ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il difficile punto di equilibrio tra l’effettività della tutela giurisdizionale e l’inesauribilità del potere amministrativo (nota a T.A.R. Abruzzo - Pescara, 1 marzo 2023 n. 107)
di Rocco Parisi
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda contenziosa - 3. La decisione del Tar - 4. Primi spunti critici sul decisum - 5. Giudicato e riedizione del potere: tra effettività della tutela ed inesauribilità del potere amministrativo - 6. Le tesi sul tappeto: la limitazione della preclusione al solo dedotto - 7. Segue: le preclusioni procedimentali ed il «one shot puro» - 8. Segue: l’ipotesi del «one shottemperato» - 9. Riflessioni conclusive sulle possibili evoluzioni del «one shot temperato».
1. Premessa
La sentenza in oggetto affronta, ancora una volta, il tema della riedizione del potere a seguito di un giudicato di annullamento, offrendo l’occasione per alcuni spunti di riflessione[1].
La sentenza, muovendo dai più recenti approdi giurisprudenziali, aderisce al principio del «one shot temperato», secondo cui l’Amministrazione che abbia subìto l’annullamento di un proprio atto ha il potere di rinnovarlo, ma per una sola volta, dovendo riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza poter in seguito tornare a decidere sfavorevolmente, per una terza volta, neppure in relazione a profili non ancora esaminati (CGA, 597/2022; Cons. St., 2378/2020; Cons. St. 3480/2022).
2. La vicenda contenziosa
Nell’ambito di una procedura di affidamento ad evidenza pubblica, l’unica impresa partecipante viene esclusa dalla gara, in ragione della presunta carenza di alcuni dei requisiti di ammissione richiesti dal bando e di talune carenze nelle dichiarazioni relative alla documentazione amministrativa.
Impugnata dinanzi al Tar Pescara detta esclusione, questo la annulla (con sentenza n. 435/2021), sulla scorta delle riscontrate lacunosità della lex specialis, disponendo espressamente non l’ammissione dell’impresa ricorrente alla procedura, come dalla stessa invocato in via principale, bensì la necessaria attivazione del soccorso istruttorio[2], ai sensi dell’art. 83 comma 9 del d.lgs. n. 50/2016 e del disciplinare di gara, in accoglimento del relativo motivo di ricorso, formulato in via subordinata. Il Tar, nella pronuncia in parola (poi passata in giudicato), si allinea a quella recente giurisprudenza, secondo la quale «di fronte ad una vistosa ambiguità o indeterminatezza nel disciplinare di gara è non solo legittimo, ma anzi doveroso il soccorso istruttorio per consentire alle concorrenti di dimostrare l’esistenza dei requisiti, esistenti al momento dell’offerta, e non emergenti dalla documentazione depositata solo per una imprecisione o incertezza nella formulazione del disciplinare, e il grave vulnus della par condicio, oltre che dello stesso corretto e imparziale agire della pubblica amministrazione, si sarebbe realizzato, al contrario, se questa non avesse irragionevolmente e formalisticamente esercitato il suo potere-dovere di soccorso istruttorio» (Cons. St., 4103/2020).
In dichiarata esecuzione del giudicato, la stazione appaltante attiva il soccorso istruttorio nei confronti dell’impresa concorrente, estendendone però l’ambito oggettivo rispetto a quanto disposto dal Tar e giungendo ad escluderla nuovamente per ragioni differenti da quelle poste a base della sua prima esclusione e relative alla riscontrata carenza, all’esito della nuova istruttoria in soccorso, di ulteriori requisiti previsti dalla lex specialis.
L’impresa insorge avverso la sua seconda esclusione, proponendo, a distanza di oltre trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento espulsivo, ricorso per l’ottemperanza della sentenza n. 435/2021, ai sensi dell’art. 112 c.p.a., instando per la declaratoria di nullità della gravata esclusione per violazione del giudicato.
In estrema sintesi, l’impresa contesta l’estensione dell’ambito oggettivo del soccorso istruttorio, avendo l’Amministrazione richiesto, solo in sede di riedizione del potere, la comprova di ulteriori requisiti rispetto a quelli oggetto del primo giudizio e la cui presunta carenza aveva condotto alla prima esclusione (annullata dal Tar).
Nel giudizio a quo, peraltro, lo stesso Tar aveva ritenuto inammissibile l’integrazione postuma della motivazione della prima esclusione, posta in essere dall’Amministrazione in corso di causa, ed incentrata proprio su quegli ulteriori requisiti, la cui carenza ha poi condotto alla seconda esclusione.
Con la sentenza qui annotata, il Tar, qualificando l’azione proposta come non propriamente attinente all’esecuzione del giudicato bensì al prosieguo dell’azione amministrativa, e tenuto conto che in caso di cumulo di domande soggette a riti diversi trova applicazione quello ordinario, dispone anzitutto la conversione del rito, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a., da rito di ottemperanza a rito ordinario. Conseguentemente, rilevato che il ricorso avverso l’esclusione dalla procedura di gara è stato proposto oltre il termine decadenziale di trenta giorni, previsto dall’art. 120, comma 2, c.p.a., ne rileva la tardività, rigettandolo per irricevibilità.
3. La decisione del Tar
Il Tar ritiene anzitutto insussistenti i presupposti per proporre il ricorso per l’ottemperanza, atteso che dal giudicato di annullamento non sarebbe disceso un vincolo così stringente per l’Amministrazione da vincolare in modo anticipato ed unidirezionale il successivo sviluppo dell’azione amministrativa. L’effetto conformativo del giudicato, nel caso di specie, non avrebbe potuto comportare, in via diretta, l’ammissione alla gara dell’impresa ricorrente, bensì esclusivamente la regressione del procedimento allo stadio istruttorio, in cui non era ancora conclusa la fase della sua definitiva ammissione.
Il soccorso istruttorio attivato nei confronti della concorrente ben avrebbe potuto riguardare profili differenti ed ulteriori rispetto a quelli esaminati nel giudizio a quo, potendosi quindi giungere ad una nuova esclusione, anche in ragione di tali differenti profili.
Tale rinnovata esclusione non sarebbe affetta da nullità per violazione ed elusione del giudicato, non essendo impedito all’Amministrazione, pur a fronte del giudicato di annullamento, di adottare un nuovo provvedimento espulsivo per ragioni differenti dal primo, come avvenuto nella fattispecie.
Il Tar aderisce dichiaratamente al principio del «one shot temperato», osservando che «il giudicato di annullamento non preclude in sede di remand all’amministrazione il potere di riesaminare funditus la questione, configurandosi un siffatto effetto preclusivo solo per l’avvenire, ossia per una terza e per le volte successive, onde evitare la reiterazione di decisioni negative a cascata sulla base di ragioni ostative che potevano essere opposte sin dal primo riesame».
Ed è qui che si rinviene quel punto di equilibrio tra le due opposte esigenze della garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva, da un lato, e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi, dall’altro.
Il Tar afferma che nel caso di specie, anche a voler ritenere applicabile il principio del «one shot puro» (di recente introdotto nell’ordinamento dall’art. 10 bis L. 241/1990 come modificato dal D.L. 76/2020, sia pure con esclusione delle procedure concorsuali, come quella in esame), comunque non sussisterebbe alcuna preclusione discendente dal giudicato, dal momento che i nuovi motivi di esclusione non preesistevano al primo provvedimento impugnato, ma scaturivano dalla successiva rinnovata istruttoria.
In tale fase di riedizione del potere, quindi, l’attività amministrativa non sarebbe coperta dal giudicato, escludendosi di conseguenza la competenza del giudice dell’ottemperanza: avendo l’amministrazione reiterato il provvedimento di esclusione sulla base di motivi nuovi e diversi da quelli posti a fondamento della prima esclusione, sebbene afferenti alla medesima fase istruttoria, le doglianze agitate dall’impresa ricorrente sono considerate suscettibili di sindacato (solamente) in sede di impugnazione con rito ordinario, esulando dal giudizio di ottemperanza.
Per tale ragione, il Tar converte il rito in ordinario e, rilevata la violazione del termine decadenziale per proporre il ricorso, lo rigetta per tardività.
4. Primi spunti critici sul decisum
Al di là della questione relativa alla qualificazione della domanda[3], la sentenza si pronuncia sul rapporto tra effettività ed esercizio del potere.
Una prima notazione critica alla sentenza va rivolta alla parte in cui, pur ritenendo applicabile il principio del «one shot temperato», distonicamente prende le mosse da uno dei più rigidi corollari del principio della inesauribilità del potere (frutto – a sua volta – della più rigida concezione della separazione dei poteri), a mente del quale «solo per un numero infinito di volte» dopo ogni annullamento giurisdizionale è impedito all’amministrazione pubblica di esprimersi in modo analogo su una medesima questione.
È evidente l’inattualità di tale impostazione (che lo stesso Tar non segue), la quale, ove estremizzata, lascerebbe del tutto insoddisfatta l’esigenza di una tutela effettiva, ben potendo l’amministrazione riesaminare la vicenda un numero tendenzialmente infinito di volte, reiterando identici provvedimenti sfavorevoli, sulla scorta di differenti valutazioni.
Ciò confligge con la concezione sostanziale dell’interesse legittimo pretensivo e con l’attuale tendenza ordinamentale ad individuare il principale oggetto del sindacato del giudice amministrativo nel rapporto (e non solo nell’atto).
La stessa Ad. Plen. 2/2013, pur ritenendo di non poter aderire all’affermazione del divieto di ogni riedizione del potere a seguito di un giudicato sfavorevole, indirizzo «che appare contrastante con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione e non imposto dalle pur rilevanti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, come attestato dalla disciplina della materia in Paesi dell’Unione europea a noi più vicini (si pensi alla Francia ed alla Germania)», ha comunque subito aggiunto che «la riedizione del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e vincoli». Vincoli che rispecchiano il perimetro dell’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente, pur non potendo proiettarsi «l'effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni sopravvenute di riedizione di un potere, ove questo, pur prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove e non contemplate in precedenza».
Pur ammettendo la possibilità di una differente «valutazione dei fatti», in sede di riedizione del potere, la Plenaria richiama al rispetto dell’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice, specialmente per la pubblica amministrazione, «in un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante complemento della tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale)».
La giurisprudenza successiva[4] ha precisato ulteriormente i principi espressi dalla Plenaria, affermando che l’esigenza di certezza, propria del giudicato, ossia di un assetto consolidato degli interessi coinvolti, non consenta all’amministrazione, quando essa rinnova il potere, di riconsiderare secondo una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, hanno formato oggetto di esame da parte del giudice.
La controversia fra l’amministrazione ed il privato deve pur trovare, ad un certo punto, una soluzione definitiva. Sicché, come affermato da un orientamento via via consolidatosi[5], occorre impedire che l’amministrazione proceda più volte all’emanazione di nuovi atti, in tutto conformi alle statuizioni del giudicato, ma egualmente sfavorevoli al ricorrente, in quanto fondati su aspetti sempre nuovi del rapporto, non toccati dal giudicato. Il punto di equilibrio va determinato imponendo all’amministrazione – dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo – di esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.
5. Giudicato e riedizione del potere: tra effettività della tutela ed inesauribilità del potere amministrativo
Com’è noto, il principio di effettività della tutela assume una rilevanza fondamentale, al punto tale da assurgere a vero e proprio presupposto di validità degli stessi ordinamenti giuridici[6].
Il principio in esame esplicita l’insegnamento chiovendiano per il quale il processo deve attribuire alla parte vittoriosa «tutto quello e proprio quello» che il diritto sostanziale gli riconosce[7]. In questo senso, l’effettività della tutela rappresenta indice e misura del livello di protezione giuridica che l’ordinamento è in grado di garantire a coloro i quali si rivolgono agli organi di giustizia.
Dunque, l’effettività afferisce all’esigenza che il sistema appronti in favore del privato rimedi processuali idonei a garantire il concreto perseguimento di ciò che è riconosciuto sul piano sostanziale.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, il principio di effettività si è riempito di ulteriore valenza significativa, divenendo il fulcro di tutela delle stesse libertà fondamentali sancite dai costituenti[8]. In particolare, nell’impianto costituzionale, l’art. 24 rappresenta una norma processuale in bianco, costitutiva di un piano mobile di misure di tutela[9], utile a consentire la protezione giudiziale di qualsiasi situazione giuridica soggettiva riconosciuta sul piano sostanziale.
