ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Alcune osservazioni sul progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario[1]
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa. Si limita l’indagine al ruolo dei capi degli uffici e alla valutazioni di professionalità dei magistrati. - 2. Le norme progettate in tema di ruolo dei capi degli uffici. - 3. Le norme progettate in tema di valutazioni di professionalità dei magistrati. - 4. Il quadro d’insieme che ne scaturisce. - 5. Una valutazione circa il giudice che vogliamo, tra Lodovico Mortara e Mariano D’Amelio. - 6. Qualche ultima considerazione.
1. Premessa. Si limita l’indagine al ruolo dei capi degli uffici e alla valutazioni di professionalità dei magistrati
E in discussione in Parlamento una riforma di ordinamento giudiziario che fa seguito al disegno di legge n. 2681 già presentato il 28 settembre 2020 dall’allora Ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede, e che, con i fatti c.d. di Palamara, e le discussioni, anche a livello politico e mediatico che ne sono seguite, ha avuto degli emendamenti, e infine una delibera favorevole dalla II Commissione permanente (Giustizia) della Camera dei Deputati il 14 aprile 2022.
Il progetto di riforma è vasto e investe molti aspetti: dalla disciplina delle funzioni direttive alla valutazione della professionalità, dall’organizzazione del Pubblico ministero a quella dei Consigli giudiziari, dall’accesso alle funzioni di legittimità ai procedimenti disciplinari, dall’accesso in magistratura ai collocamenti fuori ruolo, dal ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, dalla eleggibilità dei suoi componenti e all’elettorato attivo e passivo fino al riassetto dell’ordinamento giudiziario militare, ecc…….
Un po’ tutto è investito da questa riforma, cosicché una analisi articolata di essa non è possibile in un breve articolo, e i tanti aspetti coinvolti necessitano evidentemente di un vero e proprio Commento, che probabilmente qualcuno scriverà dopo la sua definitiva approvazione.
Io credo, però, fin d’ora, che, dovendo dare un giudizio complessivo della riforma, molti aspetti attengano all’amministrazione della giurisdizione e alla mera vita professionale del magistrato, cosicché, anche per la loro natura squisitamente tecnica, suscitano poco, o minor interesse, a chi magistrato non sia.
A fianco di questi, tuttavia, la riforma presenta altri aspetti che interferiscono invece con i principi costituzionali del Titolo IV della Costituzione, e con i principi di indipendenza della magistratura di cui agli artt. 101 e ss.
Questi, al contrario, sono gli aspetti che devono interessare tutti i cittadini, poiché altrimenti non ha senso asserire solennemente che la giustizia “è amministrata in nome del popolo” (art. 101 Cost.).
Questi aspetti, che peraltro sono quelli sulla base dei quali la magistratura associata, e precisamente l’ANM, ha deciso di indire una giornata di sciopero, a mio parere investono soprattutto le novità in punto di ruolo dei capi degli uffici e di valutazioni della professionalità: e alla trattazione di soli questi temi, così, è dedicato questo mio breve intervento.
2. Le norme progettate in tema di ruolo dei capi degli uffici
Al riguardo, prendo le mosse dall’esposizione delle norme.
Quanto alle funzioni direttive e semidirettive, si tenga presente:
a) In primo luogo l’art. 37 del d.l. 98/2011 recita che: “1. I capi degli uffici giudiziari sentiti, i presidenti dei rispettivi Consigli dell'ordine degli avvocati, entro il 31 gennaio di ogni anno redigono un programma per la gestione dei procedimenti civili. Con il programma il capo dell'ufficio giudiziario determina: - ) gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell'anno in corso;
- ) gli obiettivi di rendimento dell'ufficio, tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno, l'ordine di priorita' nella trattazione dei procedimenti pendenti, individuati secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto della durata della causa, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, nonche' della natura e del valore della stessa. 2. Con il programma di cui al comma 1, sulla cui attuazione vigila il capo dell'ufficio giudiziario, viene dato atto dell'avvenuto conseguimento degli obiettivi fissati per l'anno precedente o vengono specificate le motivazioni del loro eventuale mancato raggiungimento.
Ai fini della valutazione per la conferma dell'incarico direttivo ai sensi dell'articolo 45 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160, i programmi previsti dal comma 1 sono comunicati ai locali consigli dell'ordine degli avvocati e sono trasmessi al Consiglio superiore della magistratura.
b) L’art. 2, 1 comma, lettera d) del progetto n. 2681 prevede altresì che la partecipazione alle procedure per la copertura di posti direttivi è subordinata alla partecipazione di un corso mirato “allo studio dei criteri di gestione delle organizzazioni complesse e all’acquisizione delle competenze manageriali”; e il testo della Commissione aggiunge che, in dette procedure, deve prestarsi particolare attenzione: “alla capacità di analisi ed elaborazione dei dati statistici, alla conoscenza delle norme ordinamentali, alla capacità di efficiente organizzazione del lavoro giudiziario e agli esiti delle ispezioni svolte negli uffici presso cui il candidato svolge o ha svolto funzioni direttive o semidirettive”; e soprattutto la lettera m) asserisce infine che si debba: “prevedere che la capacità di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo sia valutata ai fini di quanto previsto dall’art. 12, comma 10 e 11 del d. lgs. 160/2006, nonché nella valutazione ai fini della conferma di cui all’art. 45 del d. lgs. 160/2006”.
c) Ed inoltre, per quanto concerni la conferma dell’incarico direttivo, l’art. 45 del d. lgs. 160/2006 statuisce: “Le funzioni direttive di cui all'articolo 10, commi da 10 a 16, hanno natura temporanea e sono conferite per la durata di quattro anni, al termine dei quali il magistrato puo' essere confermato, previo concerto con il Ministro della giustizia, per un'ulteriore sola volta, per un eguale periodo a seguito di valutazione, da parte del Consiglio superiore della magistratura, dell'attivita' svolta. In caso di valutazione negativa, il magistrato non puo' partecipare a concorsi per il conferimento di altri incarichi direttivi per cinque anni”.
3. Le norme progettate in tema di valutazioni di professionalità dei magistrati
Per quanto invece riguardi la valutazione della professionalità, si consideri altresì:
a) l’art. 3, 1 comma, lettera d) prevede che “nell’applicazione dell’art. 11, 2° comma, lettera b) del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160, sia espressamente valutato il rispetto da parte del magistrato di quanto indicato nei programmi di gestione redatti a norma dell’art. 37, del d.l. 6 luglio 2011 n. 98”.
b) L’art. 11, 2° comma, lettera b) del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160 recita che “la laboriosita' e' riferita alla produttivita', intesa come numero e qualita' degli affari trattati in rapporto alla tipologia degli uffici e alla loro condizione organizzativa e strutturale, ai tempi di smaltimento del lavoro, nonche' all'eventuale attivita' di collaborazione svolta all'interno dell'ufficio, tenuto anche conto degli standard di rendimento individuati dal Consiglio superiore della magistratura, in relazione agli specifici settori di attivita' e alle specializzazioni”.
c) Più in generale, poi, la valutazione di professionalità è disciplinata nell’art. 3, 1 comma, lettera h) 1 dove si legge: “Prevedere l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo qualitativo che quantitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio”.
d) Queste condizioni sono poi richieste anche per l’accesso in cassazione, visto che l’art. 2, 3 comma, lettera d) statuisce che, nella valutazione delle attitudini circa la capacità scientifica e di analisi delle norme, deve tenersi conto degli “andamenti statistici gravemente anomali degli esiti degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio”.
e) Si asserisce, infine, che nella valutazione di professionalità di un magistrato, art. 3, 1 comma, punto 2, lettera l) i dati conoscitivi dell’attività giudiziaria devono essere raccolti “anche con specifico riferimento a quella espletata con finalità di mediazione e conciliazione”.
4. Il quadro d’insieme che ne scaturisce
Sulla base di questo impianto normativo, credo si possa affermare quanto segue:
a) con riferimento ai capi degli uffici, e quindi per quanto riguardi le funzioni direttive e semidirettive, esse sono oggi strettamente legate al programma per la gestione dei procedimenti.
Questo programma è essenzialmente centrato sulla produttività dell’ufficio, poiché il primo obiettivo che esso ha è quello della riduzione della durata dei procedimenti.
Il programma deve altresì fissare l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, e quindi il capo dell’ufficio indica ai magistrati quali siano i procedimenti che devono essere trattati subito e quali quelli che al contrario possono essere trattati soltanto dopo altri.
In sostanza, il programma costituisce un vero e proprio budget aziendale, sul quale vigila il capo dell'ufficio giudiziario e che, alla fine di ogni anno, deve essere realizzato, oppure devono essere specificate le motivazioni del loro eventuale mancato raggiungimento.
Da sottolineare, poi, che a tutto questo il capo dell’ufficio ha un interesse personale, in quanto la legge prevede espressamente che la carriera direttiva di un magistrato dipenda dalla capacità di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo, che ha valore centrale ai fini della conferma di cui all’art. 45 del d. lgs. 160/2006.
b) Per quanto concerna invece la magistratura che operi senza incarichi direttivi, questa, oltre a doversi attenere al programma, deve: ba) in primo luogo cercare di mediare le controversie, poiché nella valutazione della sua professionalità si tiene conto dell’attività espletata con finalità di mediazione e conciliazione; bb) ed in secondo luogo, e soprattutto, deve stare attenta a non pronunciare provvedimenti che possano essere riformati e/o cassati, poiché ai magistrati è stato attribuito un fascicolo, che si è denominato anche pagella, il quale contiene non solo i dati statistici, ovvero i numeri del lavoro, ma anche i dati concernenti eventuali riforme dei provvedimenti assunti da parte dei giudici dei gradi superiori; la novità, sul punto, espressamente afferma che ai fini della carriera ha rilievo infatti la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio.
Si fa riferimento alla grave anomalia, ma io aggiungerei che gravi anomalie non le ho quasi mai riscontrate in circa quaranta anni di frequentazione delle aule giudiziarie; dal che, se non si vorrà dare una interpretazione abrogante della disposizione, essa sarà interpretata, sic et sempliciter, quale valutazione dei provvedimenti del giudice in raffronto ai mezzi di impugnazione; col che, ancora, nella sostanza, si sta dicendo che i giudici devono decidere uniformandosi agli orientamenti dei gradi superiori, poiché, non farlo, potrebbe incidere negativamente sulla loro progressione di carriera.
Si tratta di un meccanismo assai discutibile sotto un duplice profilo: perché lega le mani al primo giudice, che deve provvedere stando attento ai mezzi di impugnazione; - e perché lega le mani al giudice dell’impugnazione, che sa che se riforma il provvedimento mette in difficoltà il collega nella valutazione di professionalità.
Né si dica che una deroga ai principi secondo i quali “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.), e “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (art. 107 Cost.), era già stata posta dall’art., 374, 3° comma c.p.c., per il quale le sezioni semplici non possono disattendere gli orientamenti delle sezioni unite.
Si tratta, ovviamente, di cose totalmente differenti tra loro, perché infatti l’art. 374, 3° comma c.p.c. non impedisce alle sezioni semplici di dissentire dall’orientamento delle sezioni unite, solo queste devono rimettere la questione a quest’ultime; la norma si giustifica poi in forza del principio di nomofilachia, e il tutto non ha alcuna rilevanza ai fini della valutazione della professionalità.
c) Se si considerano questi dati, e quindi si prende atto che il capo dell’ufficio deve organizzare in modo aziendalistico il Tribunale, pena la sua stessa carriera, e che i magistrati devono sottostare al programma, porre in primo piano mediazioni e aspetti quantitativi dell’’esercizio della funzione giurisdizionale, e soprattutto decidere in modo conforme alle decisioni dei giudici di grado superiore, va da sé che la magistratura non ha torto a sostenere che si sta configurando un giudice burocrate e gerarchizzato, che semplicemente deve rispettare condizioni che da altri vengono disposte.
Per motivi di efficienza, così, si deve abbandonare la romantica idea dell’autonomia e dell’indipendenza (quanto meno interna) della delicata funzione del giudicare.
Si tratta, allora, di chiedersi che tipo di giudice noi vogliamo, e soprattutto che tipo di giudice ha assegnato la nostra Costituzione alla Repubblica.
5. Una valutazione circa il giudice che vogliamo, tra Lodovico Mortara e Mariano D’Amelio
Nell’affrontare il tema del “Giudice che vogliamo”, vorrei preliminarmente ricordare un precedente.
Desidero farlo perché appartiene a quegli episodi che rendono chiaro quanto sacro sia il valore della indipendenza della funzione giudiziaria, e perché forse non è neanche un caso così unico, magari invece è simile a tanti altri che noi non conosciamo.
Il ricordo che propongo è quello di due Presidenti di Cassazione: Lodovico Mortara, ultimo presidente della Corte di Cassazione di Roma, e Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di Cassazione unica del Regno.
Siamo negli anni compresi tra il 1922 e il 1924, ovvero negli anni nei quali il fascismo prende il potere: la marcia su Roma risale infatti al 28 ottobre del 1922 e Benito Mussolini diventa capo del Governo tre giorni dopo, il 31 ottobre 1922.
Ebbene, fino a quegli anni, secondo il noto e chiaro principio della divisione dei poteri, il compito di fare leggi spettava al Parlamento, e al Governo solo quello di metterle in esecuzione.
Con gli anni venti, tuttavia, questa ripartizione entrava in crisi, e sempre più il Governo emanava atti aventi valore di legge sorpassando in questo modo l’Assemblea.
Poiché nello Statuto Albertino non vi era una norma analoga al nostro attuale art. 77 Cost., spesso i decreti leggi non venivano convertiti dal Parlamento, e alle volte nemmeno presentati allo stesso per la loro conversione.
Con l’avvento del fascismo questo metodo si rafforzava, e oramai l’idea era quella che lo stesso Governo, anche senza passare dal Parlamento, poteva emanare atti aventi forza di legge sulla sola generica premessa dell’urgenza del provvedere.
In quel periodo, come detto, presidente della Corte di Cassazione di Roma era Lodovico Mortara, un giurista di grande cultura e indipendenza, già ordinario di procedura civile, e già Ministro della Giustizia con il Governo Nitti.
Lodovico Mortara non sopportava l’idea che il Governo si arrogasse poteri che spettavano invece al Parlamento, e, avuta occasione di pronunciarsi su questo tema quale giudice, egli emanava alcune sentenze chiare e nette sui rapporti che dovevano darsi tra funzione legislativa e funzione governativa.
Faccio riferimento a tre pronunce della Corte di Cassazione di Roma, tutte del 1922, e tutte che vedevano Lodovico Mortara non solo quale Presidente della Corte bensì anche quale Presidente del collegio giudicante.
Queste pronunce sono quelle di Cass. 24 gennaio, Cass. 16 novembre e Cass. 30 dicembre 1922, tutte in Giur. it., 1922, I, 66, 929; II, 1.
È importante tener conto delle date, poiché mentre la prima era con il fascismo alle porte ma non ancora al potere, le ultime due venivano pronunciate dopo la marcia su Roma, e quindi già con a capo del Governo Benito Mussolini.
Ebbene, Lodovico Mortara non aveva alcun problema a sottolineare come questo malcostume, già presente da un po’ di anni, si fosse aggravato con il fascismo.
Scriveva: “Non esiste nessuna norma costituzionale che autorizzi il Governo a investirsi in circostanze straordinarie della potestà legislativa”. Una volta accertata la “impossibilità non solo di un controllo sollecito, ma perfino di un controllo qualsiasi da parte delle due Camere sopra un grande numero di quegli arbitrari provvedimenti” è compito degli “organi supremi del potere giurisdizionale a un nuovo esame della grave questione”.
Asseriva ancora che, in effetti, in passato, i decreti legge “erano davvero emanati in circostanze eccezionali e con rigida parsimonia cosicché il sindacato parlamentare poteva essere sufficiente” ma oggi: “Il sindacato parlamentare si rileva impossibile in fatto, forse illusorio in diritto” e dunque si impongano “nuovi doveri alla magistratura, la quale, senza sostituirsi al Parlamento, non può dimenticare di essere quella fra i poteri sovrani dello Stato cui spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa”
Il discorso era chiarissimo: il Parlamento non è più in grado di controllare il Governo, quindi questo compito spetta alla magistratura, in quanto la situazione politica ha attribuito inevitabilmente nuovi doveri alla magistratura, alla quale spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa.
Questo scriveva Lodovico Mortara, e su queste basi la cassazione, a salvaguardia della democrazia, fissava questi principi: a) i decreti leggi sono atti arbitrari del Governo, eccedenti la sfera del potere esecutivo e quindi per loro stessi incostituzionali; b) L’autorità giudiziaria può esaminare se il governo abbia adempiuto alla sua promessa di presentare il decreto al Parlamento e verificare che il Parlamento abbia provveduto alla sua conversione.
Orbene, Lodovico Mortara sapeva perfettamente, non poteva non saperlo, che quelle decisioni sarebbero state invise al sopraggiunto regime, e che certo il regime non lo avrebbe premiato per quelle idee.
Ma Lodovico Mortara non esitava egualmente a pronunciare quelle sentenze, perché per lui, evidentemente, il valore delle idee, il rispetto dei principi costituzionali, e soprattutto l’indipendenza della funzione che stava esercitando, erano più alti e profondi del timore di essere punito.
Nei fatti, poi, il r.d. 24 marzo 1923 n. 601 sopprimeva le c.d. Cassazioni regionali, tra le quali anche la Corte di Cassazione di Roma, e due mesi dopo Mussolini azzerava altresì, con decorrenza 1 novembre 1923, tutti i vertici di quelle cassazioni, e quindi Lodovico Mortara veniva rimosso dal suo incarico e collocato in pensione.
A Lodovico Mortara sarebbe succeduto nella Prima Presidenza della nuova Cassazione unica del Regno d’Italia, Mariano D’Amelio, e l’anno ancora successivo, 1924, le nuove Sezioni unite di Mariano D’Amelio avrebbero stabilito che “Il giudizio sulla valutazione della necessità urgente e improrogabile di emanare un decreto legge è demandata esclusivamente al potere esecutivo, e non può essere oggetto di sindacato da parte dell’autorità giudiziaria” (Cass. sez. un., 6 maggio 1924, Giur. it., 1924, I, 536).
Da quel momento, e fino all’arrivo della nostra Repubblica, la divisione della funzione legislativa da quella governativa veniva così meno, tanto che lo stesso Benito Mussolini, anni dopo, e precisamente il 30 ottobre 1939, alla presenza del Ministro della Giustizia Dino Grandi, in un discorso tenuto ai vertici della magistratura riunitisi in Palazzo Venezia, espressamente affermava che: “Nella mia concezione non esiste una divisione dei poteri nell’ambito dello Stato. Nella mia concezione il potere è unitario: non v’è divisione di poteri, c’è divisione di funzioni”.
6. Qualche ultima considerazione
Io credo, allora, che vadano fissate alcune cose.
a) Alla magistratura non può chiedersi di difendere i principi della democrazia a qualunque costo, anche a fronte di rischi personali e punizioni; questo possono farlo, e nel corso della storia lo hanno fatto, solo taluni magistrati; tuttavia a tutta la magistratura deve esser concesso di esercitare le funzioni in libertà, poiché solo se i giudici sono liberi, noi tutti possiamo essere liberi; e per rendere indipendente un giudice “non basta liberarlo dal timore che il suo atteggiamento di ribellione contro gli intrighi politici possa in qualche modo danneggiarlo, ma bisogna altresì togliergli ogni speranza che un atteggiamento servile ed inchinevole possa giovare alla sua carriera futura” (Calamandrei).
b) Alla magistratura non può inoltre esser chiesta solo efficienza, preparazione e autorevolezza.
