ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Per non dimenticare le donne afghane di Maria Teresa Covatta
Sommario: 1. La Notizia: il burqa in pubblico è obbligatorio - 2. Che fine hanno fatto le magistrate afghane - 3. La diplomazia internazionale.
1. La Notizia: il burqa in pubblico è obbligatorio
Dopo tanti mesi di assordante silenzio c’è una notizia che riguarda l’Afghanistan. E non è buona.
È di questi giorni (7 maggio 2022) la decisione assunta dall’attuale governo afgano di imporre alle donne il burqa in pubblico. La Stampa ha fatto rilevare come questa posizione riporti la storia delle donne afgane indietro a 20 anni fa, quando gli stessi talebani, sulla base della loro radicale interpretazione della legge della Sharia, avevano imposto le stesse proibizioni volte a reprimere i diritti umani e in particolare qualunque diritto delle donne.
Il regime, dunque, sta tornando in tutto e per tutto a prendere la forma del vecchio Emirato
La notizia si inserisce nel quadro delle poche informazioni sull’attuale situazione in Afghanistan, filtrate all’esterno, nell’assenza quasi totale delle organizzazioni umanitarie e di una presenza internazionale diffusa. E anche queste, quali il divieto per le donne di viaggiare se non accompagnate da un uomo di famiglia e il divieto di frequentare scuole medie e superiori, non fanno ben sperare .
Con decreto approvato dal Ministero della Prevenzione del Vizio e la Promozione della Virtù, il cui nome, come si notò fin dal momento della sua istituzione, non lasciava presagire nulla di buono, è stato stabilito che il velo che copre interamente il corpo delle donne lasciando liberi solo gli occhi, è “tradizionale e rispettoso”.
Con lo stesso decreto è stato stabilito che le donne dovranno sempre velarsi completamente davanti ad un uomo che non è membro della famiglia “per evitare provocazioni” .
Infine è stato stabilito che le donne che non hanno un compito importante da svolgere all’esterno, “è meglio che rimangano a casa”.
In un Paese in cui alle donne è stato inibito di andare a scuola, sia come insegnanti che come discenti, di viaggiare da sole e di lavorare all’esterno, salvo pochissime eccezioni per lo svolgimento di funzioni sanitarie connesse alla maternità, è difficile immaginare quali possano essere questi “compiti importanti” che consentano loro di uscire dalle case dalle quali sono state di fatto tumulate.
Le immagini descritte dalla stampa sulle modalità di diffusione del comunicato – uomini barbuti, nessuna donna ovviamente - oltre al già eloquente contenuto del decreto, smentiscono chi riteneva che, almeno sotto il profilo della capacità comunicativa i talebani si fossero evoluti
2. Che fine hanno fatto le magistrate afgane
La sanzione per chi viola il divieto è, dopo un primo ammonimento, quella di essere portati in Tribunale, davanti a un giudice, ovviamente un uomo.
La Magistratura femminile è stata cancellata.
L’espressione, cruda ma assolutamente rispettosa della realtà, è stata utilizzata da Anisa Rasooli prima giudice afgana nominata, sotto il regime repubblicano, alla Corte Suprema afghana, peraltro in un settore quale quello della lotta alla corruzione e al traffico di droga, assolutamente inconsueto per una donna in Afghanistan.
La Rasooli, già evacuata in Pakistan al momento della presa di potere da parte dei talebani e ora stabilmente rifugiata negli USA dove di recente è stata insignita del Global Jurist Award conferitole dal prestigiose università americane ha partecipato alla prima celebrazione della giornata internazionale delle donne giudici, fissata con risoluzione ONU del 20 febbraio 2020 e festeggiata quest’anno per la prima volta .
Al meeting del 10 marzo 2022, organizzato dall’Associazione Internazionale delle Donne Giudici (IAWJ)e aperto a tutte le socie, tra cui quelle dell’Associazione Italiana Donne Magistrato (ADMI) la Rasooli ha fornito, dopo mesi di silenzio, informazioni sulla situazione delle donne in Afghanistan e in particolare delle donne magistrate.
Quando i Talebani hanno preso il potere, nell'immediatezza, la comunità internazionale e le Organizzazioni della società civile (in particolare le associazioni di donne , quelle di donne magistrato e tra tutte specialmente la IAWJ) hanno accolto la richiesta di aiuto delle donne magistrate, chiuse in casa per paura di rappresaglie strettamente connesse alla funzione svolta, nascoste in casa e terrorizzate, come hanno testimoniato sia alcune di loro raggiunte in modo rocambolesco dai media, sia da quelle che sono riuscite, già nell'immediato, ad allontanarsi dal Paese.
Ad oggi la situazione non è cambiata.
Quello che c'è di buono è che molte magistrate (più dei due terzi) con le loro famiglie sono riuscite a lasciare l'Afghanistan grazie alle Organizzazioni internazionali, Umanitarie e grazie all'IAWJ .
Ne restano però circa 80 delle 300 in carica al momento della presa di potere da parte dei Talebani, atteso che l'evacuazione è stata molto più difficile per le magistrate che non erano in sede a Kabul,ma che esercitavano in province più o meno lontane dalla capitale: e questo soprattutto a causa della repentina presa di potere dei Talebani, la cui rapida avanzata è stata da più parti sottovalutata.
La Rasooli ha raccontato la realtà attuale delle donne magistrato dicendo che quelle rimaste sono ancora in grave pericolo di vita. Che le donne che hanno manifestato contro le restrizioni contro le donne e contro l'applicazione integrale della legge della sharia, immediatamente ripristinata dai Talebani senza tener in nessun conto le leggi statali ed in particolare il dettato della costituzione afgana, o sono state arrestate o vivono " come ribelli", nascoste, senza stipendio e senza alcuna forma di sostentamento anche minimo se non quello fornito dalle organizzazioni umanitarie e dalla IAWJ che continuamente effettua raccolte di fondi per provvedervi.
La giudice Rasooli usa un'espressione terribile per la sua definitività: le donne sono state cancellate (erased) dall'esercizio della giurisdizione e da tutto ciò che essa poteva significare: garanzia di dignità, maggior accesso delle donne alla giustizia, valore aggiunto in termini di rispetto dei diritti umani tra questi del valore della parità di genere.
Tutte vivono, conclude la Rasoori, in una specie di limbo in attesa che accada qualcosa di nuovo e di buono.
Di certo la recente notizia del burqa imposto alle donne non concretizza questa speranza
Le persecuzioni dei Talebani verso le magistrate sono volte a reprimere una delle maggiori espressioni della parità di genere.
Esercitare la giurisdizione vuol dire avere il potere/dovere e la capacità di svolgere un processo, civile o penale che sia, e concluderlo con un giudizio.
È senz’altro tra le più importanti espressioni della parità di genere poiché implica pari facoltà intellettive, in un settore così delicato quale quello del giudizio, pari capacità di interpretazione della legge, pari capacità di valutazione dei fatti della vita e di esprimere su di essi un giudizio mediato dalla legge: capacità che una donna esercita nei confronti di altre donne ma anche di uomini.
In un regime integralista, e possiamo ben dire medioevale, quale quello talebano che relega la donna tra i muri di casa, alla procreazione dei figli e la asserve al potere del padre, fratello, marito o parente, purché maschio, questa possibilità è semplicemente impensabile
E del tutto irrilevante, in questo contesto ideologico, che le magistrate afgane facessero parte del “vecchio regime” di cui si vogliono cancellare le tracce.
La magistratura femminile può considerarsi esponente del regime precedente solo nel senso che il regime costituzionale aveva consentito loro, per la prima volta, di conseguire un'istruzione superiore e quindi di avere i requisiti per esercitare la giurisdizione .
Il peso preponderante della loro cancellazione come categoria è dunque prevalentemente quello del loro essere donne e ciò nonostante aver esercitato una professione così determinante quale l'accertamento di fatti della vita, l'emanazione di una sentenza anche nei confronti di un uomo, Insomma per un regime integralista quale quello talebano l'idea di una giustizia amministrata da donne è semplicemente inaccettabile. E' inaccettabile che siano delle donne a gestire un processo e a formulare un giudizio finale che può attingere negativamente anche un soggetto di sesso maschile, per definizione superiore.
È proprio per questo che l'esercizio della professione di magistrato da parte delle donne afgane, garantito almeno formalmente dalla Costituzione e dal riconoscimento delle convenzioni internazionali poste a tutela dei diritti delle donne, prima tra tutte quella di Istanbul, ma non solo, tutte formalmente non espunte dall’ordinamento afgano, ha rappresentato un incredibile strumento propulsore e moltiplicatore di democrazia, garantendo o quanto meno rendendo più normale alle (altre) donne l'accesso alla giustizia, fino ad allora vista soltanto come il giudizio punitivo dell'uomo nei confronti della donna che, in quanto tale, se si rivolge alla giustizia, lo fa a suo rischio e pericolo.
È noto, infatti, che in Afghanistan fossero pochi i giudici di sesso maschile disponibili a rischiare la propria legittimazione per affrontare la difesa dei diritti delle donne, da sempre scintilla o pretesto di rivolte a sfondo religioso o culturale. Era questa la incredibile missione delle donne afghane: affermare, nei limiti del possibile, e sempre più, l'esistenza di tali diritti.
Scriveva nel 2014 la giudice Rasooli: “È importante aumentare la presenza delle magistrate in tutti i luoghi in cui le donne non hanno diritti.” Si può aggiungere, trasportando il principio a livello generale, che la presenza delle donne magistrate è necessaria in tutti i luoghi in cui diritti delle donne necessitano di essere affermati e difesi.
Di questa “lezione” dovrebbero tener conto tutte le magistrature del mondo poiché è di fondamentale importanza comprendere che l’esercizio della giurisdizione da parte delle donne, a tutti i livelli, è l’espressione massima non solo del raggiungimento della parità di genere ma proprio della civiltà di un sistema
Concetto difficile da comprendere e da attuare come dimostrato anche dal fatto che nel nostro Paese, appena uscito dalla guerra e dal Fascismo, la presenza femminile si registrava anche nell’Assemblea Costituente, dove molte donne hanno influito notevolmente alla configurazione dei diritti fondamentali tra cui quello della parità, ma non nell’esercizio della giurisdizione.
Infatti solo nel 1965 le donne sono state ammesse in magistratura, segno che le resistenze a connettere donne e esercizio della giurisdizione e ancor più a considerare come possibile la leadership femminile nel settore, sia frutto di pregiudizi radicati, ancora presenti, anche se con modalità di esternazione diverse nelle diverse società , e ancora oggi difficili da superare.
3. La diplomazia internazionale
Al di là delle prime reazioni immediatamente dopo la presa di potere dei Talebani, le notizie circa il lavoro delle OO.II e delle ONG in Afghanistan e delle diplomazie per l’Afghanistan sono scarse ma non c’è dubbio che tutte siano all’opera, sia pur rimanendo “sott’acqua”, le prime per non essere dichiarate non grate all’attuale sistema, la seconda per non compromettere equilibri instabili.
Il supporto delle organizzazioni internazionali e della società civile rimaste o tornate sul territorio è fondamentale, nei limiti in cui è consentito per aiutare gli afgani a sottrarsi agli arresti e alle violenze oltre che al freddo, alla fame e alle malattie.
Si opera, in particolare sul canale umanitario che consente di non finanziare il regime e di prestare assistenza diretta alla popolazione.
L’aiuto umanitario, che è il canale seguito anche dalla diplomazia, è fondamentale per non aggravare il collasso di un Paese alla fame, che combatte con una gravissima crisi umanitaria che tocca alimentazione, sanità e sistema politico in generale e nel quale la distruzione dei raccolti comporta il virare dell’economa verso la ripresa della coltivazione di droghe
Una notizia rilevante, sotto questo profilo, che sembrava aprire un piccolo spiraglio nel buio della situazione afgana, è stata la Risoluzione ONU e specificamente del Consiglio di Sicurezza emanata il 17 marzo 2022 che ha stabilito di riprendere “formali e stabili” relazioni con il Paese.
La Risoluzione, dove, da notare, non viene mai usato il termine Talebani, è stata approvata con 14 voti favorevoli e ha esteso per un anno, fino al 17.3.2023, la missione di assistenza ONU (UNAMA).
Astenuta la Russia ,che aveva addirittura minacciato il veto che non c’è stato, con la rimarchevole motivazione della mancanza di consenso alla Missione da parte dell’autorità de facto del Paese.
Il che getta una luce sinistra, alla luce dell’invasione ucraina, sull’idea putiniana, piuttosto cangiante, su cosa sia “consenso del popolo” o “autoderminazione dei popoli”.
Riguarda sempre la diplomazia russa la notizia delle dichiarazioni del Ministro degli Esteri della Federazione Russa Lavrov il quale, nel marzo 2022, a Tunxi, in Cina, dove si era riunita la Conferenza dei Paesi vicini all’Afghanistan, ha comunicato che il primo diplomatico afghano era stato accreditato a Mosca , inviato dalle “nuove autorità”
Nello stesso contesto il leader cinese Xi Jinping ha esposto la sua visione attuale dell’Afghanistan, un paese che “è giunto ad un punto critico di transizione dal caos all’ordine” e che un paese pacifico e stabile è l’aspirazione di tutti gli afghani.