A livello sovranazionale, gli articoli 6 e 13 della CEDU attribuiscono un ruolo di prim’ordine al canone di effettività nella gerarchia dei diritti fondamentali, ivi comprendendovi anche il diritto ad ottenere l’esecuzione delle statuizioni giudiziali favorevoli. Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il diritto all’esecuzione dei provvedimenti giudiziali rappresenta la terza grande garanzia del giusto processo, unitamente al diritto all’accesso ad un tribunale indipendente ed imparziale ed al diritto al contraddittorio ed alla parità delle armi in giudizio.
Il diritto d’accesso alla giustizia ed il diritto ad un equo processo sarebbero illusori se l’ordinamento giuridico di uno Stato membro acconsentisse che una decisione definitiva e vincolante restasse inefficace a danno di una parte[10].
Anche l’ordinamento dell’Unione Europea ha riconosciuto al principio in parola una rilevanza sempre crescente e, sulla scorta delle diverse disposizioni dei Trattati in materia, la Corte di Giustizia è giunta a qualificare il canone di effettività come principio generale di diritto dell’Unione[11].
Dunque, nell’elaborazione ormai invalsa in ambito sia nazionale che europeo, il principio di effettività della tutela giurisdizionale impone al legislatore di predisporre rimedi processuali idonei a tutelare tutte le situazioni giuridiche soggettive qualificate sul piano sostanziale, di tal guisa che il titolare possa acquisire all’esito del giudizio l’esatta utilità cui ha diritto[12].
Com’è noto, il tema dell’effettività della tutela si inserisce in maniera tutt’altro che pacifica nell’ambito della giurisdizione amministrativa, in ragione, non solo della discussa attitudine del sistema di giustizia ad incidere in modo significativo sull’esercizio del potere amministrativo[13], ma anche della fisiologica limitazione oggettiva che incontra il giudicato formatosi all’esito del giudizio amministrativo.
È noto che la dottrina amministrativa, dopo una prima fase di chiusura[14], ha riconosciuto alla sentenza del giudice amministrativo un contenuto di accertamento, ex art. 2909 c.c., idoneo a dettare una regola conformativa per l’attività amministrativa successiva. Tuttavia, siffatta regola sostanziale, in quanto chiamata a confrontarsi con il potere pubblico autoritativo, è inidonea a delineare in maniera definitiva l’assetto di interessi in gioco, rivelandosi al contrario elastica, condizionata ed incompleta[15].
In particolare, la sentenza di annullamento, soprattutto ove incida su poteri discrezionali, nel chiudere la questione sulla legittimità del provvedimento impugnato, inerente ad un mero frammento di esercizio del potere, si apre alla sua successiva riedizione, alla quale viene demandata la concreta definizione dell’assetto degli interessi in gioco, derivandone il rischio di un’esautorazione delle aspettative di tutela della parte già vittoriosa in giudizio.
In effetti, stante l’inidoneità del giudicato di annullamento a statuire anche sul deducibile[16], non sono affatto infrequenti i casi in cui, pur a seguito della pronuncia demolitoria, l’amministrazione reitera un provvedimento di diniego, analogamente lesivo per l’interesse pretensivo del privato, sulla scorta di motivi nuovi e diversi rispetto a quelli già addotti in precedenza e sottoposti al sindacato giudiziale, sottoponendo il destinatario del (nuovo) provvedimento ad un’estenuante rincorsa impugnatoria avverso le ulteriori (e sempre rinnovate) effusioni di potere pubblico.
Nel quadro così delineato, il giudicato di annullamento si presenta come una parentesi tra il frammento di potere già esercitato (sfociato nel provvedimento impugnato) ed il tratto di azione amministrativa successiva[17].
Di conseguenza, il canone di effettività della tutela rischierebbe di rimanere lettera vuota qualora si consentisse all’amministrazione di esercitare all’infinito il proprio potere in senso sfavorevole al ricorrente già vittorioso in giudizio, impedendogli di conseguire l’utilità sostanziale anelata. Ed in effetti non è mancato chi ha addirittura dubitato della riferibilità del principio di effettività alla giurisdizione amministrativa, rilevando che «nella normalità dei casi, la pronuncia di annullamento nulla statuirà in ordine alla spettanza del bene oggetto delle pretese del ricorrente»[18]. Infatti, «se effettività della tutela significa, per precetto costituzionale, adeguatezza della protezione giudiziaria alla natura della situazione giuridica sostanziale, ne discende che il giudizio amministrativo non può esaurirsi nella verifica dell’affermazione del ricorrente circa il potere di annullamento dell’atto […] Il processo deve tendere, quanto più è possibile, alla cognizione e statuizione autoritativa su ciò che spetta al privato e ciò che non gli spetta»[19].
6. Le tesi sul tappeto: la limitazione della preclusione al solo dedotto
Come nel caso annotato, le maggiori criticità, soprattutto in giurisprudenza, si sono riscontrate nella puntuale definizione del perimetro oggettivo del giudicato e dei suoi effetti conformativi.
In passato, i giudici amministrativi hanno sovente optato per una maggiore salvaguardia della sfera di autonomia amministrativa (nel rispetto del principio di separazione dei poteri), minando la stabilità del giudicato. In tal senso, è stato sostenuto che a seguito di una pronuncia di annullamento l’amministrazione può, non solo reiterare il provvedimento sfavorevole sulla scorta di motivi preesistenti non sindacati dal primo giudice, ma addirittura riesaminare quelle stesse circostanze già coperte dalla sentenza.
L’Adunanza Plenaria 2/2013, invece, ha chiaramente affermato che, pur potendo l’amministrazione valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, siano state oggetto di esame da parte del giudice, «l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell'azione amministrativa», e comunque l’esecuzione del giudicato va effettuata nel rispetto dei principi di buon andamento, correttezza e buona fede[20].
Il giudicato, in particolare, assumerebbe una vincolatività asimmetrica nei confronti della riedizione del potere[21] – da un lato – cristallizzando i fatti accertati in giudizio[22] e – dall’altro lato – consentendo all’amministrazione il riesame delle valutazioni già sindacate dal giudice in termini (estrinseci) di non manifesta irragionevolezza.
Tale orientamento, è stato recepito e sostenuto dalla giurisprudenza successiva, talvolta in termini restrittivi[23], ammettendosi che in sede di riedizione del potere l’amministrazione potesse dedurre a sostegno della propria decisione anche fatti preesistenti, ma non considerati dal primo giudice, nonché nuovi fatti e nuove ragioni giuridiche e nuove valutazioni, fondate sui medesimi fatti.
In maniera ancor più esplicita, è stata rilevata l’inidoneità del giudicato amministrativo ad assurgere a regola completa e definitiva del rapporto tra privato ed amministrazione, in ragione della natura immanente ed inesauribile del potere pubblico[24]. Pur non negando l’avvenuta trasposizione dell’oggetto del giudizio amministrativo, dall’atto al rapporto, il Consiglio di Stato ha così ritenuto che la sussistenza di potere pubblico discrezionale continui inevitabilmente a condizionare la portata della regola sostanziale fissata nel giudicato, limitandone l’effetto preclusivo ai soli vizi censurati in sede di legittimità.
Come è stato condivisibilmente sostenuto[25], l’orientamento in esame tende ad attribuire al giudicato un effetto solo ripristinatorio, limitato ai vizi dedotti su cui il giudice ha deliberato, senza la corretta valorizzazione degli effetti conformativi sulla futura azione amministrativa; obbligo ripristinatorio che, dunque, non incide sui tratti liberi di potere lasciati impregiudicati dalla sentenza.
Tale impostazione, volta a limitare l’efficacia oggettiva del giudicato al solo dedotto, è parsa eccessivamente distante dall’attuale sistema di giustizia amministrativa[26], delineato dal Codice del processo nella prospettiva di un sindacato giudiziale sempre più esteso al rapporto.
Seguendo poi la ricostruzione operata da un’autorevole giurisprudenza[27], in ossequio ai principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo (i quali imporrebbero di rimeditare la tesi del giudicato a formazione progressiva) ed al fine di riconoscere al giudicato l’effetto di cristallizzare situazioni giuridiche resistenti alla riedizione del potere amministrativo, si delineano due tesi: «una tesi “radicale” suggerisce di rafforzare la capacità stabilizzante del giudicato amministrativo, ritenendo che esso copra non solo il dedotto ma anche il deducibile, con la conseguenza che, nel caso di giudicato di annullamento su vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi vizi, integra una violazione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione (secondo una variante, analogo vincolo deriverebbe, prima ancora che dal giudicato, dalla preclusione maturata nel corso del procedimento amministrativo); una tesi “mediana” sostiene invece che, dopo la formazione del giudicato, la pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale possa sì individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola».
Pur non intendendo mettere in discussione i principi fissati dalle Adunanze Plenarie 2/2013 e 2/2016, la condivisibile giurisprudenza appena citata afferma chiaramente che tali statuizioni «devono trovare ulteriore svolgimento» non essendo «accettabile che la crisi di cooperazione tra amministrazione e cittadino possa risolversi in una defatigante alternanza tra procedimento e processo, senza che sia possibile addivenire ad una definizione positiva del conflitto, con grave dispendio di risorse pubbliche e private». Allorquando il vizio accertato con l’autorità del giudicato consiste nella violazione di una norma che assicura all’istante soltanto «la possibilità di conseguire il bene finale» («bene intermedio») e l’illegittimità rilevata dal giudicato demolitorio non ha determinato la privazione di un’utilità che il diritto assicurava con certezza all’istante, «resta da capire se questa “possibilità attuativa” debba necessariamente scontare l’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatta, oppure se il sistema di giustizia amministrativa sia in grado di approntare un rimedio adeguato al bisogno di tutela, rendendo concretamente tangibile l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali»[28]. A tale ultimo approdo giunge la giurisprudenza in esame, offrendo interessanti spunti di riflessione, che andrebbero adeguatamente ripresi e valorizzati, soprattutto alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa culminata con il nuovo codice del processo amministrativo.
7. Segue: le preclusioni procedimentali ed il «one shot puro»
La prima delle tesi sopra indicate è volta ad imporre alla discrezionalità amministrativa, nella riedizione del potere, una preclusione pre-processuale, ancorata al confronto endoprocedimentale antecedente all’adozione del provvedimento annullato.
Di conseguenza, a seguito dell’annullamento l’amministrazione non potrebbe adottare un nuovo provvedimento negativo fondato su motivi già emergenti dalla precedente istruttoria.
Tale orientamento, del «one shot puro», era già stato sostenuto e fondato sul previgente art. 10-bis della l. n. 241/1990, ritenendosi che tale disposizione imponesse all’amministrazione, quantomeno nei procedimenti ad istanza di parte, di indicare nella fase procedimentale le circostanze fattuali e giuridiche ostative alla soddisfazione della pretesa sostanziale del privato, provocando già in quella sede un contraddittorio con l’interessato. Sicché, ai sensi della disposizione in esame, l’amministrazione sarebbe tenuta ad enunciare nella fase procedimentale (tutte) le ragioni poste a fondamento del proprio convincimento di diniego, derivando dal mancato assolvimento di siffatto onere procedimentale il divieto di reiterazione del provvedimento sfavorevole sulla scorta di presupposti non esplicitati in precedenza[29].
È evidente che tale impostazione rafforza la capacità stabilizzante del giudicato amministrativo dinanzi al riesercizio del potere, estendendo il proprio alveo oggettivo anche al deducibile.
La tesi in esame è stata espressamente recepita dal legislatore con la recente riforma dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990[30], sia pur limitatamente ai procedimenti avviati ad istanza di parte e fatta eccezione per le procedure concorsuali ed i procedimenti in materia previdenziale e assistenziale, nella parte in cui si prevede che in caso di annullamento del provvedimento adottato l’amministrazione non può adottare un nuovo provvedimento negativo sulla scorta di motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato e non tempestivamente indicati.
8. Segue: l’ipotesi del «one shot temperato»
Al fine di non ingessare eccessivamente il potere discrezionale dell’amministrazione successivo al giudicato, la giurisprudenza amministrativa maggioritaria ritiene che il «one shot puro» non rappresenti il meccanismo ordinario dei rapporti tra giudicato amministrativo e riedizione del potere, bensì una regola eccezionale, circoscritta per espressa previsione normativa ai soli provvedimenti adottati su istanza di parte.
