ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il contributo si inserisce nell'approfondimento del tema Accesso in magistratura, precedenti contributi Accesso alla magistratura - 1. Pensieri sparsi sul concorso in magistratura di Giacomo Fumu, Riflessioni sul concorso in magistratura di Mario Cigna, Il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 di Ernesto Aghina, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca di Cristiano Valle, Percorsi di accesso alla magistratura in Ungheria di Anna Madarasi, sotto la voce della rivista Ordinamento giudiziario.
In un momento in cui la magistratura francese è in piena riflessione su sé stessa e sulle difficili condizioni di lavoro, è utile fare qualche riflessione sulla composizione e le modalità di accesso alla stessa.
Lo scopo del legislatore francese è stato quello di assicurare, nei limiti del possibile e in modo sempre più accentuato, la diversificazione dell’accesso al corpo della magistratura.
La regolamentazione dell’accesso alla magistratura francese si rinviene, oltre che nelle basi costituzionali, nell’ordonnance n° 58-1270 del 22 dicembre 1958 costituente legge organica relativa allo statuto della magistratura (di seguito, l’ordonnance)[1].
Occorre innanzitutto distinguere le modalità di accesso a seconda del fatto che permettano di integrare la magistratura in qualità di uditore giudiziario[2] (I) o direttamente in qualità di magistrato (III). Sussiste peraltro un’ulteriore voie latérale: il concours complémentaire (II)[3].
I. L’accesso in qualità di uditore giudiziario
Le modalità per diventare uditore giudiziario, e cosi beneficiare della formazione completa dell’Ecole Nationale de la Magistrature, sono duplici: (1) i concorsi; (2) l’accesso sulla base dei titoli di studio[4], detta anche voie latérale. Queste due modalità, che sono a loro volta suddivisibili in funzione dei candidati che possono accedere, permettono di effettuare un periodo di formazione di 31 mesi.
1.1. La selezione
Sussistono quattro modalità di accesso che permettono di effettuare la formazione completa all’ENM.
A. Il primo concorso
Il primo concorso è destinato principalmente agli studenti con poca esperienza professionale. I candidati a questo concorso devono:
(a) avere massimo 31 anni;
(b) essere di nazionalità francese;
(c) essere titolari di un diploma di studi giuridici di almeno quattro anni;
(d) beneficiare dei diritti civici ed essere di “buona moralità”;
(e) trovarsi in posizione regolare con il servizio civico nazionale;
(f) essere di sana e robusta costituzione[5].
Questi candidati superano un concorso pubblico, composto da una fase scritta e una fase orale.
Si tratta della parte più importante degli uditori giudiziari, in quanto costituiscono i candidati più numerosi. Sotto una tabella riprende i dati relativi agli uditori giudiziari delle ultime promozioni che hanno superato questo concorso.
B. Il secondo concorso
Il secondo concorso è destinato agli impiegati pubblici che dispongono di almeno quattro anni di qualsiasi esperienza (ovviamente nel settore pubblico) al 1° gennaio dell’anno in cui il concorso è superato[6]. Il limite di età per tentare questo accesso è fissato a 48 anni e 5 mesi.
C. Il terzo concorso
Il terzo concorso è destinato a coloro che possono giustificare almeno otto anni di esperienza di attività professionale nel settore privato, di mandato elettivo o di funzioni giurisdizionali[7]. Il limite di età per tentare questo accesso è fissato a 40 anni.
D. L’accesso sulla base dell’articolo 18-1 dell’ordonnance
Si tratta di un accesso all’uditorato sulla base dei titoli di studio. E’ destinato a coloro che dispongono di almeno quattro anni di esperienza professionale e che:
(a) rispettano le condizioni previste per i candidati al primo concorso;
(b) dispongono di un titolo di un titolo di studi giuridici di almeno quattro anni;
(c) hanno sostenuto con successo una tesi di dottorato e che hanno quattro anni di esperienza professionale o che hanno tre anni di esperienza in qualità di assistente giudiziario o che hanno esercitato delle funzioni di insegnamento per almeno tre anni[8].
In tal caso, sebbene non sussista un vero e proprio concorso, i candidati devono sostenere un minimo di tre ed un massimo di cinque colloqui di cui uno con i magistrati della Commission d'Avancement.