A che prezzo non è detto. Di diritti comunque neanche a parlarne.
Gli USA, invece, di fronte alla notizia del ripristino sanzionato dell’uso del Burqa si dicono estremamente preoccupati, attesa l’evoluzione negativa dei diritti delle donne e dal fatto che si stanno erodendo i progressi tanto faticosamente conquistati.
Così in un comunicato recentissimo del Dipartimento di Stato USA, in cui, nell’espressione di questa preoccupazione, si associano tutti i partner internazionali.
E non si tratta di una affermazione neutra, pendente ancora la richiesta dei Talebani di scongelare gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale destinati all’Afghanistan (450 miliardi di dollari Usa) e la riserva della Banca Centrale Afgana (9 miliardi di dollari USA).
La scelta dell’imposizione del burqa contraddice alla richiesta della comunità internazionale di condizionare il rilascio di queste somme ad una politica di maggiore tutela dei diritti dei cittadini in generale e delle donne in particolare.
Evidentemente il radicalismo ideologico è più forte della fame e della crisi umanitaria che sta travolgendo il Popolo di cui tutti dicono di occuparsi, e prevale su tutto.
Pasolini, Sciascia e il ‘processo’ di Luigi Cavallaro
Oggi pare che solo platonici intellettuali (aggiungo: marxisti) – magari privi di informazioni, ma certamente privi di interessi e complicità – abbiano qualche probabilità di intuire il senso di ciò che sta veramente succedendo: naturalmente però a patto che tale loro intuire venga tradotto – letteralmente tradotto – da scienziati, anch’essi platonici, nei termini dell’unica scienza la cui realtà è oggettivamente certa come quella della Natura, cioè l’Economia Politica.
Pier Paolo Pasolini, Lettera luterana a Italo Calvino, “Il Mondo”, 30 ottobre 1975.
In una delle rare fotografie che li ritraggono insieme, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia si trovano a Zafferana Etnea, a pochi chilometri da Catania. L’anno, mirabilis, è il 1968; l’occasione, l’assegnazione ad Elsa Morante del premio letterario intitolato a Vitaliano Brancati.
Già allora, Pasolini e Sciascia si conoscevano e stimavano da tempo: ai primi degli anni Cinquanta risale l’antologia Il fiore della poesia romanesca, curata da Sciascia e prefata da Pasolini; e di “un vero, forte e commosso senso di fraternità” aveva scritto il poeta allo scrittore subito dopo aver letto Le parrocchie di Regalpetra (1956). Erano diventati amici: e all’indomani della sua morte, Sciascia ricorderà anzi di essere stato “la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare”; e più ancora, che “negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose”.
Del luogo, invero disadorno, dello scatto, con certezza non sappiamo: azzarderemmo che si tratti dello stesso albergo “Emmaus”, gestito dai salesiani, dove si svolgeva la cerimonia della premiazione; e comunque, ci piace pensarlo. Perché è proprio nel piazzale antistante quell’albergo che, due anni dopo, Sciascia avrebbe assistito ad una scena di cui sarebbero stati protagonisti giusto degli ex allievi dei salesiani. “Singolari allievi”, avrebbe rimarcato: “quasi tutti notabili della Democrazia Cristiana”; e già in una nota sul Corriere della Sera del settembre 1971, allusivamente intitolata “Esercizi spirituali”, di quella scena avrebbe dato una descrizione terrifica e precisa: “La sera, tutti insieme, recitavano il Rosario: andavano su e giù nello spiazzo avaramente illuminato, a passo svelto, con dei dietrofronti improvvisi, confusi, aggrovigliati; e quanto più si aggrovigliavano tanto più levavano le voci nei pater, negli ave, nei gloria. Con una nota di isteria, di paura. E in quel momento, anche chi (come me) li vedeva nella abietta mistificazione e nel grottesco, scopriva che c’era qualcosa di vero, qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale, in quel loro andare su e giù al buio, in quel biascicare preghiere, in quel confondersi e aggrovigliarsi: quella nota di isteria, di paura; quasi che per un attimo si sentissero, disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi. Appunto come nella dantesca bolgia dei ladri. E che l’attimo potesse diventare eternità”.
Da qui, da questa scena, vorremmo muovere per provare brevemente a dire di quelle “stesse cose” a cui pensavano e di cui scrivevano Sciascia e Pasolini. Quegli ‘esercizi spirituali’ casualmente osservati all’albergo “Emmaus” rappresenteranno per Sciascia una immagine così potente che qualche anno dopo ne trarrà quasi d’improvviso Todo modo, dove l’albergo salesiano diventerà l’“eremo di Zafer”. E mentre l’eremo ha “tutta una storia inventata a tavolino”, come spiega l’inquietante don Gaetano al narratore, ben diversamente, vien fatto a noi di aggiungere, accadrà per Todo modo: che, nella sinistra trasposizione cinematografica di Elio Petri (1976), diventerà non soltanto, come Sciascia stesso ebbe a dire, “un film pasoliniano, nel senso che il processo che Pasolini voleva e non poté intentare alla classe dirigente democristiana oggi è Petri a farlo”, ma soprattutto un’allegoria del futuro ‘processo’ e assassinio di Aldo Moro: così rassomigliante nella spregiosa caricatura di Gian Maria Volontè che lo stesso Moro, che vide il film in una saletta di proiezioni a Palazzo Chigi, lo giudicò “ignobile, ma inevitabile”.
“Inevitabile”: quasi a presentire anche lui stesso che, una volta abbandonata la verità alla letteratura, soltanto la letteratura avrebbe potuto farla duramente e tragicamente riapparire.
Il ‘processo’ all’intera classe dirigente italiana, anzitutto democristiana: ecco, appunto, la ‘cosa’ di cui Pasolini e Sciascia principalmente pensavano e scrivevano.
Todo modo viene pubblicato alla fine del 1974 (il ‘finito di stampare’ è del 9 novembre) e tra l’agosto e il settembre dell’anno successivo Pasolini scrive una serie di articoli (postumamente raccolti nelle Lettere luterane) su come e perché bisognerebbe processare i gerarchi democristiani. E puntigliosamente ne elenca i capi d’imputazione: “indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono ‘selvaggio’ delle campagne, responsabilità dell’esplosione ‘selvaggia’ della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori”.
Ma ancor prima, del 14 novembre 1974, è Che cos’è questo golpe, con l’appassionata anafora dell’“Io so”; e del 1° febbraio 1975 Il vuoto di potere in Italia (raccolti entrambi negli Scritti corsari, diventeranno rispettivamente Il romanzo delle stragi e L’articolo delle lucciole). E in mezzo a questi due blocchi di scritti, sul Tempo del 24 febbraio 1975, la recensione a Todo modo: di cui Pasolini avverte l’essere “sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso”; e in cui scorge nitidamente “questa concezione quasi dantesca del mondo”, dove “la piramide del potere, monolitica all’esterno”, si rivela “estremamente complicata, labirintica, mostruosa all’interno”; e la cui novità sta semmai nel fatto che l’“uomo buono” (che, come l’Autore, è colui che “non accetta una condizione tradizionale fondata sull’ingiustizia” e il cui giudizio è quello “di un tribunale finalmente giusto”), trovatosi casualmente di fronte a quella piramide e condotto, ancora per caso, dentro i suoi incomprensibili meccanismi, “si fa giustiziere”: e “decide che alcuni componenti di quel ‘club’ del potere debbano morire, a scadenze regolari, da romanzo giallo”; condannati, certo, per il modo criminoso con cui gestiscono il potere, ma fors’anche perché “il potere è di per se stesso un crimine”.
Converrà però tornare sui capi d’imputazione che Pasolini muove a quella classe politica: ché, come lui stesso avverte, non è “una questione di moralità”. “La colpevolezza dei potenti democristiani da trascinare sul banco degli imputati non consiste in una loro immoralità (che c’è), ma consiste in un errore di interpretazione politica nel giudicare se stessi e il potere di cui si erano messi al servizio”. Ovvero, e con le parole dell’“articolo delle lucciole”: “gli uomini di potere democristiani sono passati dalla ‘fase delle lucciole’ alla ‘fase della scomparsa delle lucciole’ senza accorgersene”, nel senso che “non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una ‘normale’ evoluzione, ma stava cambiando radicalmente natura”. E questo potere totalmente ‘altro’, che dalla metà degli anni Sessanta essi hanno servito senza accorgersene, “potrebbe aver già riempito il ‘vuoto’”: con ciò “vanificando anche la partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell’Italia”.
Al fondo c’è dunque la ‘grande trasformazione’ che l’Italia, come tutto il mondo occidentale, ha subito nell’ultimo trentennio: quella che comunemente designiamo come l’avvento della ‘società dei consumi’. Per effetto della quale – leggiamo ancora nell’articolo delle lucciole – i ‘valori’ del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico non contano più: “Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più”; e “a sostituirli sono i ‘valori’ di un altro tipo di civiltà, totalmente ‘altra’ rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale”.
Ed ecco, allora, la funzione del processo (anzi: del “Processo”, come scrive Pasolini in un articolo del 24 agosto 1975): esso renderebbe “chiaro” (“folgorante, definitivo”) che “governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere, bensì in relazione al nuovo potere”; “e che proprio nel non aver capito questo consiste il vero reato, politico, dei democristiani”.
Dolorosamente piegandosi, qualche anno dopo, su questi scritti, Sciascia scriverà nell’Affaire Moro che “Pasolini voleva processare il Palazzo quasi in nome delle lucciole”: “per le lucciole scomparse”. E acutamente noterà come, tre anni dopo quel 1° febbraio 1975, alle soglie del rapimento avvenuto nel giorno in cui si sarebbe dovuta votare la fiducia al primo governo sostenuto dal PCI, soltanto Moro (che, nella franca ammissione di Pasolini, era “per una enigmatica correlazione” colui che appariva “il meno implicato di tutti” nelle cose orribili organizzate in quegli anni) continuasse ad aggirarsi in quel “Palazzo”: “in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate”; e sgomberate “per occuparne di altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto Palazzo. E più sicure, s’intende, per i peggiori”.
Era insomma in ritardo, Moro, e solo, benché avesse creduto di essere alla guida del suo partito; ed era rimasto solo perché “il meno implicato di tutti”, ancorché, e proprio per ciò, “destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni”: così Sciascia riscrive l’affermazione dell’amico “fraterno e lontano”. Ed è riscrittura significativa: ché di Moro si è appena consumata la tragedia.
Fermiamoci un momento. Pasolini parla inizialmente “proprio di un processo penale, dentro un tribunale”, con “Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della Repubblica)” che dovrebbero comparire “sul banco degli imputati”. Successivamente, esorta i suoi lettori ad assumere quell’immagine “come un’immagine metaforica” e il processo stesso “come una metafora”; ma la funzione rivelatrice che egli vi annette non cambia: ché si tratterebbe di rivelare ai cittadini italiani “qualcosa di essenziale per la loro esistenza”, ossia che “i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma di potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti (traendone peraltro tutti i possibili profitti) e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che cosa farsene di loro”. E “soltanto un Processo potrebbe dare a questa astratta affermazione i caratteri di una verità storica inconfutabile, tale da determinare nel paese una nuova volontà politica”.
Ma può un processo avere questo scopo? Può cioè un processo farsi levatore di una verità storica così inconfutabile da generare a sua volta una volontà politica adeguata al nuovo tempo? E un processo che avesse uno scopo del genere sarebbe realmente un processo?
La memoria del giurista corre rapida ad uno scritto di Salvatore Satta: “Il mistero del processo”, s’intitola; e apparve nel 1949 sulla Rivista di diritto processuale, per poi essere raccolto da Satta stesso nei Soliloqui e colloqui di un giurista (1968). Il confronto tra il risoluto presidente del Tribunale rivoluzionario parigino e la folla dei sanculotti inferociti che volevano far scempio dell’accusato maggiore Bachmann, comandante delle guardie regie, offre a Satta lo spunto per chiedersi, con la radicalità che gli è propria, se differenza alcuna passi tra quella folla dalle mani arrossate di sangue e quei borghesi in mantello nero e cappello a piuma, che li fronteggiano assisi sugli scranni della sala delle udienze; e specialmente perché mai questi ultimi, che pure in via di fatto potrebbero impunemente uccidere il maggiore Bachmann, intendano invece ucciderlo “attraverso un processo”.
