ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Commissioni di valutazione per la conferma a tempo indeterminato dei magistrati onorari di lungo corso: quando il diavolo si nasconde nei dettagli
di Luciano Ciafardini
Sommario: 1. Il travaglio del legislatore nazionale. – 2. Il perimetro dell’analisi. – 3. Le criticità connesse alla nomina e alla composizione delle commissioni di valutazione. – 4. Conclusioni.
1. Il travaglio del legislatore nazionale
Le vicende normative concernenti i magistrati onorari rispecchiano le difficoltà incontrate dal legislatore nel disegnare una disciplina idonea a soddisfare molteplici istanze, tutte inderogabili ma difficilmente conciliabili.
Tra tali esigenze, la più impellente è quella di assicurare la continuità della funzione giudiziaria, alla quale i magistrati onorari, negli ultimi decenni, hanno fornito un contributo – per restare solo al dato quantitativo – fondamentale e, al momento, irrinunciabile a tutti i livelli di giudizio[1].
D’altro canto, occorre garantire il rispetto dei precetti costituzionali, che impongono una chiara differenziazione di status tra magistratura professionale e magistratura onoraria[2].
Infine, nel ruolo di “terzo incomodo”, irrompono istanze sovranazionali, spinte dalla forza cogente di recenti sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea[3], che si è pronunciata sulla disciplina nazionale in tema di impiego della magistratura onoraria, rilevandone l’incompatibilità con il diritto europeo.
In questo quadro, la legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022) ha modificato, con efficacia dal 1° gennaio 2022, gli artt. 29, 31 e 32 del decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116 (recante la riforma organica della magistratura onoraria), nel tentativo di ricondurre ad unità le tre istanze appena indicate: nella relazione illustrativa del disegno di legge di bilancio si legge, infatti, che le risorse sono apprestate «in funzione dell’efficienza del sistema giustizia, attraverso misure coerenti con le sollecitazioni sovranazionali e nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento interno».
Non è possibile, ovviamente, tratteggiare un quadro completo della complessiva disciplina introdotta nel 2017 e modificata sul finire del 2021[4].
Ai nostri fini, basterà ricordare che, per i magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore della riforma (15 agosto 2017), si prevedeva un sistema – immediatamente operativo – di conferma quadriennale nell’incarico, per un massimo di quattro quadrienni e, comunque, fino al compimento del sessantottesimo anno di età. Un regime transitorio diluiva nel tempo il passaggio al nuovo schema di organizzazione del lavoro e, quanto al compenso, prorogava il vecchio sistema “a cottimo”[5] fino al 15 agosto 2021 (termine poi differito al 31 dicembre 2021[6]).
Ai magistrati onorari “di lungo corso” è indirizzata, infatti, la novella adottata con la legge di bilancio per il 2022, il cui obiettivo principale – del resto dichiaratamente perseguito – è quello «di dare una risposta alle sollecitazioni provenienti dalla Commissione europea in ordine alle problematiche relative al rapporto di impiego dei magistrati onorari in servizio»[7].
Si allude alla lettera di costituzione in mora del 15 luglio 2021, inviata dalla Commissione europea al Governo italiano per preannunciare l’avvio di una procedura d’infrazione, per la non conformità della disciplina prevista dal d.lgs. n. 116 del 2017 ad alcune direttive europee, con particolare riferimento al divieto di reiterazione abusiva di contratti di lavoro a termine[8].
Il riscontro offerto del legislatore italiano è appunto compendiato nei commi da 629 a 633 dell’art. 1 della legge di bilancio per il 2022.
Per le esigenze di sintesi già segnalate, è sufficiente ricordare che il comma 629, lett. a), sostituisce integralmente l’art. 29 del d.lgs. n. 116 del 2017, che ora prevede una procedura di conferma «a tempo indeterminato» dei magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 116 del 2017, sino al compimento dei settanta anni di età (comma 1).
L’intervento ruota sulla creazione di un «contingente ad esaurimento dei magistrati onorari in servizio» (così lo definisce la rubrica del nuovo art. 29), nel quale arruolare i magistrati onorari di più lunga militanza, ai quali si prevede di applicare regole peculiari sulla durata del servizio e sul relativo compenso, nonché alcune tutele ordinariamente previste per i lavoratori assunti alle dipendenze della pubblica amministrazione, senza che ciò comporti, però, la trasformazione della natura dell’incarico conferito, che continua ad essere considerato onorario[9].
A tal fine, si dispone (comma 3) che il Consiglio superiore della magistratura provveda ad indire, con apposita delibera, tre procedure valutative, da tenere con cadenza annuale nel triennio 2022-2024 e relative ai magistrati onorari che, alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 116 del 2017 (15 agosto 2017), abbiano maturato, rispettivamente, oltre 16 anni di servizio, tra i 12 e i 16 anni di servizio e meno di 12 anni di servizio[10].
Tali procedure valutative consistono (comma 4) in un colloquio orale, della durata massima di trenta minuti, su un caso pratico di diritto civile sostanziale e processuale oppure sul diritto penale sostanziale e processuale, in base al settore in cui i candidati hanno esercitato le funzioni giurisdizionali onorarie.
La commissione di valutazione è composta dal Presidente del tribunale o da un suo delegato, da un magistrato che abbia conseguito almeno la seconda valutazione di professionalità designato dal Consiglio giudiziario e da un avvocato iscritto all’albo speciale dei patrocinanti davanti alle magistrature superiori designato dal Consiglio dell’ordine.
Per coloro che non supereranno la procedura valutativa, oppure che non riterranno di sottoporvisi (in tal modo cessando dal servizio: comma 9), si prevede (comma 2) la corresponsione di una indennità nella misura di euro duemilacinquecento o millecinquecento, al lordo delle ritenute fiscali, per ciascun anno di servizio nel corso del quale il magistrato sia stato impegnato in udienza, rispettivamente, per almeno ottanta giornate o per un numero inferiore, e comunque per un importo complessivamente non superiore alla somma di euro cinquantamila lordi.
Sia la partecipazione alla procedura di valutazione (evidentemente per coloro che la supereranno) sia la percezione di tale indennità (per coloro che non vi si sottoporranno o che non la supereranno) comporta la conseguenza della «rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario» pregresso o cessato (così, rispettivamente, i commi 5 e 2).
Coloro che supereranno la procedura di valutazione potranno optare (comma 6) per un «regime di esclusività delle funzioni onorarie», nel qual caso percepiranno un trattamento economico equivalente a quello di un funzionario dell’amministrazione della giustizia[11].
A coloro che non eserciteranno l’opzione per l’esclusività del servizio onorario, invece, sarà corrisposto (comma 7) un compenso inferiore[12] e solo ad essi continuerà ad applicarsi il limite dei due giorni di impegno settimanali (previsto dall’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 116 del 2017), «in modo da assicurare il contestuale espletamento di ulteriori attività lavorative o professionali»[13].
Le altre disposizioni del comma 629, così come quelle contenute nei commi da 630 e 633 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, operano raccordi con la disciplina previgente[14] e provvedono alle coperture finanziare per l’attuazione del nuovo sistema.
2. Il perimetro dell’analisi
Non è questa l’occasione per stabilire se la novella legislativa che ha visto la luce all’alba del 2022 sia riuscita, complessivamente considerata, ad operare una reductio ad unitatem delle tre esigenze in precedenza evidenziate, nel pieno rispetto delle cornici di principio tracciate dall’ordinamento interno e da quello sovranazionale.
Non è difficile, tuttavia, immaginare che ben presto le Corti rispettivamente deputate ad accertare la compatibilità del diritto nazionale con i precetti costituzionali e con il diritto europeo saranno sollecitate a compiere tale verifica in relazione ad alcuni profili che, di primo acchito, suscitano più di una perplessità.
È sufficiente ricordare che l’intento del maxi-emendamento governativo, esplicitato nella relativa relazione illustrativa, era quello di «dare una risposta alle sollecitazioni provenienti dalla Commissione europea in ordine alle problematiche relative al rapporto di impiego dei magistrati onorari in servizio, a seguito della lettera di costituzione in mora inviata in data 15 luglio 2021», proprio sulla scia della sentenza della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX contro Governo della Repubblica italiana, che aveva fissato alcuni fondamentali principi[15].
Occorrerà, dunque, verificare se le coordinate tracciate dalla giurisprudenza sovranazionale siano state rispettate[16].
Un altro campo di scontro, del resto, potrà aprirsi con riferimento alla previsione della “rinuncia forzosa” a qualunque pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso o cessato imposta a coloro che supereranno la valutazione o che, non avendola superata (o avendo deciso di non sottoporvisi), accetteranno l’indennità offerta dallo Stato a tacitazione di ogni rivendicazione economica, nel limite massimo di euro cinquantamila lordi.
Si tratta di una previsione che interviene “a gamba tesa” su un nutrito contenzioso già in atto prima dell’entrata in vigore della legge di bilancio per il 2022 e volto ad ottenere il riconoscimento dei diritti connessi alla qualità di lavoratore a tempo determinato, beninteso ove quest’ultima sia accertata, caso per caso e in concreto, dal giudice nazionale in applicazione del diritto dell’Unione.
A tal proposito, è interessante notare che la decisa presa di posizione della Corte di giustizia, se non risulta aver ancora determinato un cambio di prospettiva nelle magistrature superiori di legittimità[17] ed amministrativa[18], sembra, invece, aver spiegato notevole influenza sui giudici di merito, tanto che in alcune pronunce ci si è spinti a riconoscere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e, di conseguenza, a condannare lo Stato italiano al risarcimento del danno (c.d. “eurounitario”) per l’illegittima reiterazione di contratti di lavoro a termine nei confronti di uno stesso lavoratore (ossia del magistrato onorario, per decenni confermato nell’incarico)[19], oppure a riconoscere – in aggiunta – il diritto a percepire un trattamento economico corrispondente a quello del magistrato professionale di prima nomina[20], oppure, ancora, ad accertare e riconoscere (anche prima della sentenza europea) «la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato di fatto […], con ogni effetto conseguente per legge»[21].
È evidente l’incidenza che il novellato art. 29 del d.lgs. n. 116 del 2017 è destinato a spiegare sul contenzioso in corso, a vantaggio di una delle parti in causa (quella pubblica). Non è difficile, allora, pronosticare la sollevazione – nell’ambito di tali giudizi – di questioni di legittimità costituzionale per violazione dei principi del legittimo affidamento e di certezza del diritto e, dunque, degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU[22].
In disparte questi (pur rilevantissimi) risvolti, nella presente sede s’intende, piuttosto, concentrare l’attenzione su un aspetto – quello concernente la nomina e la composizione delle commissioni di valutazione ai fini della conferma a tempo indeterminato – che può apparire marginale e che, invece, assume un certo rilievo, sotto almeno due profili: il ruolo attribuito al Consiglio superiore della magistratura e, soprattutto, l’incidenza della disciplina sull’indipendenza dei magistrati onorari che decideranno di sottoporsi alla procedura.
3. Le criticità connesse alla nomina e alla composizione delle commissioni di valutazione
Occorre partire da un dato ineludibile.
La Corte costituzionale (con la già citata sentenza n. 267 del 2020) ha affermato che la differente modalità di nomina, il carattere non esclusivo dell’attività giurisdizionale svolta e il livello di complessità degli affari trattati «non incidono sull’identità funzionale[23] [rispetto a quelli compiuti dal magistrato professionale] dei singoli atti che il giudice di pace compie nell’esercizio della funzione giurisdizionale».
Si spiega, dunque, come anche al magistrato onorario debba essere garantita, per necessità costituzionale, l’indipendenza nell’esercizio delle funzioni.
Si tratta di un principio costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui il giudice di pace è «organo giurisdizionale, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita» (ordinanza n. 151 del 2013), e sul quale converge, del resto, la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (punto 56 della più volte citata sentenza del 16 luglio 2020, UX).
L’indipendenza di un soggetto o di un organo «presuppone che nell’ordinamento siano presenti regole, le quali appunto attribuiscano al soggetto o all’organo la facoltà di decidere liberamente, impedendo altresì che le sue libere determinazioni possano essere causa di reazioni, o di sanzioni, a suo carico»[24]. Si tratta di concetto che assume importanza e significato peculiari per i singoli magistrati, perché, ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il singolo giudice è soggetto soltanto alla legge, ciò che sottolinea la sua indipendenza da organi e poteri esterni alla magistratura (come pure dagli altri giudici).
C’è da chiedersi se le disposizioni che si stanno scrutinando, e in particolare quelle che disciplinano la nomina e la composizione delle commissioni di esame, rispettino l’esigenza inderogabile di garantire l’indipendenza anche del magistrato onorario.
Una parziale risposta al quesito è stata fornita dal Consiglio superiore della magistratura, il quale, nel parere adottato con delibera del 22 dicembre 2021 e reso su richiesta del Ministro della giustizia, ha ritenuto che la procedura di conferma configurata dal legislatore sia in contrasto con i principi di autonomia e indipendenza che presidiano anche l’esercizio delle funzioni giurisdizionali onorarie.
Nel suddetto parere si è evidenziato che «la Commissione di concorso non è […] nominata dall’Organo di governo autonomo, ma è composta da un membro predeterminato dalla legge (il Presidente del Tribunale nel quale il magistrato ha prestato servizio), da un magistrato designato dal Consiglio giudiziario e da un avvocato nominato dal Consiglio dell’ordine, laddove la commissione del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 160 del 2006, “è nominata (...) con decreto del Ministro della giustizia, adottato a seguito di conforme delibera del Consiglio superiore della magistratura”».
Si tratta di un’osservazione pertinente, che però è riferibile solo indirettamente alla necessità di garantire anche ai magistrati onorari l’imprescindibile guarentigia dell’indipendenza e dell’autonomia nell’esercizio delle funzioni. In altri termini, è vero che la procedura di valutazione non appare “governata” – come invece dovrebbe – dal Consiglio superiore della magistratura in tutti i suoi passaggi, con particolare riferimento al giudizio finale di idoneità o meno del candidato. Ed è vero, quindi, che ciò incide, di riflesso, sull’indipendenza del magistrato onorario, al quale spetterebbe, invece, una valutazione compiuta in ultima istanza dall’organo di governo autonomo della magistratura, il quale non dovrebbe limitarsi ad una mera “certificazione” dei risultati dell’esame condotto da commissioni formate da componenti non nominati dal Consiglio stesso.