Gli uditori giudiziari selezionati sulla base di tale accesso su titoli non possono essere superiori, in numero, ad un terzo di quelli selezionati sulla base dei tre concorsi summenzionati.
Per visualizzare meglio come sono composte le diverse “promotions” negli anni, in funzione della diversità del modo di accesso, si possono rinvenire sotto i dati statistici degli ultimi anni:
1.1.2. La formazione di 31 mesi
Attualmente, il governo e la stessa scuola della magistratura stanno modificando le sequenze della formazione. Tuttavia, ad oggi, la formazione assicurata dall’Ecole Nationale de la Magistratura è composta come segue[9]:
- 8 mesi di formazione generica all’ENM sita a Bordeaux: gli insegnamenti, principalmente di natura pratica, sono attualmente dispensati da magistrati, avvocati, cancellieri e/o funzionari in funzione dell’apporto desiderato;
- 1 settimana di immersione in un tribunale;
- 1 settimana di tirocinio presso un servizio di polizia;
- 1 settimana di tirocinio presso un servizio di gendarmeria;
- 12 settimane di tirocinio presso un avvocato;
- 32 settimane di formazione generica;
- 2 settimane di tirocinio presso un centro penitenziario;
- 38 settimane di tirocinio generico presso un tribunale;
- 3 settimane di tirocinio presso partner giudiziari (ufficiali giudiziari, servizi di reinserzione e accompagnamento criminalità giovanile);
- 7 settimane di tirocinio pressi enti non-giudiziari e/o presso istituzioni internazionali o istituzioni giudiziarie estere;
- 1 settimana per garduatoria e scelta della prima sede;
- 4 settimane di formazione specifica;
- 1 settimana di tirocinio presso una Corte di appello;
- 11 settimane di tirocinio specifico.
Durante questa formazione gli uditori giudiziari sono sottoposti a delle valutazioni:
- le prove che sanciscono il termine della formazione generica (previste nel mese di febbraio N+1): una prova di diritto penale, una prova di diritto civile e una prova di inglese[10];
- le prove pratiche (gennaio-marzo N+2): la tenuta di un’udienza penale, la tenuta di un’udienza civile e la tenuta di requisitorie orali in qualità di pubblico ministero;
- le prove che sanciscono il termine del tirocinio generico (gennaio N+2): la redazione di una sentenza civile, la redazione di requisitorie scritte e una prova orale di deontologia e attualità giuridica.
Per interesse comparativo con il sistema italiano, è possibile fare due osservazioni.
La graduatoria in base alla quale gli uditori giudiziari francesi scelgono la loro prima sede è unica per tutte le modalità di accesso ed è determinata dalle votazioni ottenute alle sei prove su menzionate. In effetti, a differenza del sistema italiano, la graduatoria di “entrata” non ha alcun valore per la graduatoria di ‘uscita”, essendo la stessa determinata esclusivamente dalle valutazioni espresse durante tutto il tirocinio.
Inoltre, al termine della formazione presso l’ENM, vi è la possibilità per la commissione che valuta gli uditori di considerare che il candidato debba ripetere il periodo di tirocinio generico o che debba essere escluso in quanto inidoneo alle funzioni giurisdizionali. Merita specificare che il tasso di tali situazioni resta decisamente basso.
II. L’accesso attraverso il concours complementaire
Per poter accedere alla magistrature sussiste anche la possibilità di superare il cosiddetto “concours complémentaire” destinato alle persone che:
- hanno meno di 35 anni di éta;
- dispongono di almeno sette anni di esperienza professionale nel campo giuridico.
La formazione in tal caso è di una durata di 12 mesi strutturata come segue:
- 1 mese di formazione generica;
- 6 mesi di tirocinio generico in un tribunale;
- 1 mese di formazione specifica;
- 3 mesi di tirocinio specifico.
In questo caso, il tirocinio è considerato come un periodo di prova, la graduatoria di “uscita” è la medesima della graduatoria di “entrata” ed i candidati devono effettuare, al termine del periodo di formazione, un colloquio volto a valutare l’idoneità del candidato alle funzioni giurisdizionali.
