ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La proprietà pubblica: oblio di un concetto di Giancarlo Montedoro
Che fine ha fatto la proprietà pubblica?
Se lo chiede un libro di Paolo Maddalena “La rivoluzione costituzionale – Alla riconquista della proprietà pubblica”, un libro sincero ed appassionato, franco al limite della durezza come si conviene ai testimoni del nostro tempo (specie se lungamente impegnati nel difficile mestiere del giudicare).
La rivoluzione costituzionale è ovviamente un ossimoro.
Ma nemmeno tanto a ben vedere, sempre la nozione di Costituzione si muove fra potere istituente o costituente e potere istituito o costituito, sempre c’è nella vita sociale e del diritto la perenne dialettica fra movimento ed istituzione.
Quanto poi alla rivoluzione che ha condotto all’adozione della nostra Carta Costituzionale essa è stata sempre vista nostalgicamente alla luce della esperienza repubblicana come una “rivoluzione tradita” e dai laudatores temporis acti, alla luce dell’esperienza pre-repubblicana, al più come una illusoria “rivoluzione promessa” (ma, si sottintendeva, difficilmente attuabile).
Quindi l’accostamento della parola rivoluzione e della parola Costituzione non è un azzardo ed ha numerosi precedenti.
Il libro coglie una questione che è al cuore del progetto moderno: il deperimento della sfera pubblica. E – con essa – il deperimento della proprietà pubblica.
La crisi del demanio.
Le tante crisi drammatiche, tragiche che si affacciano sul teatro della storia (dalle crisi ambientali a quelle finanziarie fino ad alcuni conflitti bellici che ritornano nel cuore dell’Europa) ne sono il portato ed il sintomo.
Il libro è un j’accuse - la lettera di Zola del 13 gennaio 1898 metteva sotto accusa un sistema militare e giudiziario - in questo caso è un esponente della magistratura prima contabile e poi costituzionale, dedicatosi per anni allo studio del diritto romano e poi del diritto ambientale, a criticare l’assetto di tutto un sistema giuridico, interrogandosi sullo stato di salute della proprietà pubblica come vicenda paradigmatica per comprendere gli esiti del progetto moderno.
Il libro è una lamentazione, nel solco di una letteratura intera dal profeta Geremia a Giobbe e Kafka.
Geremia lotta con Dio quando grida: “Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli?” (Ger. 12, ,1.3).
Giobbe lotta per avere un Dio vicino (a volte disperiamo di ciò) e sperimenta l’assoluta vanità dell’innocenza personale (l’esito bellico del capitalismo finanziario deregolato assume l’aria del già visto alla luce delle Scritture così come l’inanità degli sforzi personali e collettivi per la tutela della sfera pubblica di fronte allo scatenamento degli egoismi incontrollati è).
In tutti i racconti di Kafka la giustizia è un’entità lontana ed inaccessibile, remota ed incomprensibile.
La lamentazione ha una tradizione anche musicale.
Le lamentazioni fanno parte delle nuove tendenze cinquecentesche che mostrano una particolare attenzione al rapporto tra musica e poesia. I musicisti in questo periodo cercano di dare visibilità sonora alle parole. Grazie a particolari procedimenti compositivi, riescono a trasporre musicalmente o addirittura graficamente, il significato del testo poetico nelle loro composizioni.
Un esempio molto famoso di lamentazione è l’aria (una delle mie preferite) “When I am laid in earth”, tratta dall’opera “Dido and Aeneas” (1689) di Henry Purcell (1659-1695). Qui compare il tetracordo cromatico discendente (sol – fa# – fa – mi – mib – re) che è ripetuto incessantemente e attorno a esso si muove l’intera aria.
Per questo particolare esempio possiamo già parlare di aria-lamento, cioè un pezzo musicale con una sua autonomia, aderente alle esigenze del testo. La voce di un solista si erge su un accompagnamento strumentale e attraverso questo monologo sonoro il cantante dilata il tempo della rappresentazione ed esprime la sua dimensione interiore.
La lamentazione per la privatizzazione del mondo dispiegata in analisi storica delle dinamiche giuridiche della proprietà; questo offre il libro.
Una sorta di generale sguardo sul complessivo abbandono di strade ragionevoli.
Ma la lamentazione di un giurista non sarebbe sufficiente.
Un giurista (e Maddalena tale è) deve saper indicare strade.
La strada è l’impegno civile.
Un libro di impegno civile che fa pensare a Rousseau al Discorso sull’origine della disuguaglianza, a quell’apologo sulla nascita del possesso e della proprietà come origine dell’infelicità umana.
Va letto così come un libro testimonianza, un libro accusatorio.
La posizione assunta è coraggiosa: essa presuppone che siano fatti i conti con la funzione dell’intellettuale nel mondo della finanziarizzazione dell’economia, della tecnicizzazione del sapere, del conflitto generalizzato e caotico che dissolve gli Stati e li ricrea.
Una funzione – quella intellettuale – in via di deperimento, assediata come è dal muoversi di potenti organizzazioni di comunicazione create per la manipolazione del consenso e la passivazione delle masse, ultimo triste esito del Soggetto moderno, prefigurato dai francofortesi (analizzando il mondo dell’opinione pubblica travolto dalla dottrina Goebbels).
La dottrina manipolatoria delle masse che dilaga nell’assenza o nella vacanza dei moderni soggetti del pluralismo sociale (partiti organizzati, sindacati, organizzazioni religiose, uniche queste ultime a resistere con dignità ma purtroppo senza ricucire un afflato ecumenico che sia in grado di frenare l’involuzione in atto) e nell’insorgenza di nuovi populismi e di tecniche digitali disumanizzanti.
Naturalmente il giurista è un intellettuale specifico, poi quando si tratta di un magistrato o di un ex magistrato (e giudice costituzionale) è pacifico che il ruolo incontri i limiti del riserbo e del dover evitare uno schieramento aperto per specifici partiti, senza rinunciare ad un’etica dell’impegno che è la sola che può vivificare la professione, evitando che scada nel mero problem solving.
Per il magistrato il magistero intellettuale non può non essere tutto nel riferimento alla Costituzione.
Una Costituzione che va riletta oggi – realisticamente – nel quadro del globalismo (di cui l’autore evidenzia tutti gli squilibri).
Il problema della de-territorializzazione del diritto, della nascita di un diritto privato globale (anche detto lex mercatoria per le intuizioni di Francesco Galgano) e poi di un diritto globale senza Stato, basato sulla sola dinamica e primazia dei diritti individuali ed economici.
A queste dinamiche arcinote si accompagna la crisi del costituzionalismo e dei partiti che ne sono stati il motore ed il soggetto.
Ai partiti spettava un ruolo di direzione intellettuale e morale che è andato perduto.
Una tragedia moderna.
L’economico ha finito con il prevalere sul politico.
La globalizzazione – per i più - è accettata come un dato e non vissuta come un problema.
Ed eccoci qui di fronte a catastrofi che non casualmente si succedono, non cigni neri, ma eventi a lungo preparati e ben comprensibili che dovremmo capire nella loro interna logica se vogliamo realmente difendere le società aperte, le società decenti.
Si tratta del portato di una sorta di “pensiero magico” che ci ha infettato le menti.
Un pensiero che si stende su di noi come una cappa opprimente. Una cappa che svuota tristemente la modernità.
La politica ha perso la sua capacità di esercitare un ruolo direttivo intellettuale e morale sulla vita e sulle società.
La crisi del costituzionalismo è insieme crisi dei partiti e crisi dello Stato; da questa consapevolezza, approfondendo il solco della riflessione del pensiero novecentesco della crisi ( Kelsen – Schmitt – Santi Romano ) ora emerge l’economico come dato insuperabile mentre dovremmo vederlo come problema e quindi come dato – certo – ma governabile.
Ossia dovremmo iniziare a domandarci: quale globalizzazione è desiderabile (prima di metterla rapidamente in soffitta rimpiazzandola con chiusure nazionalistiche e guerre)? Quale declino (se declino ormai sembra il destino dell’Occidente) ? con quali vinti e quali vincitori? Siamo ancora in tempo per una globalizzazione ben temperata che non soffochi le sfere pubbliche nazionali e per questo motivo non determini reazioni antiliberali?
La post-modernità è stata spesso funestata da un pensiero unico (questo Maddalena lo mette bene in evidenza nel capitolo sul contesto finanziario e globale connotato dal pensiero neoliberista che Todorov chiamava neo-totalitarismo liberale).
Tale pensiero ha improntato le politiche economiche, in risposta alla crisi fiscale dello Stato (cfr. Buchanan e Wagner, La democrazia in deficit – L’eredità politica di Lord Keynes) costruendo una logica onnipervasiva del sacrificio che, peraltro, non ha esitato a continuare a far debito nel tentativo di comprare tempo.
Lo vuole l’Europa è stato il mantra e così, dai famosi parametri macroeconomici di Maastricht ( 60% nel rapporto debito/PIL 3% del deficit ), sono fiorite molteplici conseguenze costituzionali in forma di regole di bilancio precipitate - attraverso gli obiettivi di medio termine, che disegnavano la marcia di avvicinamento a detti parametri - nel calcolo del deficit c.d. strutturale mediante sofisticati strumenti come l’output gap ce rendono le politiche dipendenti dal calcolo tecnico e svuotano dall’interno le possibilità di politiche democratiche ( peraltro spesso improntate solo ad assecondare i desideri della propria constituency ).
Ormai è un ricordo la lunga marcia dei trenta gloriosi, la lunga vicenda dell’attuazione costituzionale italiana ( la Costituzione è in gran parte fuori centro nel mondo post - ideologico e post-partitico ).
Si succedono – Maddalena lo ricorda citando Luciano Gallino – “privatizzazioni”, “modernizzazioni”, “aziendalizzazioni”, sistematiche politiche di svalutazione del lavoro (fondamento della Repubblica).
La partita tuttavia è ancora aperta.
La storia è sempre aperta.
Comprendere la fase che stiamo attraversando per viverne le contraddizioni.
Ordine e caos si fronteggiano (lo abbiamo scritto nel testo Il diritto pubblico fra ordine e caos).
Se la crisi del ‘29 è stata crisi di sovrapproduzione, quindi dell’economia reale la crisi del 2007 – 2008 è stata in origine crisi finanziaria poi comunicatasi all’economia reale.
La crisi del 2007-2008 non ha trovato risposte sistemiche (una risposta sarebbe stata l’adozione del c.d. global legal standard elaborato dal Ministro Tremonti alcuni anni fa se il G20 l’avesse adottato e poi implementato ma i tempi non erano maturi e si preferì una politica dei due tempi , salviamo le banche prima e riformiamo il sistema poi e l’unione bancaria attende ancora di essere completata mentre l’UE è investita ormai da venti di guerra).
Si verifica quindi ancora la profezia marxiana che è lode al capitale “ Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”.
Le forme giuridiche dominanti sono quelle del capitalismo finanziario: le scommesse (studiate da Luca Buttaro mio indimenticato maestro di diritto commerciale), i derivati conformati da troppo scarsi limiti, ma investiti dalla giurisprudenza amministrativa che ha ammesso come legittime forme di autotutela su detti contratti quando sperequati a danni del pubblico erario.
