ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sicurezza e sfruttamento sul lavoro. Come spezzare la catena
Presentazione di Tiziana Orrù
Con la fine della XVIII legislatura della Repubblica Italiana si concludono anticipatamente i lavori della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati, costituita presso il Senato e presieduta dal senatore Gianclaudio Bressa.
La Commissione, oltre alle tradizionali audizioni di associazioni, sindacati ed esperti nelle sedi parlamentari, è uscita all’esterno del ‘Palazzo’, con sopralluoghi e visite ispettive in tutto il territorio nazionale per acquisire “sul campo” elementi utili ai compiti istituzionali.
Sicurezza e sfruttamento costituiscono due costanti insopprimibili del mondo del lavoro: la Commissione parlamentare ha provato a spezzare questo dualismo evidenziando da un lato che infortunarsi sul lavoro, spesso con esiti mortali, non ha solo un costo di dolore per il lavoratore e la sua famiglia, ma costituisce un danno per la stessa azienda e per l’intera società. Stimare gli impatti economici e sociali di sfruttamento e mancata tutela di salute e sicurezza sul lavoro non è semplice, ma secondo la Commissione occorre al più presto trovare un sistema di misurazione condiviso, un indicatore economico che consenta di valutare i danni dell’inosservanza delle norme e al tempo stesso i benefici che derivano dall'applicazione delle normative in materia di sicurezza e di regolarità del rapporto di lavoro, considerando anche il return on prevention per l’Italia. Questo nuovo indicatore può essere realmente l’unico vero indice di legalità e di illegalità del lavoro nel nostro Paese.
Da un altro lato la Commissione ha denunciato il lato oscuro del mercato del lavoro in evoluzione con la transizione digitale. L’utilizzo sempre più massiccio delle nuove tecnologie ha fatto emergere il fenomeno del “caporalato digitale” dove i lavoratori della gig economy hanno sostituito i braccianti agricoli. Non è più soltanto il furgone a caricare al mattino i lavoratori in attesa della chiamata, ma è l’uso degli algoritmi che costituisce il fulcro per lo sfruttamento dei lavoratori. Ecco, allora, che il pericolo più profondo è che l’algoritmo e, più in generale, l’intelligenza artificiale possano diventare strumenti senza controllo.
Il nuovo “caporalato” nei magazzini della logistica non risulta ancora documentato in modo rigoroso, ma è del tutto simile a quanto avviene in agricoltura. Nel comparto la Commissione ha registrato fenomeni di severo sfruttamento lavorativo, con controlli e ritmi serrati che ricalcano le condizioni di lavoro nelle catene di montaggio degli anni Sessanta. Non a caso le vittime degli incidenti sul lavoro sono, la maggior parte delle volte, gli anelli deboli della catena lavorativa. Se a subire quasi sempre gli eventi lesivi sono gli operatori della fascia più bassa, evidentemente vi è un sistema dell’impresa che spesso, soprattutto in alcune aziende medie o piccole, non presta la dovuta attenzione agli obblighi della sicurezza e scarica sui lavoratori i deficit dell’ambiente di lavoro.
Non si muore, dunque, soltanto di cadute dall’alto o per schiacciamento, ma anche di cattiva organizzazione.
Il 25 maggio 2022 in un convegno alla presenza, in qualità di relatori, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, della Presidente della Commissione lavoro del Senato e del Direttore Capo dell’Ispettorato nazionale del lavoro è stata presentata la relazione intermedia dei lavori della Commissione d’inchiesta nonché un importante disegno di Legge (in allegato) “Disposizioni volte a tutelare il lavoro nei casi di utilizzo di piattaforme digitali e a contrastare i fenomeni di sfruttamento lavorativo”.
In qualità di consulente esterno della Commissione d’inchiesta per la novità dei temi trattati ritengo utile condividere con i lettori di questa rivista, sempre particolarmente attenta ai temi di attualità sociale oltre che giuridica, il testo della relazione dell’onorevole Bressa e del disegno di legge n° 2628/2022.
Intervento per il Convegno “Salute e sicurezza dei lavoratori in un mondo del lavoro in continua evoluzione” - 25 maggio 2022
di Gianclaudio Bressa
La Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati, si è costituita il 12 maggio del 2021.
Subito c'è stata in tutti noi la consapevolezza della delicatezza del compito che avevamo: morire di lavoro è una tragedia umana e morale inaccettabile.
Ma proprio per questo diventava necessario comprendere ed elaborare i dati tremendi con cui ci dovevamo confrontare e per dirla con Aldous Huxley, grande scrittore della narrativa distopica, che descrive un mondo indesiderabile e spaventoso, dovevamo evitare che la verità dei fatti e degli avvenimenti tragici finisse affogata in un mare di irrilevanza.
Avendo ben chiare due cose:
la prima, il lavoro è cambiato, profondamente cambiato, tanto è vero che si parla di New Work;
la seconda, l'endiadi ambiente di vita e di lavoro, diventa linguaggio della legge.
E questo significa essenzialmente due cose:
la prima, che la vicenda ordinamentale ha saldato, progressivamente nel tempo, tutele nei rapporti tra privati e tutele assolute, affidate alla garanzia dello Stato, evidenziando una trasformazione dell'originaria obbligazione datoriale di sicurezza, un dovere per il datore di lavoro, in un diritto individuale assoluto del lavoratore e in un interesse della collettività;
la seconda che si può parlare di lavoro buono - per dirla con il Centro di ricerca sulle scienze sociali di Berlino - quando sono disponibili risorse sufficienti e possibilità di sviluppo per i dipendenti, un reddito adeguato, la sicurezza sul posto di lavoro e i diritti di codecisione.
Nonostante l’insediamento della Commissione sia avvenuto in una fase ormai inoltrata della Legislatura, la Commissione ha immediatamente iniziato la propria attività, con l’avvio di una serie di audizioni per acquisire immediatamente una serie di elementi informativi su un tema così attuale e delicato quale quello della sicurezza sui luoghi di lavoro e delle diverse forme di sfruttamento dei lavoratori.
Accanto al tradizionale strumento delle audizioni, la Commissione ha ritenuto di acquisire «sul campo» una serie di ulteriori elementi attraverso diversi sopralluoghi nell’ambito dei quali, in alcuni casi, sono stati utilizzati tutti i poteri d’inchiesta attribuiti dalla Costituzione, dalla delibera istitutiva e dal regolamento interno.
In particolare la Commissione ha svolto una serie di sopralluoghi focalizzando la propria attenzione sul tema dello sfruttamento dei lavoratori in agricoltura, con particolare riguardo al fenomeno del caporalato.
Il raggio di azione si è presto allargato per approfondire fenomeni di sfruttamento presenti non solo nel settore agricolo, ma anche nel comparto tessile (significativa tra tutte, la missione svolta nella realtà del distretto tessile di Prato) e, più in generale, in alcune realtà industriali a volte insospettabili.
Ne è emerso un quadro di come il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori, da parte di caporali senza scrupoli, si sia evoluto significativamente nel corso degli ultimi anni.
Si è passati, infatti, in un breve arco temporale, dai casi di un forte coinvolgimento della malavita organizzata locale a situazioni di sfruttamento di lavoratori indifesi, quasi sempre stranieri, da parte di loro connazionali che organizzano il loro trasferimento dal Paese d’origine fino al luogo di lavoro, nel quale quotidianamente vengono negati i loro diritti di persone, prima ancora che di lavoratori.
La Commissione, inoltre, ha voluto dedicare un focus specifico anche alle ulteriori nuove forme di sfruttamento che si affiancano, purtroppo, ai casi di sfruttamento più tradizionali.
Da questo punto di vista le missioni della Commissione hanno consentito di acquisire utili elementi informativi, con un rilievo particolare per il settore della logistica.
Ma veniamo, in sintesi, ai primi risultati del lavoro della Commissione d'inchiesta, che hanno scoperchiato un pericoloso vaso di Pandora, fatto di sfruttamento e mancato rispetto delle norme di sicurezza: dal 3 al 6 percento del PIL divorato dagli infortuni sul lavoro; l’emergere del “caporalato digitale”, che arruola non più braccianti, ma lavoratori della gig economy; cooperative “spurie”, che impongono un nuovo "caporalato urbano" e dettano le regole dell'illegalità nei magazzini.
Infortunarsi sul lavoro, spesso con esiti mortali, non ha solo un costo di dolore per il lavoratore e la sua famiglia, (una conseguenza di un infortunio potrebbe comportare, ad esempio, l'incapacità dei figli del lavoratore infortunato di proseguire gli studi per la diminuzione del reddito familiare) ma anche per la stessa azienda e per l’intera società. In Italia, secondo stime dell’Inail, il danno economico causato da infortuni e malattie professionali è risultato, nel 2007, pari a quasi 48 miliardi di euro, ovvero più del 3% del Pil, ma gli studi internazionali, riportati nella “Relazione intermedia sull’attività svolta” della Commissione, indicano che l’incidenza stimata dei costi totali sul PIL è significativamente superiore anche ai dati europei finora conosciuti, e vede la percentuale più alta per la Polonia (10,2%), mentre per l’Italia raggiunge il 6,3% del Pil.
Stimare gli impatti economici e sociali di sfruttamento e mancata tutela di salute e sicurezza sul lavoro non è semplice, ma secondo la Commissione occorre al più presto trovare un sistema di misurazione condiviso, un indicatore economico che consenta di valutare i danni dell’inosservanza delle norme e al tempo stesso i benefici che derivano dall'applicazione delle normative in materia di sicurezza e di regolarità del rapporto di lavoro, considerando anche il ritorno in prevenzione per l’Italia (in vari paesi del mondo si attesta su 2,2, cioè per ogni euro speso vi è un ritorno positivo che va oltre il doppio). Questo nuovo indicatore può essere realmente un autentico e attendibile indice di legalità e di illegalità del lavoro nel nostro Paese.
Quel che è certo è che l’enorme dispendio di ricchezza, di benessere e di salute tocca tutta Italia, perché l’altro aspetto che delinea la Relazione, è un’economia nazionale dove, da nord a sud, da est a ovest, si registra il dato tragico delle morti e degli incidenti gravi o gravissimi per cause di lavoro. Nessuna regione risulta esente da questa piaga indegna per un paese civile.
Se il lavoro è cambiato e si sta evolvendo, se oggi parliamo di transizione digitale in atto, non dobbiamo pensare che il lato oscuro del mercato del lavoro non evolva.
L’utilizzo sempre più massiccio delle nuove tecnologie ha fatto emergere il fenomeno del “caporalato digitale” dove i lavoratori della gig economy hanno sostituito i braccianti agricoli. Non è più soltanto il furgone a caricare al mattino i lavoratori in attesa della chiamata, ma è l’uso degli algoritmi che costituisce il fulcro per lo sfruttamento dei lavoratori. Ecco, allora, che il pericolo più profondo è che l’algoritmo e, più in generale, l’intelligenza artificiale, possano diventare strumenti senza controllo.
La spasmodica ricerca di risparmio dei costi è spesso attuata a svantaggio della sicurezza sul lavoro e il mezzo per realizzare tali risparmi sono le cooperative “spurie”, che nascono e muoiono giusto il tempo della durata di un appalto o di un subappalto. La logistica e l'edilizia sono i settori che più soffrono per situazioni borderline con soggetti che utilizzano manodopera irregolare o applicano ai dipendenti contratti collettivi con meno diritti e meno tutele di quelli previsti dai rispettivi contratti nazionali di categoria. Oltretutto creando di fatto una concorrenza sleale rispetto a chi li rispetta e li applica. Negli ultimi anni i cicli di lotte dei facchini (costituiti maggiormente da forza lavoro migrante), in particolare nei distretti logistici e magazzini del Nord-est, dell’Emilia-Romagna e della Lombardia, hanno fatto emergere l’opacità della catena degli appalti, dovuta alla presenza di cooperative spurie ed anche irregolarità ed abusi subiti dai lavoratori.
Il nuovo “caporalato” nei magazzini, non risulta ancora documentato in modo rigoroso, ma è del tutto simile a quanto avviene in agricoltura. Nel comparto, la Commissione ha registrato fenomeni di severo sfruttamento lavorativo, con controlli e ritmi serrati che ricalcano le condizioni di lavoro nelle catene di montaggio degli anni Sessanta. Non a caso le vittime degli incidenti sul lavoro sono, la maggior parte delle volte, gli anelli deboli della catena lavorativa.
Se a subire quasi sempre gli eventi lesivi sono gli operatori della fascia più bassa, evidentemente vi è un sistema dell’impresa che spesso, soprattutto in alcune imprese medie o piccole, non presta la dovuta attenzione agli obblighi della sicurezza e scarica sui lavoratori i deficit dell’ambiente di lavoro. Non si muore, dunque, soltanto di cadute dall’alto o per schiacciamento, ma anche per la cattiva organizzazione.
Sicurezza e sfruttamento, insomma, sembrano essere due costanti insopprimibili del mondo del lavoro: la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia ha provato a spezzare questo dualismo.
A tale proposito la Commissione ha predisposto un disegno di legge che propone una attuazione concreta delle proposte elaborate nel corso di questi mesi.
L’articolo 1 reca alcune disposizioni volte a tutelare il lavoro nei casi di utilizzo di piattaforme digitali.
Negli ultimi anni, infatti, si è assistito alla nascita di nuovi fenomeni di sfruttamento del lavoro quali, ad esempio, il caporalato digitale dove i lavoratori della gig economy si affiancano ai lavoratori già protagonisti di fenomeni di sfruttamento fino ad ora conosciuti (tipico il caso dei braccianti agricoli).
Il luogo e l’orario di lavoro sono oggi concetti fluidi, regolati da una nozione normativa classica che necessita di una disciplina specifica e maggiormente al passo con i tempi, in grado di tutelare le nuove esigenze di sicurezza.