Infatti, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, cui aderisce anche la sentenza in commento, sarebbe preferibile il principio del «one shot temperato», per cui si «consente all’Amministrazione pubblica che abbia subito l'annullamento di un proprio atto, di rinnovarlo una sola volta e, quindi, di riesaminare l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza potere in seguito tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati»[31].
Pertanto, l’effetto preclusivo per l’amministrazione non deriva dal primo giudicato di annullamento, non essendo impedito all’amministrazione di riesaminare la vicenda nella sua interezza – fermi restando, si intende, i vincoli imposti dal giudicato per i segmenti di potere già esercitati e vagliati dal giudice –, operando un siffatto effetto preclusivo solo dal secondo giudicato di annullamento (in avanti), a partire dal quale si produce «l’effetto di “svuotare” l’amministrazione del proprio potere discrezionale»[32].
Ne deriva che a seguito del secondo annullamento giudiziale, l’ulteriore riedizione viene ad essere interamente assoggettata alle regole imposte dal giudicato, essendo demandato ogni possibile contrasto tra il decisum ed i provvedimenti successivi al giudice dell’ottemperanza.
La tesi in esame è stata ulteriormente precisata dalla giurisprudenza.
Anzitutto, è stato sostenuto che la preclusione derivante dal (secondo) giudicato non opera nelle ipotesi in cui l’annullamento giurisdizionale sia disposto per vizi meramente procedimentali[33].
In secondo luogo, si è ritenuto che nel “computo” delle riedizioni del potere non rientri l’eventuale riesame amministrativo svolto in ottemperanza a provvedimenti cautelari del giudice, rilevando ai fini dell’operatività della preclusione solo «il riesame completo della fattispecie, conseguente ad un primo giudicato di annullamento»[34].
L’impostazione di cui si tratta, precisata nei termini di cui sopra, rappresenterebbe per i giudici amministrativi il giusto punto di equilibrio tra la cogenza conformativa del giudicato amministrativo di annullamento, cui si correla l’effettività della tutela della parte vittoriosa in giudizio, e l’inesauribilità del potere amministrativo, mettendo al riparo il privato dal rischio di dover rincorrere con una serie potenzialmente infinita di impugnazioni un’attività amministrativa reiteratamente negativa fondata su ragioni e valutazioni sempre nuove.
Va altresì osservato che la giurisprudenza ha pure rimarcato il “valore non assoluto” del principio del «one shot temperato», precisando, in particolare, che qualora sussistano rilevanti fatti sopravvenuti, l'amministrazione può nuovamente pronunciarsi. Al contrario, paradossalmente, si potrebbe persino giungere ad «escludere in radice la possibilità di attribuire al privato l'utilità sperata», all’esito di un «eventuale nuovo e diverso iter, fondato su presupposti o modalità autonome»[35]. Ciò, infatti, è coerente con la logica del principio, che è quella di non porre a carico del privato «gli errori e le omissioni della fase istruttoria, che spetta all'amministrazione», non certo quella di «impedire di considerare i fatti sopravvenuti rilevanti»[36].
Infine, per completezza, appare molto interessante la linea interpretativa seguita da quella giurisprudenza che – pur occupandosi di vizio della motivazione – ha posto in rilievo le potenzialità dell’istituto della convalida (istituto forse non adeguatamente approfondito, alla luce delle ultime riforme) sin dalla fase della cognizione e le sue ricadute sistemiche, rispetto alla riedizione del potere: «quando l’Amministrazione conserva intatto il potere di riemanare un provvedimento con dispositivo identico a quello che risulterebbe annullato per mero difetto di motivazione – in quanto il giudicato non ha potuto accertare la spettanza del provvedimento favorevole –, la combinazione di convalida (la quale può essere spontanea, ovvero occasionata da un 'remand' o da una richiesta di chiarimenti del giudice) e motivi aggiunti avverso l'atto di riesercizio del potere è in grado di accrescere le potenzialità cognitive dell'azione di annullamento, consentendo di focalizzare l'accertamento, per successive approssimazioni, sull'intera vicenda di potere (diversa è l'ipotesi in cui venga contestato un atto non ripetibile, giacché in tal caso, come si è detto sopra, la convalida non avrebbe effetto retroattivo). Il predetto dispositivo di concentrazione – coniugando l'inesauribilità del potere amministrativo con il diritto di difesa – agevola entrambe le parti del giudizio, in quanto: - consente al ricorrente una più rapida ed efficace verifica della sua possibilità di risultato vantaggioso (perseguita attraverso la deduzione di un vizio strumentale come il difetto di motivazione); - consente all'amministrazione di evitare annullamenti del tutto “sovradimensionati” rispetto alla reale consistenza dell'interesse materiale del privato, potendo dimostrare che l'insufficiente motivazione non ha alterato la fondatezza sostanziale della decisione»[37].
9. Riflessioni conclusive sulle possibili evoluzioni del «one shot temperato»
Pur non trascurando di considerare la valenza del principio del «one shot temperato», permeato dall’esigenza di garantire l’effettività della tutela nel rispetto del quadro costituzionale e normativo delineato dal codice del processo amministrativo, pare opportuno svolgere qualche riflessione conclusiva sui possibili sviluppi dell’orientamento in parola, nella direzione di un migliore contemperamento tra gli interessi in gioco.
Al riguardo, deve essere vagliata la possibilità di anticipare al primo giudizio impugnatorio l’onere per l’amministrazione di svolgere l’esame complessivo della vicenda, consentendo al giudice della cognizione (sin da questa fase) di svolgere un sindacato esaustivo sull’intero rapporto, alla luce di tutte le allegazioni difensive prodotte dalle parti.
La percorribilità di tale soluzione deve essere necessariamente meditata anche alla luce dell’ammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione[38], dedotta in giudizio dall’amministrazione attraverso le difese processuali, tradizionalmente avversata dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa[39].
Invero, dovrebbe verificarsi se l’attuale sistema di giustizia amministrativa consenta di superare il tradizionale divieto dell’integrazione in giudizio della motivazione, al fine di consentire al giudice un esame complessivo della vicenda e, per l’effetto, la piena estensione del decisum all’intero rapporto controverso già all’esito del primo giudizio.
Com’è noto, il divieto di integrazione postuma è stato tradizionalmente fondato, oltre che su ragioni di buon andamento amministrativo e di conformità alla disciplina dettata dall’art. 3 della l. n. 241/1990, sull’esigenza di garantire al privato la piena ed immediata conoscenza delle ragioni fattuali e giuridiche sottese al provvedimento[40].
Sicché, il divieto di integrazione postuma rappresenterebbe un presidio essenziale a salvaguardia del diritto di difesa del ricorrente e della parità delle armi in giudizio, volto ad evitare che il privato, a fronte di una motivazione inizialmente scarna e nebulosa, sia costretto ad “impugnare al buio” il provvedimento, rischiando peraltro di rimanere “sorpreso” dalle specificazioni addotte dall’amministrazione (per la prima volta) in sede di giudizio. Inoltre, l’integrazione in giudizio della motivazione condurrebbe ad un’indebita inversione dell’ordine logico-cronologico tra procedimento e processo, imponendo al privato di agire in giudizio al fine di conoscere le ragioni poste alla base della decisione amministrativa[41].
Ebbene, pare che i predetti profili, sia pur astrattamente condivisibili e fondati in primis sull’esigenza di garanzia dei privati dinanzi all’esercizio del potere autoritativo, possano essere riletti proprio alla luce della medesima esigenza di garanzia sostanziale dei privati ed in ragione degli strumenti processuali oggi previsti dal codice del processo.
In questa prospettiva, il rischio del ricorso al buio e dell’effetto sorpresa che il ricorrente potrebbe subire a seguito dell’integrazione giudiziale della motivazione potrebbe essere attutito dal ricorso per motivi aggiunti ex art. 43 c.p.a., attraverso cui il ricorrente è messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto di difesa rispetto alle nuove ragioni addotte dalla controparte, impugnando tutti i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi della pretesa addotti per la prima volta in giudizio dall’amministrazione (in via di eccezione) a sostegno della correttezza sostanziale del provvedimento.
Il ricorso per motivi aggiunti potrebbe rappresentare un’adeguata forma di tutela processuale per il ricorrente, da contrapporre allo squilibrio derivante dall’integrazione operata dalla controparte pubblica, nella prospettiva di poter conseguire stabilmente all’esito (favorevole) del giudizio il bene della vita richiesto.
Un ulteriore elemento a sostegno dell’ammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione può essere individuato nell’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, il quale in effetti pare avvalorare il superamento di qualsivoglia formalismo concernente la validità del provvedimento, (da un lato) imponendo all’amministrazione di esternare in giudizio tutti gli elementi a sostegno della correttezza del proprio operato «e che tuttavia non siano stati posti alla base della misura provvedimentale concretamente esercitata»[42], (dall’altro lato) chiamando il giudice ad un sindacato effettivo e diretto sul rapporto.
Invero, nell’attuale sistema amministrativo, in cui l’annullamento del provvedimento è subordinato ex art. 21-octies ad una valutazione di concreta utilità sostanziale per il ricorrente, il divieto di integrazione postuma della motivazione pare rappresentare un simulacro di tutela degli interessi del privato, in realtà idoneo a frapporsi al soddisfacimento delle sue aspettative di giustizia sostanziale, consentendogli di ottenere una prima vittoria in giudizio solo formale e tale da postergare solo in avanti l’eventuale valutazione amministrativa di diniego.
Oltre che tutelare l’esigenza di effettività e concentrazione della tutela del privato, la tesi in esame risulterebbe rispondente anche alle esigenze di economicità e di efficacia della funzione amministrativa e giurisdizionale, anticipando e concentrando nel corso del primo giudizio la spendita del potere e le conseguenti preclusioni, evitando l’ulteriore avvio di procedimenti amministrativi e l’instaurazione di giudizi impugnatori.
Peraltro, eventuali condotte abusive dell’amministrazione, volte a celare in prima battuta (in motivazione) i presupposti più basilari ed immediati del provvedimento al fine di scoprirli (con “effetto sorpresa”) per la prima volta in giudizio, laddove lesive dei canoni generali di correttezza e buona fede, dovrebbero essere censurate dal giudice attraverso l’irrogazione di sanzioni processuali ad hoc (id est: condanna alle spese del giudizio), pur a fronte di un eventuale rigetto nel merito del ricorso. A tal fine, tuttavia, sarebbe auspicabile un intervento legislativo sull’art. 26 c.p.a., volto a tipizzare apposite sanzioni processuali da comminare per le predette condotte abusive perpetrate dall’amministrazione (pur non formalmente soccombente).
Lungo il solco appena tracciato, si verrebbe ad instaurare un contraddittorio processuale pieno, avente ad oggetto l’intera vicenda amministrativa controversa, con conseguente allargamento dell’oggetto del giudizio all’intero rapporto. Il giudicato, dunque, sarebbe dotato di un’intrinseca stabilità e certezza, precludendosi all’amministrazione la possibilità di adottare un nuovo provvedimento lesivo sulla scorta di presupposti fattuali e giuridici conosciuti (o conoscibili) al momento del giudizio e tuttavia ivi non dedotti (o eccepiti).
Rispetto al principio del «one shot temperato», la tesi in esame potrebbe consentire di arretrare la soglia della preclusione al primo giudizio d’impugnazione, in una logica di economia processuale e concentrazione della tutela, ampliando già in quella sede il thema decidendum del giudizio e, di conseguenza, le maglie oggettive del giudicato, nell’equo contemperamento delle contrapposte esigenze di autonomia del potere amministrativo e parità del contraddittorio processuale[43].