E quest’ultima è questione che ben si attaglia al ‘processo’ invocato da Pasolini: e non soltanto perché il processo, una volta istituito, tende a vivere di vita propria e si ritorce come una serpe contro qualunque ‘scopo’ rivoluzionario per il quale lo si volle istituire (e se ne accorsero anche i rivoluzionari francesi, quando – per bocca del procuratore Fouquier-Tinville – domandarono alla Convenzione di essere liberati dalle forme che la legge prescriveva a garanzia degli imputati); ma specialmente perché il processo, nella sua intima essenza, è ‘giudizio’, e un giudizio può esser reso solo da chi è ‘terzo’: e l’esperienza giuridica insegna che ‘terzo’ può essere non solo chi, formalmente, non è ‘parte’, ma soprattutto chi dal processo non può ricavare giovamento o nocumento alcuno: e lo attestano certamente le norme sull’astensione e ricusazione del giudice, che dilatano il concetto di ‘parte’ fino ai confini che esso ha nel linguaggio comune, ma lo stesso principio della pubblicità del dibattimento penale: che, nella potente intuizione di Carnelutti, si spiega solo presupponendo che il pubblico, che ha diritto di assistere al processo, sia ‘parte’; e che appunto in quanto ‘parte’ gli sia vietato di manifestare opinioni o sentimenti o di tenere un contegno intimidatorio o provocatorio: ché se non lo fosse, se fosse cioè realmente estraneo al giudizio, di una simile prescrizione non vi sarebbe affatto bisogno.
Si dà dunque contraddizione flagrante, agli occhi del giurista, in un processo come quello invocato da Pasolini: perché sarebbe un processo in cui il giudizio della ‘parte’ (e cioè del pubblico dei rostri, a cui lo scrittore, in quanto intellettuale, dà voce: e si veda ancora l’articolo delle lucciole) si sostituirebbe al giudizio del ‘terzo’; sarebbe dunque ‘punizione’, non ‘giudizio’: e punire, avverte Satta, può chiunque, perché il punire non è che azione. “Punisce Minosse, avvinghiando la coda: ma il giudizio, quando l’anima si presenta di fronte a lui, è già compiuto, in una sfera nella quale egli, demonio, non può penetrare”.
Né ciò è tutto. Si può e anzi si deve dubitare che da un processo possa scaturire qualcosa di minimamente paragonabile ad una “verità storica inconfutabile”: e non solo per quanto riguarda il giudizio di fatto, che si compie tutto all’insegna del ‘probabile’, ma perfino per quanto concerne il giudizio di diritto, che Guido Calogero ci ha spiegato non essere affatto quella cosa ‘logica’ postulata dalla rassicurante figura del sillogismo giudiziale. La costruzione del fatto e della norma procedono da tecniche argomentative che possono tutt’al più mimare la dimostrazione matematica, giammai eguagliarla: e la riprova è che l’unica ‘certezza’ che può discendere da un processo è quella del ‘giudicato’, che già Ulpiano aveva spiegato che solo “pro veritate accipitur”.
“Verità storica inconfutabile”, in realtà, può essere quella, e solo quella, che si sa già prima del processo e che chiama all’azione e alla punizione. “La Convenzione, la Francia intera accusa gli imputati – scriveva Fouquier-Tinville – ciascuno ha nella sua anima la convinzione che essi sono colpevoli”; e gli farà sinistramente eco, quasi due secoli dopo, il comunicato con cui le Brigate Rosse annunciano la conclusione del ‘processo’ ad Aldo Moro: “Non ci sono segreti che riguardano la DC, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia, il suo compito di pilastro dello Stato delle Multinazionali, che siano sconosciuti al proletariato […] Quali misteri ci possono essere del regime DC da De Gasperi a Moro che i proletari non abbiano pagato con il loro sangue? […] Non ci sono quindi ‘clamorose rivelazioni’ da fare”.
Sciascia, ineccepibilmente, chioserà: “Niente segreti, niente misteri, nessuna clamorosa rivelazione: tanto valeva – poiché lo si sapeva da prima, poiché non è una risultanza del processo – lasciare Moro in via Fani, affratellato nella morte a quei cinque servitori del SIM”. Che, nella terminologia brigatista, era appunto lo “Stato Imperialista delle Multinazionali” e, nella realtà dei carabinieri e poliziotti uccisi in occasione del suo sequestro, un datore di lavoro assai poco vigile sulla sicurezza dei suoi dipendenti.
Si potrebbe legittimamente domandare perché mai, allora, Pasolini insista sulla necessità di un processo che, se realmente tale, non potrebbe mai servire ai suoi scopi: che invece, e a tutto concedere, sono appunto gli scopi di un ‘giustiziere’. E si potrebbe forse rispondere, ancora con Satta, che per quanto nulla gli umani aborriscano come il giudizio, nulla desiderano come giudicare: “perché giudicare significa postulare l’ingiustizia di un’azione, invocare quindi il giusto contro di essa”.
Senza ‘giudizio’, in effetti, non c’è propriamente ‘pena’, come ben intesero Carnelutti e, prima di lui, Blaise Pascal, per il quale Gesù Cristo non aveva voluto essere ucciso senza un processo “perché è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio che per una sedizione ingiusta”. E vien fatto allora di supporre che propriamente sia la ‘pena del giudizio’ a essere chiamata in causa nell’invocazione pasoliniana: quella ‘pena’ che faceva dire a Carnelutti che una sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario e che Natalino Irti, recentemente commentando proprio quelle sue pagine, ha compendiato nell’afflizione del sentirsi giudicati.
Ne abbiamo avuto dimostrazione nel ‘processo’ che, ormai quasi trent’anni or sono, è stato poi effettivamente celebrato nei confronti dei massimi esponenti della politica nostrana: ossia, nel processo contro Sergio Cusani, che attenti sociologi hanno per ciò definito come un vero e proprio “rituale di degradazione”, con l’arena processuale eretta a palcoscenico (per l’occasione, televisivo) dell’assassinio rituale di un intero ceto politico e la pubblica accusa a denunciarne l’indegnità morale affinché si compisse, uno actu, la sua separazione dal corpo sociale e la purificazione del pubblico chiamato ad assistervi.
E come nei precedenti illustri di fra Diego La Matina e, prima di lui, di Domenico Scandella detto Menocchio (il primo conterraneo di Sciascia, il secondo di Pasolini), in quel processo non si sono udite che le accuse; e se per Menocchio e fra Diego ciò era dipeso dalla procedura del Sant’Uffizio, che raccomandava che “nelle sentenze non si cavino li motivi e le raggioni che dona il reo […] perché si afferma che alcuni s’hanno imparato sentendo queste sentenze”, nel caso degli uomini politici interrogati nel corso del processo Cusani si dovette più banalmente al fatto che erano tutti imputati (o ancora semplici indagati) di reato connesso e non parti di quel processo.
E anche in questa occasione, come già per le processioni del Sant’Uffizio a cavallo, tanta gente si mosse per godere la scena: l’audience di “Un giorno in Pretura” raggiunse picchi impensabili; e ad ognuna delle cinquantuno udienze in cui si dipanò il dibattimento, code di bravi cittadini si formavano fin dal mattino presto davanti al Palazzo di Giustizia milanese per accaparrarsi ognuno un piccolo spazio nella parte dell’aula accessibile al pubblico, sì da poter anche loro carpire una qualsiasi reliquia visiva della ‘giustizia’ che si offriva al loro godimento. E da ‘code’ simili, del resto, quel processo si era originato: e di cittadini meno bravi, ma che non chiedevano altro che di confessarsi delle loro colpe negli uffici al quarto piano della Procura della Repubblica e quasi guidavano la mano dei giudici verbalizzanti a vergare il futuro capo d’imputazione.
E nessuna importanza, naturalmente, si diede all’ammonimento, che pure emerse, che l’annichilimento dei partiti politici avrebbe implicato l’emergere in vece loro di ‘cose’ assai meno democratiche e assai più asservite al ‘nuovo potere’: Max Weber avrebbe probabilmente scorto in quel processo la celebrazione della Gesinnungsethik, l’irresponsabile “etica dei principî”; e Michel Foucault, certamente, una cerimonia attraverso cui quel ‘nuovo potere’ si manifestava in tutto il suo splendore.
Toccherà perciò ad un avvocato, e non ad un giudice, cavare la morale, accostando provocatoriamente la ‘delega’ attribuita alle Brigate Rosse per assassinare Moro e quella alle procure di mezza Italia per mandare al rogo la ‘partitocrazia’. E anche a noi vien fatto di dire che terrificante è il processo, quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione lo dominano o vi si insinuano; e che in quel ‘fare i nomi’ da parte di uomini che con gli accusati avevano condiviso il potere (e non sempre come minori responsabili) stava, in definitiva, il vero colpo di Stato.
Eppure, può senz’altro capitare che dalla macchina processuale (“quel congegno indiavolato di stantuffi e di pulegge”, come se l’immaginava Saru Argentu, inteso Tararà, in una celebre novella di Pirandello) venga fuori una qualche scheggia o un frantumo di una verità ignota, che – come leggiamo nell’Alfabeto pirandelliano, ad vocem “Verità” – riesce nondimeno a rovesciare o a disgregare le apparenze delle menzogne convenzionali; o quanto meno, aggiungiamo noi, a svelarne l’intima struttura.
È il caso del ‘processo’ ad Aldo Moro: nei cui ‘atti’ fortunosamente pervenutici (il Memoriale, da poco criticamente edito per la cura della Direzione Generale degli Archivi dello Stato) leggiamo che “di fronte a molteplici richieste circa gli assetti economico sociali dell’Europa di domani, ed in essa dell’Italia, devo dire onestamente che quello che si ha di mira è il rinvigorimento, su base tecnocratica, del modo di produzione capitalistico”; e che “il nerbo della nuova economia, assunto come condizione di efficienza, è l’imprenditorialità privata ed anche pubblica con opportuna divisione del lavoro”.
È detto con le parole di Moro: ma si tratta precisamente della sostanza del ‘nuovo potere’ di cui scriveva Pasolini. E non solo negli articoli raccolti negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, ma coevamente ad essi in quel romanzo incompiuto che è Petrolio e che, secondo la testimonianza di Paolo Volponi, avrebbe dovuto essere, nell’intento del poeta, la sua summa politica.
Ne è prova il testo di una conferenza di Eugenio Cefis (allora presidente della Montedison e personaggio chiave, ancorché sotto mentite spoglie, del romanzo pasoliniano) che il poeta intendeva collocare a metà del romanzo: “La mia patria si chiama multinazionale”, giusta il titolo con cui, nel 1972, l’aveva pubblicata “L’erba voglio”, la rivista di Elvio Fachinelli; e vi si raccontavano “le prospettive di un’economia senza confini” (così, invece, recitava il titolo originale della conferenza), prevedendosi che, di lì a trent’anni, oltre due terzi della produzione industriale mondiale sarebbe stata in mano alle duecento o trecento maggiori società multinazionali e si sarebbe assistito allo svuotamento del potere politico nazionale a tutto vantaggio delle direzioni delle grandi imprese; e ne sarebbero state travolte le stesse imprese di Stato, che rispondendo direttamente al potere politico avrebbero avuto grosse difficoltà a far concorrenza ai nuovi Moloch dell’economia mondiale, assai più liberi di muoversi da un Paese all’altro; e mentre agli Stati non sarebbero rimasti che compiti di mediazione tra le imprese e nei loro rapporti con i sindacati e i poteri locali, ne sarebbe venuta la necessità di ripensare lo stesso ruolo delle forze armate (Cefis si rivolgeva agli allievi dell’Accademia militare di Modena): le quali, in un mondo unificato sotto le insegne del capitale finanziario, non avrebbero più combattuto per difendere i confini nazionali, ma avrebbero dovuto trasformarsi in apparati professionalmente organizzati capaci di intervenire ovunque fossero in gioco i valori di ‘libertà’ e ‘democrazia’.
Annotando quella conferenza per la rivista di Fachinelli, un soi disant Giorgio Radice (e diciamo così perché pare si trattasse in realtà di Giuseppe Turani, allora in forza all’Espresso e poi destinato a partecipare delle grandi fortune editoriali della Repubblica di Scalfari) ebbe a chiedersi se questi padroni planetari che avrebbero fatto fuori gli Stati e i partiti nazionali non incarnassero potenzialmente “un nuovo fascismo”: “saltano, insomma, tutte le mediazioni politiche: restano di fronte i padroni e i sindacati operai”, ma i primi sarebbero stati “gli unici capaci di dare un lavoro, i mezzi tecnici, i soldi, oltre che agli operai, anche ai militari”.
E fu giudizio che Pasolini fece suo: meno di due mesi dopo aver ricevuto da Fachinelli la rivista con la conferenza di Cefis, intervenendo alla Festa provinciale dell’Unità di Milano, esortò i militanti comunisti a leggere “il discorso di Cefis agli allievi di Modena”, ché vi avrebbero trovato una nozione di ‘sviluppo’ affatto coerente con la visione del mondo del ‘nuovo potere’ che si andava affermando: “una nozione di sviluppo come potere multinazionale, fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio paese”, e che avrebbe bensì dato “un colpo di spugna al fascismo tradizionale, che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo”, ma per far assestare in sua vece “una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa”: “il vero fascismo”, dirà poco dopo all’Europeo, da cui poi sarebbe disceso “l’antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime”.