Le moderne tecnologie, infatti, stanno modificando radicalmente la dimensione spazio-temporale dei luoghi di lavoro.
Vi è inoltre un pericolo più profondo e cioè che l'utilizzo dell’algoritmo artificiale possa diventare uno strumento prescrittivo senza controllo.
Gli algoritmi funzionano principalmente come sistemi atti a produrre canoni da considerare come standard al quale adeguarsi per massimizzare la performance dei lavoratori.
Questi congegni vengono oggi utilizzati per dirigere, controllare ed eventualmente sanzionare i lavoratori.
A tale riguardo si ritiene necessario introdurre una serie di disposizioni che stabiliscano dei livelli minimi di tutela per tutti i lavoratori della gig economy.
Per questo l’articolo 1 individua una serie di casi precisi in cui, qualora la prestazione avvenga tramite piattaforme digitali, si considera lavoratore subordinato chiunque si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, anche se la prestazione sia svolta in tutto in parte con strumenti che siano nella disponibilità del prestatore.
Le precise condizioni individuate dall’articolo 1 per attribuire la qualifica di lavoratore subordinato traggono spunto dai diversi casi giurisprudenziali già affrontati su queste tematiche.
L’articolo 2 reca alcune misure ulteriori di protezione dei dati personali dei lavoratori nel caso in cui il committente utilizzi delle piattaforme digitali. In particolare si prevede che le piattaforme non possano raccogliere dati personali quando il lavoratore delle piattaforme digitali non sta svolgendo un lavoro richiesto dal sistema automatizzato.
L’articolo 3 introduce dei nuovi obblighi a carico del committente che utilizzi delle piattaforme digitali.
Nello specifico il committente dovrà monitorare e valutare periodicamente l’impatto sulle condizioni di lavoro delle decisioni prese dai sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati nonché valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori delle piattaforme digitali, in particolare per quanto riguarda i possibili rischi di infortunio sul lavoro nonché i rischi psico-sociali ed ergonomici.
L’articolo 4 affronta un tema particolarmente delicato quale quello delle tutele dei lavoratori dipendenti di ditte subappaltatrici.
A tale riguardo, anche sulla base di quanto emerso dall’attività della Commissione parlamentare di inchiesta, si stabilisce che il subappaltatore, per le prestazioni affidate in subappalto, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto, nonché riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e giuridico non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale, inclusa l’applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro.
L’articolo 5 prevede una specifica fattispecie penale al fine di contrastare i fenomeni di somministrazione fraudolenta di lavoro.
Si tratta, in sostanza, di contrastare il fenomeno delle cosiddette cooperative spurie. A tale riguardo viene punita la condotta di chi, al fine di eludere delle norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore, anche se socio lavoratore di cooperativa, assicura della somministrazione di lavoro in modo fraudolento violando i diritti del lavoratore stesso.
L’articolo 6 introduce delle disposizioni volte a contrastare l’organizzazione dell’attività lavorativa mediante violenza o minaccia attraverso l’introduzione, all’interno del codice penale (art. 603 bis C.P.), di un’autonoma e specifica fattispecie di reato, tesa a sanzionare la condotta di chiunque, con violenza o minaccia, costringa il lavoratore ad accettare la corresponsione di trattamenti remunerativi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi e ai contratti collettivi, ovvero a rinunciare a diritti spettanti in relazione al rapporto di lavoro procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto.
L’articolo 7 è volto a colmare una lacuna normativa in materia di responsabilità dell’ente, estendendo la responsabilità, nell’ambito di gruppi di imprese, all’ente controllante che, giuridicamente o di fatto, svolge un controllo su altre imprese collettive nei casi in cui si verifichino delle condizioni di sfruttamento lavorativo.
Da ultimo l’articolo 8 riproduce alcune disposizioni aggravanti nel caso di reato di estorsione, qualora si sia in presenza di sfruttamento di prestazioni svolte da un numero di lavoratori superiori a tre, o qualora uno o più dei lavoratori sfruttati siano stranieri irregolarmente presenti nel territorio italiano o minori in età non lavorativa.
Si segnala, da ultimo, che per quanto attiene ad eventuali ipotesi di intervento normativo per assicurare adeguata tutela ai lavoratori che denunciano situazioni di sfruttamento, si è ritenuto di non inserire delle apposite previsioni nel presente disegno di legge, essendo attualmente all’attenzione del Parlamento un provvedimento specifico, di iniziativa parlamentare (dei senatori Nannicini e Ruotolo), che affronta in maniera organica tale questione.
Così come anche per la previsione di una Procura nazionale del lavoro, in quanto già in discussione al Senato un disegno di legge a prima firma del senatore Iunio Valerio Romano che introduce tale organismo.
Una riflessione conclusiva.
Ho detto all'inizio di questo intervento che occorre una rivoluzione culturale. Il nostro compito è agevolato dalle previsioni della nostra Costituzione agli artt. 1-2-3-32 e 41 nella nuova formulazione. Ma mi piacerebbe che per noi New Work fosse quello pensato da Frithiof Bergmann, un filosofo sociale nato in Austria e vissuto negli USA.
Bergmann con la sua nozione di New Work intendeva creare un'utopia: una società del lavoro migliore, dove l'uomo non esiste per lavorare, ma il lavoro esiste per l’uomo.
Il Senato della Repubblica, approvando le proposte di modifica legislativa che la Commissione propone, ha l'occasione per avviare questo processo di profonda rivoluzione culturale e di importante riforma politica. Non sprechiamola.
Ricordo di Mimmo Carcano
di Gaetano De Amicis
La scomparsa di Mimmo Carcano, fine giurista e civil servant, personalità di multiforme ingegno e rara sensibilità, lascia un vuoto incolmabile nei tanti amici e colleghi che in lui hanno avuto un costante punto di riferimento nell’esercizio delle attività giudiziarie.
Sempre misurato nei toni e garbato nelle forme, il suo tratto gentile e felpato disvelava un profondo senso di umanità, accompagnato sempre da un lieve sorriso, il cui ricordo restituisce alla memoria personale e collettiva l’immagine indelebile di un giudice colto ed impegnato, che non ha mai fatto inutile esibizione delle sue capacità professionali ed organizzative.
Estremamente ricco e di enorme spessore è stato il suo percorso professionale, istituzionale e scientifico.
Numerose, e tutte di alto profilo, sono state le funzioni da lui svolte lungo un cammino segnato da una costante combinazione di “saperi” acquisiti nell’esercizio di attività giudiziarie, istituzionali e scientifiche, con il conseguente travaso di specifiche competenze in ciascuno dei settori ove egli ha prestato il suo servizio.
Ho avuto modo di conoscerlo e di ammirarne le capacità sin dal 1998, quando fui collocato fuori ruolo presso la Direzione generale degli affari penali, ove egli svolgeva le funzioni di Direttore generale vicario e seguiva, con grande abilità diplomatica, i negoziati in corso a Bruxelles presso i numerosi tavoli di lavoro ove si discutevano i progetti relativi all’elaborazione di fondamentali strumenti normativi e programmatici dell’Unione europea (come i Piani di contrasto e prevenzione della criminalità organizzata, la Convenzione del 29 maggio 2000 sull’assistenza giudiziaria penale, Eurojust, il mandato di arresto europeo ecc.), la cui adozione ha profondamente segnato nel corso del successivo decennio l’evoluzione della cooperazione giudiziaria penale, dando seguito alle raccomandazioni formulate dal Consiglio europeo di Tampere del 15 ottobre 1999.
Da allora i nostri percorsi professionali si sono più volte incrociati, dapprima nell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, ove egli svolgeva le funzioni di Vice Direttore, quindi, all’atto del suo rientro in ruolo dopo aver assunto le funzioni di Capo dell’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, presso la Sesta Sezione penale della Corte, cui Mimmo venne riassegnato come Consigliere, per ricoprirvi in seguito le funzioni di Presidente non titolare.
Quando, nel 2018, fu nominato Primo Presidente aggiunto della Corte, ho avuto l’onore di collaborare nuovamente con lui, nei collegi delle Sezioni Unite penali che egli ha presieduto con grande capacità dialogica e garbata autorevolezza.
E’ stato per me un amico e collega prodigo di consigli e suggerimenti, guida costante e fonte di continuo insegnamento nella conoscenza dei complessi meccanismi di funzionamento della giurisdizione penale di legittimità.
Non sono certo il solo, del resto, poiché tutti coloro che hanno avuto il privilegio di frequentarlo o di collaborare con lui ne hanno potuto subito riconoscere le impareggiabili doti di umanità, specchio profondo di una personalità naturalmente “dialogante”, mai impositiva, e sempre disposta alla considerazione e all’ascolto dei suoi interlocutori.
Entrato in Magistratura nel 1980, egli ha svolto sino al 1989 le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica, dapprima presso il Tribunale di Treviso, quindi presso il Tribunale di Trani, per poi essere collocato fuori dal ruolo organico della Magistratura e destinato prima alla Segreteria, quindi all'Ufficio Studi del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nel luglio del 1996 venne riconfermato fuori ruolo e destinato al Ministero della Giustizia con funzioni di Capo della Segreteria e di Direttore Generale vicario della Direzione generale degli affari penali, ove assunse, in seguito, anche le funzioni di Direttore dell'Ufficio II, organo ministeriale di competenza strategica nella gestione delle procedure di estradizione e delle rogatorie internazionali.
Nell’esercizio di tali incarichi egli si occupò della redazione di testi legislativi di particolare rilevanza, come quelli che hanno riguardato la istituzione del giudice monocratico di primo grado, la disciplina relativa alla responsabilità degli enti collettivi e la modifica dell’art. 111 della Costituzione, con l’introduzione delle correlative norme processuali per l’attuazione del principio della formazione della prova nel contraddittorio delle parti.
Nel 2001 tornò in ruolo per essere destinato con funzioni di applicato di appello all'Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, svolgendovi poi, dall’aprile del 2005, le funzioni di Consigliere presso la Sesta Sezione penale.
Fu successivamente nominato, nel 2006, Vice Direttore dell'Ufficio del Massimario e del Ruolo per il settore penale, dando un rilevante impulso alla riorganizzazione delle complesse attività di selezione delle sentenze da massimare, alla individuazione dei contrasti giurisprudenziali, all’esame delle novità legislative, alla elaborazione delle rassegne annuali di giurisprudenza e, soprattutto, alla predisposizione delle relazioni sui ricorsi trattati dalle Sezioni Unite penali.
Nell’esercizio delle funzioni di Vice Direttore del Massimario, all’epoca guidato con la lungimirante visione del Presidente Giovanni Canzio, egli mise in mostra un impegno organizzativo di fondamentale importanza per il miglioramento della funzione nomofilattica della Corte, sviluppando un modulo volto a privilegiare la più ampia collegialità allo scopo di ottenere i migliori risultati nella selezione delle sentenze dalle quali estrarre i principi di diritto rilevanti al fine di assicurare l’uniformità delle pronunce, con la pronta segnalazione dei contrasti giurisprudenziali in modo da consentire alle Sezioni della Corte di valutare le modalità attraverso le quali ricomporre i diversi orientamenti e, se del caso, rimettere la questione controversa alle Sezioni Unite.
Contemporaneamente alla sua attività di coordinatore e responsabile dei servizi penali dell’Ufficio del Massimario, Mimmo ebbe modo di mostrare la sua straordinaria versatilità anche nello svolgimento, dal novembre 2001 al gennaio 2005, delle funzioni di assistente di studio a tempo parziale del Prof. Piero Alberto Capotosti, Giudice della Corte costituzionale, approfondendo la conoscenza di tematiche, a lui care, come quelle relative all’assetto e al funzionamento dell’Ordinamento Giudiziario, oltre ai profili problematici attinenti all’ambito di applicazione della riforma del Titolo V della Costituzione in tema di conflitti fra Stato e Regioni.
Nel 2013 fu nominato Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, rinnovando, in collaborazione con più Ministri, il suo impegno istituzionale nelle attività di esame ed elaborazione di testi legislativi di grande rilevanza sia nel settore civile che in quello penale ed internazionale.
Al riguardo basti solo menzionare, quanto alla materia civile, l’ampio ventaglio delle misure processuali oggetto del decreto legislativo 19 febbraio 2014, n. 14, recante “Disposizioni integrative, correttive e di coordinamento delle disposizioni di riforma della geografia giudiziaria” di cui ai decreti legislativi nn. 155 e 156 del 2012, ovvero il decreto legge 12 settembre 2014 n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 12 novembre 2014 n. 162, recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile”, con l’introduzione di misure volte a regolare la translatio in sede arbitrale di procedimenti civili pendenti in primo e secondo grado di merito, la procedura di negoziazione assistita dagli avvocati, anche in materia di separazione e divorzio, la migliore funzionalità del processo civile di cognizione (in particolare con la compensazione delle spese e il passaggio dal rito ordinario al rito sommario), la tutela del credito e l’accelerazione del processo di esecuzione forzata e delle procedure concorsuali (con l’introduzione della nota di iscrizione a ruolo con modalità telematiche e del monitoraggio delle procedure esecutive individuali e concorsuali).
Quanto al settore penale, può rammentarsi la serie dei provvedimenti relativi alla attuazione della legge 28 aprile 2014, n. 67, di delega al Governo per la riforma del sistema sanzionatorio penale, con il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, in materia di abrogazione dei reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, in materia di depenalizzazione, e, soprattutto, il d.lgs. 15 marzo 2015, n. 28, in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, con l’introduzione del nuovo istituto disciplinato dall’art. 131-bis cod. pen.
Altro profilo problematico di grande rilevanza, e di delicata gestione anche sul piano mediatico, fu quello che vide il suo impegno nella introduzione di rimedi risarcitori nel sistema della legge penitenziaria del 1975, con la entrata in vigore del decreto legge n. 92 del 2014, convertito nella legge n.117 del 2014, in modo da rispettare gli effetti della pronuncia della Corte EDU nel caso ”Torreggiani” del 9 gennaio 2013.