Il carattere probatorio del tirocinio e il fatto che i candidati siano considerati, durante lo stesso, dei magistrati in tirocinio e non degli uditori giudiziari, permette quindi di qualificare tale sistema di accesso come ibrido.
III. L’integrazione diretta nel corpo della magistratura
Esiste infine una modalità di accesso riservata a coloro che hanno già un’esperienza professionale giuridica di almeno 7 anni volta ad integrare la magistratura in modo diretto, senza quindi effettuare il periodo di formazione presso l’ENM.
La disciplina di tale modalità di accesso si rinviene all’articolo 22 dell’ordonnance del 1958.
In tal caso, previa una selezione dei candidati sulla base dei titoli, i candidati effettuano sei mesi di tirocinio generico presso un tribunale, durante il quale sono valutati nelle funzioni svolte. Al termine di tale tirocinio e di un colloquio generale, viene espresso un parere sull’idoneità o non idoneità del candidato all’integrazione diretta.
Si tratta, anche in questo caso di un tirocinio di prova, tuttavia i candidati integrano direttamente la magistratura, senza effettuare il periodo di formazione (generica e specifica) all’ENM.
[1] Vi sono altre fonti relative all’accesso alla magistratura come il decreto n°2001-1099 del 22 novembre 2001 relativo alle modalità di assunzione dei magistrati previsto all’articolo 21-1 dell’ordonnance, il decreto del 22 novemvre 2001 come modificato dai dei decreti del19 aprile 2011, del 10 marzo 2016, del 24 luglio 2018 e de 10 aprile 2019 relativi ai concorsi per l’assunzione dei magistrati previsti all’articolo 21-1 dell’ordonnance.
[2] Tale titolo, sebbene non sussista più in diritto italiano, permane in diritto francese e non vi sono, almeno attualmente velleità governative o di settore, volte a modificare tale denominazione.
[3] Per un esame generale della commission volta a effettuare la selezione dei candidati, vedasi l’ultima relazione disponibile : https://lajusticerecrute.fr/sites/default/files/2023-01/Rapport%20d%27activit%C3%A9
%202021-2022.pdf.
[4] Articolo 15 de l’ordonnance.
[5] Articolo 16 dell’ordonnance.
[6] Articolo 17 dell’ordonnance.
[7] Ibid.
[8] Articolo 18-1 dell’ordonnance.
[9] Accessibile al seguente indirizzo: https://www.enm.justice.fr/sites/default/files/sequencage_fi.pdf. Tuttavia, tale decomposizione può leggermente variare di anno in anno.
[10] La prova di inglese consiste nel superamento della prova di inglese TOEIC (Test of English for International Communication.
[i] Giudice presso il Tribunale di Créteil
Sommario: 1. Premessa - 2. La decapitazione del sistema giudiziario e l’epurazione mascherata della magistratura - 3. La centralizzazione e la burocratizzazione del sistema di amministrazione giudiziaria- 4. La (abortita) riforma della giustizia amministrativa - 5. L’ultimo capitolo della saga giudiziaria: la “legge insalata” del dicembre 2019 - 6. Conclusioni: la professionalità del giudice come baluardo dell’indipendenza.
1. Premessa
Il 12 dicembre scorso, la Commissione europea e il Governo ungherese hanno raggiunto l’accordo che sblocca una prima tranche di settecento milioni di euro del Piano di ripresa nazionale. Tale risultato, che rappresenta solo un compromesso provvisorio, fa seguito alla introduzione nell’ottobre precedente di alcune misure legislative volte a rafforzare il principio del rule of law e a proteggere gli interessi finanziari dell’Unione.
La legge n. 27 del 3 ottobre 2022 aveva infatti istituito, tra le altre cose, un’Autorità per l’Integrità competente ai fini del monitoraggio dell’utilizzo dei fondi UE: un’autorità indipendente a tutti gli effetti, divenuta operativa il 19 novembre, che risponde alle richieste in materia rivolte dalla Commissione al Governo ungherese. Come forse è noto, tali richieste rappresentano la punta di un iceberg il quale comprende un ambito assai ampio di questioni riguardanti l’Ungheria, nel quale le riforme degli apparati di controllo dell’operato dei pubblici poteri occupano un posto particolare. Tra tali apparati, il sistema giudiziario ha una ovvia centralità. Dopo gli interventi che ne hanno profondamente mutato la struttura nel decennio passato, e nonostante la materia dell’organizzazione giudiziaria sia tra gli obiettivi (milestones) che scandiscono l’erogazione dei fondi dopo questa prima tranche, esso non è tuttavia oggi oggetto di progetti di riforma e appare dunque stabilizzato.
