ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il punto sulla conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi di Elisabetta Chinaglia
Sommario: 1. La ratio della conferma nella riforma del 2006: corollario della nuova previsione di temporaneità negli incarichi direttivi e semidirettivi. – 2. L’evoluzione dell’equilibrio tra i due significati della conferma: verifica della legittimità a proseguire nel medesimo incarico e “validazione” dell’attitudine direttiva al fine di domanda per nuovi incarichi. – 3. Bilancio dell’utilizzo dell’istituto: scarsa incisività del giudizio di conferma: a) i limiti della procedura. – 4.Inoltre: b) l’aumento della mobilità dei dirigenti. – 5. Come riportare effettività alla procedura di conferma: la modifica del TU Dirigenza sul punto. – 6. Il problema della tempestività della valutazione di conferma. – 7. Il progetto di riforma delle norme primarie. – 8. I casi concreti di non conferma ed il ruolo del governo autonomo.
1. La ratio della conferma nella riforma del 2006: corollario della nuova previsione di temporaneità negli incarichi direttivi e semidirettivi.
L’istituto della conferma nelle funzioni direttive e semidirettive nasce con la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006[1], che ha trasformato radicalmente il modello della dirigenza giudiziaria: da un lato modificando i criteri di selezione per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, in particolare trasformando l’anzianità da criterio di selezione a mero criterio di legittimazione ed attribuendo invece valore primario ai parametri delle attitudini e del merito; dall’altro, introducendo la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi.
Si è trattato, quindi, del passaggio ad una nuova concezione della dirigenza degli uffici giudiziari, fondata sul merito e connotata dalla temporaneità dell’incarico. Come manifestato con assoluta chiarezza nei pareri sulla riforma espressi nel 2002, ex art. 10 L. 195/1958, dal Consiglio, “la temporaneità degli incarichi direttivi è antica rivendicazione della magistratura, già presente nel progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario elaborato dall’Associazione nazionale magistrati nel lontano 1958. In particolare, nella temporaneità dei compiti di direzione di uffici giudiziari è stato individuato lo strumento per contrastare il formarsi di centri di potere, per riaffermare concretamente la natura di “servizio” della funzione di direzione dell’ufficio giudiziario, per consentire l’avvicendamento non traumatico di dirigenti non rivelatisi pienamente all’altezza del compito e la piena utilizzazione di nuove energie. In sintesi: l’ufficio direttivo come “incarico” e non più come “status” o come posizione gerarchica stabilmente acquisita e resa potenzialmente immutabile dal riconoscimento al magistrato che è a capo di un ufficio della prerogativa dell’inamovibilità posta a garanzia del magistrato che esercita attività giudiziaria”[2].
Nelle prime versioni del progetto di riforma era prevista, per la funzione direttiva, una possibilità di proroga, previa conferma, solo per altri due anni dopo il termine del primo quadriennio di incarico; vi erano altresì limitazioni alla possibilità di presentare, al termine, domande per ulteriori incarichi direttivi. Gli articoli 45 e 46 hanno invece poi disegnato un sistema uguale per gli incarichi direttivi e semidirettivi, prevedendo che le funzioni direttive e semidirettive sono conferite per la durata di quattro anni, al termine dei quali il magistrato può essere confermato, per un’ulteriore sola volta, per un ulteriore quadriennio, a seguito di valutazione - da parte del Consiglio superiore della magistratura - dell’attività svolta. In caso di valutazione negativa, nei successivi cinque anni, il dirigente non può partecipare a concorsi per il conferimento di altri incarichi direttivi; analoga preclusione è prevista per il conferimento di funzioni semidirettive.
La ratio dell’introduzione della temporaneità dell’incarico (evitare la copertura a tempo indeterminato da parte di uno stesso magistrato dell’incarico dirigenziale e così evitare il formarsi di centri di potere, nonché giungere alla sostituzione del dirigente rivelatosi inadeguato), l’evoluzione, in fase di lavori preparatori, delle scelte legislative in ordine alla durata del periodo di proroga, e la stessa formula letterale adoperata dal legislatore (per la quale il dirigente “può essere confermato per un eguale periodo a seguito di valutazione da parte del CSM dell’attività svolta”), rendono chiaro come il ruolo della conferma, nel quadro del passaggio dalla non temporaneità alla temporaneità, assumesse il significato di verifica della possibilità, alla luce della positività o meno dello svolgimento delle funzioni nel quadriennio decorso, di prosecuzione nello svolgimento di quel medesimo incarico semidirettivo o direttivo già ricoperta, ed alla quale, quindi, appariva consequenziale l’impegno, da parte del dirigente, alla prosecuzione dell’attuale incarico per ulteriori quattro anni.
In questo senso è stata l’interpretazione della norma nei primi interventi del Consiglio: nella risoluzione del 24 luglio 2008 si definiva la conferma come momento essenziale per l’attuazione delle finalità sottese al principio di temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi, osservandosi che, con tale meccanismo, si intendeva “responsabilizzare i magistrati con compiti di direzione e di collaborazione direttiva, incentivandoli, in vista della verifica, ad accrescere la propria professionalità e la funzionalità dell’ufficio o dei settori cui sono preposti e garantire nel contempo che, sulla base del servizio prestato e dei risultati conseguiti, si accerti l’idoneità del magistrato a continuare a svolgere la relativa funzione”; inoltre, si evidenziava che il magistrato, attraverso la richiesta di conferma, attuata tramite il deposito dell’autorelazione, “manifesta la propria volontà di continuare a svolgere per il secondo quadriennio le medesime funzioni direttive ovvero semidirettive in corso di esercizio”.
2. L’evoluzione dell’equilibrio tra i due significati della conferma: verifica della legittimità a proseguire nel medesimo incarico e “validazione” dell’attitudine direttiva al fine di domanda per nuovi incarichi.
Nel tempo qualcosa è mutato. L’eliminazione dei limiti, originariamente ipotizzati, alla possibilità di presentare domande di conferimento di incarichi ulteriori, al termine del primo quadriennio, unita alla previsione della possibilità di presentare domande per altri incarichi anche in assenza di richiesta di conferma, ha progressivamente aumentato il valore di un secondo significato del momento della conferma, ossia quello di “validazione” del positivo esercizio di funzioni direttive o semidirettive, nell’ottica del conferimento di diversi ed ulteriori incarichi direttivi o semidirettivi.
La normativa primaria (comma 10 dell’art. 12 del D.lgs. n. 160/06) individua come elementi per la valutazione attitudinale le pregresse esperienze di direzione, di organizzazione e di collaborazione, e la normativa secondaria, nelle sue evoluzioni nel corso degli anni, ha sempre attribuito, conseguentemente, significato alle pregresse esperienze direttive o semidirettive, sino ad individuarle espressamente, nel Testo Unico del 2015, come indicatori specifici dell’attitudine direttiva, aventi “speciale rilievo”.
Nonostante questa duplice valenza del giudizio di conferma, lo stesso manteneva, comunque, nel quadro normativo primario e secondario, la sua funzione di “chiave di volta” del nuovo sistema di assegnazione degli incarichi, anche in considerazione della norma, sempre prevista nelle varie declinazioni delle circolari in tema di conferimento di incarichi, per la quale, anche in caso di mancata richiesta di conferma (tramite l’omessa presentazione dell’autorelazione), la facoltà per il magistrato di partecipare ad altri concorsi per funzioni direttive o semidirettive comportava comunque che, nell’ambito di tali procedure, la valutazione attitudinale fosse estesa al complessivo profilo professionale del magistrato e quindi “anche al periodo in cui lo stesso ha svolto le funzioni direttive o semidirettive per le quali non ha richiesto la conferma e non è stato sottoposto al conseguente giudizio”.
Il sistema delineato, in sostanza, prevedeva l’obbligatoria sottoposizione del dirigente al giudizio di valutazione delle modalità con cui erano state esercitate le funzioni nel precedente quadriennio, sia che ciò avvenisse attraverso la procedura di conferma per la permanenza nell’incarico, sia che ciò avvenisse, quando il magistrato non si sottoponeva al giudizio di conferma, attraverso la procedura di conferimento di nuovo incarico, che doveva espressamente considerare e valutare i risultati conseguiti nel quadriennio decorso.
3. Bilancio dell’utilizzo dell’istituto: scarsa incisività del giudizio di conferma: a) i limiti della procedura.
È ormai assodato che il giudizio di conferma non si è rivelato in grado di assolvere al ruolo di chiave di volta del sistema che avrebbe dovuto avere, e che, anzi, la procedura di conferma, così come attuata nel periodo dal 2008 ad oggi, ha avuto scarsa efficacia.
Le ragioni sono state individuate in primo luogo nella scarsa incisività della procedura come costruita dalla normativa secondaria, con particolare riferimento alla scarsità delle fonti di conoscenza.
Nel sostanziale silenzio del legislatore, che prevedeva solo la “valutazione da parte del Consiglio, dell’attività svolta”, il Consiglio superiore ha dettato proprie regole, con la risoluzione del 24 luglio 2008 e poi con il Testo unico della dirigenza del 2015.
In punto procedurale, si è opportunamente previsto l’intervento dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione, ritenendo imprescindibile l’apporto degli organi locali di governo autonomo nella formulazione del parere, in ragione della sua prossimità al magistrato da valutare.
In punto finalità, si è sempre focalizzata l’attenzione non solo sulla “idoneità organizzativa, di programmazione e di gestione dell’ufficio e dei settori di questo affidati al magistrato, da valutarsi alla luce dei risultati conseguiti e di quelli programmati” e sulla “attività giudiziaria in concreto espletata dal magistrato”[3], ma anche su ulteriori elementi, attinenti ai prerequisiti ed all’aspetto della capacità relazionale interna ed esterna all’ufficio, quali l’autorevolezza culturale, l’indipendenza da impropri condizionamenti e la capacità di positivo coordinamento dei magistrati.
Sul piano concreto, però, la prima costruzione del procedimento di conferma è stata limitata ad una procedura estremamente scarna, che, seppur arricchitasi nel corso del tempo ed in particolare con il Testo Unico del 2015, è pur sempre rimasta ancorata a poche fonti di conoscenza, per lo più provenienti dallo stesso magistrato sottoposto a verifica: l’autorelazione ed il documento programmatico presentati dal magistrato, unitamente alla documentazione da lui prodotta, inerente lo svolgimento della funzione organizzativa; il rapporto informativo (del dirigente nel caso di incarico semidirettivo, del Procuratore Generale o del Presidente di Corte nel caso di incarico direttivo); le eventuali osservazioni formulate, a seguito di invito, dal Consiglio dell’ordine degli avvocati, purché riferite a fatti specifici ed oggettivi riguardanti l’attività organizzativa dell’ufficio interessato; gli altri atti e documenti organizzativi già in possesso del Consiglio giudiziario. La scarsità delle fonti di conoscenza previste, il ridotto apporto conoscitivo di fatto fornito dall’avvocatura e la mancanza financo di modelli e format relativi ad autorelazione, rapporto e parere del Consiglio giudiziario – strumenti utili a circoscrivere il perimetro indefettibile degli elementi oggetto di verifica – hanno di fatto portato ad una progressiva burocratizzazione della procedura di conferma ed alla scarsa capacità della stessa ad assolvere a quel ruolo fondamentale che le era attribuito nell’impianto della riforma.
Il dato numerico ci fornisce un risultato di debolissima incidenza delle delibere consiliari di non conferma: dal 2009 al 2022 si sono avute 1859 delibere in tema di conferma di incarichi direttivi/semidirettivi, di cui solo 25 di non conferma, con una percentuale dell'1,3%. Più nel dettaglio, nell’arco di tale periodo, su 704 delibere in tema di conferma di direttivi, 549 sono state le conferme, 13 le non conferme e 142 le delibere di non luogo a provvedere (per trasferimento o pensionamento), mentre su 1155 delibere in tema di conferma di semidirettivi, 1027 sono state le conferme, 12 le non conferme e 116 le delibere di non luogo a provvedere.
4. Inoltre: b) l’aumento della mobilità dei dirigenti.
L’indebolimento del valore, nella complessiva valutazione del sistema della dirigenza, della procedura di conferma può essere dovuto, oltre che ai difetti della procedura, anche ad un secondo dato di fatto, relativo al progressivo aumento della mobilità dirigenziale.
Accade sempre più di frequente, infatti, che, allo scadere del primo quadriennio, il dirigente presenti una domanda per il conferimento di altro incarico, pur presentando anche la domanda di conferma; quest’ultima, tuttavia, non rappresenta più la manifestazione della “propria volontà di continuare a svolgere per il secondo quadriennio le medesime funzioni direttive ovvero semidirettive in corso di esercizio”, quanto, piuttosto, la volontà di permanere nell’incarico in attesa del passaggio ad altro incarico direttivo o semidirettivo.
L’analisi dei dati relativi alle domande di conferimento di altri incarichi, condotta su 1.232 magistrati che dal 2012 al 2021 hanno esercitato funzioni direttive e su 1.770 magistrati che nello stesso arco di tempo hanno svolto funzioni semidirettive, e limitata ai soli bandi conclusi, evidenzia che sono 393 i direttivi e 607 i semidirettivi che hanno fatto domanda per altri posti dirigenziali. Un numero significativo, considerando che tra i magistrati considerati vi sono anche coloro che da pochi mesi o da pochi anni hanno assunto le funzioni di interesse, per i quali ridotta o assente è stata la partecipazione ai bandi.