Di fondamentale importanza si è rivelato il suo contributo alla ridefinizione degli assetti organizzativi interni della Corte di Cassazione e alla evoluzione della giurisprudenza di legittimità, sia come Presidente non titolare della Sesta Sezione penale - peraltro in coassegnazione alla Terza Sezione Penale e, in seguito, alla Prima Sezione penale, ad ulteriore riprova della sua generosità e dello spirito di dedizione mostrato nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali – sia, dal 2018 e sino al giugno 2020, nell’esercizio delle funzioni apicali di Primo Presidente aggiunto della Corte di Cassazione.
Un filo conduttore è sempre rinvenibile nella motivazione delle pronunce di cui è stato relatore ed estensore, ovvero in quelle emesse dai collegi da lui presieduti: l’attenzione per il rispetto e la fedele attuazione delle garanzie sostanziali e processuali ai fini della migliore tutela e della progressiva espansione dei diritti fondamentali e la valorizzazione del principio di tassatività della legge penale, nel quadro di un’interpretazione costantemente “in ascolto” delle parti, sensibile al portato delle riflessioni dottrinali ed orientata alla condivisa ricerca del migliore punto di equilibrio del caso, ma sempre fortemente ancorata ai limiti segnati dall’alveo semantico delle disposizioni normative.
Continuità con il passato e, al contempo, grande apertura culturale alle problematiche derivanti dalla progressiva emersione di nuove istanze di tutela, con particolare riguardo alla dimensione europea ed internazionale della produzione normativa e alla crescente rilevanza della elaborazione giurisprudenziale sedimentatasi nell’attività delle Corti europee, mantenendo inalterati il prestigio istituzionale e il proprium della funzione nomofilattica di una Suprema Corte nazionale in costante raccordo con il quadro evolutivo, sempre più complesso e articolato, delle esigenze di garanzia dei diritti fondamentali: questa la cifra profonda, e ultima, del sostrato valoriale che ha connotato il dispiegarsi dell’attività svolta dalla Corte di legittimità sotto la presidenza di Mimmo Carcano.
Numerose le decisioni di rilievo assunte dalle Sezioni Unite della Corte nel corso del suo mandato presidenziale.
Solo a titolo esemplificativo, ed in estrema sintesi, possiamo ricordarne alcune:
a) la decisione relativa al divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate, ritenuto non operante con riferimento agli esiti relativi ai soli reati connessi, ex art. 12 cod. proc. pen., a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata "ab origine" disposta, sempreché rientranti nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 cod. proc. pen. (n. 51 del 28/11/2019, Cavallo);
b) la decisione (n. 8544 del 24/10/2019, Genco) sull’ambito di applicazione dei principi enunciati nella sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 (caso Contrada contro Italia), ritenuti non estensibili nei confronti di coloro che, pur trovandosi nella medesima posizione del diretto interessato, non abbiano proposto ricorso in sede europea;
c) la pronuncia (n. 41736 del 30/05/2019, Bajrami) sulla portata del principio di immutabilità del giudice e sui limiti della rinnovazione del dibattimento per suo mutamento, con la precisazione della non necessarietà del consenso delle parti alla lettura degli atti già assunti dal giudice di originaria composizione con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non richiesta, non ammessa o non più possibile;
d) quella (n. 13178 del 28/11/2019, Guadagni) sulla delimitazione della tutela penale della concorrenza in relazione alla configurabilità del reato di cui all'art. 513–bis cod. pen., ove si è ritenuto necessario il compimento di atti di concorrenza non solo posti in essere nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, ma connotati dall’esercizio di violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell'impresa concorrente, con la sottolineatura della centralità, ai fini dell'ermeneusi della norma, del principio di libera concorrenza come discendente, oltre che dall'art. 41, comma 1, Cost., dalla normativa di riferimento, sia interna che euro-unitaria);
e) la sentenza in tema di dichiarazione di assenza dell’imputato, ai cui fini non può considerarsi quale presupposto idoneo la sola elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio, dovendo il giudice verificare, in ogni caso, che vi sia stata l'effettiva instaurazione di un rapporto professionale con il legale domiciliatario, tale da fargli ritenere con certezza che quest'ultimo abbia avuto conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla stessa (n. 23948 del 28/11/2019, Ismail).
Analoghe connotazioni di svolgimento e indirizzo delle sue capacità argomentative erano emerse nei decisivi contributi offerti, nell’esercizio delle funzioni di Consigliere, allo sviluppo della giurisprudenza di legittimità in materia di reati di corruzione e concussione (all’indomani della riforma legislativa del 2012 e della fondamentale decisione adottata dalle Sezioni Unite Maldera nel 2013), come pure nella originale individuazione di soluzioni ermeneutiche volte a garantire, a fronte di, apparentemente insormontabili, anomie del sistema, il rispetto delle garanzie del contraddittorio processuale nella esecuzione delle sentenze della Corte EDU (caso “Drassich”).
È difficile, se non impossibile, dar conto in questa sede della importanza dell’attività da lui svolta ai fini della promozione del dibattito scientifico all’interno della comunità dei giuristi sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità nel corso della sua pluriennale codirezione di una rivista prestigiosa come Cassazione penale, come pure della sua vasta e rilevante produzione scientifica, la cui fondamentale caratteristica, pienamente in linea con la molteplicità degli interessi coltivati, è stata quella di spaziare, con acutezza di ragionamento e nitore argomentativo, sulle più disparate tematiche di attualità non solo del diritto e della procedura penale, ma anche dell’ordinamento giudiziario, della cui analisi ricostruttiva è stato, nel corso degli anni, uno dei più autorevoli ed apprezzati interpreti.
Mimmo non è stato solo un giudice di eccezionale preparazione giuridica, ma un uomo delle istituzioni a tutto tondo, capace di offrire in più occasioni, con sapienza, prudenza e tatto diplomatico, le sue straordinarie competenze tecniche e professionali al loro esclusivo servizio, mantenendo sempre inalterato il suo personale profilo di indipendenza ed autonomia di Magistrato.
Ricordo di Maurizio Fioravanti
di Antonello Cosentino
A poche settimane dalla scomparsa di Paolo Grossi la cultura giuridica italiana subisce un nuovo, dolorosissimo, lutto.
Il 19 agosto è scomparso, pochi giorni dopo aver compiuto settant'anni, il prof. Maurizio Fioravanti, che di Paolo Grossi è stato illustre allievo e continuatore nell’insegnamento della storia del diritto medievale e moderno nella Facoltà, e poi nella Scuola, di Giurisprudenza dell’Ateneo fiorentino. In tale Ateneo egli era professore emerito, dopo aver insegnato nelle Università di Macerata e di Modena, essere stato visiting professor presso l’Università di Chicago ed aver svolto attività di ricerca in Germania, presso il Max Planck Institut per la storia del diritto europeo.
Egli ha focalizzato la sua attenzione sulla storia del diritto pubblico e, in particolare, del diritto costituzionale, approfondendo i temi della storia costituzionale comparata e della storia del costituzionalismo e insegnando anche, per molti anni, Storia delle costituzioni moderne.
Il prof. Fioravanti è stato uno storico, non un antiquario, del diritto; aveva la visione dello storico, ma guardava il presente. La sua attenzione è sempre stata rivolta essenzialmente ai problemi dell’oggi, alla forma di Stato ed all’assetto costituzionale dell’Italia di oggi; ed è perciò che, pur da storico, egli ha sempre intessuto un dialogo serrato con gli studiosi del diritto pubblico positivo, tanto da essere stato autorevole componente del comitato direttivo della rivista Diritto Pubblico, fondata nel 1995 da Andrea Orsi Battaglini.
Nella consapevolezza che «nessun tempo storico può produrre categorie universali»[1], egli ha consegnato ad una prospettiva storica - così negandone, appunto, il carattere universale - le categorie del modello ottocentesco dello Stato di diritto, da lui chiamato “Stato di diritto della tradizione” e contrapposto allo “Stato costituzionale del presente”, ossia alla forma politica del nostro tempo.
Non è possibile sintetizzare in queste brevi note, né avrei le competenze per farlo, i contenuti del grandissimo contributo offerto dal prof. Fioravanti agli studi di storia del diritto. Qui voglio soffermarmi su un punto, in particolare, della sua vastissima riflessione: quello del rapporto del giudice con la legge e con la Costituzione.
È una riflessione che nasce da un ricordo personale.
Nel 2017 fui invitato ad intervenire in un convegno, a Firenze, destinato a presentare il numero monografico di Questione Giustizia n. 4/2016, intitolato Il giudice e la legge. Ho un ricordo nitido di quel bellissimo pomeriggio. Dopo il mio ed altri interventi, prese la parola il prof. Fioravanti; egli incantò, letteralmente, la platea, svolgendo - con il suo eloquio semplice, quasi familiare, adornato da un robusto accento toscano - una relazione che metteva a fuoco con straordinaria chiarezza il mutamento del ruolo del giudice nel passaggio dallo “Stato di diritto della tradizione” allo “Stato costituzionale del presente”. Nello “Stato di diritto della tradizione”, spiegò, esisteva una linea verticale che ordinava, procedendo dall’alto verso il basso, la Costituzione, la legge e il giudice. Il giudice quindi, collocato più in basso della legge, non poteva "vedere" la Costituzione e, dunque, la conosceva solo per il tramite della legge; nello “Stato costituzionale del presente”, per contro, il giudice tende a “smarcarsi” - usò proprio questo termine, sottolineando egli stesso che l’espressione proveniva dal linguaggio calcistico - ossia a spostarsi per “vedere”, dietro la legge, la Costituzione.
L’ immagine del giudice che “si smarca” per “vedere” la Costituzione dietro la legge mi colpì moltissimo e, con me, colpì tutto l'uditorio. Era una immagine di una plasticità potente, come può essere concepita solo da un grande didatta, quale il prof. Fioravanti è stato. Era un'immagine, allo stesso tempo, profonda e semplice, capace di spiegare, da sola, tutta la storia della magistratura italiana a partire dal congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati di Gardone del 1965.
La mozione finale di quel congresso, approvata all’unanimità, ha affermato che il giudice «deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un'applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione»[2].
Cos'altro era quella «applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione» se non il consapevole superamento del postulato di Raymond Carré de Malbérg secondo cui il giudice applica la legge, e non la Costituzione? Cos’altro era quella dichiarazione contenuta nel documento congressuale dell’Associazione Nazionale Magistrati se non l’esplicitazione della volontà di “vedere” la Costituzione dietro la legge? se non il programma di «reperire nel nostro ordinamento un tipo di garanzia dei diritti di ordine completamente giurisdizionale, che si esplica cioè tra il giudice che solleva la questione di costituzionalità, la giurisprudenza della Corte, e il seguito che questa ultima ha con la sua decisione presso gli stessi giudici» ?[3]
Per il prof. Fioravanti - come egli stesso ci spiegò in quella vera e propria lectio magistralis che fu il suo intervento nel convegno fiorentino del 2017 [4]- potere legislativo e potere giudiziario stanno affiancati, uno accanto all’altro, di fronte alla Costituzione ed entrambi devono collaborare per l'attuazione dei principi costituzionali. Non si può infatti partire dal presupposto, egli sottolineò a chiusura del suo intervento, che tra i due poteri, alla fine, ci debba essere un vincitore o un vinto. Ed è proprio questa conclusione, a mio avviso, il prezioso retaggio che il prof. Fioravanti lascia alla magistratura ed alla politica italiana.
[1] M. Fioravanti, Passato, presente e futuro dello stato costituzionale odierno, in Nomos. Le attualità nel diritto, 2018, 2, pag. 1.
[2] Cfr. E. Bruti Liberati, Considerazioni su magistratura e società, in Questione Giustizia on line, 10. 2. 2017.
[3] Ancora M. Fioravanti, loc. cit., pag. 7.
[4] Chi sia interessato, può vedere su youtube la registrazione di quel convegno - Dialoghi su giurisdizione e legge, Firenze, 11 maggio 2017 - al link https://www.youtube.com/watch?v=JSVPReWYg2c ; l'intervento del prof. Fioravanti è al minuto 2:08:16.
Dirigenza giurisdizionale e dirigenza amministrativa riguardo agli addetti all’U.P.P. presso la Corte di Cassazione
di Raffaele Frasca
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’art. 11 e l’art. 12 del d.l. n. 80 del 2021. - 3. Le Circolari del Ministero della Giustizia. - 4. Il Decreto del Primo Presidente della Corte n. 119 del 2021. - 5. Conclusioni.
1. Premessa.
L’intento di queste note è di svolgere una riflessione, anzi direi una puntualizzazione, sull’atteggiarsi del rapporto fra la dirigenza giurisdizionale e quella amministrativa riguardo alle modalità di utilizzo degli “addetti” all’Ufficio per il Processo (UPP) in Corte di Cassazione. La riflessione su tale rapporto – che svolgerò, per quanto di mia competenza, con l’occhio rivolto al settore civile, ma con considerazioni che si debbono ritenere estensibili al settore penale[1] - mi sembra imposta dalla constatazione che si è sostenuta l’esistenza di una sorta di ibridismo delle loro funzioni, che, a mio avviso, lo dico subito, è del tutto inesistente, e lo si è fatto imputandola a torto alla volontà del legislatore, che invece non la giustifica affatto.
Anticipo che, se il preteso ibridismo potrebbe apparire imputabile soltanto ad un equivoco indotto dalla novità dello status che gli addetti hanno ricevuto a seguito dell’assunzione secondo la tecnica della costituzione di un rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato, la corretta lettura delle norme sulle funzioni e sui compiti che gli addetti all’UPP sono chiamati a svolgere avrebbe dovuto scongiurare l’equivoco.