Può essere allora utile ripercorrere brevemente le vicende che nell’ultimo decennio o poco più (la prima riforma risale al 2011) hanno riguardato il sistema giudiziario ungherese, tralasciando per la sua specificità la giurisdizione costituzionale. Ciò permette infatti non solo di cogliere le linee di sviluppo – le quali sono peraltro manifeste se sol si guarda ai numerosi contributi in materia in lingua italiana o straniera – ma anche di riflettere sull’effetto sistemico di tali vicende, sulla matrice ideologica delle stesse ma anche su quella storica, riguardante la transizione ungherese in senso ampio e la funzione che il giudiziario ha svolto in essa (e che in generale svolge negli ordinamenti contemporanei caratterizzati da debolezza delle istituzioni rappresentative), sulla ratio delle riforme che si sono succedute, dunque sul loro spirito. Ci permette infine di ragionare, soprattutto, sull’esigenza di pensare al principio di indipendenza giudiziaria in un’ottica ampia, non meramente istituzionale, data l’importanza che il tema della professionalità giudiziaria assume sullo sfondo delle vicende ungheresi.
2. La decapitazione del sistema giudiziario e l’epurazione mascherata della magistratura
Il 19 aprile di dodici anni fa, il Parlamento ungherese approvava il nuovo testo costituzionale (Legge Fondamentale)[1], aprendo una stagione di riforme dello Stato nelle quali la giustizia avrebbe occupato un posto privilegiato[2]. Gli articoli relativi all’ordinamento giudiziario (artt. 25-28), a prima vista in continuità con il testo costituzionale preesistente, risaltavano tuttavia per una certa laconicità e per il non-detto rispetto a quanto affermavano.
A livello più appariscente, il nuovo testo modificava la denominazione della Corte suprema, recuperando quella pre-comunista (Kúria). La questione se tale nuova denominazione di Kúria fosse meramente simbolica o implicasse la sostituzione della vecchia Corte suprema, di cui la Kúria era peraltro definita erede, con un nuovo organo giudiziario non era peregrina, se si pensa che la Legge fondamentale disponeva anche la nomina di un nuovo presidente dell’organo (nel quadro di un sistema giudiziario dove i presidenti di corte hanno un ruolo di particolare rilievo, ben più significativo che in Italia). A distanza di pochi mesi (legge n. 61 del 14 giugno 2011), erano poi introdotti nuovi requisiti per i candidati alla presidenza della Kúria. Ciò preannunciava la strategia di cattura della magistratura da parte della maggioranza parlamentare e avrebbe dato luogo a una controversia risolta (ma senza effetti sostanziali determinanti) dalla Grand Chamber della Corte europea dei diritti dell’uomo nella nota decisione Baka v. Hungary del 23 giugno 2016[3].
András Baka, giurista di spessore nonché giudice per diciassette anni (fino al 2008) della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nell’ottobre 2011 (vale a dire pochi mesi prima della sua “rimozione” nel dicembre successivo) era stato anche eletto Presidente della Rete dei Presidenti delle Corti Supreme dell’Unione Europea, non soddisfaceva infatti il nuovo requisito tecnico dei cinque anni di servizio come giudice nazionale, essendo divenuto giudice presso la Corte regionale di Budapest solo nell’aprile 2008.
A questa misura, una seconda ne era seguita che aveva permesso una vera e propria “epurazione” della magistratura, in massimo grado della suprema giurisdizione ordinaria. Ci si riferisce qui all’articolo 26, comma secondo della Legge Fondamentale che ha parificato l’età di pensionamento dei giudici, a esclusione del Presidente della Kúria, a quella generale dei lavoratori del pubblico impiego. La norma è stata poi integrata dalla Legge sulle Disposizioni transitorie approvata il 31 dicembre 2011, il cui articolo 12 ha previsto che tutti i giudici che avessero raggiunto il limite di età di 62 anni nel periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2012 andassero in pensione il 31 dicembre 2012, mentre per i giudici che avessero raggiunto il limite d’età prima del 1° gennaio 2012 si fissava il 30 giugno 2012.