Occorre continuare a produrre una critica del paradigma neoliberista (niente affatto liberale) per approdare ad una sorta di liberalismo non aggressivo come orizzonte del futuro.
Le democrazie sono forti perché (e quando) sanno autocorreggersi.
Occorre vedere ostinatamente il lato oscuro delle cose.
Ed allora sia chiaro che il paradigma neoliberale viene veicolato in molti modi ed in un processo complesso che qui si ricorda sinteticamente per punti:
1 - Il centro dell’ordine economico europeo è la UE – ordinamento incompleto (singolare esperimento di una burocrazia, di un’amministrazione, che tenta di farsi costituzione), tecnocratico, con deficit democratico, peraltro anche connotato da veti paralizzanti, a dominanza tecnico-scientifica e intergovernativa connotato dal modello della governance che significa spesso dominio di potenti lobbies economiche nella regolazione;
2 - La suddetta UE è passata da forme di integrazione attraverso il diritto (la giurisprudenza della Corte di Giustizia dal caso Costa Enel in avanti) a forme di integrazione attraverso la moneta, ma non è riuscita a realizzare, purtroppo, una unione attraverso la politica;
3 - La mancanza di integrazione politica si accoppia ormai alla mancanza di integrazione sociale nelle nazioni europee più deboli;
4 - La troppo rigida primazia del diritto UE – di impronta tecnicizzante – e la sua invadenza sono evidenti, marginalizzando i Parlamenti nazionali e mortificando il principio di sussidiarietà;
5 - L’ordine giuridico del mercato (Irti) è affidato al solo diritto dei contratti e della concorrenza (troppo poco ma è quello che è possibile quando l’economico domina il politico) e la costituzione economica è pensata come una sfera separata di rapporti, autonomizzati dalla restante parte della Carta fondamentale;
6 - Le libertà economiche – sacrosante ovviamente – sono uno strumento di ridisegno anche fiscale e di armonizzazione (senza direttive) dei diversi ordinamenti nazionali;
7 - La concorrenza smantella gli aiuti di Stato e gli investimenti pubblici devono rispettare il principio (criterio) dell’investitore privato principio che evita sprechi ma può condizionare le politiche sociali;
8 - Si sancisce la neutralità dei regimi proprietari (proprietà pubblica e proprietà privata vengono equiparate nelle politiche di concorrenza) con il risultato di rendere invisibili i beni pubblici confinati in una regola di indifferenza che li penalizza (le spiagge contano per fare sacrosante gare ma la loro disciplina dovrebbe anzitutto essere disciplina di usi del territorio a favore delle popolazioni oscurata dalla concorrenza per un mercato dei beni);
9 - Il dialogo fra le Corti – fino a quando non saranno rivisti a fondo i presupposti della giurisprudenza CILFIT – appare a dominanza della Corte UE con conseguente rischio di trasformazione del dialogo in monologo che schiaccia i margini di apprezzamento dei giudici nazionali;
10 - L’inter-legalità è una prospettiva oggetto di studio ma ancora di Là da venire;
11 - La prospettiva analizzata da Teubner (Conflitti costituzionali) appare irenica e svaluta eccessivamente il ruolo del diritto pubblico confidando in un ruolo costituente della lex mercatoria;
12 - Più praticabile e realistica la prospettiva delineata di Azzariti che passa attraverso una costante e progressiva rivalutazione delle costituzioni nazionali, per l’elaborazione di un’Europa politica fondata sul patrimonio costituzionale comune e non sul diritto dei mercati.
Il libro di Maddalena analizza questi processi di privatizzazione del mondo, la finanza creativa, i derivati, la finanziarizzazione dei mercati, i meccanismi di superamento delle imprese pubbliche, le privatizzazioni, liberalizzazioni e delocalizzazioni parlando di sistema “predatorio” neoliberista e della necessità del ritorno ad un sistema keynesiano (ritorno delineato, con molta pragmatica prudenza anche da Giuliano Amato in “Bentornato Stato, ma…”, breve interessante saggio appena uscito quest’anno).
A volte Maddalena mostra troppa fiducia nella democrazia dal basso (mitizzando la nozione di “popolo” talvolta scritto con la maiuscola come un tributo al titolare della sovranità cfr. pag. 47 ): chi scrive ritiene che la democrazia sia un delicato ed imperfetto sistema di pesi e contrappesi (checks and balances) per porre limiti al potere ma soprattutto un sistema per scegliere delle elite governanti, con un processo aperto, connotato dalla presenza dei partiti e non incentrato sulla democrazia diretta (che pure può essere utilizzata ma senza abusarne).
Ma l’evocazione del popolo (ossia di tutti i cittadini) a ben vedere si lega, nella riflessione di Maddalena, al ruolo della proprietà pubblica, vera e propria cenerentola di questi anni.
Il demanio è dimenticato.
Esso è stato fatto oggetto di politiche di dismissione.
Non è più nemmeno tanto studiato dal punto di vista teorico (si rinvia per questo al nostro “Alla ricerca del demanio perduto ovvero le vicende della proprietà pubblica fra Stato e regioni” in AA.VV. La demanialità fra presente e futuro, pubblicazione dell’Istituto Veneto di Scienze lettere ed arti del 2015 dovuta all’intelligente e profondo sguardo di Luigi Garofalo, coltissimo romanista, appassionato lettore dei giuristi della crisi e curatore della pubblicazione e degli atti del convegno ospitato allora dall’Istituto).
La strada per recuperare è la ricostituzione del patrimonio pubblico e non la teorica dei beni comuni secondo Maddalena privi delle caratteristiche di inalienabilità, inusucapibilità e inespropriabilità che hanno pur sempre i beni demaniali.
La parabola della teorica dei beni comuni, intesi come beni che si collocano oltre il pubblico ed il privato, vede i beni demaniali sparire, come fu proposto dalla Commissione Rodotà (ben al di là delle convinzioni del grande studioso secondo Maddalena avendo Rodotà solo preso atto dell’orientamento della maggioranza dei membri della Commissione nominata dal Ministro Mastella) per essere attribuiti a privati o pubbliche amministrazioni che possono alienarli.
Un esito da evitare – secondo l’autore - attraverso i rimedi azionabili anche in sede giudiziaria espressivi del diritto di resistenza di dossettiana memoria (diritto che viene sugellato dall’esistenza di un giudice delle leggi) le quante volte scelte legislative risultino effettuate irragionevolmente a detrimento del patrimonio pubblico e dei beni demaniali.
Non resta che augurarsi che ad una scelta oppositiva – che sovraespone la giurisdizione e non è alla lunga sostenibile, segua – finalmente – una politica resipiscente.
In tal senso l’alternativa “diritto o barbarie” posta dall’ultima riflessione di Azzariti passa necessariamente per il ritorno ad una buona politica, anche a livello sovranazionale.
Una buona politica non può non restaurare il demanio e curare beni culturali e paesaggio.
Il conflitto bellico nato nel cuore dell’Europa non ci fa nutrire in proposito molte illusioni, ma compito dell’intellettuale è mantenere la lanterna nella notte.
Riteniamo utile pubblicare il Comunicato dell’ANM sul “perché dello sciopero” indetto per la giornata di domani lunedì 16 maggio 2022, ricordare il link della scheda adesione editabile e riproporre la lettura degli articoli:
Introduzione all’Assemblea Generale dell’ANM del 30 aprile 2022 del Presidente Giuseppe Santalucia,
Vent’anni dopo di Morena Plazzi,
I nuovi condizionamenti del magistrato e altri che non passano mai di Riccado Ionta,
Quale giudice? di Paola Cervo,
Le proposte di riforma partono da un’immagine distorta della magistratura di Angela Arbore.
Le proposte di riforma partono da un’immagine distorta della magistratura*
di Lilli Arbore
Quale visione alimenta la nostra immagine come Magistratura nella politica che in alcuni interventi ascoltati è sembrata ossessivamente orientata solo in modo ritorsivo? E peraltro si parla solo e sempre di penale. Ma la valutazione dell'intero sistema giustizia c'è in questa riforma? C’è il pensiero, la riflessione su tutti i settori della giurisdizione?
Lo dico da orgogliosa giudice del lavoro da 28 anni.
Si sono una di quelle che si occupano tra le altre vicende come quelle dei riders, e in genere di lavoratori sottopagati, dequalificati, discriminati in un mondo del lavoro caotico e sempre più precario. Io non mi ci ritrovo e lo dico senza retorica ed ipocrisia. L'assemblea del 30 aprile era affollata da colleghi giovani. Quale messaggio dobbiamo consegnare a loro? Io vorrei solo che si trasmettesse un messaggio di speranza e di testimonianza. Qualunque decisione si assuma. Continuare ad essere magistrati coraggiosi, liberi, “asserviti" solo alle Costituzione. E liberi soprattutto da ossessioni di "pagelle”, di voti, ma pronti ad essere valutati, con serenità, ma non in modo aziendalistico, come può avvenire per la valutazione di un prodotto di consumo.
Allora su questo riflettiamo su come migliorare, ma senza spauracchi di un disciplinare incombente e privo di connotati certi e tassativi, senza paura. E in un ‘interlocuzione serena con il ministero e la politica il mio "sogno " sarebbe che qualcuno mi rispondesse e facesse qualcosa tempestivamente quando in nome della tanta sbandierata – necessaria e oramai imprescindibile - innovazione tecnologica accade che tutta la giurisdizione civile di tutta Italia si fermi per due giorni per gli “errori fatali” di un aggiornamento. Con buona pace della efficienza del servizio . E della tutela dei diritti. Qui di fatale ci può essere solo la perdita di speranza e di coraggio. E fatale lo può essere solo per la comunità di cittadini che a noi si rivolge.
*Intervento preparato per l'Assemblea generale del 30 aprile 2022, nella qualità di componente del comitato direttivo centrale dell'ANM.
L’insostenibile sostenibilità. Perduranti incertezze nella disciplina della realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili (nota a Cons. Stato, Sez. II, 3 novembre 2021, n. 7357).
di Marco Calabrò e Laura Pergolizzi*
Sommario: 1. La vicenda. – 2. Il necessario bilanciamento tra l’attuazione di procedure semplificate ed il rispetto delle prescrizioni urbanistiche. – 3. L’incerta portata applicativa dei Piani regionali per la individuazione dei siti non idonei. - 4. Esigenze di chiarezza regolativa e di uniformità nella qualificazione degli interventi di realizzazione di impianti FER. – 5. Conclusioni. Il processo di transizione energetica richiede certezza sul “cosa” e sul “come”.
1. La vicenda
La vicenda trae origine da una Procedura Abilitativa Semplificata (PAS) presentata dal proprietario di un’azienda agricola e da due società costruttrici per la sostituzione di un impianto termico alimentato a olio combustibile con quattro impianti a biomassa, da realizzarsi su un terreno ricadente in una sottozona denominata FAC1. In relazione a tale tipologia di area il Regolamento urbanistico comunale disponeva che per la realizzazione di interventi di nuova edificazione sarebbe stata necessaria la preventiva approvazione di un accordo di pianificazione tra Regione, Provincia e Comune, mentre gli edifici già compresi all’interno dell’area avrebbero potuto essere interessati esclusivamente da interventi di manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria e restauro conservativo.