Mariano D’Amelio fu primo presidente della Cassazione per tutto il periodo del fascismo, dal 1923 al 1941, e fece funzionare la cassazione con ottimi risultati di produttività. Era poi un giurista raffinato: direttore del Nuovo Digesto italiano, direttore di fatto della Rivista di diritto pubblico dal 1938, professore honoris causa delle università di Heidelberg e di Glasgow, e addirittura, a dieci anni di presidenza della Cassazione, furono promossi studi in suo onore Studi in onore di Mariano D’Amelio, Roma, 1933, 3 volumi; e fu altresì uomo di grande rilievo nel suo periodo storico: presidente del Consiglio superiore della magistratura e della Suprema Corte disciplinare, Senatore del Regno dal 1924, Ministro dal 1938, ottenne il titolo di Conte con r.d. 11 dicembre 1941.
Le forme, quindi, non sempre sono in grado di assicurare la distanza tra magistratura e politica.
c) Non dobbiamo poi nasconderci dietro le forme.
Non basta dire: è così perché l’ha detto la cassazione; le cose stanno in questi termini perché v’è una specifica pronuncia della Corte Costituzionale, ecc……
A fronte di ogni decisione, per quanto autorevole, v’è sempre da chiedersi se quella decisione ci convince, v’è sempre da domandarci se il giudice che l’ha pronunciata è Lodovico Mortara oppure Mariano D’Amelio, perché, con la burocratizzazione e la gerarchizzazione della magistratura, il rischio è che l’ultimo giudice debba dire quello che dice il primo, e il primo giudice debba dire quello che dice la politica.
E poi, è evidente, anche Lodovico Mortara può sbagliare.
Se ai giudici viene privata la libertà di giudizio, a tutti noi sarà automaticamente impedita la libertà di giudizio.
d) Non dobbiamo poi accontentarci delle forme nemmeno nel portare rispetto alla Costituzione.
La struttura gerarchica della magistratura e il modello di giudice burocratizzato non è nella nostra carta costituzionale, e non credo vi sia bisogno di dimostrare che il combinato disposto degli artt. 101, 104 e 107 Cost., ha inteso oltre ogni dubbio garantire quella che si denomina come indipendenza esterna ed interna della magistratura.
Questo modello non può essere derogato dalla legge né in modo palese, né in modo indiretto; e quindi, ai fini della costituzionalità, non basta che la legge non si ponga in contrasto frontale con i principi contenuti in dette norme costituzionali, è necessario che non lo faccia nemmeno in modo deviato, ovvero inserendo nel sistema dei meccanismi che, seppur rispettosi delle forme, giungono ad un risultato pratico che non è conforme ai precetti costituzionali.
In questa ottica disposizioni del progetto n. 2681 quali quelle dell’art. 2, 1 comma, lettera d), o dell’art. 3, 1 comma, lettera d), e soprattutto dell’art. 3, 1 comma, lettera h) 1, possono essere incostituzionali nella misura in cui tendono a creare una figura di giudice che non è quella voluta dalla Costituzione.
E cosa analoga è stata fatta, ancora, con riguardo alla disciplina del Pubblico Ministero.
La nostra Costituzione non prevede la separazione delle carriere tra requirenti e giudicanti, e quindi è necessario modificare la costituzione se si vuole raggiungere quel risultato.
La riforma, invece, cerca di ottenere il medesimo effetto in modo indiretto, visto che l’art. 12, lettera c) 1, modificando l’art. 13, 3° comma, del d. lgs. 5 aprile 2006 n. 160, prevede che “il passaggio” – ovvero il passaggio tra funzioni requirenti a quelle giudicanti – “può essere richiesto dall’interessato per non più di una volta nell’arco dell’intera carriera”.
E dunque, considerato che limitare il passaggio tra le funzioni requirenti e giudicanti per una sola volta costituisce, nella sostanza, separare le carriere, e considerato che il rispetto della costituzione non può essere raggirato facendo formalmente una cosa possibile che però serve per raggiunge un obiettivo impossibile, la novità dell’art. 12, lettera c) 1 è da considerare, parimenti, e a mio parere, incostituzionale, poiché, di nuovo, crea nei fatti una disciplina della magistratura non conforme alla nostra Costituzione.
e) Alla giustizia, inoltre, non può chiedersi solo risposte celeri e prevedibili.
Una giustizia predittiva, fatta con l’ansia del programma di gestione e il timore dei giudizi di professionalità basati sulla capacità del giudice di conformarsi ai colleghi dei gradi superiori, rischia non solo di compromettere l’indipendenza della funzione, bensì anche il risultato sostanziale dei processi.
Se infatti immaginiamo la giustizia come un pranzo al fast food, dove il giudice per far presto può (potrebbe) non assumere le prove, non guardare tutti i documenti, non studiare attentamente il fascicolo, agganciarsi ad ogni questione preliminare e/o pregiudiziale per chiudere in rito il caso e passare, presto e velocemente, ad un altro caso, con l’unica preoccupazione di star attendo a non prendere decisioni che non siano conformi agli orientamenti già consolidati, lì allora par evidente che quel senso di giustizia che tutti noi abbiamo è andato perso.
Ne’ si replichi che istituire la pagella dei giudici è poca cosa, poiché in realtà non lo è, in quanto la questione non è tanto quella di vedere a che punto siamo, ma quella di valutare in che direzione stiamo marciando, e se il senso di marcia è quello dell’inquadramento gerarchico e della burocratizzazione della magistratura, penso sia dovere di tutti chiedersi se è questo il tipo di giudice che vogliamo.
f) Gli avvocati diranno: e i giudici che non lavorano? E la vicenda Palamara? E quelli che da anni e anni sono fuori ruolo? E i provvedimenti negligenti, se non addirittura aberranti, cui talvolta si assiste?
Direi che il “Giudice che vogliamo” certamente non deve cenare all’hotel Champagne, deve stare nei palazzi di giustizia e non nei ministeri, deve stare lontano dalla politica, e deve egli stesso, per primo, rifiutare un ruolo meramente burocratico, deve egli stesso, per primo, concepire la sua funzione e il suo lavoro alla luce di quella indipendenza che costituisce un pilastro irrinunciabile di uno Stato di diritto.
Gli avvocati hanno ragione quando denunciano gli abusi, il malfunzionamento, i rinvii ingiustificati e/o pretestuosi, i provvedimenti negligenti, ma se l’indipendenza dei giudici viene messa in discussione, allora, a quel punto, ogni altra diatriba passa in secondo piano, e ogni altro problema viene necessariamente dopo.
In quel momento gli avvocati devono comprendere che sono nella stessa barca del giudice, e devono comprendere che non c’è dignità, per nessuno, senza libertà, “Nel processo giudici e avvocati sono come specchi; ciascuno, guardando in faccia l’interlocutore, riconosce e saluta, rispecchiata il lui, la propria dignità” (Calamandrei).
L’esercizio della professione forense è possibile e ha un senso solo se l’avvocato si può rivolgere ad un giudice libero e indipendente; se il giudice perde queste caratteristiche, la professione di avvocato è parimenti finita, e il suo ruolo sociale annullato.
g) Nel 1906 Lodovico Mortara era alla Corte di Appello di Ancona.
Una grande intellettuale di quel periodo, Maria Montessori, con una pubblicazione sul giornale La vita del 1906, invitava le donne ad iscriversi alle liste elettorali poiché la legge non ne faceva divieto.
Dieci maestre elementari raccolsero questo invito.
La commissione elettorale della provincia di Ancona accoglieva le domande di iscrizione alle liste elettorali delle dieci maestre ma contro di esse proponeva appello la Procura del Re.
La causa era trattenuta da Lodovico Mortara, redattore della decisione.
Osservava Lodovico Mortara che i diritti politici erano riconosciuti a tutti i regnicoli senza distinzione di sesso dall’art. 4 dello Statuto, e quindi non vi erano ragioni giuridiche per ritenere che le donne, in quanto regnicole, non potessero godere dei diritti politici; ed inoltre la legge elettorale non disponeva niente in contrario, ovvero, nello specifico, non escludeva dall’elettorato le donne. E dunque, asseriva Lodovico Mortara, poiché il diritto elettorale “è a sua volta un diritto politico, il quale alla stregua delle premesse considerazioni spetta a tutti i regnicoli”, esso comprende anche le donne, poiché il silenzio sul punto della legge elettorale va inteso come affermazione del principio generale contenuto nello Statuto, che senza distinzione di sesso attribuisce i diritti politici a tutti.
La sentenza, completamente rivoluzionaria per l’epoca, veniva subito diffusa dalla stampa a tutto il paese.
Ma la Cassazione di Roma, adita dalla Procura del Re, l’8 maggio 1907, annullava detta decisione e ordinava la cancellazione dalle liste elettorali delle dieci maestre di Senigallia.
Se anche allora ci fosse stato il fascicolo di cui all’art. 3, 1 comma, lettera h) 1 dell’attuale progetto di riforma, probabilmente Lodovico Mortara, per questa uscita estemporanea, non avrebbe potuto successivamente accedere alla Presidenza della Cassazione, e non avrebbe potuto denunciare gli abusi politici in punto di decreti legge con i quali il Governo negli anni ’20 si era attribuito il potere legislativo.
[1] Intervento tenuto nel Palazzo di Giustizia di Siena, il 25 magio 2022, in occasione di un incontro organizzato dall’ANM locale sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario.
FAI e Progetto Genesi: Arte e diritti umani. Una nuova frontiera
Intervista di Roberto Conti a Ilaria Bernardi* e Giuseppe Taibi**
Una scommessa importante quella del progetto Genesi e del FAI, che sollecita diverse riflessioni e suggestioni.
Letteratura, diritto e diritti, umani e non, hanno da tempo stretto un forte connubio, alimentandosi entrambi di parole, testi, scritture che avvicinano sempre di più l’uomo, la persona umana ad approcci non convenzionali verso il tema dei diritti fondamentali. Anche Carlo Vittorio Giabardo, sulle colonne di questa Rivista, ha dedicato ampie e stimolanti riflessioni al tema arte e diritto scandagliandolo in modo raffinato, come già il titolo del Suo contributo dimostra -Arte e diritto. Il diritto nell’arte e il diritto come arte -.
La dimensione universale, globale e sociale dei diritti sembra ricercare forme e luoghi diversi da quelli tradizionali per mettere al centro della riflessione i diritti fondamentali.
In questa prospettiva si inscrive l’attivazione del canale rappresentato dall’arte come luogo di denunzia, di considerazione, di valorizzazione dei diritti dell’uomo.
Allo studio di tale prospettiva si è, giusto a titolo soltanto esemplificativo, dedicato di recente Pierluigi Pari, L’arte contemporanea per i diritti umani. L’emergenza migratoria del Mediterraneo, in L'Ircocervo, 20 (2021) n. 1- con l’occhio rivolto allo studio di rappresentazioni pittoriche sul tema migratorio.
Oggi l’iniziativa promossa dall’Associazione Genesi e dal Fai in simbiosi con l'Università Cattolica del Sacro Cuore è forse qualcosa di più, di più profondo, stringendo lacci sempre più interconnessi fra saperi e culture per lungo tempo abituate a considerarsi monadi slegate e che invece cominciano ad avvertire e ad essere avvertite come momenti di un tutto nuovo da ricercare, comprendere e inventare, nel senso grossiano del termine.
Per questo ringraziamo la Professoressa Ilaria Bernardi, curatrice del progetto Genesi e l’Avv.Giuseppe Taibi, capo delegazione del Fai di Agrigento per averci aperto le porte alla conoscenza di questa affascinante ed innovativa esperienza di avvicinamento al tema dei diritti umani.
1) Professoressa Bernardi, come è nata l’idea di promuovere, attraverso l’Associazione Genesi, l’iniziativa artistico-culturale da Lei curata, “Progetto Genesi”, dedicata al tema dei diritti umani?
L’Associazione Genesi è nata nel 2020 per volontà di Letizia Moratti con l’obiettivo è di contribuire, attraverso l’arte contemporanea, alla creazione di una cittadinanza più responsabile e socialmente attiva. Per questa ragione ha dato vita alla Collezione Genesi, con la curatela di Clarice Pecori Giraldi, selezionando opere d’arte di artisti di tutto il mondo che riflettono sulle urgenti, complesse e spesso drammatiche questioni culturali, ambientali, sociali e politiche coeve. Progetto Genesi è stata la conseguenza ‘naturale’ della creazione della Collezione Genesi: affinché la Collezione potesse veicolare le storie e i messaggi sottesi dalle opere, era necessario dotarla di un dispositivo al contempo espositivo ed educativo. L’esposizione delle opere avrebbe permesso di farle conoscere al pubblico, mentre le molteplici attività educative, non solo legate all’arte ma anche dal taglio interdisciplinare, avrebbero permesso di approfondire il tema dei diritti umani da più punti di vista, ampliando di conseguenza il raggio dell’azione educativa del progetto.
2) L’arte contemporanea come ambasciatrice dei diritti umani universali. Vi siete ispirati a qualche esperienza simile? Chi ha scelto le opere e seguendo quali criteri?
Progetto Genesi non si è ispirato a nessuna esperienza precedente; è piuttosto un unicum. Tuttavia, per l’obiettivo, condiviso con la Collezione Genesi, di ‘mappare’ il mondo e le sue storie attraverso opere d’arte contemporanea, un suo importate punto di riferimento è la mostra Magiciens de la Terre, curata da Jean-Hubert Martin e tenutasi nel 1989 al Centre Georges Pompidou di Parigi, che per prima rivolse lo sguardo oltre l’Occidente mettendo in luce l’esistenza e la bellezza dell’arte non occidentale.
La Collezione è stata voluta da Letizia Moratti che ne ha affidato la curatela a Clarice Pecori Giraldi. Il criterio principale per darle vita è stato quello di individuare opere che da un lato parlassero delle più urgenti e attuali questioni sociali, dall’altro fossero capaci di dare una speranza, una via di uscita dai drammi del nostro tempo. L’opera di Alfredo Jaar, ad esempio, mostra due bambini di spalle che si abbracciano mentre sullo sfondo si sta compiendo il genocidio del Ruanda del 1994: la scelta di mettere in primo piano quel gesto di solidarietà e di sfocare il dramma sullo sfondo è emblematico dell’approccio con cui sono state selezionate le opere della Collezione Genesi.
3) Ci può dire qualcosa di più dettagliato sulle singole sezioni tematiche che sono enumerate all’interno della mostra?
Le sezioni tematiche sono soltanto delle possibili chiavi di lettura delle opere della Collezione, utili a conferire alla mostra una sorta di plot narrativo capace di rendere più fluido il percorso espositivo per il visitatore. Tuttavia le opere hanno in sé molteplici significati, tali che potrebbero essere inserite in più sezioni. L’inserimento di un’opera in una sezione anziché in un’altra deriva dal principale e più evidente significato attribuito dal suo artista a quell’opera.
Le sei sezioni tematiche sono La memoria di un popolo, Un’identità multiculturale, Le vittime del Potere, Il colore della pelle, La condizione femminile, La tutela dell’ambiente. Individuano quindi sei tra i temi più cogenti all’interno della tematica, molto più vasta, dei diritti umani e dell’ambiente.
4) La memoria come “colla” fra le generazioni presenti e quelle future. Come esprimere questa prospettiva attraverso l’arte contemporanea?
Le opere della sezione La memoria di un popolo indagano come le tradizioni e la storia di ogni comunità siano da considerarsi una memoria collettiva da preservare in quanto elemento identitario fondamentale. L’opera Brazil Series #6 dell’artista ucraina Zhanna Kadyrova, ad esempio, associa metaforicamente la possibilità di reimmaginare un edificio (e dunque la memoria) a quello di riutilizzare capi di abbigliamento. L’artista utilizza le piastrelle di edifici distrutti, abbinandole a pesanti materiali edili come calcestruzzo e cemento, per realizzare abiti-sculture, convinta della necessità di memoria e di reimmaginazione delle tradizioni architettoniche di ogni comunità.
5) La condizione di vulnerabilità e le vittime di ingiustizie spesso inferte da chi detiene il potere. Con un occhio rivolto all’Italia, all’Europa o al mondo?
Questo tema è sviluppato dalla sezione Le vittime del Potere. Come per tutte le altre sezioni, l’occhio è sempre rivolto al mondo perché, purtroppo, si riscontrano lesioni dei diritti umani e dell’ambiente in ogni parte del nostro pianeta.
6) L’accostamento del diritto alla letteratura è ormai consueto. Meno quello dell’arte contemporanea al diritto ed alla protezione dei diritti fondamentali, e sicuramente nuovo quello di attribuire all’iniziativa l’obiettivo di formazione permanente in merito ai diritti umani, prevedendo non solo visite guidate e workshop alla mostra, ma anche conversazioni interdisciplinari organizzate in sinergia con l’Università Cattolica del Sacro Cuore. È stato difficile coniugare questa poliedricità di prospettive e con quali mezzi le state rendendo effettive?
La collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore è stata molto semplice e proficua fin dall’inizio. Il ciclo di dodici conversazioni sui diritti umani, Sfide per il futuro, organizzato in collaborazione con l’Università, si svolge online ed è interamente gratuito. Prevede una conversazione al mese, dall’ottobre 2021 al settembre 2022, tra esperti di discipline differenti (diritto, letteratura, economia…) e docenti dell’Università stessa. Ciascuna conversazione si tiene in occasione o in prossimità di importanti Giornate Internazionali o Mondiali istituite dalle Nazioni Unite e legate ai diritti umani. È dalla convinzione che l’arte non debba più essere autoreferente, che nasce l’idea di includere in Progetto Genesi un’attività capace di spostare l’attenzione dall’arte tout court all’interdisciplinarietà, in modo da affrontare il tema dei diritti umani da prospettive differenti e in modo da coinvolgere un pubblico molto più vasto, non legato necessariamente all’arte contemporanea.
a) Avvocato Taibi, le mostre itineranti di Progetto Genesi non solo in musei identificativi delle città ospitanti, ma anche in luoghi del FAI di quelle stesse città. Portare i diritti fondamentali “in giro” per l’Italia ed inserirli in contesti culturali indigeni, in modo che l’arte di artisti contemporanei di tutto il mondo possa fondersi con quella locale. Con quali obiettivi?
Il FAI - Fondo Ambiente Italiano - è una fondazione privata senza scopo di lucro che nasce nel 1975 con l'obiettivo di emulare il National Trust inglese e dare concretezza all'articolo 9 della Costituzione italiana: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Una concretezza che si realizza anche attraverso l'art. 118 della Costituzione che richiama: «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».
In Italia il patrimonio storico-artistico e paesaggistico è il patrimonio più importante.
È il patrimonio che tutti dobbiamo conservare, proteggere e valorizzare.
È di questo si occupa il FAI in un’ottica di collaborazione tra Istituzioni e Associazioni (Pubblico e Privato).
Progetto Genesi porta il FAI in un campo nuovo, ma perfettamente in linea con lo spirito della sua missione culturale ed educativa. Questa mostra, infatti, offre al FAI l’occasione di riportare all’attenzione dei cittadini la funzione sociale dell’arte, e della cultura in genere, come strumento potente, capace di parlare a tutti e di incidere sulla società, per trasformarla, per migliorarla, per favorirne il progresso.
b) I luoghi FAI toccati dalle quattro tappe del progetto: Villa e Collezione Panza, Bosco di San Francesco ad Assisi, Casa Noha a Matera e Agrigento. Con quali criteri sono stati scelti questi luoghi?
Per la prima volta il FAI, grazie a questa mostra, si occupa di diritti umani, calpestati ancora oggi in tanta parte di mondo. Le opere degli artisti nella collezione Genesi denunciano violazioni inaccettabili e suscitano riflessioni che rimandano ai massimi problemi dell’umanità e a questioni esistenziali, personali e collettive.
Gli stessi temi, seppure in forma meno esplicita, emergono anche dalla storia dei luoghi in cui questa mostra sta facendo tappa, a dimostrazione che il patrimonio culturale deve essere tutelato non solo per il suo valore storico e artistico, ma anche perché testimonia e promuove valori fondamentali per la civiltà di ieri, di oggi e di domani.