In via diretta, tuttavia, gli argomenti spesi nel parere sembrano prefigurare, piuttosto, la lesione di attribuzioni costituzionali proprie dell’organo di governo autonomo.
Ciononostante, il Consiglio superiore non ha ritenuto di reagire a una tale riscontrata menomazione, rinunciando a promuovere conflitto di attribuzione contro la legge[25].
Più concreto, invece, parrebbe un aspetto critico connesso alla composizione della commissione di valutazione, in cui è prevista la presenza di componenti dell’avvocatura, nominati secondo modalità che effettivamente potrebbero risultare contrastanti con il principio di indipendenza della magistratura onoraria.
Il profilo incrocia, all’evidenza, il delicato tema della partecipazione di componenti laici, di origine forense, alle decisioni sui momenti salienti del percorso professionale dei magistrati, anche professionali.
Non deve certo menare scandalo la possibilità che un tale qualificato contributo possa essere fornito anche da membri dell’avvocatura.
È la stessa Costituzione, infatti, a prevedere (art. 104, quarto comma) che un terzo dei componenti del Consiglio superiore della magistratura – al quale spetta l’adozione di tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati (art. 105) – siano eletti dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio della professione, sicché è evidente che questa commistione è stata giudicata compatibile con il disegno costituzionale ed anzi necessaria, oltre che foriera di positivi effetti in ordine alla gestione dei percorsi professionali dei magistrati[26].
Del resto, la strada dell’apertura alla partecipazione della componente laica alla formulazione dei pareri che i consigli giudiziari devono esprimere per le valutazioni di professionalità dei magistrati è stata imboccata dalla legge 17 giugno 2022, n. 71, contenente deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario: l’art. 3, comma 1, lett. a), indica, tra i principi e i criteri direttivi ai quali dovrà attenersi l’esercizio della delega, l’introduzione della facoltà, per i membri laici, di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relative, con attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario[27].
Già oggi, infine, tale partecipazione è prevista dalla legge per le decisioni assunte nei confronti dei magistrati onorari. L’art. 10 del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, infatti, ha istituito, in seno ai consigli giudiziari, sezioni autonome per i giudici onorari di pace e i vice procuratori onorari. In tali sezioni siedono avvocati che, partecipando ai lavori dell’organo “in composizione allargata”, decidono sul rapporto di servizio dei magistrati onorari.
Tuttavia, in tutte queste ipotesi, la Costituzione e la legge di ordinamento giudiziario hanno circondato la partecipazione dei componenti laici ai lavori degli organi di governo autonomo della magistratura, da una serie di cautele appunto indirizzate a scongiurare possibili condizionamenti sull’esercizio indipendente della funzione giurisdizionale.
E così, è lo stesso art. 104, ultimo comma, della Costituzione a prevedere che i membri laici del Consiglio superiore della magistratura, finché sono in carica, non possono essere iscritti negli albi professionali, in modo che non sia in alcun modo neppure ipotizzabile un “intreccio funzionale” tra costoro e i magistrati sulle cui “carriere” sono chiamati a decidere e che potrebbero, già solo per questo, subire condizionamenti nell’esercizio delle funzioni.
Allo stesso modo, nell’ambito della sezione autonoma dei Consigli giudiziari, quando si tratta di esercitare le competenze assegnate dalla legge in relazione al giudizio di idoneità per la conferma nell’incarico e in relazione alle valutazioni sulle proposte di sospensione dalle funzioni, decadenza, dispensa, revoca dell’incarico e di applicazione di sanzioni disciplinari, il componente laico di estrazione forense non può partecipare alle discussioni e alle deliberazioni della sezione medesima, ove tali decisioni riguardino un magistrato onorario che esercita le funzioni in un ufficio del circondario del tribunale presso cui ha sede l’ordine al quale l’avvocato è iscritto (art. 10, comma 5, del d.lgs. n. 25 del 2006). E ciò sempre a salvaguardia dell’indipendente esercizio delle funzioni onorarie.
Infine, è facile pronosticare che, nell’esercizio della delega contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. a), della legge n. 71 del 2022, il legislatore delegato[28] potrà introdurre disposizioni che assicurino anche per la magistratura professionale cautele non minori di quelle riconosciute dall’art. 10 del d.lgs. n. 25 del 2006 alla magistratura onoraria, onde scongiurare il rischio che i membri laici indicati dall’avvocatura possano contribuire a valutare la professionalità di un giudice davanti al quale penda una controversia da essi patrocinata.
Nulla di tutto ciò, invece, è previsto per le commissioni di valutazione di cui al comma 4 del nuovo art. 29 del d.lgs. n. 116 del 2017, il quale, al contrario, dispone che sia proprio il consiglio dell’ordine circondariale a designare un avvocato per le procedure valutative dei magistrati onorari che operano (e che ancora opereranno, se confermati) nel medesimo circondario in cui il designato esercita l’attività professionale.
La posta in gioco è altissima per il magistrato onorario soggetto a valutazione, visto che la procedura può sfociare addirittura nella cessazione di un incarico che, nella maggior parte dei casi, costituisce l’unica fonte di sostentamento per l’interessato[29].
Assume rilievo, dunque, l’interesse pubblico volto ad evitare che richieste o promesse indebite (senza escludere eventuali minacce, anche larvate) possano alterare le normali dinamiche processuali che devono governare i processi affidati, non solo all’attualità, ma anche in futuro, al magistrato in valutazione e di cui sia parte uno dei componenti della commissione di esame.
Il rischio di condizionamenti contrastanti con il dettato costituzionale che presidia l’indipendenza e l’imparzialità del magistrato onorario appare, quindi, non solo evidente ma anche assolutamente concreto, sol che si pensi alla posizione di “debolezza istituzionale” in cui, tradizionalmente (e al di là delle qualità personali dei singoli), versa la magistratura non professionale, a differenza di quella togata.
Il Consiglio superiore della magistratura, dal canto suo e nel silenzio della legge, ha evidentemente avvertito la delicatezza del problema, tanto che, nel procedere all’indizione della prima procedura di valutazione, ha contestualmente approvato (con la già citata delibera del 20 aprile 2022) una circolare con la quale ha previsto (art. 6, comma 6) che «costituiscono cause di incompatibilità dei componenti la Commissione con i candidati sottoposti a valutazioni quelle previste dagli art. 51 e 52 del codice di procedura civile».
Ma il rimedio ipotizzato appare insufficiente, e non solo perché adottato con prescrizioni prive di valore normativo primario.
Le cause di astensione e ricusazione del giudice previste dalle citate norme del codice di procedura civile, infatti, non sono perfettamente adattabili al caso di cui si discute. Non si tratta, infatti, di garantire l’imparzialità del giudice nell’ambito di una specifica controversia affidata alle sue cure, quanto piuttosto di assicurare la neutralità della valutazione sul giudice, per azzerare il rischio di quegli indebiti condizionamenti a cui si è fatto in precedenza riferimento, non solo presenti, ma anche futuri.
Per questa ragione – e in disparte le ipotesi (pacifiche) di parentela, affinità, convivenza, commensalità abituale o grave inimicizia – non basta che siano esclusi dalla commissione di esame gli avvocati che attualmente patrocinano in cause già pendenti innanzi al magistrato in valutazione, ma è necessario evitare, invece, che il giudizio sia affidato a soggetti che continueranno, anche in futuro, ad esercitare abitualmente attività professionale innanzi a lui, magari in contesti di ridotte dimensioni territoriali. Questa circostanza, a ben vedere, nella valutazione sul magistrato, costituisce una grave ragione di convenienza, che a pieno titolo può rientrare nella clausola di chiusura del secondo comma dell’art. 51 c.p.c. e che riguarda tutti gli iscritti all’ordine professionale circondariale.
È proprio questa, del resto, la ratio che ha guidato il legislatore nella redazione dell’art. 10, comma 5, del d.lgs. n. 25 del 2006, quando, a monte, ha escluso gli avvocati dalla partecipazione alle deliberazioni della sezione autonoma del Consiglio giudiziario, quando le decisioni riguardano un magistrato onorario che esercita le funzioni in un ufficio del medesimo circondario presso cui ha sede l’ordine al quale l’avvocato è iscritto.
4. Conclusioni
Il cantiere della magistratura onoraria è, storicamente, sempre aperto, sebbene i lavori abbiano subito, oggi, uno stop improvviso per lo scioglimento anticipato delle Camere[30].
L’officina legislativa, tuttavia, andrà riavviata non appena possibile, perché è notizia recente[31] quella secondo cui la Commissione europea, in data 15 luglio 2022, ha deciso di inviare – a distanza di un anno esatto dalla prima – una lettera di costituzione in mora complementare all’Italia, perché ritiene che la legislazione nazionale applicabile ai magistrati onorari continui a non essere pienamente conforme al diritto del lavoro dell’Unione europea, nonostante le modifiche apportate nel dicembre 2021, considerate, anzi, fonte di nuove criticità.
L’Italia dispone ora di due mesi per adottare le misure necessarie, trascorsi i quali la Commissione potrà decidere di emettere un parere motivato.
Sarebbe forse il caso di approfittarne per correggere anche quella che, allo stato, non può che considerarsi una “smagliatura” – potenzialmente contrastante con un fondamentale precetto costituzionale – nella sempre più fitta trama ordinamentale che governa il destino di migliaia di (come detto, indispensabili) operatori di giustizia.
[1] L’indispensabilità dell’apporto della magistratura onoraria è sostanzialmente ammessa dalla stessa Corte costituzionale, la quale, pur dichiarando la contrarietà a Costituzione delle disposizioni che hanno introdotto la figura del giudice ausiliario d’appello – con l’assegnazione di funzioni attribuite a giudici, non già «singoli», come richiede l’art. 106, secondo comma, Cost., ma tipicamente collegiali e di secondo grado, quali sono le corti d’appello – non ha potuto ignorare «l’esigenza di tener conto dell’innegabile impatto complessivo che la decisione di illegittimità costituzionale è destinata ad avere sull’ordinamento giurisdizionale e sul funzionamento della giustizia nelle corti d’appello» (così, la sentenza n. 41 del 02021). Si tratta di una constatazione che ha indotto il Giudice delle leggi a modulare nel tempo gli effetti del proprio decisum, differendoli fino al completamento del riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria, onde evitare un (evidentemente intollerabile) «pregiudizio all’amministrazione della giustizia e quindi alla tutela giurisdizionale, presidio di garanzia di ogni diritto fondamentale».
[2] Ancora di recente (sentenza n. 267 del 2020, con argomentazioni riprese dalla già citata sentenza n. 41 del 2021), la Corte costituzionale ha ribadito che «la posizione giuridico-economica dei magistrati professionali non si presta a un’estensione automatica nei confronti dei magistrati onorari tramite evocazione del principio di eguaglianza, in quanto gli uni esercitano le funzioni giurisdizionali in via esclusiva e gli altri solo in via concorrente. Enunciata a proposito del trattamento economico dei componenti delle commissioni tributarie (ordinanza n. 272 del 1999) e per quello dei vice pretori onorari (ordinanza n. 479 del 2000), l’affermazione è stata ripetuta anche per i giudici di pace, sia in tema di cause di incompatibilità professionale (sentenza n. 60 del 2006), sia in ordine alla competenza per il contenzioso sulle spettanze economiche (ordinanza n. 174 del 2012)».
[3] Il riferimento è alle sentenze del 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX contro Governo della Repubblica italiana, e del 7 aprile 2022, in causa C-236/20, PG. Su tali pronunce è sufficiente rinviare, rispettivamente, ai contributi di R. Calvano, Corte di giustizia, primato del diritto Ue e giudici onorari, in Giustizia Insieme, 22 novembre 2021, e di V.A. Poso, I Giudici di Pace dalla «guerra di posizione» alla «guerra di movimento» e il loro nuovo felice approdo davanti alla Corte di Giustizia. Quali possibili conseguenze per tutta la magistratura onoraria nell’ordinamento costituzionale e giudiziario italiano?, in Labor, 5 maggio 2022.
[4] Per una panoramica descrittiva, L. Buffoni, La legge di bilancio stabilizza i magistrati onorari di lungo corso, in Sistema Penale, 28 gennaio 2022
[5] Sul quale, all’occorrenza, L. Ciafardini, Sul compenso da riconoscere ai magistrati onorari di lungo corso: aspettando Godot, in Consulta on line, 2021, fasc. III, 959 (6 dicembre 2021).
[6] Ai sensi dell’art. 17-ter, comma 1, lett. a), del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito in legge 6 agosto 2021, n. 113.
[7] Così, ancora, nella citata relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio per il 2022.
[8] Con la lettera di messa in mora, la Commissione europea ha invitato l’Italia a riconoscere ai magistrati onorari, in quanto siano accertate le condizioni affinché possano essere considerati lavoratori pubblici a tempo determinato secondo il diritto europeo, le tutele consistenti: nella corresponsione di una indennità in caso di malattia, infortunio e gravidanza; in un adeguato sistema di tutela previdenziale; nell’eliminazione del divario retributivo rispetto al lavoratore a tempo indeterminato che svolge mansioni equivalenti; nel rimborso delle spese legali sostenute durante procedimenti disciplinari; nel congedo di maternità retribuito; nel riconoscimento delle ferie annuali; nella precisa misurazione dell’orario di lavoro; in un sistema che impedisca gli abusi derivanti da una successione di contratti a tempo determinato e riconosca un risarcimento adeguato per tali abusi.
[9] Viene così perpetuata – ed anzi aggravata – quella che in altra sede è stata definita “truffa delle etichette” (se si vuole, L. Ciafardini, Il restyling nel prossimo futuro dello status della magistratura onoraria: cosa bolle davvero in pentola?, in Giustizia Insieme, 25 novembre 2021).
[10] La prima procedura è stata indetta con delibera del 20 aprile 2022, in conformità a quanto disposto dal D.M. 3 marzo 2022, con il quale il Ministero della giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura, ha dettato le misure organizzative necessarie per l’espletamento delle procedure.