La richiesta di PAS veniva presentata sul presupposto di ammissibilità dell’intervento, che i privati ritenevano sussistere sulla base dell’applicazione di una norma del Regolamento edilizio comunale che qualifica come intervento di manutenzione straordinaria “l’installazione di impianti relativi alle fonti rinnovabili di energia”. Dalla ricostruzione della vicenda emerge che l’impianto in questione era stato concepito come funzionale alla produzione di calore ed energia termica per il riscaldamento e il funzionamento delle serre adiacenti al terreno - destinato ad essere oggetto di cessione del diritto di superficie da parte del proprietario dell’azienda agricola alle società costruttrici - sul quale lo stesso sarebbe stato realizzato, oltre che alla produzione di ulteriore energia elettrica da cedere a ENEL, sì da consentire all’azienda agricola di azzerare i costi per la produzione di calore e alle imprese costruttrici degli impianti, destinatarie dei contributi statali previsti, di recuperare gli investimenti effettuati e conseguire un profitto.
All’esito della conferenza di servizi all’uopo convocata, il Comune ordinava di non procedere all’intervento, ritenendo che lo stesso non fosse riconducibile né assimilabile alla tipologia di intervento edilizio “manutenzione straordinaria”, nella misura in cui comportava una alterazione di volumi e superfici dell’unità immobiliare preesistente.
La decisione veniva impugnata, sulla base di diverse eccezioni, innanzi al T.A.R. Toscana, che tuttavia rigettava il ricorso nel merito, pur compensando le spese di giudizio. L’atto di appello da cui è originata, poi, la pronuncia in commento veniva essenzialmente affidato ai seguenti capi: a) erroneità della sentenza impugnata, nella parte in cui escludeva la riconducibilità dell’intervento alla categoria della manutenzione straordinaria, nonché la natura di mero volume tecnico dell’impianto da realizzare; b) erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui escludeva l’assentibilità dell’intervento in contrasto con quanto previsto dal D.M. 10 settembre 2010 (Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili), il cui art 17 prevede che la Regione proceda all’indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti, con conseguente presunzione di ammissibilità degli interventi nelle aree residue a prescindere dalla destinazione urbanistica e dai limiti previsti dalla regolazione locale.
Il Collegio giudicante respinge entrambi i motivi di impugnazione, confermando nel merito la sentenza di primo grado e condannando, altresì, la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio. In particolare, il Consiglio di Stato, nel motivare la propria decisione, sottolinea in primo luogo che presupposto indispensabile per l’assentibilità di un impianto a mezzo PAS è la compatibilità urbanistica ed edilizia dell’intervento, la cui verifica in concreto è demandata all’amministrazione comunale, titolare di poteri di controllo, inibitori e conformativi (eventualmente indicando le modifiche e integrazioni necessarie a rendere l’intervento proposto conforme alla normativa urbanistica ed edilizia), da esercitare nel termine di trenta giorni dalla data di ricezione della dichiarazione.
In tale contesto, prosegue il Collegio, il regolamento edilizio comunale non può rivestire “alcuna valenza costitutiva, nel senso di introdurre una nuova categoria di interventi di manutenzione straordinaria, distinta ed aggiuntiva a quelle contemplate dalla legge statale e regionale, ritenendo, invece, che essa assuma una più limitata funzione specificativa e chiarificatoria” quale “unica compatibile con la natura di fonte secondaria dell’atto in cui è contenuta”. Di conseguenza, la previsione regolamentare de qua non può essere interpretata nel senso di ammettere che la realizzazione di centrali alimentate a biomasse debba essere in ogni caso inclusa, ex se e a prescindere dalle caratteristiche strutturali, tra gli interventi realizzabili in regime di manutenzione straordinaria, perché ciò significherebbe “assegnare alla potestà regolamentare del comune una capacità derogatoria del d.p.r. 380/2001 che non può essere riconosciuta nemmeno al legislatore regionale”. Al contrario, siffatto intervento edilizio è configurabile come intervento di manutenzione straordinaria unicamente nell’ipotesi in cui esso “non alteri i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comporti modifiche delle destinazioni di uso”.
In relazione, poi, ad una ulteriore deduzione difensiva, secondo la quale la procedura di PAS, al pari dell’autorizzazione unica ex art 12 d.lgs. n. 387/2003, assorbirebbe e renderebbe superflua ogni valutazione relativa ai profili urbanistico-edilizi, il Collegio sottolinea come in tal senso si finisca per prospettare una “non consentita assimilazione tra PAS ed autorizzazione unica, nonché un’inversione logica tra presupposti ed effetti della PAS”, rilevando che solo l’autorizzazione unica può costituire, ove occorra, variante allo strumento urbanistico, ai sensi dell’art 12, comma 3, d.lgs. n. 387/2003[1]. Del resto, afferma il Collegio, sostenere che la PAS possa consentire l’intervento in deroga agli strumenti urbanistici sarebbe contraddittorio, perché è proprio la compatibilità urbanistico-edilizia del progetto a costituire il presupposto per la legittima realizzazione a mezzo di procedura semplificata.
Con riferimento al secondo motivo di ricorso, infine, il Collegio chiarisce che l’individuazione di siti non idonei alla realizzazione degli impianti da parte delle Regioni, sulla base della previsione dell’art. 17 d.m. 10.09.2010 cit., non ha l’effetto di determinare, in via automatica e presuntiva, la compatibilità urbanistica dell’intervento da realizzare nei siti esclusi dal piano regionale; la compatibilità urbanistica ed edilizia degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, infatti, “sfugge a qualunque presunzione” e, in sede di procedura abilitativa semplificata deve essere “comprovata dai proponenti mediante relazione asseverata di un tecnico”.
2. Il necessario bilanciamento tra l’attuazione di procedure semplificate ed il rispetto delle prescrizioni urbanistiche
Quella della previsione di procedure semplificate è un’esigenza che “accompagna da tempo l’agire dell’amministrazione”[2], coinvolgendo in modo particolare il settore dell’edilizia: lo scopo dichiarato è quello di garantire l’effettiva riduzione di tempi e risorse, al fine di consentire il conseguimento di risultati (giuridici e pratici) secondo procedure più efficienti e veloci. D’altra parte, è chiaro che la prospettiva di semplificazione dei regimi amministrativi deve essere necessariamente bilanciata con il rispetto delle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi, e della disciplina urbanistico-edilizia in generale[3], in una prospettiva di perdurante garanzia della tutela dei molteplici interessi correlati alla salvaguardia del territorio[4].
Questo tipo di dialettica si mostra particolarmente stringente se si prendono in considerazione i profili giuridici che, in ambito urbanistico-edilizio, attengono alla realizzazione degli impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili[5]: l’esigenza di rafforzamento della prospettiva semplificatoria, in chiave acceleratoria, delle procedure amministrative di riferimento tende a declinarsi sul piano dell’esigenza di saldare un binomio tra “efficienza energetica” ed efficienza del “sistema dell’energia”[6]. Al riguardo, può osservarsi che la diffusione di tali tipologie di impianti, da un lato, è “rallentata” dalla persistenza di numerose barriere “burocratiche” ed “economiche”[7] che, sebbene in misura inferiore rispetto al passato, si registrano tutt’oggi persistenti, dall’altro, appare sempre più urgente, a fronte dell’emersione di significative esigenze di stampo ecologico a fronte delle quali si assistite ad una progressiva accelerazione del processo di transizione energetica mediante l’uso delle fonti energetiche rinnovabili.
L’implementazione di tale processo, tuttavia, non comporta l’inverarsi di un regime derogatorio eccezionale e – per quanto maggiormente rileva in questa sede – è indiscusso che l’accelerazione di questo tipo di interventi ha come presupposto imprescindibile la contestuale garanzia della compatibilità urbanistico edilizia degli stessi, da verificarsi caso per caso, in relazione alla fonte energetica rinnovabile di riferimento, ed alle caratteristiche del relativo impianto di produzione[8].
Il quadro normativo e regolatorio, offerto dal d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (“Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità”), dal D.M. 10 settembre 2010 (“Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili”) e dal D.lgs. 3 marzo 2011, n. 28 (“Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE”) - integrato alla luce dei numerosi ulteriori interventi normativi recentemente adottati, prevalentemente in funzione attuativa degli obiettivi fissati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza[9] - delinea un sistema autorizzatorio unitario fondato sulla base di principi che “non tollerano eccezioni sull’intero territorio nazionale, in quanto espressione della competenza legislativa concorrente in materia di energia, di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione”[10], frutto anch’esso dell’esigenza di garanzia della logica del bilanciamento tra accelerazione dei tempi, mediante misure di semplificazione e razionalizzazione procedimentale, e tutela del territorio.
Ciò premesso, tra i procedimenti mediante i quali è possibile realizzare gli interventi de quibus si annoverano: l’Autorizzazione unica, di cui al combinato disposto dell’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003 e dell’art. 5 del d.lgs. n. 28/2011 e s.m.i., la Procedura abilitativa semplificata e la Comunicazione relativa alle attività in edilizia libera, entrambi richiamati dall’art. 6 del d.lgs. n. 28/2011; la dichiarazione di inizio lavori asseverata (art. 6-bis, d.lgs. n. 28/2011).
L’Autorizzazione unica (AU) rappresenta il regime autorizzatorio necessario per la costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentata da fonti energetiche rinnovabili al di sopra di prefissate soglie di potenza e - a seguito dell’ampliamento del campo oggettivo di applicazione determinato dall’art. 56 del d.lgs. n. 76/2020 - anche per la realizzazione di interventi di modifica, potenziamento, rifacimento totale o parziale e riattivazione degli impianti, nonchè delle opere connesse, delle infrastrutture indispensabili alla costruzione e all’esercizio degli impianti stessi e degli interventi consistenti in demolizione di manufatti o in attività di ripristino ambientale. L’ampio ambito di applicazione riflette, evidentemente, il “fine esplicito di semplificare le procedure autorizzative e poter usufruire di una disciplina più favorevole alla effettiva diffusione dei predetti impianti”[11].
L’istituto in questione sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato che sarebbe stato necessario secondo il normale ordine delle competenze, costituendo titolo a costruire e porre in esercizio l’impianto, le opere e le infrastrutture indispensabili in conformità alle regole dettate dall’ordinamento[12].
Sotto il profilo procedurale, l’autorizzazione unica è rilasciata dalla regione o dalla provincia a ciò delegata, ovvero, per impianti con potenza termica installata pari o superiore ai 300 MW, dal Ministero dello sviluppo economico, nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell’ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico. Un profilo di notevole rilievo – anche in merito alla pronuncia in commento – è rappresentato dalla circostanza che il provvedimento autorizzatorio può costituire, ove occorra, variante allo strumento urbanistico. A tal fine la Conferenza dei servizi è convocata dalla regione o dal Ministero dello sviluppo economico entro trenta giorni dal ricevimento della domanda di autorizzazione. Per gli impianti offshore e per gli impianti di accumulo idroelettrico attraverso pompaggio puro, infine, sono stati introdotti meccanismi procedurali specifici, i quali sono stati recentemente riformati ad opera del d.l. n. 17/2022, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 34/2022[13].