Le opere d’arte collezionate da Giuseppe Panza hanno invitato il pubblico che ha visitato Villa Panza a Varese a un viaggio introspettivo alla ricerca quasi spirituale di sé e del senso della vita.
La spiritualità cristiana che promana ad ogni passo lungo i sentieri del Bosco di San Francesco ad Assisi (proprietà del FAI dal 2008), e nella piccola chiesa benedettina di Santa Croce, si è fusa con la spiritualità laica del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto. Un’opera d’arte (donata al FAI dall’artista nel 2011) che è un simbolo della necessità urgente di ritrovare l’armonia con la natura per garantire un futuro all’umanità.
Casa Noha, una casa nel cuore dei Sassi di Matera (donata al FAI nel 2004) ha raccontato la storia di una città che ha sofferto la violazione dei diritti umani nella straziante povertà dei suoi abitanti, fino al riscatto, negli anni Cinquanta, innescato proprio da un’opera d’arte: il libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, che per la prima volta ha portato alla conoscenza di tutti quella inaccettabile condizione di arretratezza nell’Italia del boom economico.
Agrigento, infine, che vive da vicino il dramma dei migranti che approdano nell’isola di Lampedusa, fin dal VI secolo a.C. è stata un faro di civiltà nel Mediterraneo e un centro di cultura aperto alle influenze straniere, che si ritrovano infatti nell’architettura dei suoi edifici storici così come nella varietà mediterranea delle specie coltivate ancora oggi nel Giardino della Kolymbethra, affidato al FAI nel 2009 dalla Regione Siciliana, un capolavoro di storia e natura e la testimonianza di un’umanità accogliente, e perciò fiorente.
Progetto Genesi offre dunque al FAI l’occasione di sottolineare nel racconto di questi luoghi l’attualità e l’universalità del messaggio sociale che essi custodiscono ed esprimono.
c) Abbiamo visto che anche l’ambiente come valore costituzionale costituisce una delle sezioni tematiche di Progetto Genesi.Progetto Genesi si inserisce in un periodo storico nel quale si avverte un fortissimo desiderio di tornare a contatto, dopo l’emergenza pandemica, con la salubrità dei luoghi. L’Ambiente e il FAI, sono stati sempre in sinergia. Il nuovo assetto costituzionale che ha riservato ulteriore riconoscimento all’ambiente vi responsabilizza ulteriormente?
Adesso l’Articolo 9 della Costituzione Italiana è stato integrato con: “Tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni”.
Il progetto Genesi ad Agrigento aprirà al pubblico la prestigiosa mostra il 5 Giugno 2022: Giornata Mondiale dell’Ambiente.
Sarà, quindi, l’occasione ideale per parlare di Arte, Diritti Umani e Ambiente
L’Ambiente è oggi l’obiettivo più importante per il FAI, che nasce proprio come “Fondo per l’Ambiente” .
Un obiettivo di cui ci occupiamo, in particolare, con le nuove generazioni anche in occasione di momenti di grande partecipazione pubblica come le giornate FAI di Primavera, di Autunno e di Inverno. Un Ambiente che il FAI intende come: “Ambiente dell’Uomo”, come intreccio indissolubile tra Natura e Storia.
Il FAI è consapevole che il futuro dipende da tutti noi e che ognuno deve fare la propria parte.
Il FAI sa perfettamente che l'area mediterranea sarà tra le più colpite al mondo, con una netta riduzione delle precipitazioni, un aumento dell'aridità, ondate di calore e innalzamento del livello del mare. Questa consapevolezza deve essere condivisa il più possibile.
d) L’ultima tappa in terra agrigentina. Perché la Biblioteca Lucchesiana e il Museo Archeologico Regionale "Pietro Griffo?
Il museo archeologico regionale “Pietro Griffo” fa parte del Parco Archeologico Valle dei Templi con cui il FAI ha sempre proficuamente collaborato.
Va ricordato, infatti, che, sempre nell’ottica della collaborazione tra Pubblico e Privato, il progetto “Agri Gentium: landscape regeneration” promosso dal Parco Archeologico della Valle dei Templi in collaborazione con il FAI, l’Università di Palermo, il Treno Storico e altri partner , ha vinto il Premio del Paesaggio Italiano del 2017. Il progetto “Agri Gentium” è stato considerato di particolare valore tra le 97 proposte di candidatura pervenute in seguito al bando indetto dal MIBACT e la commissione ministeriale ha riconosciuto come uno dei principali elementi di qualità del progetto il Giardino della Kolymbethra che rappresenta la prima virtuosa collaborazione tra una Fondazione privata, qual è il FAI, e l’Assessorato ai beni culturali della Regione Sicilia.
Il progetto “Agri Gentium” è diventato, di conseguenza, il candidato italiano al Premio Europeo del Paesaggio del Consiglio d’Europa dove ha ricevuto la prestigiosa menzione: “sviluppo sostenibile e reintegrazione sociale”.
Quindi oggi uno dei simboli dello “sviluppo sostenibile” in Europa è Agrigento proprio grazie alla virtuosa collaborazione tra Istituzioni e Associazioni.
Nell’ottica di collegare la Valle dei Templi con il Centro Storico (quindi la Valle e il Colle) è stata scelta la splendida Biblioteca Lucchesiana perché la stessa è risultata tra i luoghi del cuore FAI più votati della provincia di Agrigento .
Il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, intervenendo alla Biblioteca Lucchesiana di Agrigento, ci ha ricordato che nel sistema dei beni culturali è essenziale la cooperazione fra i diversi soggetti coinvolti: siano essi pubblici, privati, nonché impresa e no-profit. La cooperazione è l’espressione, nel sistema dei beni culturali, dei principi costituzionali di pluralismo sociale (artt. 2 e 18 Cost.) e istituzionale (artt. 5 e 114); delle garanzie di libertà di manifestazione del pensiero (art. 21), di cultura e di ricerca (art. 33), di iniziativa economica (art. 41).
e) Agrigento città d’arte e di cultura, riconosciuta a livello mondiale. Ma non solo.... La scommessa di Progetto Genesi verso una cultura che promuova la protezione dei diritti umani in un territorio spesso chiamato ad affrontare in emergenza i fenomeni migratori. Cosa può anticiparci?
Il FAI partecipa anche alla missione educativa del Progetto Genesi coinvolgendo i volontari delle Delegazioni FAI e in particolare i mediatori di FAI Ponte tra Culture che, provenienti da diversi Paesi, offrono un originale contributo raccontando le opere della Collezione Genesi dal vivo e tramite podcast, arricchendole di una testimonianza diretta e personale.
Il progetto coniuga attività espositiva e formativa con l’obiettivo di fornire un'educazione permanente in difesa dei diritti umani.
Parte fondamentale di Progetto Genesi è dunque l'attività educativa, distribuita in un ricco programma di visite guidate e workshop inclusivi e partecipativi, sia in presenza nelle sedi espositive sia online, destinati a bambini, ragazzi e adulti.
Per dare profondità ai temi e alle questioni cui Progetto Genesi intende dare attenzione, suo ulteriore elemento di forza è il ciclo di appuntamenti, a cadenza mensile, in collaborazione con l'Università Cattolica del Sacro Cuore intitolato “Sfide per il futuro” e costituito da dodici conversazioni online, in cui esperti di rilievo internazionale si confrontano con docenti dell'Università Cattolica su rilevanti tematiche legate ai diritti umani.
E importante che tutto ciò avvenga anche ad Agrigento in quanto Agrigento è la “Porta d’Europa” ed è frequentemente interessata da fenomeni migratori. Migrazioni che oggi avvengono anche a causa della crisi climatica.
Proprio da Agrigento sono partiti messaggi importanti sul tema dell’accoglienza e del soccorso in mare, messaggi diretti all’intera Comunità Europea e non solo....
La Magistratura agrigentina ha, infatti, recentemente ribadito che “è un dovere il soccorso in mare” giudicando ad esempio il caso di Carola Rackete.
Da Agrigento, che si candida a diventare Capitale Italiana della Cultura per il 2025, sono partiti altri messaggi importanti e intimamente connessi con il tema dei diritti umani quale il progetto "liberare la bellezza" alla Scala dei Turchi.
Il progetto “Liberare la bellezza” è un processo lungo che ha visto protagonista appunto la Scala dei Turchi, monumento segnalato in negativo nel 2008 tra i Luoghi del Cuore FAI per l’ecomostro che vi insisteva fin dal momento in cui Legambiente aveva bloccato la realizzazione di un albergo sulla spiaggia (1992). Una lunga battaglia giudiziaria vinta, con il FAI costituito nei processi insieme a Legambiente e Comune di Realmonte.
Il FAI, con il partner Banca Intesa , si è reso, poi, disponibile a finanziare l’operazione di ripristino dei luoghi e ciò ha portato nel 2013 alla demolizione dell’ecomostro a spese del proprietario.
Di conseguenza la somma stanziata dal FAI per la demolizione del primo ecomostro
è stata utilizzata per la demolizione di un secondo ecomostro, questa volta a picco sulla scogliera, per la realizzazione di uno splendido belvedere.
Nell’estate 2016, a seguito della demolizione della struttura abusiva che deturpava il sito, è stato inaugurato il belvedere FAI della Scala dei Turchi.
In questo modo migliaia di visitatori potranno sempre godere dall’alto, liberamente e gratuitamente, di questo spettacolo della natura. La Scala dei Turchi è oggi uno dei luoghi del cuore più amati dagli italiani, è uno dei simboli della Sicilia nel mondo ed è candidata a diventare Patrimonio dell’Umanità.
Grazie all’impegno del FAI questo luogo straordinario ha ottenuto riconoscimenti importanti come la menzione “legalità e paesaggio, lotta all’abusivismo attraverso la valorizzazione delle qualità territoriali” conferita in occasione della prima Giornata Nazionale del Paesaggio e all’interno del Premio Nazionale del Paesaggio Italiano del 2017 .
Oggi, quindi, un territorio simbolo per anni di abusivismo viene additato all’Italia e all’Europa come simbolo di lotta all’abusivismo con ricadute positive (anche economiche) su tutto il territorio. L’impegno del FAI alla Scala dei Turchi è stato da ultimo riconosciuto anche dal New York Times.
In conclusione pandemia, guerra e crisi climatica ci spingono verso un mondo nuovo, che può essere affrontato solo con nuove idee e che speriamo sia migliore, e il progetto Genesi può rappresentare un’occasione importante per riflettere su un futuro che metta al centro l’Ambiente e i Diritti Umani proprio attraverso la nuova frontiera dell’Arte.
*Curatrice di Progetto Genesi - https://associazionegenesi.it/
**Capo Delegazione provinciale FAI Agrigento - https://fondoambiente.it/
La lotta al crimine organizzato: l’eredità di Falcone in una prospettiva transnazionale, l’esperienza latino-americana - Prima parte
Intervista di Nadia Caruso e Laura Reale a Laura Zúñiga*, Irene Spigno**, Alexander Araujo De Souza***
Il 23 maggio 1992 nella c.d. “Strage di Capaci” perdeva la vita Giovanni Falcone e, insieme a lui, la moglie Francesca Morvillo, e i tre uomini della scorta: Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro.
Gli attentati a Giovanni Falcone prima e a Paolo Borsellino dopo, costituiscono ancora una ferita aperta per lo Stato italiano. In un passaggio della sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”) si legge che «risulta quanto meno provato che la morte di Paolo BORSELLINO non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare - cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica. (…) E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come BORSELLINO avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con COSA NOSTRA e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche».
Ecco allora che la commemorazione delle stragi non è solo il ricordo di ciò che è accaduto ma l’elaborazione collettiva del lutto, che passa anche attraverso l’impegno a raccogliere l’eredità morale, e anche giuridica, che Falcone e Borsellino hanno lasciato.
Ancora attualissimo, per esempio, è il c.d. “metodo Falcone” ovvero il contrasto alla criminalità organizzata attraverso lo strumento delle indagini patrimoniali. Il magistrato palermitano fu infatti tra i primi ad intuire come «[...] il vero "tallone d'Achille" delle organizzazioni mafiose è costituito dalle tracce che lasciano dietro di sè i grandi movimenti di denaro connessi alle attività illecite più lucrose. Lo sviluppo di queste tracce, attraverso un'indagine patrimoniale che segua il flusso di denaro proveniente dai traffici illeciti, è quindi la strada maestra, l'aspetto decisamente da privilegiare nelle investigazioni in materia di mafia, perché è quello che maggiormente consente agli inquirenti di costruire un reticolo di prove obiettive, documentali, univoche, insuscettibili di distorsioni, e foriere di conferme e riscontri ai dati emergenti dall'attività probatoria di tipo tradizionale diretta all'immediato accertamento della consumazione di delitti.»[1]
Ancora prima del c.d. maxiprocesso, Falcone sviluppò inoltre importanti indagini sul traffico di droga, tra cui quelle relative al c.d. “processo Mafara” e, nell’esperienza investigativa del magistrato, fu determinante la collaborazione internazionale, che lo condusse ad allacciare una rete personale di contatti con alcuni dei più validi inquirenti americani: nei primi giorni del mese di dicembre 1980 si recò per la prima volta a New York per discutere di mafia e stringere una collaborazione con Victor Rocco, investigatore del distretto est e strinse altresì rapporti di collaborazione con Rudolph Giuliani, all’epoca Procuratore Federale per il distretto sud di New York.
Le idee restano ed è questo che la rivista Giustizia Insieme vuole celebrare nel giorno in cui ricorre il trentennale della morte del Giudice simbolo della lotta alla mafia, aprendo uno sguardo d'insieme sui sistemi latino-americani, sul livello di effettività delle tutele contro la criminalità organizzata e sulle influenze più o meno intense prodotte dalle esperienze dei nostri caduti.
Le interviste che seguono sono rivolte a docenti universitari (prof. Laura Zúñiga, cattedratica de Derecho penal Universiade de Salamanca e peruviana di nascita; Irene Spigno, Direttrice Generale dell’Academia Interamericana de Derechos Humanos; e magistrati (Alexander Araujo De Souza, magistrato del pubblico ministero in Brasile dal 2000 e, per oltre 8 anni, componente della procura antimafia di Rio de Janeiro (GAECO) nonché dottore in diritto penale e filosofia del diritto all’Università degli Studi Roma Tre) sud-americani, proprio per analizzare il contesto sociale e giuridico sud-americano e le strategie di lotta alla criminalità organizzata elaborate in sud-america anche grazie all’esperienza italiana.
Seguiranno, nei prossimi giorni, le interviste a Diego Luciani, Pubblico Ministero,Fiscal General ante los Tribunales Orales Federales de la Ciudad di Buenos Aires e di Iván González Amado, avvocato e Giudice della Jurisdicción especial para la paz, Colombia.
Il lavoro è stato realizzato grazie alla preziosa collaborazione del Prof. Federico Penna, direttore della Accademia Juris Roma, animatore culturale degli scambi fra cultura giuridica italiana e latino americana e del Prof. Vincenzo Militello, docente di Diritto Penale presso l’Università degli studi di Palermo.
1. Con la l. 13 settembre 1982, n. 646 venne inserita, nel codice penale italiano, la norma di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso. All’epoca vi era ancora chi considerava la mafia un’ “esagerazione politica”, tanto che la legge introduttiva della norma ne ha quasi riconosciuto definitivamente la stessa esistenza. Oggi, il termine “mafia” ha superato gli angusti confini regionali siciliani ed è diventato un sostantivo che definisce un preciso modo di agire di un’organizzazione criminale, che si caratterizza per la sua articolazione reticolare, la sua forza intimidatrice e la capacità di condizionare, talvolta, attraverso relazioni occulte tra la realtà criminale ed il potere politico ed economico, l’andamento delle scelte della pubblica amministrazione. L’evoluzione normativa italiana, con l’introduzione di questa specifica fattispecie di reato, è stata di stimolo nel vostro ordinamento nella lotta a fenomeni di criminalità organizzata? Sono previste fattispecie penali così specifiche e simili all’ associazione di tipo mafioso?
Irene Spigno Nell’ordinamento giuridico messicano esistono diverse fattispecie di reato che sanzionano i comportamenti legati all’associazione a delinquere, in maniera analoga al reato di associazione per delinquere di tipo mafioso previsto dall’art. 416 bis del codice penale italiano.
Si tratta in particolare dei reati di criminalità organizzata e di associazione a delinquere. Il primo è stato introdotto direttamente nella Costituzione messicana nel 2008, in particolare nell’art. 16, il quale stabilisce che “per criminalità organizzata si intende l’organizzazione di tre o più persone, per commettere reati in via permanente o reiterata” secondo quanto previsto dalla Legge federale contro la criminalità organizzata, pubblicata il 7 novembre 1996, che la fattispecie penale della criminalità organizzata come il reato che viene aggiornato «[quando] tre o più persone si organizzano di fatto per compiere in via permanente o ripetuta, i comportamenti che, da soli o insieme ad altri, abbiano lo scopo o l'esito di commettere uno o più dei seguenti reati, saranno puniti solo per tale fatto, quali componenti della criminalità organizzata”.
Secondo la legge, affinché il gruppo possa essere considerato un crimine organizzato, deve essere diretto a commettere uno dei seguenti reati: contrabbando, traffico di armi, terrorismo, tratta di esseri umani, furto di veicoli, sequestro di persona, tra gli altri.
Dal canto suo, il tipo penale dell’associazione per delinquere è disciplinata dall'art. 164 cp nei seguenti termini: “[a]chiunque, allo scopo di commettere un reato, fa parte di un'associazione o di una banda di tre o più persone, è condannato da cinque a dieci anni di reclusione e una da cento a trecento giorni di multa”.
La differenza tra la tipologia criminale di criminalità organizzata e quella di associazione per delinquere risiede nel fatto che la prima comporta una sanzione più elevata, perché tiene conto della maggiore gravità dei reati che rientrano nella finalità del gruppo criminale rispetto a quelli di associazione a delinquere. A loro volta, queste due tipologie criminali si distinguono dalla tipologia criminale associativa di tipo mafioso italiano in quanto le tipologie criminali messicane non tengono conto del potere intimidatorio generato dall'organizzazione criminale (elemento che è contenuto nella tipologia criminale associazione di tipo mafioso), e si limitano a contemplare due elementi: l'esistenza di un gruppo di tre o più persone e la finalità di commettere determinati reati.
Tali figure, infatti, sono state criticate per aver ritenuto che la loro regolamentazione implichi un illegittimo avanzamento della pena, nel senso che la pena dovrebbe essere irrogata solo per lesioni al patrimonio giudiziario, cosa che non si verifica con la criminalità organizzata e l'associazione per delinquere, poiché non si punisce la commissione di delitti lesivi del patrimonio, ma si punisce l'esistenza di un gruppo a tal fine, cioè l'intenzione, senza che siano implicati comportamenti. Tuttavia, a questa critica è stato risposto con l'argomento che il diritto penale punisce anche la messa in pericolo di beni giuridici, che, nella specie, costituisce la giustificazione dell'esistenza di tali reati nel diritto.
Alexander Araujo Rispetto alla criminalità brasiliana, il primo punto da rilevare consiste nel fatto che, come nella maggior parte del mondo, anche in Brasile si osserva un utilizzo inflazionato e talvolta scorretto del termine mafia. Infatti, non solo i comandos di narcotrafficanti o le milizie sono spesso chiamate mafie, ma il termine è usato anche per descrivere forme di criminalità tra le più varie. Troviamo, così, la “mafia degli appalti”, la “mafia della sanità”, la “mafia del calcio”, la “mafia dei concorsi pubblici”, la “mafia del cibo”, la “mafia dei farmaci”, la “mafia del calcio”, la “mafia del gioco d’azzardo”, “la mafia della contraffazione” e tante altre. Si parla di mafia anche – in un’accezione più estesa – per far riferimento a situazioni di diffusa illegalità o corruzione legate alle truffe elettorali, alle attività delle lobby o dei gruppi politico-affaristici. Questa profusione polisemantica del termine mafia, che incorpora diversi fenomeni che nulla hanno che vedere con la moderna criminalità organizzata, rappresenta un ostacolo a una corretta comprensione scientifica della criminalità brasiliana. Per questo, e a dispetto delle divergenze, si ritiene che il termine mafia non debba essere utilizzato in senso lato come sinonimo di una specifica organizzazione criminale, neppure con riferimento alle attività svolte dai clan, ma riportato al suo uso originario, ristretto, come sinonimo della criminalità organizzata siciliana.