Pasolini ne scrisse un’ultima volta in una lettera pubblica a Italo Calvino, la medesima da cui abbiamo tratto l’esergo a queste annotazioni e che Sciascia considerò, al pari della sua morte, una “testimonianza di verità”: la verità sulla forma di vita in cui oggi viviamo e che, per menzogna convenzionale, chiamiamo appunto ‘democrazia liberale’.
CEDU e cultura giuridica italiana. Il primo libro virtuale di Giustizia Insieme
Prefazione di Raffaele Sabato
La bella iniziativa dei responsabili di Giustizia Insieme di pubblicare un volume virtuale su CEDU e cultura giuridica italiana si colloca nel momento storico più delicato che la vicenda dei diritti umani abbia attraversato dalla fine della seconda guerra mondiale.
In virtù dell’art. 58 della Convenzione la Federazione Russa continuerà a essere vincolata dagli obblighi derivanti dal testo internazionale per gli atti e le omissioni di cui si dovesse rendere responsabile fino al 16 settembre 2022, avendo le Parti contraenti previsto un ritardato effetto della cessazione di uno Stato membro del Consiglio d’Europa al fine di scoraggiare fuoriuscite strategiche, finalizzate alla sottrazione agli obblighi stessi; non si può – però – immaginare che la disposizione sia stata concepita avendo presente la possibilità di un aggressione e di un conflitto di così vasta portata (e così gravidi di sofferenze e lutti) come quelli che si stanno consumando in Ucraina, o la possibilità di un atteggiamento quale quello in essere da parte della Federazione Russa.
Quali che siano le scelte da operarsi in ordine al contenzioso esistente nei confronti della Federazione Russa, e a quello che esisterà in relazione ad atti e omissioni a verificarsi sino al 16 settembre, sta di fatto che da quella data oltre 146 milioni di europei – tanti sono gli abitanti della Russia – si troveranno privi della protezione della Convenzione per gli eventi successivi, una protezione che peraltro in maniera cospicua hanno sinora richiesto (tanto che i ricorsi pendenti erano 18.200 al 30 aprile scorso, pari a un quarto di tutte le pendenze della CEDU).
Il panorama di crisi dei diritti umani è d’altro canto ben più esteso: al di là di altri conflitti pur esistenti, la Corte di Strasburgo si è da ultimo confrontata con gravi violazioni dello stesso nucleo essenziale delle garanzie dello Stato di diritto, in maniera molto evidente in Turchia e – sotto alcuni profili – in Polonia, per citare solo – appunto – quanto è evidente.
Sullo sfondo, poi, si affacciano all’esame della CEDU questioni di complessità sinora inedita, concernenti non solo e non tanto, ad es., i temi dell’emergenza sanitaria (che si spera avviata a conclusione), ma una interamente nuova “generazione” di diritti umani, come quelli connessi ad es. al cambiamento climatico, al trattamento dei dati, alla verità nell’informazione e così via.
Le difficoltà si estendono ancora al profilo interno dell’organizzazione della Corte di Strasburgo. Come ha detto recentemente il presidente, Robert Spano, la CEDU - al pari di alcune Corti nazionali - deve sforzarsi di fare meglio per quanto riguarda i modi, e soprattutto i tempi, di pronuncia delle sentenze: la lunghezza procedurale è essa stessa una lesione dei diritti umani. In questo senso, nel 2021 la Corte di Strasburgo ha adottato una nuova strategia di case management, la cosiddetta “strategia di impatto”, che a regime dovrebbe risolvere il problema, attraverso la pronuncia di sentenze brevi nei procedimenti ordinari, permettendo alla Corte di pronunciare sentenze lunghe e complesse solo nei casi di importanza giurisprudenziale o che riguardino questioni socialmente nuove.
Ipotizzando che, per l’Italia, i casi di impatto siano un centinaio, i prossimi anni dovrebbero condurre alla loro definizione in tempi più contenuti rispetto al solito. Un quesito deve però riguardare gli altri circa 3.500 casi pendenti contro l’Italia: quale sarà il loro esito? Ebbene, non deve suscitare a mio avviso scandalo – anzi deve spingere a un’analisi delle conseguenze – il fatto che la nuova tecnica di case management preveda una interpretazione estensiva della nozione di “giurisprudenza consolidata”, in presenza della quale è convenzionalmente consentita la decisione da parte di un comitato di tre giudici, essendo assegnati alla camera o alla grande camera solo i casi di “impatto”. D’ora in poi inoltre – e già qualche sentenza è stata emessa con riferimento all’Italia – i comitati possono pronunciare sentenze abbreviate, per “abbreviate” intendendosi tale aggettivo alla lettera …
L’“impatto” dell’“impatto” – sia consentito il gioco di parole – dovrebbe essere quindi quello di concentrare il materiale di rilevanza giurisprudenziale su un numero limitato di pronunce, le quali soltanto potranno essere utilizzate per lo studio, le citazioni, il dialogo giudiziario e quant’altro, non avendo le sentenze di comitato alcun valore di precedente (a fortiori ciò valendo per le sentenze abbreviate che, al palato giuridico italiano, potrebbero risultare di gusto sinora … sconosciuto).
Con “retropensieri” collegati agli scenari che ho velocemente tratteggiato (il conflitto in Ucraina, la crisi dello Stato di diritto in alcuni paesi, le nuove figure di diritti umani, le nuove modalità di lavoro della CEDU) ho potuto – su invito di Paola Filippi e Roberto Conti, che ringrazio - rileggere il cospicuo materiale di analisi e idee contenuto nelle 13 interviste organizzate dalla redazione di “Giustizia Insieme”.
La bravura degli intervistati, ma anche degli intervistatori, ha consentito in tempi recenti alla rivista di imporsi come una delle sedi importanti di dibattito sui temi della CEDU.
Vedere le interviste raccolte – per chi come me le aveva già lette – rende evidente l’organicità del progetto, per completezza dei temi e per pluralismo delle voci. Immagino poi che, per chi si accosti per la prima volta ai testi del volume “virtuale”, la soddisfazione sia ancora maggiore, potendo il lettore scegliere entro un’ampia varietà di temi circa i rapporti tra i rami del diritto interno e la CEDU, con alternanza di voci di avvocatura, accademia e magistratura, senza tralasciare i temi contermini della Carta dei diritti fondamentali.
Per assolvere compiutamente all’onere (che senza dubbio è anche onore) connesso al compito di prefatore che mi è stato assegnato credo di essere tenuto a indicare possibili piste che continuino il percorso sinora segnato dalle interviste oggi raccolte in volume.
Ebbene, qualche pista si può ricavare dai “retropensieri” che ho dianzi indicato: non appena chiarito il quadro (che allo stato non è chiaro neanche agli addetti ai lavori, stante la fase attiva del conflitto) sarà a mio avviso necessario discutere del ruolo della giustizia internazionale (e, se ritenuto, della stessa CEDU) in ordine alla crisi in Ucraina. Parimenti – anche sulla base dell’evoluzione giurisprudenziale in corso – i lettori potrebbero essere aggiornati sui profili più rilevanti della crisi dello Stato di diritto in alcuni paesi. Il contenzioso di “impatto” su nuove evoluzioni dei diritti umani e le nuove modalità di lavoro della CEDU potrebbero terminare il quadro.
Si dirà: e l’Italia? Per una serie di ragioni non mi sento la persona più in grado di fornire indicazioni sul punto.
Fatto sta che, avviandosi a decrescere il materiale giurisprudenziale di Strasburgo utilizzabile per fare riflessioni in dialogo con gli operatori giuridici interni, si dischiudono nuovi orizzonti la cui esplorazione da parte degli operatori interni, invece, raccomando: sempre più in futuro il dialogo si dovrà costruire tra le acquisizioni nazionali e pronunce non necessariamente riguardanti l’Italia, con l’esigenza di più delicati confronti “al netto” delle specificità dell’ordinamento rispetto al quale la pronuncia internazionale è stata resa. È una sfida alla quale noi giuristi italiani siamo sicuramente chiamati.
Un altro fronte potrebbe essere quello di ampliare il novero degli interlocutori: ad es. a me piacerebbe sentire intervistati, esemplificativamente: - l’Agente del governo italiano e/o i collaboratori dello stesso, facenti capo a un centro decisionale e propulsivo dal ruolo assai delicato e che dovrebbe avere il polso completo del contenzioso in corso; - gli esponenti degli uffici legislativi competenti per i vari rami di contenzioso, sì da sondare quali conformazioni normative essi ipotizzino (e come procedono alle analisi previsionali circa l’evoluzione del contenzioso); - i responsabili, presso il Consiglio d’Europa e la Rappresentanza italiana a Strasburgo, dell’esecuzione delle sentenze CEDU.
Per altro verso, quand’anche le modeste proposte sopra formulate fossero inidonee o irrealizzabili, ho una proposta “di riserva”, molto semplice e fondata sull’ottimo lavoro sinora svolto da “Giustizia Insieme”, per il quale ancora mi congratulo: continuate così!
Strasburgo, 11 maggio 2022
Il Consiglio giudiziario, questo sconosciuto
di Marcello Basilico
Sommario: 1. Premessa - 2. C’era una volta l’autogoverno “dal basso e condiviso” - 3. La riforma del 2006 nei fatti - 4. Ritornelli irrisolti e potenzialità inespresse - 5. La partecipazione allargata - 6. Il Consiglio giudiziario del futuro.
1. Premessa
Nella visione del legislatore il Consiglio giudiziario rappresenta lo snodo generale di collegamento tra territorio e vertice centralizzato delle decisioni in materia ordinamentale. Quanto agli incarichi direttivi e semidirettivi, in particolare, nel momento in cui il parametro dell’anzianità è stato fortemente ridimensionato, divenendo criterio di legittimazione e non più di selezione, si è reso necessario acquisire in sede locale una pluralità di elementi di conoscenza sulla figura del candidato, per consentire al Consiglio Superiore della Magistratura di valutare appieno l’attitudine e il merito.
Questi due parametri hanno esteso da un lato la discrezionalità della scelta di conferimento e avviato dall’altro la messa in discussione della concezione tradizionale della dirigenza nell’ambito giudiziario.
Il Consiglio giudiziario, identificato come l’organo consultivo deputato alla raccolta del materiale informativo essenziale, si è trovato al centro di questo mutamento normativo e prospettico. Esso, attraverso le proprie scelte istruttorie e le tecniche di redazione dei pareri, ha avuto l’occasione per rendersi interprete della riforma intrapresa nel 2005[1].
Nell’iter per il conferimento o la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi, la funzione consultiva è resa particolare dal fatto che per lo stesso incarico direttivo o semidirettivo le candidature possono provenire – e di fatto solitamente provengono – da candidati di territori diversi. Regola vuole pertanto che il relativo procedimento sia partecipato da più Consigli giudiziari: i pareri confluiscono dunque al Consiglio Superiore della Magistratura da sedi differenti. La consultazione è dunque plurale.
Ci si potrebbe attendere pertanto che una delle principali difficoltà che incontri il CSM nell’esprimere la preferenza per il candidato più idoneo all’incarico venga dalla comparazione di profili professionali delineati diversamente, perché prevedibilmente diversa è risultata l’impostazione del parere attitudinale specifico per ciascun organo di provenienza, influenzato da prassi istruttorie e inclinazioni valutative eterogenee.
Vi sarebbe quindi da sorprendersi appurando che questo è invece l’unico problema insussistente: grazie al modello predisposto dal CSM, i pareri sono improntati tutti alla stessa logica ricognitiva, alla stessa selezione delle fonti, persino allo stesso lessico, indipendentemente dalla provenienza. Ci si potrebbe dunque compiacere del rigore con cui ciascun Consiglio giudiziario abbia saputo adattare tecnica e contenuti all’impronta uniformante centralizzata. Se però il risultato finale è quello di un’uniformità tendente all’appiattimento, così da rendere quasi indistinguibili i giudizi sui diversi candidati, al compiacimento non possono che subentrare lo sconcerto e, nel corso degli anni, la frustrazione per un’attività tanto laboriosa quanto improduttiva.
Un’analisi realistica del ruolo del Consiglio giudiziario nella valutazione attitudinale per le funzioni direttive e semi-direttive non può che muovere da una simile, amara constatazione, le cui cause sono difficili da comprendere, per la molteplicità dei fattori che vi hanno concorso nel corso di decenni di applicazione di un corpo normativo complesso, stratificatosi nel tempo.
2. C’era una volta l’autogoverno “dal basso e condiviso”
La riforma del biennio 2006-2007[2] ha incrementato notevolmente le competenze del Comitato Direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari, in collegamento con le verifiche individuali imposte dal nuovo ordinamento, a cominciare dalle valutazioni quadriennali[3]. E’ stato così attuato un decentramento in sé auspicato da tempo.
Lo stesso Consiglio Superiore aveva da tempo riconosciuto che “il modello di autogoverno della magistratura sin qui sperimentato, imperniato su un centro unico ed assolutamente preminente – il Csm – non è più sufficiente, da solo, a soddisfare le molteplici esigenze di una moderna ed efficiente amministrazione della giurisdizione”[4].
