ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Valerio Onida e la nascita della Scuola superiore della magistratura
di Ernesto Aghina, Beniamino Deidda, Cosimo D’Arrigo, Giacomo Fumu, Giovanna Ichino, Giuseppe Meliadò e Raffaele Sabato
Valerio Onida è stata una persona straordinaria, nel senso letterale del termine.
Abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo e di condividere con lui (e con Massimo Confortini, Giulio Garuti, Giovanni Guzzetta e Giorgio Spangher), il breve ma intenso quadriennio di fondazione ed esordio della Scuola superiore della magistratura, che lo vide come Presidente: Valerio era dotato di qualità che appaiono talora inconciliabili fra loro e che in lui coesistevano, rendendolo una persona assolutamente non convenzionale.
Era un uomo mite, dotato di una grande umanità e capacità di ascolto delle ragioni altrui e, d’altro canto, era testardo e intransigente quando riteneva che fossero in gioco dei diritti da difendere e quando intendeva sostenere fino in fondo le tesi in cui credeva .
Gentile e sorridente con tutte le persone che incontrava, dalle più semplici alle più erudite, ma anche capace di notevole severità e rigidità, quando riteneva di trovarsi in presenza di scorrettezze o di persone che non facevano bene il loro dovere.
Aveva un grande rispetto per le istituzioni democratiche, sia sotto il profilo sostanziale che formale e protocollare, e aveva cura nel mantenere ottime relazioni con le stesse, ma allo stesso tempo non tollerava interferenze indebite da parte dei rappresentanti di altre istituzioni sulle decisioni dell’istituzione per cui operava.
Era sempre puntuale ed estremamente rispettoso degli orari prefissati per evitare inutili sprechi di tempo (nelle riunioni del comitato scientifico mal tollerava le digressioni o la distrazione dei componenti) e però aveva una disponibilità senza limiti nel dedicare il suo tempo a chiunque gli chiedesse un consiglio, un aiuto personale o giuridico, come ben ricordano i giovani magistrati in tirocinio presso la Scuola.
Era uno studioso e un uomo di grande uomo di cultura, ma era anche molto concreto e capace di organizzare il lavoro suo e altrui e di parlare delle cose più semplici della vita quotidiana; sapeva scherzare su tutto ed era dotato di grande ironia e autoironia.
Quanto segue è testimonianza corale di un ricordo affettuoso e commosso di un’esperienza che, forse anche in ragione delle difficoltà che abbiamo dovuto affrontare insieme, ci ha unito in un vincolo di amicizia che ha valicato il mandato.
Abbiamo conosciuto tardi Valerio, in occasione dell’insediamento del comitato direttivo della SSM, il 24.11.2011.
Naturalmente, come tutti quelli che masticano un pò di diritto, sapevamo chi era, quanto fosse raffinato il suo modo di accostarsi alla Costituzione e anche eccezionale il suo contributo agli studi di diritto pubblico e costituzionale.
Il nostro primo contatto fu di conseguenza cauto e rispettoso, preoccupati come eravamo di non essere all’altezza del confronto con un personaggio di tale livello.
Esitazioni tutte evaporate rapidamente: Valerio era capace di annullare ogni soggezione, aveva una semplicità di modi e un calore umano che mettevano a proprio agio ogni interlocutore.
La cortesia sorridente, il suo sguardo rasserenante, i toni pacati con cui si confrontò con noi fin da subito fugarono ogni timore o preoccupazione e, nello stesso tempo, accrebbero l’attesa ed il desiderio di affrontare insieme a lui le difficoltà che il nostro agire avrebbe dovuto incontrare.
Era così Valerio Onida, naturalmente gentile, disponibile al dialogo “colto” ed alla confidenza amichevole; ma anche rigorosamente “essenziale”, in tutte le sue manifestazioni.
Fu subito chiaro che Valerio era perfettamente consapevole della difficoltà di far partire un’esperienza del tutto nuova per la formazione dei magistrati nel nostro paese, che avesse un carattere e un respiro ‘europeo’.
Nei quattro anni della sua direzione non lo abbandonò mai l’idea che si trattasse di un’impresa da “pionieri”, piena di difficoltà e incerta nel suo esito.
Sapeva bene che il C.S.M. non aveva ancora del tutto ‘elaborato il lutto” per la perdita di titolarità in materia di formazione dei magistrati, ma, con la signorilità che lo distingueva, creò subito un clima di collaborazione e di fiducia, che per lui voleva dire assoluto rispetto delle competenze di ciascuno, fermezza nella difesa dell’autonomia della Scuola ed esplicito riconoscimento delle prerogative del C.S.M. previste dalla Costituzione.
Come ricordato in precedenza, il primo comitato direttivo della Scuola fu costituito nel novembre del 2011.
Era un atto dovuto anche per garbo istituzionale nei confronti del Ministro della Giustizia, la professoressa Severino, che aveva nominato, dopo varie tribolazioni, anche i componenti di sua competenza.
Ma nessuno avrebbe scommesso un soldo sul fatto che la Scuola decollasse davvero e in molti, forse, se ne auguravano il definitivo naufragio. Lo stesso C.S.M., che aveva organizzato la cerimonia di insediamento, per oltre sei mesi si guardò bene dal collocarci fuori ruolo (come espressamente previsto dalla legge), forse opinando che la Scuola non sarebbe mai partita.
Non possedevamo null’altro che il decreto di nomina. Niente sede, niente fondi, niente personale e, soprattutto, niente segretario generale, senza il quale non potevamo attivare le sedi, sottoscrivere il contratto di tesoreria, assumere il personale. Ma per nominare il segretario generale era necessario approvare lo statuto della Scuola.
Il giorno stabilito per la riunione “carbonara” (ci adunavamo ospiti informali del Ministero e di una gentilissima dottoressa che ci dava una mano per verbalizzare le sedute) era il 6 febbraio 2012.
La sera precedente fu diramata un’allerta meteo. A Roma venne disposta la chiusura di tutti gli uffici pubblici. Noi provenivamo da ogni parte dello Stivale e si prevedevano gravi disagi per i viaggiatori. Con un rapido giro di telefonate decidemmo che era inevitabile differire la convocazione.
Avevamo fatto i conti senza l’oste: “Non se ne parla neanche per scherzo! – esclamò Valerio – due fiocchi di neve non hanno mai fatto male a nessuno!”.
E poi, incredulo come San Tommaso, aggiunse: “È il solito allarmismo giornalistico. Vedrete che sarà tutto aperto”.
La mattina dopo, in un clima siberiano, arrivammo in una Roma spettrale, disabitata, costellata da cumuli di neve ai bordi delle strade. Ma, come aveva previsto Valerio, che evidentemente aveva avuto rassicurazioni da colà dove si puote ciò che si vuole, non nevicava più. Meno ben informati, o forse più opportunistici, erano stati al Ministero: via Arenula era sprangata. E al Palazzo dei Marescialli le cose non andavano meglio: c’era solo il piantone che non aveva l’autorizzazione a farci entrare.
Valerio non si perse d’animo e bussò alle porte della Consulta, nella convinzione che almeno questa non si sarebbe fatta intimidire dalle previsioni allarmistiche di qualche meteorologo troppo zelante. Ennesima delusione: “Queste cose quando c’ero io non sarebbero mai accadute!”, commentò stizzito.
Insomma, eravamo un manipolo di spaesati che scorrazzava inutilmente per Roma – in cuor nostro emuli di Fogar e del suo fedele Armaduk – guidati da un Presidente pervicacemente deciso ad approvare lo statuto ad ogni costo, quando Giuseppe Meliadò si fece timidamente avanti: “Possiamo provare a casa mia. Non ho sedie per tutti, ma almeno stiamo al caldo”.
Entrammo quindi in quell’appartamento che, forse complice la felicità di aver trovato riparo, ci sembrò ben più accogliente e, soprattutto, molto meglio arredato di quanto il padrone di casa non avesse lasciato intendere. D’altro canto, conoscendo il suo gusto per l’arte (che successivamente trovò modo di esprimersi al meglio nella scelta dei lampadari d’epoca e dei grandi quadri degli Uffizi che tuttora arredano le stanze di Castelpulci), non poteva essere diversamente.
Così venne approvato lo statuto della Scuola superiore della magistratura.
Grazie Valerio. Non per il fatto in sé – lo statuto l’avremmo potuto tranquillamente approvare la settimana successiva – ma per una lezione di vita che, dietro l’apparente caparbietà, insegna come l’adempimento dei doveri d’ufficio non debba subire deroghe, mai.
Valerio pretendeva un estremo rigore nella gestione delle risorse pubbliche, perché i soldi dei cittadini andavano spesi bene e non sprecati
Per noi del direttivo era fonte di qualche amichevole sorriso quel suo essere attentissimo, al limite della pedante pignoleria, al bilancio della Scuola nella precisa ottica del contenimento della spesa di qualsiasi tipo gravante sull’ente.
Il suo personale rigore morale lo portava pure ad escludere in radice che il servizio potesse risolversi in qualsiasi forma di comodità superflue per chi al servizio partecipasse in qualunque modo: e dunque componenti del Comitato direttivo (lui per primo, ex Presidente della Corte costituzionale), docenti, partecipanti ai corsi viaggiavano sui treni tutti in seconda classe ed avevano precisi (e contenuti) limiti di spesa per il vitto. Regole inderogabili, al cui rispetto prestava la massima attenzione.
D’altronde Valerio era estremamente sobrio nella sua vita privata (viaggiava con i mezzi pubblici, o con le biciclette e le automobili in car sharing).
Ci piace rievocare un episodio divertente, perché proprio sul tema per il quale mostrava particolare sensibilità e rigore, organizzammo un riuscito scherzo al Presidente.
Si era tenuto un importante corso in comune con il Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, che rappresentava un inedito raccordo di conoscenza fra magistratura e servizi segreti, che si era svolto in campo “neutro” (Scuola delle forze di polizia) sicché non si poté usufruire del normale servizio mensa della nostra Scuola, la quale dovette regolare la quota di sua competenza della fattura emessa dal fornitore del catering.
Preparammo un documento fiscale falso con l’indicazione di un importo spropositato da portare all’approvazione del Comitato direttivo e lo sottoponemmo al Presidente.
La sua reazione fu quella che si aspettava: ci rimproverò più che aspramente per l’eccessiva spesa e chiese subito con una certa energia che gli indicassimo nome e recapito telefonico del fornitore per informarsi, protestare e chiedere la riduzione del conto: e lo avrebbe fatto, se sul tablet di uno di noi non fosse improvvisamente comparsa una grande scritta: sei su “Scherzi a parte”.
La tensione del momento si stemperò in un disarmante sorriso.
Il suo rigore amministrativo confliggeva con un’enorme generosità personale sia nel finanziare buone cause (sono innumerevoli le iniziative, che ha co-fondato o finanziato, a favore della società civile, o per la tutela di detenuti o degli immigrati), che nello spendersi gratuitamente per difendere persone indigenti davanti all’Autorità giudiziaria, o per sostenere questioni di principio avanti alla Corte Edu.
La nascita della Scuola fu un percorso ad ostacoli, e Valerio, insieme a noi tutti, non faceva nulla per aggirarne qualcuno.
Decidemmo, pertanto, di iniziare l’attività della Scuola, quando mancava un po’ di tutto, salvo un fermo ottimismo della volontà, da quanto vi era di più difficile: il tirocinio dei MOT, che Valerio preferiva chiamare uditori giudiziari, in quanto per lui il vizio capitale di un magistrato, e tanto più di un magistrato giovane, era l’incapacità di ascoltare.