Tralasciando la discussione semantica, si possono individuare tre distinti fenomeni rispetto alla criminalità in Brasile, che non si confondono con la moderna criminalità organizzata transnazionale. Il primo fenomeno consiste nella vigorosa criminalità politica che si è sviluppata nel paese. Gli altri due, ancora più importanti perché sono in via di organizzazione, riguardano l’esistenza di una criminalità di tipo violento, che raggruppa i comandos di narcotrafficanti e le milizie urbane.
Di fronte alle sfide di una violenta criminalità nativa in via di organizzazione e anche dell’incipiente insediamento dei clan criminali stranieri, lo Stato brasiliano si trovava ovviamente nella necessità di dotarsi di strumenti legali specifici nel campo del diritto penale. Trattandosi di una vera minaccia alla democrazia del paese e allo stato di diritto che deve essere combattuta in maniera efficace, si mostrava imprescindibile una legislazione speciale per la lotta alla criminalità organizzata, con reati specifici adattati alla realtà e alle ingegnosità dei clan criminali, con sanzioni riguardanti la privazione della libertà che scoraggino i criminali e anche concrete misure per combattere il riciclaggio di denaro.
Con riguardo a ciò, però, il Brasile era in colpevoli ritardo. Fino al 1995 non esisteva nell’ordinamento brasiliano alcuna disposizione di legge che consentisse di affrontare adeguatamente il fenomeno della criminalità organizzata. L’unica norma penale riguardante la delinquenza collettiva era quella che prevedeva il delitto di associazione per delinquere (“quadrilha ou bando”, art. 288 del codice penale), applicabile a qualunque attività in cui i clan criminali fossero coinvolti, con eccezione del delitto specifico di associazione per il traffico di droga, punito in maniera più dura dalla legislazione speciale.
Solo con la legge n. 9.034 del 1995 sono stati introdotti alcuni strumenti specifici per la lotta alle organizzazioni criminali. Questa legge, però, che disponeva “sui mezzi per la prevenzione e per la repressione alle attività svolte dalle organizzazioni criminali”, si è rivelata di poca o quasi nessuna efficacia. Oltre a non portare una definizione giuridica rispetto a esse e non aver introdotto nell’ordinamento brasiliano il delitto di “partecipazione ad una organizzazione criminale”, conteneva appena un vago riferimento alla possibilità d’impiego nei processi di criminalità organizzata di alcuni strumenti, come le intercettazioni ambientali, le operazioni sotto copertura e la consegna controllata (art. 2), i quali, comunque, non sono stati oggetto di una specifica disciplina normativa.
Un importante passo in avanti è stato compiuto nel 2004, quando il Brasile, con il decreto n. 5015, ha adottato formalmente la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (Convenzione di Palermo del 2000). Infatti, la necessità di definizione del tipo penale di associazione “mafiosa” è stata affermata dalla suddetta Convenzione, la quale ha stabilito espressamente nel suo art. 5: “1. Ogni Stato Parte adotta le misure legislative e di altra natura necessarie a conferire il carattere di reato, laddove commesso intenzionalmente: (a) Ad una o ad entrambi delle seguenti condotte quali reati distinti da quelli che comportano il tentativo o la consumazione di un'attività criminale: (I) L'accordarsi con una o più persone per commettere un reato grave per un fine concernente direttamente o indirettamente il raggiungimento di un vantaggio economico o altro vantaggio materiale e, laddove richiesto dalla legislazione interna, riguardante un atto commesso da uno dei partecipanti in virtù di questa intesa o che coinvolge un gruppo criminale organizzato; (II) La condotta di una persona che, consapevole dello scopo e generale attività criminosa di un gruppo criminale organizzato o della sua intenzione di commettere i reati in questione, partecipa attivamente: a. alle attività criminali del gruppo criminale organizzato; b. ad altre attività del gruppo criminale organizzato consapevole che la sua partecipazione contribuirà al raggiungimento del suddetto scopo criminoso; (b) All'organizzare, dirigere, facilitare, incoraggiare, favorire o consigliare la commissione di un reato grave che coinvolge un gruppo criminale organizzato.”
Nel giugno 2012, la Corte suprema brasiliana, dopo anni di dibattiti, ha tuttavia deciso in maniera definitiva che, per gli effetti penali, solo una legge materiale, ossia formalmente approvata dal parlamento brasiliano – e non una convenzione internazionale – è in grado di portare una definizione sulle organizzazioni criminali.
Subito dopo la decisione della Corte suprema, però, il concetto giuridico di organizzazione criminale è stato introdotto nell’ordinamento brasiliano con la legge n. 12.694 del 24 luglio 2012, la quale riproduce sostanzialmente la definizione stabilita dalla Convenzione di Palermo. La stessa legge ha disposto ancora sulle norme riguardanti la sicurezza dei giudici e dei pubblici ministeri che combattono contro la criminalità organizzata, ed ha reso possibile, grazie alle modifiche apportate al codice penale, la decretazione del sequestro e della confisca per l’equivalente per qualsiasi ipotesi, non solo quelle riguardanti la criminalità organizzata (art. 91, §§ 1 e 2, del codice penale). La legge, però, non ha attuato l’art. 5 della Convenzione di Palermo, cioè l’obbligo per ogni Stato parte di adottare misure concernenti la “penalizzazione della partecipazione ad un gruppo criminale organizzato”. Alcuni mesi dopo l’entrata in vigore di questa legge, tuttavia, nel contesto della diffusione del fenomeno delle milizie urbane, la legge n. 12.720 del 27 settembre 2012, apportando modifiche al codice penale, ha creato il reato di “costituzione di milizia privata, di organizzazione paramilitare o di squadrone della morte” (art. 288-A del codice penale). Nell’ordinamento brasiliano permaneva tuttavia la mancanza del tipo penale riguardante la partecipazione a un’organizzazione criminale.
Le innovazioni più importanti, comunque, si hanno con la legge n. 12.850 del 2013, che ha modificato la definizione legale di organizzazione criminale stabilita dalla legge n. 12.694, ha introdotto nell’ordinamento giuridico brasiliano il reato di “promozione, costituzione, finanziamento o partecipazione a un’organizzazione criminale” (art. 2) – punito con una pena dai tre agli otto anni di reclusione – ed ha regolato in maniera minuziosa alcuni importanti mezzi di prova, come le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (artt. 4 a 7), e certi mezzi di ricerca della prova, come la consegna controllata (artt. 8 e 9) e le operazioni sotto copertura (artt. 10 a 14).
Secondo il nuovo concetto di organizzazione criminale stabilito dalla legge n. 12.850 del 2013, essa consiste nell’associazione “composta di quattro o più persone, in maniera strutturata, e caratterizzata, se pur informalmente, dalla divisione dei compiti, con lo scopo di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio di qualunque genere, attraverso la pratica di infrazioni penali punite con una pena superiore a quattro anni di prigione, oppure se di carattere transnazionale” (art. 1, § 1). La legge, inoltre, non ha trascurato i fenomeni dell’insediamento delle mafie straniere in Brasile e della transnazionalità delle attività dei più diversi clan criminali, prescrivendo una punizione in maniera aggravata nel caso in cui i proventi dei reati commessi dall’organizzazione, “anche se parzialmente, abbiano come destino i paesi esteri”, oppure “se le circostanze del fatto possono evidenziare la transnazionalità dell’organizzazione criminale” (art. 1, § 4, comma III e V).
Laura Zúñiga Rodríguez In Perù, la prima legge contro la criminalità organizzata è stata promulgata nel 2013 con l'obiettivo di recepire le norme della Convenzione di Palermo, poiché fino ad allora il reato preso in considerazione era quello di associazione a delinquere, di provenienza spagnola. Le caratteristiche della criminalità organizzata peruviana sono peculiari. Si tratta principalmente di organizzazioni criminali legate al traffico di droga, dato che il Perù è il secondo produttore di cocaina al mondo. Dagli anni '80 sono state create filiere di produzione di valore attorno alla coltivazione e alla commercializzazione della coca e dei suoi derivati. La debolezza dello Stato, unita all'incapacità di assicurare un lavoro ai settori più vulnerabili, ha portato un numero significativo di persone a essere coinvolte nel traffico di droga, talvolta in alleanze con organizzazioni terroristiche. Anche la corruzione che genera profitti illeciti nelle strutture statali è significativa. Storicamente, ci sono stati tentativi di cattura dello Stato, cioè di corruzione ai livelli più alti della magistratura, della procura e di altre autorità pubbliche. Oggi gli operatori del diritto combattono la criminalità organizzata principalmente con i reati di organizzazione criminale e di banda criminale, che richiedono una minore strutturazione (art. 317 del Codice Penale). Questi reati sono più generici rispetto al reato di associazione di stampo mafioso in Italia.
2. Il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione chiudeva il c.d. maxi processo, iniziato 10 febbraio 1986 e definito di recente, dal giornalista e scrittore Roberto Saviano, nei seguenti termini: “Il Maxi – Storia del processo che ha sconfitto la mafia”. Si tratta, effettivamente, del più grande processo penale nella storia della lotta alla mafia, a carico di 476 imputati ed all’esito del quale vennero inflitti 19 ergastoli e pene per un totale di 2.665 anni di carcere. Nel vostro Paese sono mai stati celebrati processi di tale portata, che hanno segnato profondamente la storia politica, giuridica e sociale?
Irene Spigno In Messico non ci sono esempi simili al maxi processo italiano contro la mafia. Tuttavia, ci sono stati tentativi di combattere giudizialmente i gruppi della criminalità organizzata, soprattutto negli ultimi anni. Nel 2009, durante il mandato del presidente Felipe Calderón, è stata effettuata un’operazione nota come michoacanazo (alludendo allo stato di Michoacán in cui si è svolta). In tale operazione sono stati arrestati più di 30 alti funzionari pubblici, tra cui 11 sindaci comunali, oltre a un giudice e alcuni agenti di polizia. Tuttavia, ad oggi nessuna di queste persone sta scontando una pena privativa della libertà personale: alcuni di loro hanno ripreso la vita politica durante i successivi governi o, in alcuni casi, hanno ripreso la funzione che avevano al momento della detenzione.
Allo stesso modo, nel 1998 durante il mandato del presidente Ernesto Zedillo è stata condotta un’operazione diretta a smantellare uno dei principali cartelli della droga dell’epoca: il cartello di Juárez. Tale azione si chiamava “maxiprocesso” e aveva lo scopo di arrestare 110 membri dell'organizzazione criminale guidata da uno dei principali boss della droga della storia messicana: Amado Carrillo, soprannominato il Signore dei Cieli (in quanto trasportava la droga mediante flottiglie di aeroplani e aerei). Tuttavia, il “maxiprocesso” messicano non ha avuto i risultati sperati ed è attualmente considerato un operazione fallita con oltre 40 mandati di arresto non eseguiti e detenuti che non hanno ricevuto una condanna definitiva.
In generale, in Messico non è stata intrapresa alcuna azione legale efficace per smantellare i gruppi criminali organizzati. Le azioni utilizzate sono state caratterizzate piuttosto dall’arresto dei “grandi signori” della droga, senza che ciò si riflettesse in una diminuzione dell’attività criminale. In realtà, tali arresti hanno avuto l’effetto opposto, generando un forte aumento della violenza e dell’insicurezza, in quanto i gruppi criminali venivano lasciati senza una leadership forte e chiara e ciò favorisce delle lotte intestine che hanno causato la morte di molti civili.
È importante ricordare che una delle misure adottate dallo Stato messicano davanti al rischio di fuga dei grandi signori della droga, è stata quella di estradarli negli Stati Uniti. Recentemente, il Messico ha estradato Joaquín Guzmán Loera (leader del cartello di Sinaloa) a seguito di due evasioni dalle prigioni messicane ritenute di massima sicurezza. Così “el Chapo”, alla sua terza cattura, è stato estradato negli Stati Uniti, dove è stato processato, condannato e, attualmente, sta scontando la pena.
Alexander Araujo Una delle grandi preoccupazioni a livello garantistico consiste proprio nell’inquietante fenomeno del “gigantismo processuale” e i cosiddetti maxiprocessi, con megaistruttorie e megadibattimenti, e le conseguenze che essi portano alle garanzie processuali degli imputati. Innanzitutto, però, si deve rilevare che non si tratta di un fenomeno legato soltanto ai reati associativi di stampo mafioso, essendo, invece, riconducibile a due distinti oggetti: a) illeciti che sono espressione di una criminalità di massa o che determinano lesioni transindividuali, come per esempio la vendita di prodotti dannosi alla salute dei consumatori, i reati contro l’ambiente, le frodi bancarie, le bancarotte, i disastri colposi ecc.; b) reati di criminalità organizzata o di eversione terroristica. Ne consegue, pertanto, che non può essere individuata solo nei reati associativi la matrice genetica dei maxiprocessi. Le fattispecie costruite in chiave associativa, come l’associazione per delinquere di stampo mafioso, certamente rappresentano uno dei fattori incentivanti del gigantismo processuale, ma non ne costituiscono l’unica causa.
In Brasile, oltre alla criminalità organizzata, esiste una micidiale criminalità politica e le istituzioni sono spesso utilizzate come strumento per la perpetuazione del potere e per la creazione di fortune personali. Troviamo un altissimo tasso di corruzione che dalle sfere più alte si riverbera nell’intera società. Numerosi sono i casi che riguardano le più svariate forme di corruzione, di concussioni e di appropriazione della cosa pubblica, come deviazioni di fondi, lavori pubblici mai eseguiti, tangenti, vendite fraudolente di aziende statali, trasferimento delle fortune di uomini della politica nei paradisi fiscali e, in generale, un susseguirsi di scandali che coinvolgono ministri, assessori, funzionari statali, governatori, militari e poliziotti. Questo tipo di criminalità in Brasile costituisce, quindi, una manifestazione non solo di devianza, come tutti i fenomeni criminali, ma anche di anormalità istituzionale.
Proprio nel campo della criminalità politica si è svolto il processo di maggior portata che si è celebrato il Brasile, conosciuto come Operazione “Lava-Jato”, inizato nel marzo del 2014. Un vero maxiprocesso, in verità la più grande operazione di contrasto alla corruzione di tutti i tempi, con 70 fasi, più di 500 imputati, e pene per un totale di 2.286 anni e 7 mesi di carcere. Non è stato ovviamente un processo di mafia, però si sono utilizzati gli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata, soprattutto i collaboratori di giustizia, stabilito dalla legge n. 12.850 del 2013 (artt. 4 a 7).
Laura Zúñiga Rodríguez In Perù non c'è stato un processo così significativo contro la criminalità organizzata in sé, ma si sono svolti piuttosto vari e diversi procedimenti giudiziari per traffico di droga, corruzione e terrorismo. Come si è detto, le alleanze tra questi diversi fenomeni criminali sono significative, fino a giungere all'ibridazione in settori dello Stato considerati cocainomani e che favoriscono la coltivazione delle foglie di coca. Particolarmente criminogena è stata l'alleanza tra traffico di droga e terrorismo negli anni '80 fino al 1992, quando Abimael Guzmán, il leader del gruppo terroristico Sendero Luminoso, è stato catturato per essere poi condannato all'ergastolo nel 2006. Altri processi emblematici sono state le sentenze di condanna dell'ex presidente Alberto Fujimori e del suo consigliere Vladimiro Montesinos per vari crimini legati al massacro di Barrios Altos, al rapimento del giornalista Gorriti, etc. Perché questa vicenda è associata al narcotraffico? Il consigliere dell’ex presidente ha gestito milioni di dollari provenienti dal traffico di droga per comprare le massime autorità del Paese, cosa che è stata scoperta attraverso i suoi stessi video, che conservava per garantire la fedeltà. E, più recentemente, il caso dei "colletti bianchi del porto", scoperto attraverso le intercettazioni telefoniche per smantellare la criminalità organizzata nel porto di Callao. Si tratta di una rete di giudici, procuratori, membri del Congresso e uomini d'affari di alto livello, con a capo un giudice della Corte Suprema, che era corrotto per sentenze relative al traffico di droga e altri reati. Questo soggetto, Hinostroza Pariachi, è fuggito in Spagna e sono pendenti le relative richieste di estradizione dalla Spagna al Perù.
3. Il metodo investigativo inaugurato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ha messo in rilievo l’importanza delle indagini finanziarie e tutt’oggi la tracciabilità degli investimenti è uno degli aspetti più complessi delle indagini sul crimine organizzato. Nella vostra esperienza in che modo viene condotta l’analisi sugli investimenti dei capitali provenienti dall’estero? Riuscite a riscostruire l’origine dei capitali illeciti e quanti provengono da zone tradizionalmente legate al crimine organizzato di stampo mafioso? Avete condotto utili forme di collaborazione in tale ambito con altri Stati? Se si, in che modo e quali sono stati gli esiti?
Irene Spigno In Messico esiste un’agenzia governativa chiamata Unidad de Inteligencia Financiera (UIF), che dipende dal Ministero delle finanze e del credito pubblico ed è responsabile delle indagini in materia di lotta a tutte le operazioni basate sull’uso di risorse di provenienza illecita (come nel caso del riciclaggio di denaro).
Per quanto riguarda la collaborazione della UIF con altri Paesi, spicca quella con gli Stati Uniti, per la vicinanza geografica l’intensità dei rapporti commerciali regolati tra i due Paesi. Nell’ambito di tale collaborazione, nel 2008 a causa di un insolito afflusso in entrata di dollari in contanti dagli Stati Uniti al Messico, si iniziò un’operazione con l’obiettivo di identificare l’origine del flusso, che ha portato le autorità a limitare l’ingresso di valuta la cui origine legale non può essere verificata.
Un altro esempio di questo tipo di collaborazione è avvenuto nel 2013, quando le autorità del Messico e degli Stati Uniti hanno formato un gruppo investigativo a causa di segnalazioni di attività sospette fatte da diverse istituzioni finanziarie in Messico, che indicavano società tanto nel territorio nazionale così come all’estero segnate da una gestione irregolare di clienti e servizi finanziari, che poteva favorire la commissione del reato di riciclaggio. Sulla base di ciò, le agenzie di intelligence finanziaria di entrambi i paesi hanno avviato delle indagini e hanno scoperto che le società indagate formavano un'organizzazione di riciclaggio di denaro che operava come una rete internazionale.
Attualmente, gli obiettivi prioritari della UIF sono la lotta al furto di idrocarburi, alla tratta e al contrabbando di esseri umani, alle società “di comodo” o imprese fantasma, nonché la lotta al traffico di droga e alla corruzione politica. Attualmente, l’Unità ha assunto un ruolo speciale nella lotta alla criminalità, che si concretizza attraverso il blocco dei conti bancari irregolari e l'individuazione di società di copertura per il riciclaggio di denaro di gruppi criminali come i cartelli della droga. Ad esempio, nel 2021 sono stati congelati i conti bancari di 170 persone nello stato di Guerrero e 153 a Michoacán, considerando che si trattava di persone che hanno generato violenza.
Alexander Araujo È con la sua potenza economica, anziché con la violenza, che le organizzazioni criminali si radicano nel tessuto sociale e diventano difficili da combattere. Per la mala politica e per la malavita lo scopo fondamentale consiste precisamente nel fare soldi e acquisire ed aumentare il loro potere. Questi “valori”, sono ugualmente riscontrabile nel mondo dell’imprenditoria, dove spesso le riflessioni sulla morale e sulla legalità vengono tralasciate.