[11] Il citato comma 6, più precisamente, prevede un compenso parametrato allo stipendio e alla tredicesima mensilità, spettanti alla data del 31 dicembre 2021 al personale amministrativo giudiziario di Area III, posizione economica F3, F2 e F1, in funzione, rispettivamente, del numero di anni di servizio maturati (oltre 16, tra 12 e 16 e meno di 12). È inoltre corrisposta un’indennità giudiziaria in misura pari al doppio dell’indennità di amministrazione spettante al personale amministrativo giudiziario e non sono dovute alcune delle voci retributive accessorie (ad es. quella connessa al lavoro straordinario). Tale trattamento economico non è cumulabile con i redditi di pensione e da lavoro autonomo e dipendente.
[12] L’indennità giudiziaria, infatti, non sarà corrisposta in misura doppia rispetto all’indennità di amministrazione, bensì in misura equivalente a quest’ultima.
[13] Non viene previsto, dunque, alcun divieto di cumulare il trattamento economico con altri redditi di pensione e da lavoro autonomo e dipendente.
[14] Da segnalare, in questa sede, che la lettera d) del comma 629 abroga il primo comma dell’art. 32 del d.lgs. n. 116 del 2017, che prevedeva, per i magistrati onorari già in servizio, un sistema di progressiva entrata in vigore delle disposizioni della c.d. riforma Orlando, in relazione alle procedure di conferma quadriennali in precedenza previste.
[15] Interpretando gli artt. 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, nonché le clausole 2 e 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, la Corte di giustizia, una volta riportata la figura del giudice di pace alla nozione di «lavoratore a tempo determinato», ha stabilito, con riferimento al tema specifico delle ferie annuali retribuite, che differenze di trattamento rispetto al magistrato professionale non possono essere giustificate dalla sola temporaneità dell’incarico, ma unicamente «dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità». Al fine di verificare se la diversità di trattamento sia giustificata, la Corte ha affermato che spetta al giudice nazionale stabilire se l’attività lavorativa dei magistrati onorari sia equiparabile a quella dei togati, tenuto conto degli elementi che, in concreto, avvicinano o divaricano le mansioni esercitate dalle due figure. Nell’ambito di tale valutazione comparativa assume rilievo – osserva ancora la Corte di giustizia – la circostanza che per i soli magistrati ordinari la nomina debba avvenire per concorso, a norma dell’art. 106, primo comma, Cost., e che a questi l’ordinamento riservi le controversie di maggiore complessità.
[16] Di sfuggita, vale la pena osservare che possono apparire superate le criticità della c.d. “riforma Orlando” più apertamente in contrasto con le direttive europee, quali la reiterazione dell’incarico, connessa al sistema delle conferme quadriennali e, quanto al profilo economico, i meccanismi che legavano la determinazione concreta del compenso alle decisioni dei dirigenti dell’ufficio in sede di fissazione degli obiettivi da raggiungere e di scelta dei magistrati onorari da destinare all’esercizio di funzioni solo giudiziarie oppure di mera collaborazione con i magistrati professionali (acute riflessioni si leggono, sul punto, in Russo F., Breve storia degli extranei nella magistratura italiana, 2019, 137 ss.). Qualche dubbio, invece, può suscitare la scelta della retribuzione spettante ai funzionari amministrativi come parametro di riferimento per la determinazione dell’indennità riconosciuta ai magistrati onorari che superino le procedure di valutazione, dal momento che la Corte di giustizia dell’Unione europea sembra invece aver identificato nel magistrato professionale la figura da mettere in comparazione, fatte sempre le debite differenze.
[17] La Corte di cassazione è sempre ferma sull’esclusione di qualsiasi possibilità di ipotizzare la sussistenza di un rapporto di impiego del magistrato onorario (ex plurimis, Cass. 3 maggio 2022, n. 13973; Cass., sezione prima, 10 febbraio 2022, n. 4386; Cass., sezione prima, 25 gennaio 2022, n. 2131; Cass., sez. lavoro, 5 giugno 2020, n. 10774; Cass., sez. III, 14 ottobre 2019, n. 25767; Cass., sez. lavoro, 4 gennaio 2018, n. 99).
[18] Il Consiglio di Stato, con la sentenza 4 febbraio 2021, n. 1062, ha escluso, sul piano del diritto interno, qualsiasi effetto della pronuncia europea sulla qualificazione del rapporto, che resta “onorario” e distinto da quello di pubblico impiego.
[19] Tribunale di Roma, sentenza 13 gennaio 2021, e Tribunale di Napoli, sezione lavoro, sentenza 7 ottobre 2020.
[20] Tribunale di Vicenza, sentenze 23 luglio 2021 e 16 dicembre 2020; Tribunale di Napoli, 11 gennaio 2021.
[21] Tribunale di Sassari, sezione lavoro, sentenza 24 gennaio 2020.
[22] Secondo quanto ribadito, ancora di recente, dalla Corte costituzionale (sentenza n. 145 del 2022), in consonanza con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (ex plurimis, sentenze 24 giugno 2014, Azienda agricola Silverfunghi sas e altri contro Italia, paragrafo 76; 25 marzo 2014, Biasucci e altri contro Italia, paragrafo 47; 14 gennaio 2014, Montalto e altri contro Italia, paragrafo 47; 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia, paragrafo 58), «il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia» (in senso analogo, sentenza n. 136 del 2022, che richiama la sentenza n. 236 del 2017), fermo restando che «considerazioni di natura finanziaria non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie (ex plurimis, sentenze 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafo 132; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia, paragrafo 47; 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia, paragrafo 39)».
[23] Non disconosciuta neppure dalla giurisprudenza comune delle Corti superiori (da ultimo, la già citata Cass., sez. lav., 3 maggio 2022, n. 13973; Consiglio di Stato, sez. settima, 14 aprile 2022, n. 1736), come detto contraria, però, a riconoscere la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato
[24] N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2019, 94.
[25] Un conflitto di attribuzione è stato, invece, promosso da un giudice di pace, per denunciare, tra gli altri, anche il vizio evidenziato nel parere del Consiglio superiore della magistratura. Il tentativo, tuttavia, è stato smorzato sul nascere dalla Corte costituzionale con una declaratoria d’inammissibilità (ordinanza n. 157 del 2022).
[26] Sulle ragioni di una tale scelta da parte dei costituenti, N. Zanon, F. Biondi, op. cit., 33, ove si sottolineano le finalità di contemperare l’autonomia della magistratura con il legame che essa deve comunque conservare con altre componenti del mondo delle professioni giuridico-legali nonché di prevenire il rischio di un’autoreferenzialità dell’ordine giudiziario e dei suoi appartenenti.
[27] Voto che deve essere manifestato «sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione».
[28] È noto che al legislatore delegato spetta sempre un “potere di completamento e sviluppo” delle scelte espresse dal legislatore delegante (da ultimo, sentenza n. 150 del 2022 della Corte costituzionale), purché all’interno dei confini ermeneutici delle indicazioni fornite da quest’ultimo.
[29] Non è un mistero che, con il progressivo incremento, negli ultimi due decenni, delle competenze in astratto assegnate ai magistrati onorari e dei compiti in concreto ad essi attribuiti, unitamente a stringenti procedure di controllo sulla produttività, l’attività svolta si è trasformata, nella quasi totalità dei casi, in quella esclusiva, o comunque di gran lunga prevalente, degli incaricati di funzioni onorarie, con buona pace delle solenni enunciazioni di principio ancora contenute nelle disposizioni di ordinamento giudiziario (art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 116 del 2017: «L’incarico di magistrato onorario […] si svolge in modo da assicurare la compatibilità con lo svolgimento di attività lavorative o professionali»).
[30] Fino allo scioglimento disposto dal Presidente Mattarella con decreto firmato il 21 luglio 2022, pendevano, innanzi alla Commissione giustizia del Senato, ben cinque disegni di legge (S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1882 e S. 1714), di cui era stata disposta la trattazione congiunta e che miravano ad apportare (ulteriori) modifiche alla disciplina sulla riforma organica della magistratura onoraria.
[31] Reperibile all’indirizzo https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/inf_22_3768.
Riflessioni sulla sentenza a Sezioni Unite della Suprema Corte n. 22281/2022 in tema di motivazione degli interessi nella cartella di pagamento: un arretramento sul piano dell’effettività giuridica
di Rossella Miceli
Sommario: 1. Premessa - 2. Il caso di specie e la ricostruzione del quadro normativo nella prospettiva delle Sezioni Unite - 3. Le argomentazioni delle Sezioni Unite in ordine all’ampiezza della motivazione della cartella esattoriale in tema di interessi – 3.1. La motivazione della cartella di pagamento per gli interessi mai prima determinati e pretesi dal Fisco – 3.2. La motivazione della cartella di pagamento per gli interessi già richiesti con un precedente atto prodromico – 4. Il principio di diritto delle Sezioni Unite e considerazioni critiche – 4.1. La motivazione della cartella esattoriale quale risultante del buon andamento ed efficienza dell’agire amministrativo – 4.2. Il principio di effettività nella tutela dei diritti e la motivazione della cartella di pagamento in ordine agli interessi – 5. Conclusioni.
1. Premessa
Con la recente sentenza a Sezioni Unite del 14 luglio 2022, n. 22281, la Corte di Cassazione ha risolto la nota querelle giurisprudenziale relativa al rapporto tra l’obbligo motivazionale della cartella di pagamento ed il calcolo degli interessi richiesti per il ritardato versamento dei tributi.
Chi scrive, nel commentare la precedente ordinanza interlocutoria di rimessione alle Sezioni Unite, n. 31960 del 5 novembre 2021, sollevata dalla quinta sezione civile della Suprema Corte, aveva auspicato una soluzione della vicenda improntata a garantire la massima trasparenza e chiarezza dell’agire amministrativo, quali irrinunciabili canoni di civiltà giuridica, non sacrificabili dinanzi ad apparenti esigenze di celerità ed economicità della fase di riscossione coattiva[1].
Le argomentazioni spese in tale sede, fondate su di una interpretazione sostanziale e non meramente formale dei principi sottesi agli artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), sono state tuttavia disattese dalle Sezioni Unite, le quali hanno mostrato di prediligere un approccio differente, volto a semplificare l’onere motivazionale dell’atto esattoriale nella prospettiva di un bilanciamento tra l’interesse del contribuente ad una cognizione reale e non meramente formale degli obblighi nascenti dall’atto fiscale e l’opposto interesse dell’Amministrazione finanziaria alla realizzazione di procedure esattive snelle ed efficienti nel contrasto all’evasione.
Nel prosieguo della trattazione, attraverso un esame critico delle riflessioni sviluppate dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, si intende dimostrare come, secondo la prospettiva di chi scrive, la pronuncia annotata non conduca, sul piano sostanziale, alla realizzazione di un equo assetto dei valori costituzionali in gioco, favorendo piuttosto una soluzione che sacrifica il diritto di difesa del contribuente e il principio di effettività, come sanciti rispettivamente dalla Carta Costituzionale e dall’ordinamento europeo.
2. Il caso di specie e la ricostruzione del quadro normativo nella prospettiva delle Sezioni Unite
La vicenda, come noto, trae origine dalla impugnazione di una sentenza della CTR del Lazio che aveva riconosciuto la legittimità di una cartella di pagamento, impugnata dai contribuenti, recante un elevato importo a titolo di interessi maturati nell’arco di circa trent’anni e del tutto priva di motivazione in ordine alle modalità di calcolo e di determinazione degli stessi.
In specie, i ricorrenti sostenevano che la cartella si ponesse in evidente contrasto con l’obbligo motivazionale di cui agli artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, atteso che non era possibile ricostruire i calcoli eseguiti dall’Agente della riscossione nella quantificazione degli interessi applicati all’imposta dovuta, degli interessi di mora e delle somme aggiuntive, essendo la cartella del tutto priva dell’indicazione delle relative basi di calcolo e delle percentuali applicate.
La sezione quinta civile della Suprema Corte, esaminate le argomentazioni poste dai contribuenti, ne riconosceva la rilevanza, anche alla luce di un acceso contrasto giurisprudenziale esistente sul tema, ed auspicava l’intervento delle Sezioni Unite per una riconsiderazione complessiva della materia.
Sulla scorta di queste premesse, la pronuncia annotata procede dapprima alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento ed illustra, con rigore, le norme applicabili al caso di specie, distinguendo tra le disposizioni di legge rilevanti rispetto alla questione dell’obbligo di motivazione degli atti tributari ed il relativo contenuto circa l’obbligazione degli interessi dovuti dal debitore fiscale.
Con riferimento al primo aspetto, le Sezioni Unite ricordano che l’obbligo motivazionale degli atti amministrativi tributari, rinvenibile nei citati artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, involge anche la cartella di pagamento emessa dall’agente della riscossione, mediante il richiamo effettuato dall’art. 17 della medesima L. 27 luglio 2000, n. 212, la quale deve necessariamente recare l’esposizione dei “presupposti di fatto” e delle “ragioni giuridiche” sui quali si fonda la pretesa fatta valere.
Tale obbligo è peraltro rafforzato dalle previsioni di cui agli artt. 12, comma terzo, e 25, comma secondo, del d.p.r. n. 602/1973, ove il legislatore prevede che nel ruolo debbano essere indicati i riferimenti al precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, una motivazione sintetica della pretesa fiscale.
L’obbligo di motivazione della cartella esattoriale dovrebbe, in sostanza, anche alla luce delle norme richiamate dalla Suprema Corte, essere parametrato al grado di effettiva conoscenza che il contribuente possiede rispetto ai vari elementi destinati a comporre il credito vantato dal Fisco.
Per ciò che concerne il secondo aspetto, il panorama normativo tratteggiato dalle Sezioni Unite appare – ovviamente - ben più complesso e disarticolato dal momento che la disciplina del calcolo degli interessi nella procedura di riscossione coattiva dei tributi afferisce ad una pluralità di norme, di fonte primaria o secondaria, stratificatesi nel tempo, secondo un’impostazione che manifesta marcati caratteri di ipertrofia.
Senza necessità di ripercorrere in questa sede le considerazioni già svolte nel precedente contributo della scrivente, preme ricordare che per la Suprema Corte assumono rilievo, per le imposte dirette, gli artt. 20 e 30 del d.p.r. n. 600/1973 e per le imposte sui trasferimenti di ricchezza, gli artt. 54 e 55 del d.p.r. n. 131/1986, che si completano con le previsioni di cui alla L. 26 gennaio 1961, n. 29, alla L. 28 marzo 1962, n. 147 e alla L. 18 aprile 1978, n. 130.