Tra le principali novità della riforma sulle valutazioni di professionalità vanno ricordate l’enumerazione puntigliosa dei “parametri oggettivi” su cui motivare i pareri, l’acquisizione obbligatoria di provvedimenti e verbali a campione del magistrato nonché dell’auto relazione dell’interessato e l’individuazione, per ciascuna funzione, di standard medi di definizione dei procedimenti; l’integrazione possibile dell’istruttoria mediante fonti non tipizzate nonché con l’assunzione d’informazioni, comprese segnalazioni su fatti specifici provenienti dal consiglio dell’ordine degli avvocati, tramite il rapporto del dirigente dell’ufficio o su iniziativa del Consiglio giudiziario stesso.
Soppressa nel 2007 la competenza specifica relativa alla vigilanza sul comportamento dei magistrati, con obbligo di segnalazione dei fatti rilevanti ai fini disciplinari, della riforma dell’anno precedente è rimasta la più generale e qualificante vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari del distretto, orientata evidentemente ai profili dell’organizzazione, tanto da giustificare, in caso di “disfunzioni nell’andamento di un ufficio”, la segnalazione al Ministero della giustizia[5].
In questo quadro s’innesta il controllo devoluto al Consiglio giudiziario sui provvedimenti organizzativi periodici o modificativi degli assetti ordinari, i quali comprendono i dati sui carichi di lavoro e sui flussi degli affari nei singoli uffici.
Per il numero delle competenze e l’ampiezza dei poteri di accertamento attribuiti il Consiglio giudiziario (e non di meno il Comitato direttivo presso la Cassazione) catalizza insomma un complesso di conoscenze inestimabili sul profilo dei magistrati addetti o aspiranti alla direzione di un ufficio, giudicante e requirente, o di una sezione del suo distretto.
La centralità conferita all’auto relazione e la possibilità di avvalersi di fonti informative individuali, anche con un’attività istruttoria che ammette l’audizione di singoli componenti dell’ufficio, hanno indotto a suo tempo i più a formulare previsioni di evoluzione del governo autonomo locale nella direzione di una diffusa partecipazione, che avrebbe coinvolto in varia misura i magistrati del territorio, oltre alle categorie che hanno trovato rappresentanza nel Consiglio.
L’ampliamento delle sue conoscenze e dei suoi poteri istruttori hanno focalizzato nell’organo distrettuale un ruolo determinante nella “sfida su cui si misurerà la capacità della magistratura di operare un reale controllo sulla professionalità dei magistrati, sull’efficienza degli uffici, sul rispetto delle regole. Ma sarà più ancora la vera sfida per l’eliminazione delle incrostazioni corporative ed autoreferenziali di cui la magistratura viene, in talune circostanze, a ragione accusata”[6].
3. Il risultato concreto della riforma del 2006
Il procedimento per la valutazione di professionalità è regolato dalla legge in modo molto asciutto, senza che la valutazione di professionalità per gli incarichi dirigenziali sia distinta da quelle periodiche generali[7]. In attuazione della delega legislativa, riguardante anche la disciplina degli elementi per i giudizi rimessi ai Consigli giudiziari[8], il CSM ha predisposto un corpus normativo ripetutamente aggiornato e comunque integrato da deliberazioni aggiuntive, risposte a quesiti, protocolli e modulistica[9].
Il materiale a disposizione per la formulazione di un parere individualizzato, misurato sulla figura del singolo magistrato e denso di elementi di conoscenza non manca. E’ pur vero che i mestiere di giudice o pubblico ministero richiedono professionalità ben distanti da quella necessaria a dirigere un ufficio; perciò non può che risultare difficile pronosticare l’attitudine organizzativa concreta nei confronti di quanti non abbiano avuto esperienze di direzione o di coordinamento.
Ma se ad un buon magistrato non corrisponde necessariamente un buon organizzatore dell’attività altrui, il primo elemento è comunque condizione necessaria del secondo: è buon magistrato chi dimostri di sapere, tra le altre cose, anche gestire e programmare la propria attività. Dall’auto relazione, dai dati statistici, dall’adempimento dei singoli incarichi individuali ricevuti nel corso della vita professionale, dai risultati dell’attività giurisdizionale in coincidenza con situazioni critiche o particolari che ricorrono nell’esperienza comune si possono trarre tracce indicative della propensione, dell’attenzione e, prima ancora, dell’interesse espresso verso l’organizzazione.
Si aggiunga che da tempo ormai il CSM richiede all’aspirante dirigente la predisposizione di un progetto organizzativo dell’ufficio di destinazione[10]: Operando in un distretto diverso, il Consiglio giudiziario potrebbe non conoscere quell’ufficio; ma è da supporre che in linea generale sia ragionevolmente in grado di apprezzare la ragionevolezza delle soluzioni proposte nel progetto, la loro logicità rispetto alle premesse fattuali, il livello di approfondimento della conoscenza dell’assetto esistente nell’ufficio.
Sembra impossibile dunque che da cotanto materiale non possa sortire un atto che fotografi magari con approssimazione, ma in modo personalizzato e riconoscibile l’attitudine e financo la personalità del magistrato candidato. Eppure la realtà dice il contrario.
La sconfortata vulgata comune dei componenti non solo del CSM, ma dei Consigli giudiziari stessi è che i pareri attitudinali sono muti, incapaci per lo più di differenziare la figura di un candidato rispetto a quella dei suoi concorrenti, salvo che non nell’elenco formale degli incarichi assunti, ormai amaramente accomunati nel termine “medagliette”, rivelatore dell’assoluta sfiducia con cui questi sono valutati nel concreto.
I pareri vengono visti come stolidamente tributari dei rapporti dei dirigenti, a loro volta spesso appiattiti sull’autorelazione e quasi sempre positivi, se non “sperticatamente elogiativi”[11]. Dunque, una volta che sia stata completata la faticosa raccolta delle risultanze delle fonti informative, la funzione valutativa affidata ai Consigli giudiziari, la quale implica il vaglio di atti e di esperienze dell’interessato e l’espressione di un relativo giudizio critico, viene a confondersi con un’operazione molto più fiacca e, per il candidato medio, rassicurante: l’apposizione ai termini che dovrebbero descrivere le sue esperienze di aggettivi o avverbi di segno immancabilmente positivo o addirittura encomiastici.
È del resto significativo che nella prima intervista di questa rubrica monografica nessuno dei tre componenti del CSM abbia menzionato i pareri dei Consigli giudiziari come fonti di rilievo per la nomina o la conferma di direttivi o semidirettivi: si è andati al contrario da chi ha individuato nell’autorelazione del candidato l’elemento saliente di conoscenza a chi, più drasticamente, affermato che “i pareri dei Consigli giudiziari sono sempre positivi a non segnalano alcuna criticità”[12].
La comparazione degli aspiranti nel concorso per una funzione direttiva o semidirettiva finisce per diventare impossibile, giocata su sfumature che poco hanno a che vedere con l’esercizio di una discrezionalità basata sugli esiti del raffronto tra le caratteristiche umane e professionali e la posizione da ricoprire. Motivare l’atto di conferimento dell’incarico diventa impresa giocoforza difficile e scivolosa, tanto più a fronte se misurata su parametri tanto numerosi e articolati quanto modesti nella portata definitoria.
Malgrado gli sforzi vistosi che traspaiono dai provvedimenti, risulta complicato garantire in tal modo il buon andamento e l’efficacia del governo autonomo della magistratura. L’appiattimento delle valutazioni diviene quindi l’anticamera delle doglianze di chi si ritiene pretermesso e del sindacato del giudice amministrativo sul provvedimento consiliare.
Il discorso potrebbe variare in una certa misura per le conferme alla scadenza del primo quadriennio di esercizio dell’incarico. La disponibilità di provvedimenti organizzativi e il controllo che questi consentono sull’attitudine organizzativa fa sì che nel giudizio del Consiglio giudiziario la diagnosi possa prevalere sulla prognosi. Ciò malgrado l’opinione che identifica la scadenza quadriennale come un passaggio dall’esito quasi scontato non trova smentita nella statistica o negli interventi dei componenti del CSM né risulta l’esistenza di un orientamento decisionale di sistematico favore che travolga i pareri negativi dell’organo periferico.
V’è dunque una consequenziale discrasia tra le criticità diffusamente attribuite alla direzione di molti uffici giudiziari[13] e i risultati del procedimento di conferma.
4. Ritornelli irrisolti e potenzialità inespresse
Malgrado la centralità assegnata loro dalla riforma del 2006-2007, manca tuttora un’analisi sulla struttura e sull’operato dei Consigli giudiziari che vada al di là di qualche contributo dottrinale, isolato per quanto illuminato.
Della direzione degli uffici giudiziari si discute essenzialmente in riferimento ai poteri e, di conseguenza, alla natura delle funzioni del CSM, all’interferenza nelle scelte delle correnti dell’ANM, al modello di dirigente, alla latitudine del ruolo gerarchico del procuratore della Repubblica e, più di recente, alla partecipazione degli avvocati nelle valutazioni.
Quasi paradossalmente le ragioni dell’inadeguatezza dell’operato dei Consigli giudiziari restano invece sottotraccia e inesplorate, confinate in un dibattito per pochi iniziati, quasi che l’idea dell’autogoverno esteso ai territori e alla base dei magistrati appartenesse alla sfera dei principi desiderabili, ma illusori.
Il sistema informatico del CSM non è predisposto per estrapolare dei dati sul numero pareri negativi pervenuti in un periodo predeterminato in ordine alle conferme per funzioni direttive o semi-direttive. Men che meno dispone di dati sui pareri relativi ai nuovi incarichi o sugli scostamenti delle decisioni consiliari rispetto alle valutazioni dei CG. Mancando quindi una base oggettiva ed estesa a tutti i Consigli giudiziari da cui muovere, la riflessione sul loro operato si sposta necessariamente sulle questioni teoriche aperte.
Si è detto del recepimento acritico nei pareri del rapporto del dirigente o dell’eccesso di aggettivazione. Ma sono anche altri i temi perennemente all’ordine del giorno di quel dibattito di retroguardia: il diritto di tribuna degli avvocati; l’indagine sui risultati effettivi degli incarichi assolti dal magistrato; l’acquisizione di notizie sul suo conto per iniziativa autonoma del Consiglio giudiziario; l’an, il quando e il quomodo dell’attività istruttoria.
Se ne discute da lustri e la stanchezza non ha ancora prevalso grazie ai sussulti che periodicamente rianimano il confronto, sul piano nazionale in presenza di qualche impulso formatore e a livello locale a ogni rinnovo dei Consigli, come se ciascun organo, cambiando i componenti eletti, perdesse la memoria delle esperienze acquisite e delle prassi maturate nei quadrienni precedenti e tanto meno fosse in grado di riconoscere quelle di altri distretti.
La ripetitività delle questioni in assenza di soluzioni comuni – rese difficili dal permanere di sensibilità distanti tra loro su ciascun punto – rischia di sterilizzare la carica ideale che le accompagna e presta il fianco ad interventi legislativi che, come dimostrano molti dei progetti presentati nel tempo, si rivelano incapaci di cogliere la ricaduta effettiva d’una riforma sugli equilibri delicati dell’ordinamento giudiziario.
Ricette condivise sono difficili da trovare. Si va da chi ritiene che i Consigli giudiziari non abbiano né le fonti di conoscenza né la capacità per valutarle[14], a chi reputa invece che un modo corretto – ma purtroppo quasi ignorato – di esercitare le funzioni di consigliere giudiziario renderebbe i pareri davvero selettivi[15], a chi non intende comunque abbandonare la ricerca delle prassi e degli interventi che ne vivifichino una rilevanza mai sopita[16].
I risultati del governo della magistratura dirigente hanno generato un’insoddisfazione quasi generalizzata, pur se fondata su ragioni diversificate. In ogni caso essa è talmente radicata da richiedere un’analisi molto netta. Restando all’esperienza dei Consigli giudiziari occorre mettere a fuoco i fattori molteplici che hanno portato a quei risultati.
I primi sono di ordine culturale. E’ invalsa nei magistrati – occorre ammetterlo – una certa pigrizia nell’estensione dei provvedimenti giudiziari[17], basata su una tecnica ripetitiva, su un lessico e su una sintassi troppo spesso distanti dalle esigenze di chiarezza del testo. Questo difetto si accentua fatalmente nel parere redatto in sede di Consiglio giudiziario: le sue fonti non vengono raccolte, così come avviene invece nel processo, personalmente dal redattore, ma provengono invece da meccanismi automatici di acquisizione. L’organo collegiale e il componente nominato relatore sovente gli si approcciano con un contegno d’istintiva difesa verso l’interessato: sia perché questi è pur sempre un collega e di solito un diretto conoscente sia perché al parere è estranea la comparazione con gli altri candidati.
Il parere finisce così per essere predisposto senza mirare all’obiettivo di selezione cui è diretto. Il distacco tra fonti d’informazione e procedura cui sono destinate induce perciò un atteggiamento di passività[18], che si riflette sul contenuto dell’atto che il CSM riceve dal Consiglio giudiziario.