Se è vero che i boss temono il carcere duro, è altrettanto vero che il timore maggiore è quello di perdere il loro patrimonio. Senza i loro beni le organizzazioni criminali non riescono a mantenere la propria struttura imprenditoriale, perdono la forza per corrompere, e si vedono incapaci di infiltrarsi nel mondo della politica e di creare consenso sociale. Infatti, l’arresto dei boss non è sufficiente a destabilizzare in modo duraturo e profondo una vera organizzazione criminale. Se è possibile, tuttavia, sostituire facilmente un criminale, non è altrettanto facile riacquisire i capitali illecitamente ottenuti, soprattutto il potere economico e politico che da essi derivano.
Dunque, una delle principali strategie di contrasto alla criminalità organizzata deve consistere anche nell’aggressione ai patrimoni dei membri dei clan criminali e delle loro imprese. I legislatori devono concentrarsi sugli strumenti di indagine più incisivi per identificare e contrastare gli affari illeciti dei clan e anche sui metodi per individuare e bloccare i flussi di denaro sporco. Anche le attività lecite svolte dalle organizzazioni devono essere oggetto di inchiesta sull’aspetto patrimoniale, soprattutto le imprese coinvolte nell’esecuzione di opere pubbliche, che spesso eludono la normativa sui subappalti dando spazio alle persone indicate dai clan criminali.
In Brasile purtroppo non esiste ancora una tradizione di contrasto patrimoniale ai clan criminali. Il sistema di lotta alla criminalità è ancora basato principalmente sulle sanzioni di privazione della libertà personale. Molto difficilmente si riesce a riscostruire l’origine dei capitali illeciti e quanti provengono da zone tradizionalmente legate al crimine organizzato di stampo mafioso. Non ho mai condotto, in 22 anni come pubblico ministero, 8 di cui nel “Gruppo speciale di contrasto alla criminalità organizzata” (GAECO) della Procura Generale di Rio de Janeiro, utili forme di collaborazione in tale ambito con altri Stati. In questo punto abbiamo ancora molto da imparare dall’esperienza italiana.
Però, il legislatore brasiliano non ha trascurato il contrasto al riciclaggio dei capitali illeciti. La legge n. 9.613 del 1998 (con le modifiche apportate dalla legge 12.683 del 2012) stabilisce per il reato di riciclaggio una pena dai tre ai dieci anni di reclusione. In ogni caso, lo stesso reato è punito in maniera aggravata fino a due terzi se commesso per mezzo di organizzazioni criminali (art. 1, § 4).
Laura Zúñiga Rodríguez In Perù, la confisca dei beni è legata principalmente alla lotta contro la corruzione, ma, come abbiamo visto, questa è particolarmente alimentata dal traffico di droga. Il sequestro dei beni della corruzione Fujimori-Montesinos negli anni 2000, operato in conti in Svizzera e Lussemburgo, è storico. Sono stati confiscati circa 37 milioni di soles (circa 9,3 milioni di euro), ma si stima che i proventi della corruzione ammontino a 6 miliardi di soles (circa 1,5 miliardi di euro). Più recentemente, con il caso Odebrecht, sono venuti alla luce i conti di Andorra. Data l'importanza di questo strumento per prevenire la recidiva nel reato, nel 2018 con il Decreto Legislativo 1373, è stato introdotto il ‘Processo autonomo di estinzione della proprietà’, in cui interagiscono pubblici ministeri, giudici e polizia speciale, e che è un processo indipendente dal processo penale o civile. Pertanto, non richiede una condanna ed è l'imputato a dover dimostrare l'origine lecita del bene oggetto di indagine.
4. Negli anni della lotta alla mafia, quando ancora la mafia non aveva trovato riconoscimento giuridico nel nostro ordinamento, una parte della magistratura, tra cui i giudici Falcone e Borsellino, e della politica, compresero che lo strumento migliore per contrastare il fenomeno della criminalità organizzata fosse quello di attaccare i patrimoni. Con la legge 13 settembre 1982 n. 646 venne quindi ampliato l’ambito di applicazione delle misure di prevenzione “agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso”. La norma si è rivelata di fondamentale importanza nella lotta al crimine organizzato, in quanto consente di pervenire alla confisca di capitali anche rispetto a soggetti che - pur non essendo necessariamente condannati per il delitto di associazione mafiosa – risultino pericolosi, poiché hanno accumulato patrimoni illeciti in forza dei rapporti intrattenuti nel tempo con soggetti intranei alla consorteria mafiosa. Tale sistema ha consentito di privare le organizzazioni mafiose italiane di ingenti capitali accumulati negli anni che, in tal modo, vengono reimmessi in canali di gestione “legali”. Qual è la vostra esperienza circa le misure di prevenzione patrimoniali?
Irene Spigno Nell'ordinamento giuridico messicano, l'utilizzo di denaro o risorse provenienti da attività criminali è sanzionato dal reato di operaciones con recursos de procedencia ilícita. Mediante questo tipo penale si intende prevenire il reato di riciclaggio, che altro non è che l'impiego di denaro proveniente da attività criminali in attività legali, con lo scopo di disporne liberamente e simularne l’origine legale.
Per dimostrare che si tratta di risorse che provengono da attività illecite, è necessaria la presenza di vari indizi in questo senso, così come l’impossibilità per coloro che sono in possesso di tali risorse di provarne la legittima provenienza. Tale reato è disciplinato dal Codice penale federale e stabilisce una pena che può essere considerata elevata, da 5 a 15 anni di reclusione.
Allo stesso modo, il 17 luglio 2013 è entrata in vigore la Ley Federal para la Prevención e Identificación de Operaciones con Recursos de Procedencia Ilícita ed è stato creato anche il Portale per la prevenzione del riciclaggio di denaro. Lo scopo di tali misure è raccogliere elementi per indagare sui reati di operazioni con risorse di provenienza illecita e prevenire il finanziamento di organizzazioni criminali con tali risorse.
L’ordinamento giuridico messicano prevede anche la Ley Nacional de Extinción de Dominio, pubblicata nel 2019 (tuttavia, prima di tale legge ne esisteva una di contenuto simile, in vigore dal 2009 e poi abrogata dalla legge del 2019), e ha lo scopo di privare lo Stato di beni ottenuti o utilizzati nella commissione di diversi reati, tra i quali quelli relativi alla criminalità organizzata, alla tratta di esseri umani, all'estorsione, al sequestro di persona, ai reati contro la salute, solo per citarne alcuni. L'obiettivo di questa legge è quello di interrompere il flusso di ricchezza delle organizzazioni criminali, che a sua volta può scoraggiare i loro partecipanti dal perseverare in essa.
Alexander Araujo Infatti, le principali misure patrimoniali contro la criminalità organizzata sono il sequestro e la confisca, entrambi previsti dalla Convenzione di Palermo. Il sequestro è stato definito come “l’interdizione temporanea del trasferimento, della conversione, cessione o movimento dei beni, o la custodia o il controllo temporanei dei beni conformemente ad un provvedimento emesso da un tribunale o altra autorità competente” (art 2, f). Già la confisca è stata definita come l’espropriazione o “la definitiva ablazione di beni a seguito di decisione del tribunale o di altra autorità competente” (art. 2, g). La Convenzione dispone anche nel auo art. 12 sui beni che possono essere sequestrati o confiscati.
In Brasile, le suddette misure patrimoniali di contrasto ai clan criminali erano già stati previsti dalla legislazione, sia il sequestro (artt. 125 a 133 del codice di procedura penale) che la confisca dei beni (art. 91, comma II, del codice penale). In quest’ultimo caso, la grande innovazione è stata la possibilità, apportata dalla legge n. 12.694 del 2012, di decretare il sequestro e la confisca per l’equivalente. Molto di recente, con la legge n. 13.964/2019 (il cosiddetto “pacote anticrime”), si è prevista anche la confisca allargata dei beni (con l’introduzione dell’art. 91-A al codice penale). Si deve sottolineare, però, che queste misure si applicano non solo nei processi riguardanti la criminalità organizzata, ma in qualsiasi processo criminale.
Però in Brasile purtroppo non esiste la possibilità di pervenire alla confisca di capitali anche rispetto a soggetti che – pur non essendo necessariamente condannati per il delitto di associazione mafiosa – risultino pericolosi, poiché hanno accumulato patrimoni illeciti in forza dei rapporti intrattenuti nel tempo con soggetti intranei alla consorteria mafiosa. Come si è detto, in Brasile purtroppo non esiste ancora una tradizione di contrasto patrimoniale ai clan criminali.
Laura Zúñiga Rodríguez Oltre al processo di confisca della proprietà descritto sopra, l'ordinamento giuridico peruviano regola la confisca dei beni criminali, che è stata sempre più estesa. I beni possono essere sequestrati non appena viene aperto il procedimento, in via provvisoria (misura cautelare). Esiste anche l'opzione del sequestro dei beni che serve a garantire la riparazione civile e a prevenire l'effettivo spostamento dei beni. Il Codice penale peruviano del 1991 prevede la confisca, all'art. 102, dei beni "indipendentemente dalle trasformazioni subite". Nel 2013 è stata introdotta la confisca per equivalente dei proventi del reato. Ma, senza dubbio, l'istituto con la maggiore capacità di rendimento è quello già richiamato che comporta l'estinzione della proprietà, un processo autonomo introdotto nel 2018, che consente allo Stato di confiscare beni di origine illecita legati a vari reati (terrorismo, traffico di droga, riciclaggio di denaro... attività legate alla criminalità organizzata). È considerato un processo con propri standard e garanzie probatorie. In breve, un sottosistema.
5. Al fine di contrastare la lotta al crimine organizzato venne istituita, grazie all’impulso di Giovanni Falcone durante il periodo in cui rivestiva la direzione degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, la Direzione Nazionale antimafia, introdotta con il d. l. 367/1991 (convertito in legge n. 8 del 22 gennaio 1992). Tale ufficio è coordinato dal Procuratore Nazionale Antimafia e svolge un ruolo specifico di contrasto alle forme di criminalità organizzata coordinando, altresì, a livello periferico, le Direzioni Distrettuali Antimafia (DDA), istituite presso le Procure della Repubblica nei ventisei distretti di Corte d’Appello. Esistono, anche nel vostro ordinamento, articolazioni di questo genere a livello di magistratura ordinaria e forze di Polizia?
Irene Spigno Ci sono alcune unità specificamente incaricate di combattere i gruppi criminali organizzati. Una di queste agenzie è l’Ufficio del Procuratore Speciale per le Indagini sulla Criminalità Organizzata (Subprocuaduría Especializada en Investigación de Delincuencia Organizada, SEIDO), che dipende dal Procuratore Generale della Repubblica ed è stata istituita dalla Ley Federal contra la Delincuencia Organizada, con l’obiettivo di indagare e perseguire i reati commessi da esponenti della criminalità organizzata. Inoltre, sono state create sei unità investigative specializzate in materia di reati contro la salute, per le indagini sul terrorismo, raccolta e traffico d’armi, sulle operazioni realizzate con risorse di origine illecita, contraffazione o alterazione valutaria, in materia di sequestro di persona, tratta di minori, persone e organi e infine, rapine e furto di veicoli. Nel 2012, sono state istituite anche le seguenti direzioni generali: per il controllo dei procedimenti penali e della protezione in materia di criminalità organizzata; per il supporto legale e del controllo ministeriale nella criminalità organizzata; per la tecnologia, sicurezza e supporto alle indagini sulla criminalità organizzata.
All'interno delle agenzie preposte alla lotta alla criminalità organizzata, nel 1989 fu creato il Centro indagini e sicurezza nazionale (CISEN dal nome in spagnolo, Centro de Investigación y Seguridad Nacional), un organismo decentrato dipendente dal Ministero dell'Interno, la cui missione era quella di generare intelligence su questioni di sicurezza nazionale. Tra le sue facoltà vi era quella di proporre misure per prevenire e contenere i rischi e le minacce dirette a invadere il territorio, la sovranità, le istituzioni nazionali e lo stato di diritto.
Il CISEN si occupava dell’elaborazione delle strategie nella lotta alla criminalità organizzata. Dal 1° dicembre 2018 il CISEN è stato sostituito dal Centro Nacional de Inteligencia, le cui funzioni comprendono la pianificazione, il coordinamento interistituzionale e il lavoro di intelligence per rilevare le organizzazioni criminali presenti nel Paese.
Alexander Araujo L’effettività del contrasto alla criminalità organizzata esige strategia, coordinazione e specializzazione. Considerando le più distinte caratteristiche di ogni clan criminale, ci debbono essere strategie differenziate a seconda del tipo di organizzazione criminale che si deve affrontare. Sull’ambito strategico, molti sono i particolare che devono essere presi sul serio, come la struttura verticale o orizzontale dell’organizzazione, il livello di segretezza, il modo come i clan controllano i territori e il grado di pervasività nell’economia legale. Questo bisogno di strategie specifiche e differenziate di contrasto conduce all’inevitabile necessità di specializzazione delle Procure in materia di criminalità organizzata.
La specializzazione delle procure ha un’importanza decisiva per un effettivo combattimento alla criminalità, soprattutto nei confronti della criminalità organizzata. La necessità di affrontare fenomeni criminali gravi e complessi impone una più qualificata professionalità dei pubblici ministeri, richiedendo che conoscono la realtà dei clan criminali, il loro modo di attuare, come controllano il territorio, come si infiltrano nella politica e nelle istituzioni e come riescono a ripulire i loro capitali illeciti tramite investimenti nell’economia legale. Questi Procuratori specializzati devono però lavorare sempre in équipe, perché solo così si può avere la necessaria “visione d’insieme” necessaria alla ricostruzione dei fatti e delle responsabilità. In questo senso, la Raccomandazione REC (2000) 19, del Consiglio d’Europa, nel suo art. 8, ha stabilito che “per far fronte in modo ottimale alle forme di sviluppo della criminalità, in particolare quella organizzata, la specializzazione dovrebbe essere considerata prioritaria, nell’ambito dell’organizzazione degli uffici del Pubblico ministero, come pure in termini di formazione e di carriera. Va anche sviluppato il ricorso ad équipes di specialisti, comprese squadre pluridisciplinari per assistere il Pubblico ministero nell’esercizio delle sue funzioni.”. Oltre alla specializzazione dei procuratori, pertanto, un effettivo contrasto alla criminalità organizzata richiede ancora personale qualificato per coadiuvare i procuratori nelle indagini e nei processi, come per esempio periti ed esperti in economia, contabilità e informatica, insomma, assessori specializzati nelle più diverse discipline e conoscenze specifiche.
In Brasile ci sono specializzazioni sia a livello federale che negli stati della federazione, con riguardo alle forze di Polizie, con le “Delegacias” specializzate nel contrasto alla criminalità organizzata, alle Procure, con i cosiddetti “gruppi di attuazione speciale di contrasto alla criminalità organizzata” (GAECO), e ai giudizi specializzati (“Varas especializadas para o julgamento de organizações criminosas e lavagem de dinheiro”). Non esiste, però, a causa della difficoltosa sistemazione dello stato federale, una Direzione Nazionale Antimafia. Il coordinamento fra le procure si svolge in ogni stato della federazione in maniera autonoma, e anche a livello dell’Unione federale. Anche le articolazioni a livello di magistratura ordinaria e forze di Polizia viene fatta all’interno di ogni stato della federazione.
Laura Zúñiga Rodríguez Il Perù dispone di un sistema specializzato nella lotta alla criminalità organizzata, che comprende polizia, procuratori e giudici. La procedura penale peruviana ha un sistema accusatorio, vale a dire che è il pubblico ministero a guidare e dirigere le indagini, motivo per cui la specializzazione è fondamentale. Esistono infatti uffici di procura contro la criminalità organizzata a livello nazionale e un procuratore capo a Lima che coordina l'intera lotta contro questa forma di criminalità. Esistono anche tribunali specializzati e corti superiori specializzate. Da parte sua, la Polizia nazionale peruviana, che dipende dal Ministero dell'Interno, dispone di forze di polizia specializzate le cui indagini sono dirette dai procuratori.
6. Giovanni Falcone fu tra i primi magistrati in Italia ad intuire l’importanza del fenomeno del c.d. “pentitismo” ovvero della necessità di incentivare, con la previsione di regimi sanzionatori premiali, forme di collaborazione da parte di soggetti intranei alle organizzazioni mafiose, al fine di scardinarne la struttura dall’interno e risolvere importanti e delicate indagini. Le norme a tutela della figura del collaboratore e del testimone di giustizia (di cui al D.L. 15 gennaio 1991 n. 8 (convertito nella L. 15 marzo 1991 nr. 82), si sono rivelate essenziali per consentire una proficua lotta al crimine organizzato: i collaboratori di giustizia hanno, infatti, consentito di far luce sull’organizzazione e sull’operatività dell’associazione mafiosa di riferimento. Sono previste discipline analoghe nel vostro ordinamento e che effetti hanno avuto nella lotta al crimine organizzato?
Irene Spigno Nel 2008, la Costituzione messicana è stata riformata per introdurre il sistema penale accusatorio, a cui hanno fatto seguito importanti riforme legislative dirette a disciplinare il nuovo processo penale. Una di queste leggi è il Codice nazionale di procedura penale, pubblicato nel 2014, che prevede varie soluzioni alternative o forme anticipate di risoluzione delle controversie, tra le quali vi sono i cd. “criteri di opportunità”, mediante i quali è possibile l’astensione dall'azione penale in vari casi, tra i quali quello in cui l’imputato fornisca informazioni essenziali ed efficaci per il perseguimento di un reato più grave di quello di cui è accusato. In questo modo, le persone che all'interno di un'organizzazione criminale commettono reati minori sono incentivate a “denunciare” reati più gravi, possibilità questa che contribuisce a costruire casi giudiziari solidi contro i leader di queste strutture.
Allo stesso modo, nell'articolo 20, sezione B, sezione III della Costituzione messicana, si stabilisce che la legge predisporrà benefici a favore degli imputati, perseguiti o condannati che forniscono informazioni importanti per l'indagine e il perseguimento dei reati in materia di criminalità organizzata. A tale proposito l’art. 35 della Legge federale contro la criminalità organizzata contempla la possibilità che alcune persone collaborino alle indagini e al perseguimento di coloro che fanno parte della criminalità organizzata. All'interno dei presupposti all'origine di questa figura di collaborazione, vi è quello secondo il quale una persona che fa parte di un gruppo criminale organizzato fornisce informazioni affinché altri membri siano condannati, a condizione che i membri segnalati svolgano compiti di amministrazione, direzione o vigilanza.
Tale tipo di collaborazione comporta per gli informatori ricevano alcuni benefici, regolati dalla legge, come la riduzione della metà o anche due terzi della pena inflitta, nonché l'accesso a prestazioni di pre-rilascio, nel caso di persone che stiano già scontando una pena detentiva.
Alexander Araujo Infatti, un importante strumento che consente di affrontare in maniera efficace le organizzazioni criminali consiste nell’utilizzazione degli imputati che collaborano con la giustizia. Negli ordinamenti di common law, l’uso de pentiti risale al modello della “premialità negoziale” in base al diverso ruolo assunto dal Prosecutor, che può “negoziare la pena”, e non si applica solo nei casi in cui si indaga di criminalità organizzata. Nei sistemi processuali della famiglia romano-germanica, invece, il “pentitismo” si basa in un modello di “premialità legale”, cui parametri vengono previsti dalla legge, non offrendo di solito discrezionalità negoziale all’organo dell’accusa. Nonostante le enormi diffidenze sull’istituto, questo costituisce un importantissimo strumento in grado di far breccia nel “muro di omertà” e di rendere effettivo il contrasto alla criminalità organizzata.