Ciò che connota nello specifico l’iter procedurale dell’autorizzazione unica è che essa è rilasciata a seguito di un “procedimento unico”, al quale sono chiamate a partecipare le diverse amministrazioni interessate, procedimento la cui durata non può essere superiore a novanta giorni, “al netto” dei tempi previsti dall’art. 26 del d.lgs. n. 152/2006 per il provvedimento di valutazione di impatto ambientale[14]. Si tratta, dunque, di un istituto complesso, volto a perseguire, al contempo, lo scopo della semplificazione procedimentale e la garanzia della maggiore efficacia e completezza dell’attività istruttoria, nel cui ambito le diverse e complesse valutazioni che la pubblica amministrazione è chiamata a svolgere sono integrate in un contesto procedimentale unitario. Come noto, tale logica è sostanzialmente applicata anche ad altri procedimenti semplificati, il cui modello di riferimento è rappresentato dall’Autorizzazione Integrata Ambientale di cui al Titolo III-bis del d.lgs. n. 152/2006[15].
La Procedura abilitativa semplificata, invece, introdotta dal legislatore del 2011 in sostituzione della DIA, concerne la realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti energetiche rinnovabili al di sotto di prefissate soglie di potenza (oltre le quali si ricorre alla Autorizzazione unica), nonchè per alcune tipologie di impianti di produzione di caldo e freddo alimentate da fonti energetiche rinnovabili[16]. Il campo oggettivo di applicazione della procedura abilitativa semplificata è stato recentemente assoggettato ad un processo di ampliamento, intrapreso con il d.lgs. n. 199/2021 – il quale vi ha incluso le opere connesse e le infrastrutture necessarie alla costruzione e all’esercizio di alcune tipologie di impianti di produzione di biometano (art. 8-bis) e di elettrolizzatori (art. 38) – e poi proseguito ad opera del d.l. n. 17/2022, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 34/2022, il quale, ad esempio, vi ha incluso, a determinate condizioni, l’attività di realizzazione e di esercizio di alcune tipologie di impianti solari fotovoltaici flottanti (art. 9-ter), oltre ad aver disposto in funzione del riordino delle prescrizioni per le piccole utilizzazioni locali di calore geotermico ed alla definizione delle ipotesi in cui si applica la procedura abilitativa semplificata (art. 15).
Per quanto attiene ai profili di carattere procedurale, la PAS deve essere presentata al Comune almeno trenta giorni prima dell’effettivo inizio lavori, accompagnata da una dettagliata relazione, a firma di un progettista abilitato, e dagli opportuni elaborati progettuali, attestanti la compatibilità del progetto con gli strumenti urbanistici approvati e i regolamenti edilizi vigenti, la non contrarietà agli strumenti urbanistici adottati, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie. In coerenza con la qualificazione di attività liberalizzata, una volta trascorso il termine di trenta giorni dalla presentazione della PAS senza riscontri o notifiche da parte del Comune, l’attività di costruzione deve ritenersi assentita[17].
Descritti brevemente i caratteri (e le distinzioni) propri dei due modelli procedurali (AU e PAS), è possibile soffermarsi nel dettaglio sulle dinamiche della vicenda in esame. Come detto, i soggetti interessati hanno ritenuto di poter realizzare una serie di impianti a biomasse su un terreno ricadente in una zona con riferimento alla quale il regolamento urbanistico ammetteva la realizzazione di soli interventi di manutenzione straordinaria, invocando a tal scopo una norma del Regolamento edilizio comunale che qualificava proprio come manutenzione straordinaria “l’installazione di impianti relativi alle fonti rinnovabili di energia”, ritenendo di interpretare la stessa nel senso che nel territorio comunale fosse ammesso che le centrali alimentate a biomasse potessero essere considerate in ogni caso da includere, ex se e a prescindere dalle caratteristiche strutturali, tra gli interventi realizzabili in regime di manutenzione straordinaria, in deroga a quanto disposto dalla normativa regionale e statale di riferimento. Appare evidente l’errore nel quale il privato è incorso, aderendo ad una interpretazione non condivisibile della norma del regolamento edilizio comunale e della collocazione della stessa nell’ambito del sistema delle fonti. Come espressamente ricordato dal Collegio giudicante, infatti, essa non può rivestire “alcuna valenza costitutiva, nel senso di introdurre una nuova categoria di interventi di manutenzione straordinaria, distinta ed aggiuntiva a quelle contemplate dalla legge statale e regionale, ritenendo, invece, che essa assuma una “più limitata funzione specificativa e chiarificatoria”, quale “unica compatibile con la natura di fonte secondaria dell’atto in cui è contenuta”.
Non può tacersi, tuttavia, che, sotto il profilo letterale, la disposizione del regolamento edilizio non sembrava lasciare spazio alcuno all’interpretazione, laddove inquadrava nell’ambito della categoria degli interventi di manutenzione straordinaria qualsiasi installazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, senza specificare alcune distinzione di tipo funzionale o tipologico. Nella decisione in commento, in effetti, traspare una certa difficoltà del Collegio giudicante nell’individuazione della valenza da attribuire a tale previsione, tanto da limitarsi (lasciando intendere di non potere fare altro che limitarsi) a riconoscere alla stessa una funzione di tipo chiarificatorio.
A ben vedere, invero, è innegabile che i privati siano stati “indotti” in errore dall’amministrazione, autrice di una norma del regolamento edilizio che formalmente avrebbe dovuto avere un carattere chiarificatorio, ma che, nella sostanza, appare piuttosto ambigua e “sviante”. In tale ottica, nella vicenda esaminata potrebbe prospettarsi la sussistenza di una lesione del legittimo affidamento dei privati[18] e, di conseguenza – laddove sollecitato in tal senso – il Collegio avrebbe, forse, potuto raggiungere una conclusione diversa almeno con riferimento alla condanna alle spese del giudizio. In particolare, lungo la linea argomentativa proposta, ci si chiede se, l’emersione, in sede processuale, dell’avvenuta lesione del legittimo affidamento ad opera dell’amministrazione resistente avrebbe potuto integrare la sussistenza di una delle “altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”, che – secondo la prospettiva di cui alla ricostruzione offerta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 77/2018[19] con riferimento all’art. 92 c.p.c., richiamato dall’art. 26 c.p.a. – è idonea a giustificare la compensazione delle spese del giudizio[20].
Richiamando, poi, l’attenzione al capo della sentenza in commento che attiene al rapporto tra procedure semplificate e strumenti urbanistici, è di particolare interesse quell’impostazione argomentativa proposta dal Collegio volta a segnare una linea di demarcazione tra la procedura abilitativa semplificata e l’autorizzazione unica, sottolineando come, mentre nel primo caso l’ordinamento vigente richieda la piena compatibilità tra l’intervento e la normativa urbanistico-edilizia dell’area, nel secondo caso viene espressamente affermato che l’Autorizzazione unica può anche comportare una variante allo strumento urbanistico.
La tematica stimola una ulteriore riflessione di carattere eziologico, volta ad indagare la ragione che risiede alla base della sussistente distinzione di fondo e che sembra trovare una giustificazione nel fatto che, nella fattispecie dell’autorizzazione unica, la semplificazione è funzionale esclusivamente alla garanzia di tempi brevi ed al coordinamento tra amministrazioni, non comportando un “arretramento” della funzione, come invece avviene in caso di PAS, in relazione alla quale, configurandosi un modello procedimentale liberalizzato, l’esercizio della funzione non è collocato ex ante (sub specie di autorizzazione), bensì ex post (sub specie di controllo). Del resto, come già si è avuto modo di evidenziare, la semplificazione “estrema” della procedura abilitativa semplificata non può che giustificarsi unicamente a fronte della piena compatibilità tra l’intervento e la normativa urbanistico-edilizia di riferimento.
3. L’incerta portata applicativa dei Piani regionali per la individuazione dei siti non idonei
Meno esplicativo appare, invece, il passaggio della sentenza che si occupa della questione che attiene al ruolo del Piano per la individuazione dei siti non idonei nell’ambito della definizione dei criteri della localizzazione degli impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili. Al riguardo, il Collegio segue un iter argomentativo che, sulla base di una lettura di tipo teleologico della disciplina di cui al d.m. 10 settembre 2010, attribuisce al piano in questione non già la funzione di predeterminare l’idoneità – sul piano generale e a prescindere dalla compatibilità urbanistico-edilizia – di tutti i siti non esclusi, quanto, piuttosto, quella, più limitata, “di offrire agli operatori un quadro certo e chiaro di riferimento e orientamento per la localizzazione dei progetti”, allo scopo di negare, a valle di tale ragionamento, che lo stesso abbia l’effetto di determinare, in via automatica e presuntiva, la compatibilità urbanistica dell’intervento da realizzare nei siti non presenti nel piano regionale.
La questione di fondo è strettamente legata alla tematica che concerne il “margine” di intervento della regione nella sede di indicazione di aree e siti non idonei alla installazione degli impianti FER ad alle ricadute di tale indicazione sulla pianificazione urbanistico-edilizia. Sul punto è intervenuta in più occasioni la Corte costituzionale, osservando in primo luogo che l’inquadrabilità dell’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003, e delle linee guida nell’alveo dei principi fondamentali della materia dell’energia, di competenza concorrente, “non permette che le Regioni prescrivano limiti generali, valevoli sull’intero territorio regionale”[21]. Inoltre, posto che alle “Linee guida” è attribuita la funzione di indicare “i criteri e i principi che le Regioni devono rispettare al fine di individuare le zone nelle quali non è possibile realizzare gli impianti alimentati da fonti di energia alternativa”, la Consulta chiarisce che le Regioni non possono porre limiti “in assoluto” all’installazione di impianti FER, bensì sono tenute alla “individuazione di puntuali aree non idonee alla installazione di specifiche tipologie di impianti secondo le modalità di cui all’allegato 3 (paragrafo 17) del d.m. del 2010”[22], atteso che la ratio del criterio residuale deve essere individuata nel “principio della massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, derivante dalla normativa europea”[23]. Tale individuazione, una volta effettuata alla luce dei principi che precedono, giustifica poi pienamente “il diniego di rilascio della autorizzazione, senza necessità di alcuna valutazione specifica del concreto impatto ambientale del costruendo impianto”[24].
Ciò posto, secondo l’approccio interpretativo cui sembra aderire la pronuncia in esame, la declaratoria di “non idoneità” in assoluto di un sito sembrerebbe essere funzionale unicamente ad individuare quelle aree per le quali non è in alcun modo ipotizzabile realizzare l’impianto[25]. Tuttavia, anche tale assunto non è scevro da possibili censure. Sul punto, infatti, deve in primo luogo segnalarsi come lo stesso dettato normativo appaia poco chiaro nella misura in cui, da un lato, esclude espressamente che l’individuazione delle aree e dei siti non idonei possa configurare un “divieto preliminare” (cfr. l’allegato 3 al d. m. 10 settembre 2010 cit.) e, dall’altro lato, sancisce che l’individuazione della non idoneità dell’area è operata attraverso l’identificazione di obiettivi di protezione “i quali determinerebbero, pertanto, una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione”[26], non escludendo così, almeno apparentemente, una possibile verifica in concreto circa la fattibilità o meno dell’intervento anche in tali aree. A ciò deve aggiungersi come la giurisprudenza tenda a ritenere che le scelte regionali che confluiscono nel Piano per la individuazione dei siti non idonei – lungi dal configurare disposizioni a carattere conformativo – “suggeriscono possibilità alla pianificazione regionale e sono prive di carattere precettivo immediato per i terzi”[27].