A questi riferimenti normativi si sommano poi numerose disposizioni di attuazione, fondamentali per la quantificazione degli interessi – a mero esempio, D.L. 6 luglio 1974, n. 260, art. 8 comma 1 conv. da L. 14 agosto 1974, n. 354; D.L. 4 marzo 1976, n. 30, art. 2, comma 1, conv. da L. 2 maggio 1976, n. 160; L. 11 marzo 1988, n. 67, art. 7, comma 3; D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 13, comma 1, conv. da L. 26 febbraio 1994, n. 133; L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 141; D.M. Finanze 27 giugno 2003, art. 3, comma 1, n. 149; D.M. Finanze 21 maggio 2009 - che, a vario titolo, si sono succedute nel tempo e che segnano, con estrema evidenza, la frammentazione e la complessità della disciplina in esame.
La pronuncia annotata, ancor prima di addentrarsi nella soluzione del quesito posto dal giudice remittente, mostra così il pregio di una ricostruzione in punto di diritto che appare esatta e puntuale in ordine alla identificazione delle molteplici disposizioni che regolano la quantificazione degli interessi ma che, contestualmente, sconta la grave carenza di non valorizzare la natura disorganica ed ipertrofica di tale normativa.
In specie le Sezioni Unite avrebbero dovuto sottolineare, già dalla esposizione preliminare del quadro normativo, il grado di profonda asistematicità che connota la disciplina degli interessi nella procedura di riscossione coattiva dei tributi.
Si tratta di un profilo oggettivo e di massima evidenza, che non può non essere considerato e valorizzato ove si voglia compiere un bilanciamento degli interessi costituzionali rilevanti; invero, più elevato è il grado di complessità e/o oscurità della normativa di riferimento, maggiore è la chiarezza e la trasparenza che deve essere pretesa dall’impianto motivazionale dell’atto amministrativo.
Tale rilevantissimo aspetto rimane del tutto taciuto.
Il silenzio delle Sezioni Unite risulta un primo indice dell’atteggiamento svalutativo adottato rispetto alle problematiche sollevate dai ricorrenti e preconizza una sensibilità giuridica più vicina alle esigenze di celerità dell’Amministrazione finanziaria che alla effettività nella tutela dei diritti del contribuente.
3. Le argomentazioni delle Sezioni Unite in ordine all’ampiezza della motivazione della cartella esattoriale in tema di interessi
Soprassedendo all’esame degli orientamenti giurisprudenziali emersi negli anni circa il contenuto motivazionale della cartella di pagamento che intima al contribuente il versamento di interessi sul debito fiscale accertato, ampiamente illustrati nel precedente contributo, si vogliono ora esaminare, con attenzione, le argomentazioni spese nella pronuncia in commento per risolvere la querelle giurisprudenziale.
Il ragionamento sviluppato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte si avvia da una premessa logica del tutto condivisibile: appare dirimente individuare l’esatto significato da attribuire ai sintagmi “presupposti di fatto” e “ragioni giuridiche” enucleati dal disposto dell’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, che fonda l’obbligo di motivazione degli atti tributari (e quindi anche della cartella esattoriale) ed è espressione di principi immanenti dell’ordinamento giuridico[2], al fine di comprendere se sia necessario che l’Agente della riscossione espliciti – oltre ai riferimenti normativi e alla data di decorrenza – anche i criteri di calcolo adottati ed i tassi applicati.
In questa prospettiva di analisi, afferma correttamente la Corte, è necessario operare un bilanciamento tra divergenti interessi costituzionali, abitualmente posti in una condizione di tensione dialettica.
Da un lato, si collocano gli interessi dei contribuenti ad una “cognizione reale e non meramente formale degli obblighi nascenti dall’atto fiscale”, ritraibili dagli artt. 23, 24, 97, 111 e 113 Cost., oltreché dall’art. 41 della Carta europea dei diritti fondamentali, che si concretizzano, in un’ottica di trasparenza e di difesa, nella esplicitazione del criterio di calcolo e dei saggi d’interesse all’interno della cartella esattoriale.
Sul versante opposto, si rilevano gli interessi del Fisco, di cui agli artt. 2, 3, 53 e 97 Cost., volti a favorire atti amministrativi sintetici e snelli ed evitare un aggravio ingiustificato della procedura di riscossione e di contrasto all’evasione, che potrebbe aversi ove si reputasse come essenziale un obbligo motivazionale non necessario e ridondante.
Il bilanciamento tra tali diversi interessi, desumibili dal vigente quadro costituzionale, rappresenta il file rouge seguito dalla Suprema Corte per definire lo standard motivazionale relativo all’obbligazione degli interessi reclamati con la cartella di pagamento.
3.1. La motivazione della cartella di pagamento per gli interessi mai prima determinati e pretesi dal Fisco
Le Sezioni Unite procedono dapprima ad illustrare l’ampiezza dell’obbligo motivazionale nell’ipotesi in cui la cartella esattoriale sia il primo atto con il quale gli interessi vengono richiesti al contribuente.
In tale circostanza, affermano i giudici di legittimità, la cartella palesa la natura di un atto impositivo in senso sostanziale che impone un obbligo motivazionale stringente, essendo necessario veicolare al contribuente tutte le informazioni utili a verificare la bontà della pretesa e, se del caso, a fondarne l’impugnazione.
La pronuncia annotata si appoggia ad una interpretazione marcatamente restrittiva del sintagma “presupposti di fatto” e “ragioni giuridiche” di cui all’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, ritenendo sufficiente l’indicazione i) del fondamento normativo idoneo a giustificare la debenza degli interessi, ii) dell’imposta cui essi afferiscono e iii) della data di decorrenza, essendo ogni altro criterio di calcolo già predeterminato dalla legge.
Più in particolare, per le Sezioni Unite, la generale indicazione della normativa in tema di interessi dovrebbe reputarsi sufficiente per consentire al contribuente di valutare la legittimità della pretesa e, se del caso, di difendersi, giacché le operazioni di calcolo degli interessi potrebbero essere eseguite, in maniera autonoma, dal contribuente, che si trova nella condizione di compiere da sé i passaggi aritmetici e di applicare i saggi d’interesse di volta in volta rilevanti.
La giustificazione del ragionamento seguito dalla Corte va ricercata nella pubblicità legale di tutte le norme relative alla determinazione degli interessi nella Gazzetta Ufficiale o, comunque, nei portali online dell’Agenzia delle Entrate e del Ministero dell’Economia e delle finanze, le quali divengono così immediatamente accessibili per il contribuente, che è chiamato a ricercarle sua sponte e quindi a provvedere ai relativi calcoli.
Invero, le “ragioni giuridiche” della pretesa che devono essere espresse nella motivazione dell’atto consistono, secondo le Sezioni Unite, nella elencazione delle norme di legge dalle quali discende l’obbligazione degli interessi, di modo che la mera citazione di tali norme, nel corpo della cartella esattoriale, valga ad integrare sic et simpliciter il sintagma dell’art. 7.
L’ipertrofia normativa, lo stratificarsi di differenti fonti attuative nel tempo, la pluralità di aliquote e il tecnicismo della materia risultano essere – paradossalmente – del tutto irrilevanti a fronte della predeterminazione normativa del saggio degli interessi.
In definitiva, nella prospettiva svalutativa del principio di effettività adottata della Corte, la mera enunciazione di norme di legge, nel corpo della motivazione, prevale in ogni caso sulla comprensibilità e applicabilità delle stesse da parte del contribuente[3].
3.2. La motivazione della cartella di pagamento per gli interessi già richiesti con un precedente atto prodromico
Nella diversa ipotesi di una cartella di pagamento che rechi un importo a titolo di interessi, già richiesti in un precedente atto impositivo notificato al contribuente (si pensi all’ipotesi ordinaria dell’avviso di accertamento) ovvero in una sentenza, l’interpretazione resa dalle Sezioni Unite in ordine all’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 appare ancor più restrittiva.
Invero, atteso che le norme di legge e il periodo di decorrenza degli interessi si trovano già esposti nell’atto prodromico ricevuto dal contribuente, la cartella esattoriale dovrà limitarsi ad un diretto riferimento all’atto presupposto, essendo le “ragioni giuridiche” ed i “presupposti di fatto” già enucleati in tale sede.
L’atto genetico è l’unico chiamato a rispettare l’obbligo motivazionale – nella versione ristretta concepita dalle Sezioni Unite – di cui al citato art. 7, dovendosi solo limitare ad aggiornare il quantum preteso in ragione dell’ulteriore lasso temporale trascorso.
Addirittura, secondo la sentenza qui in esame, non solo l’enunciazione delle norme di legge relative agli interessi e al periodo di decorrenza, presenti nell’atto prodromico, sarebbero sufficienti a rendere edotto il contribuente della legittimità della pretesa ma egli potrebbe addirittura impugnare la cartella esattoriale, sul punto, solo ove la quantificazione compiuta dall’Amministrazione finanziaria non corrisponda al calcolo che il contribuente stesso ha realizzato in autonomia[4].
In questa prospettiva, il diritto ad una motivazione rigorosa e chiara in ordine alla determinazione degli interessi risulta ancor più ridimensionato dal momento che il contribuente è chiamato, da sé, a recuperare il precedente atto prodromico, ad individuare le norme di legge ivi citate, a tenere conto degli eventuali mutamenti intercorsi medio tempore nella disciplina e nella applicazione dei saggi d’interesse e, quindi, a tentare di ripercorrere le operazioni di calcolo già compiute dal Fisco.
La probabile difficoltà o, addirittura, impossibilità manifestata dal contribuente nello svolgere tali dispendiose attività non viene, in alcun modo, contemplata dalla Suprema Corte.
4. Il principio di diritto delle Sezioni Unite e considerazioni critiche
Le argomentazioni delle Sezioni Unite si compendiano in un principio di diritto piuttosto asciutto che, al netto della distinzione tra le due fattispecie dinanzi illustrate, dispone che
(i) in presenza di un atto prodromico, l’obbligo di motivazione di cui all’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 è da reputarsi soddisfatto attraverso il semplice richiamo all’atto presupposto e la quantificazione dell’ulteriore importo a titolo di accessori;
(ii) in presenza di una cartella esattoriale recante per la prima volta la pretesa a titolo di interessi, è sufficiente indicarne la base normativa e il periodo di decorrenza.
In alcun caso appare necessaria la specificazione dei singoli saggi applicati o delle relative modalità di calcolo[5].
Ad avviso di chi scrive, le conclusioni contenute in questo principio di diritto e sviluppate nella sentenza non appaiono condivisibili, in quanto come anticipato contrastanti con i principi costituzionali ed europei.
4.1. La motivazione della cartella esattoriale quale risultante del buon andamento ed efficienza dell’agire amministrativo
Il nodo focale del ragionamento esposto dalla Suprema Corte è dato dalla necessità di addivenire ad un equo bilanciamento tra vari interessi costituzionali, fisiologicamente contrapposti, rappresentati dalla necessità di atti amministrativi chiari ed esaustivi in relazione ad ogni pretesa fatta valere, così da permettere al consociato di saggiarne la legittimità e valutare le possibilità di difesa, e dall’esigenza di una attività amministrativa snella ed efficiente, in specie nella fase di riscossione coattiva e di contrasto all’evasione.
Nel ponderare i predetti interessi, le Sezioni Unite hanno privilegiato una interpretazione dell’art. 97 Cost. volta a sostenere una motivazione minima (e senza dati specifici) della cartella di pagamento.
In tale ragionamento emerge il convincimento che l’obbligo di una motivazione più pregnante in ordine alle modalità di determinazione degli interessi possa rappresentare, per l’Amministrazione finanziaria, un onere gravoso e ridondante.
Si ritiene che il principio di buon andamento, espresso dall’art. 97 Cost. e correlato agli artt. 2 e 3 Cost., non possa legittimare una scelta incondizionata di alleviare gli oneri procedimentali della Pubblica Amministrazione ove questa scelta comprometta la comprensione del fondamento della pretesa recata nell’atto impositivo[6].
Il suddetto principio costituzionale impone l’adozione di forme procedimentali adeguate al caso di specie, quale bilanciamento nel rapporto tra il potere esercitato e lo scopo perseguito, che dia prova della massima trasparenza, imparzialità ed efficienza dello Stato[7].
Ne consegue che l’agire amministrativo presenta le suddette caratteristiche solo se pone il contribuente nella condizione di poter - materialmente e concretamente - comprendere la legittimità del credito che lo Stato fa valere nei suoi confronti, a maggior ragione ove esso si sia originato in un tempo remoto e sia mutato negli anni.
In altre parole, l’atto amministrativo deve essere chiaro nella forma e comprensibile nella sostanza e permettere attraverso la motivazione di ripercorrere e/o ricostruire i calcoli operati dal Fisco; in assenza di tali prerogative il paradigma offerto dall’art. 97 Cost. risulta del tutto vanificato.
Con riferimento al caso di specie ne seguono alcune considerazioni.
In primo luogo, si evidenzia che l’esplicitazione dei calcoli aritmetici e dei saggi applicati in ciascuna cartella esattoriale non comporterebbe aggravio alcuno per l’agire amministrativo, ai sensi dell’art. 97 Cost.
Invero, gli importi ivi descritti a titolo di interesse sono il frutto – chiaramente - di operazioni automatizzate, compiute dai software posti a disposizione dell’Agente della riscossione, con la conseguenza che la loro enunciazione per iscritto, nel corpo della cartella, non sarebbe altro che una banale operazione di trascrizione di tali calcoli aritmetici già eseguiti dai computer, e quindi del tutto priva di costi ed oneri.
L’esplicitazione di queste operazioni aritmetiche, come richiesto dai ricorrenti, non si porrebbe pertanto in contrasto con il principio di efficienza e buon andamento dell’agire amministrativo, ma ne sarebbe la più ovvia risultante.
Inoltre, la sentenza annotata statuisce che la motivazione della cartella esattoriale non deve indicare né la specificazione dei saggi applicati né le modalità di calcolo ma, allo stesso tempo, chiarisce che tali considerazioni non vogliono in alcun modo inficiare la “prassi virtuosa” che alcuni uffici dell’Amministrazione finanziaria hanno spontaneamente adottato, esplicitando i criteri di calcolo seguiti, anche in attuazione dei principi di leale collaborazione di cui all’art. 10 della L. 27 luglio 2000, n. 212[8].