Il coimputato che collabora deve essere protetto dall’autorità statale, che deve cercare di evitare vendette e ritorsioni al pentito o alla sua famiglia dalla parte delle organizzazioni criminali. Infatti, la tutela dell’incolumità del pentito appare come un dovere di prima importanza per lo Stato, dal momento in cui questo si avvale del contributo probatorio di chi si dissocia di un’organizzazione criminale per collocarsi dalla parte della giustizia. Ci deve essere, dunque, una tutela dei pentiti non solo fuori dal carcere, ma anche dentro la struttura carceraria, in modo da tutelare integralmente chi collabora.
In Brasile, solo con la legge 12.850/2013 si sono finalmente regolate in maniera decisiva le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (artt. 4 a 7). È stato previsto un regime premiale di riduzione della pena (fino a due terzi) oppure la sostituzione della pena di prigione per una pena alternativa e anche misure di protezione per chi collabora con la giustizia, e si sono stabiliti il procedimento della collaborazione, con i dettagli sui tempi e modi di collaborazione. Infatti, il connubio tra custodia cautelare, pesanti pene e tempi lunghi dell’istruttoria rafforzano negli imputati il timore del carcere e di scontare dure pene, permettendogli di “sfruttare” gli spazi offerti, come premio, dalla legislazione sui pentiti. Questo strumento à stato decisivo per il successo della Operazione “Lava-Jato”, la più grande operazione di contrasto alla criminalità politica e alla corruzione che si è verificata in Brasile.
Laura Zúñiga Rodríguez I cosiddetti "processi di collaborazione efficace" sono regolati in Perù come processo autonomo guidato dall'Ufficio del Pubblico Ministero (procuratore). È considerato un processo speciale, non fondato sul contraddittorio, ma sul principio del consenso tra le parti, dunque una sorta di giustizia negoziata, per combattere efficacemente la criminalità organizzata. Si è rivelato uno strumento fondamentale per smantellare le organizzazioni criminali coinvolte nel traffico di droga e nella corruzione. È disciplinato dal Decreto Legislativo n. 1301 del 2016 e dal Regolamento 007/2017/JUS del 2017, per i reati di riciclaggio di denaro, terrorismo, sequestro di persona, corruzione e altri legati alla criminalità organizzata. L'estinzione della proprietà può essere decretata anche in caso di assoluzione se viene rilevata l'origine illecita del bene, fatta salva la posizione degli acquirenti in buona fede.
7. Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vennero introdotte alcune modifiche legislative che consentirono di applicare il c.d. “carcere duro”, di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario italiano, in presenza di "gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica", sospendendo le garanzie e gli istituti dell'ordinamento penitenziario, per applicare "le restrizioni necessarie" nei confronti dei detenuti per mafia, con l'obiettivo di impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio. Oggi ci si domanda quanto ed in che limiti, tale regime di detenzione, sia compatibile con la Costituzione, specie laddove, ad esempio, esclude in radice la possibilità per i condannati all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, qualora non abbiano collaborato con la giustizia, di essere ammessi alla liberazione condizionale. Cosa prevede in proposito il vostro ordinamento penitenziario?
Irene Spigno In Messico è stata profondamente criticata l’esistenza di discipline che instaurino una sorta di diritto penale del nemico. Ciononostante, nell’ordinamento messicano è possibile trovare delle figure, come quella dell’arraigo, prevista dall’art. 16 comma 8, che prevedono delle misure più severe per le persone indagate per il reato di criminalità organizzata. Con riferimento a tali reati è, infatti, previsto che per quaranta giorni, l'indagato può essere privato della libertà dall'autorità inquirente senza che intervenga una determinazione giudiziale, e si prevede la possibilità di proroga di tale termine fino a ottanta giorni. Nonostante tale figura costituisca chiaramente una forma di punizione anticipata, si è cercato di aggirare una possibile pronuncia di incostituzionalità da parte della Suprema Corte di Giustizia della Nazione inserendola direttamente nella Costituzione federale.
Un'altra delle misure previste dall’ordinamento messicano con riferimento ai reati legati alla criminalità organizzata consiste nell’esclusione della possibilità che i condannati scontino la pena in un centro penitenziario vicino al proprio domicilio,. Parimenti è limitata la comunicazione delle persone perseguite o condannate per tale reato, salvo il caso di comunicazione con il loro difensore.
Dal canto suo, la Legge nazionale sull'esecuzione penale stabilisce che nei casi di criminalità organizzata non si applicano i benefici pre-rilascio della libertà condizionale, della liberazione anticipata o della sostituzione della pena detentiva. Allo stesso modo, non si applicano i permessi umanitari, che consistono in uscite dal centro penitenziario in caso di decesso di un familiare o in caso di malattia terminale. Infine, tale legge esclude la possibilità di trasferimenti volontari da un carcere all'altro nei casi di criminalità organizzata.
Alexander Araujo Come si è detto, in Brasile il sistema di lotta alla criminalità è ancora basato principalmente sulle sanzioni di privazione della libertà personale. Con riguardo a questo aspetto, con la legge n. 10.792 del 2003 – che ha modificato la legge sulle esecuzioni penali (art. 52) – il legislatore ha introdotto nell’ordinamento brasiliano l’istituito del Rdd (regime disciplinar diferenciado), direttamente inspirato all’istituto del carcere duro italiano (art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario), che si propone lo scopo di rafforzare il contrasto alle attività che i comandos di narcotrafficanti svolgono dentro le carceri. Con una durata massima di due anni (art. 52, I, della legge sulle esecuzioni penali), nel Rdd ci sono diverse restrizioni ai diritti dei detenuti in caso di rischio all’ordine e alla sicurezza dello stesso carcere o della società (art. 52, § 1º, I) nei casi dei sospetti di appartenenza ad una organizzazione criminale (art. 52, § 1º, II).
Però, l’efficacia della lotta alla criminalità in Brasile dipende non solo dalle necessarie politiche di stampo repressivo, ma dal collegamento fra esse e le ancora più essenziali politiche pubbliche concernenti la soddisfazione dei diritti sociali dei cittadini. C’è da sperare, dunque, in un’inversione di tendenza, che porti ad un Brasile con più Stato sociale e meno Stato poliziesco e penale. Ovviamente, però, non si deve sperare nel solo sviluppo sociale per contrastare il fenomeno della criminalità. Mentre i diritti sociali non vengono presi sul serio, lo Stato deve strutturarsi e le forze dell’ordine devono agire in difesa dello stato di diritto e della democrazia.
Se è vero, come diceva Giovanni Falcone che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà anche una fine”, si può ben affermare in maniera conclusiva che la criminalità organizzata in Brasile è ancora nel suo principio. Occorre sperare, tuttavia, che non solo lo Stato, le forze dell’ordine, i giudici e i pubblici ministeri, ma l’intera società riesca a frenare il suo sviluppo e rendere più prossima la sua fine.
Laura Zúñiga Rodríguez Il Decreto Legislativo n. 1296 del 2016 modifica il Codice dell'Esecuzione Penale in materia di benefici penitenziari e redenzione della pena per motivi di lavoro o di studio, di semilibertà e di liberazione condizionale e stabilisce all'art. 50 l'inapplicabilità di tutte queste misure per i reati legati alla criminalità organizzata di cui alla Legge 30077. In breve, i condannati per reati di criminalità organizzata hanno un regime speciale per scontare la pena che rende la pena più dura, essendo classificata come regime speciale.
*Cattedratica de Derecho penal Universiade de Salamanca.
** Direttrice Generale dell’Academia Interamericana de Derechos Humanos
***magistrato del pubblico ministero in Brasile dal 2000 e, per oltre 8 anni, componente della procura antimafia di Rio de Janeiro (GAECO) nonchè dottore in diritto penale e filosofia del diritto all’Università degli Studi Roma Tre.
[1] Giovanni Falcone e Giuliano Turone, Tecniche di indagine in materia di mafia, 1982, pag. 10
Nascita e storia del pool anti-mafia: il problema del metodo di Gioacchino Natoli
Il modello di “lavoro specializzato di gruppo” per i processi di mafia [il cd. pool dell’Ufficio Istruzione][1] fu – ad un certo momento della vita giudiziaria di Palermo all’inizio degli anni Ottanta – una vera e propria necessità per fronteggiare non più sostenibili carenze culturali ed organizzative in ordine all’assoluta ignoranza del fenomeno mafioso, in un periodo nel quale venivano uccisi uno dietro l’altro (a parte un centinaio di rinomati mafiosi) uomini dello Stato quali Boris Giuliano (21.7.1979), Cesare Terranova (25.9.1979), Piersanti Mattarella (6.1.1980), Gaetano Costa (6.8.1980), Pio La Torre (30.4.1982) e Carlo Alberto dalla Chiesa (3.9.1982).
Ma per giustificare tale affermazione – che può apparire perentoria – ritengo utile un flash-back, consistente nel ripercorrere (sia pure in sintesi) le vicende degli anni Sessanta/Settanta nonché l’iter dei pochissimi processi di mafia (4/5) celebrati in quegli anni.
Processi (quasi) del tutto falliti anche per l’assoluta inadeguatezza del metodo di lavoro utilizzato per indagare su un fenomeno che non è semplice criminalità, ma parte di un sistema di potere.
Si scoprirà, in tal modo, che lo sviluppo storico è stato molto più lineare di quanto si possa immaginare e, soprattutto, che l’analisi ci conduce (per molti versi) anche al centro di indagini di mafia di questi ultimi anni.
A riprova del fatto che nelle dinamiche di Cosa nostra la “chiave di lettura” è – molto spesso – riposta in un passato che, per statuto epistemologico, deve essere sempre tenuto presente se si vuole avere un corretto approccio interpretativo con i problemi dell’attualità.
Per capire appieno ciò dobbiamo ricordare che il 30 giugno 1963, alle ore 11.30, nella contrada di Ciaculli, in Palermo, saltava in aria una “Giulietta”, imbottita di tritolo, e morivano sette uomini dello Stato, tra carabinieri, poliziotti ed artificieri.
Erano i tempi della cd. “prima guerra di mafia”.
In effetti, per limitarci a pochissimi cenni, di auto imbottite di esplosivo ve ne erano state molte in quei mesi.
Ad esempio:
- il 12 febbraio 1963 una Fiat 1100 era scoppiata, sempre a Ciaculli, dinanzi alla casa di Totò Greco “cicchiteddu” (cugino di Michele Greco “il papa”), senza fare morti;
- il 26 aprile 1963 una “Giulietta” era scoppiata a Cinisi (paese di Gaetano Badalamenti), uccidendo il famoso “don” Cesare Manzella ed un suo fattore;
- e quella stessa mattina del 30 giugno 1963, all’alba però, un’altra “Giulietta” era esplosa a Villabate (confinante con Ciaculli), dinanzi al garage del boss Giovanni Di Peri, uccidendo il guardiano ed un passante.
Il Di Peri sarebbe stato poi trucidato, vent’anni dopo, nella cd. strage di Natale del 1981 a Bagheria.
Nonostante il gravissimo sconcerto destato nell’Italia intera dalle vicende di Ciaculli del 30 giugno 1963 (invero, due auto saltate in aria nel giro di quattro ore non erano facilmente “digeribili”, mediaticamente, neppure allora), il Cardinale di Palermo, S.E. Ernesto Ruffini, appena pochi giorni dopo – nello scrivere al Segretario di Stato vaticano Cardinal Cicognani – trovava il coraggio di affermare che
“la mafia era un’invenzione dei comunisti per colpire la D.C. e le moltitudini di siciliani che la votavano”.
Per chi non lo ricordasse, il Card. Ruffini era colui che aveva – solo poco tempo prima – accolto incautamente l’invito di Piddu Greco “u tenente” (padre di Michele Greco “il papa” e di Salvatore Greco “il senatore”) per benedire la nuova chiesa delle contrade di Croceverde-Giardini e per pranzare – subito dopo – alla di lui tavola ([2]). Tra l’altro, nell’ottobre 1965, il Piddu Greco veniva arrestato, ed il 30.5.1966 inviato al soggiorno obbligato dalla Corte di Appello di Palermo ([3]).
Il Cardinale era zio, altresì, dell’allora giovane avv. Attilio Ruffini, appena venuto da Mantova ma già legale e factotum dei noti cugini Nino e Ignazio Salvo, padroni delle esattorie siciliane (avevano, infatti, ottenuto – in data 11.1.1963 – il loro primo appalto decennale con una legge regionale approvata anche con il voto determinante di alcuni deputati dell’opposizione).
Ma in quello stesso mese di luglio 1963, all’Assemblea Regionale Siciliana l’on. avv. Dino Canzoneri (gruppo DC) ebbe la tracotanza di affermare che Luciano Leggio era un galantuomo calunniato dai comunisti solo perché “era un coerente e deciso avversario politico” ([4]).
Lo Stato reagì alla strage di Ciaculli (almeno formalmente), facendo finalmente funzionare quella Commissione parlamentare antimafia che era stata frettolosamente costituita da qualche mese (febbraio 1963, Presidente il prof. Paolo Rossi), ma che non aveva neppure potuto riunirsi una sola volta, giacché era finita la legislatura.
La Commissione, come noto, era “dovuta” nascere – nonostante i tentativi politici di minimizzare i fatti – a seguito della “guerra di mafia” che stava insanguinando Palermo e che aveva indotto il pur rassicurante “Giornale di Sicilia” ad aprire l’edizione del 20.4.1963 con il titolo “Palermo come Chicago”, dopo la sparatoria in pieno giorno nella centrale pescheria “Impero” di via Empedocle Restivo.
Il 6 luglio 1963, pertanto, svoltesi le elezioni politiche nazionali, il nuovo Parlamento aveva ricostituito subito la Commissione antimafia e ne aveva affidato la guida ad un vecchio giudice meridionale proveniente dalla Cassazione, il sen. Donato Pafundi, che non si era mai distinto né per conoscenze del fenomeno né per attività giudiziaria in processi di mafia.
Giova ricordare, per incidens, che della Commissione era divenuto vice-presidente il siciliano Nino Gullotti (24.5.1964), preferito di fatto all’allora giovane e meno “governabile” Oscar Luigi Scalfaro, che fu indotto a dimettersi dalla carica (22.4.1964).
C’era in quel momento (come sempre in casi simili in Italia) la assoluta necessità di una “risposta straordinaria” ad un evento che non consentiva più di “nascondere la polvere sotto il tappeto”.
Pertanto, in ispecie dopo il varo della nota legge n° 575/1965 suggerita dalla Commissione, si incrementarono le proposte per misure di prevenzione (così esportando l’attività mafiosa, come diranno in seguito i collaboratori, al nord ed in altre zone sane del paese, soprattutto nel settore dei sequestri di persona).
I Ministri dell’Interno diedero incarico ai Questori di presentare alla magistratura rapporti di denuncia (quasi sempre “vuoti”), con elenchi di presunti mafiosi, che erano frutto delle confidenze di informatori prezzolati o altrimenti interessati.
Per quanto riguardò Palermo, epicentro del fenomeno, i risultati giudiziari furono oltremodo modesti, per non dire fallimentari, anche quando i dibattimenti per “legittima suspicione” vennero celebrati fuori dalla Sicilia (o, forse, proprio per questa ragione).
Si arrivò, così alle “storiche” sentenze di Catanzaro (22.12.1968) e di Bari (10.6.1969), che sancirono la bancarotta dell’impegno giudiziario e repressivo degli anni Sessanta.
Le liste degli imputati erano poco più di un paio, ed in particolare: la prima composta da coloro che provenivano da Corleone (processo c/Leggio Luciano+63, istruito dal G.I. Cesare Terranova) e l’altra concernente i mafiosi palermitani (La Barbera Angelo +116).
Il risultato, come si anticipava, fu di assoluzione per tutte le imputazioni di omicidio e di poche condanne per il reato di associazione per delinquere semplice (non c’era ancora il 416 bis) ad una pena media di circa quattro anni di carcere, con ulteriori assoluzioni e con pene diminuite ancora di più in Appello.
Proprio nel processo di Bari (10 giugno 1969) fu assolto (e scarcerato) il giovane Totò Riina, che si diede subito a quella latitanza che cessò solo il 15 gennaio 1993.
Bernardo Provenzano, invece, che si era già sottratto alla cattura nel maggio 1964, continuò ancora fino al 2007, per ben 43 anni, a godere di una splendida libertà.
Il principale protagonista di quella stagione giudiziaria fu, senza dubbio, il G.I. di Palermo Cesare Terranova, il quale curò una imponente istruttoria su una decina di omicidi di mafia avvenuti nel corleonese tra il 1958 e il 1963 (a partire da quello del medico mafioso Michele Navarra, cui L’Espresso dedicò una foto in prima pagina che destò molto scalpore).
Era il “metodo di lavoro” però, nonostante l’impegno personale straordinario, ad essere (purtroppo) inadeguato all’importanza del cimento per l’assenza quasi totale di prove, che potessero resistere alle pressioni ambientali del dibattimento e per il fatto che la filosofia giudiziaria dell’epoca faceva “dipendere” integralmente Pm e Giudici istruttori dai soli “rapportoni” delle Forze dell’ordine, basati esclusivamente su mere confidenze e su ricostruzioni di polizia molto spesso semplificatrici (se non “romanzate”).
Inoltre, il lavoro dei magistrati era assolutamente individuale e non collegato neppure a livello di ufficio istruzione, ove all’epoca – di norma – venivano assegnati giudici che i Presidenti del Tribunale non ritenevano idonei per vari motivi a comporre i collegi giudicanti (ove potevano redigersi le cd. “belle sentenze”, tanto utili per gli esami in Appello e Cassazione).
Tuttavia, l’impegno non comune del giudice Terranova non sfuggì a Cosa nostra, che, il 26 settembre 1979, lo uccise in segno di “riconoscenza” non appena egli era rientrato in ruolo dopo due legislature trascorse in Parlamento e si profilava la possibilità che divenisse il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione.
In particolare, gli era rimasto personalmente grato Luciano Leggio, che gli addebitava un impegno ai suoi occhi ingiustificato, causa prima dell’unico ergastolo da lui subito in Appello a Bari nel 1970, mentre tutti gli altri venivano assolti.
Nel 1963 appunto (come si sarebbe appreso in seguito dai collaboratori) la Cosa nostra della provincia di Palermo aveva deciso di sciogliersi (almeno ufficialmente), in modo da far mancare alla neonata Commissione antimafia l’oggetto stesso dell’indagine.
Tuttavia, le famiglie più avvedute (in particolare quelle di Corleone, di Santa Maria di Gesù e di Cinisi, ma non solo) avevano tenuto in vita le strutture essenziali, mentre l’organizzazione continuava a vivere nelle province di Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Catania ed Enna, rimaste di fatto non toccate dalle indagini.
Quando, dopo le elezioni politiche del 1968 e la fine dei due processi sopra ricordati, Cosa nostra palermitana capì che il “bau bau” dello Stato era scaduto come sempre nella routine (non era stata presentata neppure una relazione “preliminare” sui lavori svolti dall’Antimafia), l’organizzazione si ricostituì nel 1970, affidandosi al famoso triumvirato Leggio-Badalamenti-Bontate.
Invero, in punto di fatto, dalla primavera del 1963 al giugno 1969 quasi tutti gli esponenti di Cosa nostra si trovavano in carcere (ad eccezione di pochissimi latitanti, quali: Buscetta, Greco “cicchiteddu”, Badalamenti, “Mimì” Coppola, Nino Matranga, Giuseppe Panzeca Sr. e Gioacchino Pennino “il vecchio”), per cui sarebbe stato ben difficile per essa continuare ad utilmente operare durante una stagione repressiva che era la prima dopo quella del prefetto Mori del 1925.
Tra l’altro, il processo di Catanzaro (22.12.1968) aveva partorito un “topolino”, ove si pensi – ad es. – che imputati del calibro di Badalamenti, Leggio, Coppola, Matranga, Panno ed Antonino Salamone vennero addirittura assolti dal reato associativo.