[1] Giova precisare che la vicenda in esame non si riferisce alle ipotesi di giudicato di annullamento per difetto di motivazione, in relazione alle quali la più recente giurisprudenza ha rilevato che: «quando ci si trova di fronte ad un annullamento giurisdizionale per difetto di motivazione, residua uno spazio assai ampio per il riesercizio dell'attività valutativa da parte della P.A., con la conseguenza che se essa elimina il vizio motivazionale, ma ciò nonostante adotta un provvedimento ugualmente non satisfattivo della pretesa, si avrà violazione o elusione del giudicato solo se l’attività asseritamente esecutiva dell’Amministrazione risulti contrassegnata da uno sviamento manifesto, diretto ad aggirare le prescrizioni, puntuali, stabilite con il giudicato; altrimenti viene in questione non la violazione ovvero elusione del giudicato, bensì un’eventuale nuova autonoma illegittimità deducibile attraverso l’ordinario giudizio di cognizione (cfr. Consiglio di Stato sez. III, 14 novembre 2017, n. 5250)» (Cons. St., sez. IV, 14 aprile 2023, n. 3784).
[2] Per l’esame di alcune questioni giurisprudenziali inerenti all’istituto del soccorso istruttorio, si veda T. Linardi, Il soccorso istruttorio e l’omologazione del concordato in continuità nelle procedure ad evidenza pubblica (nota a Cons. St., Sez. III, n. 9147/2022), in giustiziainsieme.it.
[3] Va rilevato che correttamente, nella fattispecie, il giudizio è stato proposto con il rito dell’ottemperanza, in conformità al consolidato indirizzo del Consiglio di Stato (a partire dalla nota sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 2/2013), secondo cui è certamente ammissibile la proposizione di un solo ricorso, davanti al giudice dell'ottemperanza – in luogo dei due che l’interessato in passato, per ragioni di cautela processuale, era costretto ad esperire – avverso tutti i provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di un precedente provvedimento. Altrettanto correttamente, il Tar, ritenendo che i motivi di ricorso non attenessero a questioni di ottemperanza, ma dovessero essere trattati nella fase della cognizione, ha disposto la conversione del rito (in ordinario), ai sensi dell’art. 32, c. 2, c.p.a.
[4] Cfr. ex plurimis Cons. St., sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1686 e gli ulteriori riferimenti ivi citati.
[5] Cfr. tra le tante: Cons. St., sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660; sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1686; sez. V, 6 febbraio 1999, n. 134; sez. IV, 5 agosto 2003, n. 4539; sez. VI, 9 febbraio 2010, n. 633; sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3259; sez. IV, 6 ottobre 2014, n. 4987.
[6] Secondo H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Trad. It., Torino, 1956, 77, l’efficacia dell’ordinamento rappresenta condicio sine qua non di validità di ciascuna norma in esso contenuta.
[7] G. Chiovenda, Saggi di diritto processuale, Bologna, 1903, 110. Sul punto, anche E. Picozza, Processo amministrativo (normativa), in Enc. Dir., Milano, 1987, 465.
[8] Cfr. V. P. Calamandrei, Processo e giustizia, in Opere giuridiche, Napoli, 1965, 577, laddove si rilevava che «tutte le libertà sono vane se non possono essere rivendicate e difese in giudizio e se l’ordinamento del giudizio non è fondato sul rispetto della persona umana».
[9] Cfr. A. Di Majo, Forme e tecniche di tutela, in S. Mazzamuto (a cura di), Processo e tecniche di attuazione dei diritti, Napoli, 1989, 25, ripreso da I. Pagni, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in Dir. Proc. Amm., n. 2/2016, 401 ss.
[10] Secondo la CEDU «the domestic remedies must be effective». Sul punto cfr. ex plurimis CEDU, 28 luglio 1999, Immobiliare Saffi c. Italie; 18 novembre 2004, Zazanis c. Grèce; 15 maggio 2011, Ventorio c. Italia; 27 luglio 2004, Romashov c. Ucraina; 16 novembre 2006, Muzevic c. Croazia; 13 marzo 1997, Hornsby c. Grecia.
[11] Cfr. Corte Giust. UE, 13 marzo 2007, C-432/05, Unibet; 3 dicembre 1992, C-97/91, Oleificio Borelli; 15 ottobre 1987, C-222/86, Heylens; 15 maggio 1986, C-222/84, Johnston.
[12] Cfr. V. Cerulli Irelli, Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni (dalla Costituzione al Codice del processo amministrativo), in Dir. Proc. Amm., 2012, 472.
[13] Sui rapporti tra principio di effettività della tutela giurisdizionale e diritto amministrativo, si veda: B. Raganelli, Efficacia della giustizia amministrativa e pienezza della tutela, Torino, 2012, 21 ss.; M. Clarich, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1998, 523 ss.; A.M. Sandulli, L’effettività delle decisioni giurisdizionali amministrative, in Atti del convegno celebrativo del centocinquantesimo anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983, 305 ss.; E. Capaccioli, Diritto e processo - Scritti vari di diritto pubblico, Padova, 1978, 465 ss.; S. Giacchetti, Giustizia amministrativa: alla ricerca dell’effettività smarrita, in Dir. Proc. Amm., 1996, 459; G. Verde, Rimozione degli atti amministrativi ed effettività della tutela, in Riv. Dir. Proc., 1984, 42.
[14] Cfr. F. Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d.; O. Ranelletti, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano, 1934, 501 ss.; A.M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 56; F. Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., Milano, 1969, 897 ss.
[15] Cfr. M. Nigro, Giustizia amministrativa, E. Cardi - A. Nigro (a cura di), V ed., Bologna, 2000, che, nell’argomentare sulla nozione elastica e polimorfe del giudicato amministrativo, distingue tra effetto vincolante pieno (diretto o indiretto), effetto vincolante secondario (o strumentale) ed effetto vincolante semipieno.
[16] Come affermato in giurisprudenza: «Nell'ambito della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo il principio processualcivilistico, secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, non è pienamente applicabile, dal momento che nel giudizio d'impugnazione il giudicato si forma solo in relazione ai vizi dell'atto di cui è stata accertata la sussistenza (o l'insussistenza) sulla base dei motivi di censura articolati dal ricorrente (Consiglio di Stato, sez. IV, 01/08/2016, n. 3475)» (T.A.R. Cagliari, sez. I, 13 febbraio 2017, n. 102; cfr., altresì, Cons. St., sez. VI, 24 aprile 2018, n. 2495; T.A.R. Catania, sez. IV, 11 ottobre 2016, n. 2493; T.A.R. Milano, sez. II, 2 luglio 2018, n. 1640). La giurisprudenza ha riconosciuto l’attitudine del giudicato amministrativo a coprire anche il deducibile con precipuo riferimento alle ipotesi di giurisdizione esclusiva, ove si controverta di diritti soggettivi, a patto che il “non dedotto” non afferisca a precedenti provvedimenti rimasti inoppugnati e si ponga come antecedente logico necessario del decisum. Sul punto, si veda: Cons. St., sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3439; Cons. St., sez. IV, 11 marzo 2013, n. 1473; Cons. St., sez. III, 6 marzo 2012, n. 1265; Cons. St., sez. VI, 8 settembre 2008, n. 4288; Cons. St., sez. IV, 12 gennaio 2005, n. 38; Cons. St., sez. IV, 25 agosto 2003, n. 4800.
[17] Cfr. M. Clarich, Il giudicato, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, Milano, 2013, 289.
[18] Cfr. M. Andreis, Tutela sommaria e tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 1996.
[19] G. Corso, Processo amministrativo di cognizione e tutela esecutiva, in Foro it., V, 1989, 431.
[20] Cfr. Cons. St., Ad. Pl., 15 gennaio 2013, n. 2 con nota di A. Travi, in Foro it., 2014, III, 712; F. Figorilli, La difficile mediazione della Plenaria fra effettività della tutela e riedizione del potere nel nuovo giudizio di ottemperanza, in Urb. e app., 2013, 952; M. Trimarchi, Sui vincoli alla riedizione del potere amministrativo dopo la pronuncia dell’adunanza plenaria n. 2/2013, in Dir. proc. amm., 2015, 384; F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, Napoli, 2018, 119 ss.; E. Tedeschi, Contenuto conformativo della sentenza e competenza per l’ottemperanza (nota a Consiglio di Stato, sez. V, 21 settembre 2020, n. 5485), in giustiziainsieme.it; R. Dagostino, Ottemperanza al giudicato civile: interpretazione, integrazione o sostituzione del giudicato? (nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2020, n. 4369), in giustiziainsieme.it.
[21] Cfr. M. Trimarchi, Sui vincoli alla riedizione del potere amministrativo dopo la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 2/2013, in Dir. Proc. Amm., I, 2015, 393 ss., laddove l’Autore evidenzia notevoli perplessità sia teoriche che pratiche sull’impostazione accolta dal Consiglio di Stato: a riprova, si evidenzia che i giudici amministrativi escludono la contrarietà del nuovo provvedimento lesivo (esclusione di una società dalla gara pubblica) al precedente giudicato (annullamento della precedente esclusione) sulla base della mera diversità della motivazione, trascurando di verificare se la stessa si fondasse su nuovi elementi di fatto o su diverse valutazioni. Inoltre, sull’evanescente distinzione tra giudizi di fatto e di valore si richiama il contributo di A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti e sindacato di legittimità, Milano, 1987, 257 ss.
[22] Sul punto, G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, in Dir. proc. amm., n. 4/2017, 1247, rileva come la Plenaria non abbia chiarito se il giudicato amministrativo copra i fatti preesistenti non sopravvenuti e rimasti estranei al sindacato del giudice, non escludendo che «la preclusione riguardi anche i fatti che solo implicitamente sono stati oggetto di esame da parte del giudice».
[23] Cfr. Cons. St., sez. III, 23 giugno 2014, n. 3187.
[24] Cfr. Cons. St., Ad. Plen., 9 giugno 2016, n. 11.
[25] Cfr. F. Manganaro, Giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in Dir. proc. amm., 2018, 534 ss.
[26] F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., n. 6/2016, 1025 ss.
[27] Cfr. Cons. St., sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, la quale rappresenta una pietra miliare nella giurisprudenza sul tema oggetto del commento.
[28] Cfr. ancora Cons. St., sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, ove si afferma che: «la necessità di dimostrare nei fatti tale evoluzione appare anche coerente con la recente affermazione – che il collegio condivide pienamente – secondo la quale, avendo riguardo alla concezione soggettiva della tutela e alla centralità processuale della situazione soggettiva rispetto all’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, sembra ormai potersi «capovolgere definitivamente l’allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può forse spingere ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo»».
[29] Cfr. M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2005, 572 ss.; I. Pagni,L’azione di adempimento nel processo amministrativo, in www.giustamm.it.
[30] Ci si riferisce, in particolare, alla riforma dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 ad opera dell’articolo 12, comma 1, lettera e), del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120. Al riguardo si richiamano le interessanti considerazioni di M. Brocca, Il preavviso di diniego e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130), in giustiziainsieme.it. Le prime autorevoli interpretazioni giurisprudenziali convergono nell’osservare che «tale precetto che impone alla pubblica amministrazione di esaminare l'affare nella sua interezza - già nella fase del procedimento (e non solo nel processo, come la giurisprudenza già riteneva in alcune ipotesi: cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1321 del 2019), sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora esaminati - dovrà trovare attuazione, per evidenti ragioni sistematiche (e per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida per difetto di motivazione» (Cons. St., sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385).
[31] Cfr. C.G.A.R.S., 8 maggio 2022, n. 597; Cons. St., sez. II, 14 aprile 2020, n. 2378; Cons. St., sez. V, 8 gennaio 2019, n. 144; Cons. St., sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660.
[32] Cfr. Cons. St., sez. VII, 17 ottobre 2022, n. 8803.
[33] Cfr. Cons. St., sez. IV, 29 gennaio 2015, n. 439.
[34] Cfr. Cons. St., sez. VI, 4 maggio 2022, n. 3480.
[35] Cons. St., sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1686.
[36] Cons. St., sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660, con nota di E. Traversa, in Giur. It., 2017, 7, 1672.
[37] Cons. St., sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385, ove è stato altresì osservato che «L'interessato, quindi, nel corso del medesimo giudizio, ben potrà domandare, sia l'annullamento dell'atto di convalida perché autonomamente viziato - contestandone quindi la stessa "ammissibilità" -, sia l'annullamento dell'atto come convalidato, adducendone la persistente illegittimità”, con la conclusione per cui: “Questa soluzione è inoltre conforme a principi di effettività e concentrazione della tutela (art. 7, comma 7, del c.p.a.), i quali postulano il massimo ampliamento del contenuto di accertamento del giudicato amministrativo. Tale canone processuale si realizza facendo confluire all'interno dello stesso rapporto processuale - per quanto possibile - tutti gli aspetti della materia controversa dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita, evitando defatiganti parcellizzazioni della medesima disputa».