Nell’esperienza comune la domanda per l’incarico direttivo è preceduta da alcune esperienze avute dal candidato in incarichi semidirettivi e di collaborazione (deleghe del presidente o del procuratore; coordinamento dei magistrati in tirocinio; referente per l’informatica nell’ufficio; componente della Commissione flussi presso il Consiglio giudiziario; responsabile della formazione; ecc.). Quasi mai si hanno però riscontri sui risultati dell’attività svolta adempiendo a questi incarichi. Una delle falle principali del sistema vigente è data dall’assenza di metodi verifica che riguardino non si dice la qualità del servizio, ma almeno l’assiduità di chi vi è stato addetto.
L’incarico di collaborazione diventa così un titolo acquisito automaticamente col suo conferimento, che ciò nulla dica in realtà sui meriti dell’interessato.
Le fonti d’informazione tratte dall’attività giurisdizionale non hanno un rilievo molto superiore: le statistiche comparate possono essere lette in modi molteplici e alternativi; le notizie sulle sentenze pronunciate o sulle indagini condotte possono dire ben poco dell’attitudine organizzativa.
I contenuti degli atti istruttori vengono dunque raccolti e trasferiti acriticamente nel testo del parere, andando a comporre un elaborato più o meno denso di elementi privi di una concreta utilità allo scopo. La personalità del magistrato, la sua predisposizione a coordinare l’attività di molte persone, la capacità di prendere posizione in situazioni critiche e, più in generale, ad adottare decisioni efficaci per la funzionalità di un ufficio giudiziario rappresentano dei connotati sui quali l’attività del Consiglio giudiziario non prende, di fatto, posizione.
Eppure le basi per fare meglio ci sarebbero.
L’autorelazione è un atto potenzialmente rivelatore di indici significativi: dimostra se l’interessato sia ripiegato in una visione individualistica della funzione o se abbia una consapevolezza delle esigenze generali del servizio; evidenzia i p.m. attenti solo alle indagini o anche al loro esito processuale, se un giudice organizzi il proprio ruolo solamente per produrre di più oppure per elevare la qualità delle decisioni e collegare la propria attività a quella dell’ufficio o della sezione; spiega in che misura l’adempimento d’incarichi precedenti sia stato inserito in una visione di sistema.
I risultati dei progetti organizzativi precedenti – per chi abbia già svolto funzioni direttive – dovrebbero costituire apporti fondamentali tanto ravvisare i presupposti della riconferma quanto per la valutazione relativa a nuovi incarichi.
La vigilanza affidata al Consiglio giudiziario è un’occasione di avvicinamento alla realtà degli uffici del distretto. Le segnalazioni raccolte, i contatti coi magistrati locali, lo studio congiunto di rimedi alle eventuali disfunzioni, l’esame delle soluzioni organizzative che pur non abbiano rilevanza tabellare costituiscono altre fonti d’informazioni che dovrebbero rivelarsi utili anche per i pareri attitudinali specifici.
Se opportunamente regolamentate e riferite con trasparenza, anche le notizie apprese direttamente o indirettamente dai consiglieri giudiziari possono avere un rilievo importante.
Va ricordato che “alla scadenza del periodo di valutazione” il Consiglio giudiziario è ammesso ad acquisire e valutare “le informazioni disponibili presso il Consiglio superiore della magistratura e il Ministero della giustizia anche per quanto attiene agli eventuali rilievi di natura contabile e disciplinare, ferma restando l’autonoma possibilità di ogni membro del consiglio giudiziario di accedere a tutti gli atti che si trovino nella fase pubblica del processo per valutarne l’utilizzazione in sede di consiglio giudiziario”[19].
È prevista dunque una facoltà autonoma del singolo consigliere giudiziario di acquisire atti anche di un procedimento penale, purché in fase pubblica. Ciò non implica l’automatico utilizzo dell’atto da parte del Consiglio, poiché a tale fine occorre una sua delibera[20].
Per altro verso un potere d’ufficio di assunzione d’informazioni è riconosciuto all’intero Consiglio giudiziario. In tal caso il magistrato in valutazione ha diritto, all’esito dell’istruttoria, di riceverne comunicazione dal Consiglio, prendere visione ed estrarre copia dei relativi atti.
L’esercizio di questi poteri officiosi è eccezionale, quasi sempre riconducibile alla notizia pubblica di fatti di reato o ai più rari casi di segnalazioni di singoli magistrati in servizio nel distretto. E’ d’altronde intuitivo che il Consiglio giudiziario non veda motivo di assumere iniziative quando non sia conoscenza dell’esistenza di notizie rilevanti presso il CSM o il Ministero.
Si registra così un cortocircuito comunicativo, che peraltro talvolta arriva a risultati apparentemente inspiegabili. Vi sono stati casi di conversazioni di magistrati pubblicate più volte dalla stampa – su tutte quelle delle cosiddette chat di Luca Palamara – sfociati in procedimenti disciplinari davanti al CSM degli stessi soggetti, senza che il Consiglio giudiziario, valutando gli stessi soggetti per incarichi direttivi, ne abbia tenuto alcun conto perché all’oscuro formalmente della loro esistenza.
Il tema è indubbiamente delicato per il rischio intuitivo di strumentalizzazione di fonti incontrollate. Sino a oggi, però, si è caduti quasi sempre nell’eccesso opposto, rappresentato dal silenzio totale su fatti notori, una volta che il presidente ne abbia taciuto all’interno nel proprio rapporto e che essi non siano entrati a fare parte per altra via del materiale istruttorio.
È bene chiarire che con ciò non si vuole certo avallare una torsione in senso inquisitorio dell’operato del Consiglio giudiziario. Si tratta piuttosto di stabilire una volta per tutte di quali atti esso possa disporre e in che misura il parere che gli è affidato debba davvero esprimersi sulle capacità del magistrato di essere un dirigente capace, affidabile e credibile.
5. La partecipazione degli avvocati
Tra le occasioni perdute della stagione successiva alla riforma 2006-2007 v’è quella di una proficua collaborazione con l’Avvocatura. Divenuta componente stabile del Consiglio giudiziario, seppure nell’assetto dedicato esclusivamente alle competenze d’ordine organizzativo, essa ha avuto modo comunque di fornire un contributo rilevante anche sulle valutazioni di professionalità, poiché i loro ordini professionali locali rientrano tra le fonti tipizzate d’informazioni su fatti specifici[21].
A conti fatti purtroppo si hanno esempi molto ridotti di contributi in tal senso. L’esperienza di chi ha fatto parte o fa parte tuttora dei Consigli giudiziari è di un’Avvocatura pressoché silente pure sulla casistica di magistrati particolarmente controversi (e criticati nei corridoi dei palazzi) nei rispettivi distretti. Neppure si ha notizia di segnalazioni effettuate a seguito delle audizioni dei presidenti dei Consigli dell’ordine sentiti dal CSM nelle pratiche per eventuale trasferimento d’ufficio.
Sui controlli di professionalità in definitiva le istituzioni dell’Avvocatura non hanno sino a oggi espresso una visibile volontà di partecipazione.
È mancato, più in generale, un apporto corale e consapevole al governo della giustizia, tanto che anche rispetto all’organizzazione degli uffici giudiziari gli apporti sono stati sporadici e prevalentemente di carattere censorio. La stessa designazione dei componenti da parte dei Consigli dell’ordine avviene generalmente senza che vi sia una platea di aspiranti ampia e nota nel distretto: chi vi è chiamato, spesso vi partecipa più per spirito di servizio verso il proprio ordine professionale che per reale convincimento dell’utilità della funzione svolta.
È innegabile del resto che l’Avvocatura stessa sia oggi attraversata da problematiche pressanti, legate a fattori di cambiamento che rischiano di stravolgerne la fisionomia. La marginalità del suo contributo si deve dunque in parte imputare alla responsabilità anche della magistratura, incapace, in quel contesto, di fare apprezzare agli avvocati le prospettive dei concreti benefici che possono derivare da una collaborazione comune.
Resta il fatto che, per ammissione di chi fa parte di uno dei maggiori Consigli, ancora oggi “sono pochi gli avvocati che sanno cosa sia il Consiglio giudiziario”[22].
Nel quadro descritto la loro partecipazione alle valutazioni di professionalità – una delle questioni più controverse sui temi delle riforme ordinamentali – rischia di avvenire in condizioni non sufficientemente mature.
Va aggiunta un’ulteriore constatazione, relativa alla tendenza di larga parte della componente non togata di aderire quasi per istinto, nelle pratiche in materia tabellare, alle posizioni del presidente della Corte d’appello e del Procuratore generale. E’ possibile che ciò sia conseguenza, almeno in parte, del disorientamento provocato dalla dialettica, talvolta accesa, invalsa tra i magistrati che siedono nei Consigli giudiziari. Traspare comunque l’idea di una concezione dell’assetto della magistratura ancorata a una relazione gerarchica che non si può ovviamente condividere.
Può sembrare superfluo precisare che queste riflessioni sulle tendenze di fondo relative ai risultati dell’ingresso degli avvocati nei Consigli giudiziari non hanno pretesa di assolutezza. Rappresentano il frutto di esperienze dirette e notizie raccolte in incontri periodici con componenti di diversi organi distrettuali, nelle quali v’è spazio anche per alcuni esempi di collaborazione fattiva e d’impulso proficuo all’attività conciliare.
Ma le tendenze meno confortanti, ancora diffuse, hanno nel tempo spiazzato quella stessa parte di magistratura che nei decenni passati aveva perorato la causa della partecipazione degli avvocati al governo autonomo, convinta della necessità di coltivare una comune visione costituzionale della giurisdizione. Una volta che queste aspettative sono andate deluse, il futuro di Consigli giudiziari maggiormente partecipati dall’esterno richiede obiettivamente una ponderazione più profonda e matura, che rifugga peraltro da logiche di parte.
La maturità sta proprio nell’avere il coraggio di guardare con realismo all’esistente, per interrogarsi sulle prospettive effettive di possibili evoluzioni che oggi la stragrande maggioranza della magistratura non accetta. Occorre farlo per evitare che i Consigli giudiziari, soprattutto in alcuni distretti, diventino terreno di scontro tra visioni contrapposte e strumentali (o strumentalizzabili), aprendo così nuovi fronti di contrapposizione sulla giustizia di cui davvero non si avverte il bisogno.
6. Il Consiglio giudiziario del futuro
Il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario pendente in Parlamento interessa anche i Consigli giudiziari. Il “diritto di tribuna” per avvocati e docenti universitari previsto dal progetto del Ministro Bonafede diventerebbe, a seguito dell’emendamento dell’attuale Governo (n. 3.34), facoltà per i primi di “esprimere un voto unitario .. nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione”.
La proposta fa riferimento alle segnalazioni che dovrebbero essere già pervenute dal Consiglio dell’ordine al dirigente dell’ufficio giudiziario e che, purché riferite “a fatti specifici incidenti sulla professionalità”, attengano “a situazioni eventuali concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”[23].
Nell’assenza quasi assoluta di segnalazioni, la nuova norma aggiungerebbe ben poco al controllo di professionalità. Per converso se essa dovesse provocare una vitalità improvvisa dei Consigli dell’ordine sorgerebbero altri rischi, legati evidentemente agli interrogativi sulle ragioni della rinnovata attenzione dell’Avvocatura per questa tematica.
Ulteriori novità concernenti i giudizi di professionalità riguardano l’articolazione del giudizio positivo in “discreto, buono o ottimo con riferimento alla capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro” (già ribattezzato “pagelle” ai magistrati) e la rilevanza delle condanne disciplinari definitive anche per fatti accaduti in un quadriennio precedente a quello in valutazione.
Entrambe le proposte investono il tema degli incarichi direttivi e semidirettivi: la prima più direttamente, poiché riguarda la capacità auto-organizzativa del magistrato; le critiche iniziali dell’ANM si sono appuntate soprattutto sul fatto che la previsione di una pagella alimenterebbe inevitabilmente l’ansia di arrivismo che la riforma vorrebbe invece debellare. Vale la pena cogliere però un altro aspetto di contraddizione, collegato al fatto che, di fronte all’abuso invalso di aggettivazioni roboanti che si constata nei pareri attitudinali, si ricorra proprio ad un crescendo di aggettivi per valutare la capacità del magistrato di organizzarsi, senza tenere conto che tale capacità potrebbe essere stata messa in luce da eventi contingenti specifici (ad esempio un cambio di funzioni, un improvviso vuoto d’organico) in difetto dei quali quella di altri magistrati non ha potuto essere invece sollecitata.
La pendenza (e non solo la condanna) di procedure disciplinari (ma anche per incompatibilità ambientali) tocca un nodo irrisolto dell’operato dei Consigli giudiziari. Essi solitamente ne sono all’oscuro, non avendo strumenti per esserne posti a conoscenza. A sua volta il CSM non è solito adottare comunicazioni al riguardo. Accade pertanto che i primi esprimano valutazioni attitudinali senza sapere di fatti che, anche nella loro stessa storicità, indipendentemente dalla caratura disciplinare, possono assumere rilievo fondamentale. E’ paradossale che proprio l’organo periferico, che potrebbe meglio collocare l’evento nella realtà locale, non possa tenerne conto nel giudizio sulla capacità organizzativa concreta.