Arrivarono pertanto i MOT a Scandicci, e noi capimmo subito che vi era aria di sedizione: i loro affidatari, con qualche pregiudizio verso la nascente Scuola, al pari di tanti altri colleghi, avevano detto ai giovani colleghi che a Scandicci avrebbero perso tempo, prezioso per la loro formazione, e che se volevano veramente imparare dovevano stare negli uffici, a confrontarsi con i “veri problemi della giurisdizione”.
La mattina di quel tanto atteso “primo giorno di Scuola” che inaugurò la formazione iniziale vide Valerio vittima di un non lieve incidente: per una caduta accidentale nella camera di albergo, Ernesto Aghina lo accompagnò d’urgenza in ospedale a Firenze, dove gli venne praticata una medicazione per una profonda ferita al capo.
Inutili tutte le raccomandazioni alla prudenza, volle comunque essere presente alla Scuola per portare il suo saluto ai m.o.t. che, partecipi dell’accaduto, lo gratificarono (con tutto il suo “turbante” di bende) con un lungo ed affettuoso applauso.
Facemmo di tutto per accogliere i neo magistrati al meglio, per non trasmettere loro “ansia di prestazione” (anche di questo si lamentavano, oltre che degli alberghi e della locomozione), e a poco a poco cominciarono ad apprezzare, oltre alle serate fiorentine, l’austero Valerio che prendeva la tranvia insieme a loro, la descrizione della storia della villa di Castelpulci, i nostri impareggiabili primi tutori, il piacere di conoscersi e di conoscere, attraverso le narrazioni degli altri, uffici e esperienze tanto diversi fra loro, che facevano costatare come anche per la magistratura valesse la verità scomoda del protagonista delle “Lettere persiane”: “non ho mai creduto che i confini del mio paese fossero i confini della mie conoscenze”.
Sta di fatto che un qualche risentimento covava (perché mai perdere tempo con lo stage nelle carceri? E che ce ne importa se negli altri paesi lo fanno, e addirittura fanno gli stage anche negli studi degli avvocati?) ed un giorno il comitato direttivo ricevette una lettera anonima (inviata anche ad un quotidiano), che in pratica ci accusava di sperperare il denaro dello Stato.
Peggiore accusa non si poteva muovere a Valerio che, senza un attimo di esitazione decise di convocare tutti i ragazzi nella sala grande della Scuola.
Tutti deprecarono l’accaduto, molti restarono silenti, ma per la prima volta ci accorgemmo che il fronte del dissenso stava incominciando a sgretolarsi, che la Scuola stava iniziando a dare i suoi primi frutti, a far passare il suo messaggio di apertura, di confronto e di modernità.
Una ragazza si alzò e disse “noi siamo le cavie della Scuola”, replicò Valerio “voi siete insieme a noi i MOT fondatori”.
E da allora in poi i ragazzi di quel corso, e di quelli immediatamente successivi, si fregiarono del titolo di “MOT fondatori” e Valerio continuò nella guida insieme sapiente, plurale ed aperta all’esterno dell’attività didattica in una fase ancora del tutto sperimentale
Valerio era sempre attento al tema carcerario, praticando “in incognito” e come volontario attività di consulenza giuridica (gratuita) dei detenuti negli istituti penitenziari milanesi.
Le sue visioni quale giurista ancorato al dettato costituzionale in tema di funzione rieducativa della pena, unitamente forse alle sue convinzioni personali di matrice cattolica e progressista, gli costarono anche sofferenze personali allorché volgeva al termine mandato di Presidente della Scuola.
Si verificava infatti un episodio emblematico agli inizi del febbraio 2016, mentre era ormai scaduto da fine 2015 il mandato del Comitato direttivo della SSM. La stessa determinazione della durata del Comitato “Onida” aveva formato oggetto di una polemica istituzionale, culminata in una delibera del CSM del 1 giugno 2015, e che non rievochiamo ma che un giorno si potrebbe separatamente narrare: i componenti del Direttivo avevano accettato l’insediamento nella carica in una cerimonia di fine novembre 2011 – allorché nulla esisteva di ciò che oggi definiamo Scuola - ma i componenti togati erano stati posti a disposizione da parte del CSM, che aveva il potere di decidere, solo nel giugno 2012, mentre i corsi venivano inaugurati, a tempo di record per gli standard italiani nell’institution building, nell’ottobre 2012.
Nel clima tempestoso che ha accompagnato la prima parte della vita della Scuola, per intuibili ragioni, il CSM con la delibera predetta – che il Comitato “Onida” comunque non impugnava - riteneva che il quadriennio decorresse…dalla cerimonia iniziale, così che il Comitato terminasse il mandato quanto prima.
In questa congerie non certo istituzionalmente tranquilla Valerio Onida, pur a mandato scaduto, era ancora entusiasta del lavoro nella formazione dei magistrati. Era però stanco per le difficoltà incontrate.
Era d’altronde reduce da un altro forte sgarbo istituzionale: per ragioni ancora tutte da chiarire il Comitato direttivo presieduto da Onida – che come detto era stato fatto scadere anzitempo a fine novembre 2015 – non era stato tempestivamente sostituito, in modo da rendersi applicabile la nota legge contro la “prorogatio” (n. 444 del 1994), che disponeva la “prorogatio” di soli 45 giorni limitata all’ordinaria amministrazione, dopo di che scattava la tagliola di un severo regime di nullità degli atti. Decorsi i 45 giorni, quindi, solo agli inizi del 2016 fu fatto insediare il nuovo Direttivo, che non poté ricevere un formale passaggio di consegne. Soprattutto, non vi fu alcuna celebrazione e/o cerimonia di ringraziamento.
La relazione quadriennale che, in logica di “rendicontazione”, il Comitato aveva predisposto non poté avere alcuna visibilità. Valerio Onida doveva uscire di scena in silenzio. Come da suo stile, solo privatamente alluse a tale sgarbo e alla sofferenza conseguitane.
Non invidiabile, del resto, era la posizione dei nuovi componenti, chiamati a eseguire una immissione in possesso “da soli”. Onida ritenne di surrogare con una sorta di chiacchierata “privata” a Scandicci, in una sola giornata, al fine di stabilire un contatto con almeno alcune delle persone che sarebbero subentrate; si era poi reso disponibile a presenziare a qualche corso in una logica di transizione. Almeno alcuni dei nuovi componenti del Direttivo soffrivano molto delle condizioni in cui si era collocato il loro rapporto con il CSM (come dirà il presidente Silvestri il 24 novembre 2021 – v. infra).
Si deve al riguardo ricordare che, sempre in virtù della cennata delibera del 1 giugno 2015, i nuovi componenti nominati dal CSM avevano dovuto sottoporre ad esso, in vista della nomina, un “progetto culturale e organizzativo” della Scuola, che illustrasse “i principi e le linee di sviluppo proposte dall’aspirante per la progettazione e lo svolgimento della formazione, anche in relazione alle competenze che spettano al CSM e, dunque, al rapporto di collaborazione istituzionale con l’organo centrale di autogoverno” (sottolineatura aggiunta); un atto questo che, a fronte di chiare norme primarie in tema di autonomia della SSM, fu inteso immediatamente come un actus submissionis, per invertire il trend autonomistico di Onida.
Gli eventi di febbraio del 2016 avrebbero riguardato – guarda caso – proprio il tema dell’autonomia didattica della Scuola.
La legge (d. lgs. n. 26 del 2006) prevede che il CSM e il Ministro della Giustizia forniscano alla Scuola semplicemente “linee programmatiche” (art. 5), non vincolanti, circa il programma annuale di attività, su cui il Comitato direttivo della stessa Scuola delibera autonomamente, posta l’indipendenza dei componenti dagli organi che li hanno nominati (art. 8). Come era oramai consuetudine, pervenute le linee programmatiche, già al finire del 2015 la Scuola, con provvedimento unanime del Comitato direttivo, aveva del resto lanciato e ottenuto anche le domande di partecipazione a tutti i corsi dell’anno da parte dei magistrati, ammessi in base a nota procedura informatizzata.
Tra questi corsi ve ne era uno, calendarizzato nel periodo post-transizione (primi giorni di febbraio 2016) sul tema «Giustizia riparativa e alternative al processo e alla pena».
Il tema era chiaramente innovativo: sei anni fa non c’era certo la consapevolezza attuale sulle problematiche della giustizia riparativa. Vi erano, però, raccomandazioni del Consiglio d’Europa, esperienze di altri paesi e, soprattutto, e ciò contava molto per un Comitato direttivo presieduto da Onida, esisteva un dettato costituzionale arricchito da pronunce della nostra Corte costituzionale, che chiaramente indicavano una tendenza.
Un punto di non ritorno sul tema, in Italia, si era avuto pochi mesi prima della programmazione del corso: il 27 settembre 2015 – in ambienti prossimi a quelli cui culturalmente apparteneva Valerio Onida – su iniziativa di un padre gesuita, Guido Bertagna, e alla presenza dell’arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi (nominato dal Papa in questi giorni Presidente della CEI), si era svolto un evento (inserito nell’annuale festival francescano) in cui, ricordandosi la visita di Francesco d’Assisi al sultano d’Egitto al-Malik al-Kamildi, si narrava di un esperimento di giustizia riparativa: vari incontri tra vittime e responsabili della lotta armata degli anni ’70, tra le quali Agnese Moro e Adriana Faranda, che presenziavano a Bologna.
Un mese dopo, nell’ottobre 2015, sempre con Agnese Moro e Adriana Faranda, veniva poi presentato a Milano il volume – “Il libro dell’incontro” – che, possiamo oggi dire con il senno di poi, cambiava la storia d’Italia in argomento.
In esso il predetto padre gesuita Guido Bertagna, con il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzucato, narravano il cennato ruolo di mediazione da essi svolto negli anni fra vittime e responsabili della lotta armata. Il cambio di paradigma era quello di affiancare al desiderio di “sapere – legittimo, anche a causa di verità giudiziarie spesso insoddisfacenti, come il libro chiariva – anche quello di “capire” (dando ai protagonisti la possibilità di “fare i conti”) il terribile periodo degli «anni di piombo», in un’idea di giustizia che non si esaurisce nella pena inflitta ai colpevoli. L’idea della ricomposizione di fratture, che comunque restano, si ispirava all’esempio del Sud Africa post-apartheid, citandosi anche i predetti testi internazionali sulla giustizia riparativa.
Sulla scia dell’elaborazione del libro, di matrice assai prossima alle convinzioni di Valerio Onida, e di un’ampia preesistente collaborazione della Scuola con i centri di ricerca cui facevano capo Ceretti (il Centro nazionale di Prevenzione e Difesa sociale) e Mazzuccato (il Centro Studi «Federico Stella» sulla Giustizia penale e la Politica criminale), alcuni componenti del Comitato direttivo avevano avuto modo di notare le iniziative di settembre-ottobre 2015, ritenendo imprescindibile che il luogo di elaborazione culturale dei magistrati – la Scuola – non restasse indifferente alla proposta. Di qui la programmazione, per i primi giorni di febbraio 2016, del predetto corso sul tema «Giustizia riparativa e alternative al processo e alla pena».
La predisposizione del corso era nota ovviamente da prima della scadenza del Comitato direttivo presieduto da Valerio Onida. Ma solo una volta insediatosi il nuovo Comitato direttivo, a distanza di pochi giorni dal previsto inizio del corso, sulle mailing list di magistratura nascevano polemiche, che venivano subito riflesse sulla stampa. Intervenivano inizialmente (in maniera che, sia detto chiaramente, per noi che scriviamo è del tutto comprensibile) magistrati che avevano avuto congiunti o colleghi vittime degli anni di piombo, trovando inaccettabile l’invito a Scandicci di ex terroristi come la Faranda e chiedendosi perché, oltre alla Moro, non fossero state invitate anche vittime che avessero un approccio non perdonista.