[38] Sul punto, si richiamano ancora le riflessioni di G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, cit.
[39] Tale orientamento, tutt’ora prevalente in giurisprudenza, è stato sostenuto anche dal TAR Pescara nella sentenza n. 435/2021, sulla cui (asserita) ottemperanza lo stesso TAR abruzzese si è pronunciato con la sentenza n. 107/2023, qui in commento. Nella prima pronuncia, infatti, i giudici amministrativi avevano ritenuto inammissibile l’integrazione postuma della motivazione in giudizio, incentrata proprio sulla carenza degli ulteriori requisiti posta a fondamento del secondo provvedimento di esclusione (poi impugnato), rilevando che «sul punto la giurisprudenza è chiara nell’affermare che nel processo amministrativo l’integrazione in sede giudiziale della motivazione dell’atto amministrativo è ammissibile soltanto se effettuata mediante gli atti del procedimento ‒ nella misura in cui i documenti dell’istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della determinazione assunta ‒ oppure attraverso l’emanazione di un autonomo provvedimento di convalida (art. 21-nonies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990). È invece inammissibile un’integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza, 7 aprile 2014, n. 1629)».
[40] Cfr. C. Mortati, Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione degli atti amministrativi (a proposito del procedimento di scrutinio delle promozioni per merito comparativo), in Giur. It, 1943, III; Cons. St., sez. VI, n. 2555/2008, in Foro Amm. C.d.S., 2008, 1, 1556; Cons. St., Sez. V, n. 6345/2006, ivi, 2006, 10, 2843.
[41] Cfr. G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, cit., 1244.
[42] A. Romano Tassone, Sulla regola del dedotto e deducibile nel giudizio di legittimità, in www.giustamm.it.
[43] Sia consentito, in conclusione, riportare le condivisibili considerazioni della giurisprudenza sopra citata (Cons St., sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321), per la loro importanza sul tema, soprattutto nella parte in cui i giudici amministrativi ritengono che dal codice del processo amministrativo sia desumibile in via interpretativa «un dispositivo di chiusura del sistema, volto a scongiurare l’indefinita parcellizzazione giudiziaria di una vicenda sostanzialmente unitaria», identificabile nella «riduzione progressiva della discrezionalità amministrativa, in via sostanziale o processuale». Peraltro, «la consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati».
Ho partecipato ad un Exchange di gruppo, nell’ottobre 2021, presso la Procura di Monaco di Baviera.
Avevo scelto un exchange “ordinario” e non “specializzato” perché da più di tredici anni esercito le funzioni inquirenti presso la Direzione Distrettuale Antimafia (dapprima di Reggio Calabria e, dal 2015, di Milano) e, ancor prima, funzioni giudicanti, presso il Tribunale di Milano, in sezione dibattimentale specializzata in criminalità organizzata e, subito dopo, presso l’ufficio del Giudice per le indagini preliminari.
Desideravo, quindi, una full immersion in materia ordinaria comparata, proprio per confrontarmi con una realtà di cui non mi occupavo da tempo.
Sapevo, inoltre, che il gruppo non sarebbe stato composto da più di tre o quattro colleghi e questo garantiva qualità dell’esperienza.
Qualche giorno prima, invece, la mia “tutor” – la collega della Procura di Monaco Elke Schulz – mi inviava una mail con la quale comunicava la decisione di accorpare il nostro gruppo ad un altro, che aveva come “tutor” la collega Petra Wagner, della Procura Generale di Monaco.
Diventammo, così, otto.
“Tutto sommato più divertente” pensai.
Il gruppo era composto in maniera eterogenea: soltanto un altro collega italiano, Luigi Boccia, della Procura di Pistoia. Gli altri partecipi provenivano da: Spagna, Austria, Estonia, Lettonia, Polonia.
Tutti pubblici ministeri, di cui una (la collega austriaca) in servizio presso il Ministero della giustizia.
L’esperienza si è rivelata incredibilmente interessante – come mai avrei immaginato – sia dal punto di vista professionale che personale.
L’Exchange si è svolto interamente in lingua inglese.
La nostra settimana – impeccabilmente organizzata dalle nostre due eccezionali tutor – si è svolta attraverso una serie di incessanti impegni quotidiani quali:
- partecipazione ad udienze (con l’ausilio di interprete per chi non parlava il tedesco);
- incontri con colleghi dei vari uffici, nell’ambito dei quali ci è stato illustrato il complesso sistema giuridico tedesco, con la presentazione di istituti (anche con slides), a cui seguiva l’interessante confronto tra tutti noi. Ciascuno illustrava dapprima la regolamentazione dell’istituto giuridico nel paese d’appartenenza e poi la concreta esperienza sul campo;
- incontri con la Polizia Giudiziaria, nell’ambito dei quali sono state affrontate tematiche relative a tecniche d’indagine e casi pratici;
- una visita ad ospedale psichiatrico giudiziario, nel cui contesto abbiamo affrontato la tematica del vizio totale o parziale di mente, sempre in ottica comparata.
Il confronto è sempre stato eccezionalmente interessante e proficuo.
A tale entusiasmante esperienza professionale si è unita un’incredibile esperienza anche dal punto di vista personale.
Le nostre fantastiche Tutor, Elke e Petra, infatti, hanno perfettamente organizzato anche le nostre serate insieme, con ottime cene in locali tipici bavaresi, gite fuori porta, come la bellissima Norimberga, con la visita al museo del famoso processo (nessun pubblico ministero può esimersi dal leggere l’inizio della requisitoria di quel PM, per ritrovare il senso profondo del nostro mestiere).
Petra ed Elke hanno persino organizzato il weekend successivo alla fine dell’Exchange, con la visita al campo di sterminio nazista di Dachau o, per chi avesse preferito un’esperienza meno impegnativa, in un bellissimo castello immediatamente fuori Monaco di Baviera.
È stato un tempo incredibilmente ricco di esperienze ed emozioni.
Il gruppo si è immediatamente e spontaneamente amalgamato.
Si è passati da serate spensierate ed allegre a momenti intensi ed emozionanti, indimenticabili, come quello vissuto presso il campo di concentramento di Dachau.
Ma vi è di più, si è creata una sincera e spontanea amicizia tra tutti noi, tanto che, rientrati in Italia, abbiamo continuato a sentirci nella chat di gruppo e, un po' tristi per il distacco, ho lanciato un’idea: organizziamo i “nostri Exchange spontanei”!
Ho proposto di rivederci, ciclicamente, in ciascuna delle città di provenienza per replicare l’incredibile e formativa esperienza che avevamo appena condiviso.
E così è stato!
Abbiamo iniziato da Madrid, ospiti della collega Eva della Cera. Sono stati quattro giorni intensi e proficui, in cui il gruppo si è ancor di più coeso.
Dopo qualche mese, abbiamo organizzato l’Exchange a Milano, dove i colleghi si sono intrattenuti per un lungo weekend.
Ho organizzato loro incontri con i vertici degli Uffici Giudiziari e le Forze dell’Ordine (con una visita ad una caserma dei Carabinieri e rappresentazioni pratiche, sia degli artificieri, che dei laboratori di analisi), oltre che partecipazione a udienze penali e civili.
Ovviamente non è mancata l’organizzazione del tempo libero, con la visita al Cenacolo vinciano e una serata al Teatro alla Scala.
Ne sono stati entusiasti.
Adesso stiamo organizzando il “nostro” Exchange a Vienna, nei prossimi mesi.
Entusiasta dell’esperienza precedente, ho chiesto ed ottenuto di partecipare ad un altro Exchange, nell’ottobre 2022, questa volta in “criminalità organizzata” e “individuale” presso la Procura di Offenburg.
Memore della atmosfera amicale che si era creata nel primo Exchange, temevo di trovarmi in una situazione completamente diversa, in un ufficio di cui non sapevo assolutamente nulla e in una realtà decisamente più piccola da quella di Monaco di Baviera.
L’esperienza, invece, pur diversa, è stata incredibilmente ricca, anche qui, sia dal punto di vista professionale che umano.
Il mio Tutor, in questo caso, era il Procuratore aggiunto Rainer Hornung – Jost.
Il primo impatto è stato di elevata professionalità, per poi scoprire, anche in questa occasione, colleghi capaci anche di straordinaria umanità.
Sono stata immediatamente presentata a tutto l’Ufficio di Procura ed immersa nella loro impeccabile organizzazione.
Ho studiato fascicoli (che il collega pazientemente mi traduceva in inglese) e partecipato ad udienze.
Ho preso parte alla riunione settimanale tra Procuratore aggiunto e sostituti ed alle varie riunioni con la Polizia Giudiziaria.
Sono stata invitata a relazionare a tutti i colleghi della Procura sul sistema giudiziario italiano e ho predisposto delle slides (ovviamente sempre in inglese).
Ho constatato enorme interesse, sia per la parte relativa all’ordinamento giudiziario italiano, che alla criminalità di stampo mafioso.
Ho visitato il carcere di Offenburg accompagnata dalla direttrice.
Ovunque ho trovato elevata professionalità e grande umanità.
Desiderio di autentico confronto nella consapevolezza dell’arricchimento reciproco.
Le pause pranzo, trascorse con il Procuratore aggiunto e gli altri colleghi, rappresentavano ulteriori momenti di conoscenza e arricchimento.
Come ho detto loro nel ringraziarli e congedarmi alla fine della settimana, sono riusciti a farmi sentire parte integrante del loro ufficio.
Non era per nulla scontato e l’ho considerato un grande onore.
La partecipazione ad un Exchange consente, a mio avviso, non soltanto lo scambio di reciproche competenze ed esperienze nell’ottica, come dicevo, di un reciproco arricchimento ma rappresenta una straordinaria occasione per la costruzione di relazioni personali preziose, sia dal punto di vista professionale, che umano.
Sulla scia degli “Exchange spontanei”, infatti, nel dicembre del 2022 sono stata invitata a Monaco di Baviera dalle colleghe Tutor Elke Schultz e Petra Wagner e, in quella occasione, è stato organizzato un interessante incontro presso la Procura di Traustein, con il Procuratore ed i sostituti.
Anche in quella occasione, lo scambio è stato eccezionalmente proficuo.
E, poiché “Exchange” genera “Exchange”, a margine dell’incontro, la collega della Procura di Traustein, Anna Rein, particolarmente appassionata di criminalità di stampo mafioso, dopo avere ascoltato il mio intervento, ha chiesto di poter effettuare un Exchange presso il mio ufficio, la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano.
La collega ha così chiesto alla EJTN l’autorizzazione a venire in Italia, con un programma di lavoro concordato con me, che è stato ritenuto meritevole di approvazione.
La collega Rein ha lavorato presso la DDA Milano nell’ultima settimana di marzo 2023, inserendosi perfettamente nella organizzazione del mio ufficio e partecipando con grande entusiasmo a tutte le attività, udienze comprese.
Si è talmente appassionata alla criminalità organizzata di stampo mafioso che, tornata presso la Procura di Traustein, ha evidentemente trasferito il suo entusiasmo al Procuratore, che mi ha invitata a tenere una relazione ai colleghi sul sistema giudiziario italiano e sulle mafie italiane.
E, poiché Exchange genera Exchange … sono convinta che non sia finita qui.
*Procura Milano, DDA.
Il 6 aprile u.s. è stata pubblicata la sentenza delle sezioni unite civili n. 9479/2023, sulla quale ci siamo già brevemente intrattenuti (Primissime considerazioni su SS. UU. 6 aprile 2023 n. 9479, in questa Rivista dal 19 aprile 2023; v. anche G. Scarselli, La tutela del consumatore secondo la CGUE e le Sezioni Unite, e lo Stato di diritto secondo la civil law, in www.judicium.it dal 12 aprile 2023).
Il 4 maggio 2023 la Corte di Giustizia (nona sezione) ha pubblicato la decisione nella causa C-200/21, instaurata a seguito di rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale Superiore di Bucarest (25 febbraio 2021) avente ad oggetto la direttiva 93/13/CEE e la conseguente tutela del consumatore in un’esecuzione forzata intrapresa in forza di un contratto di mutuo che, secondo il diritto rumeno (così come nel nostro), costituisce titolo esecutivo.