Resta, dunque, “aperta” la questione su quale sia, in concreto, la funzione che residuerebbe in capo a tale tipologia di Piano. Ciò non toglie, naturalmente, che – al di fuori di quei siti considerati non idonei dal piano – permane l’esigenza di verificare caso per caso la compatibilità dell’intervento con tutti gli altri interessi pubblici coinvolti, primo fra tutti quello al razionale assetto urbano, nella prospettiva, tuttavia, secondo la quale le infrastrutture strumentali alla produzione di energia da fonti rinnovabili “sono ormai considerate elementi normali del paesaggio”[28].
Da ultimo – sebbene estraneo alla vicenda in esame – appare utile rinviare al recente d.lgs. n. 199/2021, il quale, oltre ad incidere sulla disciplina che concerne la procedura di individuazione delle aree “non idonee”, affianca alla stessa un nuovo meccanismo per l’individuazione delle superfici e le aree “idonee” all’installazione di impianti FER, in funzione dell’attuazione degli obiettivi del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC). In particolare, ai sensi dell’art. 20 (Disciplina per l’individuazione di superfici e aree idonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili)[29], con uno o più decreti interministeriali[30] dovranno essere stabiliti “principi e criteri omogenei per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili aventi una potenza complessiva almeno pari a quella individuata come necessaria dal PNIEC per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo delle fonti rinnovabili”. Assume particolare interesse, evidentemente, il chiaro mutamento di prospettiva: non ci si propone più solo di individuare i luoghi ove non è possibile localizzare impianti FER, in chiave meramente “escludente”, bensì – in un’ottica di tipo propositivo – si chiede alle amministrazioni competenti di selezionare le aree che meglio si prestano ad accogliere tale tipo di intervento, anche attraverso l’individuazione delle azioni necessarie per la minimizzazione del relativo impatto ambientale, nonché la valorizzazione di aree industriali dismesse e di altre aree compromesse o abbandonate (in piena coerenza con le politiche di riduzione del consumo di suolo).
Al fine di evitare una futura impropria interpretazione del significato da attribuire alla suddetta selezione delle “aree idonee”, del tutto opportunamente, lo stesso art. 20 cit. specifica che “le aree non incluse tra le aree idonee non possono essere dichiarate non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale ovvero nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee”. Ancora una volta, pertanto, viene espressamente ribadita la necessità di una valutazione caso per caso, derivante dall’irrinunciabile operazione di bilanciamento tra i diversi e contrastanti interessi pubblici coinvolti nella scelta de qua.
4. Esigenze di chiarezza regolativa e di uniformità nella qualificazione degli interventi di realizzazione di impianti FER
In uno scenario caratterizzato dalla complessità dei principi, delle regole e degli istituti connessi al settore urbanistico-edilizio, la garanzia di una chiara classificazione degli interventi edilizi, al fine di consentire all’interprete di desumerne agevolmente il regime amministrativo, assume un ruolo centrale, nell’ottica della garanzia della certezza delle regole e di tutela del legittimo affidamento del privato[31].
Come già osservato, nella vicenda in esame, il Comune ha adottato un regolamento edilizio nel cui ambito è ricompresa una norma che qualifica come intervento di manutenzione straordinaria “l’installazione di impianti relativi alle fonti rinnovabili di energia”. A tal proposito, la decisione in commento pone, anzitutto, l’accento sul regime dei titoli abilitativi, inclusi nell’ambito di principi fondamentali della materia concorrente del «governo del territorio», tali da vincolare la legislazione regionale di dettaglio: in tale ottica, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve risultare coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia. Tale “esigenza di uniformità”, segnala il Collegio, sarebbe “all’evidenza, gravemente pregiudicata laddove fosse consentito al regolamento edilizio comunale di disciplinare le categorie di intervento in contrasto sia con la legge regionale che con quella nazionale”.
L’impostazione appare, del resto, coerente con gli approdi della giurisprudenza costituzionale circa la portata dei principi fondamentali riservati alla legislazione statale nelle materie di potestà concorrente, laddove si è evidenziato che “il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio (…) deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere questi obiettivi”, e che, con riferimento alla competenza legislativa statale in materia di governo del territorio, essa è giustificata dalla prospettiva di “garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni”[32].
Com’è noto, il legislatore statale ha recentemente dato prova di voler rafforzare la prospettiva di “uniformità” di cui si è detto. Ci si riferisce, in particolare, all’adozione del d.lgs. n. 222/2016 recante “Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, si sensi dell’art. 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124” (c.d. decreto “SCIA 2”). Tale decreto sorge espressamente con l’intento di assolvere all’ambizioso obiettivo di offrire una mappatura, una “precisa individuazione delle attività oggetto di procedimento, anche telematico, di comunicazione o segnalazione certificata di inizio di attività o di silenzio assenso, nonché quelle per le quali è necessario il titolo espresso” (art. 1, comma 2), consentendo l’individuazione delle attività economiche nell’ambito dell’allegata Tabella A, strutturata in tre sezioni: I Sezione “Attività commerciali e assimilabili”; II Sezione “Edilizia”; III Sezione “Ambiente”[33].
Ebbene, per quanto maggiormente rileva in questa sede, deve osservarsi che il legislatore – pur proponendosi di identificare ogni tipo di intervento e il corrispondente regime amministrativo – sembra aver “dimenticato” i volumi tecnici, con la conseguenza che il regime giuridico cui sono soggetti tali interventi edilizi ancora difetta di una chiara definizione. Del resto, nel panorama giuridico vigente, è il concetto stesso di volume tecnico, a non essere stato chiaramente definito dal legislatore, essendo esso ancora oggi per lo più demandato alla interpretazione del giudice amministrativo[34]. Un tentativo in tal senso si è registrato in occasione della stipulazione dell’Intesa tra Governo, Regioni e Autonomie locali del 20 ottobre 2016, con la quale sono stati approvati lo schema di Regolamento edilizio-tipo[35] e i relativi allegati A e B, recanti rispettivamente le definizioni uniformi e la raccolta delle disposizionisovraordinate in materia edilizia. In particolare, nel citato “allegato A”, tra le 42 voci ivi elencate, è presente quella dedicata al “volume tecnico” (nella specie, la trentunesima) secondo la quale “sono volumi tecnici i vani e gli spazi strettamente necessari a contenere ed a consentire l’accesso alle apparecchiature degli impianti tecnici al servizio dell’edificio (idrico, termico, di condizionamento e di climatizzazione, di sollevamento, elettrico, di sicurezza, telefonico ecc.)”. Dalla lettura di tale definizione emerge chiaramente il tentativo di mettere in risalto la condizione necessaria affinchè un manufatto possa essere inquadrato come volume tecnico, oltre che di raccogliere, all’interno di una definizione uniforme, una serie di fattispecie la cui configurazione urbanistico/edilizia è stata oggetto di dibattito, soprattutto in sede giurisprudenziale, nel corso degli anni. Sembrerebbe, in realtà, essersi realizzato uno scopo eminentemente esemplificativo di cosa debba intendersi per volume tecnico, per il tramite di un’elencazione assai ampia, e non tassativa, delle fattispecie interessate, che non appare pienamente in grado di consentire il superamento di alcuni problemi interpretativi e applicativi persistenti.
Ciò premesso, nel caso oggetto di esame, il Collegio era chiamato a verificare se l’impianto alimentato da fonti energetiche rinnovabili, come progettato dalle parti ricorrenti, fosse o meno qualificabile come “volume tecnico”. Nella specie il giudice inquadra la nozione di volume tecnico come riguardante “solo i volumi necessari a contenere ed a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono, per esigenze di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche”, afferente “a opere edilizie di limitata consistenza volumetrica e completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali di tale costruzione”[36]. In tale ottica, si afferma dunque che l’impianto a biomasse de quo presentava caratteristiche “strutturali e funzionali incompatibili con la qualificazione quale mero volume tecnico strettamente funzionale al riscaldamento delle serre di proprietà del privato”, avendo rilevato che, sotto il profilo strutturale, l’intervento di che trattasi consisteva in un complesso impiantistico con caratteristiche planovolumetriche e di sagoma “profondamente diverse” da quello precedente, consistente in un’unica centrale termica. Sul piano funzionale, poi, esso non risultava “strettamente ed esclusivamente servente alle serre di proprietà del privato, in quanto destinato a produrre energia elettrica che verrà ceduta ad ENEL”, circostanza, questa, che il Collegio ritiene essere idonea a configurare un “indice dell’autonomia funzionale dell’impianto, a prescindere dal rilievo che la produzione di energia elettrica, al pari di quella termica, è diretta conseguenza del processo di cogenerazione degli impianti”, atteso che la “produzione di energia elettrica destinata alla cessione sul mercato, infatti, è incompatibile con l’asserita finalità strettamente servente alle esigenze di riscaldamento dell’azienda agricola e conduce, unitamente alle caratteristiche strutturali, a qualificare l’intervento come volto alla realizzazione di un impianto autonomo piuttosto che di un mero volume tecnico”.
Le conclusioni alle quali giunge il giudice appaiono, in effetti, coerenti con quell’orientamento maggioritario della giurisprudenza amministrativa relativo alla nozione di volume tecnico, inteso quale manufatto privo di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, essendo destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima[37]. Alla luce delle considerazioni svolte in premessa, tuttavia, ancora una volta la lacuna normativa che attiene alla definizione della nozione e del regime amministrativo applicabile al volume tecnico ha senza alcun dubbio contribuito a determinare l’errore in cui sono incorsi i privati nella errata configurazione del regime amministrativo applicabile all’intervento edilizio progettato.
5. Conclusioni. Il processo di transizione energetica richiede certezza sul “cosa” e sul “come”
La promozione dell’uso delle fonti energetiche rinnovabili rappresenta una tra le principali linee direttrici[38] che connotano l’attuale processo di transizione energetica[39], evidentemente centrale nell’ambito del coevo e più ampio percorso di transizione ecologica in atto[40]. Gli effetti dei cambiamenti climatici sugli equilibri del pianeta[41] e le sempre più stringenti urgenze legate ad una vera rivoluzione verde[42], incidono inevitabilmente sul bilanciamento degli interessi nelle politiche di governo del territorio[43], provocando l’insorgere di questioni complesse che, nell’ottica della sostenibilità e del contemperamento tra esigenze di tutela dell’ambiente e di sviluppo economico[44], richiedono la sollecita individuazione di nuovi rimedi e soluzioni.
Questa prospettiva emerge con evidenza dalla lettura degli obiettivi dell’Agenda 2030 for Sustainable Development[45], programma d’azione promosso dall’ONU, al cui interno il tema dello sviluppo della produzione di energia rinnovabile rileva nei goals 7, 11 e 12. Nel dettaglio, nell’ambito del goal 7 (Energia pulita e accessibile), si pone, tra l’altro, l’obiettivo di incrementare notevolmente la quota di energie rinnovabili nel mix energetico globale (target 7.2.); rafforzare la cooperazione internazionale per facilitare l’accesso alla tecnologia e alla ricerca di energia pulita, comprese le energie rinnovabili, all’efficienza energetica e alla tecnologia avanzata e alla più pulita tecnologia derivante dai combustibili fossili, e promuovere gli investimenti nelle infrastrutture energetiche e nelle tecnologie per l’energia pulita (target 7.a); espandere l’infrastruttura e aggiornare la tecnologia per la fornitura di servizi energetici moderni e sostenibili per tutti i paesi in via di sviluppo (target 7.b). Nell’ambito del goal 11 (Città e comunità sostenibili), merita una specifica attenzione l’obiettivo di “aumentare notevolmente il numero di città e di insediamenti umani che adottino e attuino politiche e piani integrati verso l’inclusione, l’efficienza delle risorse, la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, la resilienza ai disastri”. Il goal 12 (Consumo e produzione responsabili), infine, dedica particolare attenzione all’obiettivo di garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo (target12.2.).