Quanto all’esito dei bandi, risulta che tra i magistrati che nel periodo dal 2012 al 2021 hanno ricoperto funzioni direttive, il 19% è passato ad altre funzioni direttive, il 3% ad altre funzioni semidirettive, il 3% a funzioni fuori ruolo ed il 57% è cessato dall’ordine giudiziario, mentre solo il 18% è tornato alle funzioni ordinarie; tra i magistrati che nel medesimo periodo hanno ricoperto funzioni semidirettive, il 18% è passato ad altre funzioni direttive, il 15% ad altre funzioni semidirettive, il 3% a funzioni fuori ruolo ed il 36% è cessato dall’ordine giudiziario, mentre solo il 28% è tornato a funzioni ordinarie.
A ciò si aggiunga che quella “obbligatorietà” della verifica dell’attività svolta nel quadriennio, originariamente prevista dal sistema normativo, si è poi nei fatti affievolita attraverso la previsione, presente nel Testo Unico della dirigenza già nella sua originaria formulazione del 2010 e poi in quella del 2015, per la quale “Il conferimento di un diverso incarico direttivo o semidirettivo, successivo alla scadenza del primo quadriennio, costituisce manifestazione di volontà del Consiglio, seppure nella forma implicita, di positiva valutazione delle funzioni direttive o semidirettive in precedenza svolte dal magistrato, rendendo superflua l’adozione di una espressa delibera di conferma”.
Il numero elevato di magistrati con funzioni direttive e, soprattutto, il numero elevatissimo di magistrati con funzioni semidirettive[4], la frequente presentazione, al termine del quadriennio, sia della richiesta di conferma che della domanda per nuovo incarico, il conseguente pesantissimo carico di lavoro della Quinta Commissione e la necessità di dare priorità alla copertura di posti vacanti, hanno quindi fatto sì che spesso il magistrato ottenga il conferimento di un altro incarico, direttivo o semidirettivo, prima ancora di ottenere la delibera di conferma. Sempre più spesso, quindi, il parere attitudinale e la delibera di conferimento di nuovo incarico, di fatto, si sostituiscono alla procedura di conferma.
Inoltre, il nuovo Testo Unico della dirigenza del 2015 ha attribuito maggiore rilievo, ai fini della valutazione comparativa, alle pregresse esperienze di dirigenza, introducendo tale parametro tra gli indicatori specifici dell’attitudine direttiva, aventi “speciale rilievo”, e tale valorizzazione ha avuto un concreto e consistente avallo nella giurisprudenza del giudice amministrativo, che ha sempre più spesso valorizzato tale elemento, attraverso un percorso che rischia di giungere ad attribuire primario rilievo al mero dato della previa esperienza direttiva/semidirettiva, senza, però, una concreta ed effettiva verifica del “come” tale esperienza si è svolta.
Tali circostanze di fatto possono condurre a rendere attuale quella preoccupazione già espressa dal Consiglio nel 2002, relativa alla scelta, formulata dal legislatore, di introdurre la temporaneità dell’incarico e non invece della funzione, laddove si osservava che tale scelta, pur soddisfacendo l’esigenza di evitare le incrostazioni di potere e di garantire avvicendamenti nella direzione degli uffici, consentiva tuttavia la realizzazione di “una carriera direttiva tendenzialmente separata. Con il duplice effetto negativo di contraddire il principio secondo cui i magistrati si distinguono solo per le funzioni esercitate e di non realizzare il positivo interscambio tra lo svolgimento “a termine” di incarichi giudiziari temporanei e la ricca esperienza che deriva dall’esercizio delle funzioni giudiziarie”, tanto che si auspicava, in quest’ottica, che - dopo l’espletamento di un incarico direttivo temporaneo - il magistrato ritornasse almeno per un equivalente periodo di tempo ad esercitare funzioni giudiziarie.
Se oggi la scelta del legislatore di temporaneità dell’incarico anziché di temporaneità della funzione è ormai un approdo consolidato, occorre però domandarsi come, a distanza di quindici anni dalla riforma ed alla luce degli esiti della stessa, si possa restituire effettività al momento della conferma nell’incarico.
5. Come riportare effettività alla procedura di conferma: la modifica del TU Dirigenza sul punto.
Il Consiglio è intervenuto, con delibera del 16 giugno 2021, sul Testo Unico sulla dirigenza, modificandone la parte relativa alle conferme, per rendere più incisiva e penetrante la verifica sull’attività svolta e sui risultati conseguiti, al fine di assicurare il raggiungimento dello scopo della procedura, ossia l’eventuale rimozione del dirigente rivelatosi inadeguato, ma anche per assicurare che il riferimento contenuto nel Testo Unico sulla dirigenza ai risultati conseguiti nelle pregresse esperienze direttive e semi-direttive sia effettivo e verificabile, onde evitare di creare un meccanismo di progressione nella carriera dirigenziale di tipo burocratico e legato al dato puramente formale.
La modifica è intervenuta attraverso l’ampliamento dei dati di conoscenza, con la previsione circa la necessaria acquisizione e valutazione (oltre agli elementi già in precedenza previsti): dei dati statistici; del fascicolo dell’ufficio giudicante e del fascicolo della organizzazione della Procura[5]; della documentazione relativa ai provvedimenti di assegnazione in deroga di cui al comma 1, 3 e 4 dell’art. 10 della Circolare sulla organizzazione degli uffici di procura (autoassegnazioni, co-assegnazioni successive, assegnazioni in deroga ai criteri prestabiliti), nonché di quella relativa ai provvedimenti di co-assegnazione in materia di DDA; dei provvedimenti a campione al fine di valutare lo svolgimento di una quota di attività giudiziaria. Ed ancora attraverso la previsione della valutazione dei risultati di eventuali pratiche di vigilanza svolte dal Consiglio giudiziario e dei risultati delle ispezioni ministeriali svolte sull’ufficio nel periodo in valutazione.
È stato poi previsto l’ampliamento dei poteri istruttori del Consiglio giudiziario (in precedenza non previsti), il quale, in presenza di potenziali elementi di criticità, dovrà svolgere approfondimenti istruttori, con particolare riferimento alla audizione dei magistrati dell’ufficio o della sezione, del personale amministrativo, dei rappresentanti dell’avvocatura, del dirigente dell’ufficio o, quando si tratti di conferma di un dirigente, dei dirigenti distrettuali.
Infine, sono stati predisposti modelli uniformi per l’acquisizione dei dati e format di autorelazione, di rapporto e di parere, nei quali vengono indicati esclusivamente, ma esaustivamente, i dati necessari per una compiuta valutazione dei risultati conseguiti nel periodo e delle modalità di direzione.
Onde ripristinare la “obbligatorietà” della valutazione del quadriennio, si è poi previsto che il magistrato che non abbia richiesto la conferma nell’incarico e che, comunque, faccia domanda per altro incarico, dovrà comunque allegare alla domanda, ai fini della valutazione del periodo di attività svolta nel quadriennio, i documenti previsti, per la procedura di conferma, dall’art. 79 T.U. dirigenza.
6. Il problema della tempestività della valutazione di conferma.
Ma, una volta intervenuti con maggiore efficacia sulla procedura di conferma, occorre riflettere anche sulla capacità del sistema di governo autonomo di aggiungere ad effettività e concretezza della procedura anche un terzo, ma essenziale, requisito: quello della tempestività, in assenza del quale il ruolo del procedimento di conferma, definito più volte la vera chiave di volta della riforma della dirigenza giudiziaria, viene a perdere ogni concreta efficacia.
La maggiore pregnanza degli accertamenti svolti, infatti, non può avere un vero effetto positivo se ad essa non si accompagna una celere valutazione della sussistenza dei presupposti per la conferma nell’incarico da parte dei Consigli Giudiziari e da parte del CSM.
Le statistiche relative all’esame delle procedure di conferma rivelano come il Consiglio stia accumulando un ritardo significativo nella valutazione delle conferme, soprattutto dei semidirettivi, sì che vi è il rischio di vanificare la ratio dell’istituto: di fatto diversi magistrati, pur in presenza magari di pareri non positivi dei Consigli giudiziari, rimangono a ricoprire l’incarico per un tempo significativo successivamente alla scadenza del quadriennio, mentre altri vengono designati ad altro incarico senza sottoporsi alla più rigorosa analisi della procedura di conferma.
Nella consiliatura 2014-2018 si sono avute 128 delibere su conferme di direttivi e 313 delibere su conferme di semidirettivi, con un ritardo medio, rispetto alla scadenza del quadriennio, di 151 giorni per i direttivi e di 171 giorni per i semidirettivi. Nell’attuale consiliatura, 2018-2022, vi sono state 136 delibere in tema di conferma di direttivi e 240 in tema di conferma di semidirettivi, ed il ritardo medio è divenuto di 329 giorni.
Ad oggi (i dati sono del 6 aprile 2022) risultano pendenti in Quinta Commissione 342 pratiche inerenti procedure di conferma relativamente alle quali il quadriennio è già decorso, di cui 133 attinenti a incarichi direttivi (rispettivamente, con riferimento alla scadenza del quadriennio: 4 del 2019, 28 del 2020, 71 del 2021, 30 del 2022) e 209 relative ad incarichi semidirettivi (rispettivamente, con riferimento alla data di scadenza del quadriennio: 2 del 2015, 3 del 2017, 2 del 2018, 7 del 2019, 47 del 2020, 219 del 2021, 62 del 2022).
Di fatto, il conferimento di nuovo incarico, in assenza della conferma più penetrante come oggi disegnata nel Testo Unico riformato nella parte “conferme”, appare eventualità sempre più frequente, con il rischio della scarsa utilità dello sforzo, fatto dal Consiglio, di adeguamento della procedura alla sua effettiva finalità, e con la conseguenza che la conferma, da strumento correlato alla temporaneità finalizzata a sua volta ad arginare una eccessiva continuità dell’incarico direttivo, divenga invece strumento sostanzialmente “inutile”, in un sistema che soffre ormai dell’eccesso opposto, ossia la mancanza di stabilità dell’incarico direttivo e l’eccessiva mobilità dirigenziale.
7. Il progetto di riforma delle norme primarie.
Proprio con riferimento alle problematiche ora evidenziate, il progetto di riforma attualmente all’esame del Parlamento – sia nella sua versione originaria che a seguito degli emendamenti dell’attuale governo – si propone di intervenire con tre previsioni.
La prima consiste nella delega alla riduzione del numero dei posti semidirettivi, recependo la sollecitazione formulata in tal senso dal Consiglio nel parere del 21 aprile 2021.
La seconda consiste nell’innalzamento del termine di legittimazione per la presentazione di domanda per nuovo incarico a cinque anni[6], e nel ripristino del periodo di legittimazione per gli incarichi per i quali l’attuale 195 Ord. Giudiziario lo esclude (tra cui, in particolare, i presidenti ed i procuratori generali di Corte di appello[7]). Si tratta di proposta che consentirebbe di ridurre gli spostamenti, di rendere effettiva la conferma e di riportarla a momento di valutazione finalizzato a verificare la prosecuzione dell’incarico attualmente in corso. Su di essa il Consiglio si è espresso favorevolmente in due occasioni[8], osservando che la soluzione proposta si muove in “un’apprezzabile ottica di maggiore stabilità delle funzioni dirigenziali”, è utile anche ad “impedire che, attraverso l’escamotage di non chiedere la conferma, il magistrato acquisisca la legittimazione al trasferimento” prima dei cinque (sei) anni, ed inoltre riesce a bilanciare l’esigenza di stabilizzazione con quella di consentire il passaggio ad altre funzioni. Nel parere da ultimo espresso a marzo 2022, poi, il Consiglio ha auspicato, come ulteriore modifica, che il termine di legittimazione venga aumentato ad otto anni, cioè in misura pari alla durata dell’incarico, al fine di: assicurare stabilità nella dirigenza degli uffici; consentire una migliore programmazione delle attività della quinta commissione, che potrebbe procedere sempre a pubblicazioni anticipate rispetto alla scadenza dell’incarico e rispettare senza inconvenienti il criterio cronologico di trattazione delle pratiche; avere una riduzione del numero degli aspiranti, che renderebbe più snelle le procedure concorsuali.
La terza previsione attiene al caso del magistrato che, titolare di incarico direttivo o semidirettivo, non chiede, alla scadenza del quadriennio, una conferma nell’ufficio, conseguentemente non sottoponendosi - attualmente - alla procedura di valutazione. In questi casi, il disegno di legge delega il Governo a prevedere che l’attività svolta dal magistrato debba essere valutata comunque al termine del quadriennio; la valutazione dovrà poi essere tenuta in considerazione laddove il magistrato, successivamente, chieda di concorrere per il conferimento di altri incarichi direttivi o semidirettivi[9]. Anche su tale previsione il Consiglio si è espresso favorevolmente, vista la finalità di rendere nuovamente effettiva la verifica, anche in relazione a future domande di conferimento per successivi concorsi, della capacità di svolgimento delle funzioni dirigenziali nel quadriennio trascorso.
8. I casi concreti di non conferma ed il ruolo del governo autonomo.
Auspicando che gli interventi sulla normativa primaria e secondaria riportino effettività alla procedura di conferma, va anche fatta una riflessione sui presupposti sulla base dei quali il Consiglio, nei pochi casi in cui ciò è avvenuto, è giunto a deliberare la non conferma nell’incarico.