Avverto che la mia riflessione concerne specificamente la posizione degli addetti all’UPP presso la Corte di Cassazione, ma le sue conclusioni possono ritenersi pertinenti anche all’UPP presso gli uffici di merito.
Mi soffermerò sulla situazione determinatasi con riferimento all’Ufficio del Processo, costituito presso la Corte di Cassazione in forza del disposto dell’art. 11, comma, 1 del d.l. n. 80 del 2021, convertito, con modificazioni, nella l. n. 113 del 2021. Peraltro, le conclusioni raggiunte si attaglieranno anche all’Ufficio del Processo come disciplinando dal decreto legislativo recante norme sull’Ufficio per il Processo in attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206 e della legge 27 settembre 2021, n. 134, di cui è già circolato uno schema ancora in gestazione. I contenuti relativi alle funzioni ed ai compiti degli addetti ivi presenti sono infatti nella sostanza non dissimili da quelle vigenti in attuazione del citato art. 11.
Ciò premesso, ricordo che la figura degli “addetti” all’Ufficio per il processo è stata introdotta dal citato art. 11, comma 1, del d.l. n. 80 del 2021. La disposizione è intervenuta in una situazione nella quale l’ufficio per il processo era già normativamente previsto per gli uffici di merito, ma non per la Corte di Cassazione[2].
L’art. 11, nell’introdurre la figura degli addetti all’ufficio per il processo non ha previsto in modo diretto la costituzione di un UPP presso la Corte di Cassazione. Lo ha fatto in modo, se così può dirsi, indiretto e non scevro per ciò di una certa singolarità, creando appunto una nuova figura lavorativa in seno all’Amministrazione della Giustizia, quella degli “addetti all’ufficio per il processo” e prevedendone l’operatività anche alla Corte di Cassazione. In tal modo, per un verso si è ampliata la platea dei soggetti coinvolti nell’ufficio del processo per come disciplinato dalla precedente legislazione e, per altro verso, facendo riferimento all’operatività della nuova figura anche per la Corte di Cassazione, si è implicitamente previsto che l’UPP si costituisse pure preso la Corte.
L’introduzione della figura è stata fatta in funzione della più ampia realizzazione degli obiettivi del PNNR, costituente il titolo del d.l., e con specifico riferimento nella norma di esordio del Capo II, che si apre con l’art. 11, alle “misure urgenti per la giustizia ordinaria e amministrativa”.
Il citato art. 11 è rubricato, del resto, proprio con questa espressione.
Il modo in cui l’art. 11, nel quadro di una disposizione generale individuatrice della nuova figura degli addetti all’UPP e delle modalità di costituzione dei relativi rapporti individuali, ha introdotto l’ufficio per il processo in Cassazione risulta, come ho detto, “indiretto” ed “implicito”, perché la norma ebbe a stabilire che in esito alla proceduta di reclutamento degli addetti, dovesse farsi l’assegnazione di una quota fissa non superiore a 400 all’ufficio per il processo presso la Corte di Cassazione (in concreto poi limitata in prima battuta, a 200 unità).
Questa previsione ha rappresentato l’epifania normativa dell’UPP presso la Corte di Cassazione ed il suo contenuto ebbe il valore di prevedere, come ho detto implicitamente, l’istituzione di un UPP presso la Suprema Corte, giacché l’assegnazione di una quota fissa degli addetti non poteva che rivelare l’intento di disporre la costituzione dell’ufficio per il processo pure presso la Corte, naturalmente con una struttura che, per un verso ripetesse quella degli UPP presso gli uffici di merito e ciò anche quanto ai giudici.
In precedenza, pur essendo normativamente già regolata, la figura dell’Ufficio per il Processo non era certamente prevista per la Corte di Cassazione, ma solo per gli uffici di merito[3].
In ragione dell’introduzione del disposto legislativo e nelle more del procedimento di reclutamento degli addetti, ricordo che – evidentemente svolgendo, nell’àmbito delle sue funzioni, un potere di indicazione delle modalità di attuazione di un disposto recante come ho detto implicitamente la prescrizione della costituzione di un UPP presso il giudice di legittimità[4] – il C.S.M. adottò, in data 13 ottobre 2021, una deliberazione di modifica delle tabelle per gli anni 2020-2002, stabilendo che la costituzione dell’ufficio per il processo “potesse” avvenire anche presso la Corte di Cassazione, nonché un’altra coeva deliberazione recante le “linee guida” in proposito.
Sulla base del disposto del d.l. n. 80 del 2021 e delle citate delibere del CSM, ma evocando a monte il disposto dell’art. 16-octies del D.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni, nella l. n. 221 del 2012 (articolo dall’art. 50 del d.l. n. 90 del 2014, convertito nella l. n. 114 del 2014), che aveva previsto l’UPP presso giudici di merito, con decreto n. 119 del 29 dicembre 2021 il Primo Presidente della Corte di Cassazione ha disposto, quindi, l’istituzione dell’UPP presso la Corte, che, naturalmente ha compreso non solo la nuova figura degli addetti all’UPP, ma anche quelle fra le figure indicate dall’art. 16-octies presenti in Cassazione.
La ragione di queste note è che risulta sostenuta da taluni commentatori e non mi pare affatto condivisibile l’idea che il legislatore, introducendo con l’art. 11 citato del d.l. n. 80 del 2021 la figura degli addetti all’UPP, avrebbe creato una figura connotata da un ibridismo di funzioni sia pure nella logica del funzionamento dell’UPP, con conseguente ripercussioni sia sull’individuazione dei compiti da espletarsi da essi in seno all’UPP, sia sull’individuazione del potere direttivo riguardo ai compiti stessi. E’ evidente che questa idea di ibridismo può comportare, alla prova dell’espletamento da parte degli addetti delle loro funzioni presso l’UPP di Cassazione (ma non diversamente presso gli UPP degli uffici di merito), ricadute o comunque problemi in ordine al rapporto fra la dirigenza giurisdizionale e la dirigenza amministrativa della Corte nelle rispettive articolazioni (e così presso gli uffici di merito).
2. L’art. 11 e l’art. 12 del d.l. n. 80 del 2021.
Vediamo innanzitutto più specificamente il tenore dei disposti normativi che hanno introdotto la nuova figura degli addetti all’UPP.
L’art. 11 del d.l. n. 80 del 2021, per quanto attiene alla giurisdizione ordinaria, nel comma 2, dopo avere previsto nel comma 1 la modalità di assunzione degli addetti con un contratto di lavoro a tempo determinato, indicò come requisito legittimante alla partecipazione alla procedura concorsuale finalizzata all’assunzione il possesso della laurea in giurisprudenza (e, per una quota limitata, da indicarsi nel bando di concorso, della laurea in economia e commercio o scienze politiche).
Nel secondo, terzo e quarto inciso il comma 2:
a) precisò che, in deroga alle norme degli artt. 2, comma 2, 40 e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 (e, dunque, alla sostanziale rilevanza della contrattazione collettiva in ordine alla individuazione del profilo professionale e retributivo dei dipendenti pubblici), la specificazione del profilo professionale degli addetti, cioè dei loro compiti, fosse quella indicata nell’Allegato II, numero 1 allo stesso d.l.;
b) dispose, quanto «al trattamento economico fondamentale ed accessorio e ad ogni istituto contrattuale, in quanto applicabile», l’equiparazione degli addetti al persona di cui «ai profili dell’area III, posizione economica F1»;
c) ed in fine (ultimo inciso) stabilì che il Ministero della Giustizia, «sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative», potesse stabilire «anche in deroga a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, particolari forme di organizzazione e di svolgimento della prestazione lavorativa, con riferimento al lavoro agile e alla distribuzione flessibile dell'orario di lavoro».
Il successivo art. 12 – rubricato “modalità di impiego degli addetti all’ufficio per il processo” – nel comma 2 ribadì il rinvio al ricordato allegato, stabilendo che «le modalità di impiego degli addetti all’ufficio per il processo presso gli uffici giudiziari della Giustizia ordinaria sono individuate all’Allegato II, numero 1».
Il comma 3, a sua volta dispose che «all'esito dell'assegnazione degli addetti all'ufficio per il processo di cui al comma 2, il Capo dell'ufficio giudiziario entro il 31 dicembre 2021, di concerto con il dirigente amministrativo, predispone un progetto organizzativo che preveda l'utilizzo, all'interno delle strutture organizzative denominate ufficio per il processo, degli addetti selezionati in modo da valorizzare il loro apporto all'attività giudiziaria.».
Il ricordato Allegato II, numero 1 – essendo chiaramente estranee all’UPP le precisazioni contenenti le specifiche e i contenuti professionali indicati come relativi agli “specialisti della gestione nella Pubblica Amministrazione” e agli “esperti legali in imprese o enti pubblici” - indicò, sotto la rubrica “attività di contenuto specialistico”, le mansioni degli addetti all’UPP con un elenco che suona in questi termini: «studio dei fascicoli (predisponendo, ad esempio, delle schede riassuntive per procedimento); supporto al giudice nel compimento della attività pratico/materiale o di facile esecuzione, come la verifica di completezza del fascicolo, l’accertamento della regolare costituzione delle parti (controllo notifiche, rispetto dei termini, individuazione dei difensori nominati ecc.), supporto per bozze di provvedimenti semplici, il controllo della pendenza di istanze o richieste o la loro gestione, organizzazione dei fascicoli, delle udienze e del ruolo, con segnalazione all’esperto coordinatore o al magistrato assegnatario dei fascicoli che presentino caratteri di priorità di trattazione; condivisione all’interno dell’ufficio per il processo di riflessioni su eventuali criticità, con proposte organizzative e informatiche per il loro superamento; approfondimento giurisprudenziale e dottrinale; ricostruzione del contesto normativo riferibile alle fattispecie proposte; supporto per indirizzi giurisprudenziali sezionali; supporto ai processi di digitalizzazione e innovazione organizzativa dell’ufficio e monitoraggio dei risultati; raccordo con il personale addetto alle cancellerie.».
Ebbene, se ci si interroga su quali siano le implicazioni di tali disposti normativi in ordine all’individuazione di chi debba esercitare rispetto agli addetti il potere di individuare in concreto – cioè dando attuazione alle previsioni dell’allegato - i loro compiti e le loro specifiche funzioni, di controllare ed esaminare il risultato del loro espletamento, di rappresentare, dunque, il loro “organizzatore”, in altri termini su chi debba esercitare le funzioni di dirigenza del loro operato, mi sembra decisamente che il contenuto di detti disposti e in particolare la natura dei compiti di cui all’Allegato non lasci spazio che ad una sola alternativa.
I compiti e le funzioni indicati nell’allegato sono certamente strumentali all’esercizio della funzione giurisdizionale magistratuale, e, dunque, in Cassazione, del “giudice Corte di Cassazione”, ma non lo sono, per il loro contenuto e per la conseguente loro natura, nel senso in cui deve dirsi strumentale l’attività del personale amministrativo ordinario di cancelleria.
Si tratta di attività che in alcun modo ineriscono alle funzioni, cioè alle prestazioni lavorative, che normalmente espleta il personale di cancelleria. Esse riguardano invece attività che sono normalmente da compiersi dal giudice (e, quindi, dal “giudice Cassazione”), nelle varie articolazioni in cui viene espletato il lavoro del giudice, e lo sono quali attività preparatorie rispetto al momento decisionale o comunque all’adozione del provvedimento con cui il giudice e, dunque, il “giudice Cassazione”, è chiamato ad esternare la sua funzione.
Tale affermazione trova giustificazione nella considerazione analitica dell’elenco dell’Allegato.
Così, lo studio dei fascicoli, con quanto l’allegato prevede (in via esemplificativa alludendo alla predisposizione di schede riassuntive del procedimento), è attività che è chiaramente estranea al profilo delle prestazioni da svolgersi da qualsiasi figura dell’ordinario personale amministrativo.
L’attività di verifica della completezza del fascicolo e l’accertamento della regolare costituzione delle parti con le specificazioni dell’allegato è anch’essa un’attività che il giudice affidatario del fascicolo e nel momento decisionale il giudice- collegio (se la decisione è collegiale) deve compiere nell’àmbito del corretto esercizio delle sue funzioni ed in vista dell’attività provvedimentale: lo fa, del resto, manifesto lo stesso uso dell’espressione “supporto al giudice”.
È da rilevare che, sebbene non perché inerente ai compiti formalmente propri del personale cancelleria, ma sulla base di una logica di mera collaborazione fra il giudice e tale personale e tenuto conto che la custodia dei fascicoli (anche in àmbito digitale) compete a quel personale, il compimento di una simile attività di verifica avrebbe potuto essere richiesto a quel personale (per esempio: il relatore designato avrebbe potuto chiedere al cancelliere se è presente un documento nel fascicolo o se risulta l’esistenza di una notificazione), ma, non solo in ultima analisi, il giudice – è questo il punto - non avrebbe potuto “fare affidamento” su tale controllo, avendo l’onere, in quanto funzionale all’esercizio corretto della sua funzione, di procedere comunque al controllo egli stesso, ma altresì no avrebbe potuto affatto “pretendere” dal personale l’espletamento di detta attività, in quanto estranea ai doveri e compiti di esso. La novità dell’attribuzione agli addetti di questi controlli connota la relativa prestazione come svolgimento di un’attività che in ultima analisi continua a spettare, come spettava, al giudice come risultato finale, ma di cui essi assumono formalmente la responsabilità, nel mentre prima la richiesta dei controlli al personale di cancelleria, in quanto frutto di una scelta del giudice e non essendovi previsione normativa, risultava espressione di mera richiesta di generica collaborazione del tutto informale, inidonea – essendo estranea ai compiti specifici del personale di cancelleria – a determinare responsabilità.