Appare quanto mai necessario che la stagione delle riforme riparta dunque da una rinnovata collaborazione tra CSM e Consigli giudiziari, attraverso un dialogo e una circolazione d’informazioni che va certamente procedimentalizzata, ma che non può mancare se si voglia uscire dall’impasse di una consultazione territoriale prevalentemente inutile, quale si dimostra essere quella attuale.
L’esperienza insegna che in un’organizzazione complessa le spinte al cambiamento non sono mai spontanee, ma vengono da fattori esterni o, meglio ancora, dal vertice.
Spetta dunque al CSM – tanto più nel momento in cui urgono segnali di cambiamento – rivitalizzare il contributo dei Consigli giudiziari in primo luogo attraverso un’operazione-trasparenza da troppo tempo reclamata e tuttavia inattuata.
Vi sono almeno quattro direzioni verso cui si può orientare tale operazione. Urge innanzi tutto rendere accessibili in tempo reale le notizie sullo stato di qualsiasi procedimento consiliare: un software neppure troppo sofisticato potrebbe consentire a tutti gli interessati la visione in tempo reale a che punto si trovi una pratica, quali elementi istruttori manchino ancora, quali passaggi ulteriori il suo iter ancora preveda. Si ridurrebbero così drasticamente, tra l’altro, le ragioni per cui il magistrato si trovi costretto a mettersi in contatto personale coi consiglieri o i segretari del CSM, sgravando questi ultimi d’incombenze informative e limitando i pericoli di tentativi indiretti (e talvolta involontari) d’influenzare le decisioni.
Secondariamente ai Consigli giudiziari dovrebbero essere messi a disposizione, nelle parti rilevanti per i pareri di loro competenza, i materiali acquisiti nel sistema ad altri scopi. Ci si riferisce anche ad elementi che siano di portata obiettivamente positiva, come l’elaborazione di una buona prassi, oppure neutri, come l’audizione di un magistrato dell’ufficio del dirigente in valutazione.
Al CSM compete necessariamente la ricerca del punto di equilibro tra gli spazi che ritenga di riconoscere all’organo locale per l’istruttoria e le esigenze di rispetto del segreto istruttorio o della riservatezza del magistrato interessato[24].
Va in terzo luogo risolta la questione della misurazione dell’attività del magistrato. L’affermazione vale in generale per l’attività giurisdizionale, poiché si è compreso che il dato statistico quantitativo non porta di per sé a giudizi probanti sulle capacità del magistrato, quando sia dissociato da parametri che consentano di comprendere la qualità del suo lavoro.
Per la valutazione delle attitudini direttive si pone un problema più specifico, che riguarda il vaglio dei risultati degli incarichi di collaborazione assolti dal magistrato. La rielaborazione del testo unico sulla dirigenza è sul punto ancora incompleta: ai Consigli giudiziari dovrebbero affidarsi strumenti concreti e diversificati di verifica (ad es. raccolta dei giudizi dei destinatari dell’attività; questionari rivolti all’interessato; report specifici; audizioni mirate), che diano garanzia sufficiente di utilità dell’incarico per il bene comune del loro svolgimento e al contempo lo rendano meno appetibile per quanti vi aspirino per mera ambizione personale.
Un’ultima più generale sollecitazione è di ordine spiccatamente culturale. Se davvero si vogliono responsabilizzare i singoli magistrati e indurli a partecipare attivamente al governo autonomo della giustizia sembra necessario che il CSM, quale organo preposto istituzionalmente alla tutela delle garanzie costituzionali della categoria e dei singoli, avvii e mantenga un dialogo costante, fatto di incontri, di trasmissioni di saperi, di formazione specifica che – distintamente da quella della Scuola Superiore – miri a diffondere e a rendere praticati nella giurisdizione l’indipendenza, l’autonomia, l’indipendenza per funzioni, la cura di un servizio che non sia incentrato sulle preoccupazioni disciplinari o performanti, ma abbia a cuore la tutela dei diritti dei cittadini. Solo così il Consiglio giudiziario potrà beneficiare a sua volta di apporti effettivi dagli uffici territoriali e operare senza apparire un controllore occhiuto del lavoro dei magistrati.
[1] Ci si riferisce alla legge delega 150/2005, attuata col d. lgs. 160/2006.
[2] Le competenze del Comitato Direttivo e dei Consigli giudiziari sono state disciplinate dal d. lgs. 25/2006 (rispettivamente agli artt. 7 e 15) e modificate con la legge 111/2007.
[3] Introdotte e disciplinate dall’art. 11 d. lgs. 160/2006.
[4] Delibera del Csm 20 ottobre 1999, Risoluzione sul decentramento dei Consigli giudiziari, p. 2 ss. Per un particolare consuntivo del lavoro di un Consiglio giudiziario nel biennio antecedente la riforma, cfr. D. Ceccarelli, I pareri dei Consigli giudiziari e il Consiglio Superiore della Magistratura, 12 maggio 2005, in www.movimentoperlagiustizia.org, consultato il 4 aprile 2022.
[5] Art. 15, primo comma, lett. d), d. lgs. 25/2006.
[6] Così P. Di Nicola, I poteri istruttori del Consiglio Giudiziario e dei suoi componenti, 1 aprile 2008, in www.movimento perlagiustizia.it, consultato l’8 aprile 2022. Vi si legge anche che “ai Consigli Giudiziari è attribuito un ruolo assai rilevante, specialmente nell’ambito delle valutazioni di professionalità: costruire “dal basso” un patrimonio conoscitivo sul magistrato che seguirà questo in tutta la sua carriera e che consentirà al CSM di svolgere, con cognizione di causa e sulla base di parametri fattuali, il proprio potere decisionale”.
[7] Art. 11, ottavo comma, d. lgs. 160/2006: “Il Consiglio superiore della magistratura procede alla valutazione di professionalità sulla base del parere espresso dal consiglio giudiziario e della relativa documentazione, nonché sulla base dei risultati delle ispezioni ordinarie; può anche assumere ulteriori elementi di conoscenza”.
[8] Art. 11, terzo comma, d. lgs. 160/2006.
[9] A oggi la circolare in materia di conferimenti degli incarichi direttivi e semidirettivi confluita nel cd. Testo unico sulla dirigenza giudiziaria è stata definitivamente aggiornata il 16 giugno 2021. E’ reperibile in www.csmapp.csm.it.
[10] Art. 56 del citato testo unico sulla dirigenza giudiziaria.
[11] Così A. Volpi, La legge sull’ordinamento giudiziario a tredici anni dalla riforma: bilancio e prospettive, relazione per la Scuola Superiore della Magistratura, 8 febbraio 2021.
[12] Cfr. R. Ionta e F. Salvatore, Dirigenza giudiziari: la parola al CSM. Intervista a Alberto Benedetti, Giuseppe Cascini e Loredana Miccichè, 4 aprile 2022, in www.giustiziainsieme.it.
[13] E. Bruti Liberati, La “carriera” in magistratura. Problemi aperti, soluzioni apparenti e soluzioni possibili, 30 marzo 2022, in www.giustiziainsieme.it, pur affermando che nell’ultimo mezzo secolo “il livello medio della dirigenza è cresciuto in una progressione costante e significativa”, riconosce che l’inefficienza diffusa dell’organizzazione giudiziaria.
[14] C. Castelli, La nomina dei dirigenti: problemi dei magistrati o del servizio?, 9 giugno 2020, in www.questionegiustizia.it.
[15] A. Natale, Quali consigli giudiziari, in L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del Csm, rivista trimestrale di Questione giustizia, 4, 2017.
[16] C. Valori, I consigli giudiziari, dieci anni dopo, 28 novembre 2017, in www.questionegiustizia.it.
[17] Di pigrizia e altri vizi della scrittura dei magistrati parla spesso G. Carofiglio, ad esempio in Con parole precise, Breviario di scrittura civile, 2015, Laterza.
[18] Il termine è impiegato da S. Benvenuti, Il conferimento degli incarichi direttivi. Riflessioni comparate a partire dell’affaire CSM, in Gruppo di Pisa, relazione al seminario Il Consiglio Superiore della magistratura: snodi problematici e prospettive di riforma, 23 ottobre 2020, p. 254.
[19] Art. 11, quarto comma, lett. a), d. lgs. 160/2006.
[20] Cfr. delibera CSM del 21 dicembre 2016.
[21] Art. 11, quarto comma, lett. f), d. lgs. 160/2006.
[22] C. Limentani, Consigli giudiziari: riforma cercasi”, giugno 2021, in www.agorapenale.it, consultato il 12 aprile 2022.
[23] Art. 11, quarto comma, lett. f), d. lgs. 160/2006.
[24] Cfr. P. Serrao d’Aquino, Le valutazioni di professionaità dei magistrati. Parte seconda. I nodi problematici: le fonti di conoscenza, il rapporto con il disciplinare, gli sfasamenti temporali, le modalità espressive, 23 settembre 2020, in www.giustiziainsieme.it.
I nuovi condizionamenti del magistrato e altri che non passano mai.
di Riccardo Ionta
Aderire o non aderire allo sciopero, azione collettiva dell’A.N.M. di sensibilizzazione, è una scelta individuale insindacabile - il che non vuol dire “non criticabile”, avendo effetti collettivi, anche per quella collettività in nome del quale è amministrata la giustizia - l’importante è avere consapevolezza della realtà.
La riforma non modifica l’art. 101 della Costituzione per cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge e non modifica l’art. 107 per cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. Non modifica l’art. 104 secondo cui la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere e neppure l’art. 112 secondo cui il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale.
La riforma scolora le norme costituzionali, ne fiacca i principi. Tenta di consegnare la guida della magistratura alle inclinazioni di quel magistrato attento ai numeri, alle relazioni, propenso al carrierismo e di quel dirigente giudiziario - sempre attento ai numeri, alle relazioni - incline al dirigismo.
Un magistrato condizionabile, appartenente ad una magistratura gerarchizzata, è un magistrato debole in balia delle derive di corrente.
Sommario: 1. Il condizionamento del risultato atteso dal dirigente (ovvero del compito assegnato al magistrato); 2. Il condizionamento da parte del capo dell’ufficio e del disciplinare come strumento di organizzazione; 3. Il condizionamento del voto in pagella e del fascicolo dei numeri; 4. Il condizionamento da parte del Ministero della Giustizia; 5. Il condizionamento da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati; 6. Il condizionamento da parte degli altri (e alti) magistrati.
1. Il condizionamento del risultato atteso dal dirigente (ovvero del compito assegnato al magistrato)
1.1 Dal carico esigibile dei magistrati al risultato atteso dal capo dell’ufficio
L’art. 14 comma 1 lett. a) della riforma dispone che nei programmi di gestione* ex art. 37 in luogo dell’attuale carico esigibile** il dirigente giudiziario debba prevedere “l’indicazione, per ciascuna sezione o, in mancanza, per ciascun magistrato, dei risultati attesi*** sulla base dell’accertamento dei dati relativi al quadriennio precedente e di quanto indicato nel programma di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240 [il programma delle attività da svolgersi nel corso dell'anno, redatto dal dirigente giudiziario e da quello amministrativo], e, comunque, nei limiti dei carichi esigibili di lavoro individuati dai competenti organi di autogoverno”
* con il programma per la gestione si determinano prevalentemente gli obiettivi di riduzione dei procedimenti con specifica attenzione all’arretrato patologico la cui sostenibilità è verificata per mezzo del carico esigibile.
** il “carico esigibile” è un dato generale del settore o dell’ufficio – determinato su base statistica e adattato alla realtà - rappresentativo della “capacità di lavoro dei magistrati” che “fisiologicamente consente di coniugare qualità e quantità del lavoro in un dato periodo di tempo, da individuarsi alla luce della concreta situazione dell’ufficio” (così recita la circolare del C.S.M.).
*** il “risultato atteso” è invece un dato anche individuale determinato prevalentemente sulla base delle aspettative del dirigente giudiziario (e in parte anche del dirigente amministrativo). La diversità tra “carico esigibile” e “risultato atteso” appare chiara già dal nome. Il cambio di passo appare evidente dal momento in cui, come si vedrà in seguito, il rispetto da parte del magistrato del risultato atteso è utilizzato per la valutazione della laboriosità nelle valutazioni di professionalità: se il carico esigibile riguarda gli obiettivi di rendimento dell’intero ufficio quindi, il risultato atteso riguarda l’obiettivo di rendimento del singolo magistrato.
1.2 Il risultato atteso dal dirigente e la valutazione della laboriosità
L’art. 3 comma 1 lettera d) dispone che nelle valutazioni di professionalità, il parametro della laboriosità “sia espressamente valutato il rispetto da parte del magistrato di quanto indicato nei programmi annuali di gestione”.