Limitando l’analisi alle ultime due consiliature, emerge che si sono avute nella consiliatura 2014-2018 tre delibere di non conferma: due riferite ad incarichi direttivi e fondate su criticità relative ai rapporti con il foro e con i colleghi, con particolare riferimento, sotto questo aspetto, al mancato rispetto dell’autonomia dei magistrati dell’ufficio ed all’incapacità di una gestione dell’ufficio partecipata e condivisa; una riferita ad incarico semidirettivo e fondata sulla valutazione di insussistenza dei pre requisiti di indipendenza, imparzialità ed equilibrio, anche alla luce della natura di un procedimento disciplinare che aveva interessato il magistrato.
Nell’attuale consiliatura, 2018-2022, e sino alla data odierna, si sono avute quattro delibere di non conferma: una relativa ad un incarico direttivo, successivamente però annullata dal giudice amministrativo, fondata sul difetto del prerequisito dell’indipendenza; tre relative ad incarichi semidirettivi (tuttora al vaglio del giudice amministrativo), la prima delle quali si fondava su difetti attinenti all’attitudine direttiva con stretto riferimento alla capacità organizzativa, mentre le altre due si sono fondate sul ritenuto difetto del prerequisito dell’indipendenza.
Appare sempre più frequente, quindi, che le criticità emerse – su segnalazione dei Consigli giudiziari o nascenti da pratiche pendenti presso la Prima commissione consiliare o da esiti di procedimenti disciplinari – e che poi conducono a valutazioni negative in punto conferma, attengano al difetto dei prerequisiti, ed in particolare del requisito, previsto dall’articolo 89 TU, della “indipendenza da impropri condizionamenti”.
Questo dato, che richiama non tanto ai risultati in termini di capacità organizzativa, quanto ai presupposti essenziali della funzione giudiziaria prima ancora che di quella direttiva, rende ancor più preoccupante il ritardo del sistema di governo autonomo nella conferma dei dirigenti.
Accanto alle modifiche normative appare necessario allora un maggiore impegno non solo del Consiglio, quest’ultimo allo stato da declinarsi soprattutto in termini di garanzia della tempestività, oltre che della serietà, della valutazione, ma anche da parte degli altri attori chiamati a contribuire alla verifica.
In primo luogo va richiamato l’impegno richiesto ai Consigli giudiziari, che dovranno utilizzare i maggiori poteri istruttori ed il maggior numero di fonti di conoscenza consentiti dalla nuova Circolare in tema di conferme: procedendo in modo più approfondito alla valutazione in concreto delle capacità organizzative, anche tramite il coordinamento tra i due settori di competenza dei consigli, quello dei pareri attitudinali e di professionalità e quello del controllo sui provvedimenti organizzativi; nonché prestando particolare attenzione all’aspetto della sussistenza dei requisiti dell’indipendenza ed imparzialità, anche avvalendosi della facoltà, riconosciuta espressamente ai Consigli giudiziari in tema di valutazioni di professionalità dalla relativa Circolare, ma espressamente estesa anche alle procedure di conferma dalla delibera del 13 maggio 2020 in tema di linee guida per i consigli giudiziari, di richiedere informazioni alla Prima commissione ed alla sezione disciplinare del consiglio, pur con l’accortezza di precisare che, delle informazioni eventualmente acquisite[10], il Consiglio giudiziario dovrà fare un utilizzo prudente, limitato “ad apprezzare i fatti nella loro consistenza oggettiva e per il rilievo che assumono con riguardo ai parametri previsti, senza svolgere ulteriori accertamenti”.
In secondo luogo, va attribuito giusto rilievo al ruolo dell’avvocatura. Sul punto, peraltro, come già osservato dal Consiglio nel parere reso in proposito, appare equilibrata la previsione dell’attuale Testo Unico, che prevede l’invito al Consiglio dell’Ordine trasmettere informazioni scritte in relazione a “eventuali fatti specifici e a situazioni oggettive rilevanti per la valutazione delle attitudini direttive riguardanti l’incarico oggetto di valutazione”, con specificazione anche dei profili di interesse[11]. Tale previsione costituisce equilibrato bilanciamento tra la tutela dell’indipendenza del magistrato e la possibilità di acquisire il contributo degli avvocati.
In terzo luogo, deve valorizzarsi il contributo dei magistrati stessi dell’ufficio. A questo riguardo, la previsione del progetto di riforma, che prevede l’acquisizione, nella procedura di conferma, di generici “pareri” dei magistrati dell’ufficio e del dirigente dell’ufficio giudiziario “dirimpettaio”, non appare utile né opportuna né portatrice di una sana dinamica interna all’ufficio: come osservato dal Consiglio, essa introduce impropriamente nella procedura non delle fonti di conoscenza, ma dei veri e propri giudizi valutativi (in ipotesi anche non collegati a fatti specifici), che paiono di difficile inquadramento nell’ambito del procedimento (connotato dall’acquisizione di fonti di conoscenza e da un conclusivo parere del Consiglio Giudiziario), che sono scollegati dal riferimento a “fatti”, e che anzi possono indurre improprie ricerche di consenso da parte del dirigente presso i magistrati, attraverso l’inerzia organizzativa o attraverso scelte organizzative finalizzate più ad acquisire il consenso dei magistrati che a fornire una buona organizzazione all’ufficio.
Al contrario, l’apporto dei magistrati dell’ufficio deve estrinsecarsi in primo luogo nei canali istituzionali previsti dall’ordinamento, ossia nella possibilità di presentare osservazioni ai provvedimenti organizzativi del dirigente, laddove ritenuti ingiusti o contrastanti con i principi dell’ordinamento, considerando che anche l’esito di tali provvedimenti è poi valutabile da parte del Consiglio Superiore in occasione della conferma del magistrato.
Inoltre, l’apporto dei magistrati dell’ufficio (così come di avvocati e personale amministrativo) potrà essere acquisito, ai sensi del nuovo art.83 del Testo unico sulla Dirigenza giudiziaria, attraverso l’audizione dei medesimi avanti il Consiglio Giudiziario, ove tale organo ravvisi “elementi di criticità potenzialmente rilevanti” ai fini dell’emissione del proprio parere. In tal modo, le informazioni da parte di chi vive quotidianamente l’ufficio giudiziario, strumento preziosissimo per la valutazione, vengono acquisite in modo corretto, sulla base di una motivata delibera del Consiglio giudiziario ed in relazione a specifici e ben delineati aspetti di criticità.
Un miglioramento del procedimento di conferma, insomma, non può fondarsi sull’acquisizione di elementi valutativi disancorati da fatti specifici, ma deve provenire, nell’ambito di un circuito istituzionale, attraverso la corretta partecipazione dei magistrati al governo autonomo della magistratura, che non è compito esclusivamente dei Consigli giudiziari e del Consiglio superiore, ma è rimesso nelle mani di tutti i magistrati.
[1] Riforma introdotta dalla l.d. n. 150 del 2005 ed attuata con il d.lgs. n. 160 del 2006, poi modificato dalla l. n. 111 del 2007.
[2] Così il Consiglio nel parere espresso il 12 giugno 2002, con considerazioni ribadite nel successivo parere del 22 maggio 2003.
[3] Peraltro accertata “nella diversa misura in cui – in relazione alla natura dell’incarico svolto (di direzione o di collaborazione alla funzione direttiva) e alle dimensioni dell’ufficio – la stessa rileva nella valutazione finalizzata alla scelta di dirigenti di uffici direttivi e di magistrati che esercitano funzioni semidirettive”
[4] Quanto ai semidirettivi, a fronte di una previsione normativa (art.47 ter Ord. Giud.) che fissa (per gli uffici di primo grado) un rapporto di 1 a 10 tra semidirettivi e magistrati, il rapporto medio tra magistrati ordinari e direttivi/semidirettivi risulta essere del 4,04 nelle Corti di appello, del 7,76 nei Tribunali, del 4,62 nelle Procure Generali presso le Corti d’appello, del 6,39 nelle Procure della Repubblica; come dati totali, vi sono 832 semidirettivi a fronte di 7.658 non semidirettivi.
[5] Fascicolo disponibile presso la VII Commissione del Consiglio e nel quale sono conservati tutti i provvedimenti organizzativi adottati dal dirigente nel periodo in valutazione e le deliberazioni assunte dal Consiglio in merito.
[6] Cinque nel progetto Bonafede, sei nel progetto Cartabia, di nuovo cinque nel progetto approvato dalla Camera.
[7] Viene abrogato l’articolo 195 O.G.. Rimarrebbe la previsione di un termine diverso solo per gli incarichi di Primo Presidente della Corte di cassazione e di Procuratore Generale presso la medesima Corte.
[8] Parere su progetto Bonafede, delibera 21 aprile 2021; parere su progetto Cartabia, delibera 23 marzo 2022.
[9] Questo principio di delega, si afferma, vuole superare l’attuale automatismo, previsto dall’art. 92 del TU, in base al quale «Il conferimento di un diverso incarico direttivo o semidirettivo, successivo alla scadenza del primo quadriennio, costituisce implicita valutazione positiva delle funzioni direttive o semidirettive in precedenza svolte, rendendo superflua l’adozione di una delibera espressa di conferma».
[10] Salve ragioni di riservatezza che consentono al consiglio di non rendere le richieste informazioni.
[11] a) rapporti con la classe forense e i relativi organismi di rappresentanza; b) raggiungimento di standard di efficienza nel lavoro giudiziario e amministrativo, in relazione al programma organizzativo dell’ufficio o alla risoluzione di particolari profili problematici; c) predisposizione e osservanza delle tabelle degli uffici giudicanti e dei programmi organizzativi degli uffici requirenti; d) gestione dei flussi e tempi di definizione dei procedimenti, anche alla stregua delle indicazioni contenute nelle tabelle, nel programma organizzativo e nel rapporto informativo annuale sull’andamento dell’ufficio; e) organizzazione del lavoro in relazione alla gestione degli affari, tenuto conto della loro complessità e dei carichi di lavoro; f) organizzazione del ruolo di udienza; g) vigilanza, nei casi previsti dall’Ordinamento giudiziario, nei confronti dei magistrati ordinari e onorari, degli Uffici del Giudice di Pace e degli Uffici NEP.
Brevi note sul riformato contraddittorio procedimentale in tema di interdittiva antimafia (nota a Ordinanza TAR Lecce, sez. III, n. 116/2022)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini
Sommario: 1. Premessa - 2. Sulla recentissima riforma sul contraddittorio procedimentale - 3. Riflessioni conclusive.
1. Premessa
Il provvedimento che si annota rappresenta una delle prime applicazioni giurisprudenziali delle disposizioni emanate con il D.L. 6 novembre 2021 n. 152.
Il Giudice investito della causa, infatti, ritiene meritevole di accoglimento il motivo relativo alla violazione del nuovo comma 2 bis dell’art. 92 del D. Lgs. n. 159 del 2011, avendo mancato la Prefettura di dare “tempestiva comunicazione al soggetto interessato” della ritenuta sussistenza a suo carico dei presupposti per l’adozione dell’atto di conferma dell’informativa interdittiva antimafia.
Alla luce della novellata normativa, l’Ufficio Territoriale del Governo deve riavviare il procedimento al fine di operare, nel contraddittorio con la parte ricorrente ed entro il termine di venti giorni dalla comunicazione dell’ordinanza cautelare in commento, una complessiva ed organica rivalutazione del quadro giuridico e fattuale (anche) a fondamento dell’emissione di una nuova informazione interdittiva antimafia.
2. Sulla recentissima riforma sul contraddittorio procedimentale
Orbene, il decreto-legge n. 152/2021, recante disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose [1] apporta talune disposizioni dedicate a «investimenti e rafforzamento del sistema di prevenzione antimafia».
In questo contesto, la novità che qui ci occupa è la nuova declinazione del contraddittorio nel procedimento di rilascio delle misure interdittive [2].
Andando a ritroso, la disciplina previgente prevedeva la possibilità di adottare un’informazione interdittiva antimafia senza la previa instaurazione del contraddittorio procedimentale con il destinatario del provvedimento [3] poiché in subiecta materia non trovava spazio né la comunicazione di avvio ex art. 7 l. n. 241/90, né le altre garanzie partecipative, attese le intrinseche ragioni di urgenza presupposte all’adozione della misura preventiva.
Come già evidenziato in altre occasioni, il siffatto sistema destava dubbi interpretativi ed applicativi, sia in dottrina che in giurisprudenza, sicché veniva rinviata la questione alla Corte di giustizia dell’Unione europea al fine di ottenere una pronuncia in via pregiudiziale sulla compatibilità tra gli artt. 91, 92 e 93 cod. ant. ed il principio europeo del contraddittorio; la CGUE dichiarava l’irricevibilità della domanda ritenendo che la normativa censurata fosse posta al di là dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea [4].
Del resto, autorevole Dottrina ricorda infatti come: “la tematica ha, come noto, coinvolto anche la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale, portandola a coniare la discutibile e discussa categoria della tassatività giurisprudenziale o giurisprudenza tipizzante, reputata [eccezionalmente] idonea a integrare i fisiologici limiti evolutivi del sistema normativo in una lotta contro un’organizzazione particolarmente forte, agguerrita e pericolosa, capace di elaborare sistemi sempre nuovi per sottrarsi alle regole scritte. La garanzia data dal decalogo giurisprudenziale tassativizzante consentirebbe quindi in questo particolare contesto di non ravvisare una lesione del principio di legalità dell’azione amministrativa, mentre i limiti del contraddittorio procedimentale (sui quali tornerò tra un attimo), sarebbero compensati dall’effettività della tutela giurisdizionale” [5].