Ancora peggiore era stato l’esito della sentenza della Corte di Assise di Bari del 10.6.1969, giacché furono assolti tutti gli imputati “corleonesi” sia dalle numerose imputazioni per omicidi commessi nel periodo 1958/1963 sia dallo stesso reato associativo (fu condannato il solo Riina – ad anno 1 mesi 6 di reclusione – per la falsa patente trovatagli in occasione della cattura in data 15.12.1963).
Sarebbe stata poi la Corte di Assise di Appello di Bari il 23.12.1970, in riforma della precedente sentenza che aveva destato sconcerto nell’opinione pubblica, a condannare Luciano Leggio all’ergastolo per l’omicidio del capo-famiglia di Corleone, dott. Michele Navarra, avvenuto il 2 agosto 1958.
E, proprio per dare un segnale tangibile alla cittadinanza palermitana della ripresa ufficiale dell’attività, Cosa nostra organizzò la “strage di via Lazio” il 10 dicembre 1969 e, un anno dopo (nella notte del 31 dicembre 1970), fece esplodere le cd. “bombe di Capodanno” dinanzi a tre edifici pubblici palermitani, dandone incarico all’emergente Francesco Madonia del quartiere di Resuttana ed al suo giovanissimo rampollo Antonino.
Madonia padre venne processato per detenzione illegale delle armi e degli esplosivi rinvenuti nel suo fondo Patti a Pallavicino, e condannato qualche anno appresso ad una “poco esemplare” pena di soli due anni di reclusione.
Nessun inquirente, però, aveva capito il significato di quelle tre esplosioni contemporanee (palazzo EMS, Ass. Agricoltura e Uff. Anagrafe di via Lazio): sarebbero stati poi i collaboratori, nel 1987, a spiegarlo ai magistrati, facendo loro mettere insieme i pezzi di un puzzle che erano rimasti per quasi vent’anni – per la polizia giudiziaria – accuratamente isolati, separati e non compresi.
Intanto, nella notte sull’8 dicembre 1970, a Roma (ed anche a Palermo) vi era stato il tentativo di golpe del “principe nero della X MAS” Junio Valerio Borghese.
Per Cosa nostra – già in grado da subito di riprendere tutte le sue importanti “relazioni politiche esterne” – avevano preso parte alla trattativa con i golpisti i più autorevoli esponenti di vertice palermitani e catanesi, chiedendo in concambio l’impegno alla revisione del processo in corso a Bari a carico del latitante Leggio per l’omicidio Navarra (nel quale il PM aveva in quelle settimane chiesto l’ergastolo), nonché l’“aggiustamento” del processo di Perugia che nel 1969 aveva visti condannati all’ergastolo Vincenzo e Filippo Rimi per l’omicidio di Toti Lupo Leale, a seguito delle accuse della coraggiosa madre Serafina Battaglia.
Il golpe, come sappiamo, fu improvvisamente bloccato mentre era in corso di svolgimento, ma comunque dopo che un manipolo di ardimentosi era entrato nell’armeria del Viminale rubando dei mitra MAB (ritrovati, qualche anno dopo, nella disponibilità di terroristi di destra a Roma) e dopo che un reggimento del Corpo Forestale aveva sfilato – in armi – per via dei Fori Imperiali.
A Palermo, secondo quanto dichiarò ai giudici nel 1987 uno strano personaggio dell’eversione di destra (Alberto Volo), era già stata occupata la sede RAI di via Cerda (ad opera di esso Volo e di altri) ed era stata sul punto di essere invasa la Prefettura (ove il Cap. CC. Giuseppe Russo, quello stesso poi ucciso a Ficuzza da Bagarella nell’agosto 1977, avrebbe dovuto prendere in consegna il Prefetto e sostituirlo personalmente nella funzione).
Cosa nostra, dunque, riprese “alla grande” la propria attività, uccidendo il Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione (5.5.1971) e sequestrando (8.6.1971) Pino Vassallo (figlio del noto costruttore Ciccio Vassallo) nonché (16.8.1972) nella centrale via Principe di Belmonte, alle ore 13.30, il giovane Luciano Cassina, figlio dell’influente conte Arturo, uomo dell’establishment politico-imprenditoriale, ma soprattutto legato al potentissimo Vito Ciancimino (il sequestro durò sette mesi e si concluse nel febbraio 1973).
Ad arricchire il quadro, il 30 marzo 1973 si era presentato alla Squadra Mobile di Palermo il giovane Leonardo Vitale, che aveva confessato di appartenere alla famiglia di Altarello di Baida ed aveva svelato (11 anni prima di Buscetta) la struttura, le regole di Cosa nostra, il ruolo di Riina e di Pippo Calò ed aveva indicato il nome di consiglieri comunali di Palermo appartenenti alla sua stessa famiglia mafiosa.
Da questa temperie scaturì, come sempre in questi casi, il cd. “processo dei 114” (c/Albanese Giuseppe+74), avente per oggetto la sola imputazione di associazione per delinquere semplice.
La sentenza di 1° grado (Pres. Stefano Gallo), resa il 29.7.1974 ([5]), vide condannare solo 34 imputati (tra cui, invero, Gaetano Badalamenti, “Pippo” Calderone, Tommaso Buscetta, Domenico Coppola, Luciano Leggio, Gerlando Alberti Sr., Stefano Bontate e Salvatore Riina).
Le pene, però, furono risibili (ad es.: Buscetta a 2 anni 11 mesi; Bontate a 3 anni; Riina a 2 anni e 6 mesi), tranne che per Badalamenti, Calderone, Leggio ed Alberti.
In Appello (1^ sez., pres. Michelangelo Gristina), in data 22.12.1976 ([6]), le condanne riguardarono solo 16 imputati e la stessa conferma della significativa condanna di Badalamenti ne ridusse però la pena ad anni 2 gg. 15 di reclusione (la sentenza divenne definitiva il 28.11.1979).
Del pari, il processo scaturito dalle dichiarazioni del Vitale (ritenuto affetto da “struttura schizoide” e perciò semi-infermo di mente) si concluse il 14.7.1977 ([7]) davanti alla 2^ Assise (pres. Carlo Aiello) con la condanna a 25 anni di reclusione del Vitale per gli omicidi confessati ma con l’assoluzione dagli stessi di tutti i chiamati in correità (a cominciare dal Calò).
Le condanne per il reato associativo riguardarono solo 9 imputati (tra cui i latitanti Calò e Nino Rotolo, puniti con 7 e con 5 anni e 6 mesi di reclusione).
Nessun cenno, nella scarna motivazione di appena 65 pagg., a Cosa nostra ed alle sue strutture.
In Appello (29.10.1980, Pres. Faraci) ([8]), però, tutti i condannati venivano assolti (ad eccezione dello zio del Vitale e di Scrima Francesco) per insufficienza di prove e Leuccio Vitale veniva inviato al manicomio giudiziario per 5 anni.
Il Vitale, come sappiamo, venne immediatamente ucciso da Cosa nostra l’11.12.1984, appena tornato in libertà.
Intanto, in data 15.1.1976, la Commissione antimafia (Pres. Luigi Carraro) depositava finalmente la sua prima relazione conclusiva dopo oltre 10 anni, il cui unico merito era quello di dire – pur tra molte interessate reticenze – che la mafia si distingue dalle altre organizzazioni similari “in quanto si è continuamente riproposta come esercizio di autonomo potere extra-legale e come ricerca di uno stretto collegamento con tutte le forme di potere pubblico, per affiancarsi ad esso, strumentalizzarlo ai suoi fini o compenetrarsi nelle sue stesse strutture” ([9]).
L’importanza storica di questa affermazione da anni non sfugge più a nessuno.
Allora, però, passò quasi inosservato il fatto che quella frase certificava un vero e proprio salto di qualità: il passaggio dalla concezione culturale – fino ad allora imperante – della “mafia come antistato” al paradigma della mafia come “parte del sistema di potere”.
La Relazione di minoranza conclusiva del gennaio 1976 (a firma di Pio La Torre, Cesare Terranova e altri) non solo criticava e approfondiva questa importante acquisizione, ma la arricchiva di alcuni nomi “pesanti” (a cominciare da Salvo Lima e Vito Ciancimino).
Tuttavia, a mio avviso, l’episodio più emblematico circa l’assoluta inadeguatezza di quel metodo, collegato direttamente all’individualismo dei giudici di quel tempo, è forse quello delle dichiarazioni confidenziali di Giuseppe Di Cristina (da Riesi) al Cap. CC. Alfio Pettinato, che vennero rassegnate (con il cd. “rapporto rosso” del 23.8.1978) al G.I. di Palermo che si stava occupando del processo per l’omicidio del Ten. Col. CC. Giuseppe Russo, per il quale erano in carcere tre pastori che la storia futura avrebbe dimostrato del tutto estranei ai fatti, come peraltro la tipologia stessa dell’omicidio avrebbe dovuto fare capire.
In detto rapporto, come noto, il capo-mandamento di Riesi – forse sentendosi prossimo alla vendetta degli avversari – aveva anticipato (al solito come “confidenze”) la trasformazione che la mafia stava subendo ad opera dei “corleonesi” e le linee della “seconda guerra di mafia” (se pur in forma auto-assolutoria non solo per sé ma anche per la fazione dei suoi sodali Bontate e Badalamenti).
Ma ciò che mi pare rilevante è il fatto che l’importanza di quelle notizie (anche se in fieri e da sviluppare) sarebbe emersa solo a distanza di alcuni anni, dopo che la “guerra di mafia” aveva mietuto centinaia di omicidi.
Era il metodo, infatti, ad essere del tutto errato, giacché fatti complessi ed intimamente legati fra di loro (come quelli di Cosa nostra) venivano assegnati sia ai PP.MM. sia ai GG.II. con criteri burocratici e di assoluta casualità, facendo sì che a distanza di una sola porta episodi uguali facessero parte di processi differenti.
Non può non segnalarsi poi, a mo’ di esempio, la inquietante circostanza che nei rapporti di p.g. degli anni Settanta era letteralmente scomparso ogni cenno alla parola “commissione”, nonostante che in un capo di imputazione (formulato nel lontano 1965) del processo di Catanzaro si fosse contestato espressamente ad alcuni imputati:
“di aver formato una commissione di mafia, che decideva le sorti dei mafiosi” ([10]).
Intendo dire che il grave insuccesso di quei pochi (ma significativi) processi o aveva fatto sparire negli organi di polizia la stessa nozione dell’organismo centrale ed essenziale della struttura di Cosa nostra (termine, quest’ultimo, mai usato in alcun atto giudiziario prima della collaborazione di Buscetta) oppure, in alternativa, che vi era stata una tale auto-censura da parte della p.g. da indurla a non dovervi più fare cenno.
La conseguenza diretta di tale degradato stato di cose fu – come osserverà amaramente anni dopo Giovanni Falcone in uno dei suoi scritti – che “i problemi sono aggravati da inadeguate conoscenze del fenomeno mafioso da parte della magistratura e così, di fronte ad una organizzazione come la mafia, che si avvia a diventare sempre più monolitica ed a struttura verticistica e centralizzata, vi sono ancora pronunce di giudici che fanno riferimento ad una sorta di
Ed ancora, in un altro suo scritto: “io ricordo il periodo in cui, dopo la repressione giudiziaria della mafia avvenuta nei primi anni Settanta (allora non si parlava di maxi-processi e non destava scandalo la instaurazione di processi contro numerosi imputati), si è operato in Sicilia come se la mafia non esistesse, tanto che per lunghi anni nessuno veniva denunziato per associazione per delinquere. Ebbene, quando nei primi anni Ottanta il fenomeno è esploso in fatti di violenza inaudita, e quando tanti magistrati e pubblici funzionari sono caduti, con ritmo incalzante, sotto il piombo mafioso, le conoscenze del fenomeno erano ormai assolutamente inadeguate” ([12]).
La nomina di Rocco Chinnici a Consigliere Istruttore di Palermo (28.1.1980) comincerà ad invertire la tendenza di quella disastrata realtà giudiziaria, giacché la sua non comune capacità di lettura del problema-mafia e la forza di carattere fecero sì che egli innovasse il metodo di lavoro, assumendo su di sé la gran parte delle principali istruttorie sugli omicidi, in un tentativo (tutto da perfezionare) di visione strategica del fenomeno e di coinvolgimento più diretto di alcuni magistrati di quell’Ufficio, a cominciare da Paolo Borsellino e da Giuseppe Di Lello, cui assegnò sempre più complessi processi di mafia riguardanti, in particolare, fatti ed aree omogenei.
L’ottica, però, rimaneva quella di singole assegnazioni a singoli GG.II., essendo stato anche Chinnici condizionato da una lettura delle norme del cpp e dell’ord. giud., che volevano il G.I. come giudice monocratico per eccellenza (subito dopo il pretore).
Sarebbe stato poi il suo successore, Antonino Caponnetto, a perfezionare nel novembre 1983 quella intuizione, prospettando una nuova lettura dell’art. 17 delle Disp. Reg. del cpp, che gli permise di assegnare formalmente a se stesso oltre 200 processi di mafia, ma di delegarne contestualmente l’istruttoria ad altri giudici ([13]), in tal modo realizzando il primo vero lavoro in pool. In ciò Caponnetto sfruttò al meglio l’esperienza degli uffici del nord nei processi di terrorismo, ove quella formula era già stata sperimentata senza provocare nullità.
Ad ogni modo, era stato l’arrivo di Giovanni Falcone all’Ufficio Istruzione (1980) e, soprattutto, la felice intuizione di Chinnici di assegnargli il cd. “processo Spatola” a realizzare una svolta decisiva nella storia giudiziaria di Palermo e dell’Italia.
Infatti, la sua determinata convinzione che bisognasse strategicamente accompagnare ogni istruttoria di mafia con indagini bancarie e societarie, avrebbe fatto toccare con mano a tutti l’impossibilità di gestire processi di quelle dimensioni da parte di un solo magistrato.
Falcone vi riuscì mirabilmente con il “processo Spatola” (riguardante ben 75 imputati e 90 capi di imputazione) ([14]), ma probabilmente non sarebbe stato in grado – da solo – di mettere in piedi e di gestire il maxi-processo.
L’occasione di quella straordinaria indagine bancario-societaria su Spatola & C. gli era stata offerta da un altro paradosso del periodo precedente.
Era avvenuto, infatti, che sul cadavere di Giuseppe Di Cristina da Riesi (ucciso in Palermo il 30.5.1978) fossero stati rinvenuti ben 300 milioni di lire in assegni circolari di piccolo taglio, intestati a decine di nominativi diversi (tutti, o quasi, mafiosi).
Orbene, il sistema di assegnazione “non strategico” dei processi aveva fatto sì che il G.I. incaricato, accertando che quegli assegni erano stati emessi a Napoli, ne disponesse lo stralcio e l’invio per competenza a quell’A.G., senza neppure pensare all’utilità di estrarne fotocopia da allegare agli atti del processo per l’omicidio, che rimaneva comunque in carico a lui.
Giovanni Falcone, intercettando casualmente qualcuno di quegli assegni circolari nell’indagine Spatola, era riuscito faticosamente a recuperare tutti i titoli bancari ed a scoprire che si trattava della redistribuzione degli utili di un importantissimo traffico di TLE e di stupefacenti.
La “santa barbara” così innescata, soprattutto sul versante dei rapporti societari che erano venuti alla luce, fece comprendere che quelle indagini – oltre ad essere auto-alimentanti (nel senso che ognuna ne faceva aprire altre dieci) – dovevano avere carattere sistemico e dovevano essere organizzate con filosofia tutt’affatto diversa.
Falcone, però, al di là di tutto, aveva posto il vero problema dei processi di mafia: ovvero, che il metodo di lavoro non è affatto “neutro” rispetto all’obbiettivo che si vuole raggiungere, di talché la scelta organizzativa contiene già in sé una opzione di risultato.
Aspetto, questo, che soprattutto le vicende degli anni successivi avrebbero dimostrato essere il vero cuore di una “guerra mai finita”.
Le vicende tragiche di quel periodo, in particolare gli omicidi eccellenti del 1980/82 nonché la sconvolgente uccisione di Rocco Chinnici (29.7.1983), fecero accendere una nuova attenzione nazionale su Palermo e sui suoi uffici giudiziari.
L’arrivo del Cons. Antonino Caponnetto, nel novembre 1983, portò alla svolta organizzativa cui si è fatto innanzi cenno.
In particolare, cambiò a Palermo radicalmente il modo di interpretare il lavoro quotidiano, sulla scorta delle pregevoli e proficue esperienze sempre più divulgate dai colleghi che si occupavano di terrorismo, i quali avevano addirittura creato un network di scambio di informazioni e di atti che li vedeva incontrarsi periodicamente in varie città italiane.
Il metodo di lavoro in pool comportò, all’Ufficio Istruzione, che nulla più potesse essere acquisito in indagini di mafia senza che gli originari quattro colleghi del pool non fossero informati in tempo reale. Era l’“uovo di Colombo”, ma a Palermo le cose più ragionevoli sono le più difficili da realizzare.
L’abnegazione ed il carattere “dolce” (ma allo stesso tempo tenace) di Nino Caponnetto fece il resto. Nessun G.I., ancorché non facente parte del pool, poteva più ignorare che non doveva più essere una monade isolata dell’Ufficio, ma la tessera di un mosaico.
Coloro che non condivisero quella filosofia – che venne comunque accompagnata da un imponente lavoro di “alfabetizzazione culturale” anche a livello di incontri organizzati dal CSM (memorabile l’incontro di Castelgandolfo dell’autunno 1984, con relazione congiunta Falcone/Giuliano Turone) – trovarono ben presto il modo per chiedere il trasferimento ad altro ufficio.
La stessa Procura di Palermo, in previsione dell’apprestamento di requisitorie scritte sempre più impegnative, dovette strutturarsi in modo tale da avere dei sostituti che seguissero a tempo pieno l’andamento dei processi, che pure erano stati “formalizzati”.
Tutto ciò avveniva in un momento di difficile transizione nella magistratura tra un potere giudiziario “arretrato, subalterno alla logica politica dominante, sintonizzato con una strategia politica di conservazione degli assetti economici, sociali ed istituzionali esistenti” ([15]) ed un nuovo potere giudiziario avanzato, vitale e professionalmente evoluto, autonomo dalla logica politica dominante e da ogni altra logica politica contingente.
Per cui, quel modello di lavoro in pool contro la criminalità mafiosa si calava nella più vasta problematica dell’organizzazione degli uffici.
E, a tal riguardo, basti ricordare che lo stesso CSM si rese conto dell’importanza della rivoluzione, dedicandovi un apposito incontro di studi (Fiuggi, 12-13 luglio 1985), nel quale l’allora Cons. superiore Franco Ippolito riconobbe ufficialmente che “l’organizzazione degli uffici e la gestione dei processi di mafia ponevano questioni importanti per l’assetto ed il ruolo della magistratura” e che “il nuovo percorso era iniziato proprio nel 1982, segnando una svolta per la magistratura e per il CSM” ([16]).
Tuttavia, questa ricostruzione sarebbe incompleta, se non si facesse cenno all’opera – ora strisciante ora più visibile – di quanti opposero a tale modo di lavorare il richiamo strenuo alla vecchia filosofia che voleva il giudice istruttore una monade, che nella sua “turris eburnea” partoriva le indagini.
In particolare, ciò che veniva – in modo sempre più virulento – contestata era l’idea di Falcone e del pool che sul G.I., ai sensi dell’art. 299 cpp (1930), incombesse l’obbligo di indagare autonomamente pur in assenza di attività efficaci da parte del PM e della polizia giudiziaria, giacché:
“il g.i. ha l’obbligo di compiere prontamente tutti gli atti che appaiono necessari per l’accertamento della verità”[17].
Questo punto va – soprattutto oggi – messo nel necessario rilievo, perché fino a qualche anno addietro vi sono stati rinnovati tentativi di sottrarre al PM il potere di iniziativa nella ricerca della notitia criminis.