Per quanto attiene al controllo della pendenza di istanze o richieste, si rileva che al personale di cancelleria non ineriva affatto il controllo, ma semmai l’onere di notiziare il giudice e, dunque, anche il “giudice Cassazione”, della loro presentazione, essendo il controllo un’iniziativa del giudice. Di pertinenza del giudice era, poi, la “gestione” di istanze e richieste. Si tratta dunque, di attività del tutto estranee ai compiti del personale di cancelleria e che prima erano da compiersi d’iniziativa del giudice.
È lapalissiano, poi, che l’attività di supporto nella redazione di provvedimenti in alcun modo era riferibile al personale di cancelleria, trattandosi di attività che il giudice doveva compiere in proprio, per così dire “autosupportandosi”.
L’attività che viene definita organizzazione dei fascicoli, delle udienze e del ruolo è ed era un’attività di cui il giudice è ed era responsabile e, dunque, di sua spettanza e non certo di spettanza al personale di cancelleria e meno che mai ad essa delegabile. Se anche per il suo espletamento il giudice poteva avvalersi dell’ausilio del personale ordinario (sempre per la posizione custodiale del medesimo), l’avvalimento non poteva certo concernere l’organizzazione di fascicoli, udienze e ruolo, ma solo le attività prodromiche all’esercizio in concreto del potere organizzativo: per esempio, se il giudice aveva in animo di organizzare udienze in una certa materia, al personale poteva richiedere che gli fossero messi a disposizione i fascicoli pendenti relativi ad essa, ma nulla di più. L’organizzazione funzionale al risultato, era attività magistratuale ed ora può essere espletata attraverso gli addetti, con assunzione ovvia di responsabilità e sempre fermo restando che il risultato conseguente suppone un’attività finale comunque riferibile e, in ultima analisi, da approvarsi dal giudice e, dunque, al giudice imputabile.
Attività oggettivamente inerenti in modo manifesto e che non abbisogna di dimostrazione all’espletamento della funzione del giudice ed in alcun modo, questa volta nemmeno a livello soltanto preliminare suscettibili di coinvolgere il personale ordinario di cancelleria, sono tutte le altre dell’elenco.
In fine, è attività non riferibile al personale di cancelleria, cioè non considerabile come espletata antecedentemente da tale personale, quella finale indicata come di “raccordo con il personale addetto alle cancellerie”: è palese che ci si riferisce ad un’attività di raccordo che necessariamente è espressione dell’esercizio, sia pure a livello interno, della funzione giurisdizionale propria del giudice. In altri termini agli addetti si assegna un compito di svolgimento di un’attività di raccordo che altrimenti sarebbe stato esercitabile direttamene dal giudice e di cui, nuovamente, sempre il giudice è, com’era antecedentemente, il responsabile finale in quanto l’attività di raccordo era com’è pur sempre espressione di quanto necessario per la sua attività giurisdizionale, cioè di “giudice”.
Dalla rassegna appena compiuta emerge allora in modo chiaro che la nuova figura degli addetti all’UPP (mi riferisco agli addetti ad esso destinati e non ai due profili specialistici minori indicati prima nell’allegato, che sono estranei all’UPP) si presenta come quella di un lavoratore a tempo determinato, certamente inserito nell’amministrazione giudiziaria e non riconducibile invece ed estraneo al personale magistratuale, ma che è chiamato ad esercitare compiti e funzioni, cioè mansioni, che, con una vera e propria novità, non sono riconducibili alle normali attività che il personale amministrativo di cancelleria è chiamato ad espletare per consentire l’esercizio della giurisdizione civile.
Si tratta di attività che anteriormente erano e che in ultima analisi sono di competenza del giudice e che gli addetti vengono chiamati ad esercitare necessariamente, per la loro natura, per conto del giudice, con diretta assunzione di responsabilità nell’espletamento da parte dell’addetto, ma con attribuzione di responsabilità finale al “giudice”.
Ne segue che gli addetti, nella filosofia legislativa, dovendo esercitare un’attività che esula da quella dell’ordinario personale amministrativo e, soprattutto, dovendo espletare un’attività che dovrebbe compiere, sebbene a livello preparatorio dell’esercizio del potere decisionale e comunque dell’adozione dei provvedimenti di sua competenza, il giudice, si presentano come soggetti che, pure essendo incardinati nell’àmbito dell’organizzazione amministrativa non magistratuale, tuttavia, sul piano dello svolgimento dei compiti non possono ritenersi in alcun modo, in ragione dell’oggettività delle funzioni che sono chiamate ad espletare, nello svolgimento del loro rapporto di lavoro con l’esercizio delle mansioni, allo stesso modo dell’ordinario personale amministrativo di cancelleria.
Essi, quindi, ai fini dell’esercizio e dell’individuazione delle mansioni da esercitarsi in concreto, stante l’indicata natura dei loro compiti, non sono soggetti, in seno all’ufficio in cui sono incardinati, al potere direttivo del dirigente amministrativo dell’ufficio, come invece lo è l’ordinario personale che esplica le funzioni e le mansioni amministrative serventi rispetto all’esercizio della giurisdizione. Sono, invece, soggetti al potere direttivo ed organizzativo del “giudice”, cioè dell’articolazione che, sul piano dell’organizzazione magistratuale, è chiamata a “gestire” l’ufficio per il processo in cui sono incardinati.
Lo sono perché la responsabilità ultima del risultato dell’esercizio dei loro compiti e delle loro funzioni spetta a tale articolazione e dunque al “giudice”.
Ferma questa precisazione, la peculiarità che connota gli addetti discende dal fatto che essi sono personale incardinato nell’amministrazione giudiziaria come il personale amministrativo di cancelleria ordinario. Questo implica che, dovendo espletare le loro mansioni sulla base di un rapporto di lavoro, la gestione del loro rapporto di lavoro, per quanto attiene ai diritti che ne discendono (ferie, permessi, orario di lavoro, indicato come flessibile, dall’ultimo inciso del comma 2 dell’art. 11) compete all’organizzazione amministrativa dell’ufficio giudiziario presso il quale sono assegnati e, in questo senso al dirigente amministrativo di esso e alle sue articolazioni (in Cassazione a livello sezionale).
È solo a questi limitati effetti che viene in rilievo la dirigenza amministrativa dell’ufficio, in quanto gli addetti sono, come lavoratori e, quindi, rispetto alle pretese ed ai diritti che il rapporto di lavoro prevede, inseriti nell’organizzazione amministrativa e sono lavoratori dipendenti come il personale di cancelleria.
Peraltro, il dirigente amministrativo, nell’esercizio dei poteri relativi al detto rapporto di lavoro dovrà necessariamente sentire l’avviso del “giudice”, cioè del dirigente dell’UPP, cioè della struttura in cui l’addetto esercita i suoi compiti e le sue mansioni.
D’altronde, lo stesso allegato, coerentemente con quanto emerge dall’elenco delle funzioni, mostra di porre gli addetti in una posizione che rappresenta qualcosa di diverso da quella del personale addetto alle cancellerie, proprio là dove si chiude con la previsione della funzione di “raccordo con il personale di cancelleria”. E’ palese che tale funzione pone gli addetti come “altro” rispetto al personale di cancelleria e lo fa proprio perché i compiti in precedenza elencati e da svolgere sono estranei a quelli del detto personale ed espressione delle attività di competenza del giudice.
Non contraddice in alcun modo, ma anzi conferma la ricostruzione offerta, il disposto del comma 3 dell’art. 12, del d.l. n. 80 del 2021. Esso, non a caso, evoca la dirigenza amministrativa con riferimento al solo momento dell’assegnazione degli addetti all’ufficio per il processo, prevedendo che il capo dell’ufficio predisponga, «di concerto con il dirigente amministrativo», «un progetto organizzativo che preveda l’utilizzo, all’interno delle strutture organizzative denominate ufficio per il processo, degli addetti selezionati in modo da valorizzare il loro apporto all’attività giudiziaria». L’evocazione del “concerto” del dirigente amministrativo è chiaramente da intendere come relativa all’assegnazione degli addetti all’interno della struttura dell’ufficio del processo per quanto attiene all’incardinazione del rapporto lavorativo e, d’altronde il progetto di cui si parla ha questa finalità, essendo testualmente diretto a prevedere “l’utilizzo, all’interno delle strutture organizzativa denominate ufficio del processo, degli addetti”. L’esegesi in tal senso, se ve ne fosse bisogno – ma così non è – sarebbe obbligata, attesa la decisività delle emergenze dell’allegato. Il “concerto” appartiene a questo momento assolutamente prodromico e non al concreto funzionamento dell’UPP e dunque all’assegnazione ed all’espletamento in concreto dei compiti degli addetti.
La conclusione che mi sembra, dunque, sostenibile è che la nuova figura degli addetti all’ufficio per il processo, nella logica del disposto normativo, è stata prevista – e la cosa non può che riguardare anche l’UPP presso la Corte di Cassazione - come quella di un personale assunto nell’àmbito della struttura amministrativa, ma solo nel senso dell’inquadramento in essa della nuova figura di rapporto di lavoro a tempo determinato e non anche nel senso di aggiungere un contingente di personale per l’espletamento delle normali funzioni del personale di cancelleria, bensì con lo scopo di svolgere una funzione nuova comprendente compiti inerenti al “lavoro” del giudice di natura preparatoria per l’adozione dei suoi provvedimenti, decisori e non decisori. Compiti sempre e comunque al “giudice” attribuibili ed in precedenza estranei all’attività del personale di cancelleria, dovuta secondo i profili delle varie categorie di inquadramento di quel personale ed in ragione dei compiti previsti dal Codice di procedura civile (e da quello di procedura penale).
Un lavoro che, per tale “nuova” natura ed in ragione della sua oggettività per come emergente dall’Allegato, deve svolgersi sotto la direzione del “giudice” nella dimensione organizzativa dell’ufficio per il processo.
Se si volesse coniare un’espressione suggestiva e riassuntiva, le mansioni degli addetti sono riconducibili ad un’attività di “assistenza del giudice” e di essa sono espressione.
3. Le Circolari del Ministero della Giustizia.
A seguito dell’adozione della normativa di cui al d.l. n. 80 del 2021 il Ministero della Giustizia ha emanato due successive circolari, quella del 3 novembre 2021, intitolata «Piano Nazionale di ripresa e resilienza – Avvio progetto Ufficio per il processo – Informazione e linee guida di primo indirizzo sulle attività organizzative necessarie per l’attuazione», e quella del 21 dicembre 2021, intitolata «Reclutamento, mansioni, formazione e modalità di lavoro dei primi 8.250 addetti all’ufficio per il processo assunti ai sensi del decreto-legge n. 80 del 2021».
In esse, a mio avviso, si è incorsi in qualche equivoco sulla natura dei compiti degli addetti e questo equivoco può ingenerare qualche conseguenza errata sulla questione della spettanza della dirigenza degli addetti.
Mi spiego.
Nella prima circolare, nel paragrafo 4, dedicato agli addetti all’UPP, dopo il corretto rilievo della riconduzione degli addetti all’UPP alla «figura degli addetti all’ufficio per il processo ai dipendenti pubblici, seppur con contratto a tempo determinato, non solo per quanto attiene ai profili economici ma anche a livello ordinamentale», e dopo il corretto rilievo che ne deriva il «completo riconoscimento di tutti i diritti contrattuali ed economici di cui gode il pubblico dipendente con applicazione integrale – con alcune deroghe […] – del CCNL e del CCNI», si fa derivare – rilevando che gli uffici hanno posto quesiti al riguardo - «che gli addetti all’UPP, seppur a tempo determinato, avranno un orario di lavoro di 36 ore settimanali, articolato, salvo esigenze peculiari, su 5 gg settimanali (art. 17 dell’attuale CCNL del comparto funzioni centrali)» e che essi «avranno accesso a tutti i sistemi informatici utili a svolgere le proprie mansioni (registri di cancelleria, consolle assistente ecc.) possedendo account per ADN, fruendo ed avvalendosi quindi di tutti gli strumenti tipici dei funzionari giudiziari» e con un inquadramento «in specifici profili professionali di nuovo conio, istituiti ex lege, con modalità derogatrici della generale disciplina delle fonti». Le deroghe – per quello che specificamente interessa in questa sede - si individuano nel «potere svolgere lavoro agile anche in deroga alla normativa di settore (articoli 13, comma 3, e 17, comma 3, del decreto-legge n. 80/2021)» e nel «maggiore regime di flessibilità oraria, derogando alla richiesta del consenso dell’interessato per il lavoro pomeridiano (articolo 13)».
Queste notazioni sono certamente condivisibili ed a mio avviso integrano una lettura corretta dell’innovazione legislativa.
È di seguito, invece, a me sembra, che la Circolare contiene affermazioni che al contrario non lo sono e che portano ad un parziale snaturamento del profilo professionale degli addetti.
Infatti, la Circolare – dopo avere correttamente rassegnato il “mansionario” degli addetti all’UPP, con espressa evocazione del ricordato Allegato II, n. 1, al d.l. n. 80 del 2021, ed avere altrettanto correttamente osservato che «le mansioni di supporto all’attività giurisdizionale, anche in un’ottica schiettamente organizzativa, sono logicamente descritte con maggiore dovizia di particolari (data la novità dell’istituto), ma sono per la maggior parte riprese dalla pregressa esperienza di impiego ed utilizzo dei tirocinanti ex articolo 73 del decreto-legge n. 69/2013», e, quindi, sostenuto che «altre poi sono le mansioni che rappresentano assoluta novità e che possono risultare utili per la costruzione di un modello di servizio di accompagnamento al cambiamento dell’organizzazione dell’ufficio: supporto ai processi di digitalizzazione e monitoraggio dei risultati» – osserva, quindi, testualmente che: «la clausola generale che rinvia al “raccordo con il personale addetto alle cancellerie”, sistematicamente interpretata avendo riguardo alla collocazione ordinamentale, più volte sottolineata, quale personale amministrativo di terza area, delinea questo nuovo profilo professionale come “ponte” tra il momento decisionale propriamente detto (di imprescindibile spettanza del magistrato giudicante, sia pure in una nuova logica corale nella preparazione e nell’istruttoria) e la corposa attività amministrativa che questo momento precede e segue. A mero titolo esemplificativo, si possono così indicare le seguenti attività, rinviando alla specifica circolare sul punto: spoglio delle nuove iscrizioni, verifica dei presupposti di priorità di trattazione, “scarico” dell’udienza del magistrato a cui si è assegnati, attività di notifica e comunicazione alle parti nei fascicoli del magistrato a cui si è assegnati, accertamento della definitività del provvedimento, ecc.».