La prospettiva delineata appare, poi, pienamente coerente anche con la costruzione del piano di investimento europeo Green New Deal[46], che declina (in modo molto più marcato rispetto al passato) il binomio clima-energia in chiave di tutela dell’ambiente, nell’ottica di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, e di contestuale ripensamento delle politiche per l’approvvigionamento di energia pulita nei diversi settori dell’economia: industria, produzione e consumo, grandi infrastrutture, trasporti, prodotti alimentari e agricoltura, edilizia, tassazione e prestazioni sociali (par. 2.1.).
Com’è noto, tra l’altro, al tempo della (ancora presente) crisi pandemica da Covid-19, le politiche ambientali ed energetiche dell’Unione si sono intrecciate con la necessità di predisporre un piano di ripresa dell’economia europea, nel cui ambito “la transizione energetica viene concepita al tempo stesso come un pilastro della tutela dell’ambiente e del clima e come uno strumento di rilancio economico”[47]. All’interno della cornice delineata dal Next generation Eu Programme[48], pertanto, il PNRR italiano dedica ampio spazio alla promozione del processo di transizione energetica. Come noto, infatti, la “Missione 2” del Piano (Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica) consta, tra le altre, delle componenti C2. “Energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile” e C3. “Efficienza energetica e riqualificazione degli edifici”.
In conclusione, gli obiettivi che – in adesione alle politiche internazionali ambientali ed energetiche – l’Italia si è posta negli ultimi anni appaiono particolarmente ambiziosi e necessitano di essere supportati da indispensabili interventi strutturali. Le criticità emerse dall’analisi della pronuncia in commento, quali aporie normative, incertezze interpretative del quadro regolatorio di riferimento, rigidità del regime delle competenze, rischiano di minare ex ante il conseguimento dei traguardi prefissati. Il richiamato processo di transizione energetica, nello specifico, non può prescindere da: a) un quadro regolatorio chiaro: l’assetto normativo che fa da cornice al settore delle fonti energetiche rinnovabili è ancora estremamente frammentato e foriero di dubbi ed incertezze interpretative che, tra l’altro, alimentano il contenzioso. È, dunque, auspicabile che il legislatore adotti un intervento normativo unitario del settore; b) un assetto delle competenze ben definito: nell’ottica di una corretta ed effettiva applicazione dei principi e delle regole che dominano l’azione amministrativa, è necessario che il legislatore assegni in modo chiaro le diverse competenze il cui esercizio incide, direttamente o indirettamente, sul settore energetico, definendone i relativi ambiti di applicazione; c) una programmazione (anche degli strumenti incentivanti) certa e stabile: le recenti riforme hanno certamente il merito di aver implementato la semplificazione e l’accelerazione del regime amministrativo relativo alla realizzazione di impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili; tale prospettiva semplificatoria, tuttavia, non sempre è stata affiancata da un adeguato sistema di “incentivazione”, in una prospettiva di riduzione dei costi di produzione dell’energia “pulita” e, conseguentemente, di agevolazione nell’accesso al mercato di settore[49].
*Il presente contributo è frutto di una riflessione comune tra gli autori. Tuttavia, Marco Calabrò è autore dei parr. 3 e 5, mentre Laura Pergolizzi è autrice dei parr. 1, 2 e 4.
[1] Previsione analoga, in effetti, non è contemplata all’interno dell’art. 6 del d.lgs. n. 28/2011, ove sono disciplinati il procedimento e gli effetti della PAS.
[2] M.A. Sandulli, Il procedimento amministrativo e la semplificazione, in www.ius-publicum.com: “L’amministrazione (…) nell’esperienza delle numerose funzioni pubbliche esercitate e dei servizi pubblici erogati ha registrato un eccessivo impiego di tempo e di risorse che ha sovente finito per pregiudicare gli stessi interessi alla cui cura è rivolto l’apparato pubblico. A questa caratteristica disfunzione del sistema – talvolta connaturata alle dimensioni che ha assunto l’amministrazione pubblica in proporzione al moltiplicarsi degli interessi chiamata a soddisfare – l’ordinamento ha giustapposto da un lato una serie di principi cui devono essere informate l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione diretti a rafforzare il parametro dell’efficienza dell’azione amministrativa in modo che essa non diventi diseconomica ed inefficace, e dall’altro, in applicazione di tali principi, una serie di strumenti specificamente deputati al contenimento dei tempi del procedimento amministrativo e a facilitare la realizzazione degli interessi dei privati”.
[3] P. Stella Richter, Diritto urbanistico. Manuale breve, Milano, 2022; G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019.
[4] P. L. Portaluri, C. Napolitano, L’ambiente e i piani urbanistici, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2021, 242 ss.
[5] G. M. Caruso, Fonti energetiche rinnovabili, in G. Rossi (a cura di) Diritto dell’ambiente, Torino, 2021, 471 ss.; F. de Leonardis, Il diritto dell’economia circolare e l’art. 41 Cost., in Riv. quadr. dir. ambiente, 2020, 1, 58 ss.; A. Moliterni, La regolazione delle fonti energetiche rinnovabili tra tutela dell’ambiente e libertà di iniziativa economica privata: la difficile semplificazione amministrativa, in www.federalismi.it, 2017.
[6] Cfr. P. Biandrino, M. De Focatiis (a cura di), Efficienza energetica ed efficienza del sistema dell'energia: un nuovo modello?, Padova, 2017.
[7] D. Ardolino, Produzione di energia da fonti rinnovabili: barriere amministrative e sociali e misure di compensazione, in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 190 ss.
[8] Cfr. G.D. Comporti, S. Lucattini, Orizzonti del diritto dell’energia. Innovazione tecnologica, blockchain e fonti rinnovabili, Napoli, 2020; G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, cit.
[9] A scopo meramente esemplificativo, si riporta, di seguito una breve ricognizione dei principali interventi normativi che, dal 2020, hanno interessato, direttamente o indirettamente, la materia energetica, incidendo anche sul piano del sistema delle procedure: d.l. 19 maggio 2020, n. 34: «Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonchè di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19»; d.l. 16 luglio 2020, n. 76: «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale», convertito con modificazioni dalla l. 11 settembre 2020, n. 120; d.l. 31 maggio 2021, n. 77: «Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure», convertito con modificazioni dalla l. 29 luglio 2021, n. 108; d.l. 6 novembre 2021, n. 152: «Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose» convertito, con modificazioni, dalla l. 29 dicembre 2021, n. 233; d.lgs. 8 novembre 2021, n. 199: Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili; d.l. 1 marzo 2022, n. 17, coordinato con la legge di conversione 27 aprile 2022, n. 34: «Misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali».
[10] Corte cost., 20 aprile 2012, n. 99.
[11] Cfr. Documentazione dei Servizi e degli Uffici del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale, vol. II, 6 settembre 2020, 245 ss. Sebbene non espressamente specificato dalla norma, la relazione illustrativa al decreto legge mette in evidenza come l’opera di semplificazione delle procedure amministrative preposte alla realizzazione di impianti di produzione di fonti rinnovabili introdotte dalla riforma si sia resa necessaria alla luce degli obiettivi del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC).
[12] Per un approfondimento dell’istituto cfr. N. Durante, Il procedimento autorizzatorio per la realizzazione di impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili: complessità e spunti di riflessione, alla luce delle recenti linee guida nazionali, in Riv. giur. ed., 2011, 73 ss.; C. Vivani, I procedimenti di autorizzazione alla realizzazione e alla gestione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, in Urb. e. app., 2011, 775.
[13] Art. 13, d.l. n. 17/2022, coordinato con la legge di conversione n. 34/2022.
[14] Sulla natura perentoria del termine di conclusione del procedimento per il rilascio dell’Autorizzazione Unica, cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 aprile 2014, n. 2184, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Per una completa analisi dei caratteri dell’AIA si rinvia a M. Calabrò, Semplificazione procedimentale ed esigenze di tutela ambientale: l’autorizzazione integrata ambientale, in Riv. giur. urb., 2012, 201 ss.
[16] Nel dettaglio, l’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 28/2011 dispone che, “ferme restando le disposizioni tributarie in materia di accisa sull’energia elettrica, per l’attività di costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili di cui ai paragrafi 11 e 12 delle linee guida, adottate ai sensi dell’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387/2003” si applica la “procedura abilitativa semplificata”.
[17] Il comma 11 dell’art. 6, d.lgs. n. 28/2011 è, invece, dedicato al terzo modello procedimentale relativo alla realizzazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, ovvero quello della comunicazione al Comune relativa ad alcune tipologie di piccoli impianti per la produzione di energia elettrica, calore e freddo da FER, assimilabili ad attività edilizia libera. La norma citata dispone che “La comunicazione relativa alle attività in edilizia libera, di cui ai paragrafi 11 e 12 delle linee guida adottate ai sensi dell’articolo 12, comma 10 del d. lgs. n. 387/2003 continua ad applicarsi, alle stesse condizioni e modalità, agli impianti ivi previsti. Le Regioni e le Province autonome possono estendere il regime della comunicazione di cui al precedente periodo ai progetti di impianti alimentati da fonti rinnovabili con potenza nominale fino a 50 kW, nonché agli impianti fotovoltaici di qualsivoglia potenza da realizzare sugli edifici, fatta salva la disciplina in materia di valutazione di impatto ambientale e di tutela delle risorse idriche, fermi restando l’articolo 6-bis e l’articolo 7-bis, comma 5”. Tale comma è il frutto di una recente modifica ad opera dell’art. 56, comma 1, lett. c) del d.l. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 120/2020. L’art. 6-bis è, infine, dedicato alla dichiarazione di inizio lavori asseverata, ammessa in relazione agli interventi su impianti esistenti e le modifiche di progetti autorizzati che, senza incremento di area occupata dagli impianti e dalle opere connesse e a prescindere dalla potenza elettrica risultante a seguito dell’intervento, ricadono in alcune specifiche categorie ivi elencate.
[18] Cfr. F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, Milano, 2001; A. Gigli, Nuove prospettive di tutela del legittimo affidamento nei confronti del potere amministrativo, Napoli, 2016; E. Zampetti, Il principio di tutela del legittimo affidamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 173 ss.
[19] N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Napoli, 2021, 429.
[20] F. Orso, Il ricorso al giudice amministrativo tra l’irrilevanza della forma dell’atto introduttivo e la difesa di un modello processuale, in Dir. pubbl., 2020, 2. Con riferimento alle categorie che compongono i “costi” del processo amministrativo ed alle diverse funzioni dalle stesse assolte, cfr. R. Fusco, Spese di giudizio e poteri del giudice amministrativo: la condanna forfettaria (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547), in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[21] Corte cost., 19 giugno 2019, n. 148.
