”
Questioni giuridiche raffinatissime mentre la dignità dell’uomo si mortificava (alla lettera, si faceva di morte) sopra un palcoscenico dinanzi alla folla plaudente. E dinanzi alla corte capitanale che si lamentava delle sedie rivestite di damasco di color perso perché avrebbe preteso, richiamandosi a vari canoni, sedie di velluto carmisino.
Questa metodica di selezione delle questioni giuridiche ritenute più rilevanti rimane collocata alla data del 16 marzo del 1658 nella Palermo dei vicerè oppure, come direbbe Sciascia, è una velenosa entelechia del potere, una fotografia di una realtà che tende a riprodursi fino a che raggiunge l’obiettivo finale cui spontaneamente tende (la mera affermazione di sé) e che in questo caso in nulla potrebbe identificarsi con la giustizia?
La coscienza del giudice dovrà vigilare su di sé e su chi lo circonda per ricacciare questa immagine nel passato. Senza confidare nel fatto che certi atteggiamenti tecnicamente astratti, prima ancora di mostrarsi irragionevoli, potranno rivelarsi ridicoli. Questo non basterà.
“Perché”, scrive ancora Sciascia introducendo una mostra del pittore Pietro Guccione nel 1984, “la stupidità – bisogna riconoscerlo – sa essere perfetta, mentre l’intelligenza raramente lo è”.
4. L’etica imperscrutabile e professionale
L’etica del giudice sarà la distanza? L’imprescrutabilità? Il rispetto delle forme? L’ossequio al sistema giuridico-istituzionale di cui è uno snodo?
Basterà questo a legittimarne il ruolo in un sistema democratico moderno?
Se potrà bastare, l’impresa è tutta lì: assicurare che chi giudica sia dotato di elevata preparazione tecnica, sia diligente e puntuale.
Ma almeno su questo Sciascia si è espresso già e non possiamo rammaricarci del fatto che oggi non sia con noi a discuterne:
“Presupponendo la scienza del cuore umano alla pari di quella dei codici, e magari in maggior misura quella del cuore umano, l’amministrazione della giustizia riceverebbe anzi danno da una eccessiva professionalità.”
Proprio così ha scritto sul Corriere della sera del 14 ottobre 1983 in un articolo in cui tra l’altro parlava del caso Tortora. E in un caso nel quale le iniziative giudiziarie non venivano portate ad esempio di corretta amministrazione della giustizia, Sciascia propose anche il rischio inverso; oltre al danno provocato dalla professionalità scarsa, se ne poteva prefigurare uno, forse ancora più grave, derivante da professionalità eccessiva. Quella scarsa smarrisce ma quella eccessiva soffoca la scienza del cuore umano ed entrambe convergono verso un decidere sordo e vuoto. Che come il suono di una campana sancisce la solennità di chi la muove, sollecita l’attenzione di chi la ascolta, ma annichilisce senza ragione chi vi si trova dentro.
Rileggendo il racconto di Tolstoi, “La morte di Ivan Il'ič”, Sciascia commenta la vicenda del protagonista, un giudice, che rivede se stesso nel medico che gli formula la prognosi di un male incurabile e che gli sembra comportarsi come in tribunale fa chi formula l’accusa ad un imputato. Allo scrittore siciliano in quel contesto premeva sottolineare come fosse in atto una forma di medicamentalizzazione della vita, ma (inconsapevolmente) come in un gioco di specchi racconta ciò che può essere la giuridicizzazione della vita degli uomini, che possono così sparire dalla vista dell’uomo giudice chiamato a deciderne le sorti.
“Imperscrutabile, come il giudice. Come il giudice, non tenuto a render conto di nulla e soprattutto delle sentenze che emette.
E così come il giudice può dar torto o ragione facendo astrazione del torto o della ragione, poiché quello che conta è l’affermazione della legge comunque interpretata, il medico fa astrazione della malattia e della salute, poiché quello che conta è l’affermazione della medicina, cioè la medicamentalizzazione dell’idea della vita”.
Sembra affiorare in queste parole il germe dal quale può scaturire la visione della giustizia che, ne “Il contesto”, il presidente illustra all’ispettore Rogas, spiegandogli come, in nome del circuito della legittimità, le prove oggettive non esistono e quel che conta è il potere legittimo che può rendere l’uomo allo stato di colpa.
“…quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società - che somma così paurosamente grande di poteri gli affida - disposto e proteso a comprendere l'uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”.
Questa volta è di nuovo Livatino che parla. Ma oramai è chiaro: il Maestro ateo e il Beato cattolico guardano gli stessi orizzonti dalla campagna di contrada Noce o da una finestra del Palazzo di giustizia di Agrigento.