Sul versante giurisprudenziale il Consiglio di Stato, ritornando sulla questione, pur avendo affermato che «l’informazione antimafia non richiede la necessaria osservanza del contraddittorio procedimentale» [6] evidenziava come il contraddittorio non fosse del tutto assente bensì meramente eventuale e da attivare a discrezionalità del Prefetto….
Dunque, l’art. 93, co. 7 cod. ant. riconosceva al Prefetto, ove ritenuto opportuno [7], la facoltà di invitare «i soggetti interessati a produrre […] ogni informazione ritenuta utile». La ratio sottesa alla compressione delle garanzie procedimentali veniva identificata nella necessità di contrastare il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa che può essere inficiato dalla c.d. discovery ovvero dalla «conoscenza dell’imminente o probabile adozione di un provvedimento antimafia […], in quanto le associazioni mafiose sono ben capaci di ricorrere a tecniche elusive delle norme in materia» [8].
Altra giurisprudenza, unitamente alla dottrina maggioritaria, auspicava «un quantomeno parziale recupero delle garanzie procedimentali […] in tutte quelle ipotesi in cui la permeabilità mafiosa appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali, rispetto alle quali l’apporto procedimentale del soggetto potrebbe fornire utili elementi a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale» [9].
Sul punto, chi scrive da tempo riflette sulla necessità di effettuare un bilanciamento tra i valori in gioco al fine di evitare uno sproporzionato sacrificio del diritto di difesa che si riverserebbe su una grave limitazione di diritti costituzionalmente garantiti poiché si rammenta che la proporzionalità è ‘condizione di civiltà’ dell’azione amministrativa.
Inoltre è bene evidenziare altro aspetto della questione poiché la partecipazione procedimentale, ancor prima che doverosa alla luce del principio del giusto procedimento, sarebbe utile al Prefetto, nei termini di una più efficiente azione amministrativa rispondente al principio costituzionale del buon andamento della p.a.: consentirebbe di acquisir, un quadro istruttorio più completo ed idoneo ad evitare l’emissione di un provvedimento tanto incisivo sulla libertà di impresa da comportare, sovente, la ‘morte’ della stessa.
E, oggi, l’auspicata riforma [10], seppur in termini incerti e forse ancora inadeguati, è stata realizzata dal legislatore con il D.L. 6 novembre 2021 n. 152 che ha modificato l’art. 92 del Cod. ant. prevedendo che il prefetto, nel caso in cui, sulla base degli esiti delle verifiche disposte ai sensi del comma 2, ritenga sussistenti i presupposti per l’adozione dell’informazione antimafia interdittiva […], ne dà tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa.
Epperò, nei termini suddetti, seppur rivisitati rispetto al passato, il contraddittorio riscontra comunque ampie limitazioni poiché al destinatario non spetta alcuna comunicazione ove ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimentospecularmente a quanto avviene in tema di comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L 241/90 [11].
Ed in più la normativa in commento prevede la preclusione della comunicazione di elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l’esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose.
Dunque, dalla detta comunicazione decorre un termine, non superiore a venti giorni, entro cui il futuro destinatario può presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, e richiedere l’audizione personale. Il nuovo art. 92, co. 2-bis, cod. ant. prevede poi che la comunicazione sospende, con decorrenza dalla relativa data di invio, il termine entro il quale il prefetto deve rilasciare l’informazione antimafia e che comunque il contraddittorio debba concludersi entro sessanta giorni dalla data di ricezione della comunicazione.
Inoltre, con l’intervento legislativo in commento, sono stati inseriti due ulteriori commi all’art. 92 cod. ant. In particolare, il nuovo comma 2-ter dell’art. 92 cod. ant. prevede che il prefetto: a) dispone l'applicazione delle misure di cui all'articolo 94-bis, dandone comunicazione, entro cinque giorni, all'interessato secondo le modalità stabilite dall'articolo 76, comma 6, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, qualora gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale; b) adotta l'informazione antimafia interdittiva, procedendo alla comunicazione all'interessato entro il termine e con le modalità di cui alla lettera a), nel caso di sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa. Il prefetto, adottata l'informazione antimafia interdittiva ai sensi della presente lettera, verifica altresì la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle misure di cui all'articolo 32, comma 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114 e, in caso positivo, ne informa tempestivamente il Presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione [12].
Il successivo comma 2-quater prevede che, ai fini dell’adozione dell’informazione interdittiva antimafia, possano essere valutate talune sopravvenienze verificatesi nel periodo tra la ricezione della comunicazione e la conclusione della procedura in contraddittorio, quali il cambiamento di sede, di denominazione, della ragione o dell'oggetto sociale, della composizione degli organi di amministrazione, direzione e vigilanza, la sostituzione degli organi sociali, della rappresentanza legale della società nonché della titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, il compimento di fusioni o altre trasformazioni o comunque qualsiasi variazione dell'assetto sociale, organizzativo, gestionale e patrimoniale delle società e imprese interessate dai tentativi di infiltrazione mafiosa[13].
3. Riflessioni conclusive
Nei suddetti termini la riforma in commento non soddisfa le esigenze già avanzate da giurisprudenza e dottrina. In parte la dottrina si è già espressa sul punto ritenendo che l’«esigenza di difesa» sarebbe stata «pericolosamente posizionata in avanti, ossia nella fase in cui l’autorità abbia già raggiunto il convincimento della sussistenza dei presupposti per la applicazione delle misure, con ovvia difficoltà per il proposto di addurre nel ristretto termine di venti giorni elementi a propria difesa quando gli elementi ‘a carico ’ siano già condensati in un giudizio prognostico a lui totalmente sfavorevole» [14].
Invero, nei lavori preparatori della riforma si fa riferimento non alla comunicazione di avvio ex L. 241/90 bensì al preavviso di rigetto di cui all’articolo 10-bis L n. 241/1990 [15].
Neppure questo istituto risulta essere idoneo a coprire il perimetro e la funzione del contraddittorio procedimentale giacché la ‘comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza’ trova applicazione nei procedimenti ad istanza di parte, nei quali il contraddittorio tra interessato e PA si è già verificato; circostanza assente nel procedimento di rilascio dell’interdittiva antimafia.
Dunque, seppur sembra fortemente ampliato il campo di applicazione dell’istituto del contraddittorio procedimentale rispetto alla normativa previgente, risulta ancora estremamente ampia la discrezionalità prefettizia, non solo nei presupposti di emissione ma anche nella scelta di attivare o meno il contraddittorio procedimentale.
Trattasi di una forma di contraddittorio dimezzata ed eventuale la cui valutazione di utilità è demandata, ancora una volta, alla discrezionalità del prefetto.
È necessario considerare non solo le ferme posizioni della dottrina, ma anche le ormai cospicue pronunce sia della Corte di Giustizia che del Consiglio di Stato orientate verso l’interpretazione più garantista di questo istituto al fine di ripensare la disciplina in commento.
Non si può che auspicare un nuovo intervento normativo, decisivo e finale; un intervento che possa incidere fattivamente e non esclusivamente attraverso generiche ed asettiche previsioni sull’istituto i cui effetti determinano ed invadono la sfera del privato, talvolta, eludendo importanti garanzie costituzionali.
[1] Cfr. l. 29 dicembre 2021, n. 233, in G.U. n. 310 del 31 dicembre 2021, suppl. ordinario n. 48.
[2] La vecchia rubrica, «Termini per il rilascio delle informazioni», è stata così sostituita dall’art. 48, co. 1, lett. a), n. 1, d.lgs. n. 152/2021.
[3] Si consenta R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), Giustiziainsieme, 2020
[4] V. Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. IX, 28 maggio 2020, n. 17
[5] Così M. A. Sandulli, Il contradittorio nel procedimento della nuova interdittiva antimafia, relazione tenuta al convegno “Il nuovo volto delle interdittive antimafia alla luce del piano nazionale di ripresa e resilienza”, Reggio Calabria, 8 Aprile 2022 ora in questa Rivista, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, 12 maggio 2022.
[6] V. Cons. Stato, Sez. III, 23 gennaio 2020 (dep. 31 gennaio 2020), n. 820
[7] Sul punto si veda Le modifiche del d.l. 152/2021 al ‘codice antimafia’: maggiori garanzie nel procedimento di rilascio dell’interdittiva antimafia e nuove misure di ‘prevenzione collaborativa’, in Sistema Penale.it
[8] V. Cons. Stato, Sez. III, 30 aprile 2020 (dep. 6 maggio 2020), n. 2854
[9] V. Cons. Stato, Sez. III, 30 luglio 2020 (dep. 10 agosto 2020), n. 4979
[10] Sia consentito il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), Giustiziainsieme, 2020
[11] Sul punto si vedano le osservazioni di M. A. Sandulli, Il contradittorio nel procedimento della nuova interdittiva antimafia, cit. : “ Se è però certamente vero che le esigenze di immediata efficacia e di “effetto sorpresa” delle misure di prevenzione antimafia, possono giustificare delle deroghe anche sul piano del contraddittorio procedimentale, imposto -anche a livello generale- “ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento”, è altrettanto evidente che la effettiva necessità e giustificabilità di tali deroghe deve essere valutata caso per caso, attraverso un necessario vaglio di proporzionalità, che tenga conto della grave incidenza che le misure interdittive antimafia esplicano su diritti fondamentali dei loro destinatari”.
[12] Art 92 comma 2-ter.
[13] Art 92 comma 2-quater.
[14] Osservatorio misure patrimoniali e di prevenzione dell’Unione delle camere penali italiane, Le modifiche legislative presentate dal Governo in materia di interdittive antimafia e controllo giudiziario
[15] Dossier 16 dicembre 2021, Disposizioni urgenti per l’attuazione del PNRR e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose, d.l. 152/2021 – A. C. 3354-A, p. 462.
L’opera-continente di Pasolini e gli pseudo-intellettuali di oggi
Intervista di Andrea Apollonio a Roberto Chiesi
Roberto Chiesi è uno dei più profondi e autorevoli conoscitori dell’opera pasoliniana, non solo per essere da molti anni il responsabile del Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna (assoluto punto di riferimento per gli studiosi del Poeta), ma anche per aver cercato, nelle vesti di critico letterario, tracce del genio pasoliniano nell’odierno scenario artistico. Giustizia Insieme l’ha intervistato.
A cento anni dalla nascita, come viene percepito Pier Paolo Pasolini oggi?
Viene percepito in molti modi: in generale come l'artista che ha saputo comprendere e descrivere in anticipo come saremmo diventati, come un artista di dimensione rinascimentale e come l'intellettuale che ha pagato con la vita le sue idee.
I giovani come reagiscono alle opere di Pasolini?
Devo dire che rimango spesso impressionato dalle reazioni dei giovani lettori o spettatori di Pasolini, nel senso che spesso sono colpiti nel profondo dalle sue parole e dalle sue immagini. Riesce ancora a parlare molto alle loro coscienze, a stimolarli, a suscitare delle reazioni, a metterli in crisi nel senso più positivo del termine. È probabile che molti ragazzi scoprano in Pasolini un antidoto alla mediocrità contemporanea, alla malafede di tanti pseudo-intellettuali di oggi, alla loro aggressività priva di qualsiasi senso, alla loro dialettica che è intesa soltanto ad aggiudicarsi al miglior compratore. Sono in vendita, mentre Pasolini non lo era.
Molti temi che Pasolini aveva lanciato e rilanciato nella sua opera artistica - il rispetto della diversità, l'affermazione degli orientamenti sessuali, l'emancipazione femminile - sono oggi patrimonio comune. Ma secondo lei il modo con cui vengono trattati, è il modo con cui Pasolini avrebbe voluto venissero trattati?
Per la verità ho molti dubbi che oggi il rispetto della diversità sia veramente un bene comune. Anzi credo che sia in atto e non soltanto riguardo a questo, una pericolosa regressione, accompagnata da una reviviscenza del peggior moralismo, spesso travestito da progressismo. Per questo credo che Pasolini avrebbe detestato il nostro presente e avrebbe odiato, in particolare, la confusione indifferenziata di destra e di quel che resta della sinistra in molte, troppe questioni. Il fenomeno che ha portato all'attuale confusione, peraltro, inizia proprio negli anni Settanta e viene denunciato da Pasolini che subito ne coglie la pericolosità. Quando si smarriscono le differenze, si perde anche l'identità.
Nonostanti i tanti studi apparsi su Pasolini e Sciascia, è forse ancora in ombra il rapporto tra queste due figure di intellettuali. Cosa se ne può dire, oggi?
Non è in ombra: è appena uscito un corposo volume edito dal Centro Studi Pasolini di Casarsa e da Marsilio su Pasolini e Sciascia. Provavano entrambi un senso di profondo sdegno, di rabbia nei confronti della corruzione della classe politica e delle sue collusioni con la criminalità organizzata. Uno sdegno e una rabbia che si traducevano nella tensione a decifrare come funzionava questa degenerata classe politica e quali fossero gli effetti nefasti della sua azione.
È noto che Pasolini ha messo in luce le contraddizioni della modernità, in Italia e altrove - pensiamo alle sue riflessioni svolte in terra di Israele. Ma non ha potuto vedere gli abissali effetti della rivoluzione tecnologica e la conseguente "modernità virtuale", che tutti noi oggi viviamo. È un azzardo, ma giocando di fantasia: cosa avrebbe detto Pasolini di tutto questo?