[22] Corte cost., 16 luglio 2014, n. 199.
[23] Cfr. Corte cost., 11 ottobre 2012, n. 224, laddove, rilevando che tale criterio residuale “trova attuazione nella generale utilizzabilità di tutti i terreni per l’inserimento di tali impianti, con le eccezioni, stabilite dalle Regioni, ispirate alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti nell’ambito delle materie di competenza delle Regioni stesse”, si mette in evidenza che “ove la scelta debba essere operata da Regioni speciali, che possiedono una competenza legislativa primaria in alcune materie, nell’ambito delle quali si possono ipotizzare particolari limitazioni alla diffusione dei suddetti impianti, l’ampiezza e la portata delle esclusioni deve essere valutata non alla stregua dei criteri generali validi per tutte le Regioni, ma in considerazione dell’esigenza di dare idonea tutela agli interessi sottesi alla competenza legislativa statutariamente attribuita”.
[24] Cons. Stato, Sez. V, 31 maggio 2019, n. 3670, in www.giustizia-amministrativa.it; in termini, Cons. Stato, Sez. V, 15 gennaio 2013, n. 176, in www.gustizia-amministrativa.it.
[25] In termini, cfr. T.A.R. Toscana, Sez. III, 13 gennaio 2015, n. 36, in www.giustizia-amministrativa.it: “Invero, gli atti di individuazione dei siti non idonei alla installazione di impianti fotovoltaici, diversamente dagli strumenti urbanistici generali, che costituiscono la sintesi di una pluralità di interessi pubblici e privati, sono volti a contemperare interessi specifici e ben individuati ai quali il legislatore attribuisce una rilevanza pubblicistica, ossia quello alla incentivazione degli impianti di produzione di energie rinnovabili e quello alla tutela del paesaggio. Il contemperamento di tali interessi deve avvenire attraverso una procedura volta a dare concreta evidenza sulla base di criteri puntualmente determinati delle ragioni ambientali per cui gli enti preposti ritengono di precludere in determinate aree la installazione di impianti fotovoltaici”.
[26] Cfr. art. 17, co.1, d m. 10 settembre 2010.
[27] Cons. Stato, Sez. IV, 29 novembre 2018, n. 6773, in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 17 dicembre 2010, n. 904, in Foro amm.-TAR, 3/2011, 753, con nota di P. Lombardi, Il favor legislativo per le fonti energetiche rinnovabili quale elemento idoneo a fondare il fumus boni iuris per l'accoglimento di una istanza cautelare?
[29] Articolo modificato ad opera del d.l. n. 17/2022 (Misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali) convertito, con modificazioni, dalla l. n. 34/2022.
[30] Sono coinvolti nel procedimento, in particolare, il Ministro della transizione ecologica, il Ministro della cultura e il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
[31] M.A. Sandulli, Il regime dei titoli abilitativi edilizi tra semplificazione e contraddizioni, in Riv. giur. edilizia, 2013, 301 ss.
[32] Corte cost., 20 novembre 2014, n. 259; Corte cost., 13 giugno 2013, n. 139; Corte cost., 29 maggio 2013, n. 102, tutte in www.giurcost.org. In dottrina, cfr. S. Tuccillo, La Corte costituzionale e i limiti all’autonomia regionale nella disciplina degli istituti del procedimento amministrativo. Livelli essenziali delle prestazioni e strumenti di semplificazione, in M.A. Sandulli, Princìpi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, 171 ss.
[33] F. Lorenzotti, I regimi amministrativi degli interventi edilizi dopo il decreto legislativo n. 222 del 2016, in www.ambientediritto.it, 2017.
[34] R. Mazzon, Distanze legali e rapporti di vicinato. Tutela e risarcimento in ambito civile, penale, amministrativo e processuale, Milano, 2022, 112; P. Stella Richter, Dizionario giuridico di urbanistica ed edilizia, Milano, 2020, 249-250; G.G.A. Dato, Nozione di opere pertinenziali nell’ambito del diritto amministrativo, in F.F. Tuccari, S. Toschei, A. Cagnazzo (a cura di), Sanzioni amministrative in materia edilizia, Torino, 2014, 178; G. Guzzo, G. Palliggiano, L’attività edilizia. Titoli, procedure, sanzioni e tutela, Milano, 2011; M. de Tilla, Nozione di costruzione e rispetto delle distanze legali (Nota a Cassazione civile, 3 febbraio 2011, n. 2566, sez. II), in Riv. giur. edilizia, 2011, 5, 1204.
[35] Ai sensi del comma 1-sexies, art. 4, del d.p.r. n. 380/2001, inserito ad opera dell’art. 17-bis, comma 1, d.l. 12 n. 133/2014, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 164/2014, il Governo, le Regioni, e le Autonomie locali concludono, nella Conferenza Unificata accordi o intese «per l’adozione di uno schema di regolamento edilizio tipo al fine di semplificare le norme e gli adempimenti». Da ciò sembrerebbe dunque derivare una “riduzione” dello spazio di manovra attribuito, in forza degli articoli 2, comma 4, e 4, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in capo alle amministrazioni comunali. Cfr. M. R. Spasiano, R. Veniero, Diritto dell’edilizia, in A. Police, M. R. Spasiano (a cura di), Manuale di governo del territorio, Torino, 2016, 126. In generale, sulla disciplina del regolamento edilizio tipo v. S. Tuccillo, Il regolamento edilizio-tipo tra esigenze di uniformità e di salvaguardia delle identità territoriali, in Riv. giur. edilizia, 2017, II, 142 ss.
[36] In termini cfr. Cons. Stato, Sez. II, 19 agosto 2021 n. 5940; Cons. Stato, Sez. VI, 26 aprile 2021 n. 3318, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[37] In termini cfr. T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 9 marzo 2021 n. 584, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Liguria, Sez. I, 29 gennaio 2016 n. 97, in Riv. giur. edilizia, 2016, 3, I, 291. Su tali profili v. anche T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 11 febbraio 2021, n. 388, in Riv. giur. edilizia, 2021, 3, I, 942, ove si afferma che “È illegittimo l’ordine di sospensione dei lavori avviati con una segnalazione certificata di inizio attività per l'installazione di un elevatore all'esterno di un edificio, volto a superare le barriere architettoniche presenti all'interno dello stesso, adducendo la violazione della distanza minima dei fabbricati dai confini di proprietà e di zona prescritta dallo strumento urbanistico generale per gli interventi di nuova costruzione, ampliamento o demolizione e ricostruzione di edifici esistenti. L'intervento in questione, infatti, non consiste in una costruzione strettamente intesa, bensì, nella realizzazione di un volume tecnico, necessario per apportare un'innovazione allo stabile, la cui realizzazione non è soggetta al rispetto delle distanze da altri fabbricati”.
[38] G.F. Cartei, Ambiente e mercato nella disciplina delle energie rinnovabili, in Il diritto dell’economia, 3/2013, 614-615.
[39] M. Calabrò, L. Pergolizzi, The promotion of energy transition in view of urban regeneration: towards a perspective of sustainability, in C. Gambardella (ed.) World Heritage and Design for Health, Roma, 2021, 54 ss.; F. de Leonardis, Il ruolo delle energie rinnovabili nella programmazione energetica nazionale, in G. Napolitano, A. Zoppini (a cura di) Annuario di diritto dell’energia 2013. Regole e mercato delle energie rinnovabili, Bologna, 2013, 131 ss.; E. Scotti, Pandemia, aiuti di stato e transizione ambientale, in U. Malvagna, A. Sciarrone Alibrandi(a cura di), Sistema produttivo e finanziario post covid-19: dall’efficienza alla sostenibilità. Voci dal diritto dell’economia, Roma, 2021, 439 ss.
[40] F. de Leonardis, La transizione ecologica come modello di sviluppo di sistema: spunti sul ruolo delle amministrazioni, in Dir. amm., 2021, 4, 779 ss.
[41] S. Nespor, Considerazioni preliminari su mitigazione e adattamento in tema di cambiamento climatico, in Riv. giur. ambiente, 1/2021, 7 ss.; M. Carducci, Natura, cambiamento climatico, democrazia locale, in Diritto costituzionale, 2020, 3.
[42] L. Giurato, Il percorso della transizione energetica: da un’economia basata sull’energia pulita alla “rivoluzione verde e transizione ecologica” del Recovery Plan, in www.ambientediritto.it, 2021. Sono ormai sempre più frequenti i riferimenti alla “transizione ecologica” che emergono nell’ambito della produzione normativa nazionale. Merita, al riguardo, particolare attenzione la recente riforma, introdotta dal d.l. n. 22/2021, secondo la quale il «Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare» è ridenominato «Ministero della transizione ecologica». Il cambiamento di denominazione ha evidentemente un valore non soltanto formale - rievocando la denominazione già utilizzata in altri Paesi membri, come la Francia e la Spagna, dove rispettivamente operano il Ministère de la Transizion Ecologique (www.ecologie.gouv.fr) e il Ministero para la Transiciòn Ecològica y el Reto Demogràfico (www.miteco.gob.es/es) - ma anche sostanziale, considerato che, in capo al nuovo ministero sono attribuite numerose funzioni e compiti non esclusivamente legati al processo di transizione energetica, bensì incidenti su un più ampio spettro di intervento. Si pensi, ad esempio, al Comitato interministeriale per la transizione ecologica, soggetto preposto all’adozione del “Piano per la transizione ecologica”, al fine di coordinare le politiche in materia di: a) riduzione delle emissioni di gas climalteranti; b) mobilità sostenibile; c) contrasto al dissesto idrogeologico e al consumo del suolo; d) risorse idriche e relative infrastrutture; e) qualità dell’aria; f) economia circolare. Si segnala, inoltre, che anche il PNIEC contiene un riferimento indiretto alla transizione ecologica, laddove afferma che “La Legge di Bilancio 2020 stabilisce che, entro il 31 gennaio 2020, si costituisca presso il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare una Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte per la transizione ecologica e per la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi”. Come ampiamente noto, infine, nell’ambito della Missione 2 del PNRR (“Rivoluzione verde e transizione ecologica”) sono contenute le seguenti componenti: m2c1: economia circolare e agricoltura sostenibile; m2c2: energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile; m2c3: efficienza energetica e riqualificazione degli edifici; m2c4: tutela del territorio e della risorsa idrica.
[43] Cfr. L. Casini, L’equilibrio degli interessi nel governo del territorio, Milano, 2005.
[44] S. Amorosino, Sviluppo economico e governo del territorio, in Riv. giur. edilizia, 5/2015, 187 ss.
[45] Sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, l’Agenda 2030 fissa 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (“Sustainable Development Goals”) cui sono associati 169 traguardi (“target”) da raggiungere entro il 2030, allo scopo di perseguire i “macro-obiettivo” dello “sviluppo sostenibile” in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale.
[46]European Commission COM (2020) 14 January 2020, European Green Deal Investment Plan, in www.ec.europa.eu.
[47] C. Vivani, S. Giani, Transizione energetica e PNRR. Accelerazione e semplificazione delle procedure, in Urb. e app., 2022, 1 ss.