Queste ultime parole appaiono difficilmente conciliabili con il principio di diritto espresso dalla sentenza giacché se la prassi di esplicitare nel corpo motivazionale della cartella i calcoli degli interessi è da ritenersi “virtuosa”, allora è evidente che la prassi opposta, propugnata dalle Sezioni Unite, “non è virtuosa” e quindi non può che essere in contrasto con l’art. 97 Cost.
4.2. Il principio di effettività nella tutela dei diritti e la motivazione della cartella di pagamento in ordine agli interessi
L’approccio espresso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte non appare altresì accettabile in un moderno ordinamento giuridico permeato dal principio di effettività[9].
Nella sostanza, il nucleo essenziale del principio di effettività impone di interpretare e implementare l’enunciato astratto della legge di modo che esso venga concretamente applicato nella realtà quotidiana, rifuggendo da approcci di “mera forma”, che rendono, di fatto, impossibile o estremamente difficile il riconoscimento e la tutela dei diritti[10].
In questa prospettiva, appare evidente che la pronuncia annotata si ponga in aperto contrasto con tale principio giacché l’interpretazione formale dell’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, che reputa sufficiente la mera enunciazione astratta di norme di legge nel corpo della cartella esattoriale al fine di assolvere all’obbligo motivazionale sugli interessi, pone su di un piano secondario la comprensibilità e la conseguente applicabilità – sul piano fattuale e concreto – di tali norme da parte del contribuente.
Più nel dettaglio, la posizione assunta dalle Sezioni Unite permette di rispettare formalmente il disposto normativo dell’art. 7, attraverso l’interpretazione del sintagma “ragioni giuridiche” e “presupposti di fatto” come mera enunciazione di riferimenti normativi o temporali.
Al contempo, però, l’interpretazione in esame determina un ostacolo alla effettiva possibilità, per il contribuente, di cogliere le ragioni della pretesa fatta valere (ossia il quantum degli interessi da pagare) poiché l’ipertrofia normativa, la complessità dei calcoli e la modalità di applicazione dei tassi – in specie ove la pretesa sia molto risalente nel tempo – rendono la ricostruzione defatigante o, financo, impossibile.
Non si comprende, infatti, come possa ritenersi legittima la motivazione della cartella di pagamento che si limiti a sterili enunciazioni di norme di legge.
Quanto rappresentato si trasla peraltro sul piano della tutela giurisdizionale dei diritti.
Invero, il principio di diritto propugnato dalle Sezioni Unite pone il contribuente in una condizione profondamente deteriore poiché, pur non potendo ricostruire le operazioni di calcolo che hanno condotto l’Amministrazione finanziaria a vantare un determinato credito e pur versando in una condizione di incertezza circa il quantum della pretesa fatta valere a titolo di interessi, egli non ha – ad oggi - facoltà di trovare una adeguata tutela giurisdizionale, non potendo far valere l’oscurità della motivazione recata dalla cartella esattoriale ove questa si sia limitata a enunciare le norme di legge e il periodo di decorrenza degli interessi.
Con la pronuncia in esame, il grado di effettività dell’ordinamento giuridico, con specifico riferimento all’istituto della motivazione ne risulta compromesso.
5. Conclusioni
L’evoluzione del rapporto tributario verso i canoni universali della trasparenza e collaborazione imporrebbe la ricerca costante di soluzioni giuridiche ispirate al principio di effettività.
Tale necessità si deve tradurre nella valutazione dell’adattabilità delle norme alle fattispecie concrete, ponendosi sempre in una prospettiva secondo la quale i contribuenti dovrebbero essere in grado di comprendere le ragioni sottese alle pretese fiscali.
In tale assetto, la motivazione degli atti costituisce un istituto fondamentale nelle dinamiche del rapporto tributario; quest’ultima nel corso degli anni ha acquisito sempre di più una valenza sostanziale, definendo un punto di equilibrio tra i contribuenti, l’Amministrazione finanziaria e il giudice[11].
Alla motivazione sono assegnate funzioni primarie, espressive di un ordinamento tributario moderno, garantista ed efficiente che si traducono nella trasparenza dell’attività amministrativa, nella garanzia della difesa del contribuente e nella conseguente attivazione di processi consapevoli, in ordine ai fatti contestati, per le parti e per i giudici.
Si tratta di interessi non sacrificabili in nome di una celere lotta all’evasione perché essi stessi funzionali a quest’ultimo obiettivo.
Secondo tale prospettiva, il principio di diritto espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite non può essere condiviso in quanto si pone in contrasto con i suddetti valori e non declina l’istituto della motivazione alla luce dei canoni dell’effettività.
Quest’ultima, nel caso specifico, avrebbe dovuto fungere da criterio interpretativo espressivo di concretezza giuridica e di buon senso, volto a calibrare il contenuto del paradigma normativo alla fattispecie concreta al fine di garantire il raggiungimento delle suddette funzioni primarie.
Ne deriva come anche l’obbligazione in materia di interessi debba ricevere una motivazione adeguata alla fattispecie concreta.
Una motivazione recante il dettaglio dei saggi applicati e delle relative modalità di calcolo permette, senza alcun ulteriore passaggio operativo o finanziario per il Fisco, di garantire la trasparenza dell’agire amministrativo e, contestualmente, di porre il contribuente nella condizione di avere piena contezza della legittimità dell’obbligazione che è chiamato ad assolvere, in specie se risalente nel tempo.
Preso atto della posizione in esame, si auspica una maggiore saldatura tra gli istituti giuridici, le disposizioni ed i canoni dell’effettività al fine di edificare un rapporto tributario più evoluto e vicino alle legittime aspettative dei contribuenti. [1] Cfr. R. Miceli, La motivazione della cartella di pagamento sugli interessi e il valore dell’effettività giuridica, in Giustizia Insieme, 2022. Si veda anche sulla medesima pronuncia C. Califano, Alle Sezioni Unite la motivazione delle cartelle di pagamento. Verso un obbligo di motivazione differenziato?, in Giustizia Insieme, 2022.
[2] In questi termini Corte Cass., SS. UU., 2 febbraio 2022, n. 3182.
[3] Affermano espressamente le Sezioni Unite che “il richiamo alla disposizione che regola il “tipo” di interesse richiesto e le norme che presiedono alla sua quantificazione, ivi predeterminate, consentono dunque al contribuente di individuare gli elementi essenziali dell’obbligazione complessivamente pretesa ed il perimetro entro il quale l’Amministrazione si è mossa per quantificare specificamente l’obbligazione degli interessi, onde eventualmente contestarla”.
[4] Sul punto si legge nella sentenza annotata che “ne consegue che, in assenza di una ulteriore specificazione di una diversa tipologia di interessi richiesti rispetto a quanto già indicato a titolo di interessi nell'atto prodromico, la cartella di pagamento non dovrà che limitarsi ad attualizzare il debito di interessi già individuato in modo dettagliato e completo nell'atto genetico. Sarà semmai onere del contribuente contestare la quantificazione degli interessi operata in cartella ove risulti incoerente rispetto all'originaria pretesa per interessi, evidenziandone in tutto o in parte la non conformità rispetto al contenuto dell'obbligazione degli interessi determinata nell'atto genetico e sarà, per l'effetto, compito del giudice tributario acclarare il reale contenuto dell'obbligazione azionata con la cartella”.
[5] Il principio di diritto è di seguito riportato. “Allorché segua l'adozione di un atto fiscale che abbia già determinato il quantum del debito di imposta e gli interessi relativi al tributo, la cartella che intimi al contribuente il pagamento degli ulteriori interessi nel frattempo maturati soddisfa l'obbligo di motivazione, prescritto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 e dalla L. n. 241 del 1990, art. 3, attraverso il semplice richiamo dell'atto precedente e la quantificazione dell'ulteriore importo per gli accessori. Nel caso in cui, invece, la cartella costituisca il primo atto con cui si reclama per la prima volta il pagamento degli interessi, la stessa, al fine di soddisfare l'obbligo di motivazione deve indicare, oltre all'importo monetario richiesto a tale titolo, la base normativa relativa agli interessi reclamati che può anche essere desunta per implicito dall'individuazione specifica della tipologia e della natura degli interessi richiesti ovvero del tipo di tributo cui accedono, dovendo altresì segnalare la decorrenza dalla quale gli interessi sono dovuti e senza che in ogni caso sia necessaria la specificazione dei singoli saggi periodicamente applicati nè delle modalità di calcolo”.
[6] Come noto, la nozione di buon andamento non si riduce alla rapidità, semplicità ed efficacia dell’attività amministrativa ma impone collaborazione e solidarietà delle quali sono espressione imprescindibile il rispetto della fiducia dei cittadini e la lealtà dello Stato. In tal senso, F. Benvenuti, Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, pp. 818 ss. Il passaggio in esame è stato declinato nella materia tributaria da G. Marongiu, Statuto del contribuente, diritto on line (Enc. giur. Treccani), 2016.
[7] Cfr. A. Andreani, Il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, Padova, 1979, p. 23. Sul tema, in tal senso, S. Cassese, Il diritto alla buona amministrazione, in Studi in onore di Alberto Romano, I, Napoli, 2011, 105; A. Cerri, Imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione, diritto on line, (Enc. giur. Treccani), 2013.
[8] Nella sentenza in commento si legge che “le considerazioni appena esposte non intendono, ovviamente, incidere sulla prassi che l'Amministrazione abbia eventualmente intrapreso, nell'ottica di una migliore collaborazione con il contribuente - anche alla luce dell'art. 10 del c.d. Statuto dei diritti del contribuente - volta ad esplicitare nelle cartelle anche i tassi via via applicabili per la quantificazione degli interessi richiesti. Prassi virtuosa che, tuttavia, non è in grado di modificare il contenuto precettivo delle disposizioni normative richiamate né, dunque, il contenuto dell'obbligo motivazionale dalle stesse risultante. Obbligo che, come si è già detto, non priva in alcun modo di effettività la tutela apprestata al contribuente, anzi garantendola in modo pieno ed adeguato rispetto alle diverse fattispecie sopra ricordate”.
[9] Cfr. N. Lipari, Il problema dell’effettività del diritto comunitario, in Diritto comunitario e sistemi nazionali: pluralità delle fonti e unitarietà degli ordinamenti, Napoli, 2009, pp. 635 ss.; M. Ross, Effectiveness in the European Legal Order(s): Beyond Supremacy to Constitutional Proportionality?, in Eur. Law Rev., 2006, pp. 476 ss.
[10] Per alcune riflessioni su questo tema, R. Miceli, Il principio comunitario di effettività quale fondamento dell’integrazione giuridica europea (in AA. VV., Scritti in onore di V. Atripaldi, Napoli, 2010, sezione Europa, p. 1623.
[11] Cfr., in tal senso, ex pluribus, F. Gallo, Motivazione e prova nell’accertamento tributario: l’evoluzione del pensiero della Corte, in Rass. trib., 2001, p. 1088; F. Califano, La motivazione degli atti impositivi tra forma e sostanza, principi europei e valori costituzionali, in Riv. trim. dir. trib., 2013, p. 81; Id., La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012, passim; R. Miceli, La motivazione degli atti tributari, in Lo Statuto dei diritti del contribuente, (a cura di A. Fantozzi, A. Fedele), Milano, 2005, p. 281.
Intervista a Beatrice Secchi, candidata al C.S.M. per le elezioni del 18 e 19 settembre 2022
di Antonella Magaraggia
Come ti racconteresti a un elettore che non ti conosce?
Sono entrata in magistratura nell’ottobre del 1991 e ho sempre svolto le mie funzioni come giudice presso il Tribunale di Milano, occupandomi per oltre 25 anni del settore penale (prima al GIP, poi al dibattimento dove, tra l’altro, per dieci anni ho trattato reati contro i soggetti deboli). In passato sono stata membro del Consiglio Giudiziario di Milano. Dalla fine del 2019 svolgo le mie funzioni presso la sezione civile che si occupa di diritto di famiglia. Ho sempre avuto particolare interesse per i settori nei quali più evidente è la necessità di tutela dei diritti fondamentali delle persone e delle fasce deboli (benché sia evidente che ognuno di noi, in qualunque settore operi, tutela diritti). In questa prospettiva, ho dedicato particolare attenzione non solo alle problematiche afferenti la migliore tutela dei cd. soggetti deboli, ma anche a quelle relative alla tutela dei diritti degli imputati con disagio psichico e ho collaborato sia per la predisposizione di un Protocollo operativo in tema di misure di sicurezza psichiatriche sia per la formazione nella relativa materia. Ho sempre cercato di evitare un approccio burocratico al lavoro, cercando di cogliere le vicende umane sottese ad ogni fascicolo.
La consiliatura che volge al termine è stata travolta dalla cd. questione morale, che ha portato la magistratura a un minimo storico di credibilità, sia all’interno che nella valutazione dei cittadini. In che modo si può invertire la rotta?
Gli eventi della primavera del 2019 sono stati assolutamente dirompenti e hanno reso palese una realtà drammatica, della quale peraltro si avevano vari segnali. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Una delle più gravi è -secondo me- l’ attuale disaffezione di molti colleghi (soprattutto i più giovani) per qualsiasi forma di partecipazione alla vita associativa, l’astensionismo dal voto, la sfiducia profonda nell’organo di autogoverno. E’ assolutamente necessario, anche in considerazione della ritrovata possibilità di svolgere di nuovo riunioni in presenza, iniziare nuovamente a confrontarsi negli uffici (e non solo tra appartenenti allo stesso gruppo), parlare con i colleghi più giovani (che guardano ai più anziani con forte sospetto), spiegare loro, da un lato, le ragioni della necessità di impegno nella vita associativa e , dall’altro, aiutarli ad elaborare una visione del nostro lavoro non burocratica, ma realmente impegnata. Sarà poi imprescindibile un’azione estremamente chiara e trasparente del Consiglio, come dirò di seguito.