Fuori dai tecnicismi: una misura epurativa nella sostanza e ben nota nella storia della giustizia europea, la quale ha poco da invidiare al decreto con cui Luigi Napoleone, il primo marzo 1852, aveva revocato centotrentadue giudici. L’effetto delle misure prese dalla maggioranza del partito Fidesz è stata infatti la revoca di un quarto dei giudici della Corte suprema e circa metà dei presidenti di corte regionale o provinciale.
Occorre ricordare, a evidenziare la portata della vicenda, il rilievo che in Ungheria, dove peraltro vige il principio dell’unicità della giurisdizione, assumono la Kúria e i presidenti di corte. La prima, tra le altre cose, può assumere decisioni con efficacia vincolante ai fini dell’uniformità del diritto (la non conformità alla decisione della Kúria è generalmente presa in considerazione nella valutazione dei giudici), e dispone di poteri di supervisione delle giurisdizioni inferiori attraverso i presidenti di sezione.
3. La centralizzazione e la burocratizzazione del sistema di amministrazione giudiziaria
L’articolo 25 della Legge Fondamentale aboliva poi (seppur tacitamente) l’organo espressione del principio di autonomia della magistratura, il Consiglio giudiziario nazionale (Országos Igazságszolgáltatási Tanács, OIT)[4]. Di questo, già menzionato nell’articolo 50 della Costituzione del 1989 quale organo che partecipa all’amministrazione di corti e tribunali, viene a mancare ogni riconoscimento nel nuovo testo costituzionale (il “non detto” prima evocato).
È utile ricordare che l’OIT, operativo sin dal 1997, ha costituito uno dei primi organi di autonomia effettiva della magistratura in un Paese dell’area post-sovietica. In realtà, nel 2011 il Consiglio non è stato abolito ma solo de-costituzionalizzato, e gran parte delle sue competenze sono state trasferite all’Ufficio giudiziario nazionale (Országos Bírósági Hivatal, OBH), organo disciplinato dalle leggi n. 161 e n. 162 del 28 novembre 2011 rispettivamente sull’Organizzazione e l’amministrazione delle corti e sullo Status e la remunerazione dei giudici, entrate in vigore in coincidenza con l’entrata in vigore della Costituzione.
L’OBH – che ha carattere monocratico e il cui vertice è di nomina parlamentare a maggioranza dei due terzi – è stato guidato fino al 2019 da Tünde Handó, un’esponente di Fidesz e consorte di uno dei (pochi) redattori della Legge Fondamentale, József Szájer. Al presidente dell’Ufficio giudiziario sono attribuiti poteri di rilevante impatto politico – è il caso della partecipazione alla definizione del bilancio giudiziario, dell’iniziativa legislativa in materia di organizzazione delle corti, della definizione di vere e proprie linee di politica giudiziaria sui procedimenti considerati di interesse generale, da trattare in via prioritaria – e soprattutto il potere di assegnare casi ad altre corti qualora ciò sia reso necessario dall’obbiettivo di garantire la durata ragionevole del processo.
Dopo aver perso lo status di organo costituzionale, l’OIT è stato declassato al rango di organo consultivo e, pur formalmente dotato di una funzione di supervisione dell’OBH, è in realtà da questo dipendente: un corto-circuito istituzionale che interroga sulla razionalità di tale configurazione istituzionale. È d’obbligo ricordare come l’OIT, nonostante lo stravolgimento dell’assetto istituzionale della governance della magistratura e anche della sua composizione, sia sfuggito fino a oggi all’addomesticazione da parte delle forze di maggioranza. Basti a questo riguardo ricordare due recenti episodi.