Su questa base si asserisce, poi, che «la logica del sistema, come evidenziata già dalla lettera della legge, delinea un generale ventaglio di mansioni nelle quali per la prima volta vi è una netta prevalenza di attività specificamente dedicate e orientate al supporto diretto della funzione giurisdizionale (studio fascicoli, preparazione di bozze provvedimentali, ecc.), rispetto a mansioni propriamente e storicamente definibili come “amministrative”. L’individuazione concreta delle attività da destinare alle risorse degli addetti all’ufficio per il processo nell’ambito delle 36 ore settimanali previste dal CCNL, dovrà quindi regolarsi secondo il criterio tradizionale di valutazione della prevalenza del nucleo principale del ventaglio delle attività previste dal mansionario di cui all’allegato II del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, ovvero delle attività di studio e di staff rispetto a quelle di raccordo con le cancellerie.». Di seguito, la Circolare afferma ancora «che l’ampio ventaglio di mansioni consente di individuare delle attività residuali o sussidiarie da poter svolgere nell’ambito delle 36 ore lavorative settimanali quando l’addetto all’ufficio per il processo non è assegnato ad attività principali o prioritarie (ad esempio, quando non segue le attività dei singoli magistrati o le attività del presidente di sezione)».
Le affermazioni della Circolare mi sembrano del tutto prive di base normativa quanto ai profili che vado ad esporre.
La lettura dell’espressione finale dell’Allegato, quella sul “raccordo con il personale addetto alle cancellerie”, là dove si sostiene che un’interpretazione sistematica, peraltro non spiegata e basata su una non meglio chiarita “collocazione ordinamentale” (l’espressione non viene spiegata: che significa?) degli addetti «quale personale amministrativo di terza area, delinea questo nuovo profilo professionale come “ponte” tra il momento decisionale propriamente detto (di imprescindibile spettanza del magistrato giudicante, sia pure in una nuova logica corale nella preparazione e nell’istruttoria) e la corposa attività amministrativa che questo momento precede e segue», risulta del tutto priva di fondamento nella legge, cioè non corrispondente al significato dell’espressione “raccordo”.
Questa, come ho già rilevato sopra, non sottende un’attribuzione di competenze diverse da quelle prima indicate dall’Allegato (e come si è detto di spettanza del “giudice”), ma che, ai fini del loro espletamento, gli addetti, così come farebbe lo stesso giudice se direttamene svolgesse quei compiti, sono legittimati a interfacciarsi con il personale amministrativo per ottenere l’assistenza necessaria al loro espletamento. Eventualmente – dico eventualmente perché l’attività di raccordo è riferita agli addetti, è indicata come loro compito e, dunque, parrebbe supporre la loro iniziativa – si può ritenere che nel contempo gli addetti siano legittimati a ricevere, anche al di là dei compiti di cui all’Allegato, eventuali richieste, notizie, etc., dal personale di cancelleria, motivate dai compiti ad esso affidati e che esso debba, in funzione della sua attività amministrativa comunicare al personale magistratuale componente dell’UPP. Richieste, notizie, che altrimenti il personale dovrebbe indirizzare al giudice. Ma non è questo il raccordo indicato come compito dall’Allegato. Sarebbe semmai una mera conseguenza della riferibilità dell’operato degli addetti al “giudice”.
Del tutto estraneo al significato della parola “raccordo” è dunque, quanto invece ipotizza la Circolare in generale e poi passando all’esemplificazione.
Peraltro, in essa non ci si avvede che solo talune delle attività indicate – quelle di “scarico dell’udienza” e quella di “notifica e comunicazione alle parti nei fascicoli del magistrato” (tra l’altro si dice “a cui si è assegnati”, supponendo che l’addetto sia assegnato ad un magistrato e non all’UPP) e quelle di accertamento della definitività del provvedimento – sono attività che vengono espletate dal personale amministrativo di cancelleria, perché inerenti alle funzioni di quel personale – mentre quella di spoglio delle nuove iscrizioni e di verifica dei presupposti di priorità di trattazione non è in alcun modo attività di competenza del personale ordinario di cancelleria, ma genuinamente propria del giudice.
La conclusione espressa nel senso della prevalenza delle funzioni che vengono riassunte con l’espressione “attività di studio e di staff” rispetto a “quelle di raccordo con le cancellerie” come erroneamente ricostruite risulta, dunque non condivisibile. Non di prevalenza si tratta, ma di esclusività delle prime, comprensiva del raccordo come poco sopra ricostruito.
Parrebbe che la Circolare abbia, dunque, espresso una ricognizione non giustificata dal disposto normativo.
Le considerazioni critiche che ho svolto sono estensibili alla successiva Circolare ministeriale del 21 dicembre 2021. Anche in essa si ripetono le affermazioni ricostruttive svolte nella prima circolare e si attribuiscono agli addetti all’UPP, con la stessa lettura del mansionario e ripetendo gli stessi esempi, funzioni amministrative di pertinenza del personale di cancelleria in alcun modo previste dalla legge.
In modo ambiguo si evoca a giustificazione un argomento che si basa sull’attribuzione agli addetti ai fini del trattamento economico del profilo di cui all’area III, posizione economica F1.
Ma in tal modo si spende sempre un argomento inidoneo per le ragioni innanzi esposte: che gli addetti abbiano – ai sensi dell’art. 11, comma 2 penultimo inciso del d.l. n. 80 del 2021 – il trattamento economico che ha il personale di cancelleria inquadrato in quell’area non può significare che essi debbano e nemmeno possano essere chiamati ad esercitare le mansioni di quel personale corrispondenti a quel profilo.
La legge non lo prevede ed essi non sono stati assunti per questo, ma per svolgere i compiti di cui al noto Allegato.
A prescindere dal valore dell’Allegato correttamente ricostruito, la norma appena evocata rivela, del resto, il suo intento meramente individuatore del trattamento economico quando parla di “equiparazione”. Si tratta di equiparazione economica e non già, nemmeno nel limitato senso ipotizzato dalle circolari, funzionale.
In definitiva, lo ribadisco, mi sembra che l’esegesi ministeriale del disposto normativo istitutivo della figura degli addetti all’UPP si sia spinta oltre il testo normativo nell’individuare fra i compiti degli addetti anche compiti di spettanza del personale amministrativo.
Stante la natura delle Circolari, è palese che esse non avrebbero potuto vincolare i capi degli uffici e quindi il Primo Presidente della Corte di Cassazione, per quanto attiene alla costituzione dell’UPP presso la Corte.
4. Il Decreto del Primo Presidente della Corte n. 119 del 2021.
Essendo le mie considerazioni concentrate sugli addetti all’U.P.P. presso la Corte di Cassazione, svolgo a questo punto alcune brevi rilievi sul decreto del Primo Presidente della Corte di Cassazione n. 119 del 29 dicembre 2021, che ha provveduto alla costituzione dell’Ufficio per il processo presso la Corte, stabilendone la struttura ed inserendovi, come risulta dall’art. 3, comma 3 (insieme ai giovani laureandi e laureati svolgenti attività di tirocinio preso la Corte, nonché il personale EASO collaborante con la Prima Sezione Civile in forza di un protocollo con la corrispondente istituzione UE) e per quello che qui interessa, gli addetti di cui all’art. 11 del d.l. n. 80 del 2021 assegnati alla Corte (peraltro in numero di 200 unità, cioè nella metà del contingente indicato dal più volte citato art. 11 del d.l. nn. 80 del 2021.
Il decreto è stato adottato «sentiti i Presidenti di sezione ed il Dirigente amministrativo» della Corte. All’art. 3, comma 1, qualifica l’UPP come «struttura tecnica (di “staff”) di ausilio dell’attività giudiziaria, che può essere al servizio del giudice e/o dell’ufficio» e, quindi, precisa che trattasi di struttura unitaria al servizio dell’intero ufficio, per poi nel comma 2 precisare che «è diretto dal Primo Presidente, che può delegare singole articolazioni a magistrati della Corte (ed è sostituito in caso di assenza o impedimento dal Presidente aggiunto)»: è palese che l’uso della congiuntiva e della disgiuntiva fra la parola “giudice” e quella “ufficio” sottende che con la seconda si sia inteso sempre l’ufficio con riferimento alla struttura magistratuale e non anche alla struttura amministrativa. Si è voluto, cioè, indicare che il servizio può essere espletato a beneficio del giudice singolo appartenente all’UPP o della struttura magistratuale complessiva componente l’UPP, senza cioè una specifica correlazione dell’ausilio ad un singolo magistrato dell’ufficio. Nell’espressione “ufficio” non v’è alcun riferimento all’ufficio sotto il profilo amministrativo e, dunque, l’uso delle congiunzioni appare significativo di un riferimento all’ufficio nel senso indicato.
Il comma 3 prevede che dell’UPP faccia parte il Dirigente della Corte, ma, è palese che tale presenza non può essere ritenuta in alcun modo giustificata dal dover – peraltro potenzialmente secondo le Circolari - espletare gli addetti compiti proprio del personale amministrativo, sì da non potersi giustificare detta presenza come espressione della funzione direttiva di quel dirigente sull’espletamento di quei compiti e ciò anche in concorso con quella del P.P.
Infatti, la direzione del costituito UPP ai sensi del comma 2 è espressamente attribuita, come s’è detto, al Primo Presidente, il che comunque porrebbe il Dirigente della Corte in una posizione che in alcun modo potrebbe considerarsi espressione di potere direttivo, o meglio di potere direttivo autonomo e, dunque, di vero potere direttivo.
La presenza del Dirigente della Corte, in realtà, appare espressione e si giustifica solo come un necessario apporto collaborativo: aa) sia per l’assegnazione degli addetti, come lavoratori e, dunque, ai fini dell’incardinamento del rapporto di servizio dal punto di vista dell’Amministrazione, come, del resto imposto dal disposto dell’art. 12, comma 3, del d.l. n. 80 del 2021; bb) sia per la definizione degli aspetti logistici inerenti l’allocazione non solo degli addetti come nuovi lavoratori, ma prima ancora, direi, dello stesso UPP; cc) sia – per quanto specificamente attiene agli addetti, atteso il loro status di lavoratori dipendenti – per la definizione di tutto ciò che inerisce agli aspetti che di tale status sono espressione e come tali debbono considerarsi rilevanti per l’espletamento dell’attività degli addetti (orario di lavoro, ferie, etc.): la presenza del Dirigente della Corte si giustifica per la comunicazione almeno delle linee generali al riguardo, che, naturalmente, possono essere discusse dall’UPP sulla base delle esigenze funzionali della struttura dell’Ufficio per il processo.
Il comma 6, dopo che il comma 5 ha indicato i presidenti non titolari, o i consiglieri coordinatori di singole aree o sottosezioni o dello spoglio e dunque appartenenti alla struttura magistratuale, stabilisce che «di ciascuna articolazione sezionale», istituita ai sensi del comma 4, «fa parte l’unità di personale nominata dal Dirigente della Corte, la quale assicura il raccordo tra lo staff dell’ufficio del processo e la cancelleria della relativa sezione»: come si vede un compito specifico e limitato, il quale conferma la posizione servente della struttura amministrativa rispetto all’UPP e, dunque, anche del dirigente della cancelleria della sezione, che, del resto, se ve ne fosse bisogno, è espressamente implicata dal comma 4, il quale affida la direzione dell’UPP sezionale al Presidente titolare o, in caso di impedimento, al Presidente non titolare più anziano nel ruolo sezionale e prevede che il titolare possa, sentito il Primo Presidente, designare un presidente non titolare.
Come si vede, in alcun modo viene evocata una dirigenza amministrativa nel contesto dell’istituzione dell’UPP e con riferimento al suo funzionamento. L’uso della parola “raccordo” è significativo, in quanto evoca il compito che nell’Allegato all’art. 12 è indicato come ultimo compito degli addetti e del quale ho dato ampia spiegazione.
Con specifico riferimento agli addetti, l’art. 4, comma 4, dopo che nel comma 2 si sono precisate le attività dell’UPP, che all’evidenza sono tutte funzionali al lavoro del “giudice Cassazione” e riguardo alle quali si fa peraltro riferimento all’espletamento «in collaborazione con il personale tecnico e amministrativo», ha espressamente stabilito che essi «saranno destinati ai compiti previsti dall’allegato II, n. 1, al citato decreto legge», così rimandando al disposto legislativo. Il riferimento alla collaborazione con il personale tecnico e amministrativo, se ve ne fosse bisogno, sottende che gli addetti non sono personale riconducibile a quelle categorie.
Ne segue che il decreto del Primo Presidente si è, com’era naturale, mantenuto per gli addetti nella logica emergente dal detto disposto e, peraltro, nel delineare il costituito UPP come struttura che li comprende, ha rimarcato, dal livello apicale a quelli sezionale, che la direzione è di spettanza magistratuale, il che non può non valere a livello applicativo concreto anche per la posizione degli addetti.
Può ancora rilevarsi che il richiamo ai compiti di cui all’Allegato impone di dare rilievo all’esegesi che di essa si è fatta commentando sopra il relativo disposto.