Intervenivano poi anche non magistrati: Elisabetta Casellati, allora consigliere laico del Csm, riteneva, come riportato da “Il Sole 24 ore” il 3 febbraio 2016, che “su un'iniziativa così importante ci sarebbe voluta più attenzione e meno leggerezza”.
Se tutto ciò era comprensibile, quello che invece apparse incomprensibile, in particolare a Valerio Onida, fu ciò che avvenne a livello istituzionale, a fronte del principio di autonomia della SSM: il Comitato di presidenza del CSM, con una inedita iniziativa, esprimeva – come sempre riportato dalla predetta fonte di stampa - «dissenso per la decisione della Scuola della magistratura, appresa da notizie di stampa, di invitare a un prossimo incontro di formazione dei magistrati italiani ed europei Adriana Faranda e Franco Bonisoli». L’auspicio era quindi che il nuovo Comitato direttivo della Scuola volesse “rivalutare l'opportunità di tale scelta”.
Come sempre riportato nel predetto articolo di stampa, Valerio Onida difendeva la scelta della Scuola; come indicato dall’articolista, Onida “non vede[va] alcuno scandalo nell’invito perché si tratta[va] di un corso sulla giustizia riparativa «in cui si inserisce il racconto di un'esperienza particolare e molto seria, che ben si presta a stimolare la riflessione in una sede come quella della Scuola della magistratura». “Servirà per «parlare di una esperienza che ha coinvolto diverse persone, tra parenti delle vittime e colpevoli, che da anni si sono ritrovati per parlare e comunicare su base volontaria». “Chi protesta, conclude Onida, sembra pensare che «la Scuola della magistratura non possa essere aperta a ”simboli del male”, ma questa è una concezione feticistica».”
La stampa riportava nei giorni successivi come finì la cosa: il nuovo Comitato direttivo della Scuola sottolineava in una nota di aver preso atto “delle posizioni espresse, anche con dolore, da numerosi magistrati e familiari delle vittime sull'inopportunità di coinvolgere nella formazione della Scuola persone condannate per gravissimi reati di terrorismo, nell'ambito del corso 'Giustizia riparativa ed alternative al processo e alla pena». Questa iniziativa «è ormai inevitabilmente condizionata - prosegue la nota - nella sua attuazione dalle discussioni delle ultime ore, che hanno visto anche l'intervento del Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura». «Pur dovendo precisare che l'incontro non configurava un'attività didattica dei signori Bonisoli e Faranda, ma solo la testimonianza di un percorso riparativo, i cui protagonisti sono le vittime dei reati, e pur riconfermando la volontà della Scuola di investire nella formazione della giustizia riparativa”, il Comitato direttivo decideva - concludeva il comunicato - di annullare l'incontro, ritenendolo inopportuno.
I magistrati di sorveglianza presenti al corso, di fronte all’annullamento della sessione, reagirono con una muta protesta.
Il vulnus inferto alla Scuola, e in particolare a Onida, non fu affatto seguito da un affossamento del dibattito sulla giustizia riparativa. Semmai, il contrario.
Un anno dopo il libro fu presentato in Senato, alla presenza delle stesse persone (ex terroristi) che non riteneva potessero presenziare in un altro luogo “istituzionale” come la Scuola. Presenziarono anche ministri della Repubblica.
Oggi la giustizia riparativa, grazie a iniziative della Ministra Cartabia, è diventata addirittura la priorità della Presidenza italiana del Consiglio d’Europa nel 2022, mediante un apposito vertice ministeriale di 47 Stati a Venezia.
Ma ciò che più conta è che Valerio Onida, pur ormai malato, è riuscito il 24 novembre 2021 a sentirsi chiedere scusa per quello sgarbo.
Onida presenziava – alquanto provato nel fisico ma lucidissimo ed energico nella mente - alla cerimonia di celebrazione, a Scandicci, del decennale dalla fondazione della Scuola ove, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella e di nuovi componenti sia del CSM sia della SSM stessa, il tempo trascorso consentiva di porre gli eventi del 2016 nella giusta prospettiva.
Ciò è avvenuto attraverso le nobili parole del prof. Gaetano Silvestri, successore di Valerio Onida sia nella presidenza della Consulta sia in quella della Scuola, il quale dedicava all’episodio che stiamo narrando la massima parte del suo intervento in quella sede, traendone spunti sia sui compiti della Scuola sia sulla collaborazione CSM-SSM. Opportunamente la SSM ha ripubblicato il link al video del decennale per commemorare Onida nel giorno della sua scomparsa: invitiamo tutti ad ascoltare sia Onida sia Silvestri (oltre gli altri interventori).
Circa l’episodio narrato il presidente Silvestri ricordava come egli e il suo Comitato direttivo fossero appena “entrati in funzione”, senza aver fatto in tempo a “guardar[si] intorno”, allorché si verificò la “vicenda del corso sulla giustizia riparativa” e arrivò loro l’“ukaze”, il “precetto del Comitato di presidenza del CSM” che “intimava a non realizzare [il] corso”, che aveva l’”intento di percorrere vie nuove” manifestando un “atto di autonomia e di indipendenza della Scuola che intendeva realizzar[lo]”.
Gaetano Silvestri dava atto a Onida che nella “intimidazione” vi erano “remore … ampiamente superate o in via di superamento”, e traeva conferma dagli eventi del 2016 di una visione criticabile della Scuola come “coda interna della magistratura, ancella subalterna all’organo di garanzia” e di una “idea della giustizia penale” quanto meno “non aggiornata, per usare un eufemismo”, entrambe “botte formidabili all’indipendenza della Scuola”.
Ammetteva che il comitato direttivo da lui presieduto aveva fatto “un passo indietro che probabilmente oggi non verrebbe fatto”, che gli “costò moltissimo”, con “sofferenza nel dover cedere di fronte a quella invasione violenta”. Organizzare il corso sulla giustizia riparativa configurava “un merito della Scuola”, e il suo annullamento “un demerito di cui [egli] si assum[eva] la responsabilità”.
Valerio è stato un punto di riferimento importantissimo per tutti quanti hanno avuto la fortuna di incontrarlo e di lavorare con lui ed è stato capace di trasmettere l’ esempio di una vita piena di valori e di principi da non disperdere. Nonostante la malattia, fino a quando le forze glielo hanno consentito, non si è mai risparmiato ed ha dedicato agli amici , alla Scuola e alle sue altre attività tutte le energie disponibili e sempre con lo stesso entusiasmo, ad esempio, prendendo parte, solo poche settimane prima di morire, alla tavola rotonda finale del Progetto europeo Re Justice dell’ Alta Scuola Federico Stella e della SSM sulla giustizia riparativa, o, ancora, dando il suo prezioso contributo nelle riunioni dello Sportello giuridico della Casa di reclusione di Bollate .
Crediamo che l’opera di Valerio Onida abbia avuto una straordinaria importanza per la definitiva affermazione dell’autonomia della Scuola Superiore della Magistratura e per le sorti della intera Magistratura italiana. E questo si deve alla sua visione straordinariamente ampia, alla finezza del suo pensiero e alla capacità di non fermarsi di fronte alle tante difficoltà.
Tuttavia Valerio non è stato solo uno straordinario giudice e Presidente della Corte Costituzionale, un professore universitario amato dai suoi allievi, un avvocato autorevole ed apprezzato: è stato anche un appassionato partecipante alla vita civile e, in senso ampio, politica del suo tempo.
Non si è mai tirato indietro di fronte alle battaglie più impegnative, specialmente di fronte a quelle in difesa della Costituzione.
Quando, pochi mesi dopo la fine dell’esperienza alla Scuola della magistratura, si dovette affrontare la campagna referendaria per la proposta “renziana” di modifica di gran parte della Costituzione, iniziò a girare l’Italia con l’energia che lo ha caratterizzato fino alla fine, spiegando con la consueta pacatezza e l’inimitabile finezza giuridica, che quella riforma avrebbe snaturato la nostra Costituzione, forse il più grande amore della sua vita
Abbiamo voluto bene al nostro Presidente, reincontrandolo dopo la ripresa dell’attività giudiziaria, e lo ricorderemo così, capace di battersi con giovanile energia per le cose in cui credeva, e non potremo mai dimenticare la sua mitezza (impressa nel suo timido sorriso che lo ha sempre accompagnato e che resta scolpito in tutte le sue immagini e nella nostra memoria) che, insieme alla fermezza sui principi, ne faceva una persona memorabile.
Vogliamo ricordare l’ultimo messaggio che inviò a tutto il comitato direttivo, l’ultimo giorno della sua attività (il 9.1.2016):
Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Ecco, la nostra forza deliberante svanisce……La carrozza diventa zucca (zucca gialla, buona!) e chi troverà sulla scala una scarpina di cristallo (o dodici scarpine di cristallo?) si domanderà dove è il piede che la calzava. Dodici, numero magico: sei G, una E, una C, una R, una B, un M, una V. Arrivederci!”
La sottile linea rossa tra propaganda e crimine internazionale
di Ezechia Paolo Reale
L’informazione indipendente e libera è una risorsa irrinunciabile per ogni democrazia e ai giornalisti, soprattutto a quelli impegnati sui fronti delle guerre, della lotta alle criminalità organizzate e dell’opposizione alle dittature va tributato da chiunque un omaggio e un ringraziamento sincero, mentre il rispetto e il ricordo vanno ai giornalisti che sui quei fronti hanno perso la vita.
In tanti, giustamente, hanno ricordato il 3 maggio, in occasione della giornata internazionale della libertà di stampa, esempi fulgidi e luminosi di giornalisti caduti nell’adempimento del proprio dovere, a volte per il concretizzarsi del rischio insito negli scenari nei quali operano ma più spesso uccisi da mani potenti per la loro capacità di cercare caparbiamente e far conoscere verità scomode.
Io, invece, voglio attingere alle mie letture scientifiche per ricordare oggi alcuni esempi negativi.
Ricordarli non solo per fare in modo che possano risaltare ancor di più le gesta positive delle donne e degli uomini che sono simbolo della vera libertà di stampa ma soprattutto perché non si perda la memoria di errori che, se dimenticati, saremo condannati a ripetere, come ci ricorda il filosofo e poeta spagnolo George Santayana.
Il mio contributo al dibattito è una brevissima sintesi, priva di commenti, dei processi internazionali svolti, o in corso di svolgimento, a carico di giornalisti, o meglio di propagandisti, che hanno supportato dittature, incitato e giustificato guerre, violenze e genocidi senza che la tessera “press” abbia garantito loro alcuna immunità perché, per usare le parole del Pubblico Ministero di uno di tali processi “la responsabilità del genocidio non è limitata a coloro che materialmente commettono gli omicidi. Coloro che diffondono il messaggio d’odio attraverso i mezzi di comunicazione e convincono le persone normali ad uccidere sono molto peggio di coloro che mettono in esecuzione le loro parole”.
La promozione e l’esecuzione di vaste e ripetute campagne di odio e disinformazione, indirizzate contro uno specifico gruppo nazionale, religioso, etnico, politico o sessuale, infatti, non è solamente moralmente o deontologicamente censurabile ma può, a determinate condizioni, costituire un potente incentivo o una consistente agevolazione alla realizzazione di crimini internazionali e, quindi, integrare un’ipotesi di concorso dei responsabili dell’informazione distorta e violenta nella realizzazione di tali crimini.