Il primo riguarda l’elezione del Presidente della Kúria, Zsolt András Varga, nell’autunno del 2020, la cui candidatura era stata ritenuta inadeguata dall’OIT con un parere reso a maggioranza schiacciante di tredici voti contro uno. Certo, eleggendo Varga, il Parlamento non aveva tenuto conto di tale parere negativo (non vincolante), ma l’OIT aveva avuto comunque la possibilità di esprimersi duramente. Ritenendo carente l’esperienza di Varga come giudice e in materia di amministrazione della giustizia in generale, si era spinto ad affermare che «[l]a nomina […] è stata resa possibile da due recenti modifiche legislative che vanno contro il requisito costituzionale di porre ai vertici della magistratura solo chi soddisfi il criterio dell’indipendenza dagli altri rami del potere». (Sulle modifiche evocate dall’OIT, si rimanda al quarto paragrafo del presente scritto). Professore universitario fino al 2012, in quell’anno Varga era stato infatti nominato dal Governo viceprocuratore generale e dal 2014 era giudice della “nuova” Corte costituzionale.
Il secondo episodio riguarda un recente conflitto emerso a seguito di un incontro, il 27 ottobre 2022, tra due membri del Consiglio giudiziario nazionale – rispettivamente il responsabile per le relazioni internazionali e il capo ufficio stampa (Tamás Matusik e Csaba Vasvári) – e l’ambasciatore degli Stati Uniti David Pressman. I due giudici sono stati oggetto di attacchi da parte di quotidiani filo-governativi e poi criticati dal Presidente della Kúria, András Varga; ciò ha determinato a sua volta una dura presa di posizione dell’OIT attraverso due comunicati stampa con cui si stigmatizzavano gli attacchi pubblici e anche le parole di Varga.
4. La (abortita) riforma della giustizia amministrativa
A seguito dell’approvazione nel giugno 2018 del Settimo Emendamento alla Legge Fondamentale, veniva inserito nell’articolo 25 della Legge Fondamentale del 2011, che definisce la competenza delle corti e delinea la struttura giudiziaria, un comma relativo a organi giurisdizionali competenti in materia amministrativa. Il Governo ha quindi avviato un iter volto a creare un ordine separato con una Corte suprema amministrativa distinta dalla Kúria, quale parte di un progetto più ambizioso di riforma della Pubblica amministrazione (preannunciato dall’adozione di un codice generale di procedura amministrativa nel 2016).
Molto si è speculato su una scelta che avrebbe messo fine all’unità dell’ordine giurisdizionale ungherese e che il Governo (e parte della dottrina nazionale: è il caso di Andras Patyi)[5] giustificava su basi storiche. Una giustizia amministrativa separata era esistita fino al 1949 e si era dimostrata efficiente nella tutela dei diritti dei cittadini. Secondo Renata Uitz, la legge costituiva molto chiaramente una tecnica di court-packing, sul solco di quanto realizzato sette anni prima con la giustizia ordinaria[6]. Come specificherò più avanti, l’intervento del 2011-2012 non si era infatti dimostrato sufficiente ad allineare completamente la magistratura alla volontà della maggioranza di Governo: la creazione di nuove corti amministrative – e di un nuovo corpo di giudici amministrativi – avrebbe risolto alla radice il problema.
La legge n. 131 del 2018, nell’istituire il nuovo ordine, attribuiva al Ministro della giustizia il potere di nomina dei giudici, dietro parere non vincolante di un Consiglio della giustizia amministrativa. Ma soprattutto, i deboli requisiti per la nomina alle funzioni di giudice amministrativo delineavano la figura di un giudice “sprofessionalizzato”. Ciò riflette una precisa strategia di politica istituzionale che tocca l’ambito dell’amministrazione nel suo insieme ed è ben esemplificata dall’istituzione di un monopolio nella formazione dei funzionari pubblici attraverso l’istituzione dell’Università nazionale della funzione pubblica (NKE), volto ad accentuare nella cultura amministrativa l’adesione alla volontà legalisticamente espressa dell’apparato di governo più che l’indipendenza, con il rafforzamento del paradigma metodologico legalistico-formale e la svalutazione di quello razionalista weberiano, con la riduzione del giuridico a tecnica formale a discapito del suo contenuto razionale[7].
E tuttavia, dopo solo un anno, ancor prima che il nuovo sistema fosse divenuto operativo, il Ministro della giustizia annunciava l’intenzione di mantenere un sistema unificato, per non esporre la giustizia amministrativa a controversie che avrebbero potuto incidere sulla sua indipendenza o sulla percezione della stessa. La legge n. 61 del 2019 tecnicamente posponeva l’entrata in vigore della legge n. 131 del 2018 che da allora rappresenta una normativa inoperativa ma parte dell’ordinamento giuridico ungherese. Al contrario, l’Ottavo Emendamento alla Legge Fondamentale approvato il 12 dicembre 2019 annullava le relative disposizioni del Settimo emendamento.