Il decreto del Primo Presidente, dunque, è chiaro nell’escludere qualsiasi ipotesi di attribuzione agli addetti di compiti propri del personale amministrativo. Il decreto non ha in alcun modo recepito le non giustificate estensioni di comiti al settore amministrativo ipotizzate a livello di circolari ministeriali.
Ne consegue che il decreto del P.P. non consente in alcun modo di immaginare che nelle articolazioni sezionali si possa configurare un potere direttivo del dirigente amministrativo della sezione sugli addetti ai fini dell’espletamento di quei compiti, e ciò nemmeno in accordo con il potere del presidente titolare o di chi per lui.
La situazione non è diversa, nell’àmbito sezionale, da quella ascrivibile alla partecipazione del Dirigente amministrativo della Corte alla struttura di vertice dell’UPP e di cui ho detto sopra.
Un potere direttivo del dirigente della cancelleria sezionale – conforme a quanto ho osservato in precedenza - può configurarsi solo agli aspetti inerenti allo svolgimento del rapporto di lavoro degli addetti non con riferimento alle loro funzioni, bensì con riguardo agli aspetti relativi ai diritti inerenti ad esso sul piano degli istituti contrattuali (orario, ferie, permessi, etc.).
E, peraltro, l’esercizio di tale potere deve avvenire necessariamente sulla base dell’ascolto delle esigenze che il Presidente Titolare o chi per lui indica come relative al funzionamento dell’UPP sezionale ed all’apporto del singolo addetto.
5. Conclusioni.
Le considerazioni che si sono svolte impongono di manifestare dissenso da talune ricostruzioni del profilo funzionale degli addetti all’UPP, che, adagiandosi sulle ricordate circolari ministeriali hanno condiviso l’idea che essi siano chiamati anche a svolgere attività amministrative corrispondenti a quelle del personale di cancelleria inquadrato nella fascia corrispondente al loro inquadramento sotto il profilo economico come lavoratori a tempo determinato.
Così, non è condivisibile quanto sostenuto da chi[5] - dopo avere registrato che «la qualifica di addetto è, in primo luogo, ricompresa appieno tra quelle del personale amministrativo e non rappresenta un tertium genus rispetto all’ordinaria dicotomia personale magistratuale-personale amministrativo» e osservato che «la gestione di queste risorse umane (per quanto attiene a diritti patrimoniali e non patrimoniali, inquadramento, disciplina, etc.), quindi, è direttamente regolata dalla normativa statale e contrattuale sul pubblico impiego, salvo le deroghe sopra accennate, marginali rispetto al contesto complessivo ed anzi funzionali alla massima efficienza di utilizzo» ed ancora che «si tratta pertanto di risorse assegnate a un ufficio giudiziario, e poi ad una sua articolazione amministrativa, l’ufficio per il processo, e non a uno o più singoli magistrati, per quanto in concreto possano ritualmente ipotizzarsi legami personali di una qualche stabilità» - ha sostenuto che «la natura “anfibia” degli addetti, allo stesso tempo componenti di una struttura di ausilio all’attività tipica dei magistrati giudicanti e personale competente per le mansioni schiettamente amministrative, direttamente o indirettamente serventi rispetto alla suddetta attività giurisdizionale», per poi trarne la conseguenza che «l’addetto partecipa, sotto la supervisione del presidente di sezione o di altro magistrato, allo spoglio delle nuove iscrizioni, allo studio del fascicolo, alla predisposizione di schemi e di bozze di provvedimenti semplici, alla preparazione dell’udienza e al controllo delle notifiche, alla analisi dei ruoli per verificare serialità di procedimenti, scadenze imminenti e così via; dall’altro, è competente, compatibilmente con l’inquadramento nella terza area professionale e sotto la supervisione del direttore di cancelleria o di altro incaricato/referente, per tutto un corollario di attività amministrative che vanno dallo scarico dell’udienza già espletata (e prima ancora alla stessa assistenza al magistrato in quella stessa udienza, o in altre), alla cura delle notifiche, alla ricognizione delle tendenze giurisprudenziali ai fini dell’implementazione di banche dati locali di merito, nonché agli incombenti di diretta gestione del personale, aumentato enormemente, per quanto attiene ferie, permessi, buoni pasto, controllo delle presenze, organizzazione dei turni, etc.».
Secondo questa opinione saremmo «di fronte, quindi, sia a una rimeditazione del ruolo del magistrato giudicante, diretta a liberarne risorse intellettuali ad oggi sparse in mille frammentarie competenze, sia a una volontà di innovazione dei processi di lavoro all’interno dell’amministrazione giudiziaria, anche mediante l’introduzione di una figura che funga da cerniera tra il momento tipicamente giurisdizionale e l’attività amministrativa che questo momento precede, accompagna e segue».
Pr quanto ho in precedenza osservato, l’opinione, che riflette ed anzi amplifica l’avviso espresso nelle circolari ministeriali, non può in alcun modo essere condivisa, là dove assegna agli addetti addirittura una posizione “anfibia” tra lo svolgimento delle funzioni del giudice e, dunque, del “giudice Cassazione” e quelle del personale amministrativo.
I testi normativi, lo ripeto, non contengono alcun avallo di questa idea che, coerentemente, partorisce poi quella che circa l’impego degli addetti vi sia una sorta di “doppia dirigenza”, quella giurisdizionale e quella amministrativa, nel mentre, invece, poiché non è previsto che gli addetti svolgano, come invece, si sostiene, anche funzioni amministrative proprie del personale della cancelleria, alla dirigenza amministrativa compete solo – come ho detto - un potere direttivo riguardo agli aspetti inerenti alla posizione dell’addetto con riferimento ai diritti ed agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro e, peraltro, tale potere deve esercitarsi, se vi siano spazi di discrezionalità, considerando le esigenze dell’adibizione dell’addetto alle funzioni in seno all’UPP. Dunque, sentito il Presidente titolare o il delegato alla dirigenza dell’UPP sezionale.
Analogo dissenso debbo esprimere da altra opinione che, riprendendo quella di cui ho appena detto, si è mossa nello stesso senso[6].
Mi sembra, in fine, da ribadire che, a livello applicativo presso le Sezioni, il riferito contenuto del decreto del Primo Presidente n. 119 del 2021 debba essere considerato tale da escludere che gli addetti all’UPP, sebbene in funzione di esigenze correlate al funzionamento della struttura sezionale di essa, possano essere impiegati nell’espletamento di compiti di natura amministrativa propri del personale di cancelleria, il che, dunque, esclude che il dirigente amministrativo della cancelleria possa di sua iniziativa e anche con l’assenso del Presidente Titolare o del Presidente da lui delegato, affidare compiti di tale genere.
I provvedimenti adibitori degli addetti ai compiti di cui all’Allegato sono di volta in volta di esclusiva competenza del Presidente Titolare o del Presidente da lui delegato ed eventualmente, sulla base di quanto disposto da essi anche in via generale oppure di volta in volta, di competenza di un magistrato delegato componente dell’UPP.
Il potere direttivo del dirigente di cancelleria concerne solo la gestione dei diritti e delle posizioni degli addetti inerenti al rapporto di impiego a tempo determinato nel senso che ho in precedenza indicato. Detto potere dev’essere esercitato previa necessaria interlocuzione con il Presidente Titolare o il Presidente delegato.
[1] Il decreto del Primo Presidente della Corte n. 119 del 29 dicembre 2021, com’è noto, ha istituito l’UPP anche per il settore penale, sebbene con un’assegnazione ad esso degli addetti di cui al d.l. n. 80 del 2021 più limitata rispetto al settore civile (art. 4, comma 5).
[2] Si veda l’art. 16-octies del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni, dalla l. n. 221 del 2012, introdotto dall’art. 50, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, nella l. n. 114 del 2014, il cui testo nel comma 1, prevedeva l’istituzione dell’UPP presso corti di appello e tribunale ed indicava chi componeva l’UPP e precisava : «(1. Al fine di garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l'innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più' efficiente impiego delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione sono costituite, presso le corti di appello e i tribunali ordinari, strutture organizzative denominate 'ufficio per il processo, mediante l'impiego del personale di cancelleria e di coloro che svolgono, presso i predetti uffici, il tirocinio formativo a norma dell'articolo 73 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, o la formazione professionale dei laureati a norma dell'articolo 37, comma 5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Fanno altresi' parte dell'ufficio per il processo costituito presso le corti di appello i giudici ausiliari di cui agli articoli 62 e seguenti del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, e dell'ufficio per il processo costituito presso i tribunali, i giudici onorari di tribunale di cui agli articoli 42 ter e seguenti del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12.».
[3] Ricordato il richiamo normativo di cui alla nota precedente, riassuntivamente si veda A. DI FLORIO, Il nuovo ufficio per il processo: proposte per la Cassazione, in www.Questione Giustizia.it
[4] Potere già previsto a suo tempo dal comma 2 dell’art. 16-octies citato sub nota 2.
[5] A. LEOPIZZI, Gli addetti all’ufficio per il processo e gli altri nuovi profili professionali previsti dal Progetto Capitale Umano – PNRR. Riflessioni e prospettive, in www.unicost.it
[6] L.R. LUONGO, Le funzioni degli «addetti» per il processo nel sistema della giustizia ordinaria, in www.judicium.it.
Violenza di genere e misure di prevenzione: la valutazione della pericolosità nel contesto delle relazioni familiari
Nota a Corte d’Appello di Bari n. 27405 del 01.06.2022
di Rita Russo
Sommario: 1. La violenza domestica: prevenzione e repressione. - 2. La valutazione del contesto. - 3. L'interesse del minore.
1. La violenza domestica: prevenzione e repressione.
La violenza domestica e di genere è un fenomeno complesso che si è drammaticamente imposto negli ultimi anni alla attenzione del legislatore e degli operatori del diritto. Gli interventi legislativi in materia, in continua sovrapposizione ed aggiornamento, hanno creato un quadro difficile da decifrare, ove si intrecciano misure penali e civili, preventive e riparative. Particolare attenzione è stata riservata alle misure di prevenzione, poiché la violenza all’interno di una relazione familiare di regola non si manifesta subito nelle sue forme più severe, ma segue un andamento crescente (escalation): prima degli atti violenti più severi si presentano segnali d’allarme e indicatori che possono presagire violenze più gravi.
Nel sistema penale, la violenza domestica o di genere viene ricondotta dalla recente legge n. 69 del 2019 (c.d. codice rosso) alle seguenti fattispecie: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.); violenza sessuale, aggravata e di gruppo (artt. 609-bis, 609-ter e 609-octies c.p.); atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.); corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.); atti persecutori (art. 612-bis c.p.); diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p.); lesioni personali aggravate e deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 582 e 583-quinquies, aggravate ai sensi dell'art. 576, primo comma, nn. 2, 5 e 5.1 e ai sensi dell'art. 577, primo comma n. 1 e secondo comma.
Il sistema repressivo è strutturato con completezza e secondo parametri severi, tuttavia la Corte Edu lo ha considerato insufficiente a contrastare il fenomeno in due casi noti, di cui uno molto recente, rimproverando alle autorità italiane di non avere saputo valutare il rischio della escalation della violenza e di non aver adottato idonee misure preventive[1].
Si tratta, a ben vedere, di un rimprovero che riguarda più l'efficienza concreta del sistema che la sua struttura; ed infatti nell'ordinamento giuridico italiano gli strumenti di prevenzione della violenza domestica non solo esistono da molti anni, ma sono stati anche rafforzati ed ampliati di recente.
Per contrastare questi reati sono previste, in ambito penale, sia misure cautelari, che misure di prevenzione. In particolare, per apprestare una difesa anticipata delle potenziali vittime dei reati di questo tipo, si è fatto ricorso alle misure di prevenzione già previste per i delitti di mafia dal D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 estendendone la applicabilità anche alle persone indiziate di maltrattamenti in famiglia (2019) e di stalking (2017), ai sensi dell’art. 4 comma prima lett. i)ter. Le misure di prevenzione sono misure special-preventive, indipendenti dalla commissione di un precedente reato, e da qui la denominazione di misure ante delictum o praeter delictum. Il che comporta una marcata autonomia di queste misure rispetto alle misure cautelari penali e allo stesso processo penale: il giudice deve valutare se le condotte tenute siano sintomatiche della pericolosità sociale del proposto e anche quegli elementi che siano stati acquisiti nel corso di un processo che si è concluso con sentenza di assoluzione possono essere utilizzati ai fini di applicare la misura quando i fatti, pur ritenuti insufficienti a fondare una condanna penale, siano tuttavia in grado di giustificare un apprezzamento in termini di pericolosità[2].
Ciò ha portato la dottrina ad esprimere qualche dubbio sulla compatibilità di dette misure con l’art. 27 della Costituzione e sui presupposti scientifici della prognosi di pericolosità [3], rimarcando la differenza con la disciplina delle misure di sicurezza e delle misure cautelari personali, ove la base del giudizio di pericolosità è la commissione di un previo reato, e quindi il riferimento a una fattispecie incriminatrice determinata e tassativa.
Può di contro osservarsi che diverse sono le finalità del processo penale, che mira a irrogare la pena, e del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione, che mira invece a prevenire condotte delittuose, ma con autonoma configurazione rispetto alle misure di sicurezza.
È vero che vi è una rilevante difficoltà nell'accertamento della pericolosità e nella valutazione del rischio quando non si può muovere da un fatto storico ben definito, ma soltanto da indizi di reato: si rischia infatti di cadere in pericolosi automatismi correlati alla presentazione di una denuncia, specie quando si tratta di reati di rilevante impatto sociale, quale è la violenza domestica e di genere. Ma il rigore con il quale si deve contrastare questo fenomeno non può trasmodare in una applicazione diffusa e indiscriminata delle misure di protezione, perché è sempre necessaria una attività di giudizio, vale a dire di discernimento e distinzione sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.