Nel corso di un’espropriazione presso terzi (avente ad oggetto conti correnti presso vari istituti bancari), l’esecutato ha opposto che due clausole del contratto di mutuo erano da considerarsi abusive: per aver previsto una commissione di apertura del fascicolo relativo alla concessione del credito e una commissione mensile per il trattamento e la gestione dello stesso credito.
L’opposizione (corrispondente alla nostra opposizione all’esecuzione) è stata tuttavia rigettata in primo grado per tardività, perché il diritto rumeno non consente la proposizione di un’opposizione all’esecuzione una volta decorsi quindici giorni dai primi atti esecutivi.
Nel giudizio di appello, il Tribunale Superiore di Bucarest (la nostra Corte d’appello) ha però sollevato la questione pregiudiziale circa il contrasto tra la direttiva 93/13/CEE e il diritto nazionale rumeno appunto laddove prevede, con clausola generale, un termine di quindici giorni entro il quale il debitore può invocare, nell’ambito di un’opposizione esecutiva, il carattere abusivo di una clausola contrattuale.
La risposta della Corte è stata la seguente:
«La direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretata nel senso che:
essa osta a una disposizione di diritto nazionale che non consente al giudice dell’esecuzione, investito, scaduto il termine di quindici giorni impartito da tale disposizione, di un’opposizione all’esecuzione forzata di un contratto stipulato tra un consumatore e un professionista, che costituisce titolo esecutivo, di valutare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole di tale contratto, quando tale consumatore abbia a disposizione, peraltro, un ricorso nel merito che gli consente di chiedere al giudice investito di tale ricorso di procedere a un siffatto controllo e di ordinare la sospensione dell’esecuzione forzata fino all’esito di detto ricorso, conformemente a un’altra disposizione di tale diritto nazionale, nel caso in cui detta sospensione sia possibile solo dietro versamento di una garanzia il cui importo è tale da dissuadere il consumatore dall’introdurre e dal mantenere un siffatto ricorso, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Qualora non si possa procedere a un’interpretazione e a un’applicazione della legislazione nazionale conformi alle disposizioni di tale direttiva, il giudice nazionale investito di un’opposizione all’esecuzione forzata di un siffatto contratto ha l’obbligo di esaminare d’ufficio se le clausole di quest’ultimo presentino un carattere abusivo, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione nazionale che osti a un siffatto esame».
Proprio la diversità rispetto al caso deciso dalla SS.UU. n. 9479/2023 induce a riflettere sulla correttezza dell’articolata costruzione che la S.C., a proposito del decreto ingiuntivo non opposto, ha individuato nel nostro diritto interno per renderlo compatibile col diritto europeo. Infatti, in entrambi i casi veniva in rilievo un titolo esecutivo (decreto ingiuntivo non opposto, nel caso della SS.UU. n. 9479/2023; contratto di mutuo nel caso della sentenza europea del 4 maggio 2023) e la tutela che, rispetto ad esso, il diritto interno (rispettivamente, italiano e rumeno) poteva assicurare. In entrambi i casi, il punto di emersione della questione interpretativa era collocato all’interno del processo esecutivo, perché nel primo caso il problema era sorto in sede di opposizione agli atti proposta in sede distributiva (e qui l’opposizione ha un chiaro contenuto di merito), nel secondo caso in sede di opposizione all’esecuzione.
Il dispositivo redatto dalla Corte europea nel caso italiano non è, a ben vedere, molto diverso da quello adottato nel caso rumeno; si vuole infatti che:
«L’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa - per il motivo che l'autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità - successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come “consumatore” ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo».
Nell’un caso il titolo si presentava intangibile per un fenomeno preclusivo, apparentato al giudicato; nell’altro caso, l’opposizione era inammissibile perché proposta oltre il termine di quindici giorni a decorrere dalla notifica “dei primi atti del procedimento”.
In entrambi i casi, la Corte europea fa riferimento ai poteri spendibili nell’esecuzione o dal giudice che la dirige, o dal giudice dell’opposizione esecutiva. E a noi sembra naturale che la risposta dell’ordinamento debba essere collocata lì dove la questione emerge, se non altro per garantire la tempestività della tutela.
Sarebbe interessante conoscere il seguito che la giustizia rumena darà alla sentenza interpretativa del 4 maggio 2023; e ci sorprenderemmo molto se sarà una risposta esterna al processo esecutivo o alle opposizioni che da questo originano, potendo certo immaginarci che il contratto di mutuo, nel diritto rumeno, potrà essere oggetto di impugnative contrattuali totalmente svincolate dall’esecuzione forzata iniziata sulla base del titolo costituito da quello stesso contratto. Non ci immaginiamo, però, come il giudice chiamato a conoscere della legittimità di tale contratto potrebbe sospendere l’esecuzione in atto, come invece può fare, nel nostro caso, il giudice dell’opposizione tardiva a d.i.
Il dubbio che sorge, in altri termini, è che nel nostro caso la S.C. possa essere stata fuorviata dal fatto che il titolo costituito dal decreto ingiuntivo può essere sospeso sia dal giudice dell’opposizione tardiva, sia dal giudice dell’opposizione a precetto (ovviamente, per diverse ragioni) e che, dal canto suo, il giudice dell’esecuzione può sospendere il processo esecutivo ove venga proposta un’opposizione.
Ci sembra inoltre ragionevole che la tutela accordata al consumatore in applicazione della direttiva 93/13/CEE non possa essere diversa a seconda della natura del titolo che venga in considerazione: perché il caso rumeno potrebbe porsi in futuro anche nel nostro ordinamento, e in tal ipotesi la soluzione (peraltro non semplice, né lineare) indicata dalle SS.UU. non potrebbe essere duplicata.
1. Nel dibattito recentemente riapertosi sulla cd. prevenzione antimafia, intesa ai fini che qui interessano quale complesso di regole che disciplinano la apprensione dei beni appartenenti ai mafiosi, occorre ricordare un dato ineludibile ossia quello della “centralità” del sistema di prevenzione patrimoniale rispetto al fenomeno mafioso.
Introdotte per la prima volta trent’anni fa con la legge Rognoni La Torre del 1982 il ricorso alle misure patrimoniali ablatorie ha assestato un duro colpo alle consorterie criminali e ciò sulla base di un dato incontrovertibile secondo il quale sottrarre ai gruppi mafiosi patrimoni vuole dire prima di tutto privarli di potere e capacità di condizionamento dei territori .
Viene spesso ribadito da autorevoli esponenti delle istituzioni come sia essenziale che la azione di sottrazione dei beni alla mafia sia costante e sia continua.
E, quindi, il primo elemento da evidenziare è quello della centralità del sistema delle misure di prevenzione rispetto alla esigenza statuale di assicurare forme di contrasto alla espansione criminale delle mafie che ha assunto sempre più una dimensione imprenditoriale.
È noto, infatti, che i gruppi criminali hanno assunto carattere economico patrimoniale rivelando i connotati di vere e proprie multinazionali del crimine capaci di operare nel mercato legale insieme alle realtà sane nelle quali peraltro tendono a mimetizzarsi ed infiltrarsi.
Nell’ultimo rapporto della DIA per il periodo gennaio- giugno 2022 viene precisato che i gruppi camorristici del casertano – ancor più di quelli del napoletano - sono in grado di esercitare un “capillare controllo dell’economia legale tramite una partecipazione financo diretta in aziende, imprese e attività commerciali sino ad occupare intere filiere produttive” avendo una propensione ad un “modello criminale di tipo imprenditoriale” e la correlata capacità di infiltrarsi nel tessuto economico della provincia.
È quindi necessario che la centralità del sistema della prevenzione venga ribadita da tutti coloro che cooperano nello specifico settore di competenza ed in particolare da chi se ne occupa nella prima fase del procedimento di ablazione patrimoniale ossia in quella giudiziaria.
2. La magistratura incontra, tuttavia, enormi difficoltà nel suo lavoro di selezione dei beni da sequestrare e confiscare anche in ragione di una normativa che da un lato è ancora lacunosa e dall’altro, essendo fondata su presupposti diversi da quelli propri del processo penale, è soggetta a continui interventi sia del giudice della legittimità che del giudice costituzionale e ciò crea a volte un rallentamento della azione di prevenzione affidata alla magistratura .
Anche perché è ancora massicciamente presente l’idea che la intera legislazione antimafia sia una legislazione del sospetto che si nutre di pulsioni giustizialiste secondo una rappresentazione non più attuale e che non tiene conto delle profonde modifiche apportate alla interpretazione della legislazione antimafia dal sindacato di costituzionalità e dalla evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
Pur tuttavia questa visione della prevenzione rischia di mettere in crisi un intero sistema rendendolo più fragile e più esposto alle valutazioni critiche provenienti non solo dalla componente forense, in ragione della legittima tutela dei diritti di difesa che si sostengono non completamente esercitabili in detta sede, ma anche da una opinione pubblica condizionata da poche e limitate vicende rappresentative di isolati comportamenti pregiudizievoli.
Importanti sentenze della Corte Costituzionale, prima fra tutte la n. 24 del 2019, hanno “nobilitato” le misure di prevenzione ed hanno ragionato a chiare lettere sul presupposto giustificativo della confisca di prevenzione individuandolo nella “ragionevole presunzione che il bene si stato acquisito con i proventi di attività illecita”; presunzione (relativa) fondata sul riscontro della sproporzione tra bene e reddito o attività economiche del soggetto titolare dei beni - sproporzione che denota una accumulazione di illecita ricchezza che talune categorie di reati sono idonee a produrre (cosi la sentenza n. 33 del 2018 sulla confisca allargata).
È la Corte Costituzionale nel 2018 a scrivere che rispetto al fenomeno dell’accumulazione di ricchezza illecita da parte della criminalità organizzata, che è un fenomeno particolarmente allarmante “a fronte del possibile reimpiego delle risorse per il finanziamento di ulteriori attività illecite ovvero del loro investimento nel sistema economico legale, con effetti distorsivi del funzionamento del mercato”, e che quindi deve essere contrastato, la confisca tradizionale appare inidonea nella parte in cui occorre dimostrare un nesso di pertinenza tra i beni da confiscare ed il singolo reato per cui è pronunziata condanna.
Sono le SS.UU. della Corte di Cassazione nel 2015 (sent. 4880/2015) a chiarire che nei casi della illecita accumulazione di beni esisterebbe un vizio genetico nella costituzione del diritto di proprietà in capo a chi ne ha acquisito la materiale disponibilità “risultando sin troppo ovvio - scrivono - che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico”. Conseguentemente la confisca non ha una funzione punitiva quanto piuttosto la funzione di “neutralizzare quell’arricchimento di cui il soggetto non potrebbe godere se non fosse stata compiuta la attività criminosa presupposta”.
E quindi la ablazione patrimoniale ha “finalità ripristinatoria” (e non afflittiva) e quindi serve a restituire il bene - sottratto al circuito criminale - o al precedente titolare che ne fosse spogliato o in mancanza alla collettività che a questo punto lo riceve per perseguire finalità di pubblico interesse.
3. La complessità del sistema della prevenzione antimafia rivela, piuttosto, la sua effettività nella seconda fase del procedimento cd bifasico della prevenzione relativo alla gestione ed amministrazione dei beni .
Qui esistono indubbie debolezze di sistema che dovrebbero convincerci tutti della necessità:
- di rivedere la parte relativa alle amministrazioni giudiziarie lasciate alla capacità ed alla onestà intellettuale del singolo magistrato
- di ridiscutere una volta per tutte i poteri oltre che l’organico della ANBSC
- di delineare i compiti di ausilio di quest’ultimo organo che solo raramente vengono esercitati e che, invece, dovrebbero costituire un punto fondamentale nella gestione dei beni e delle aziende a partire dal sequestro.
È inutile ripetere che la destinazione dei beni a fini di riuso è difficile perché i beni restano per anni abbandonati, perché le procedure sono lunghe e perché si impiegano anni per confiscare, perché le aziende non sono amministrate correttamente e cosi via se non si comprende che il procedimento di prevenzione è procedimento giurisdizionale e quindi soggetto a tre gradi di giudizio e che il momento cruciale di ogni procedura deve essere individuato nella fase del sequestro.