Pasolini amava la fisicità della vita quindi avrebbe disprezzato la virtualità, l'avrebbe analizzata ma penso che l'avrebbe combattuta in tutto e per tutto come una sottocultura che aliena l'individuo dalla realtà delle cose. Il che, probabilmente, non gli avrebbe impedito di usarla, a modo suo, magari contro se stessa.
L’opera pasoliniana è stata segnata, soprattutto nell'ultimo periodo, da taluni eccessi artistici, parte di un discorso organico e carico di significato del poeta. E allora, a distanza di oltre quarant’anni, come vanno interpretati gli eccessi delle sue ultime opere, quali quelli che si scorgono nel suo ultimo film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”?
Per la verità il gusto della provocazione e dell'eccesso agiva anche prima di Salò in Pasolini, si pensi alle tragedie della metà degli anni '60, Orgia e Affabulazione. Certo con l'ultimo film questa tendenza si radicalizza e il senso di questo intensificarsi della provocazione risiede, secondo me, nella rabbia e nella delusione che viveva nei confronti del presente e nella necessità che avvertiva di aggredirlo e quindi di aggredire gli spettatori mettendoli a disagio. Ma non si trattava di provocazioni gratuite: Salò è un film di grande complessità e uno dei suoi modelli di riferimento è l'Inferno di Dante. La violenza espressiva è solo uno strato dell'opera, sotto al quale si cela una macchina metaforica di grande complessità.
Pasolini ha avuto una tortuosa evoluzione artistica, spaziando dalla poesia degli esordi, alla narrativa, passando dalla saggistica e approdando alla cinematografia, che sembrava essere diventato il suo principale porto espressivo. Secondo lei è possibile dire in che modo si sarebbe ancora sviluppato il suo percorso artistico?
Impossibile. Ma dato che ha quasi sempre praticato varie forme d'arte contemporaneamente, si può presumere che avrebbe continuato a farlo.
E, specularmente, come sarebbe cambiata e come si sarebbe evoluta la cultura italiana se Pasolini non fosse stato barbaramente ucciso a poco più di cinquant'anni?
L'unica cosa che si può dire è che il suo degrado sarebbe stato più lento e problematico, proprio per la presenza critica e vitale del pensiero pasoliniano.
Quale è l'eredità più grande del poeta; e, sopratutto, chi ha raccolto la sua eredità? Se l'ha raccolta qualcuno...
Non credo nessuno. Ma in compenso esistono tanti artisti importanti che si sono “nutriti” dell'opera e del pensiero di Pasolini senza diventare degli epigoni, per fortuna. Per quanto riguarda il cinema, pensiamo a Matteo Garrone, che non si può assolutamente definire un imitatore di Pasolini ma ha un suo stile e un suo modo di raccontare, con delle interessanti e autonome analogie rispetto al cinema pasoliniano. Pensiamo anche a film italiani come Su Re (2012) di Giovanni Columbu, un'originale interpretazione della Passione di Cristo, il notevole Agadah (2017) di Alberto Rondalli, che si ispira a Potocki ma ricorda a tratti la sensualità favolosa del Fiore delle Mille e una notte, e i recenti Re Granchio di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi, e Piccolo corpo di Laura Samani.
Da ultimo: cosa rappresenta per lei la figura di Pier Paolo Pasolini?
Per me rappresenta una figura chiave per comprendere alcuni fenomeni nodali che hanno segnato la vita del Paese negli ultimi 50-60 anni e, di per sé, l'autore di un'opera-continente di importanza fondamentale, dove la poesia, la narrativa, il cinema, la saggistica, il teatro hanno raggiunto risultati geniali e di eccezionale spessore.
Il coordinamento tra gli articoli 8 e 10 Cedu in una recente pronuncia della Supreme Court inglese*
di Mario Serio
Sommario: 1. La non dismessa sensibilità della giurisprudenza inglese nei confronti delle pronunce delle corti europee. - 2. La idoneità lesiva del diritto al rispetto della vita privata posseduta dalla divulgazione dell'esistenza di indagini a carico di una persona. - 3. I termini fattuali della vicenda giudiziale. - 4. La ratio decidendi della Supreme Court. - 5. Le conclusioni della Supreme Court e l'aria del continente che ancora si respira a Parliament Square.
1. La non dismessa sensibilità della giurisprudenza inglese nei confronti delle pronunce delle corti europee
Tra i luoghi comuni capaci di riscuotere successo nell'esame degli effetti riconformativi della scena giuridica inglese conseguenti alla fuoriuscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea uno dei più comprensibilmente temuti è quello della progressiva perdita delle consistenti tracce della diffusione nel common law d'oltremanica dei portati della finestra da questo aperta verso il continente. Tracce riscontrabili non soltanto nel prima necessario recepimento nell'ordinamento interno di disposizioni normative europee, ma riferibili anche al dichiarato ed attuato desiderio dei giuristi inglesi di sviluppare un dialogo con i loro corrispondenti di civil law intessuto di confronti, emulazioni, circolazioni di concetti e soluzioni in vista di processi variamente denominabili come di ravvicinamento, uniformazione, omologazione. Si è propagato il timore, così, che dal voto referendario del giugno 2016 non potesse che derivare l'abbandono di quella ricca stagione passata, presumendo che essa avesse trovato i natali e la successiva forza per mantenersi in vita solo nel doveroso rispetto degli obblighi comunitari, dai quali il dialogo avrebbe tratto esclusivo vigore e ragion d'essere.
Per quanto in astratto non ingiustificata, la preoccupazione si sta rivelando largamente eccessiva alla luce dell'esperienza giurisprudenziale inglese, che ha offerto di sé il volto del radicato interesse ad interiorizzare, in termini di nuovo costume intellettuale, il patrimonio ideale e culturale acquisito in lunghi anni di incisiva presenza del Regno Unito nelle istituzioni comunitarie.
Tra i molti e benefici esempi dimostrativi dell'incancellabile eredità ricavata dal diritto inglese in virtù della continuità tra il canale della Manica ed il territorio continentale se ne sceglie in questa sede uno particolarmente probante sia in ragione della provenienza sia con riguardo alla materia trattata.
2. La idoneità lesiva del diritto al rispetto della vita privata posseduta dalla divulgazione dell'esistenza di indagini a carico di una persona
Ormai da tempo la giurisprudenza inglese ha allontanato da sé il sospetto di concepire come possibile solo all'interno del proprio ordinamento il reperimento dei criteri di diritto positivo (includendo ovviamente nell'accezione il complesso delle pronunce giudiziali) utilizzabili nella propria attività, dirigendo anzi il proprio sguardo verso sistemi ordinamentali diversi, nazionali e transnazionali.
Non è possibile stabilire anche in via di approssimazione alla certezza quali chiare ragioni abbiano contribuito a spingere la letteratura giuridica inglese in genere fuori da un isolamento culturale che appariva molto più pronunciato nei decenni scorsi. Sul piano della ragionevolezza probabilistica ben può ritenersi che la facilitazione al dialogo esterno ai confini nazionali abbia trovato salda origine nella quasi semisecolare presenza della Gran Bretagna nell'Unione Europea, la cui aria ha saputo respirare, beneficamente inalandola anche nel proprio polmone giudiziario. Argomenti, scritti, citazioni, esempi tratti dal diritto europeo quale autonomo corpo normativo e dai diritti degli Stati-membri dell'istituzione comunitaria hanno riforgiato il modo stesso di pensare delle corti di giustizia britanniche nel duplice senso di escludere la possibilità aprioristica di prescinderne e di consigliare di adottare come metro di misura dell'adeguatezza delle proprie decisioni la conformità, o la ragionata difformità, rispetto agli orientamenti accreditati in altri ambiti spaziali.
È motivo di consolazione, per chi osservi da una prospettiva, almeno potenzialmente, eurounitaria, constatare che questo profondo sommovimento in un terreno storicamente poco votato agli innesti non patriottici si sia consolidato fino al limite della creazione di feconde radici, mostrandosi indifferente al mutato quadro di riferimento istituzionale dei rapporti con l'Unione Europea.
Ad oltre un decennio dal debutto sulla scena giudiziaria di ultima istanza della Supreme Court è doveroso il riconoscimento che la fattiva partecipazione della giurisprudenza inglese allo scenario europeo ha trovato nel nuovo organo un interprete di rilievo centrale sia per la calibrata provenienza dei suoi componenti da tutte le regioni del Regno Unito sia per la loro partecipazione al circuito delle giurisdizioni superiori europee ed al collegato apporto in termini di rivisitazione, rinnovamento, adattamento di categorie concettuali prima coltivate nell'esclusivo recinto domestico.
Il caso che qui si presenta, Bloomberg v ZXC[1], deciso dalla Supreme Court il 16 febbraio 2022, si pone nella scia dei nessi comunicativi tra common law inglese e diritto europeo in senso ampio tanto per la trasversalità del problema affrontato quanto per la ricerca di soluzioni di cui non si è in alcun modo tentato di dissimulare la riconducibilità, se non l'identità, ad una comune ispirazione “continentale”.
Lo spinoso punto di diritto attorno al quale si è sviluppata nei tre gradi di giudizio la controversia è stato così precisamente riassunto nella parte introduttiva della sentenza redatta dai Lord Hamblen e Stephens ed adottata con l'approvazione degli altri tre componenti il Collegio: se, in via generale, una persona sottoposta ad indagini penali abbia, nel periodo antecedente alla formale incriminazione, una ragionevole aspettativa di riservatezza circa l'esistenza delle stesse indagini.
Un preliminare chiarimento concettuale è di fondamentale importanza per rendere comparabile la vicenda in questione con gli istituti processualpenalistici propri del diritto italiano (e di altri ordinamenti europei di civil law). L'espressione in lingua originale utilizzata per definire la fase delle indagini penali anteriori all'incriminazione è “prior to being charged”. E questa circostanza potrebbe condurre alla conclusione che letteralmente la sentenza abbia preso in considerazione il momento del procedimento penale che, secondo il metro italiano, parrebbe equiparabile a quello in cui la persona sottoposta ad indagini acquista, per effetto della richiesta di rinvio a giudizio rivolta dal pubblico ministero procedente al giudice dell'udienza preliminare, la qualità di imputato con il conseguente avvio dell'indagine penale. Accedendo a questa prima impressione sarebbe innegabile il notevole spostamento in avanti del momento fino al quale l'aspirazione alla riservatezza di cui si dibatte potrebbe trovare riconoscimento e protezione. Tuttavia, il dubbio può agevolmente sciogliersi non solo ricorrendo ad una nozione di “charge” coerente con l'acquisizione di una qualità processualmente rilevante e definita dal punto di vista anche delle garanzie soggettive, quale quella di persona sottoposta ad indagini secondo il nostro lessico familiare. D'aiuto ad avallare questa opinione si mostra anche la collocazione degli elementi di fatto rilevanti nel caso, i quali chiaramente fanno risaltare che il problema si pose con riguardo ad informazioni relative alla fase delle indagini preliminari di un'agenzia governativa che nella massima riservatezza stava raccogliendo presso autorità anche straniere elementi utili per determinarsi ad una successiva e del tutto eventuale fase diretta a muovere alla persona interessata contestazioni di rilevanza penale: queste, al contempo, avrebbero assicurato alla stessa l'attribuzione di una condizione soggettiva protetta in termini di garanzie procedimentali. In altri termini, la divulgazione della notizia dell'esistenza di indagini era avvenuta allorché le informazioni richieste non consentivano, nel momento della relativa formulazione, di prospettare alcuna chiara e definita posizione, secondo i canoni del diritto positivo, della persona interessata. Né, d'altro canto, lo stadio puramente embrionale di queste indagini dirette a verificare anticipatamente la possibilità di una loro estensione e di una contestuale eventualità di contestazione poteva in alcun modo lasciar prefigurare una qualche forma di determinazione stabile ed orientata da parte dell'autorità procedente. Ed invero, il nodo della lite, per come focalizzato dalla persona su cui si acquisivano notizie, risiede proprio nella mancata, preventiva assegnazione di una condizione rientrante nei paradigmi propri del procedimento penale dal cui alveo si era ancora lontani: ed in ciò, ossia nella predizione di un'evoluzione pregiudizievole per l'interessato, ben prima che questo evento si fosse avverato, veniva ravvisato il pregiudizio alla riservatezza della vita privata di cui si chiedeva la salvaguardia attraverso il rinvio alle previsioni convenzionali europee.
La precisazione non è di poco rilievo in quanto, soprattutto in un ancora fluttuante spazio applicativo delle disposizioni domestiche, racchiuse nel d.lgs.188/2021[2] sulla presunzione di innocenza e sui limiti all'informazione pubblica che potrebbe comportare, essa consente di restringere in modo ragionevole e non ingiustificatamente angusto lo scenario della vicenda esaminata dalla Supreme Court e, pertanto, di prevenirne una sconsigliabile interpretazione speculare che induca ad identificare nel common law inglese un avallo, in effetti non rinvenibile, ad una visione soffocante degli obblighi e dei corrispondenti diritti informativi. Può al contrario anticiparsi che i principii di diritto desumibili dalla giurisprudenza inglese sembrano apprezzabilmente riproporre, dotandoli dell'irrobustimento europeo, il complesso precettivo, garante della riservatezza sia dal punto di vista oggettivo sia da quello soggettivo, che il diritto italiano riserva alla fase delle indagini non ancora risoltesi nella individuazione di ipotesi di responsabilità penali individuali.