L’attività del Consiglio è spesso - e ingiustamente - ricondotta alle nomine dei direttivi e dei semidirettivi. In realtà riguarda molto altro (l’organizzazione degli uffici, le condizioni di lavoro, le valutazioni di professionalità, i carichi di lavoro ecc.). Ritieni che ci siano cambiamenti da portare?
Nelle condizioni che si sono venute a determinare questo Consiglio ha svolto un’opera per molti versi meritoria, confrontandosi con le numerose vicende interne ed esterne con grande trasparenza. Si è però chiaramente pagato un prezzo sul piano della efficienza, perché i tempi delle nomine o delle valutazioni di professionalità si sono dilatati oltremodo rispetto al passato, con criticità nella percezione dei colleghi.
Per quanto riguarda le altre materie, andrà affinata la riflessione ordinamentale sugli uffici requirenti, proseguendo nell’adozione di strumenti di normazione secondaria rispondenti alle peculiarità degli uffici, temperando l’ organizzazione gerarchica voluta dal legislatore sin dal 2006 e adattandola ai principi costituzionali di soggezione dei magistrati solo alla legge.
Sono anni che sento i colleghi lamentarsi del fatto che le Procure dal 2006 in poi sono diventate “caserme”; la gestione dell’ufficio requirente non può essere assembleare, ma nemmeno autocratica; il Consiglio deve lavorare su questo crinale sia per eventuali miglioramenti della circolare sia in settima commissione sui casi concreti che non di rado presentano importanti criticità. E’ però necessario che il nuovo Consiglio sappia affrontare e reagire a narrazioni, sempre più diffuse, che vedono gli Uffici delle Procure come “partito dei p.m.” che partecipa alla lotta politica adottando decisioni non nell’ambito delle proprie attribuzioni e responsabilità, ma in vista della tutela di questa o quella parte politica o interesse economico-finanziario. Si tratta di una deriva che ha gravi meccanismi distorsivi.
Per quanto attiene agli uffici giudicanti, la cultura tabellare può dirsi ormai radicata, anche se forse -nei limiti del possibile- sarebbe necessaria una maggiore semplificazione.
Più in generale, quello della semplificazione -delle procedure, delle circolari, persino, direi, del “linguaggio”- è un tema sensibile, che può fare recuperare credibilità al Consiglio.
Nei programmi di ogni tornata elettorale si parla di trasparenza dell’attività del Consiglio e di semplificazione delle procedure, finalità solo in parte raggiunte. Quali le tue proposte?
In punto “trasparenza attività del consiglio” innanzitutto sarà necessario proseguire nella via tracciata da questo CSM con la rigida calendarizzazione delle varie pratiche (in primo luogo quelle di nomina dei direttivi e semi direttivi) secondo criteri oggettivi e predeterminati, la velocità nelle nomine, la massima attenzione alle difficoltà specifiche di ogni singolo ufficio. Tutto questo nella certezza che solo un lavoro intenso, di qualità, efficiente e verificabile potrà consentirci di acquisire, come è stato in tante stagioni passate, la fiducia dei cittadini.
Più nello specifico, sarà necessario continuare con la notifica settimanale degli ordini del giorno sulla posta elettronica di tutti i magistrati e con un’informazione capillare su qualsiasi intervenuta modifica tabellare nell’ufficio di appartenenza consentendo di seguire l’attività consiliare pressoché quotidianamente.
Il “Diario” è anche riuscito a fornire spiegazioni in ordine alle dinamiche consiliari. La mia proposta per mantenere questo stesso livello di qualità e puntualità nell’ informazione è quella di garantire la pubblicazione della calendarizzazione dei lavori delle commissioni e rendere noto lo stato delle singole pratiche per fare in modo che ogni magistrato possa accedere alle necessarie informazioni, senza dovere acquisirle con modalità “informali” (insomma creare un sistema di tracciabilità tipo “pacco Amazon”).
Per la semplificazione mi riporto a quanto ho detto sopra.
Gli uffici sono attualmente impegnati nell’attuazione del programma riguardante PNRR, anche tramite gli Uffici per il processo. Come pensi debba muoversi il Consiglio nel monitorare/valutare i risultati e nei rapporti con il Ministero della giustizia?
L’Ufficio per il processo rappresenta una grande opportunità per migliorare il nostro modo di lavorare, ma perché questo possa veramente accadere è necessaria la disponibilità dei magistrati a modificare alcune abitudini lavorative e una dirigenza capace di organizzare l’attività degli UPP. Pur trattandosi di assunzioni temporanee, destinate al solo settore giudicante, un loro appropriato utilizzo potrebbe apportare consistenti miglioramenti, consentendo che l’attività del giudice si concentri sugli aspetti essenziali. E’ però necessario un valido coordinamento nell’organizzazione di queste attività, per fare in modo che risorse fondamenti non vengano disperse o utilizzate in modo inappropriato (per lo svolgimento di incombenze non strettamente funzionali all’ obiettivo). Lo scopo fondamentale del PNRR è sicuramente la riduzione dei tempi del processo e, dunque, l’abbattimento dell’arretrato: è quindi necessario, e ormai assolutamente urgente, offrire agli UPP un’adeguata formazione, dotarli di risorse tecnologiche e materiali e inserirli in uno schema organizzativo attentamente pensato e ben definito.
Proprio in riferimento all’informatizzazione degli Uffici e alla dotazione delle risorse, dovrà essere sempre più proficua la collaborazione fra le strutture del Consiglio ed il Ministero, nel rispetto della rigida ripartizione delle competenze voluta dalla Costituzione. E’ infatti necessario evitare sconfinamenti delle competenze ministeriali che tendono, secondo la normativa ordinaria ed la riforma dell’ordinamento giudiziario, ad ampliarsi.
In tre parole, come vorresti definire il Consiglio che verrà?
Indipendenza, rigore morale, semplificazione.
Intervento di Mario Serio in occasione della presentazione a Palermo il 7 maggio 2022 del libro a cura di Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti “Diritto, verità, giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”
Oggi è una giornata felice per l'Ateneo di Palermo, rappresentato dai vertici dei suoi organi di governo, che ospita questa presentazione: e ciò per una molteplicità di ragioni, alcune delle quali di immediata evidenza, quali la qualità ed il calibro degli intervenuti, sia come relatori sia come osservatori. La circostanza è particolarmente significativa non soltanto dell'interesse suscitato dalla presentazione del volume di omaggio a Sciascia curato da Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, ma soprattutto della rilevanza che la figura di Leonardo Sciascia ancora oggi riveste in comunità di studi e di fattivo impegno civile quale quella accademica. Dibattere del pensiero di Sciascia sulla giustizia, anche alla presenza dei suoi più cari familiari, implica rievocarne la sua partecipazione al tema con competenza e raffinatezza, entrambe alimentate dalla preziosa, invisibile guida costituita da un egregio magistrato palermitano da qualche anno scomparso, il compianto Presidente Francesco Nasca, uomo di rara cultura e sensibilità, nonché portatore di un'idea di giustizia ispirata al razionalismo, mai disgiunto - al pari del grande scrittore - dalla capacità di analisi del contesto nel quale la vicenda giuridica, poi degenerata in caso giudiziario, è inscritta. In questa vena di acuta, lucida sofferenza si innesta il processo, e la relativa decisione, ossia quel che Salvatore Satta definiva il più inumano degli atti dell'uomo, quasi vano, non perché superfluo o contrario a ragione ma a causa del grande travaglio che inevitabilmente i protagonisti, ed in primo luogo il giudice, sono destinati a provare nel districarsi tra i rami di una vicende umana che fuoriesce dall'ambito della soggettività per essere governata da una norma oggettiva ed astratta la quale converte in una regola di giudizio universale quella che è, piuttosto, proiezione di una (dolorosa) vicenda individuale. Ebbene, proprio di storie individuali (semplici e non) è intessuta l'opera di Sciascia, storie nelle quali risaltano caratteristiche comuni al genere umane e dalle quali Egli ha saputo estrarre la regola universale di giudizio, seppur sovente implicito o inespresso nelle sue pagine. Ma Egli fornisce i criteri discretivi perché si pervenga alla formulazione, da parte del lettore, di un modello interpretativo della realtà rappresentata. E la rappresentazione non avviene soltanto attraverso le parole pronunciate, ma anche grazie agli ammiccamenti, alle mezze frasi, alle allusioni che si raccolgono nei circoli dei notabili paesani, ossia in quel microcosmo della Sicilia nel quale, ammaliato, ha trascorso puntigliosamente, per certi versi disperatamente, per altri speranzosamente, la propria vita. I Suoi ultimi anni sono stati esasperatamente segnati dalla enfatizzazione della nota frase circa la pretesa costruzione di un ceto giudiziario connotato dal crisma mediatico e dall'appariscente esibizione nell'attività di perseguimento di delitti di criminalità mafiosa. Vi è, tuttavia, da ritenere che costringere un'opera così imponente ed esemplare nella incerta e controversa interpretazione di un frammento linguistico non renda il tributo di cui l'Autore è meritevole per ragioni evidenti e coincidenti con quelle enunciate prima a proposito dell'idea di giudizio coltivato in tutta la Sua opera. Il mondo che Sciascia ci consegna con vivacità di accenti e con la raffinatissima tecnica del non detto, del trasmesso cioè alla mente ed all'opinione del lettore, è di per sé una guida, un orientamento verso le scelte valutative finali che si possono compiere solo coordinando tutte le fasi e tutte le manifestazioni della vasta e complessa produzione letteraria. E questo perché Sciascia è un maestro nel dipingere il mondo, nelle sue varie componenti e sottospecie antropologiche, della mafia siciliana. Essa viene presentata utilizzando solo di rado la parola “mafia” (o nella originaria versione “maffia”), ma evocandone il contesto sociologico ed ambientale, illustrandone i caratteri diffusi, sia oggettivi sia individuali. Essa viene raffigurata nel doppio mortale (in senso letterale) coefficiente di mediocrità e vanità. Si scorge la meschinità dell'uomo politico (privo di qualità) che cerca l'affermazione senza un progetto, del tutto privo di un programma effettivo. Non è necessario richiamare vicende passate e presenti, ma sempre immanenti alla nostra esperienza isolana, in cui l'apparente dialettica politica nasconde semplicemente un conflitto tra ego smaniosi ed avidi, in cui non traspare mai l'idealità della proposta a beneficio della collettività. Perché deborda soltanto la ricerca invereconda dell'affermazione del proprio potere, con le relative, vantaggiose ricadute economiche. Questo spiega l'opinione, qui professata, secondo cui la polemica o l'ingiusto dubbio ermeneutico sulla reale portata dell'idea di Sciascia sui professionisti dell'antimafia sono contraddetti dalla globale coerenza dei suoi innumerevoli scritti. Egli, infatti, ci addita le caratteristiche dell'azione multi-livello della mafia, ce le squaderna una dietro l'altra: l'omertà, la tacita complicità, l'irrisione nei confronti del Professor Laurana, il “cretino” di turno che crede di frapporre il candore della propria intelligenza speculativa alla prepotenza mafiosa. Non si vede quale altro argomento debba spendersi per attrarre saldamente il nostro Autore nella schiera dei baluardi alla lotta intellettuale alla mafia. Ma è doveroso aggiungere un ulteriore segmento critico, idoneo a dirimere ogni restante dubbio. Nel momento in cui Sciascia offre il quadro desolante dell'irredimibilità morale della sua terra permeata dalla mafia egli ci indica anche l'unica strada possibile per superare o almeno tentare di ridurre al minimo queste pesanti distonie dalla civiltà: quella della legalità. Essa, doverosamente declinata nel versante giudiziario, non può che trovare albergo ed espressione nella lotta alla mafia. Sarebbe davvero illusorio immaginare che il messaggio di Sciascia possa aver mai scoraggiato o scoraggi oggi la magistratura dal perseguire i delitti di mafia. È vero l'esatto contrario. Quale magistrato potrebbe o vorrebbe sottrarsi al compito di sviscerare gli incunaboli del potere politico infiltrato dalla criminalità mafiosa per affermare la parola di giustizia? Non può esservi alcuna frattura tra l'analisi socio-politico-letteraria dei lavori di Sciascia e l'azione giudiziaria. Non può esservi alcuna soluzione di continuità ed il potere giudiziario ben ha saputo raccogliere il testimone e quella siciliana, luminosamente presente in aula, in special modo. Credo, allora che si sia realizzato in sé stesso il disegno di Sciascia, attuato mediante l'ideale affidamento all'azione di giustizia delle chiavi per accedere al miglioramento sociale in virtù della sua grande dote di livellatrice delle diseguaglianze e della preclusione che essa interpone alla possibilità che dalle diseguaglianze stesse possano sorgere situazioni di prepotere e di egemonia disancorate dal merito e dal sacrificio insito nel lavoro. È circolare il discorso generato dal pensiero di Sciascia. Si può discutere finemente della dicotomia tra una dimensione votata all'ottimismo della volontà o viziata dal pessimismo della ragione ravvisabili nella letteratura Sciasciana, ma non si può non convenire sulla esistenza di un manifesto ideale di intolleranza e di militanza intellettuale nei confronti di e contro l'illegalità.
L'Autore volle impegnarsi anche in battaglie paragiudiziarie, quale quella descritta nel delizioso pamphlet “L'affaire Moro”. Ma quello era il tributo, il più nobile, che in un certo senso egli volle corrispondere alla propria limitata esperienza di parlamentare nazionale. Volle mostrare, cioè, che egli non apparteneva passivamente alla schiera dei deputati privi di iniziativa e di tensione e passione politica che scelgono così di estraniarsi colpevolmente dal circuito che li dovrebbe sempre collegare ai cittadini rappresentati.
Se si vuole prospettare una conclusione al ragionamento che precede occorre riconoscere l'esistenza di una non trascurabile appendice alla generale opera di Sciascia. Essa è necessariamente di squisita natura giudiziaria. Si tratta, infatti, di convertire il suo pensiero, per via logicamente e fedelmente deduttiva, in concreta attività giurisdizionale il messaggio letterario rivolto a rimuovere dalla società civile la illegalità mafiosa ed a sublimare i valori costituzionali dell'eguaglianza dei cittadini e della necessità che il progresso, il benessere, l'ascesa sociale provengano esclusivamente dal lavoro lecito e dalla rigida obbedienza ai precetti della legge. C'è da auspicare che una manifestazione come quella odierna possa contribuire a lasciare da parte le superficiali ed ingenerose interpretazioni delle parole prima ricordate, spesso strumentalmente rinfocolate per affievolire o svilire il messaggio genuinamente ed intrinsecamente antimafioso di Sciascia. Ciò, al contrario e senza riserve, va colto dalla sua feconda vita: ed è altrettanto indubbio che l'opera costante e serrata della magistratura, in particolar modo di quella siciliana, continui a procedere lungo quell'ammirevole solco, guidata proprio da quel pensiero.