Il dirigente, quindi, assegna il risultato atteso determinando la soglia raggiunta la quale il magistrato è valutabile come laborioso. E’ utile ricordare che l’attuale sistema di conferma dei direttivi è fortemente incentrato sul raggiungimento degli obiettivi numerici di definizione dei procedimenti.
2. Il condizionamento da parte del capo dell’ufficio e il disciplinare come strumento di organizzazione
2.1 Il risultato atteso dal dirigente
Si rimanda a quanto sopra detto, (ma è utile ricordarlo) pertinente anche in questa sede.
2.2 Il disciplinare per omessa collaborazione del magistrato
L’art 11 introduce l’illecito per “l’omessa collaborazione del magistrato nell’attuazione delle misure di cui all’articolo 37, comma 5-bis*, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 [ovvero i programmi di gestione], convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nonché la reiterazione, all’esito dell’adozione di tali misure, delle condotte che le hanno imposte, se attribuibili al magistrato”.
* il nuovo art. 5-bis sui programmi di gestione prevede, tra le altre cose che “Il capo dell'ufficio, al verificarsi di gravi e reiterati ritardi da parte di uno o più magistrati dell'ufficio, ne accerta le cause e adotta ogni iniziativa idonea a consentirne l'eliminazione, con la predisposizione di piani mirati di smaltimento, anche prevedendo, ove necessario, la sospensione totale o parziale delle assegnazioni e la redistribuzione dei ruoli e dei carichi di lavoro”.
* la norma deve esser letta con attenzione poiché non si rivolge solo al magistrato che cumula ritardi. La stessa infatti consente al capo dell’ufficio di adottare ogni iniziativa idonea che può coinvolgere anche gli altri magistrati dell’ufficio, i quali sono quindi sanzionabili se omettono di “collaborare”.
2.3 Il voto in pagella
Il voto in pagella, di cui al punto successivo, è assegnato primariamente dal dirigente dell’ufficio.
3. Il condizionamento del voto in pagella e del fascicolo dei numeri
3.1. Discreto, buono e ottimo
L’art. 2 comma 1 lettera c): “prevedere che, nell’applicazione del l’articolo 11 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, il giudizio positivo sia articolato, secondo criteri predeterminati, nelle seguenti ulteriori valutazioni: « discreto », « buono » o « ottimo » con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro”.
3.2 Il fascicolo dei numeri
L’art 3 comma 1 lettera h) prevede che “ai fini delle valutazioni di professionalità…e ai fini delle valutazioni delle attitudini per il conferimento degli incarichi..: 1) prevedere l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessari per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio, nonché ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione”
3.3 Un voto anche per l’aspirante dirigente
L’art. 10 della riforma prevede che “Al termine del corso di formazione, il comitato direttivo, sulla base delle schede valutative redatte dai docenti nonché di ogni altro elemento rilevante, indica per ciascun partecipante elementi di valutazione in ordine al conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, con esclusivo riferimento alle materie oggetto del corso”.
4. Il condizionamento da parte del Ministero della Giustizia
4.1 È il Ministero che gestisce i dati statistici (e i dati degli esiti dei giudizi) e cosa disse il Presidente Ciampi
Nella riforma non c’è scritto, ma è meglio non dimenticare che il detentore privilegiato dei dati statistici è proprio il Ministero della Giustizia.
Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel rimettere nel 2004 alle Camere la legge delega per la riforma dell’ ordinamento giudiziario - in relazione all’articolo 2, comma 14, lettera c): “istituzione presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell’organizzazione giudiziaria dell’ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali;” – evidenziò che “Anche questa disposizione si pone in palese contrasto con gli articoli 101, 104 e 110 della Costituzione. Infatti, se si considera la finalità espressamente indicata dalla norma, risulta evidente che il monitoraggio dell’esito dei procedimenti – fase per fase, grado per grado – affidato a strutture del Ministero della giustizia, esula dalla “organizzazione” e dal “funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, che costituiscono il contenuto e il limite costituzionale delle competenze del Ministro. Inoltre, da questa forma di monitoraggio, avente ad oggetto il contenuto dei provvedimenti giudiziari, deriva un grave condizionamento dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni; in particolare, il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza “della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale” integra una ulteriore violazione del citato articolo 112 della Costituzione”.
4.2 Le osservazioni del Ministro ai Progetti organizzativi delle Procure (ovvero un assaggio della separazione delle carriere)
L’art. 13 comma 7 prevede che “Il progetto organizzativo* dell’ufficio è adottato ogni quattro anni…previo parere del consiglio giudiziario e valutate le eventuali osservazioni formulate dal Ministro della giustizia ai sensi dell’articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195 “. Trasmissione e osservazioni del Ministro che riguardano anche le variazioni al progetto.
*Il Progetto organizzativo previsto dalla riforma deve contenere, tra le molte cose: “a) le misure organizzative finalizzate a garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto dei criteri di priorità di cui alla lettera abis); b) i criteri di priorità, finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili; e) i criteri e le modalità di revoca dell’assegnazione dei procedimenti”;
Sarà il Parlamento ad indicare i criteri generali per l’individuazione dei criteri di priorità. L’art. 1 comma 9 lett. i) dispone inoltre di “prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l'efficace e uniforme esercizio dell'azione penale, nell'ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell'utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti”.
Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel rimettere nel 2004 alle Camere la legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario – in particolare l’articolo 2, comma 31, lettera a),: “(Relazioni sull’amministrazione della giustizia). 1. Entro il ventesimo giorno dalla data di inizio di ciascun anno giudiziario, il Ministro della giustizia rende comunicazioni alle Camere sull’amministrazione della giustizia nel precedente anno e sulle linee di politica giudiziaria per l’anno in corso…”.- rilevò che la norma approvata dalle Camere “configura un potere di indirizzo in capo al Ministro della giustizia, che non trova cittadinanza nel titolo IV della Costituzione, in base al quale l’esercizio autonomo e indipendente della funzione giudiziaria è pienamente tutelato, sia nei confronti del potere esecutivo, sia rispetto alle attribuzioni dello stesso Consiglio superiore della magistratura. Aggiungo che l’indicazione di obiettivi primari che l’attività giudiziaria dovrebbe perseguire nel corso dell’anno (“linee di politica giudiziaria”) determina di per sé la violazione anche dell’articolo 112 della Costituzione, in base al quale “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”: il carattere assolutamente generico della formulazione della norma in esame crea uno spazio di discrezionalità politica destinato ad incidere sulla giurisdizione”.
4.3 Il disciplinare per l’inosservanza delle direttive
L’art. 11 modifica l’art. 2.1 lett. n) decreto legislativo n. 109/2006 prevedendo come illecito disciplinare “la reiterata o grave inosservanza…delle direttive”.
La disposizione non specifica di quali direttive si tratti e la stessa può esser interpretata come riferita alle direttive del C.S.M. ovvero alle direttive del potere esecutivo e in particolare del Ministro della Giustizia. Quest’ultima appare l’interpretazione più coerente considerando le altre disposizioni dell’art. 2.1 lett. n) - che così sanzionerebbe la “reiterata o grave inosservanza delle norme regolamentari, delle direttive o delle disposizioni sul servizio giudiziario o sui servizi organizzativi e informatici adottate dagli organi competenti” - e che le direttive consiliari (art. 25 del regolamento C.S.M.) sono atti di natura tendenzialmente interpretativa delle norme e non contengono specifici precetti.
4.4 Il parere del Ministero della Giustizia sugli aspiranti direttivi
L’art. 2 comma 1 lettera c) dispone per i procedimenti per la copertura dei posti direttivi di “stabilire in ogni caso modalità idonee ad acquisire il parere…dei dirigenti amministrativi…assegnati al l’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati”.
4.5 Il risultato è atteso anche un po' dal dirigente
Il risultato atteso dei programmi di gestione, come già esposto, è determinato anche sulla base di quanto indicato nel programma di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240 [il programma delle attività da svolgersi nel corso dell'anno, redatto dal dirigente giudiziario e da quello amministrativo]
4.6 I dirigenti amministrativi nella composizione della Segreteria del C.S.M.
L’art. 25 innova la selezione dei componenti della Segreteria del C.S.M. - posta alle dipendenze funzionali del Comitato di presidenza del CSM (composto dal Vice Presidente, dal Primo presidente della Corte di Cassazione e dal Procuratore generale presso la Cassazione) – prevedendo che alla stessa possono essere assegnati massimo 18 componenti esterni (1/3 dirigenti amministrativi con almeno 8 anni di esperienza; magistrati con almeno la seconda valutazione di professionalità), selezionati mediante procedura di valutazione dei titoli e colloquio da una commissione individuata dal Comitato di presidenza. La norma, quindi, prevede l’innesto nella Segreteria dei dirigenti amministrativi, unici componenti necessari della struttura, essendo stabilita solo in loro favore una riserva di posti che potrebbe essere anche totalitaria, corrispondendo quella di un terzo alla quota minima.
5. Il condizionamento da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati
5.1 Il voto degli avvocati sulle valutazioni di professionalità
L’art. 3 comma 1 lettera a) dispone di “introdurre la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relative all’esercizio delle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari di cui, rispettivamente, agli articoli 7, comma 1, lettera b), e 15, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 [ovvero le valutazioni di professionalità], con attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione; prevedere che, nel caso in cui la componente degli avvocati intenda discostarsi dalla predetta segnalazione, debba richiedere una nuova determinazione del consiglio dell’ordine degli avvocati;”
Gli avvocati componenti dei Consigli Giudiziari e il Consiglio dell’ordine (art. 11 comma 4 lett. f) decreto legislativo n. 160 del 2006) hanno già la facoltà di segnalare qualsiasi anomalia dell’attività del magistrato al dirigente giudiziario e agli organi di autogoverno (facoltà raramente usata).
La norma non prevede alcun contrappeso al potere di voto (non è prevista alcuna forma di incompatibilità tra le funzioni di consigliere giudiziario “laico” ed esercizio della professione nel distretto e circondario; non è previsto alcun obbligo di astensione). E forse è utile ricordare le ricadute della normativa in quei circondari e distretti caratterizzati da tensioni.
Il senso di consentire “segnalazioni positive” sul magistrato in valutazione, anche laddove lo si volesse intendere come mera volontà di consentire pubbliche attestazioni di stima, è elemento di cui non si comprende l’utilità e di cui sono invece evidenti le rischiose implicazioni.
5.2 Il parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati sugli aspiranti direttivi
L’art. 2 comma 1 lettera c) prevede per i procedimenti per la copertura dei posti direttivi di “stabilire in ogni caso modalità idonee ad acquisire il parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente per territorio”
5.3 Il parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati sulle conferme dei direttivi
L’ art. 2 comma 1 lettera g) dispone che nel procedimento di conferma della dirigenza si tenga conto delle “osservazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati”;
Ad oggi l’art. 75 del TU dirigenza giudiziaria già prevede che i Consigli giudiziari e il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione debbano invitare il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, nel cui circondario è compreso l’ufficio ove presta servizio il magistrato da confermare, e, per quelli con competenza distrettuale, al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo del distretto, a far pervenire, entro 30 giorni, informazioni scritte in relazione a eventuali fatti specifici e a situazioni oggettive rilevanti per la valutazione delle attitudini direttive riguardanti l’incarico oggetto di valutazione
6. Il condizionamento da parte degli altri (e alti) magistrati.
6.1 La valutazione della capacità del magistrato dipende dal “magistrato superiore” e anche un po' dalla sorte
L’art 3 comma 1 lettera g) dispone che nelle valutazioni di professionalità, per il parametro della capacità “il consiglio giudiziario acquisisca le informazioni necessarie ad accertare la sussistenza di gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento”,
La stessa norma prevede, anche in caso di assenza di anomalia che “in ogni caso, che acquisisca, a campione, i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio;”
Ad oggi per le valutazioni di professionalità è già prevista la voce relativa alle “significative anomalie” riguardo all’esito degli affari. La norma, quindi, nella prima parte poco innova (anzi il concetto di “gravi anomalie” appare maggiormente stringente di quello di “significative anomalie”) se non imponendo agli organi di autogoverno un’attività specifica (imponderabile nei modi) di ricerca. L’innovazione effettiva e concreta è nell’estrazione a campione dei provvedimenti in relazione agli esiti nei successivi gradi di giudizio.
6.2 Il parere dei magistrati per l’aspirante direttivo
L’art. 2 comma 1 lettera c) prevede per i procedimenti per la copertura dei posti direttivi di “stabilire in ogni caso modalità idonee ad acquisire il parere…dei magistrati…assegnati al l’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati”
6.3 Pareri reciproci
L’art. 2 comma 1 lettera g) dispone che nella conferma dei dirigenti si tenga conto dei:
- “pareri espressi dal magistrato dell’ufficio” ma anche dei “rapporti redatti [dal medesimo dirigente in valutazione] ai fini delle valuta zioni di professionalità dei magistrati del l’ufficio o della sezione”;
- “del parere del presidente del tribunale o del procuratore della Repubblica, rispettivamente quando la conferma riguarda il procuratore della Repubblica o il presidente del tribunale”
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