3. I termini fattuali della vicenda giudiziale
Ridotta ai suoi termini essenziali la questione dedotta in giudizio aveva ad oggetto la pubblicazione nei mezzi di informazione di cui il convenuto era editore di notizie riguardanti l'esistenza di indagini svolte da un ente investigativo inglese, lo United Kingdom Law Enforcement Body (d'ora in poi UKLEB), istituito per legge all'interno di una visione specialistica degli organi titolari dell'iniziativa penale. Esse erano intese a mettere a fuoco lo svolgimento delle proprie attività all'estero da parte di una società di capitali, della quale l'attore era direttore di divisione proprio nello Stato straniero al quale l'agenzia si era rivolta, con espressa e cogente richiesta di massima riservatezza o della indicazione della impossibilità di garantirla (nel qual caso la richiesta avrebbe dovuto essere intesa come oggetto di revoca), allo scopo di apprendere notizie utili circa la sussistenza di ipotesi di condotte di rilevanza penale per corruzione e frode. La lettera con cui si richiedevano notizie allo Stato straniero era inquadrata come una forma di mutua assistenza giudiziaria tra Stati in materia di corruzione ai sensi della Convenzione ONU siglata nell'ottobre 2003. La pubblicazione da cui il procedimento giudiziale poi devoluto all'esame della Supreme Court aveva tratto origine si incentrava, in particolare, sulla rivelazione che l'UKLEB aveva interrogato nell'ambito delle proprie indagini l'attore in quanto dipendente della società di cui si sospettava un'attività illecita all'estero. Malgrado le diffide dei suoi legali la notizia dell'interrogatorio dell'attore - danneggiato, nei cui confronti non sarebbe stato in seguito mai avviato un procedimento penale, era stata diffusa in via mediatica, al pari di quella della richiesta di informazioni presso lo Stato straniero nel quale l'attore prestava la propria attività lavorativa.
L'agenzia investigativa britannica espresse la propria costernazione per la pubblicazione della notizia relativa alle indagini, ed al connesso oggetto, che stava conducendo, poiché la propalazione le avrebbe certamente pregiudicate.
Sulla base di questo contesto fattuale l'attore, che, si ripete, lavorava alle dipendenze della società di cui si investigavano le condotte all'estero, convenne in giudizio l'editore facendo valere il proprio diritto a coltivare un'aspettativa di riservatezza in ordine alla circostanza che l'UKLEB avesse richiesto all'estero informazioni in merito alla sua attività nonché a quella, correlata, che lo stesso ente stesse svolgendo indagini che lo riguardavano. L'ombrello protettivo addotto dall'attore era costituito dall'art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo del 1950, trasposta nello Human Rights Act inglese del 1998 (entrato in vigore due anni dopo) intitolato al rispetto della vita privata e di quella familiare. In entrambi i gradi di giudizio anteriori a quello della Supreme Court (rispettivamente davanti la High Court e la Court of Appeal) la pretesa attrice fu ritenuta fondata sotto il profilo che alla condotta del convenuto andava addebitata una specifica forma di illecito civile classificato come “tort of misuse of private information”, vale a dire come un uso a fini indebiti di un'informazione di natura privata (perché riferita ad una persona titolare del diritto tutelato dall'art. 8 citato). La accertata violazione del diritto alla riservatezza personale e familiare fu ritenuta ragione sufficiente per decretare la prevalenza del bene giuridico protetto dall'art. 8 della CEDU rispetto a quello garantito dal successivo art. 10 in materia di libertà d'espressione. La misura risarcitoria, a carico dell'editore giudicato responsabile del tort, dapprima accordata in sede monocratica dal giudice Nicklin della High Court e poi mantenuta nelle susseguenti sedi collegiali, fu pari a 25.000 sterline.
La doppia decisione conforme delle Corti inferiori fu confermata dalla Supreme Court infruttuosamente adita dall'editore soccombente nei due gradi.
4. La ratio decidendi della Supreme Court
I Giudici di ultima istanza risolsero il “thema decidendum” muovendo da una preliminare condivisione dell'impianto metodologico che era servito ad orientare in senso identico le pronunce del doppio grado. E proprio nel criterio di giudizio adottato è agevole scorgere non solo il metro valutativo adibito per rigettare l'impugnazione ma anche e principalmente la bussola capace di indirizzare in linea di principio future decisioni su analoghi casi di denunciato conflitto tra le norme poste dagli articoli 8 e 10 della CEDU ed i valori in essi rispettivamente incarnati.
Ed invero, il metodo informatore che deve guidare l'interprete in simili contingenze va suddistinto in due separate verifiche, il cui esito positivo soltanto può lasciar certi sulla effettiva commissione dell'illecita utilizzazione a fini divulgativi di dati afferenti alla sfera individuale convenzionalmente protetta dall'art. 8 più volte citato, riassunta nella locuzione “tort of misuse of private information”.
Il primo stadio dell'indagine è diretto a stabilire se le circostanze del caso concreto obiettivamente autorizzino l'attore nel giudizio risarcitorio a nutrire una ragionevole aspettativa di riservatezza in relazione all'informazione concernente la sua sfera personale, poi resa pubblica. Lo stadio successivo, che presuppone il superamento del precedente, si propone il fine di acclarare se l'aspettativa alla tutela della riservatezza piuttosto che cedevole possa nella fattispecie ritenersi preminente, in una logica di bilanciamento tra interessi in competizione, rispetto alla libertà di espressione: proposta in termini diversi la questione implica lo scioglimento della concorrenza tra gli articoli 8 e 10 della CEDU alla stregua del parametro di giudizio fornito dalla sezione 12 (4) della legge inglese del 1998 traspositiva della Convenzione stessa secondo cui occorre tener conto, tra gli altri elementi della fattispecie, dell'interesse pubblico alla diffusione della notizia.
Nel concludere che le decisioni di primo e secondo grado avevano fatto buon governo dei principii applicabili ai due stadi del test appena illustrato la Supreme Court confermò che essi erano certamente meritevoli di doppia replica positiva. La risposta al quesito poggia convincentemente sulle basi fornite da recenti precedenti di giurisdizione sia interna sia europea.
Tra i primi certamente degno di menzione è quello della House of Lords del 2004 in Campbell v MGN LTD[3] che, nel sancire la transizione della figura di illecito per antigiuridica diffusione di notizie attinenti alla sfera protetta dall' art. 8 CEDU, pur commisurata al valore della libertà di informazione, dall'originaria configurazione di “breach of confidence” (costruita sull'idea che una simile violazione realizzasse caratteristicamente un attentato alla fiducia da una parte coltivata nel corretto e discreto operato dell'altra in possesso di informazioni riservate a sé relative) a quella del “misuse of private information” (evidentemente declinata sul piano oggettivo dell'approfittamento di conoscenze lesive dell'altrui riservatezza), ritenne illecita, in quanto trasgressiva del precetto dell'art. 8 CEDU, la pubblicazione di fotografie ritraenti una celebre modella, Naomi Campbell, che usciva dai locali di un'associazione frequentata da persone dipendenti dall'uso di narcotici. La sentenza della House of Lords, al cui interno si segnalano le potenti opinioni dissenzienti di Lord Nicholls of Birkenhead e di Lord Hoffmann, paladini dell'idea che il caso andasse ricondotto ai consentiti margini di apprezzamento discrezionale spettanti all'editore in tema di pubblicazione di notizie o immagini di persone note al pubblico, si è, tuttavia, posta in linea con un orientamento dottrinario di poco precedente che, seguendo un'interpretazione evolutiva dell'art. 8 conseguente all'emanazione dello Human Rights Act inglese, aveva sostenuto il valore primario della norma in quanto diretta a promuovere lo sviluppo di una concezione della personalità umana meritevole di essere protetta da indebite interferenze esterne[4].
L'altro precedente cui la Supreme Court si è ispirata nel caso Bloomberg deciso nel 2022 proviene dalla Court of Appeal inglese in Murray v Express Newspapers plc del 2008[5] in cui fu statuito il diritto degli attori a non vedersi rigettare in via preliminare per manifesta infondatezza la propria domanda nei confronti di un giornale che aveva pubblicato la loro foto (ossia quella di una celebre coppia, la moglie essendo la creatrice ‒ con il nome di J. K. Rowling ‒ della serie di libri dedicati al personaggio di Harry Potter) mentre spingevano in una via pubblica di Edimburgo il passeggino con il figlio di pochi mesi, ossia una scena raffigurante un momento di intimità familiare che si riteneva riconducibile alla previsione dell'art. 8 della CEDU. Nell'escludere la carenza di plausibilità “prima facie” della domanda risarcitoria, la sentenza si preoccupò di indicare una serie di fattori (da allora in poi noti come i “Murray factors”) da tenere in considerazione nella prospettiva del bilanciamento tra i valori ed i principii, in ipotesi confliggenti, derivanti dai citati articoli 8 e 10 della Convenzione europea del 1950. In particolare, tali elementi vengono ancora oggi, come è accaduto nel caso Bloomberg, considerati risolutivi ai fini della prima fase del test in esso sperimentato dai Giudici e consistente nello stabilire,come già ricordato, se all'attore potesse accreditarsi una ragionevole aspettativa di riservatezza con riferimento alle informazioni poi pubblicate. Tra tali indici si ricordano le caratteristiche professionali del danneggiato; la natura dell'attività espletata ed il luogo di suo svolgimento; le modalità e lo scopo dell'invasione della sfera privata; l'assenza di consenso alla pubblicazione o la ragionevole previsione che sarebbe stato negato; gli effetti di ogni genere prodotti dalla pubblicazione sulla persona dell'attore; l'occasione nella quale le informazioni sono pervenute nella disponibilità dell'editore ed il fine perseguito. Il catalogo delle linee di indirizzo nella soluzione del quesito circa la ragionevolezza dell'attesa di riservatezza circa informazioni di carattere personale è stato poi dalla Supreme Court integrato attraverso l'approvazione di ulteriori criteri formanti la presunzione della relativa sussistenza che autorevole dottrina è andata suggerendo[6].Vengono, infatti, citati i seguenti, ulteriori fattori, attagliantisi allo stato soggettivo della persona offesa, che normalmente vanno apprezzati come indici probatori dell'illiceità dell'intrusione nell'altri sfera intima: le condizioni fisiche o mentali; le origini etniche o razziali; il particolare momento emozionale o di tensione; la natura delle relazioni familiari; l'orientamento sessuale; l'esposizione di dettagli riservati della vita personale; l'acquisizione delle informazioni nell'ambito di uno speciale rapporto fiduciario; le opinioni politiche e le eventuali appartenenze associative; il credo religioso; il riferimento della notizia alla sfera finanziaria o a quella della corrispondenza personale; il richiamo di precedenti penali o di altri procedimenti giudiziari. La Supreme Court rinvia, a sostegno della utilità di questo ricco elenco, ad altra dottrina specialistica, anche in tema di protezione di dati personali[7]: è da notare, tuttavia, che la sentenza oggetto di studio non manca di chiarire opportunamente che sfuggono alla lista di presunzioni di ragionevole aspettativa di riservatezza numerose informazioni che siano ormai entrate nel dominio pubblico, quali quelle riflettenti dati notori sulla situazione di una società quotata in borsa, il generale discredito suscitato dall'attività pubblica svolta dalla persona che invoca la riservatezza, la sua implicazione in gravi procedimenti giudiziari, le notizie tratte da processi oggetto di commento mediatico, etc.
Si è anticipato che la sentenza pronunciata nel caso Bloomberg ha propiziamente spalancato il proprio orizzonte conoscitivo in esso includendo la giurisprudenza europea, meticolosamente citata ed analizzata quale imprescindibile fondamento decisorio. In particolare, munito di promettenti e certamente spendibili spunti è stato riconosciuto il precedente della Corte Europea dei diritti dell'Uomo nel caso Von Hannover v Germany del 2004[8] attinente ad una causa promossa in Germania dalla figlia maggiore del Principe Ranieri di Monaco contro un editore che aveva pubblicato parecchie foto della di lei vita privata.