È in questo momento che devono essere impiegate le energie di tutti gli operatori per avviare una costruzione che sia fondata su pilastri adeguati in modo da poter reggere nel futuro.
È intuitivo che le scelte di gestione adottate nella fase del sequestro (si pensi alle scelte gestionali che attengono alla gestione per conto di chi spetta: esecuzione di contratti preliminari di compravendita, pagamento di condoni edilizi, pagamento delle spese di manutenzione degli immobili che non sono concessi in locazione; pagamento delle rate di mutuo, revisione delle organizzazioni aziendali ) incidono e possono segnare l’utilizzo e la futura destinazione dell’intero compendio appreso.
Dovremmo cercare di trovare, allora, delle soluzioni normative che anticipino al momento del sequestro, che spostino a monte e non a valle, la presenza nella procedura di prevenzione degli organi preposti alle valutazioni finalizzate alla assegnazione del bene oltre ad individuare meccanismi di compensazione nella ipotesi di restituzione del bene nel corso della procedura: soluzioni normative che consentano di “convalidare” il lavoro svolto dalla magistratura con il decreto di sequestro dei beni inaudita altera parte in vista di una ‘assegnazione del bene anticipata’ rispetto al provvedimento di confisca così da rendere più agevole il percorso affidato in buona sostanza al giudice delegato della procedura.
Questa esigenza è particolarmente avvertita dai giudici della prevenzione e devo dire che in molti uffici giudiziari, tra i quali si annovera il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, si è cercato di porre rimedio a questa situazione con la stesura di un documento d’intesa che ha la finalità di mettere attorno ad un tavolo le istituzioni che sono deputate al vaglio delle scelte di destinazione del bene.
Il Protocollo siglato nel settembre del 2021 tra il Tribunale di SMCV, la Prefettura di Caserta e la ANBSC, oltre l’ABI e la Regione Campania, si pone l’obiettivo di prevedere meccanismi d’intervento che servano a gestire concretamente e senza perdite di valore determinate da mala gestio, sin dalla fase del sequestro, i beni immobili oggetto di ablazione, anche al fine di incrementarne, se possibile, la redditività e per agevolarne l’eventuale successiva devoluzione allo Stato o agli altri Enti previsti dalla legge, liberi da oneri e da pesi.
In quest’ottica, considerando che le aziende sequestrate normalmente subiscono un rapido processo di deterioramento della situazione finanziaria ed economica con effetti negativi anche sotto il profilo occupazionale, si pone l’obiettivo di recuperare, fin dal momento della esecuzione del sequestro, le competenze professionali, lavorative e di consulenza da coinvolgere nella gestione del patrimonio acquisito alla procedura, con il duplice obiettivo di salvaguardare, ove possibile, l’unità aziendale e l’occupazione, anche attraverso la creazione di una nuova imprenditorialità caratterizzata da creatività, legalità e sviluppo, e ciò anche nella prospettiva di una proposta finale in merito alla destinazione del bene confiscato.
L’iniziativa è volta, dunque, a consentire la continuità delle attività delle imprese, operanti nel territorio locale, sottoposte a sequestro, secondo i canoni della legalità, tramite una rapida assegnazione, anche temporanea, del bene sin dalla fase del sequestro avvalendosi in primis della collaborazione della Agenzia che, come si legge nel Documento, “interviene nel procedimento funzionale all’acquisizione al patrimonio dello Stato dei beni sottratti alla criminalità svolgendo, nella fase c.d. “giudiziaria”, attività di programmazione, consulenza e affiancamento all’Autorità Giudiziaria nell’amministrazione e custodia dei beni nonché attività di acquisizione e analisi dei dati e verifica dello stato dei beni mentre, nella fase c.d. “amministrativa”, è responsabile della gestione operativa dei beni confiscati, nonché dell’adozione di iniziative e provvedimenti necessari per la tempestiva destinazione dei beni “ e si impegna a:
- partecipare al tavolo istituito dal protocollo attraverso un proprio rappresentante che verrà individuato dal Direttore;
- condividere con i firmatari le informazioni ritenute necessarie a giungere a destinazione dei beni confiscati rispettando le procedure e le tempistiche dettate dalla normativa con l’obiettivo di restituire alla comunità i beni confiscati in condizioni ottimali per il riutilizzo e, nel caso di beni aziendali, salvaguardando i livelli occupazionali;
- fornire supporto all’amministrazione dei beni sequestrati di particolare rilevanza o complessità “
L’art. 40 del codice antimafia consente espressamente al comma 3-ter la concessione anticipata dei beni immobili per finalità sociali. La norma è di particolare rilievo: introdotta nel 2017 unitamente ad altri istituti con valenza riformatrice ed integratrice (tra i quali non va dimenticato l’istituto del cd. controllo giudiziario di cui all’art. 34 bis), prevede espressamente la possibilità di concedere in comodato i beni immobili sequestrati ai soggetti di cui all’art. 48 ossia agli enti territoriali perché ne facciano uso per finalità sociale finchè non intervenga il provvedimento definitivo di confisca .
Essa mira, dunque, alla anticipazione degli effetti di maggiore valore sociale propri della ablazione patrimoniale ma richiede allo stato una valutazione empirica del giudice della prevenzione che potrebbe esporlo a rischi di gestione.
La strada intrapresa con questa norma e con i tanti Protocolli degli Uffici giudiziari più avveduti andrebbe allora proseguita con nuove interpolazioni normative ed in tempi rapidi per assicurare un funzionamento reale del sistema della prevenzione che, non dimentichiamoci, assolve ad una funzione regolatrice del tessuto sociale e disvelatrice degli interessi economici che di esso si alimentano per trarne strumenti di ricchezza e di espansione speculativa.
Non vi sono altre strade per uscire dalla retorica di una critica generalizzata e poco accorta.
*Presidente del Tribunale di S.M.C.V.
Sommario: 1. Premessa. – 2. La disciplina delle sopravvenienze: un problema generale di adeguatezza? – 3. Segue: le sopravvenienze atipiche (o non codificate). – 4. Il contratto di locazione ad uso commerciale. – 5. Il contratto di locazione a uso abitativo. – 6. L’affitto di azienda. – 7. La locazione finanziaria (o leasing).
1. Premessa.
Lo stato di emergenza[1] in cui versava l’Italia, derivante dalla diffusione del Covid-19, ha imposto una revisione transeunte del contemperamento tra i diritti dei singoli e l’interesse della collettività. Accanto alla crisi sanitaria e a quella economica, si è manifestata anche una crisi giuridica, determinata dall’enorme mole di previsioni legislative prodotte durante il periodo emergenziale e dal difficile contemperamento delle stesse con il sistema normativo vigente. In particolare, la pandemia ha alimentato la discussione giuridica su numerosi istituti del diritto civile e sulla tenuta stessa del diritto delle obbligazioni e dei contratti.
Il suddetto dibattito ha ad oggetto, da un lato, l’adeguatezza del sistema rimediale delle sopravvenienze rispetto ai rapporti negoziali pregiudicati e, dall’altro, l’impatto dell’emergenza sanitaria e delle misure di contenimento adottate dal governo sui contratti in corso di esecuzione.
2. La disciplina delle sopravvenienze: un problema generale di adeguatezza?
Occorre osservare come le sopravvenienze tipiche, ossia l’impossibilità sopravvenuta della prestazione e l’eccessiva onerosità, non abbiano potuto dispiegare particolare utilità rispetto alle contingenze richieste a causa del virus.
Per quanto concerne l’impossibilità sopravvenuta poiché il pagamento del canone di locazione costituisce un’obbligazione pecuniaria, in virtù del principio genus numquam perit, essa non appare suscettibile di estinzione per impossibilità sopravvenuta, non essendo l’oggetto di simile impegno obbligatorio naturalmente esposto a rischi di materiale perimento o di indisponibilità giuridica. In conseguenza di ciò, secondo la Relazione tematica della Corte di Cassazione n. 56 dell’8 luglio 2020, l’operatività che un simile strumento può dispiegare rispetto alle contingenze discendenti da una pandemia non possono che essere circoscritte, da un lato, alla disciplina dell’impossibilità parziale, in ragione del pagamento ridotto del canone e, dall’altro, alla regolamentazione di quella temporanea, connessa all'osservanza delle prescrizioni “anti-Covid”.
Per quanto riguarda l’eccessiva onerosità una parte degli interpreti sostiene l’inidoneità dell’istituto in questione per risolvere la crisi dovuta al coronavirus, perché trascurerebbe l’ipotesi in cui il contraente in difficoltà ha interesse non a sciogliersi dal vincolo contrattuale, bensì a mantenere in vita il rapporto. Il ricorso a questo rimedio è stato criticato dalla giurisprudenza, secondo la quale la prestazione, ossia la corresponsione del canone di locazione, è sempre possibile. Infatti, richiedere la riduzione del canone significherebbe invocare motivi riguardanti il reddito di impresa, che fanno parte dell’ordinario rischio dell’imprenditore, che dovrebbe rimanere a carico del conduttore.
Ancora, parte della letteratura afferma, invece, che la pandemia darebbe luogo sia a un’impossibilità sopravvenuta sia a un’eccessiva onerosità. Infatti, l’alterazione del sinallagma, dovuta alle misure di contenimento, può riguardare sia l’onerosità della prestazione di una delle parti, sia appartenere all’impossibilita totale o parziale che interessa la prestazione cui sarebbe tenuto uno dei contraenti.
3. Segue: le sopravvenienze atipiche (o non codificate).
Parte della dottrina riconduce tra le sopravvenienze atipiche anche la pandemia da Covid-19, e sostiene che, in riferimento ai contratti di locazione, potrebbe essere invocato l’istituto della presupposizione. Infatti, con il venir meno della difficoltà nel fornire la prova di un fatto implicitamente considerato dalle parti, l’applicazione della presupposizione sembrerebbe ammissibile, anche se si ritiene che l’interprete finirebbe per scegliere alternativamente tra la risoluzione per eccessiva onerosità e quella per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Secondo altra parte della dottrina, non potrebbe essere ipotizzato anche uno spazio applicativo per la presupposizione, in quanto quest’ultima, invece di mirare alla conservazione del contratto, è volta alla cancellazione del vincolo negoziale.
4. Il contratto di locazione ad uso commerciale.
Contrariamente a quanto è avvenuto in ordinamenti giuridici stranieri[2], in Italia non sono stati emanati provvedimenti legislativi specifici per risolvere il problema relativo all’impatto delle misure di contenimento sulle locazioni commerciali. Infatti, sono state introdotte alcune agevolazioni tributarie di portata generale, sotto forma di crediti d’imposta. Dunque, non è stato previsto la sospensione del canone, tanto è vero che il credito è riconosciuto solo a séguito del pagamento del corrispettivo.
La dottrina prevalente ha messo in risalto come la legislazione emergenziale[3] non autorizzi il conduttore di un immobile commerciale, la cui attività risulti sospesa dai provvedimenti governativi, a non pagare o a sospendere ovvero ridurre/rinegoziare il pagamento del canone di locazione. La legittimità della sospensione totale o parziale del canone sarebbe possibile solamente qualora venga a mancare la controprestazione del locatore. Infatti, una riduzione autonoma del corrispettivo periodico costituirebbe un’alterazione del sinallagma contrattuale, con conseguente squilibrio delle prestazioni.
La giurisprudenza ha affrontato molte domande della parte locataria di sospensione ovvero di revisione del canone locatizio. A questo proposito, peculiare importanza riveste l’ordinanza emessa dal Tribunale di Roma il 29 maggio 2020, che si è occupata della riduzione del canone di un esercizio commerciale a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia. L’impossibilità era considerata, da un lato, parziale, in quanto il negozio non serviva più come spazio di vendita, ma restava utilizzabile come magazzino per le merci del rivenditore, e, dall’altro, temporanea, siccome l’attività commerciale avrebbe ripreso il suo corso dopo i mesi del lockdown.
I giudici hanno dato peso alla violazione dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto di locazione, stabilendo che tale violazione impone una riduzione del canone in ragione della pandemia.
Alcuni autori sostengono che il coronavirus sarebbe un evento di forza maggiore che incombe su entrambe le parti del contratto di locazione. Tuttavia, la giurisprudenza di merito afferma che il rispetto delle misure pandemiche costituisce solamente una causa astratta di forza maggiore, da valutare in concreto.