Il caso esaminato dalla Corte d’appello di Bari con il decreto n. 27405 del 01/06/2022 del 19 maggio 2022 è esemplificativo della difficoltà di rendere un simile giudizio.
Una coppia di coniugi entra in crisi e il marito assume l’iniziativa della separazione chiedendo l’addebito alla moglie; un mese dopo quest’ultima sporge denuncia per maltrattamenti familiari. Mentre il giudizio di separazione segue il suo corso, viene richiesta ed applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. La Corte d’appello di Bari, adita dall’interessato, revoca la misura escludendo la sussistenza di un livello indiziario sufficientemente elevato per giustificare la misura nonché la attualità della pericolosità, e a tal fine valuta anche il contesto familiare e la intervenuta cessazione della convivenza coniugale.
Il decreto offre diversi spunti interessanti.
La Corte più che valutare il fatto in sé e cioè la sussistenza del quadro indiziario e la sua gravità, valuta il periculum, soffermandosi su due punti specifici: esamina il contesto familiare in cui sarebbero maturate le denunciate violenze e tiene in considerazione l'interesse delle figlie minori. Particolare rilievo viene dato alla circostanza che la denuncia penale, mai preceduta da altre richieste di intervento, viene presentata dopo che il marito ha proposto il ricorso per separazione con addebito e si è allontanato dalla casa familiare e che tra le parti non sussiste un'apprezzabile disparità socio-culturale. Si tratta di elementi apparentemente marginali, ma che rivestono invece una certa importanza, poiché la violenza in ambito familiare matura generalmente in un clima di prevaricazione, favorito da una situazione di disparità socio-economica e spesso trova il suo acme quando la vittima cerca di liberarsi del legame contro la volontà del soggetto maltrattante, che invece vuole mantenerlo.
2. La valutazione del contesto.
Le ipotesi di violenza domestica non sempre sono facilmente individuabili in punto di fatto: con essa si intende ogni forma di aggressione fisica, di violenza psicologica, morale economica, sessuale o di persecuzione, attuata o tentata, all’interno di una relazione familiare, o comunque di una relazione intima, presente o passata.
La violenza non necessariamente consiste in atti di aggressioni fisica che lasciano tracce visibili, ma può anche essere psicologica, e ciò significa che per contrastarla non basta il solo allontanamento tra vittima e oppressore, ma occorre impedire che possano essere esercitate pressioni, anche indirette, sulla vittima oppure strategie dirette ad isolare l’offeso dal contesto sociale e dal resto della famiglia.
La violenza può essere economica, ed in tal caso è costituita da una pluralità di comportamenti, tutti volti ad impedire che la vittima divenga economicamente autonoma o a farle perdere l’autonomia economica e quindi ad esercitare il controllo sulla vita del partner tramite il denaro. Vendere la casa familiare, intestare i propri beni a un prestanome, sottarsi continuativamente all’adempimento degli obblighi di collaborazione al ménage familiare, pretendere che la vittima consegni i propri guadagni al soggetto abusante, oppure renda conto minuziosamente delle spese, costituiscono atti di violenza specie quando la vittima non ha alcun autonomo accesso a risorse economiche alternative o supporto da parte della famiglia di origine.
Questo genere di comportamenti può trovare -a seconda dei casi- il suo inquadramento nel delitto di maltrattamenti in famiglia, che si può realizzare, come afferma la giurisprudenza della Corte di legittimità, anche tramite comportamenti aggressivi e prevaricatori, manifestazione della pervasiva volontà prevaricatrice e di controllo, tali da incidere sulle condizioni di vita della persona offesa, costretta a vivere la quotidianità con un senso di turbamento e paura[4].
Il termine “maltrattamento” presenta invero un certo grado di indeterminatezza e per percepircene adeguatamente il significato, rispettando il principio di tassatività, è necessario ancorarlo da un lato ai presupposti di carattere soggettivo e oggettivo che qualificano la condotta, e dall'altro al contesto in cui essa si verifica, in modo da rilevarne un contenuto offensivo compatibile con i principi costituzionali e con l'intera logica del sistema di tutela della famiglia. La caratteristica del reato è quella di punire comportamenti di vessazione fisica o morale non necessariamente qualificabili, se singolarmente considerati, come reato, ma ripetuti nel tempo ed in grado di arrecare offesa, perché la vittima non è un extraneus, ma un soggetto che la relazione familiare pone in condizione di vulnerabilità. All’interno della relazione familiare esistono infatti doveri di solidarietà e protezione che impongono ai loro componenti obblighi positivi, definiti dalla legge, e di astenersi anche da quelle condotte che, di scarso rilevo se tenute nei confronti di un terzo, divengono particolarmente offensive se tenute nei confronti del partner o di un figlio. Ad esempio, secondo la giurisprudenza di legittimità, anche il pubblico disprezzo, che di per sé non è un reato, ove reiterato e tale da infliggere profonde umiliazioni, può costituire reato di maltrattamenti [5]. D'altro canto, è anche vero che all'interno del nucleo familiare la solidarietà comporta necessariamente un certo grado di tolleranza nei confronti delle offese minime (non penalmente rilevanti), che in un rapporto solido e sostanzialmente sano possono essere riparate spontaneamente.
La complessità di inquadramento refluisce anche sulle modalità di accertamento del reato o del suo fumus. Ai fini del processo penale rileva la ricostruzione storica di ciò che è avvenuto. La difficoltà in questo caso consiste prevalentemente nel reperire le fonti di prova e cioè testimoni attendibili e che abbiano assistito al fatto o ne conoscano sia pure indirettamente i dettagli, e documenti affidabili che con il fatto abbiano una stretta correlazione (ad esempio i referti medici). Nei giudizi per l’applicazione di una misura di prevenzione invece – e analogo problema si pone in sede civile per l’applicazione dell’ordine di protezione – la questione non è tanto o soltanto ricostruire il fatto, ma valutare il rischio, cioè rendere un giudizio prognostico su ciò che potrebbe avvenire.
Il giudizio di pericolosità sociale è uno dei più complessi che si possa immaginare, in particolare quando muove da una base fattuale i cui contorni sono ancora incerti.
La base fattuale è comunque necessaria: le limitazioni della libertà personale non possono fondarsi su un mero “processo alle intenzioni” e cioè sull’esame di quei moti che avvengono all'interno dell'animo umano e che non trovano alcuna manifestazione all'esterno: nessun fenomeno che si risolva in interiore homine rileva per il diritto. Ogni prognosi sfavorevole deve essere fondata su elementi concreti, idonei a dimostrare la pericolosità, l’attualità e la probabile condotta futura del soggetto. Si deve quindi muovere da fatti e comportamenti e da questi desumere la probabilità che il comportamento si ripeta o anche progredisca verso forme più gravi di aggressione dei beni protetti dalla norma. In questo modo si traccia il profilo di personalità del soggetto la cui pericolosità si deve valutare; ma sarebbe un errore pensare che si tratti di un esame meramente individuale perché la valutazione del contesto in cui i comportamenti sono tenuti è altrettanto rilevante, e in particolare quando si tratta di reati che, come quello di maltrattamenti, sono definiti dal contesto e presuppongono l'esistenza di una relazione tra vittima e aggressore.
Poiché la violenza domestica si connota essenzialmente come una prevaricazione che assume di volta in volta le forme più varie – violenza fisica, psicologica, economica – occorre fare attenzione a quegli elementi che favoriscono il crescere e il progredire degli atteggiamenti prevaricatori. Tra questi – come messo in evidenza dalla Corte d’appello di Bari – la attualità della convivenza e la condizione di disparità tra le parti.
Ed è determinante la distinzione tra la mera conflittualità, che è una dinamica molto comune nelle relazioni familiari in fase di dissoluzione, e la violenza, posto che la prima presuppone una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche, e di contro la violenza si esercita e si può esercitare perché la relazione è – o divenuta per effetto della violenza – asimmetrica. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di mero conflitto. Per distinguere la conflittualità dalla violenza non deve guardarsi soltanto al comportamento materiale, che potrebbe essere simile nell’uno e nell’altro caso, quanto ai rapporti di forza tra le parti. Ad esempio, la circostanza che la moglie rinunci alla attività extradomestica è un atto di violenza se imposto, è un atto di autonomia privata dei coniugi, che trova il suo riconoscimento nell’art 144 c.c., se frutto di un accordo assunto su posizioni di parità.
Altro elemento di particolare rilievo è la presenza nel contesto familiare di specifici fattori di rischio, quali l’alcoldipendenza, la tossicodipendenza, la disoccupazione, pregressi episodi di maltrattamenti nei confronti dello stesso partner o di partner diverso. Di per sé nessuno di questi fattori è decisivo, poiché ogni caso è diverso dall'altro, ma la loro presenza o assenza orientano il giudizio prognostico sulla pericolosità e quindi devono essere oggetto di indagine da parte del giudice investito della richiesta di una misura di prevenzione.
3. L'interesse del minore.
Altro elemento preso in considerazione dalla Corte d'appello di Bari è l'interesse delle figlie minori della coppia. Sebbene non si tratti di un giudizio che ha per oggetto l'affidamento delle minori, tuttavia vengono presi in considerazione gli effetti che la misura di prevenzione può avere sulla relazione familiare tra il genitore e le figlie. Si fa quindi applicazione del principio secondo il quale se il giudizio riguarda, sia pure indirettamente, la vita del minore, non può prescindersi la considerazione del best interest of the child.
Anche in questo caso rileva la distinzione tra conflitto e violenza.
La violenza nelle relazioni familiari investe di regola anche il minore, spesso nella forma della violenza assistita; il che comporta la necessità di valutare attentamente l’idoneità del soggetto violento ad esercitare le funzioni genitoriali o comunque ad esercitarle senza alcuna limitazione e controllo ed, eventualmente, supporto.
Il mero conflitto tra genitori invece non deve interferire con il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi, ma soprattutto con il diritto a ricevere da entrambi, e non solo dal genitore affidatario, la "prestazione genitoriale" e cioè cura, educazione, istruzione ed assistenza materiale e morale.
Una spinta decisiva alla affermazione di questi diritti è stata data dalla adesione dell'Italia alle Convenzioni internazionali sull'infanzia e in particolare la Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 27 maggio 1991, n. 176, e la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli firmata a Strasburgo il 26 gennaio 1996 e ratificata con la L. 20 marzo 2003, n. 77. Il quadro si completa con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) che all'art. 24, tratta espressamente dei diritti del bambino affermando che "I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità".
Esprimendosi con le parole dall'art. 3 della Convenzione di New York del 1989, si può dire che al fanciullo devono essere assicurate le condizioni perché egli possa svilupparsi in modo sano e normale fisicamente, intellettualmente, moralmente, spiritualmente e socialmente, in condizioni di libertà e dignità e, in ogni decisione che lo riguarda il suo interesse deve essere considerato preminente.
Si esplicita così il principio della “prevalenza” dell'interesse del minore, ma senza trascurare l'importanza del diritto del genitore alla relazione familiare, diritto che pure esiste e che sarebbe irragionevole negare, a maggior ragione considerando che gli stessi diritti del minore sono attuati in chiave relazionale. È infatti da chiedersi se l'interesse del minore che il giudice deve tenere in considerazione è veramente “superiore”, cioè prevalente su qualsiasi altro interesse o soltanto il migliore, vale a dire che tra più scelte deve farsi quella che meglio garantisce il suo benessere psicofisico. A questa domanda se ne lega un'altra, sul se, quando e in che misura questo interesse vada bilanciato con ulteriori e diversi interessi di pari rango. La relazione familiare, infatti, non è un diritto solo del minore, ma anche dei genitori.
Un tempo si parlava di interesse superiore della famiglia, cui si potevano (e dovevano) sacrificare gli interessi individuali. La prospettiva si è oggi in un certo senso rovesciata, poiché si parla non più di interesse superiore della famiglia, ma di superiore o prevalente interesse del minore, perpetrando così un errore di fondo, quello di applicare alla famiglia la regola del conflitto, da dirimere individuando una parte vincente ed una soccombente, anziché promuovere la cultura della mediazione. Con la doverosa precisazione che, anche quando si parla di mediazione, è decisiva la distinzione tra violenza e conflitto. La mediazione non deve essere avviata nei casi di violenza familiare, come peraltro prevede la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia con legge 77/2013. Invece, nei casi di conflitto, la mediazione può essere particolarmente utile per riavviare il colloquio tra i genitori e aiutarli a trovare da soli la via migliore per continuare ad esercitare la responsabilità genitoriale, nell’interesse dei figli minori, nonostante la separazione.
In ogni caso, la decisone della interruzione dei rapporti tra i genitori e figli è una questione assai delicata, che non può essere regolata da automatismi, poiché la interruzione della relazione tra genitori e figli sul piano giuridico, ma anche naturalistico, si giustifica solo in funzione di tutela degli interessi del minore. In questi termini la giurisprudenza di legittimità ha affermato il giudice civile deve valutare autonomamente sia sotto il profilo materiale, sia sotto quello della potenziale dannosità per l'equilibrato sviluppo psicofisico del minore, la rilevanza dei comportamenti penalmente censurabili ascritti a un genitore ancora oggetto di accertamento in sede penale[6].
[1] Corte Edu, 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, il testo in lingua italiana in www.giustizia.it; Corte Edu 7 aprile 2022, Landi c. Italia, in https://hudoc.echr.coe.int
[2] Cass. pen. sez. II, 05/04/2022, n.22732; Cass. Pen. sez. II, 18/01/2022, n.8166
[3] Cfr. anche per i riferimenti bibliografici, PETRINI, Le misure di prevenzione personali: espansioni e mutazioni in Dir. Pen. e Processo, 2019, 11, 1531
[4] Cass. pen. sez. VI, 30.05.2022, n.27166
[5] Cass. pen. Sez. VI, 12.10.2021, n. 2378
[6] Cass. civ. Sez. I Ord., 19.05.2020, n. 9143
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