È una scelta che ha radici lontane, tanto che già il 3 novembre 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella sua risoluzione A/RES 110, facendo seguito alla proposta dell’apposita Commissione del 28/10/1947 (doc. A/428), condannò “ogni forma di propaganda, in qualsiasi paese condotta, indirizzata o comunque idonea a provocare o incoraggiare ogni minaccia alla pace, ogni violazione della pace o qualsiasi atto di aggressione”.
Il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966 sottolinea, poi, al suo articolo 20 che “qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge – e – qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisce incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge”.
La giurisprudenza internazionale conosce rilevanti esempi, di giornalisti, editori e conduttori di trasmissione radiofoniche riconosciuti colpevoli di crimini internazionali per le parole di odio e di disinformazione veicolate al pubblico attraverso i mezzi di comunicazione.
Il giornalista Julius Strejcher, fondatore ed editore della rivista settimanale “Der Sturmer”, fu condannato a morte, eseguita mediante impiccagione, dal Tribunale di Norimberga per crimini contro l’umanità perché le falsità con le quali aveva descritto gli ebrei e le loro azioni si erano rivelate un formidabile incentivo per attivare la persecuzione contro gli ebrei e giustificare omicidi e stermini.
Hans Fritzsche era conduttore di un programma radiofonico di successo e poi sottosegretario, con delega al settore radiofonico, del Ministero della Propaganda del regime nazista, diretto da Paul Joseph Goebbels, il quale non poté, invece, essere processato per essersi suicidato dopo aver ucciso i sei figli e la moglie
Il conduttore fu giudicato da un tribunale tedesco, nell’ambito dei processi ai criminali di guerra dei quali il Tribunale di Norimberga non si era occupato per la minor importanza dei soggetti che se ne erano resi responsabili, e condannato a nove anni di lavori forzati per aver agevolato, attraverso i suoi discorsi di odio e disinformazione trasmessi via radio, la creazione nel popolo tedesco di un diffuso sentimento favorevole alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei che rese successivamente possibile, o comunque agevolò, la realizzazione dei crimini perpetrati dai nazisti e dalle truppe tedesche.
Otto Dietrich, capo ufficio stampa del Reich e sottosegretario allo stesso Ministero della Propaganda, subì analogo processo con analoghe imputazioni e una condanna a sette anni di reclusione.
Ma il caso più recente e più significativo, conosciuto come “media case” o “hate media trial”, è quello esaminato dal Tribunale Internazionale per il Ruanda che portò già nel 2003 alla condanna all’ergastolo di Ferdinand Nahjmana e a 35 anni di reclusione a Jean-Bosco Barayagwiza, fondatori della “Radio Televisione Libera delle Mille Colline”, conosciuta come Radio Machete” e “Radio Odio” e alla condanna all’ergastolo per Hassan Ngeze, giornalista fondatore ed editore del settimanale Kangura, per la campagna di odio e di disinformazione diretta verso l’opinione pubblica che portò al genocidio dei Tutsi, una delle etnie presenti nel paese, mentre un altro giornalista di nazionalità belga, attivo in Radio Machete, Georges Ruggiu, si era già riconosciuto colpevole ed era stato condannato a 12 anni di reclusione.
La condanna fu allora salutata con favore, tra gli altri, da “Freedom House” e “Reporter senza Frontiere”.
Nel motivare l’entità della pena inflitta a Nahjmana il Presidente del Tribunale Internazionale evidenziò che lo stesso “era pienamente consapevole del potere delle parole e usò la radio – un mezzo di comunicazione che raggiunge un vasto pubblico – per disseminare odio e violenza. Senza un’arma da fuoco, un machete o qualsiasi arma fisica causò la morte di migliaia di civili innocenti”.
Ancora oggi è in corso, avanti il Meccanismo Residuale Internazionale per i Tribunali Penali, una Corte che si occupa dal 2010 dei casi residui che sarebbero stati di competenza dei Tribunali Internazionali per il Ruanda e per la ex Jugoslavia, oramai disciolti, il processo a carico di uno degli editori di Radio Machete, Felicien Kabuga, sfuggito precedentemente all’arresto ma poi catturato a Parigi nel maggio del 2020 ed ora in carcere all’Aja in attesa della celebrazione del processo.
È importante la celebrazione della della giornata dedicata alla libertà di stampa, ma solo se dedicata alla vera libertà di stampa, con un pensiero particolare a tutti i giornalisti indipendenti che hanno perso la vita o sono impegnati negli scenari di guerra o nei paesi oppressi dalle dittature per documentare l’assurdità di atrocità e violenze che avrebbero dovuto restare sepolte nel passato e che invece si affacciano minacciose sul nostro futuro.
Quale dirigente? Le domande di un presidente a tre giudici
Intervista di Paolo Sordi a Enrico Contieri, Paolo Mariotti e Raffaella Marzocca
L’identikit d’un buon direttivo, l’importanza delle sue competenze, la soluzione dell’annosa questione della conferma quadriennale. Paolo Sordi, presidente del tribunale di Frosinone, ha posto questi e altri temi a Enrico Contieri, giudice a Torre Annunziata, Paolo Mariotti, gip a Spoleto, e Raffaella Marzocca, consigliere d’appello a Venezia, entrati tutti in magistratura nell’ultimo decennio.
Premesso che frequenza e modalità delle relazioni tra il dirigente dell’Ufficio e i magistrati che vi sono addetti sono necessariamente condizionate anche dalle diverse dimensioni dei singoli Uffici giudiziari, quali principali caratteristiche dovrebbe presentare secondo voi, in generale, il rapporto tra dirigente e magistrati dell’Ufficio?
Contieri A mio giudizio, il rapporto tra il dirigente e i magistrati dell’ufficio deve essere pienamente paritario, fondato cioè sull’idea che il dirigente è tale perché svolge funzioni non “superiori”, ma di organizzazione dell’ufficio e di coordinamento dell’attività dei magistrati che vi lavorano.
Il corretto assolvimento di tali compiti, che è funzionale a garantire alla collettività il migliore servizio possibile nelle – spesso per nulla ottimali – condizioni date, implica ovviamente un certo margine di discrezionalità decisionale; questa, tuttavia, non deve mai tramutarsi in un puro decisionismo verticistico, ma va intesa come assunzione, da parte del dirigente, della responsabilità di una scelta maturata all’esito di un confronto dialettico in condizioni di piena parità tra tutti i colleghi che, se certamente non può sfociare nell’assemblearismo, deve implicare un costante confronto e una piena apertura ad accogliere le proposte e le soluzioni provenienti da questi ultimi.
Purtroppo, questo modo di intendere i rapporti all’interno degli uffici giudiziari, pur se limpidamente scolpito nell’art. 107 Cost., appare sempre più insidiato anche nei tribunali, e non solo nelle procure, da una visione verticistica e gerarchica dei rapporti tra dirigente e magistrati dell’ufficio e da un’ottica efficientistica, burocratizzante e para-aziendalistica del servizio giustizia, entrambe particolarmente favorite dalle riforme degli ultimi anni e ancor più da quella imminente.
Il rischio sempre più concreto è il ritorno ad un assetto precostituzionale dei rapporti negli uffici giudiziari, all’idea di una magistratura “bassa”, che svolge funzioni giurisdizionali con approccio impiegatizio, e una “alta”, formata da una élite dirigenziale sempre più autoreferenziale, che intende il rapporto con i colleghi in termini di sovraordinazione gerarchica.
E questo tradisce lo spirito e la lettera della Costituzione repubblicana, mina la credibilità della magistratura nel suo complesso, insidia alle radici l’indipendenza interna e, in definitiva, non assicura adeguata ed incisiva tutela ai diritti delle persone, soprattutto di quelle meno tutelate, che è la funzione essenziale alla quale i magistrati sono chiamati e che, sola, li legittima in un sistema democratico.
Mariotti Alla necessità (possibilmente sostenuta da viva curiosità) che il dirigente conosca la distribuzione dei carichi di lavoro e le criticità che caratterizzano ciascuna sezione o ufficio, dovrebbe fare da contraltare la disponibilità del magistrato ad impostare il dialogo in modo chiaro, sottolineando i problemi del proprio ruolo evitando tuttavia di porvi particolare enfasi quando ciò non risulti giustificato.
Il dirigente è chiamato a fare scelte, a volte difficili; tali scelte inevitabilmente scontenteranno alcuni magistrati dell’ufficio e il solo modo per instaurare e mantenere un rapporto caratterizzato da reciproca stima è quello di agire nel solo, rigoroso, percepibile e superiore interesse dell’ufficio, scevro da condizionamenti dovuti a preferenze personali o legati a “logiche di gruppo”, fonti di malcontento e di relazioni umane ostili.
Collegandomi a quest’ultimo aspetto, mi sembra corretto evidenziare l’importanza della serenità nel rapporto tra i magistrati e in particolare con il dirigente dell’ufficio; trovarsi nella posizione di gestire continui conflitti con il dirigente dell’ufficio influisce negativamente sulla produttività e sull’organizzazione dell’ufficio, oltreché sulla salubrità dell’ambiente lavorativo. Credo che, nelle situazioni critiche, sia un preciso dovere di tutti, a livello umano, la ricerca di un sano compromesso.
Marzocca Ritengo in primo luogo che il dirigente debba farsi percepire da tutti i colleghi come primus inter pares. La sua autorevolezza per me è legata alla capacità di ascolto, di coinvolgimento dei magistrati dell’ufficio nelle questioni inerenti l’organizzazione ed il funzionamento del tribunale, nella disponibilità ad accettare suggerimenti e anche opinioni diverse dalle sue, salvo poi dover prendere una decisione equilibrata e sostenibile idonea a raggiungere l’obiettivo prefissato.
Il dirigente non deve ritenersi depositario di verità assolute ma capace di accogliere con umiltà i suggerimenti di tutti, fermo restando che dovrà poi assumere motivatamente la propria decisione, anche se ad alcuni non gradita, purché frutto di attenta ponderazione delle posizioni dei magistrati dell’ufficio in bilanciamento con le esigenze perseguite. Non vorrei mai sentire “si fa così perché lo ho deciso io” ma “si fa così perché è il modo che consente di raggiungere l’obiettivo contemperando le contrapposte necessità e con il minor sacrificio”.
Rispetto a quali aspetti organizzativi ritenete che debba essere principalmente assicurato il coinvolgimento dei magistrati addetti all’Ufficio e pensate che le forme di coinvolgimento attualmente previste siano adeguate?
Contieri Ovviamente, la necessità di un pieno coinvolgimento dei magistrati nelle decisioni inerenti alle problematiche dell’ufficio, sempre proficua, diventa cruciale negli aspetti organizzativi direttamente incidenti sull’attività giurisdizionale. Mi viene in mente, come esempio, anche perché di estrema attualità, l’organizzazione dell’Ufficio per il processo. Si tratta, come tutti sanno, di una struttura inedita e profondamente innovativa sia sotto il profilo ordinamentale, sia dal punto di vista funzionale; i compiti di queste nuove figure ibride, a cavallo tra l’attività amministrativa e quella giudiziaria, sono vari e molteplici, sì da poter essere adattati alle concrete esigenze dei singoli uffici e addirittura delle singole sezioni.