Varii ed abbondantemente argomentati sono i principii che la Corte europea rese allora espliciti: ad essi ha espresso motivata adesione la Supreme Court nell'identificare la linea di confine, o meglio di non interferenza reciproca, tra le pretese individuali azionabili ai sensi dell'art. 8 CEDU e le eccezioni opponibili al rispetto della vita personale e familiare in virtù della libertà di espressione consacrata dal successivo art. 10. Una volta di più la tensione che ha animato la Supreme Court nel reperimento del conforto della giurisprudenza europea è stata quella di circondare l'intera materia del potenziale e frequente conflitto tra due norme di primaria importanza della Convenzione europea sui diritti umani del maggior numero possibile di presidi precostituiti per almeno affievolire il ricorrente rischio di discontinuità interpretative propedeutiche a possibili e destabilizzanti arbitrii decisori. La Corte di Strasburgo, nel decidere il primo dei tre ricorsi proposti in poco meno di un decennio dalla erede della dinastia monegasca, si attenne ad un parametro di rigore definitorio della nozione (fatta propria in Bloomberg dalla Supreme Court) di vita privata rilevante ai sensi dell'art. 8, individuandola estensivamente negli aspetti relativi all'identità personale, quali il nome, ed includendovi l'integrità fisica e psicologica. E ciò nell'ottica, già menzionata perché frutto di interiorizzazione da parte della giurisprudenza inglese, di favorire lo sviluppo delle personalità individuali, svincolandole dai rischi delle interferenze esterne, nei rapporti con gli altri esseri umani. Ed i Giudici dei diritti umani anticiparono quel concetto di ragionevole aspettativa della protezione della vita personale e familiare che le corti inglesi avrebbero concordemente esaltato quale modello di civiltà dei rapporti interindividuali applicabile senza il diaframma di confini nazionali. La lingua parlata a Strasburgo (dai Giudici anglofoni d'oltremanica interamente tradotta in omologhi e collimanti segni semantici) sulla portata dell'art. 8 fu ancora più eloquente perché ne rese certa la propensione a creare negli Stati-membri, in aggiunta a quello negativo di astenersi da condotte interferenti con la vita personale e familiare degli individui, l'obbligo di adempiere prestazioni positive rivolte a rendere effettivo il diritto soggettivo incapsulato nella disposizione in esame. L'investimento culturale effettuato dalla Supreme Court in Bloomberg produsse ulteriori ed opulenti dividendi a proposito della delicatissima questione ‒ a propria volta costituente una delle più intricate svolte del caso ‒ del bilanciamento tra i beni presi in considerazione dagli articoli 8 e 10 CEDU. Ed infatti, nella decisione Von Hannover n.1 la Corte europea espose l'aggregazione dei criteri di ragionamento proiettati verso la soluzione dei possibili grovigli conflittuali. Facendo leva sul presupposto del ruolo essenziale della stampa, quale organo di informazione collettiva, in una società democratica allo scopo di diffondere notizie di interesse pubblico, la Corte non volle ignorare il problema dei limiti invalicabili di tale opera, riferendoli al rispetto ed alla reputazione altrui. In questo senso un primo criterio discretivo venne colto tra l'attività informativa svolta mediante la cronaca di fatti e quella volta a riportare dettagli di vita privata. La precisazione intese rispondere alla sollecitazione intellettuale generata dall'ammissione, dalla medesima Corte resa, che la tutela della vita privata valica l'area della cerchia familiare, comprendendo una dimensione sociale. È, infatti, necessario garantire a qualunque individuo il pieno godimento di legittime aspettative di protezione e rispetto per la propria vita personale. E l'esito circolare di questa forma di sillogismo giudiziale portò a cogliere il decisivo elemento idoneo a fungere da bilanciamento tra l'aspirazione alla tutela della vita privata ed il perseguimento della libertà espressiva nella qualità del contributo ad un dibattito di interesse generale che la pubblicazione di fotografie o notizie si rivela in grado di fornire. La stessa Corte europea dei diritti umani si è impegnata nella sentenza resa nel 2018 nel caso Denisov c Ucraina[9], anch'essa richiamata dalla Supreme Court, nel rinvigorire, attraverso un processo di integrazione in via logica del relativo contenuto, la nozione di “vita privata” aggiungendo alle sue stesse pregresse definizioni l'osservazione secondo cui essa, pur insuscettibile di un'esauriente descrizione, assorbe molteplici aspetti dell'identità fisica e sociale, incluso quello che si esplica nel diritto a stabilire e sviluppare relazioni con altre persone e con il mondo esterno in genere.
La risorsa costituita dall'attingimento agli insegnamenti della giurisprudenza europea dei diritti dell'uomo fu ulteriormente sfruttata dalla Supreme Court in Bloomberg nel prefiggersi di scolpire il concetto di reputazione personale meritevole di essere difesa, ai sensi dell'art. 8 CEDU da illegittime intrusioni: ragione e finalità di tale difesa sono state, infatti, scorte nell'esigenza di rimuovere qualunque ingiustificata limitazione al pieno godimento del rispetto della vita privata, in totale simmetria con l'analogo principio espresso dalla Grande Camera nel 2012 a Strasburgo in Axel Springer AG c Germania[10]. Ma il controlimite, rispondente alla necessità di soluzioni proporzionate, è stato prontamente esposto dalla Supreme Court nella esclusione dalla sfera di tutela consentita dall'art. 8 dei casi in cui il danno reputazionale trovi la propria fondamentale scaturigine nella stessa condotta penalmente rilevante dell'attore: così abbracciando il plesso di pensiero fatto esplicito dalla Corte EDU nel citato caso Denisov, a propria volta tributario della precedente sentenza del 2007 in Pfeifer c Austria[11].
Da questa premessa, che riveste evidente carattere di eccezione rispetto ai più permissivi postulati dedotti dall'art. 8, la Supreme Court trae una conclusione solo parzialmente attenuativa nel senso di richiedere, perché operi a favore dell'editore l'esimente della precedente condotta riprovevole dell'attore, che essa sia stata definitivamente affermata sulla base di un processo dalle conclusioni univoche: il che sterilizza la possibilità che l'attore stesso possa alimentare una ragionevole aspettativa di riservatezza circa le informazioni ruotanti attorno ai propri misfatti.
5. Le conclusioni della Supreme Court e l'aria del continente che ancora si respira a Parliament Square
Il dovere di generoso riconoscimento alla Supreme Court del merito di aver compiuto un tentativo largo e privo di predeterminazioni geografiche o ideologiche per dipanare fili ad alta tensione perché capaci di innescare un nocivo corto circuito tra valori di alto rango giuridico e sociale a confronto non può che esaurirsi concentrandosi sul precipitato decisorio delle molteplici premesse tratte in prevalenza dai precedenti citati. In effetti, sarebbe fallace l'impressione che considerasse l'epilogo del caso come una mera operazione deduttiva della Corte dal proprio esteso e diffuso preambolo argomentativo. Ed infatti, nell'avvicinarsi alla pronuncia definitiva i supremi giudici sembrano disposti a decampare dalla linea consequenzialista-sillogistica per indulgere alla rappresentazione della propria (unanime) concezione di un rapporto tra diritti del singolo alla difesa della propria immagine pubblica ed interesse pubblico all'informazione particolarmente attento a non concedere uno spazio eccedente limiti rigidamente prefissati al secondo. E questo non per preconcetta insensibilità ai benefici effetti di uno scorrevole flusso informativo, quanto, piuttosto, per il timore che, invertendo i rapporti tra regola ed eccezione a favore della seconda (pubblicazione illimitata), si finirebbe con il porre a carico della persona che si professa danneggiata il difficoltoso onere di controbattere, con il semplice ed opinabile riferimento alla propria condizione personale e familiare, la presunzione dell'interesse alla pubblicazione in tutti i casi in cui non sia possibile dimostrare il contrario.
Forse la matura consapevolezza, che nell'affrontare un tema conflittuale di queste dimensioni, per di più aggravato dalle imponenti implicazioni inter-ordinamentali, il margine di fallibilità di soluzioni anelastiche e stentoree è sensibilmente elevato, ha suggerito alla Supreme Court di abbinare all'analisi generale svolta sul filo di principii e regole di giudizio astratti un metro valutativo ispirato alla puntuale valutazione delle particolarità del singolo caso. Più esattamente il criterio che la Corte battezza come “fact-specific enquiry” viene indicato come la via maestra per rispondere alla domanda indotta dal primo stadio del test bi-fasico prima illustrato, quello tendente ad appurare se le circostanze del caso autorizzassero l'attore a coltivare una ragionevole aspettativa di riservatezza in ordine alle informazioni sulla sua vita privata arrivate nella disponibilità dell'editore. Soluzione che non si può esitare a qualificare come saggia e prudente nella ovvia misura in cui ben si guarda dal legare le mani al futuro interprete-decisore che potrebbe trovarsi a giudicare intorno ad un caso fuoriuscente dai cliches abituali ed involgente profili prima mai esaminati. Ed in fondo, proprio dirigendosi verso un'analisi “fact-specific” la sentenza ha confermato la dichiarazione di fondatezza della domanda attrice già effettuata nei due precedenti gradi di giudizio poiché ha ritenuto che la cornice storico-fattuale della controversia concorresse a consolidare l'aspettativa di riservatezza dall'attore fatta valere in giudizio, esattamente percepita dalle Corti sottostanti. Ma la Supreme Court non si è accontentata di decidere sulla semplice base di una valutazione “ex post” della fondatezza delle aspettative della persona danneggiata: essa non ha, infatti, voluto eludere nella parte finale della propria pronuncia il più grave nodo problematico che sin dall'inizio avvolgeva l'intera fattispecie: quello del confronto tra il rispetto della vita privata e la libertà di espressione giornalistica rivendicata dall'editore con riferimento alla notizia dell'indagine. La risposta data, ancora una volta ricavata dalla ponderata analisi delle circostanze del caso, tronca il dubbio alla stregua del valore attribuito alla concreta individuazione del pubblico interesse preminente nel caso di specie. Ed infatti, la sentenza afferma senza circonlocuzioni che a primeggiare dovesse essere un terzo genere di interesse, anch'esso di natura pubblica: quello a che venisse salvaguardata la necessità, chiaramente segnalata dall'autorità inquirente britannica nella lettera di richiesta di informazioni indirizzata allo Stato straniero, di segretezza della richiesta stessa. La sede del commento ad una pronuncia di simile rilevanza non può scoraggiare, dovendo anzi incoraggiare, una considerazione non esattamente allineata al merito della causa. Guardando fino in fondo questo argomento risolutivo, seppur concorrente nell'economia della decisione, esso si disvela come una specie di diversivo motivazionale rispetto all'intima radice della controversia, più volte qui spiegata come sintomatica di un conflitto tra le posizioni soggettive, individuali e collettive, rispettivamente declamate dagli articoli 8 e 10 CEDU. Nel ragionamento della Supreme Court entra in scena, addirittura con un ruolo da protagonista, un attore del tutto non evocato nel teatro del conflitto tra norme e titolari dei diritti da esse conferiti. Ed invero, l'interesse alla segretezza della comunicazione interistituzionale non solo non sembra correlabile alla dinamica competitiva tra le due norme; esso è addirittura imputabile ad un soggetto terzo rispetto allo stesso processo, ossia l'agenzia inquirente inglese. Questo dimostra che la via scelta è stata elegante e, al contempo, sfuggente: per dirimere la controversia tra le parti vertente sulla preponderanza di uno dei due interessi contrapposti si è preferito privilegiare quello di un terzo estraneo al giudizio in quanto più fedele rappresentante di un interesse pubblico ‒ quello alla segretezza delle comunicazioni interistituzionali, appunto ‒ esterno al perimetro della lite. A propria volta questa via di fuga non ha prodotto effetti neutri in quanto, al tirar delle somme, si è risolta nell'attribuzione all'attore vittorioso di un vantaggioso merito in effetti spettante ad altri, dietro le cui prerogative si nasconde, quindi, il successo giudiziale. E non può certo dirsi che la Supreme Court sia stata ignara del bisogno di donare alla propria sentenza un fondamento al tempo stesso razionale e di principio, in tal modo destreggiandosi per non naufragare tra i marosi delle critiche degli osservatori, soprattutto militanti nel campo dell'informazione. Il terz'ultimo capoverso della pronuncia, infatti, (il n. 156) con grande schiettezza dichiara ‒ citando un proprio precedente del 2016[12] ‒ che l'esercizio orientato al bilanciamento tra i diritti discendenti dagli articoli 8 e 10 della CEDU va descritto come analogo a quello proprio dei poteri discrezionali[13].
Alla luce di questa intelligente virata verso un porto dogmaticamente più sicuro a sostegno di una opzione a favore del diritto al rispetto della vita privata, che nella fattispecie probabilmente aveva dalla sua parte il favore del maggior peso del rispettivo piatto della bilancia (in special modo apprezzando l'abusiva violazione del segreto investigativo responsabile dell'evaporazione delle indagini a causa del venir meno dell'effetto “sorpresa” espressamente lamentato dall'agenzia UKLEB) può concludersi l'esplorazione sul singolo caso senza inscriverlo duramente ed inappellabilmente nella cerchia di quelli venati da un preconcetto penalizzante a danno della libertà di espressione.