Parte della letteratura ipotizza l’esperibilità del diritto di recesso per gravi motivi ex art. 27, ultimo comma, della legge sull’equo canone. A tal fine, il conduttore dovrebbe dimostrare che la sua crisi finanziaria, derivante dal rispetto delle misure di contenimento, sia di una gravità tale da rendere pregiudizievole la persistenza del rapporto locativo. Tuttavia, si tratta di una misura che comporterebbe la caducazione del vincolo contrattuale e non esimerebbe il conduttore dall’obbligo di versare il canone per la parte del rapporto ormai esaurita.
Alla luce di quanto detto, sembra ragionevole ritenere che il legislatore non abbia predisposto, come è accaduto per gli altri tipi di locazione, una disciplina apposita in grado di contrastare la crisi economica derivata dal Covid-19.
5. Il contratto di locazione a uso abitativo.
La disciplina emergenziale ha provveduto, a partire dal decreto «cura Italia», a una sospensione di tutti i provvedimenti di rilascio degli immobili (a uso abitativo e non). Inoltre, il decreto, all’art. 65, comma 2-ter, ha previsto per il Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione 60 milioni di euro, e ha destinato 9.5 milioni di euro al Fondo per gli inquilini morosi incolpevoli. Secondo la dottrina, si tratta di misure che si sommano alla sospensione degli sfratti, e che sostengono quella fascia di popolazione che non riesce a pagare i canoni alle condizioni di mercato, né ha i mezzi per l’acquisto di un’abitazione.
In ragione del protrarsi degli effetti economici negativi della pandemia, il legislatore dell’emergenza ha previsto ulteriori 140 milioni di euro per l’anno 2020 da destinare al Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione con l’art. 29, d.l. n. 34/2020. Nell’ottica di incentivare la revisione dell’originario canone di locazione attraverso una rinegoziazione volontaria, il legislatore ha stabilito, nelle città ad alta intensità abitativa, la possibilità per i locatori di ridurre spontaneamente il canone di locazione della prima casa. Si tratta dell’art. 9-quater, d.l. n. 137/2020 (c.d. decreto «ristori unificato»), che ha previsto la possibilità per i locatori di ricevere il 50% della revisione del canone fino a un importo massimo di 1.200 euro annui, se il contratto non è sottoposto al regime di tassazione della “cedolare secca”. Questo «rimborso» da parte dello Stato è possibile grazie all’istituzione di un fondo ad hoc di 50 milioni di euro per l’anno 2021.
Dalle suesposte considerazioni si evince che il conduttore non può, di sua spontanea iniziativa, interrompere il pagamento del canone ovvero corrispondere un importo inferiore rispetto a quello stabilito nel contratto di locazione. Vi è, però, la possibilità, per il locatore e il conduttore, di stipulare un accordo sulla revisione o sospensione del canone. Questo accordo può essere concluso per le locazioni di immobili a uso sia abitativo sia commerciale.
Una volta redatto e sottoscritto, l’accordo deve essere registrato all’Agenzia delle Entrate, la quale ha predisposto un apposito modello (c.d. «modello 69»), attraverso il quale le parti possono chiedere la registrazione dell’atto entro 60 giorni dal raggiungimento del patto stesso. L’accordo in discorso è vantaggioso per entrambi i contraenti.
La pandemia ha occasionato una vera e propria legislazione transitoria di emergenza. Per quanto concerne i provvedimenti governativi, sembra ragionevole condividere l’opinione di quella parte della dottrina che osserva come l’attenzione del legislatore si sia concentrata maggiormente sul sottotipo non abitativo, che, in effetti, risulta essere quello più colpito. In rifermento a quest’ultimo aspetto, la dottrina analizza gli effetti della disciplina emergenziale in termini di lungo periodo, considerando sia la prospettiva macroeconomica che quella microeconomica, interrogandosi sui rimedi offerti dalla disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti, ovvero se sia necessario un intervento di tipo pubblicistico. Nondimeno, va evidenziato come il legislatore emergenziale abbia predisposto misure più specifiche per il sottotipo abitativo rispetto alla locazione commerciale.
7. L’affitto di azienda.
La pandemia da Covid-19 ha inevitabilmente prodotto effetti negativi anche sull’azienda e i relativi contratti di affitto. La sospensione delle attività commerciali, dovuta ai provvedimenti emergenziali, ha generato una crisi di liquidità delle aziende, che si sono trovate a dover corrispondere comunque i canoni previsti dai contratti sottoscritti, senza poter materialmente beneficiare della controprestazione cui avevano diritto, ossia del godimento dei beni affittati.
Per quanto concerne la disciplina emergenziale, occorre notare che le regole previste per la locazione commerciale possono trovare applicazione anche rispetto al contratto di affitto di azienda. In proposito, assume rilevanza la già citata decisione del Tribunale di Roma del 29 maggio 2020, che ha sottolineato come la normativa emanata per contrastare la diffusione del virus non offra all’affittuario la possibilità di sospendere il pagamento del canone di affitto. Il giudice romano ha posto l’accento sull’assenza di una precisa disciplina che consentisse la sospensione del canone. In particolare, il Tribunale, considerando la clausola di esecuzione del contratto secondo buona fede ex art. 1375 c.c. e il comportamento secondo correttezza di cui all’art. 1175 c.c. quali meri obblighi di collaborazione tra le parti, ha messo in luce come essi non potrebbero incidere direttamente sulle obbligazioni principali del contratto, «a partire dai tempi e dalla misura di corresponsione del canone». Questa posizione è stata ribadita dal medesimo Tribunale con una decisione del 25 luglio 2020, che ha rigettato il ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso dall’affittuario attribuendo uno sconto del canone pari al 70%. Il giudice capitolino ha sostenuto che i provvedimenti emanati per effetto della diffusione del virus costituissero ipotesi di impossibilità parziale e temporanea della prestazione dell’affittante, ai sensi degli artt. 1256 e 1464 c.c.
In senso opposto sono le pronunce del Tribunale di Torre Annunziata del 22 luglio 2021 e del 10 aprile 2022 in tema di contratto di affitto di ramo di azienda. La prima pronuncia ha ritenuto la parte conduttrice legittimata ad ottenere una riduzione in via cautelare dei canoni previsti dal contratto, mentre la seconda ha ammesso il ricorso alla buona fede esecutiva di cui all’art. 1375 c.c. e al principio di solidarietà ex art. 2 Cost.
Il caso da ultimo accennato riguardava una società alberghiera conduttrice di un ramo d’azienda, che si era rivolta all’autorità giudiziaria per ottenere una pronuncia che dichiarasse non dovuto il canone per vari periodi, intercorrenti tra il 2020 e il 2022. L’affittuario ha fatto valere l’incidenza negativa dell'emergenza sanitaria sui ricavi della società e l’impossibilità di pagare ulteriori canoni senza ricorre a misure di finanziamento.
Il Tribunale ha accolto l’istanza del locatario con decreto pronunciato inaudita altera parte; tale decreto è stato revocato a séguito dell’impugnazione dell’affittante, a cui ha fatto seguito reclamo ex art. 669-terdecies del conduttore. Successivamente, l'attore ha spiegato nuovo ricorso ex art. 700 c.p.c. allo scopo di ottenere la sospensione di altri canoni inerenti all’anno 2022.
La pronuncia del 22 luglio 2021 si caratterizza per essere particolarmente attenta alle esigenze del conduttore. Tuttavia, il modus operandi delle due ordinanze considerate è diverso, in quanto, nel primo provvedimento viene privilegiata una lettura estensiva di una clausola contrattuale prevista per il caso della sopravvenuta inutilizzabilità del centro sportivo oggetto di affitto, mentre, nel secondo caso, si fa riferimento all’art. 1375 c.c. come strumento generale di riequilibrio del sinallagma.
8. La locazione finanziaria (o leasing).
A séguito dell’emergenza sanitaria, inizialmente, molti istituti di credito hanno proposto ai propri clienti le moratorie ABI, attraverso le quali è possibile posticipare, e quindi sospendere, i pagamenti delle rate di leasing fino a un anno. L’eventuale accordo tra banche e correntisti, destinato ai finanziamenti di micro, piccole e medie imprese danneggiate dall’emergenza Covid-19, è applicabile ai prestiti concessi fino al 31 gennaio 2020.
L’art. 56 del decreto «cura Italia» contempla la possibilità, per le imprese, di fruire di una sospensione fino a sei mesi di tutte le rate di leasing, mutui e finanziamenti. La norma considerata prevede anche la possibilità, per imprese e professionisti, di beneficiare del divieto di revoca, proroga e sospensione del canone del leasing.
Per accedere alla moratoria, l’imprenditore deve effettuare una comunicazione all’istituto di credito, consistente in un’autodichiarazione che evidenzi una temporanea carenza di liquidità causata dalla pandemia. Tale dichiarazione comporta anche l’ammissione automatica alla speciale forma di garanzia pubblica costituita dal Fondo di garanzia per le PMI, istituito con l’art. 2, comma 100, lett. a), l. n. 662/1996, incrementato grazie al decreto «liquidità».
L’art. 57, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ha disciplinato una «garanzia della liquidità», nella parte in cui prevede che le banche, attraverso il supporto della Cassa Depositi e Prestiti S.p.A., potranno erogare più agevolmente finanziamenti alle imprese colpite dalla pandemia.
Sembra opportuno segnalare il credito di imposta ex art. 28 del decreto «rilancio», che prevede un’agevolazione finanziaria anche per i canoni leasing. Tuttavia, stando all’interpretazione contenuta nella circolare n. 14/E del 2020 dell’Agenzia delle Entrate, il credito d’imposta non sarebbe applicabile ai canoni di locazione finanziaria pagati dagli utilizzatori.
Parte della dottrina sostiene che non sarebbe da escludere la soluzione del Tribunale di Roma resa con ordinanza nel 27 agosto 2020, riguardante la riduzione del canone di un contratto di locazione. Secondo tale filone di pensiero, essendo il leasing (finanziario) equiparabile alla locazione, nonostante l’avvenuta tipizzazione normativa ad opera della l. n. 124/2017, la soluzione del giudice capitolino potrebbe essere applicata anche alla locazione finanziaria. In particolare, nella stessa ottica si potrebbe prospettare, in virtù dell’obbligo di buona fede e del principio di solidarietà, la riduzione del corrispettivo periodico dovuto e la sospensione di un’eventuale garanzia fideiussoria.
Il legislatore dell’emergenza, dunque, seppure in modo scarno, ha previsto una disciplina ad hoc rispetto al contratto di locazione commerciale.
[1] Lo stato di emergenza epidemiologica da Covid-19 è stato dichiarato con delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020 fino al 31 luglio 2020. Con successive previsioni normative, lo stato di emergenza è stato prorogato fino al 31 marzo 2022.
[2] In Germania si prevede la sospensione dell’adempimento, se la microimpresa non sia in grado di eseguire la prestazione. Tuttavia, il debitore non può invocare il diritto di sospendere l’esecuzione, qualora la sospensione sia rischiosa per il creditore o per l’esercizio dell’attività di impresa. Nel caso di locazione di immobili ad uso abitativo, il mancato pagamento del canone, che resta dovuto, non costituisce una causa di risoluzione del contratto per inadempimento.
La Spagna ha disposto una moratoria, relativamente al pagamento del canone, per tutti i contratti stipulati con società o enti di edilizia residenziale, mentre per le locazioni abitative si è previsto una dilazione della scadenza del contratto e per i proprietari dotati di un’apprezzabile solidità economica, è stata stabilita una riduzione del 50% del canone, ovvero una dilazione del pagamento dell’importo originario, secondo un piano di rateizzazione triennale.
La Francia nulla ha disposto in tema di locazione commerciale, mentre per le locazioni abitative ha dettato uno statuto di significativo presidio per i conduttori, precludendo l’applicazione di sanzioni pecuniarie e interessi di mora, oltreché l’escussione di garanzie rilasciate per il mancato pagamento dei canoni
Per quanto concerne i contratti di locazione di immobili a uso sia abitativo sia commerciale, nel Regno Unito i conduttori devono continuare a pagare il canone di locazione e rispettare il loro contratto di locazione.
[3] Si allude agli artt. 65 e 91 del decreto «cura Italia».
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.