Si tratta, perciò, di una grossa sfida, che, per non risolversi in un fallimento, presuppone un’organizzazione razionale ed efficace dei compiti dei funzionari e delle concrete modalità di svolgimento del loro lavoro; e, soprattutto nella parte in cui questo si affiancherà a quello dei magistrati, il pieno e attivo coinvolgimento di questi ultimi nell’individuazione delle specifiche attività da affidare ai funzionari e nella designazione delle concrete modalità di svolgimento dei loro compiti diventa essenziale, perché, come sempre, soltanto scelte corali e condivise, e non calate acriticamente dall’alto, possono rivelarsi efficaci.
Mariotti Le forme di coinvolgimento previste attualmente possono essere considerate adeguate al raggiungimento dello scopo.
Non esistono regole capaci di imporre un clima di reciproco ascolto e collaborazione; è l’interpretazione delle regole che fa la differenza.
Così, se il dirigente attribuisce un valore meramente formale al momento in cui ci si riunisce per discutere le proposte di modifica tabellare, limitandosi a comunicare decisioni già prese, lo spazio per i contributi organizzativi dei singoli magistrati inevitabilmente assume valore prossimo all’irrilevanza.
Per scongiurare questa prospettiva, e al fine di valorizzare il contributo di ciascuno, sarebbe forse ipotizzabile prevedere che il dirigente, all’atto della convocazione della riunione, comunichi in modo sintetico ma sufficientemente dettagliato la soluzione organizzativa che intende proporre al fine di consentire al singolo magistrato di organizzare preventivamente le proprie idee e discutere con i colleghi per individuare soluzioni alternative, in ipotesi maggiormente vantaggiose per l’ufficio.
Marzocca Sicuramente deve essere assicurato un coinvolgimento per la formazione delle tabelle triennali, per le questioni inerenti le modalità di assegnazione dei procedimenti, per discutere delle migliori prassi nella gestione delle udienze, ad esempio in relazione a tempi e modi di verbalizzazioni particolarmente corpose o alla richiesta di produzioni documentali in udienza; ancora dovrebbe assicurarsi un coinvolgimento per gestire le situazioni di emergenza, come è stata la gestione dei procedimenti durante il periodo della pandemia, per discutere su orientamenti giurisprudenziali in materie in cui vi sia stata un’evoluzione normativa, giurisprudenziale o dottrinaria, per discutere di applicazioni o supplenze interne al fine di ottenere copertura transitoria di posti vacanti, per distribuire le nuove risorse, come gli UPP o l’ingresso di nuovi colleghi o personale amministrativo negli uffici.
Le forme di coinvolgimento attualmente previste mi sembrano adeguate, se effettivamente applicate e se utilizzate in modo continuativo e favorendo e stimolando la più ampia partecipazione.
A vostro avviso, un elevato grado di competenza del dirigente dell’Ufficio nell’ambito dell’attività giurisdizionale è funzionale ad un efficace svolgimento delle funzioni direttive?
Contieri Più che funzionale, direi che è essenziale. Presupposto essenziale per essere un buon dirigente è, oltre ad un elevato grado di competenza in materia ordinamentale, anche la piena consapevolezza dell’attività propriamente giurisdizionale, del tipo di decisioni e provvedimenti che vengono quotidianamente adottati nelle singole materie in cui la stessa si articola; la questione è, non a caso, collegata a quella di cui abbiamo appena parlato: soltanto un dirigente che conosce ancora il “mestiere” e continua a sentirsi innanzitutto un “magistrato” può assolvere correttamente al proprio ruolo.
A questo, ovviamente, deve affiancarsi una costante presenza in ufficio, poiché anche la conoscenza delle dinamiche quotidiane che si sviluppano al suo interno, delle concrete modalità di funzionamento e delle criticità del servizio è essenziale per poter assicurare il buon funzionamento del servizio.
E di questo, a mio avviso, dovrebbero tenere conto sia il legislatore, in chiave di riforma degli indicatori per il conferimento delle funzioni direttive e semi-direttive, sia, a legislazione data, il sistema del governo autonomo al momento della scelta tra più aspiranti.
Mariotti L’aver raggiunto un elevato livello di competenza nell’ambito dell’attività giurisdizionale si suppone favorisca un approccio consapevole da parte del dirigente.
Tuttavia, non si deve dimenticare che per organizzare un ufficio giudiziario è necessario possedere abilità e conoscenze non coincidenti con quelle che servono al magistrato per esercitare la funzione giurisdizionale.
Sarebbe illusorio pensare che ad un brillante curriculum del magistrato corrisponda un saggio esercizio della funzione organizzativa, trattandosi di attività sostanzialmente diversa.
A tal proposito, ricordo di essere stato ospite, per due settimane, in alcuni tribunali olandesi nell’ambito di un programma di scambio organizzato dall’EJTN; il modello di amministrazione e gestione di taluni servizi è molto diverso ed è felicemente caratterizzato da ibridazione.
La funzione direttiva è esercitata collegialmente da magistrati e manager pubblici; i rapporti con la stampa sono curati da giornalisti e magistrati; questi ultimi, nel periodo in cui lavorano nell’ufficio stampa, non svolgono attività giurisdizionale.
La fiducia dei cittadini olandesi nella magistratura è molto elevata.
Quel sistema giudiziario, tuttavia, presenta minori criticità organizzative: le risorse sono adeguate al raggiungimento degli obiettivi, la struttura del provvedimento giurisdizionale è semplificata, il processo meno formalizzato; quindi, un manager pubblico può approcciarsi al sistema giudiziario con poche barriere alla comprensione (così come il cittadino).
Nel nostro sistema, caratterizzato da notevole complessità, ritengo sia difficile pensare ad un “modello di amministrazione” che si discosti da quello attuale.
Marzocca L’elevato grado di competenza nell’ambito giurisdizionale è sicuramente un presupposto fondamentale per conoscere la realtà che si deve gestire e per organizzarla nel modo più efficiente ed efficace. Aver maturato una profonda conoscenza dell’esercizio della funzione giurisdizionale consente di comprendere le problematiche che si trovano ad affrontare i colleghi dell’ufficio, sia dal punto di vista delle materie trattate e del carico di lavoro, sia sotto il profilo relazionale nei rapporti tra colleghi e con il foro.
È evidente che quello della competenza in ambito giurisdizionale non può essere il parametro esclusivo, perché serve anche una capacità di gestire i rapporti interpersonali e di mediazione, un’attitudine a cogliere ed a valorizzare le potenzialità di ciascuno, un’apertura mentale per promuovere modalità di collaborazione anche con altri soggetti istituzionali, ad esempio università ed ordine degli avvocati, anche nell’ottica di sviluppo di buone prassi.
Di particolare importanza nel declinare l’esercizio della funzione direttiva è la capacità di comprendere e supportare i colleghi che versino in situazione di difficoltà, per costruire rapporti improntati sulla fiducia e sulla condivisione, con la consapevolezza che a fianco di ogni potere c’è una grande responsabilità.
Nel procedimento di conferma dei dirigenti degli uffici, dovrebbe essere raccolto anche il contributo dei magistrati addetti all’Ufficio? Se sì, con quali modalità?
Contieri Credo che il procedimento di conferma, così come attualmente regolato, sia profondamente insoddisfacente, non diversamente – d’altronde – dal sistema delle valutazioni di professionalità. Esso si fonda su elementi di conoscenza parziali e di natura essenzialmente formale ed è incentrato più sulla valutazione astratta di titoli e “numeri”, che sulla verifica delle concrete modalità con cui le funzioni sono state assolte; questo fa sì che il procedimento per lo più si risolva (così come, appunto, quello della valutazione di professionalità) in un passaggio sostanzialmente burocratico, dall’esito pressoché scontato, salvi casi eccezionali. E la prova inconfutabile di ciò è il fatto che rarissimi sono i casi di mancata conferma di un dirigente.
Un simile procedimento è dunque inadeguato a fungere da reale strumento di verifica dell’attività svolta, ed anzi rischia di essere addirittura controproducente, nella misura in cui diviene strumento di legittimazione di dirigenti inadeguati.
Credo, perciò, che raccogliere la valutazione dei magistrati dell’ufficio nella verifica dell’operato del semidirettivo e del direttivo, possa rappresentare uno strumento di acquisizione di nuovi e preziosi elementi di conoscenza che non potrebbe essere altrimenti acquisiti e che invece potrebbero rivelarsi fondamentali non soltanto nel procedimento di conferma, ma anche, ad esempio, in quello di nomina di aspiranti direttivi che abbiano in precedenza svolto funzioni semidirettive.
A tal fine, potrebbe pensarsi a dei questionari che, in modo anonimo, consentano ai magistrati dell’ufficio di esprimere il proprio parere in merito alla gestione dell’ufficio da parte del dirigente e ai diversi elementi di valutazione su cui si fonda il procedimento di conferma. Ovviamente, il parere non dovrà consistere nell’espressione di un semplice voto, ma in un’argomentata motivazione critica fondata su concreti elementi di fatto, che assicurino l’obiettività del giudizio.
Mariotti Non è assolutamente un quesito facile.
Istintivamente risponderei caldeggiando la valorizzazione del parere dei singoli magistrati per la conferma del dirigente.
Riflettendo in maniera più calma, osserverei che i provvedimenti organizzativi del presidente del tribunale sono oggetto di parere del Consiglio giudiziario e di approvazione del CSM, e che i magistrati possono partecipare a tale procedimento presentando osservazioni; l’esito di queste procedure costituisce una preziosa e adeguata base valutativa.
Inoltre, un eccessivo allargamento delle fonti di valutazione comporta rischi non irrilevanti; il furore valutativo, alla base di paventati interventi legislativi, in cui i magistrati sono allo stesso tempo tutti valutati e valutatori secondo una logica di iper-controllo, determinerebbe una verosimile distorsione dei comportamenti con finalità di preventiva difesa.
A tal proposito è giusto osservare che il sistema di valutazione condiziona le scelte del valutato; così, l’esigenza di ottenere il gradimento per la conferma potrebbe influenzare il modo di agire dei dirigenti.
Il punto è che al dirigente dell’ufficio dovrebbe essere garantita la forza e la tranquillità di prendere decisioni coraggiose, esponendosi al possibile malcontento di taluni colleghi; se tale opzione dovesse diventare eccessivamente gravosa, si rischierebbe l’adozione di decisioni incapaci di incidere concretamente sull’ufficio ovvero, in misura maggiore rispetto a quanto già avviene, lo scarico di oneri o responsabilità su chi mostra meno attitudini reattive.
Dunque, l’eventuale partecipazione dei magistrati al procedimento di conferma dovrebbe essere modulata con grande attenzione.
Le innegabili problematiche, sottese alla elaborazione di tale proposta, probabilmente derivano dal mancato pieno funzionamento degli strumenti di controllo e di valutazione già esistenti.
Forse è questo l’aspetto su cui su indirizzare una seria e approfondita riflessione».
Marzocca Credo che per la conferma dei dirigenti dovrebbe essere sicuramente acquisito il contributo dei magistrati addetti all’ufficio, perché così come un buon dirigente può ottenere buoni risultati, un cattivo dirigente può “distruggere” un ufficio, creare dissapori, lasciare spazio ad eccessivi personalismi, non essere un punto di riferimento o addirittura essere un ostacolo al buon funzionamento dell’ufficio o di una sezione.
Per la modalità potrebbero utilizzarsi delle schede da compilare online, come quelle di valutazione dei relatori dei corsi della SSM, in forma anonima ed i cui risultati pervenissero direttamente alle segreterie dei consigli giudiziari e della commissione competente del CSM. Gli aspetti da valutare potrebbero essere la capacità di coinvolgimento, di ascolto, di risoluzione dei problemi rappresentati e di organizzazione del lavoro in modo razionale e sostenibile.