Si tratta, come ognuno può ben vedere, di un problema risalente ma che – all’evidenza – sta ancora tanto a cuore a “qualcuno” da non essere stato accantonato, nonostante sia cambiato il codice, siano scomparsi certi protagonisti e siano trascorsi alcuni decenni da quei momenti.
Dunque, da quel novembre 1983, il metodo di lavoro fu imperniato su una specializzazione sempre più accentuata e, soprattutto, su un continuo ed approfondito scambio di informazioni. Tra l’altro, si instaurò un sistema di confronto costante, in modo da permettere l’esatto ri-posizionamento in “tempo reale” delle conoscenze del pool sulle dinamiche di Cosa nostra.
In questo clima, e solo così, poté vedere la luce la prima sentenza-ordinanza dell’8.11.1985 e poté avere avvio il primo, storico, maxi-processo.
Tuttavia, la assoluta rivoluzione copernicana introdotta dal “metodo-Falcone” fu oggetto – da subito – di una azione di logoramento che, in certi momenti, divenne vera e propria “guerra”.
Sono a tutti noti, ormai, gli attacchi di qualsiasi natura portati a quel gruppo di lavoro (frattanto giunto a sei unità e mutato in alcuni dei suoi componenti), che culminarono nel noto episodio della mancata nomina di Falcone a Consigliere Istruttore di Palermo.
Non si trattò, infatti, soltanto di una fiera opposizione all’Uomo ed al Magistrato Falcone, ma della punta più avanzata ed arrogante dell’attacco al “suo metodo di lavoro”, ancor più significativo perché avveniva nel momento in cui migliori e storici sembravano essere i risultati ottenuti.
Il CSM, con quella scelta del 13 gennaio 1988, consegnò sé stesso ad una memoria collettiva non commendevole, come in plenum ebbero a dire chiaramente taluni dei 10 Consiglieri superiori, che votarono per Falcone.
Si trattò, invero, non della nomina ad un incarico direttivo, ma soprattutto di una chiarissima scelta di campo, avente per obbiettivo la “filosofia organizzativa” che lo Stato-giurisdizione si voleva dare nel condurre indagini sulla mafia.
Il “metodo-Meli” mostrò subito di essere il ritorno al medio-evo organizzativo ed investigativo, con lo smantellamento del pool e con la festosa révanche di chi mai aveva sopportato il sistema della specializzazione contro la mafia e di chi aveva sempre osteggiato l’uso dei collaboratori di giustizia.
Le sponde, istituzionali e mediatiche, in quegli anni furono numerose in ogni momento, di talché il pool dell’Ufficio istruzione fu distrutto.
La nota intervista rilasciata da Paolo Borsellino ai giornalisti Attilio Bolzoni (Repubblica) e Saverio Lodato (L’unità) a metà luglio del 1988[18], con l’immediata apertura di un procedimento para-disciplinare a suo carico da parte del CSM e l’altrettanto famosa lettera di Falcone del 30 luglio 1988[19], con cui chiedeva al Presidente del Tribunale di assegnarlo ad altro incarico, sono la prova storica di questa affermazione.
Giovanni Falcone, ad ogni modo, forte delle sue convinzioni (a maggior ragione dopo che gli esiti processuali anche in appello sul maxi-processo ne avevano dimostrato la fondatezza) tentò inutilmente, sfruttando il sopraggiungere del nuovo cpp del 1989, di esportare quel “metodo” nella Procura della Repubblica di Palermo: ma sappiamo tutti cosa accadde.
Attenzione, però: non bisogna pensare che l’azione di contrasto a lui venisse portata avanti in modo frontale. Nient’affatto.
L’azione più velenosa fu sempre carsica e burocraticamente ineccepibile, ancorché egualmente corrosiva, vischiosa, defatigante.
Per dirla con le parole di un magistrato (Alfredo Morvillo), che fu testimone attento e diretto di quella stagione, si ebbe cura di usare, sempre, il sistema delle “carte a posto”.
Ma Falcone, nonostante la sua indomita tempra di combattente, uscì sfibrato da quella guerra e – al fine di evitare un invischiamento quotidiano in quel “tritacarne” – decise, alfine, di accettare l’invito del ministro della Giustizia Martelli di andare a fare il Direttore generale degli Affari penali in via Arenula.
A partire dai primi di marzo del 1991, però, da quella mai sperimentata postazione strategica (cosa che nessuno di noi amici e colleghi allora comprese) attaccò nuovamente con la sua “rivoluzionaria” idea organizzativa sulle indagini di mafia, fino a farla divenire atto avente forza di legge (appena otto mesi dopo) con il DL n° 367, che istituì le DDA nelle procure della Repubblica capoluogo di distretto (21 novembre 1991).
Nella formulazione legislativa di quel “metodo” riversò non solo tutta la sua esperienza giudiziaria ma, soprattutto, tutti i prevedibili rimedi alle infinite “trappole” che erano state tese a lui (ed a quanti altri, invero pochi, credevano in quel sistema).
Ecco il perché della sua attenzione spasmodica alla formulazione dell’art. 70-bis cpp, sia con il forte riferimento alle attitudini ed alle esperienze specifiche per far parte della DDA (e non già all’anzianità che aveva fatto prevalere il Cons. Meli) sia – e soprattutto – con l’uso delle meditate parole:
“il procuratore distrettuale cura, in particolare, che i magistrati addetti ottemperino all’obbligo di assicurare la completezza e la tempestività della reciproca informazione sull’andamento delle indagini”.
Ognuno di quei lemmi è il distillato dell’esperienza (molto spesso negativa) maturata da Falcone nel corso della sua vita professionale: verrebbe da pensare che dietro a ciascuno di essi c’era un volto, il ricordo di una nota burocratica oppure di un ostacolo fantasioso frapposto da qualcuno per impedire o ritardare un’indagine.
In altri termini, Falcone aveva ritenuto – con l’ottimismo della volontà che lo animava – di avere preservato (al massimo livello possibile) quel metodo di lavoro dal pericolo di una futura “cancellazione”, nel momento in cui lo consegnava alla forza vincolante della legge.
“Cancellazione” che egli aveva dovuto sperimentare sulla propria pelle ai tempi del Cons. Meli, allorché dovette assistere impotente (ottobre 1988) allo smembramento – con un tratto di penna – di importanti filoni di indagine che, con fatica inimmaginabile, egli aveva messo insieme negli anni precedenti per costruire un efficace mosaico investigativo (ad es., le carte dei cd. omicidi politici Reina-Mattarella-La Torre, dei famosi mafiosi e narco-trafficanti Cuntrera e Caruana, degli omicidi “strategici” della guerra di mafia (circa 200), degli appalti pubblici mafiosi, etc.).
Era la prima volta, comunque, che in Italia un “metodo di lavoro giudiziario” veniva stabilito per legge.
Ma, ucciso Falcone nel maggio 1992, quel metodo di lavoro trasfuso nelle DDA ebbe a subire, egualmente, degli ostacoli inattesi.
Intendo riferirmi alla circolare del CSM del febbraio 1993, con la quale in modo improvvido si ritenne di porre dei limiti temporali (6 anni) alla permanenza dei Sostituti Procuratori nelle DDA.
Ciò contrastava frontalmente non solo con la convinta idea di Falcone che le indagini antimafia dovessero essere condotte da magistrati sempre più specializzati, ma soprattutto con la lettera della legge istitutiva delle DDA, che aveva previsto un tetto massimo (peraltro di 8 anni) solo per la “funzione direttiva apicale” di Procuratore nazionale antimafia, attesa l’importanza dell’incarico.
Ma in quella circolare del CSM vi era (se possibile) anche qualcosa di più.
Nella relazione di accompagnamento, si diceva tra l’altro – per giustificare l’intervento para-normativo dell’organo di governo autonomo – che
“appare necessario evitare sia la creazione di veri e propri centri di potere … sia una eccessiva personalizzazione di funzioni così delicate” ([20]).
Ritornava, così, inaspettatamente dopo le stragi il réfrain tante volte utilizzato negli anni Ottanta contro Falcone, secondo cui fare antimafia determinava l’accumulazione di “potere” da parte di potenziali “professionisti dell’antimafia”. Ma potere verso chi, verso che cosa?
La domanda è rimasta sempre priva di risposta.
Era un chiaro indice, però, del fatto che un apparentemente “semplice” metodo organizzativo per fare indagini sulla mafia era interpretato da taluni nel paese, anche a livello di CSM, come un problema di potere.
Le vicende successive, su questo terreno, sono altrettanto significative.
I tentativi degli anni successivi di fare modificare su un punto così qualificante la circolare sulle DDA sono purtroppo andati a vuoto, anche se (da ultimo nell’ottobre 1999) con maggioranze consiliari sempre meno vaste.
Tuttavia, il limite temporale attuale degli 8 anni (del tutto incoerente con le ragioni della legge istitutiva) ha raggiunto la dimostrazione massima della sua incongruenza soprattutto quando dalle DDA sono dovuti andar via per tale motivo, all’inizio degli anni 2000, proprio i magistrati più esperti e specializzati, per cui questa struttura (che avrebbe dovuto essere strategica nell’elaborazione di schemi di intervento investigativo) ha rischiato non solo di “burocratizzarsi” per i passaggi al suo interno troppo rapidi, ma ha perso quello slancio vitale che l’idea fondante di Falcone aveva pensato di attribuirle.
Successive decisioni dell’organo di auto-governo, poi, hanno ulteriormente aggravato tale quadro, allorché hanno vietato la possibilità di mantenere nell’incarico i Procuratori aggiunti.
Così, ancora una volta, i fatti hanno dimostrato che il “modello organizzativo” per i processi di mafia non è affatto neutro: anzi, la scelta del modello contiene già in sé l’opzione di risultato!
In conclusione, dunque, se a dire degli storici “memoria è ricordo collettivo” ma soprattutto “ricostruzione del contesto”, spero che questa mia sintesi possa contribuire a non fare disperdere né la “grande storia” di un grande Uomo, né quelle di una “lunga guerra” sui modelli organizzativi più efficaci per contrastare Cosa nostra, che insieme hanno formato, però, la storia giudiziaria dell’Italia e di Palermo.
[1] Inizialmente composto, dal novembre 1983 al giugno 1986 – sotto il coordinamento (fino a marzo 1988) del Cons. Istruttore Antonino CAPONNETTO – dai Giudici istruttori: Giovanni FALCONE, Paolo BORSELLINO (fino a giugno 1986), Leonardo GUARNOTTA, Giuseppe DI LELLO (fino ad ottobre 1988); poi allargatosi, dal 1986, a Giacomo CONTE (fino ad ottobre 1988), Ignazio DE FRANCISCI e Gioacchino NATOLI.
[2] cfr. A. Caruso, “Da cosa nasce cosa”, ed. Longanesi & C., pagg. 160 segg.
[3] cfr. Testo Integrale della Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, vol. 1°, pag. 356; Ed. Coop. Scrittori – Archivio Italiano
cfr. Testo Integrale Comm. antim., op. cit., pag . XXII
[5] cfr. sent. n° 1422/74 e n° 650/73 R.G. (complessive 168 pagg.)
[6] cfr. sent. n° 794/76 e n° 835/75 R.G. (complessive 127 pagg.)
[7] cfr. sent. n° 18/77 e nn. 32/76 e 9/77 R.G. (complessive 65 pagg.)
[8] cfr. sent. n° 44/78 e n° 54/80 R.G. (complessive 121 pagg.)
[9] cfr. op. cit. pag. 153
[10] cfr. capo b/2/Torr. (pag. 9) della sentenza, composta di appena 175 pagine.
[11] cfr. “Interventi e proposte” (1982-1992) pag. 90 – Sansoni Editore
[12] cfr. ibidem, pag. 145
[13] Giovanni FALCONE, Paolo BORSELLINO (fino a giugno 1986), Leonardo GUARNOTTA e Giuseppe DI LELLO (fino ad ottobre 1988); e poi, dal 1986, Giacomo CONTE (fino ad ottobre 1988), Ignazio DE FRANCISCI e Gioacchino NATOLI.
[14] cfr. sent. n° 1395/83 e n° 788/82 R.G. (complessive 1060 pagg.)
[15] cfr. C. Viazzi, “Governo della magistratura e riforma dell’ordinamento giudiziario” in Questione giustizia, 1983, pag. 16.
[16] cfr. Quaderni del CSM, anno 1, nn. 7-8, novembre-dicembre 1986.
[17] Questo concetto fu ben sviluppato da G. Falcone in un convegno di studi organizzato da Unità per la Costituzione (gruppo dell’ANM), tenutosi a Palermo il 17 dicembre 1984, in cui egli parlò di un “rimpianto dei bei tempi andati” da parte di taluni alti magistrati e di certi ufficiali di polizia giudiziaria.
[18] “Vogliono smantellare il pool antimafia: Fino a poco tempo fa tutte le indagini antimafia, proprio per l’unitarietà dell’organizzazione chiamata Cosa nostra, venivano fortemente centralizzate nel pool dell’Ufficio Istruzione. Oggi invece i processi vengono dispersi in mille rivoli”.
[19] “Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro”.
[20] cfr. Circ. n° 2596 del 13.2.1993 (punto 5 della relazione illustrativa).
L’ultima non americana in America
Intervista di Maria Cristina Amoroso e Roberto Conti ad Arianna Farinelli
È stato facile mettersi in contatto con Arianna Farinelli.
Un messaggio su Linkedin, sicuro che non risponderà alle 6 del mattino (ora italiana) e invece senti il trillo della risposta istantanea…Buongiorno…Sono lieta di rispondere alle Vostre domande, anche se sono oberata da impegni e scadenze.
Parla e scrive dall’America, la scrittrice italiana all’estero, emigrata nella Grande Mela.
Sembra avere mantenuto il bello dell’italianità con un valore aggiunto che viene dalle esperienze oltreoceaniche, di studio, di vita, di relazioni, di impressioni, di conoscenze.
Senti che ha molto da dire e da fare. Dopo averla più volte letta su Repubblica ed ascoltata su Rainews 24 ad orari improbabili per gli italiani e normali per gli statunitensi a ragionare sulla guerra in corso e sui conflitti in corso e sui dubbi in corso, risulta più agevole avvicinarsi ai suoi libri. In particolare all’ultimo (almeno fino ad oggi, in attesa del prossimo, imminente) “gli ultimi americani” in cui Arianna è insieme scrittrice, scrittore, uomo violatore di donne e uomo gentile, donna, meticcia, violata, deportata, detenuta ma sempre alla ricerca della libertà( e della verità):... Continuerò a vivere e ad affannarmi, a resistere e a lottare, perché questo è quello che gli esseri umani fanno da sempre, proprio come gli uccelli nel loro eterno migrare…
L’intervista, le domande… scorrono facili, incuriositi da quali emozioni riusciranno a provocare in chi risponderà. La guerra, le donne, l’aborto e poi, soltanto Arianna.
Quanti costi e quanti vantaggi in termini personali, sociali, culturali, ha prodotto in lei il trapianto in un Paese ed in una città, la Grande Mela, iconici per molti occidentali?
Ho avuto opportunità che mai avrei immaginato. Sono cresciuta alla periferia Est di Roma e non avrei mai sognato di poter fare un dottorato di ricerca e di insegnare in una università americana. Il prezzo da pagare è stato molto alto. Solitudine, difficoltà nel crescere i figli senza l’aiuto dei nonni. Ho sofferto anche la pressione e l’enorme competizione nell’ambiente universitario prima, ed editoriale poi. Ho però anche avuto la fortuna di incontrare storie e persone straordinarie. Alcune di queste sono finite nei miei romanzi. I miei studenti sono stati una grande fonte di ispirazione.
Qual è il gusto della Grande mela, vissuta internamente: aspro, frizzante, amaro, dolce?
È tutte queste cose insieme, ed è per questo che è unico. A volte è bellissimo, altre crudele.
Il ruolo della letteratura verso la ricerca della verità. Può mai essere quella dello scrittore una verità appagante o è solo un punto di innesco che vuole fare aiutare al ragionamento, alla conoscenza?
Nei miei romanzi non ci sono mai verità. Ci sono domande, inizi di ragionamenti, proposte. Il resto è lasciato al lettore.
Lei sente molto il tema della responsabilità dello scrittore. In questa ricerca della verità quali sono le coordinate dalle quali muove, i valori di riferimento (se ce ne sono) le fonti.
Studio e faccio molta ricerca prima di scrivere. Cerco di restituire un quadro storico-politico preciso. I valori sono quelli della giustizia sociale e dei diritti delle persone.
In una delle lettere che nel suo Gli ultimi americani invia ad Alma, Lola, descrivendo la diaspora dei sudamericani ristretti in centri di detenzione degli Usa e poi deportati versi i paesi di origine, scrive:
Portiamo con noi bagagli fatti di niente, invisibili e pesantissimi, pieni di perdite e di mancanze.
Esattamente, i deportati partono da qui quasi con niente. Eppure, i loro bagagli sono pesantissimi, contengono tutte le cose che lasciano negli Stati Uniti: le famiglie, gli affetti, i sogni, le mancate opportunità.
Guardando le immagini che riportano la fuga della popolazione ucraina, prevalentemente di donne e bambini, quei bagagli sembrano davvero potersi descrivere con la potenza di quelle espressioni usate nel suo romanzo. Cosa ne sarà della diaspora degli ucraini, alla fine della guerra?
Credo che molti vorranno tornare a casa e credo, invece, che quelli che rimarranno all’estero si sentiranno un po’ come gli ultimi americani: sempre in viaggio, mai arrivati, sospesi in volo come gli uccelli della copertina del mio romanzo.
Quale sarà la reazione dei Paesi occidentali, passata l’emozione?
Tante guerre vengono dimenticate. Delle guerre in Sudamerica non parla nessuno. Eppure, migliaia di profughi si ammassano alla frontiera con il Messico perché scappano da quelle guerre. Nel 2021 in Colombia sono morte 14mila persone, esattamente quante ne sono morte in Donbass in otto anni. Mentre gli Ucraini possono entrare negli Stati Uniti, per gli altri la frontiera rimane chiusa.
E le migrazioni altre, quelle delle quali oggi i fotografi ed i reporter hanno smesso di documentare, anche a causa del Covid, sono destinate a diventare, tragicamente, migrazioni di serie B, in una guerra ancora più devastante degli ultimi con i più ultimi? Cosa deve fare, dunque, lo scrittore? E cosa le società occidentali?
Tutti i profughi sono uguali e tutte le guerre ugualmente tragiche. Arriveranno profughi dall’Africa che scappano dalla fame innescata dalla guerra in Ucraina. Dobbiamo cominciare a capire che l’Occidente ha una responsabilità, in quanto costituito da Paesi democratici e ricchi. Il nostro dovere è di aiutare.
La vulnerabilità delle donne ucraine stuprate e la vulnerabilità delle donne del mondo, oggi che si torna a parlare di diritto all'aborto anche negli Usa. Sono secondo lei temi diversi o vi è una matrice comune che consente di esaminarli e considerarli insieme?
Mentre le donne stuprate in Ucraina non possono abortire perché in Polonia il diritto all’aborto è negato, negli Stati Uniti la Corte Suprema ha cancellato una sentenza di quasi 50 anni fa che garantiva a livello nazionale il diritto all’interruzione di gravidanza. Alcuni stati degli Stati Uniti vieteranno l’aborto anche in caso di stupro e incesto. 26 stati su 50 introdurranno forti limitazioni: non si potrà abortire dopo la sesta settimana (quando molte donne non sanno neppure di essere incinte). Verranno penalizzate soprattutto le donne povere, quelle appartenenti alle minoranze e le minorenni. Queste donne che non possono permettersi di viaggiare in altri stati per abortire ricorreranno ad aborti clandestini e pericolosi o a pillole abortive comprate nel mercato nero (spesso fatte arrivare dal Messico). È una cosa terribile che mia figlia di 15 anni avrà meno diritti di scelta di sua nonna che è americana e ne ha quasi ottanta. La sentenza Roe v. Wade sull’aborto era stata introdotta dopo decenni di battaglie nel 1973.
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