Giudizi in corso e intervento legislativo. Dalla Consulta un altro arresto
di Tiziana Orrù
Il contenzioso sul trattamento economico del personale dell’Amministrazione affari esteri nei periodi di servizio in territori stranieri è l’occasione per la Corte costituzionale per rimettere un punto fermo sulla possibile interferenza della legge, giustificata da ragioni finanziarie, nell’attività giurisdizionale. Si rinnova così il dialogo con la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Sommario: 1. Premessa – 2. La disciplina: le indennità dovute al dipendente pubblico per il servizio all’estero – 3. Alcune travagliate vicende giurisprudenziali – 4. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione – 5. Le valutazioni giuridiche espresse dalla Consulta – 6. Conclusioni: c’è un giudice anche a Strasburgo.
1. Premessa
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 145 depositata il 13 giugno 2022 (relatrice prof.ssa Sciarra) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito con modificazioni nella l. 14 settembre 2011, n. 148, nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, non include l'indennità di amministrazione.
La decisione (allegata alla presente nota) ha ad oggetto il pagamento dell'indennità di amministrazione in favore del personale all'estero e pone termine ad un contenzioso “seriale” di ampia portata, che si è sviluppato in primo e secondo grado, circa la natura dell’art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 che, interpretando l’art. 170 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), ha escluso l'indennità di amministrazione dal trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti del Ministero degli Affari Esteri in servizio all'estero.
La sentenza della Consulta ha dichiarato l'incostituzionalità di tale interpretazione autentica limitatamente alle fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore per contrasto, tra l’altro, con l’art. 117, comma 1 Cost. in relazione all’art. 6 della CEDU.
La decisione desta un certo interesse non solo per il definitivo accertamento della natura innovativa del citato art. 1-bis, ma anche per il percorso argomentativo della Corte Costituzionale nella ricostruzione dei rapporti tra la normativa nazionale e quella sovranazionale soprattutto con riferimento all’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali.
La Corte Costituzionale, valorizzando la conoscenza delle reciproche aree di intervento, perfeziona e sviluppa un dialogo con la Corte EDU fondato su una reciproca opera di costruttiva cooperazione riaffermando con forza il principio
2. La disciplina: le indennità dovute al dipendente pubblico per il servizio all’estero.
Il d.lgs. n. 165 del 24 marzo 2001, testo unico sul lavoro pubblico, disciplina i rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e detta norme di carattere generale sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici.
Coerentemente con la natura di disciplina organica e tendenzialmente completa del testo unico, il citato decreto legislativo classifica, fin dai primi articoli, le varie categorie di dipendenti pubblici, distinguendo tra personale in regime di diritto pubblico (i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia e altre puntuali specificazioni) e personale privatizzato, i cui rapporti di lavoro sono regolati con contratti individuali, disciplinati dalle disposizioni contenute nel codice civile (capo I, titolo II, libro V) e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa. Successivamente è intervenuta la c.d. riforma Brunetta, codificata con il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, recante norme sull’attuazione della l. 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, che ha introdotto una riforma organica della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, di cui all'art. 2, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Il medesimo d.lgs. n. 165 del 2001, all’art. 45, comma 1 dispone che il trattamento economico fondamentale ed accessorio, fatte salve alcune eccezioni, è definito dai contratti collettivi.[1]
Il successivo comma 5 prevede poi in particolare che le funzioni e i relativi trattamenti economici accessori del personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri, per i servizi che si prestano all'estero, sono disciplinati, limitatamente al periodo di servizio ivi prestato, dalle disposizioni del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18 e successive modificazioni ed integrazioni nonché dalle altre pertinenti normative di settore del Ministero degli affari esteri.
L’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 dispone:
"Il personale dell'Amministrazione degli affari esteri, oltre allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, compresa l'eventuale indennità o retribuzione di posizione nella misura minima prevista dalle disposizioni applicabili, tranne che per tali assegni sia diversamente disposto, percepisce, quando è in servizio presso le rappresentanze diplomatiche e gli uffici consolari di prima categoria, l'indennità di servizio all'estero, stabilita per il posto di organico che occupa, nonché le altre competenze eventualmente spettanti in base alle disposizioni del presente decreto.
Nessun'altra indennità ordinaria e straordinaria può essere concessa, a qualsiasi titolo, al personale suddetto in relazione al servizio prestato all'estero in aggiunta al trattamento previsto dal presente decreto.
A norma dell'articolo 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 le disposizioni di cui all’art. 170 si interpretano nel senso che:
a) il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione degli affari esteri nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento a "stipendio" e "assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno", non include né l'indennità di amministrazione né l'indennità integrativa speciale;
b) durante il periodo di servizio all'estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18.
Al fine di una migliore comprensione della vicenda sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale giova premettere alcune considerazioni in merito agli istituti retributivi presi in considerazione dalle norme citate.
L’indennità di servizio all’estero disciplinata dall’art. 171 del d.P.R. n. 18 del 1967 non ha natura retributiva, essendo destinata a sopperire agli oneri derivanti dal servizio all'estero, ed è ad essi commisurata. Essa tiene conto della peculiarità della prestazione lavorativa all'estero, in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico-consolare; è onnicomprensiva; ha carattere di rimborso spese e, come tale, non è tassabile né pensionabile; ha carattere transitorio. È percepita, cioè, solo nei periodi in cui si permane all’estero (in tal senso Cass. 14112/2016; 6039/2018; 27345/2019).
L’indennità di amministrazione è stata istituita con il primo ccnl del Comparto Ministeri (1994/1997) in attuazione del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 72, comma 2 con la finalità di conservare nell'impiego privatizzato i trattamenti accessori corrisposti ai dipendenti ministeriali nel regime pubblicistico con carattere di generalità e continuità. Nei successivi rinnovi contrattuali gli importi previsti a titolo di indennità di amministrazione hanno tentato di agevolare il processo di perequazione delle retribuzioni complessivamente spettanti al personale del comparto ministeri. L'art. 17, comma 11, del ccnl integrativo del ccnl 1998/2001 ha poi specificamente previsto che l’indennità di amministrazione è corrisposta per dodici mensilità, ha carattere di generalità ed ha natura fissa e ricorrente.
In estrema sintesi può senz’altro essere affermato che l'indennità di amministrazione è una voce della retribuzione accessoria corrisposta continuativamente per dodici mensilità in tutte le amministrazioni dell'ex comparto Ministeri con importi diversi da amministrazione ad amministrazione, ma in misura fissa nell'ammontare in relazione a ciascuna posizione di inquadramento (in tal senso Cass. S.U. 13 luglio 2005 n. 14698 e successive conformi: Cass. 18196/2017; 22612/2015; 9313/2011; 11814/2008, 5118/2008, 2355/2007, 19564/2006).
L’indennità integrativa speciale (i.i.s.), istituita con l. n. 324 del 1959, a seguito di una costante evoluzione ad opera di numerosi interventi normativi e contrattuali collettivi (tra cui il ccnl di comparto del 24 luglio 2003 che ha previsto il c.d. conglobamento dell’indennità integrativa speciale nello stipendio tabellare) ha perduto nel tempo la sua connotazione originaria, per assumere definitivamente un carattere retributivo; attualmente costituisce per il personale pubblico contrattualizzato un assegno mensile, calcolato in misura diversa per le differenti Aree/posizioni economiche, avente lo scopo di adeguare le retribuzioni al costo della vita e viene corrisposto per tredici mensilità.
Tuttavia l’i.i.s., in considerazione delle diversità di regime normativo previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, non ha un’applicazione uniforme per tutti i dipendenti pubblici in servizio all’estero.[2]
3. Alcune travagliate vicende giurisprudenziali.
La ricostruzione della diversità di natura e funzione delle voci retributive riconosciute al personale dipendente del MAECI in servizio all’estero ha determinato la composizione di un cospicuo contenzioso di natura seriale presente su tutto il territorio nazionale che spesso si è intersecato con il distinto contenzioso del personale scolastico in servizio all’estero.[3]
La giurisprudenza di merito e di legittimità ha, ad esempio, affermato la diversa natura dell’assegno di sede estera percepito dal personale scolastico in servizio all’estero rispetto alle speciali indennità previste dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 per il personale dell’Amministrazione degli Affari Esteri.
La scelta ermeneutica ormai consolidata[4] si fonda sulla differente denominazione e struttura delle indennità riconosciute dall'art. 27 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62 (assegno di sede) per i dipendenti del Ministero dell'istruzione, ai quali non si applica il coefficiente di maggiorazione di sede stabilito dall'art. 5 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62 per il personale del servizio diplomatico consolare del Ministero degli esteri, al quale invece spetta una indennità di servizio estero quantificata in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico consolare in considerazione del tenore di vita e del decoro specificamente connessi agli "obblighi derivanti dalle funzioni esercitate”.
Corollario di tale interpretazione è che il richiamato art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011 (oggetto della pronuncia della Corte Costituzionale in commento) non si applica ai docenti che prestano servizio all’estero, in quanto la disposizione si riferisce esplicitamente all’indennità di servizio estero prevista per il personale dell’Amministrazione degli Affari Esteri, che è analoga ma non coincidente, neppure negli importi, con l’assegno di sede percepito dagli insegnanti.
Altra questione correlata al tema in discussione ha ad oggetto il pagamento dell'indennità integrativa speciale non corrisposta dall'Amministrazione degli Affari Esteri sullo stipendio percepito durante il periodo di servizio svolto all'estero, stante la pretesa non cumulabilità di quell'indennità con l'indennità di servizio all'estero erogata.
Il contenzioso ha trovato definitiva conferma dell’applicabilità alla fattispecie della norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138,[5] ritenuta costituzionalmente legittima.
La diversa opzione circa il sindacato di legittimità costituzionale della norma rispetto al cumulo tra indennità di amministrazione e indennità di sede estera (oggetto della decisione in commento) risiede nella natura e nella funzione degli emolumenti (i.i.s. e i.s.e.), entrambi corrisposti per sopperire ad esigenze correlate al costo della vita.
La giustificazione si rinviene nel fatto che la determinazione dei coefficienti di sede necessari per il calcolo dell’i.s.e. tiene conto delle variazioni del costo della vita, del corso dei cambi, dei disagi eventuali della sede, nonché dei costi per gli alloggi e per il personale domestico, indici tutti equivalenti all'indice del costo della vita, posto a base dell'aggiornamento annuale dell'indennità integrativa speciale.[6]
Lo stesso legislatore, nel ribadire la vigenza dell’indennità integrativa speciale con il d.lgs. n. 179 del 2009 (n. 1628 dell'allegato 1), all'art. 1, dopo aver indicato le modalità di calcolo della i.i.s., alla lettera d) del comma 2 ha stabilito che detta indennità “non è dovuta al personale civile e militare in servizio all'estero fornito dell'assegno di sede previsto dalla L. 4 gennaio 1951 n. 13 o da disposizioni analoghe”.
Differentemente per il personale scolastico (dipendente dal MIUR) che presta servizio nelle istituzioni estere la questione relativa alla compatibilità tra assegno di sede e indennità integrativa speciale è stata risolta sulla base della diversa disciplina che regola il rapporto di lavoro, sul presupposto che la norma di interpretazione autentica abbia riguardo al solo personale del MAECI, come chiaramente espresso dalla lettera b) dello stesso art. 1-bis, che prevede che durante il periodo di servizio all’estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18.
Coerentemente, ed in ragione del ruolo attribuito alle parti sociali attraverso la contrattazione collettiva in relazione alla determinazione del trattamento economico dei dipendenti pubblici (d.lgs. n. 165 del 2001, art. 45), la clausola di cui alla nota a verbale dell'art. 76 del c.c.n.l. del comparto scuola del 24 luglio 2003 ha previsto specificamente che la ritenuta relativa all'indennità integrativa speciale sullo stipendio, ivi stabilita per il personale in servizio all'estero, non è applicabile a decorrere dal successivo c.c.n.l. comparto scuola del 29 novembre 2007, ove non è stata reiterata la relativa previsione, avendo detta indennità perso la sua iniziale funzione di adeguamento al costo della vita e concorrendo, ormai, a formare lo stipendio tabellare.[7]
Il contenzioso di cui si è invece occupata la Corte Costituzionale con la decisione in commento ha ad oggetto la cumulabilità, per i periodi di servizio all’estero, dell’indennità di sede estera con l’indennità di amministrazione.
4. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione.
Alcuni dipendenti del MAECI (già Ministero degli Affari Esteri - MAE) avevano presentato ricorso al giudice del lavoro chiedendo una pronuncia di accertamento del loro diritto a percepire, durante il periodo di servizio all’estero, l’indennità di amministrazione unitamente all’indennità di servizio estero prevista dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, con conseguente richiesta di condanna al pagamento delle somme dovute a titolo di indennità di amministrazione durante il periodo di servizio all’estero.
In sintesi, nel giudizio di fronte alla Corte di Cassazione contestavano l’illegittimità della mancata corresponsione dell’indennità di amministrazione prevista dalla contrattazione collettiva sulla base della non cumulabilità di tale emolumento con l’indennità di servizio estero prevista dall’art. 170 d.P.R. n. 18 del 1967 così come disposto art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011 n. 138, convertito, con modificazioni, in l. 14 settembre 2011 n. 148.
Specificavano che fino all’entrata in vigore della norma censurata la giurisprudenza di merito si era orientata prevalentemente a favore della tesi della cumulabilità, in coerenza con la natura retributiva e non compensativa dell’indennità di amministrazione, che la rendeva assimilabile agli “assegni a carattere fisso e continuativo”.