In caso di segnalazioni negative con numeri percentuali significativi potrebbe essere disposta adeguata istruttoria da parte dei Consigli giudiziari. Io fino ad ora ho sempre avuto dirigenti capaci, sia direttivi che semidirettivi, ma non può darsi per scontato che ciò accada in tutti gli uffici».
Consigli Giudiziari: paure, potere, funzionalità di Claudio Castelli
Il disegno di legge sull’ordinamento giudiziario introduce per i componenti avvocati del Consiglio Giudiziario una facoltà di voto sui pareri per la valutazione di professionalità dei magistrati con voto unitario e solo se il Consiglio dell’Ordine abbia effettuato segnalazioni sul magistrato: una normativa contorta e compromissoria. Normativa contrastata da ampi settori della magistratura per l’assenza di terzietà degli avvocati nominati nei Consigli Giudiziari che continuano la loro attività professionale. Il rischio è di un dibattito puramente ideologico ed uno scontro tra categorie. L’attuale normativa già dà ampi spazi di partecipazione e interlocuzione agli Ordini degli Avvocati in materia sinora pochissimo utilizzati. Anche se vi sono esperienze positive. Per gli avvocati l’idea di valutare i propri giudici viene vissuta per i rapporti reciproci quanto meno come imbarazzante. Una proposta alternativa che riconduce nell’alveo istituzionale la collaborazione con gli avvocati è di coinvolgere direttamente l’Ordine degli Avvocati territoriale a dare un parere sulle valutazioni, in modo da responsabilizzare e spersonalizzare la scelta.
Sommario: 1. I Consigli Giudiziari nel nuovo disegno di legge sull’ordinamento giudiziario – 2. Il pericolo di un dibattito meramente ideologico – 3. L’attuale normativa – 4. Lo stato dell’arte: un bilancio post 2006 - 5. Una proposta alternativa.
1. I Consigli Giudiziari nel nuovo disegno di legge sull’ordinamento giudiziario
Nel disegno di legge per la riforma dell’ordinamento giudiziario approvato in data 26 aprile 2022 dalla Camera dei Deputati all’art.3 lettera a) è previsto che nell’esercizio della delega il funzionamento del Consiglio Giudiziario sia così modificato:
“a) introdurre la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relative all’esercizio delle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari di cui, rispettivamente, agli articoli 7, comma 1, lettera b), e 15, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, con attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione; prevedere che, nel caso in cui la componente degli avvocati intenda discostarsi dalla predetta segnalazione, debba richiedere una nuova deter- minazione del consiglio dell’ordine degli avvocati.”
Onde consentire ciò, nella lettera b) viene previsto che il C.S.M. ogni anno debba individuare i nominativi dei magistrati per i quali nell’anno successivo matura uno dei sette quadrienni utili ai fini delle valutazioni di professionalità e ne dia comunicazione al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati.
La disciplina introdotta è con evidenza contorta e compromissoria: - la componente degli avvocati ha una mera facoltà di esprimere un voto; - il voto deve essere unitario e può essere espresso solo se il consiglio dell’ordine ha effettuato segnalazioni sul magistrato in valutazione. E’ sempre prevista la partecipazione alle discussioni e il diritto di assistere alle deliberazioni da parte dei componenti avvocati e professori.
Se ne trae tra l’altro una divaricazione di facoltà e diritti, prima inesistente, tra i componenti avvocati ed i componenti professori universitari
2. Il pericolo di un dibattito meramente ideologico
Tale proposta ha provocato una forte reazione da parte di ampi settori della magistratura. Prendendo il contenuto di uno dei documenti che maggiormente ha interpretato questo dissenso, quello elaborato dai magistrati di Busto Arsizio, viene rimarcato che:
“1) Diritto di tribuna ai laici e diritto di voto all’Avvocatura in sede di Consiglio Giudiziario sulla valutazione del magistrato: nell’ambito dell’autogoverno della Magistratura, il riformatore introduce un fattore di controllo esterno sull’operato e sulla professionalità del magistrato, senza peraltro contemplare nessun requisito di terzietà per neutralizzare i possibili conflitti d’interesse. L’Avvocatura, per definizione, parteggia, presta il suo patrocinio ed è interprete di pratici e specifici interessi – da cui dipende il compenso legittimo spettante all’avvocato –, pertanto il membro laico che esercita la professione forense non avrebbe i requisiti formali d’indipendenza, poiché la sua valutazione sarebbe comunque condizionata dall’interesse specifico (e di categoria) di cui rimane portatore. Il ‘valutatore’ del magistrato deve essere ed apparire imparziale. Così si avrebbe una sostanziale erosione dell’autogoverno della magistratura.”
Come ben si capisce la preoccupazione riguarda l’assenza di terzietà data dal fatto che, a differenza che per gli avvocati eletti al Consiglio Superiore della Magistratura, non è prevista alcuna cancellazione o sospensione dall’albo. Il timore è che nella valutazione possano incidere o rientrare contrasti professionali o decisioni o iniziative sgradite. La questione può apparire inesistente in situazioni in cui non vi è conflittualità tra magistratura e foro, ma sappiamo che in alcune sedi non è purtroppo così.
Il formidabile rischio che si avverte è che il dibattito scivoli da quello, che dovrebbe essere centrale, della migliore funzionalità del Consiglio Giudiziario ad uno scontro tra categorie, con logiche di reciproci timori da un lato e di potere categoriale dall’altro.
Da un lato vi è un desiderio dell’avvocatura di affermazione della rilevanza della propria categoria, ma anche la paura degli avvocati di entrare in rotta di collisione con singoli magistrati ed interi uffici, con un inevitabile danno sulla propria attività professionale. D’altro conto la magistratura teme da parte degli avvocati la confusione tra ruolo istituzionale e professione privata: la paura dei magistrati di essere valutati non per le proprie capacità, ma per avere condotto indagini o processi scomodi o nei quali uno o più degli avvocati interessati hanno avuto torto o comunque avrebbero ragione per qualche rimostranza. Paure che derivano inevitabilmente dal fatto che, a differenza dal C.S.M., gli avvocati continuano a svolgere la loro attività e potrebbero essere condizionati da casi specifici. Al riguardo la posizione in cui si troverebbero gli avvocati è diversa da quella che può avere un pubblico ministero (o un giudice) che magari si è trovato in contrasto con un altro magistrato, dato che diverso è il ruolo istituzionale e la natura pubblica ed imparziale che inevitabilmente un magistrato ha e deve avere.
D’altro canto gli avvocati sono e potrebbero essere un preziosissimo sensore che riveli difficoltà, anomalie, malfunzionamenti, di grande aiuto per la funzionalità del sistema.
La contrapposizione che si crea rischia di essere meramente ideologica perché già oggi il D.Leg. n.160/2006 ha forti aperture alla partecipazione degli avvocati nei Consigli Giudiziari, in larga parte ignorate e non utilizzate.
3. L’attuale normativa
Un intervento degli avvocati è difatti già oggi previsto sia per le valutazioni di professionalità, sia per le conferme di incarichi direttivi e semi direttivi, per non parlare del Presidente del Consiglio Nazionale Forense che siede come membro di diritto partecipando e votando su tutto nel Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione.
L’art. 11 co. 4 lettera f) del Decreto Legislativo n.160/2006 prevede che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati possa far pervenire in occasione delle valutazioni di professionalità “segnalazioni.....che si riferiscano a fatti specifici incidenti sulla professionalità, con particolare riguardo alle situazioni eventuali concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica.”
La legge dà grande rilievo a tali segnalazioni ponendole sullo stesso piano del rapporto del capo dell’ufficio come uno dei canali informativi che contribuiscono a formare il parere del Consiglio Giudiziario.
Le informazioni su fatti specifici vengono anche acquisite d’ufficio nell’ambito della procedura di conferma degli incarichi direttivi e semi direttivi sulla base di quanto disposto dalla Circolare CSM 24 luglio 2008.
Un ulteriore tassello viene dato dal nuovo Decreto Legislativo 31 maggio 2016 n.92 che all’art 2 disciplina la procedura di conferma dei giudici di pace, dei giudici onorari di tribunale e dei viceprocuratori onorari già in servizio. In tale norma viene previsto un vero e proprio parere espresso dal Consiglio dell’Ordine territoriale forense in cui però devono essere “indica(ti) i fatti specifici incidenti sulla idoneità a svolgere le funzioni, con particolare riguardo, se esistenti, alle situazioni concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica.”
4. Lo stato dell’arte: un bilancio post 2006
Il bilancio che si trae da questa partecipazione e dall’utilizzo di queste ampie facoltà riconosciute ai Consigli dell’Ordine degli avvocati relativamente ai magistrati professionali non è incoraggiante. Pur mancando una verifica su scala nazionale risulta che i casi in cui i Consigli forensi abbiano effettuato segnalazioni sono rarissimi, quando non inesistenti.
La facoltà riconosciuta dalla legge è quindi rimasta pressoché lettera morta.
A differenza di quanto sta invece accadendo in relazione alla magistratura onoraria ove i Consigli dell’Ordine sono invece quanto mai presenti nelle segnalazioni, esprimendo anche pareri negativi.
Non si dice nulla di nuovo se si riscontra che la doppia composizione prevista dagli artt. 15 e 16 D. Leg. n. 25/2006 era stata una soluzione di compromesso e di verifica.
Oggi ci sono gli elementi per superarla? Ed un suo superamento rappresenta l’assestamento di un nuovo equilibrio di potere o è funzionale agli scopi di verifica della professionalità che si pone la legge?
La tentazione di ridimensionare la magistratura attraverso l’avvocatura è indubbia, ma se andiamo a verificare come vanno le cose in concreto ci sono esempi anche positivi. Mi rifaccio alla mia esperienza di sei anni di presidenza di un Consiglio Giudiziario in cui a fronte di molti rapporti critici nei confronti di magistrati onorari non abbiamo avuto alcuna segnalazione nei confronti dei magistrati togati. Nel contempo però i Consigli dell’Ordine competenti hanno formulato due pareri critici in sede di conferma di incarichi direttivi e semidirettivi che, a seguito di una lunga istruttoria, ha portato a pareri negativi unanimi del Consiglio Giudiziario. Per non parlare di una delicatissima pratica di vigilanza relativa ad un ufficio del distretto qualche anno fa condotta con determinazione grazie all’unanimità del Consiglio in tutte le sue componenti. Ad un clima disteso e collaborativo ha forse contribuito il diritto di tribuna riconosciuto a livello regolamentare sin dal 2016. Trattare alla luce del sole (salvo ovviamente casi in cui vi siano situazioni sensibili che richiedono riservatezza) le pratiche anche relative alle valutazioni di professionalità e ai pareri per incarichi direttivi e semidirettivi non solo è stata una dimostrazione di trasparenza, ma ha evidenziato la serietà dell’approccio che i magistrati hanno sul tema e come si cerchi di arrivare a fotografie realistiche e non ad un appiattimento.
5. Una proposta alternativa
Da tempo si discute di superare la doppia composizione dei Consigli Giudiziari, dando anche ai componenti avvocati e professori il diritto di voto in tema di valutazioni di professionalità e di pareri. Era la proposta avanzata dalla Commissione Vietti, anche se va rammentato che l’ipotesi su cui si lavorava era di un decentramento pieno, che attribuiva pieni poteri ai Consigli Giudiziari in tema di valutazioni di professionalità. Tale ipotesi induceva alcuni a ritenere che fosse necessaria, almeno in tale fase, la voce anche di esterni alla magistratura. Comunque anche tale ipotesi non si confrontava con le ragioni per cui gli spazi dati dalla normativa del 2006 erano stati scarsamente utilizzati. Probabilmente le ragioni erano da ravvisarsi nel fatto che l’avvocatura non vive con serenità l’idea di valutare la professionalità dei suoi giudici, che, salvo casi specifici, viene vissuta come imbarazzante.