5. L’approccio di “sistema”
La storia d’Italia è disseminata di storie di magistrati che interpretano un potere senza potere, che per l’affermazione della legalità e della verità si confrontano senza mezzi con soggetti portatori di fatto di una forza talvolta capace di neutralizzarli talaltra di schiacciarli. Sciascia si è occupato anche di loro e di tutti gli altri uomini dello Stato che, in vari ruoli, hanno esercitato i loro compiti scoprendosi senza potere.
Ma la sua diffidenza verso chi amministra la giustizia si fonda sulla constatazione che l’essere un potere o l’essere un senza potere non deriva da profili normativi od organizzativi, ma ancora una volta dal modo di essere dell’uomo.
In più occasioni Sciascia ebbe a raccontare che da ragazzo, prima che gli venisse somministrato per obbligo scolastico, aveva letto “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni e s’era fatto di quel romanzo un’idea rovesciata rispetto a quello che a scuola gli avrebbero insegnato: una storia disperante il cui protagonista assoluto, perché vincente, era Don Abbondio.
A fronte del conflitto impari tra i due giovani popolani Renzo e Lucia e il signorotto Don Rodrigo, dopo la propagazione della peste, dopo le sommosse e la fame, le conversioni e i tradimenti, ognuno sopporta la sua porzione di sofferenze e di sconfitte, ma chi trionfa è sempre Don Abbondio: con lui “l’uomo del ‘particulare’ perviene alla sua miserevole ma duratura apoteosi”.
E perché in lui può esserci la sintesi di ciò che di peggio può diventare un giudice, il più elevato in grado al pari del più marginale e periferico?
Perché l’agire di Don Abbondio rappresenta “un sistema di servitù volontaria, non semplicemente accettato ma perseguito da una posizione di forza, di indipendenza quel era quella di un prete in Lombardia”.
Arrogante e pavido, vittimista e sfuggente, fa della sua indipendenza e del suo potere gli elastici strumenti necessari a schivare danni e ad assicurarsi protezione; nonostante dovesse servire il volere di Dio, era “refrattario alla Grazia e della Provvidenza si considerava creditore”.
Sciascia si lamentava del fatto che, negli istituti scolastici e nei corsi universitari, non si trovasse traccia di uno dei saggi, a suo avviso, più illuminanti sul significato anche civile del capolavoro manzoniano; lo aveva pubblicato nel 1933 Angelandrea Zottoli e aveva un titolo significativo: “Il sistema di Don Abbondio”.
Oggi che la palingenesi della magistratura pare debba prendere le mosse dal ripudio di un “sistema”, che nell’editoria contemporanea ha dato il titolo a volumi commercialmente più fortunati di quello di Zottoli, forse bisognerebbe concentrarsi maggiormente sui mali italici più endemici e più camaleontici, capaci di insinuarsi anche in un potere autonomo e asseritamente separato. Con o senza le correnti.
Leggendo un libro del 1933, che trae spunto da un romanzo del 1827, che a sua volta parla di una vicenda del 1628, forse si capirà per tempo, entro il 2022, come contrastare l’unico sistema che può davvero durevolmente condizionare i magistrati: quello di Don Abbondio.
6. La destinazione di un percorso
Un giudice inquieto ha cercato di rileggere Sciascia. Per capire verso dove potremmo andare per uscire da questa crisi, che grava sull’istituzione e che coinvolge i singoli.
Ma è già partito un treno. Sul quale viaggia il giudice inquieto e lungo il tragitto ha portato questi libri, per aiutarsi a trascorrere utilmente il tempo.
Il treno porterà – così gli hanno detto – al rinnovamento e alla rilegittimazione della magistratura dopo gli scandali che l’hanno colpita.
Quale sia la meta di questo treno di preciso il giudice non lo ha ancora compreso.
Gli scritti sciasciani, che ha riletto, lo hanno esortato a trovare dentro di sé nella coscienza e attorno a sé nella scienza del cuore umano la strada per giungere imperfettamente ma effettualmente alla meta del giusto giudicare.
Ma sul treno c’è già e il convoglio va.
Ed il giudice si sente come quel contadino, di cui trova fulminante racconto nel diario sciasciano intitolato “Nero su nero” e che, come lui, sperava di poter essere sicuro della meta. Epperò….
“Il contadino che a Roccapalumba sale sul treno che va ad Agrigento, per tre volte, a tre persone diverse, domanda se il treno va ad Agrigento: e per tre volte ottiene la stessa risposta: «Almeno…» La terza volta la risposta viene addirittura da un ferroviere: e allora il contadino si rassegna al dubbio. Nessuno è certo che il treno vada ad Agrigento: pare che ci vada, così è scritto, così credono i viaggiatori e coloro che lo muovono; ma può anche finire a Trapani, a Messina, all’inferno”.
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