Assumevano la natura innovativa della disposizione del suddetto art. 1-bis e, dunque, la sua inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie di causa e chiedevano, ove la Corte avesse invece ritenuto la norma di interpretazione autentica, di rimettere la questione alla Corte Costituzionale - per contrasto: con l'art. 6 della CEDU in relazione all'art. 10 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 1; con l'art. 1 del protocollo I addizionale alla CEDU, sempre in relazione all'art. 10 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 1; con gli artt. 101, 102, 104 Cost.; con gli artt. 3 e 36 Cost.
La Corte di Cassazione con ordinanza del 27/11/2020 n. 27174, previa declaratoria di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione, ha rimesso il giudizio alla Corte Costituzionale sul presupposto che l’efficacia retroattiva della norma (chiaramente espressa nel testo) entrerebbe in contrasto sul piano della ragionevolezza con molteplici valori costituzionalmente tutelati.[8]
L’esito del contenzioso sorto in epoca antecedente all’emanazione dell’art. 1-bis citato riteneva legittimo il cumulo dell’indennità di amministrazione e dell’indennità di sede estera in considerazione della natura e della funzione dei due emolumenti[9], che pertanto dovevano essere erogati a tutto il personale in servizio all’estero.
Il primo dubbio di legittimità costituzionale del d.l. n. 138 del 2011, art. 1-bis, attiene, secondo l’ordinanza di rimessione, alla violazione del parametro della ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., comma 1: la diversità tra la disciplina originaria e quella sopravvenuta, che presenta un insopprimibile elemento di novità nella indennità oggetto della interpretazione; qualifica l’art. 1-bis in termini di norma innovativa con efficacia retroattiva… che può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata.
Il secondo e terzo dubbio di legittimità costituzionale attengono alla violazione degli artt. 24 comma 1, 101, 102 e 104 Cost., sotto il profilo della compromissione dell’effettività della tutela giurisdizionale in quanto la norma è dichiaratamente finalizzata ad incidere su concrete fattispecie sub iudice.[10]
Il quarto profilo di contrasto con la Carta costituzionale è ravvisato nei confronti degli artt. 111 e 117, comma 1 Cost., - quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle Libertà Fondamentali - poiché la norma censurata, nel predeterminare l’esito dei giudizi in favore dell’amministrazione statale, si porrebbe in contrasto con il principio della parità delle parti, con il diritto a un equo processo e con la tutela dell’affidamento.[11]
L’ultimo sospetto di illegittimità costituzionale si configura, secondo l’ordinanza di rimessione, in riferimento all'art. 39 Cost., comma 1, in quanto l’intervento legislativo retroattivo operato sull’assetto del trattamento economico complessivo dei dipendenti del MAECI avrebbe leso l’autonomia delle parti sociali nella sede negoziale collettiva.
5. Le valutazioni giuridiche espresse dalla Consulta.
A seguito dell’udienza di discussione del 10 maggio 2022 la Corte Costituzionale ha depositato in data 13 Giugno 2022 la sentenza n. 145 con la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, non include l'indennità di amministrazione.
La Corte, nel confermare la natura giuridica e la funzione dell’indennità di amministrazione e dell’indennità di sede estera così come ricostruite dalla giurisprudenza di legittimità, ha rilevato che l’efficacia retroattiva della legge deve trovare adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni.
La Corte Costituzionale richiama in apertura della motivazione la sentenza della medesima Corte n. 133 del 2020, in cui si ribadisce che una norma può essere qualificata di interpretazione autentica solo se esprime, anche nella sostanza, un significato appartenente a quelli riconducibili alla previsione interpretata, secondo gli ordinari criteri di interpretazione della legge, e che il legislatore può adottare norme che precisino il significato di altre disposizioni, anche in mancanza di contrasti giurisprudenziali, purché la scelta imposta dalla legge interpretativa rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario.
Nel caso di specie esclude che l’art. 1-bis costituisca una norma di interpretazione autentica quanto piuttosto una norma innovativa con efficacia retroattiva, precisando che l’efficacia retroattiva della legge deve trovare un’adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni.[12]
Prosegue specificando che nella relazione tecnica all’emendamento 1.0.35 presentato al Senato della Repubblica in sede di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. n. 138 del 2011, si dava atto che il contenzioso riferito all’indennità di amministrazione constava di trentadue ricorsi, per un numero complessivo di 1131 dipendenti, dei quali 454 avevano ottenuto sentenza favorevole; che le sentenze di primo grado già emesse erano otto, ed altrettante erano le sentenze che avevano deciso in senso sfavorevole per l’Amministrazione. Si stimava inoltre il presumibile impatto economico di tale contenzioso nei successivi cinque anni.
La ratio della norma oggetto di emendamento era espressamente individuata nell’esigenza di chiarire la portata dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, per porre termine al contenzioso «seriale», riferito sia all’indennità di amministrazione, sia all’indennità integrativa speciale, dal quale possono derivare ingenti oneri a carico della finanza pubblica.
Rileva la Corte che i soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso.
L’efficacia retroattiva della legge, finalizzata a preservare l’interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso, si pone in evidente e aperta frizione con il principio di parità delle armi nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria.
Le leggi retroattive o di interpretazione autentica che intervengono in pendenza di giudizi di cui lo Stato è parte, in modo tale da influenzarne l’esito, comportano un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violano un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 CEDU.
Conclusivamente la Corte Costituzionale ha evidenziato, sempre con riguardo alla norma censurata, che lo scopo dichiarato di porre fine al contenzioso «seriale», che aveva visto l’Amministrazione soccombente, non consente di invocare motivi imperativi di interesse generale, non esplicitati nei lavori preparatori e neppure ricavabili dall’esame del quadro normativo, in quanto le pretese delle parti coinvolte nel contenzioso risultano incardinate nelle fattispecie sorte prima dell’entrata in vigore della disposizione con efficacia retroattiva, proprio perché volte a preservare la corrispettività fra prestazioni svolte all’estero e trattamento retributivo complessivo.
6. Conclusioni: c’è un giudice anche a Strasburgo
La decisione in commento conferma le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza costituzionale rispetto al ruolo da riconoscersi alla giurisprudenza europea, quale espressione di una costruttiva cooperazione nell’ambito di complesse dinamiche interistituzionali.
Una questione centrale e continuamente ricorrente è quella relativa al ruolo da attribuire alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Non è questa la sede adatta per dilungarsi sul punto, tuttavia è bene ricordare che il problema del rispetto della giurisprudenza di Strasburgo è emerso con forza con le “sentenze gemelle” del 2007 n. 348 e n. 349, nelle quali la Corte Costituzionale ha affermato che la CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, rappresenta, per effetto del rinvio mobile previsto dall’art. 117, primo comma, Cost., una fonte di rango sub-costituzionale attraverso la quale ricercare il più ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, comma 1, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale ha consentito di rafforzare il principio secondo il quale l’enucleazione dalle pronunce di Strasburgo di norme da porre a base del controllo di costituzionalità è possibile a condizione che esse riflettano uno stato consolidato di quella giurisprudenza, ovvero il suo diritto vivente, e che da esse derivi un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali.
La Corte Costituzionale ha in più occasioni favorito l’integrazione dell’ordinamento interno con i livelli sovranazionali di protezione dei diritti, accogliendo le interpretazioni fornite dalla Corte di Strasburgo che assicuravano un livello di tutela dei diritti più ampio di quello garantito dalle norme nazionali.[13]
Al contrario, ribadendo il suo ruolo di garante ultima delle libertà fondamentali consacrate dalla Carta costituzionale, la Corte ha negato l’integrazione del diritto nazionale alla giurisprudenza CEDU che non riconosceva adeguati standard di tutela.[14]
Mentre, infatti, la Corte EDU pronuncia con effetti limitati al caso concreto, la Corte Costituzionale è chiamata ad apprestare una tutela dei diritti sistemica e non frazionata, inquadrandoli nella cornice pluralistica della Costituzione.
Facendo applicazione di quanto sopra, anche nel caso in commento la Corte Costituzionale ha fatto propri i principi e le regole del diritto ultranazionale dei diritti umani, trasfondendoli nel diritto nazionale.
L’arresto della Corte Costituzionale ha, infatti, l’indubbio merito di consolidare il principio più volte espresso dalla giurisprudenza della Corte EDU[15] secondo il quale le considerazioni di natura finanziaria non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie, né consentire la retroattività di una norma. L’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia può essere giustificata solo per imperative ragioni di interesse generale.
[1] In sintesi la contrattazione collettiva è considerata come una fonte eteronoma di livello nazionale che determina il trattamento economico dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Questo è costituito dai compensi di natura fissa e continuativa (trattamento fondamentale) e da indennità di varia natura; alcune di esse concorrono con lo stipendio a formare il trattamento economico fondamentale, altre costituiscono il trattamento accessorio, ossia la componente variabile dello stipendio.
[4] Cfr. per tutte Cass. 30 ottobre 2014, n. 23058 e Cass. 16 novembre 2017, n. 27219.
[5] Cass. 17/12/2019, n. 33395 e successive conformi, tra le quali da ultimo Cass. 05/05/2021, n. 11759, per la quale la norma si è limitata ad enucleare una delle possibili opzioni ermeneutiche dell'originario testo normativo, alla quale si sarebbe comunque pervenuti per la natura e la funzione degli emolumenti: la chiara natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, poiché si è limitata a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale potestà deve attenersi (v. ex plurimis, Corte Cost. n. 274 del 2006; n. 282 del 2005; n. 15 del 2005; n. 240 del 2007), definendo e delimitando la fattispecie normativa proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico (v. Corte Cost. n. 209 del 2010), così da non vulnerare le attribuzioni del potere giudiziario e non incorrere in alcuna violazione dell'art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui impone al legislatore di conformarsi ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e così a quello inerente al principio di preminenza del diritto ed a quello del processo equo, consacrati nell'art. 6 della CEDU, mentre, anche in considerazione delle interpretazioni rese plausibili dalla norma interpretata, difetta ogni elemento per potere desumere che sia stata diretta ad incidere sui giudizi in corso, per determinarne gli esiti (Corte Cost. n. 15 del 1995; n. 397 del 1994).
[6] La giurisprudenza amministrativa ha sempre evidenziato l’identità di funzione delle due indennità (v. Cons. Stato 25 maggio 2012, n. 3088; Consiglio di Stato 24 febbraio 2011, n. 1223.
[7] In tal senso Cass. n. 17134 del 2013, confermata da Cass., ord., 18/10/2019, n. 26617 che ha sottolineato il tema della non facile conciliabilità tra il disposto conglobamento della misura della indennità integrativa speciale nello stipendio tabellare e la natura non retributiva legislativamente qualificata - del d.lgs. n. 297 del 1994, art. 658 e successive modificazioni - dell’assegno di sede, con conseguente non agevole equiparabilità, sotto il profilo funzionale, dell’indennità integrativa speciale quale componente dello stipendio tabellare e l’assegno stesso.
[8] La Corte di Cassazione dubita che la norma sia sostenuta da adeguati motivi di interesse generale, sì da rappresentare un puntuale bilanciamento tra le ragioni della sua emanazione ed i valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi dall'efficacia a ritroso della norma adottata.
[9] V. infra § -1-
[10] L’Avvocatura dello Stato, nella memoria depositata per l’udienza pubblica del 4 marzo 2020, ha specificato che la ratio della norma risiede nella necessità "di fornire l'esatta interpretazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 170, al fine di porre termine al contenzioso seriale, riferito sia all'indennità di amministrazione sia all'indennità integrativa speciale, instauratosi nei confronti del MAE, dal quale possono derivare ingenti oneri a carico della finanza pubblica".
[11] La Corte di Cassazione richiama sia la giurisprudenza costante della Corte EDU, secondo cui è precluso
al legislatore di interferire sulle controversie in atto, salvo che ricorrano impellenti motivi di interesse generale, sia la giurisprudenza costituzionale che, in armonia con la giurisprudenza convenzionale, attribuisce rilievo, tra gli elementi sintomatici di un uso distorto della funzione legislativa, al metodo e alla tempistica dell’intervento del legislatore (sono richiamate le sentenze della Corte Costituzionale n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) sottolineando che i «motivi finanziari», esplicitati nella relazione tecnica dei lavori preparatori della norma censurata, non sarebbero sufficienti a giustificare l’intervento del legislatore
sul contenzioso in atto, né vi sarebbe stata l’esigenza di porre rimedio a imperfezioni del testo normativo
originario.
[12] In uno scrutinio stretto di costituzionalità, che si impone in questo caso, poiché serve riscontrare non “la mera assenza di scelte normative manifestamente irragionevoli, ma l’effettiva sussistenza di giustificazioni ragionevoli dell’intervento legislativo” (ex plurimis, sentenze n. 108 del 2019 e n. 173 del 2016), occorre verificare se le giustificazioni, poste alla base dell’intervento legislativo a carattere retroattivo, prevalgano rispetto ai valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi da tale efficacia a ritroso. Tali valori sono individuati nel legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria, nel principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, nel giusto processo e nelle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ex plurimis, sentenze n. 104 e n. 61 del 2022, n. 210 del 2021, n. 133 del 2020 e n. 73 del 2017).
[13] Ciò è avvenuto, ad esempio, con le sentenze in materia di risarcimento del danno derivante da appropriazione acquisitiva della pubblica amministrazione, meglio nota come “accessione invertita” (sentenza n. 349 del 2007); di computo del giusto indennizzo espropriativo (sentenza n. 338 del 2011); con la sentenza sulla revisione del processo penale per l’ipotesi in cui la sentenza di condanna sia stata resa in un giudizio che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia considerato non equo per violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (sentenza n. 113 del 2011).
[14] Ciò è avvenuto con la sentenza n. 264 del 2012, relativa alla disciplina dei contributi previdenziali versati in Svizzera da lavoratori italiani. Al riguardo, la Corte di Strasburgo aveva ritenuto che contrastasse con la CEDU una legge italiana che modificava retroattivamente i trattamenti pensionistici di quei lavoratori. La Corte Costituzionale non si è allineata a tale pronuncia, considerando pienamente giustificata la disciplina retroattiva alla luce dei principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà, non valutati dalla Corte di Strasburgo in sede di bilanciamento. La Corte italiana ha quindi ribattuto che, nel caso di specie, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretata dalla Corte EDU, non poteva integrare l’ordinamento interno.
[15] Ex plurimis, sentenze 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafo 132; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia, paragrafo 47; 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia, paragrafo 39.
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