Il disegno di legge approvato dalla Camera in realtà risolve limitatamente questi problemi, e con una formulazione contorta, rischia di accentuarli. Difatti il limitato peso della presenza laica non deriva né dal numero limitato, né dalla mancata partecipazione a altre tematiche, ma dall’assenza di una vera rappresentatività e responsabilità. Le stesse modalità di nomina di avvocati e professori universitari fa sì che gli stessi siano molto parzialmente rappresentativi della comunità locale degli avvocati. Né gli stessi, al di là del loro valore e autorevolezza, sono portatori di una reale responsabilità istituzionale (ovviamente esistente sotto il profilo personale, ma non a nome dell’università o dell’avvocatura).
Per questo la scelta che apparirebbe più efficace e istituzionalmente corretta non è quella della composizione mista sui temi che riguardano valutazioni e pareri, ma un coinvolgimento diretto del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati che dovrebbe essere chiamato a dare un proprio parere (che può anche consistere in un semplice “Nulla da osservare”) sulle valutazioni. Questo da un lato responsabilizzerebbe l’organo e dall’altro spersonalizzerebbe il parere.
Non mi ha mai, di converso, persuaso la richiesta di reciprocità, ovvero di partecipazione dei magistrati ai Consigli dell’Ordine o ai Consigli di disciplina degli avvocati. I nostri sono mestieri e ruoli diversi, con un ruolo istituzionale da un lato ed una professione privata (sia pure esercente un fondamentale diritto costituzionale) dall’altro, su cui è bene non fare confusione. Non solo, ma parificare le due partecipazioni vorrebbe dire mettersi in quell’ottica di confronto e scambio di potere tra categorie che invece è bene evitare, puntando su di una collaborazione rispettosa di differenze e ruoli.
Rileggere Sciascia attraverso “Diritto Verità Giustizia”*
di Michele Perrino
Sommario: 1. Premessa - 2. Diritto - 3. Giustizia - 4. Verità.
1. Premessa
Il libro intorno alla cui presentazione ci hanno riunito oggi i curatori, Luigi Cavallaro e Roberto Conti, dedicato quale “Omaggio a Leonardo Sciascia” per il centenario dalla sua nascita, muove dal felice intento, del resto esplicitato dagli stessi nell’introduzione, di lasciarsi interrogare dagli inquieti confronti del grande scrittore con i temi del diritto, della verità e della giustizia; e al contempo di interpellare l’Autore, attraverso le sue opere, alla ricerca di risposte o contributi di riflessione intorno a temi così di vertice e che tanto attraversano l’esperienza dei giuristi, ma in effetti l’esperienza umana.
Nasce da qui una silloge di saggi importanti, ognuno a confrontarsi con diverse opere, con diversi profili della produzione letteraria dello scrittore, sempre alla stregua dei tre assi fondamentali che danno il titolo alla raccolta.
Nel presentare questa preziosa opera a più voci, siamo qui chiamati in realtà, attraverso di essa, pur sempre a rendere omaggio a Leonardo Sciascia, e a misurarci ancora una volta con le sollecitazioni e sfide dello scrittore sui temi che stanno al cuore dell’esperienza giuridica, riflettendo sulla concezione di Sciascia e sulla sua trasposizione letteraria.
Leggere “Diritto, verità e giustizia”, per rileggere Sciascia. Una riflessione e insieme una meta-riflessione dunque – perché in contrappunto con la riflessione a sua volta offerta da chi ha contribuito all’opera che presentiamo – per concorrere alla quale anch’io mi muoverò lungo i tre assi individuati dai curatori, prendendomi però la licenza di un’inversione: Diritto, Giustizia e Verità.
2. Diritto
I curatori richiamano nell’introduzione la “crisi della sussunzione sillogistica”, della “capacità ordinatrice della fattispecie legale di matrice statuale”, che è anzitutto crisi di passaggio dei giuristi della nostra generazione, rispetto alle ingenue precomprensioni che sorreggevano l’entusiasmo degli esordi.
In qualche modo, ognuno di noi ha dovuto compiere nella sua formazione e poi esperienza giuridica quel passaggio, denso di implicazioni filosofiche, teorico-generali, anche esistenziali: il passaggio dalla legge alla sua interpretazione e applicazione, a quell’universo di esperienza - dal linguaggio al giudizio (interpretativo, decisorio) - che chiamiamo diritto.
Nell’opera di S., la legge si presenta con più di un volto, non sempre rassicurante o razionale.
C’è la Legge dello Stato, con il sistema della pubblica amministrazione della giustizia, e c’è il sistema delle leggi della mafia, con il distorto senso della giustizia di quel mondo (Il giorno della civetta).
C’è “la legge che nasce dalla ragione ed è ragione”, e la “assoluta irrazionalità della legge, ad ogni momento creata da colui che comanda, dalla guardia municipale o dal maresciallo, dal questore o dal giudice; da chi ha la forza, insomma” (ancora Il giorno della civetta).
D’altra parte, traspare dalla pagina di S. una concezione al contempo della necessità e della pluralità degli ordinamenti, e ben lo segnala Irti col suo saggio (“Il giorno della civetta” e il destino della legge, 21 s.), nel trascorrere fra la dimensione statuale e quella delle formazioni sociali, comprese all’estremo quelle criminali, fino all’universo delle relazioni familiari. Come traspare dalle parole del pittore protagonista di Todo Modo, quando chiede a don Gaetano: “Se qui fossimo nell’isolamento più assoluto, al di fuori di una giurisdizione, non crede che saremmo costretti a inventare tra noi la legge che Scalambri rappresenta e a perseguire il colpevole?” (Todo modo).
Ancora, la legge dello Stato non sempre è figlia della ragione, ed a tratti si presenta come una angustia: quella “angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi” che turba il capitano Bellodi (Il giorno della civetta), facendogli vagheggiare uno stato di eccezione, da cui subito si ritrae.
Al tempo stesso, non sembra che S. acceda ad una concezione formalista della Legge, che cioè essa possa identificarsi con il Diritto senza passare attraverso l’incontro con i fatti, la persona, le esigenze di giustizia.
È sempre il capitano Bellodi a parlare con accenti critici della “astrazione in cui le leggi vanno assottigliandosi attraverso i gradi di giudizio del nostro ordinamento, fino a raggiungere quella trasparenza formale in cui il merito, cioè l’umano peso dei fatti, non conta più; e, abolita l’immagine dell’uomo, la legge nella legge si specchia” (Il giorno della civetta).
Qui S. espressamente parla di “formalismo giuridico”, ma senza approvarlo; in ciò, sembra, con posizione diversa da quella ribadita – in ossequio alle sue note concezioni generali – da Natalino Irti nel suo contributo al volume, per il quale l’astrazione “che progredisce e s’affina nei gradi del giudizio, è la cifra autentica della legge moderna, la quale, appunto, si scuote di dosso la densa e oscura polvere della particolarità, e guarda alla ‘configurazione’ dei fatti. E così soltanto può valere per tutti, e farsi misura e forma di indefiniti fatti del futuro” (Irti, op.cit., 21)
Non è così, credo, per S.: e lo rileva Nicolò Lipari (Diritto e letteratura in “Todo modo”, 104), quando cita le parole dell’A. “la democrazia ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la giustizia”; e quando ancora Lipari richiama le parole qui prima ricordate del capitano Bellodi come una condanna del formalismo giuridico, che propugna nell’astrazione la via ad una concezione “pura” del diritto.
Alle soglie della pensione, persino il procuratore di “Porte aperte”, che pur aveva richiamato il “piccolo giudice” alla regola per cui “la pena di morte è ormai da dieci anni la legge dello Stato: e la legge è legge, noi non possiamo che applicarla, che servirla”, giunge a chiedersi “se, da morti che seppelliamo morti, davvero abbiamo il diritto di seppellire i morti per pena capitale”, fino all’ammissione finale: “qualcosa, in quell’affermare la legge fino a quel punto, mi infastidisce, mi inquieta”.
Se è vero, come osserva Irti, che Dike invoca Nomos, per attuarlo o rinnovarlo, e che la giustizia “ha bisogno della positività normativa e fuori da questa non può uscire” (Irti, op.cit., 24); se è vero che “Una pretesa di giustizia, che non tenda a effettuale vigore di norma, e dunque a tradursi in diritto positivo, è consolante illusione o ingannevole vagheggiare” (op.cit., 25); è anche vero che – e questo sembra, almeno, la visione di Sciascia – la Legge non attinge la dimensione del Diritto se non all’incontro con il peso dei fatti, il volto della persona umana, le istanze di giustizia.
3. Giustizia
E si viene così all’asse che pongo per secondo in questa riflessione, la giustizia.
Scrive Lipari della “antica inesauribile tenzone tra Nomos e Dike, tra le forme degli enunciati normativi e l’aspirazione a conseguire un risultato di giustizia che appaia condivisibile alla società di riferimento” (Lipari, op.cit., 94)
Compito dell’ordinamento è perseguire esiti di giustizia, che consistono nell’approssimarsi il più possibile a risultati conformi agli obbiettivi anche di valore in gioco ma nel rispetto rigoroso delle regole.
Ha d’altronde ragione Irti nel rimarcare che Dike non può fare a meno di Nomos, che non v’è giustizia senza la legge positiva ed il suo rispetto, pur con l’anelito al rinnovamento, “ad emanare nuovo diritto in luogo dell’antico” (Irti, op.cit., 24), dal momento che “la giustizia si risolve nella pretesa di tutelare una o più categorie di interessi, o realizzare uno o più ideali, e perciò si innalza a giudice del diritto positivo, dicendolo giusto se soddisfa quegli interessi e ingiusto si li lascia privi di protezione” (ivi).
E però, qui si intravede, guardando all’opera di S., il nucleo drammatico di quella “tenzone” di cui parla Lipari.
Per un verso, S. respinge ad esempio l’idea che possa aversi giustizia facendo a meno delle garanzie di legge, come prima si diceva ricordando i pensieri del capitano Bellodi, che per un attimo vagheggia una eccezionale sospensione dei diritti così da liberarsi dai relativi vincoli, per subito però rifiutarne l’idea come una tentazione.
E parla sempre di Bellodi, Irti, quando ricorda che “quella libertà ottenuta, negli anni del fascismo, dalle dure repressioni del prefetto Mori, non gli sembra valere, a lui partigiano e credente nella giustizia della Repubblica, il costo delle altre libertà” (Irti, op.cit., 19).
Così, la giustizia non può essere ricercata “con ogni mezzo”: come sembra invece evocare, ma criticamente, il titolo di Todo Modo, tratto da una frase degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (Todo modo para buscar la voluntad divina =Ogni mezzo per cercare la volontà divina), che per certi versi si riallaccia all’immagine inquietante della Zattera della Medusa tratta dal celebre dipinto di Géricault, di cui don Gaetano parla sempre in Todo Modo (sia pure come immagine della Chiesa, ma in effetti come metafora di una dimensione umana generale), sulla quale quindici sopravvivono su centoquarantanove, al prezzo di azioni disumane: “E quello che hanno fatto quei quindici per salvarsi?”, chiede lo scrittore protagonista del romanzo. “Non mi interessa”, risponde don Gaetano (Todo Modo).