[48] Communication form the Commission to the European Parliament and the Council on a new funding strategy to finance Next Generation EU, Brussels, 14.4.2021 COM(2021) 250 final., in www.ec.europa.eu.
[49] M. Calabrò, Energia, ambiente e semplificazione amministrativa (nota a T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 24 novembre 2020, n. 12464), in www.giustiziainsieme.it.; Id. La (negata) tutela dell’affidamento in materia di incentivi alle fonti energetiche rinnovabili (nota a Corte Giust. UE, sez. V, 15 aprile 2021, cause riunite C-798718 e C-799/18), in www.giustiziainsieme.it.
Vent’anni dopo
di Morena Plazzi
Dopo l’articolo di Paola Filippi “La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum”[1] probabilmente non ci sarebbe nulla da aggiungere per spiegare le ragioni dell’adesione allo sciopero indetto dall’ANM per il prossimo 16 maggio quando si tratta del tema “separazione delle carriere”.
Tuttavia, poiché quella dello sciopero è una scelta fatta “non per protestare, ma per essere ascoltati, non contro le riforme, ma per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno”, credo sia ancora tempo di ritornare sull’argomento.
Si parla qui dell'art. 12 del DDL di riforma che modifica l'attuale art. 13 Ord. Giud., limitando ad una sola possibilità nel corso dell’intera esperienza professionale del magistrato un eventuale cambio di funzioni da requirente a giudicante o viceversa.
La descrizione dettagliata di questo intervento normativo, il come e quando verrebbe consentito il passaggio tra funzioni, lo si è in più sedi analizzato; mi dedico quindi alla ricerca del perchè di questa riforma che si inserisce e rinnova un progetto politico intrapreso oramai da vent’anni a questa parte, nonostante la Costituzione.
Le riforme si cercano, si propongono, si elaborano, si deliberano quando si deve migliorare un sistema che non funziona ma, come è stato detto e ribadito in ogni sede e da ultimo nella chiarissima relazione con cui il Presidente Giuseppe Santalucia ha aperto l’assemblea generale dell’ANM del 30 aprile scorso[2], non sembra proprio che la previsione di ulteriori restrizioni al mutamento di funzioni trovi motivazioni valide né sul piano teorico e di principio né su quello pratico se la si propone quale soluzione ai problemi di una giustizia lenta e di una magistratura ai minimi della fiducia da parte dei cittadini.
Essa non risponde infatti né alla domanda di una migliore tempistica dei processi né ad una dichiarata azione di contrasto al “carrierismo” dei magistrati dei quali, insieme ad altre linee direttrici di questo DDL, sembra sollecitare piuttosto una sempre più marcata personificazione della funzione, a dispetto dell’impegno a confrontarsi con esperienze diversamente formative nel corso della vita professionale.
Dallo scritto di Paola Filippi si comprende anche quanto sia privo di consistenza pratica, nell’attualità, il tema del passaggio di funzioni: di questo dobbiamo dire "grazie" alla riforma Castelli-Mastella che nella sua prima formulazione, anni 2002/2004 prevedeva così come ripropone l’attuale DDL, una sola possibilità di mutamento di funzioni nel corso della carriera, previsione poi attenuata nel 2006 quando si concesse la possibilità di passare da Giudice a PM e viceversa fino a quattro volte nel corso della vita lavorativa del magistrato.
Nel 2002, di fronte ad una proposta come quella odierna, i magistrati non ebbero alcun timore nel far sentire la loro protesta mentre si discuteva il DDL del Ministro Castelli, una riforma che addirittura avrebbe visto, due anni dopo, il Presidente della Repubblica Ciampi rinviare il testo alle Camere ravvisando alcuni motivi di palese incostituzionalità in previsioni quale quella delle comunicazioni del Ministro della Giustizia comprendenti ”le linee di politica giudiziaria per l’anno in corso” ritenute in contrasto con le garanzie di indipendenza della magistratura, le attribuzioni del CSM e il principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Cosa è cambiato da allora?
Leggendo il testo del DDL attualmente all’esame del Senato non troviamo solo lo sbarramento al cambiamento di funzioni. L’art. 13 prevede infatti che nella formazione dei progetti organizzativi delle procure il dirigente dell’ufficio indichi le priorità alla luce “di criteri generali indicati dal Parlamento con legge”.
Non solo.
Leggiamo anche, nel testo trasmesso al Senato, che il progetto organizzativo viene adottato ed è approvato dal Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, “valutate le eventuali osservazioni formulate dal Ministro della giustizia ai sensi dell'articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195” senza alcuna indicazione di quali dovrebbero essere i possibili ambiti di intervento ministeriale.
Un intervento ed un interessamento dell’esecutivo che, ovviamente, non toccano gli uffici degli organi giudicanti e le loro tabelle e che, in un ordinamento indirizzato ad una sostanziale separazione delle funzioni appaiono potenzialmente corrosivi dell’indipendenza ed autonomia del Pubblico Ministero.
Lo sciopero dei magistrati del 2002 costituisce un precedente importante, se ne leggiamo le ragioni e se consideriamo a quale idea di magistratura “riformata” si opponeva.
Cosa è cambiato da allora, quanto alla sostanza ed alla direzione di alcune riforme e per quale motivo oggi dovremmo essere meno attenti e preoccupati di quanto lo fossimo nel 2002?
Allora, forse, fu più semplice opporsi ad una iniziativa governativa che, nelle sue dichiarate intenzioni, poteva essere definita dall’allora Segretario Generale dell’ANM Nello Rossi quale “punitiva e mortificante controriforma”.
Allora, forse, era più chiaro e più comprensibile il disegno, più netta ed identificabile la sua provenienza.
Guardando ad oggi, non c’è dubbio che il quadro generale nel quale si sono inserite sia l’iniziale scrittura del DDL Cartabia che gli emendamenti peggiorativi inseriti d’intesa tra i partiti di maggioranza una volta giunto alla Camera, non abbia quasi nulla dei connotati dell’epoca Castelli/Berlusconi se non una esigenza di tenere insieme, ad ogni costo, una maggioranza pluricomposita.
In realtà non risulta nemmeno tanto difficile rinvenire segni di una inspiegabile distonia tra le norme qui esaminate e quanto invece previsto da un’altra importante e recente riforma promossa dallo stesso Governo e dal medesimo Ministro, e precisamente con quanto previsto, in tema di processo penale, dall’art. 1 Comma 9 della legge 134 del 27 settembre 2021 “Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché' in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari.”
Come già evidenziato nell’articolo di Paola Filippi, la L.134/2021 conferisce delega al Governo per “modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l'archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna” e, poco più avanti, “per modificare la regola di giudizio di cui all'articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale nel senso di prevedere che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”.
Come non pensare ad una evidente contraddizione tra l’indicazione di una identica regola di giudizio per il Giudice e per il PM, al riconoscimento dato al ruolo della magistratura requirente investita di scelte decisionali di assoluta valenza giudiziale, chiamato a tradurre nelle sue richieste conclusive la motivata proiezione di un possibile giudizio di merito, e la scelta di stringere quello stesso Pubblico Ministero in un angolo sempre più distante da quella “cultura della giurisdizione” che solo la difficoltà e la pratica del giudicare consentono di fare realmente propria?
Una contraddizione tanto evidente denuncia per un verso la mancanza un’idea precisa, di un chiaro disegno politico alla base della scelta di procedere – a dispetto di principi costituzionali - nel percorso di separazione delle carriere, per un altro porta, inesorabilmente, a pensare che in fondo la ragione di questa ennesima modifica della legge di Ordinamento Giudiziario non sia altro, per chi è riuscito a subemendare il DDL presentato in Parlamento che “punitiva e mortificante”, anche oggi, anche vent’anni dopo.
Queste scelte di separatezza hanno in qualche modo assicurato un migliore funzionamento della giustizia e una maggiore tutela per il cittadino?
I dati sull'esito dei procedimenti sono la più efficace smentita di chi ha esibito il rischio di "vicinanza" tra pubblico ministero e giudice come pericolo per l’imparzialità di quest’ultimo, affermazione che ha assunto ormai il valore di una leggenda metropolitana.
Cosa dovremmo aspettarci insistendo sulla strada della separazione?
A dirla tutta il nostro Paese ha già sperimentato un Pubblico Ministero davvero separato. Succedeva fino al 1946 quando "il PM esercita(va) sotto la direzione del ministro le funzioni che la legge gli attribuisce". E sino al 1988 l'art.70 Ordinamento Giudiziario recitava " i Procuratori della Repubblica esercitano le loro funzioni personalmente o per mezzo dei dipendenti addetti ai rispettivi uffici". E’ a questo che si vuole tornare?
E allora, se servono idee che aiutino il nostro sistema penale a lavorare in modo più efficiente, favorendo la corretta applicazione di criteri di priorità e di regole di giudizio comuni cosi come delineate dalla Legge delega n. 137/2021 perché non provare da una prospettiva completamente diversa?
Accentuare o proseguire sulla strada della separazione delle carriere, con un Pubblico Ministero soggetto distinto ed “altro” vuol dire avere un PM autoreferenziale e sempre più lontano dalla più complessa prospettiva giudiziale che al contrario si arricchisce del contributo della difesa, gestendo quindi la fase delle indagini con lo sguardo rivolto al possibile, corretto esito conclusivo.
La strada da percorrere dovrebbe essere un'altra, quella della promozione di un maggiore interscambio delle funzioni, dalla condivisione dei contenuti della giurisdizione sia per una gestione davvero coordinata degli uffici, sia incentivando e valorizzando il passaggio da funzioni giudicanti a requirenti e viceversa come strumento per una vera e progressiva formazione comune, che oltre a legare sempre più gli uffici requirenti con quelli giudicanti coinvolga necessariamente anche l'avvocatura, incrementando interrelazioni e sinergie, con una vera simmetria nelle scelte su specializzazioni e modalità organizzative, criteri di priorità discussi e trasparenti, piena e reciproca consapevolezza di risorse, flussi, capacità di definizione che orientino le scelte.
Per fare una scelta in questo senso servirebbero provvedimenti legislativi in controtendenza, con una attenuazione delle incompatibilità nei passaggi, scelte che renderebbero anche più agevoli i percorsi di carriera dei magistrati più giovani, soprattutto per le colleghe chiamate a conciliare – è vero, è ancora oggi così – le loro giuste aspirazioni professionali con la necessità di limitare trasferte di fatto non compatibili con la cura della famiglia così come servirebbe una precisa opzione nelle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura che, a partire dalle Circolari, favorisca e valorizzi il passaggio tra funzioni
Dobbiamo invertire una tendenza culturale che rischia di portare ad una gerarchia cieca e ad una autoreferenzialità senza sbocchi.
Anche per questo, anche per dare testimonianza della possibilità di intraprendere strade diverse penso sia giusto aderire all’astensione indetta dall’Associazione Nazionale Magistrati, uscendo da un circolo vizioso nel quale, vent’anni dopo, una controriforma punitiva e mortificante ci vorrebbe ancora rinchiudere, allontanando ancora di più l’esercizio della giurisdizione dalle reali esigenze dei cittadini.
[1] Giustizia Insieme, 5 maggio 2022.
[2] “Introduzione all’Assemblea Generale dell’ANM del 30 aprile 2022 del presidente Giuseppe Santalucia” Giustizia Insieme 3 maggio 2022.
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