Vi è, tuttavia, un delicato fronte che resta aperto e si annida non solo nelle pieghe della sentenza del 2022, ricorrendo in tutta la recente linea giurisprudenziale inglese e, in maniera non dissimile, della Corte europea dei diritti umani. Si tratta della ennesima legittimazione come punto di partenza iniziale di ogni giudizio in questa materia[14] dell'idea che, in ogni caso in cui si controverta della liceità della pubblicazione di notizie concernenti un'investigazione ancora in fase preliminare e non sfociata in addebiti formali, debba ritenersi sussistente la ragionevole aspettativa della persona interessata dall'indagine stessa alla riservatezza per non veder compresso il proprio diritto alla tutela della vita privata. Quel che qui si vuol porre in rilievo non è certo una qualsiasi perplessità sull'esattezza di un siffatto criterio in quanto espressione di piena aderenza a specifici divieti normativi sulla segretezza delle indagini (ed il discorso è perfettamente trasponibile all'esperienza giuridica italiana) nonché a sane regole di civiltà giuridica. Su un altro aspetto, di affatto secondaria importanza, può essere consigliabile proseguire il dibattito per approssimarsi ad una più solida e ferma base di giudizio: vi è, infatti, da porsi la domanda se questo punto di partenza, che, come visto, è solito giocare una parte di somma decisività, possa realmente ascendere, come molti concorrenti indizi sembrano suggerire, al rango di una presunzione, quanto meno semplice e, come tale, soggetta ad essere “rebuttable” secondo le regole probatorie del common law inglese in materia di relativo superamento. La questione si manifesta in tutto il suo rilievo in casi come quello esaminato in quanto, attribuendo al punto di partenza un valore dirimente, si renderebbe superflua la valutazione delle circostanze del caso concreto per stabilire la ragionevolezza (che, a quel punto, non richiederebbe di essere provata volta per volta) dell'aspettativa di riservatezza vantata dalla parte danneggiata. La più recente casistica giudiziale inglese offre spunti univoci per reputare che questo dato iniziale di riflessione (lo “starting point”) tenda a tramutarsi in regola di giudizio fondata sostanzialmente su una presunzione, di talché l'indagine, che, comunque, viene effettuata per trarre conferma di questa convinzione dalle concrete circostanze del caso, finisce inevitabilmente con l' asseverare la risposta positiva preventivata. Ed allora, non può non dirsi rispondente a coerenza logica, che si esprima l'auspicio che la giurisprudenza di common law britannico non si fermi a metà del guado e guadagni rapidamente la riva dell'affermazione dell'esistenza di una presunzione, almeno semplice, nel senso delineato. Ne otterrebbe beneficio il quadro dei rapporti tra norme appartenenti al medesimo corpo disegnato dalla Convenzione europea del 1950. Ed in pari misura il dialogo interordinamentale taglierebbe un ulteriore traguardo di compiutezza.
* Scritto destinato ad onorare il personale debito di gratitudine umana ed accademica verso Rodolfo Sacco, co-fondatore della comparazione giuridica italiana, accademico dei lincei, giovanissimo partigiano piemontese.
[1] (2022) UKSC 5.
[2] Sui cui prodromi genetici si può vedere N. Rossi, Il diritto a non essere additato come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questione Giustizia, on line, 2021.
[3] (2004) UKHL 22.
[4] G. Phillipson, Transforming breach of confidence?Towards a common law right of privacy under the Human Rights Act, in The Modern Law Review, 2003, 726 ss. ed in particolare pag. 732 nota 52 in cui cita a suffragio la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in Botta c. Italia del 1998.
[5] (2008) EWCA Civ 446.
[6] Viene citata una delle più note opere in tema di diffamazione a mezzo stampa e non, R. Parkes QC, A. Mullis, G. Busuttil, A. Speker, A. Scott, Gatley On Libel and Slander, 12° ed., London, 2017, parr. 22-25.
[7] C. Doley, A. Mullis, Carter-Ruck On Libel and Privacy, 6°ed., London, 2010, par. 19.
[8] Causa 59320/00.
[9] Ricorso 76639/11.
[10] Ricorso 39954/08.
[11]Ricorso 12556/03.
[12] PJS v News Group Newspapers Ltd (2016) UKSC 26, che, a sua volta, richiama una sentenza della Court of Appeal di tre anni precedente in AAA v Associated Newspapers Ltd (2013) EWCA Civ 554.
[13] “The exercise of balancing article 8 and article 10 rights has been described as analogous to the exercise of a discretion”.
[14] L'espressione “starting point” è ripetuta in numerosi passaggi della sentenza della Supreme Court ed assunta a taumaturgica formula di giudizio: si veda per tutti il paragrafo 146, che definisce “legitimate” l'adozione di tale criterio di ponderazione delle opposte ragioni in conflitto.
Intervista a Luciano Violante di Paola Filippi e Roberto Conti
Onorevole Violante, Lei è entrato in magistratura nel 1966 e né è uscito nel 1983.
È stato magistrato in un periodo di transizione fondamentale. Da magistrato ha vissuto l’Italia della contestazione degli anni 70’, il riflusso degli anni ‘80 e infine il terrorismo. Com’era la magistratura alla fine degli anni ‘60 e come era quando l’ha lasciata? Quanto ha cambiato la magistratura l’ingresso delle donne?
Luciano Violante: sono stato giudice istruttore sino al 1977, poi all’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia sino al 1979, anno in cui sono stato eletto per la prima volta alla Camera. Mi sono dimesso nel 1983, dopo aver vinto la cattedra di istituzioni di diritto e procedura penale. In magistratura c’era una forte divisione tra la componente prevalentemente giovane che si sentiva impegnata per un’applicazione totale della Costituzione e quella prevalentemente più anziana che considerava con sospetto questa tendenza, ritenuta politicizzata. La mia generazione era la prima interamente educata in età repubblicana ed era naturalmente propensa alla innovazione. Aggiunga il più generale spirito modernizzatore di quegli anni. Ci sentivamo portatori di uno spirito diverso dal passato. Eravamo fortemente integrati con l’Università; cito a caso le intense discussioni sui caratteri del diritto nuovo con Stefano Rodotà, Alessandro Baratta, Franco Bricola, Giorgio Ghezzi. Pietro Barcellona, Giorgio Marinucci. Al centro ponevamo la critica alla neutralità del diritto e alla sacralizzazione del ruolo. La più intensa stagione di riforme mai vissuta nella storia repubblicana cancellava l’autorità maritale, l’adulterio della donna, il delitto d’onore, stabiliva che l’adozione serviva per dare una famiglia a un bambino e non un bambino a una famiglia. Lo statuto dei diritti dei lavoratori e il processo del lavoro rovesciavano i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori. Il terrorismo bloccò questo processo. Le divisioni si posero quindi su un altro piano. Tra coloro che ritenevano giuste tutte le misure restrittive, quelli che valutavano caso per caso (io ero tra questi) e quelli che le ritenevano sempre e comunque incostituzionali.
Era comunque forte il senso di far parte di una aristocrazia della Repubblica; anche perché questo ti insegnavano i capi migliori. La cortesia, la buona educazione, specie a Torino, erano componenti essenziali della professione. Alcuni intendevano un privilegio corporativo l’essere considerati come un’aristocrazia; altri la intendevano come un sovrappiù di responsabilità.
Quanto alle donne, mia moglie é una delle otto prime donne entrate in magistratura. Siamo stati la prima coppia di magistrati e il CSM non sapeva che regole applicare; ci suggerirono di scegliere una grande città; decidemmo per Torino. All’inizio per le donne non fu facile; non c’ertano neanche i bagni per loro. Ma anche in questo campo valeva una distinzione generazionale.
È stato pretore mandamentale e poi giudice istruttore, le stesse funzioni di Giorgio Falcone e Paolo Borsellino, una funzione che condivideva il ruolo requirente con quello giudicante, erano altri tempi e il rito era quello del codice Rocco, indagare e poi rinviare a giudizio rendeva i processi meno giusti? Il referendum (che propone l’eliminazione del passaggio) e il DDL in discussione al Senato sulla riforma ordinamentale (che riduce il passaggio ad un’opzione da esercitarsi entro sei anni dalla prima legittimazione) hanno riacceso il dibattitto, mai sopito, sulla separazione dei pubblici ministeri dai giudici. Qual è il suo pensiero in proposito? L’appartenenza all’ unico ordine, quello dell’art. 104 Cost., ritiene possa effettivamente minare l’indipendenza dei giudici e ledere il principio del giusto processo?
Luciano Violante: Non ho mai fatto il pretore. Fui prima giudice a latere in tribunale e poi giudice istruttore. Aver fatto l’esperienza della valutazione delle prove mi è stato utile quando ho dovuto raccoglierle. Certo il giudice istruttore che faceva l’istruttoria e poi decideva se assolvere o rinviare a giudizio (e a volte, grazie a un escamotage, esercitava anche l’azione penale) era una figura assolutamente anomala. Credo che la separazione delle professioni sia un errore. A maggiori esperienze corrisponde un migliore bagaglio professionale. In Francia e in Germania, ad esempio, è un merito aver esercitato diverse funzioni.
Negli ultimi sedici anni il numero di passaggi dalla funzione giudicante alla funzione requirente ha coinvolto 2 magistrati su mille, quello inverso 3 su mille (compresi passaggi in corte di appello e in Cassazione) secondo lei come può sostenersi che la separazione delle carriere (questo l’effetto dell’introduzione dell’opzione entro un termine), potrebbe influire positivamente sul processo penale?
Luciano Violante: Non c’entra nulla. Se si considera l’alta percentuale di proscioglimenti e di assoluzioni, ci si rende conto che quello della subalternità del giudice al pm è un sospetto infondato.
In Magistrati, Lei ha affermato che “bisogna fissare il principio dello stare decisis”, invocando anche ragioni di natura economica. Una parte consistente della magistratura, critica aspramente la proposta di riforma ordinamentale che prevede la creazione del fascicolo delle c.d. performance. Si sottolinea che una valutazione parametrata all’esito degli atti e dei provvedimenti, nelle successive fasi rischia di minare l’indipendenza e ingessare il diritto vivente, svuotandone il ruolo propulsivo, fino a introdurre un sistema contrario al dettato costituzionale (art.101 Cost.) e gerarchico, come lei lo definì nello stesso saggio. Non intravede il pericolo che un sistema di valutazione della professionalità fondato sulle verifiche degli esiti dei procedimenti rischi di produrre l’effetto di trasformare il giudice da interprete dei principi costituzionali e delle carte dei diritti fondamentali a mero ratificatore del precedente per evitare che la sua decisione, magari innovativa, sia censurata e che l’effetto finale sia, per eterogenesi dei fini, quello dell’abbassamento dell’impegno a cambiare la giurisprudenza per la migliore tutela possibile dei diritti fondamentali?
Luciano Violante: Sono anche io critico sul cosiddetto fascicolo. È la proposta di chi non sa che cosa è un processo. L’ordinamento che prevede tre gradi di giudizio presuppone che siano possibili valutazioni diverse. Tuttavia ci sono state troppe iniziative penali avventate che hanno distrutto senza fondamento la reputazione e la vita di troppe persone e di troppe famiglie. Gli errori si pagano sempre. E poi, guardi non è che le decisioni innovative siano di per sè corrette. Possono anche essere delle emerite sciocchezze. Lei comunque tocca un punto di fondo. Compito principale del giudice è la riforma dell’ordinamento o l’equa risoluzione dei conflitti? Io penso che la riforma sia compito primario delle istituzioni politiche.
Pensi alla vicenda della procreazione medicalmente assistita, alla quale sono seguiti diversi interventi del giudice costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo che ne confermarono pienamente le ragioni di base. Non la considera, paradossalmente, una conferma di quella sua affermazione “Il diritto che non riconosce il valore creativo della contestazione alla legge non progredisce, statico” che Lei stesso scrive in Giustizia e mito, insieme a Marta Cartabia. Non crede che la naturale vocazione del diritto ad implementarsi per effetto dell’interpretazione innovativa dei giudici, al quale concorre quella dei pubblici ministeri degli affari civili costituisca un valore fondamentale dei moderni sistemi democratici?
Luciano Violante: Purché il magistrato comprenda che lui non é il sagace inventore di nuove intelligenti interpretazioni, ma il custode della certezza dei diritti. Cito il caso Stamina. Molti uffici giudiziari disapplicarono direttamente il decreto legge Balduzzi, senza ricorrere alla Corte Costituzionale. Fu un abuso grave.
Il nostro ordinamento prevede come mezzo per contestare la legge il ricorso alla Corte Costituzionale. Questa è la via per fare evolvere il diritto. In ogni caso tra il puro arbitrio interpretativo e il subalterno ossequio al precedente ci sono molte vie di mezzo. Puoi certamente discostarti da una interpretazione dominante, ma devi spiegarne accuratamente le motivazioni. Nei paesi di common law il giudice è vincolato al precedente non per questo è meno indipendente di un giudice europeo. Il cittadino ha diritto di sapere prima, non dopo, che cosa può fare e che cosa non può fare. Il nostro ordinamento, come altri in Europa, si sta evolvendo verso il diritto giurisprudenziale, che dà centralità alla sentenza piuttosto che alla legge; questo cambiamento esige un di più di responsabilità e di professionalità. E forse anche una riflessione più attenta da parte della stessa magistratura sulle trasformazioni che sono in corso.
Lei ha dedicato un libro ai doveri dell’uomo e, nel suo più recente “Senza vendette”, si duole del fatto che la nostra sia un’era che tende verso i diritti senza riflettere adeguatamente sui doveri, tanto cari a Mazzini. Qual è, secondo lei, il dovere più pregnante al quale il magistrato – sia giudice che pubblico ministero- non può e non deve sottrarsi: ricercare la verità, osservare la legge, salvaguardare i diritti? Oppure quale?
Luciano Violante: Il dovere di pensare che potrebbe sbagliare.
Non pensa che nel dovere di fedeltà alla Repubblica, sul quale pure Lei ha insistito, imponga ad ogni magistrato l’impegno di rendere viva la Costituzione nella infinita varietà delle vicende giudiziarie? Quale potrebbe e dovrebbe essere la sintesi fra diritti fondamentali dell’uomo e certezza del diritto, se mai si possa giungere ad una sintesi?
Luciano Violante: Dal punto di vista procedurale lo strumento é sempre il ricorso alla Corte. Ma non basta. Il magistrato acquisisce, attraverso l’esercizio colto, non puramente burocratico, della professione, un complesso di competenze e di valutazioni che lo legittimano come intellettuale capace di affrontare anche sul piano della letteratura scientifica le questioni che lei pone. Ho l’impressione che la magistratura debba riconquistare un proprio protagonismo nella cultura giuridica.
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