Una sentenza che condanni un colpevole sulla base di un giudizio irregolare, magari all’esito di una indagine illegittima e passando attraverso la lesione dei presidi di garanzia, è una sentenza giusta? Solo perché riesce nell’intento di ghermire il colpevole? Non è questa la concezione di S.
Per altro verso, pur nel postulare il rispetto della Legge, in tale rispetto non si esaurisce certo la Giustizia, se non guardando al volto della persona umana, se non nella considerazione della complessità dell’umana esperienza, pur allorquando la Legge sia di questa dimentica o traditrice e solo formale paladina.
Una giustizia cieca e sorda rispetto alla persona non è tale, come quella propugnata dal Presidente Riches, ne Il contesto: “Non ci sono più individui, non ci sono responsabilità individuali”. “L’individuo non c’è”. “La sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo”.
In questo senso, la visione di S. sembra quella di una giustizia come “esigenza che postula una esperienza personale”, come scrive Lipari (op.cit., 103), rileggendo Todo Modo.
Aggiungerei che v’è per S. un “senso della giustizia” che misura la legge e a volte si contrappone alla legge, al diritto ed alla “giustizia” come sistema istituzionale: come accade nelle pagine del Consiglio d’Egitto, quando l’abate Vella avverte “improvvisamente l’infamia di vivere dentro un modo in cui la tortura e la forca appartenevano alla legge, alla giustizia: lo sentiva come un malessere fisico, come un urto di vomito” (lo ricorda Donini, Tra diritto pubblico e diritto penale: approssimazioni a “Il Consiglio d’Egitto”, 43).
Qui allora la “giustizia legale” è avvertita come “impostura”; come nel commento di Di Blasi ne Il Consiglio d’Egitto, richiamato da Donini (op.cit., 39): “ogni società genera il tipo d’impostura che, per così dire, le si addice”, erigendo un “diritto oppressore e falsario” (Donini, op.cit., 45).
D’altra parte, anche quello del “senso di giustizia” è tema denso di contraddizioni.
È il “senso di giustizia” ad animare Bellodi (Il giorno della civetta), o il commissario Rogas (Il contesto); ma ad un proprio “senso di giustizia” pretenderebbe di ispirarsi in certe sue azioni anche la mafia, assumendone una nozione “istintiva”, naturale, vista come “un dono”, capace di decidere le vertenze e portare la pace anche nel mondo criminale.
Questa dimensione naturale, a ben vedere intuitiva del “senso di giustizia” per S. non si ritrova purtroppo nelle aule di giustizia, e di ciò l’A. constata anche il pericolo dell’alibi inopinatamente offerto al ragionamento criminale: “Se noi due stiamo a litigare per un pezzo di terra, per una eredità, per un debito; e viene un terzo a metterci d’accordo, a risolvere la vertenza…In un certo senso, viene ad amministrare giustizia: ma sapete cosa sarebbe accaduto di noi due, se avessimo continuato a litigare davanti alla vostra giustizia? Anni sarebbero passati, e forse per impazienza, per rabbia, unno di noi due, o tutti e due, ci saremmo abbandonati alla violenza…” (Il giorno della civetta).
In questo senso, il tema della Giustizia si pone anche come problema del “giudicare”, che dovrebbe essere vissuto come “dolorosa necessità”, assumendo “il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio” (L.Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare, 153).
Richiamando il precetto evangelico “non giudicate affinché non siate giudicati”, don Gaetano osserva che in tal modo “non si proibisce il giudicare, ma lo si pone in diretto e inevitabile rapporto con l’essere giudicati”, lo ricorda Lipari (op.cit., 102), come una prospettiva che dovrebbe costantemente dare misura e prudenza al giudizio.
Pur se dolorosamente assente dalle aule giudiziarie, così come nelle parodistiche interpretazioni della cultura e prassi mafiosa, quel “senso di giustizia” di cui l’opera di S. è costantemente alla ricerca è però la spinta che sorregge l’azione di certi suoi protagonisti: è cioè restituito dalla letteratura.
Solo nella letteratura e nell’arte si fa, si restituisce giustizia.
Come scrisse l’A.: “Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo. Un problema che si assomma nella scrittura, che nella scrittura trova strazio o riscatto…” (L. Sciascia, 14 domande a Leonardo Sciascia, a cura di C. Ambroise, in Opere 1956-1971, Milano, Bompiani1989, pp. XIII).
In ciò del resto mi viene da accostare S. a F.Dürrenmatt, ed al suo racconto La panne. Una storia ancora possibile (1956), dove il protagonista, ospitato per puro caso (una panne, un guasto dell’auto appunto) nella casa di un giudice in pensione, viene da questo insieme ad altri ex uomini di legge fatto oggetto di un finto processo, nel quale attraverso un gioco surreale emerge la verità di un inconfessato delitto, grazie al fatto, come dice il padrone di casa, che “noi quattro qui seduti a questo tavolo siamo ormai in pensione e perciò ci siamo liberati dell'inutile peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali, e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza riguardo alla miseria delle leggi e dei commi”, attingendo però – nel gioco del racconto e dell’invenzione, liberi dagli ingranaggi giudiziari ufficiali – una forma di giustizia fuggita alla pubblica autorità.
In questo senso, come scrive Lipari (op.cit., 107), le opere di letteratura “non si limitano a raccontare il diritto, ma semmai concorrono a formarlo” (ivi); e ancora “Sciascia ha concepito la letteratura come vita, in chiave etica, quale veicolo per la ricerca della verità e della giustizia” (op.cit., 108).
Ed è, appunto, nella Giustizia quale obbiettivo di una lotta, di una ricerca costante, che S. coinvolge il lettore, come fa con il finale di Todo Modo, allorquando nell’astenersi dal fornire una soluzione “incita implicitamente il lettore a cercare in sé stesso la risposta alla domanda di giustizia” (Lipari, op.cit., 104); facendo della scrittura strumento per additare la giustizia quale oggetto di una ricerca inesauribile, là dove “ciò che caratterizza la giustizia è proprio questo atteggiamento di ricerca. Giusto è colui che ricerca la giustizia; non colui che crede di averla trovata” (Lipari, op.cit., 104).
4. Verità
Da ultimo, il tema della verità.
La mia convinzione, tratta dalla rilettura di S. cui il libro che oggi commentiamo mi ha utilmente spronato, è che S. creda nella possibilità di raggiungere, “vedere” la verità. In ciò confermando il profilo del seguace di un approccio razionalista, di cultore del pensiero del secolo dei lumi; meno forse però nel modo di attingere la stessa verità, dato che Alétheia non è nell’opera sciasciana il frutto immancabile di un disvelamento razionale, l’esito sicuro di un percorso raziocinante, pur doverosamente immerso nella realtà, secondo il metodo illuminista appunto, anziché cartesianamente a priori.
Per S., dicevo, v’è uno scarto anzitutto fra verità e diritto
La verità non sta nel diritto, come lo scrittore che oggi celebriamo addita al lettore, ad esempio – e lo coglie Donini nella sua lettura de Il consiglio d’Egitto” – allorquando denuncia “la menzogna del diritto, perché quando questo afferma il vero, nel caso del falso di Vella, copre il privilegio, ma altrettanto lo copre quando uccide per alto tradimento un riformatore illuminato come D Blasi” (Donini, op.cit., 32).
Né la verità si rintraccia nel giudizio, come in quei processi che l’ispettore Rogas ripercorre ne Il Contesto alla ricerca degli errori giudiziari da cui trarre indizi per rintracciare l’assassino dei giudici, o come quelli teorizzati, nello stesso libro, dal cinico e autoreferenziale Presidente Riches, per il quale gli individui pur al centro dei processi svaniscono in una nebbia indistinta e impersonale.
S. non nutre fiducia che la verità possa essere mai compiutamente intercettata nei processi, nelle aule giudiziarie, né che la giustizia, per essere tale, debba coincidere con l’attingimento della verità, anziché di una verità, la più onestamente e legittimamente ricercata e raggiungibile qui ed ora, nel contesto dato.
D’altra parte, osserverei, nella applicazione della legge attraverso il giudizio non è pretesa umanamente e ragionevolmente proponibile quella di attingere immancabilmente la verità, piuttosto che una verità. Nel giudizio si tratta di adeguare la legge ai fatti, per giungere ad una decisione che il più possibile si approssimi ad un esito accettabile e ragionevole, perché conforme agli obbiettivi perseguiti dalla legge. Non di svelare la verità, la cosiddetta verità “materiale”.
È però, per S., in qualche modo, “La verità è sotto gli occhi di tutti”, come si legge in Todo modo (citando dal romanzo di Edgar Allan Poe, La lettera rubata).
Come quella verità per cui è don Gaetano (chi altri?), ad avere commesso i primi due omicidi. O come la verità perfino dichiarata dal pittore/protagonista che si autoaccusa dell’omicidio di don Gaetano, senza apparire però credibile agli astanti.
A volte la verità è magari in fondo al pozzo (“se ci si butta giù, non c’è più né sole, né luna; c’è la verità”, nelle parole di Don Mariano ne “Il giorno della civetta”); ed è una verità che costa sofferenza, e senza bellezza. Scabra e rischiosa come il fondo di un pozzo, appunto, nel quale occorre gettarsi per raggiungerla. Don Mariano risponde del resto così alla domanda di Bellodi “Per lei, vedo, la bellezza non ha niente a che fare con la verità”.
Ma la verità comunque per S. c’è, è lì davanti ed è attingibile. Il problema è il come.
È la letteratura che attinge quella verità, che sembra eternamente sfuggire al diritto ed alla cosiddetta “verità giudiziaria”.
Anche l’ispettore Rogas (ne Il contesto), allorquando indaga sui fascicoli trattati da alcuni dei giudici uccisi, alla ricerca del possibile colpevole del delitto, dice S. che “trasse la convinzione di quanto non fosse difficile, in fondo, distinguere, anche sulle morte carte, nelle morte parole, la verità dalla menzogna; e che un qualsiasi fatto, una volta fermato nella parola scritta, ripetesse il problema che i professori ritengono s’appartenga soltanto all’arte, alla poesia”.
In questo senso, la letteratura “Per S. ha una potente funzione euristica e arrivò a identificarla tout court con la verità” (Squillacioti, La giustizia come letteratura, 148).
Una verità che abita la letteratura, la parola scritta, pur talora fra qualche oscillazione o ambiguità, che però, come scrive ancora Squillacioti (op.cit., 145) è proprio il modo attraverso cui “la letteratura consente di giungere a una conoscenza profonda del reale”.
Vi è qui, come già per il senso di giustizia, ancora una volta una nozione intuitiva, naturale, quasi istintiva della verità, colta dallo sguardo dell’osservatore con l’ausilio della letteratura (non si dimentichi che l’ispettore Rogas, ne Il contesto, è un raffinato e colto lettore), piuttosto che per il tramite di un percorso razionale, di un concatenato ragionamento.
E mi pare di scoprire in ciò quanto sia da rivedere l’idea, che in qualche modo avevo mutuato da semplificazioni correnti e da non abbastanza ponderate letture, di S. come solo e strenuo cultore di un pensiero illuminista e razionalista, anziché quale interprete inquieto e sensibile della complessità dell’esperienza umana, anche nella sua dimensione cognitiva men che puramente razionale, e della letteratura come ritratto fedele di quella composita, non sempre razionalmente intellegibile né comunicabile esperienza.
*Testo dell’intervento all’incontro di studi tenutosi nell’Università di Palermo – Palazzo Steri il 7 maggio 2022 su Diritto Verità Giustizia - Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L.Cavallaro e R.G.Conti, Bari, Cacucci Editore, 2021.
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