La decisione di fare un passo indietro è stata determinata non tanto dalle resistenze europee, bensì dalla forte opposizione interna alla magistratura, per ragioni non solo ideali ma anche pratiche: la riallocazione di molti giudici delle preesistenti sezioni amministrative, dato il carattere meno centralizzato della geografia giudiziaria delle corti amministrative. Del resto, tale passo indietro non ha comportato la rinuncia a realizzare alcuni obiettivi che la creazione di un sistema di corti amministrative si proponeva.
5. L’ultimo capitolo della saga giudiziaria: la “legge insalata” del dicembre 2019
Con l’approvazione in tempi molto brevi di un disegno di legge presentato lo stesso dicembre, il Parlamento ungherese introduceva una serie disposizioni di ordine procedurale e istituzionale che, nelle pieghe di una normativa eterogenea (legge omnibus, chiamata in maniera folkloristica “legge insalata”), mirava a obiettivi assimilabili a quelli dell’abortita riforma della giustizia amministrativa[8]. Tre aspetti si segnalano in particolare.
Il primo attiene alla previsione di un ricorso alla Corte costituzionale da parte delle autorità pubbliche le cui competenze siano state lese: una specie di conflitto di attribuzione tra poteri che permette a organi dell’amministrazione di ricorrere alla Corte costituzionale contro decisioni delle corti ordinarie che abbiano annullato un atto amministrativo. Questo schema è costruito sulla base di un precedente della stessa Corte costituzionale, che aveva riconosciuto in via pretoria con decisione n. 23 del 28 dicembre 2018 il diritto della Banca nazionale ungherese di presentare un ricorso costituzionale contro una decisione della Kúria, che era stata poi ritenuta in violazione del principio dell’equo processo. Sostanzialmente, si individua nella Corte costituzionale un tutore delle corti ordinarie nei conflitti che interessino la Pubblica amministrazione.
In secondo luogo, si prevede la possibilità per un giudice costituzionale di essere nominato, alla scadenza del mandato, come giudice ordinario, anche a ruoli direttivi. Non sono previsti a tal fine particolari requisiti. Anche qui, la Corte costituzionale si configura come un dispositivo indiretto di controllo della magistratura ordinaria e in particolare della suprema giurisdizione ordinaria. Ad alcuni mesi dall’adozione della legge, otto giudici della Corte costituzionale sono stati nominati giudici ordinari. Tra questi, il nuovo Presidente della Kúria András Varga di cui si è detto nel primo paragrafo di questo scritto.
Infine, si rafforza la “verticale del potere” giudiziario con l’imposizione ai giudici inferiori di articolare i motivi per cui le interpretazioni adottate differiscano da quelle della Kúria, che è organo di revisione secondo il modello tedesco, e non di cassazione. Una deviazione ingiustificata rispetto all’orientamento giurisprudenziale di quest’ultima è presa in considerazione ai fini della valutazione professionale e disciplinare, in ultima istanza ai fini della carriera. Si tratta di un sistema che in maniera spuria si ispira al principio del precedente vincolante proprio dei sistemi di derivazione inglese.
È opportuno segnalare che proprio da questa previsione ha avuto origine una nota vicenda relativa al procedimento disciplinare nei confronti di un giudice del Tribunale di Pest (Csaba Vasvári) che aveva sottoposto una serie di questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea relative all’indipendenza della magistratura. Il Procuratore generale ungherese aveva presentato ricorso “nell’interesse della legge” e la Kúria aveva ritenuto illegittimo il rinvio pregiudiziale. Dalla dichiarazione di illegittimità era in un secondo tempo derivata una procedura disciplinare nei confronti dello stesso giudice Vasvári, che già aveva visto invalidate dall’Ufficio giudiziario nazionale-OBH due procedure per la nomina alla Corte d’appello di Budapest per le quali aveva presentato candidatura. Vasvári a sua volta aveva operato ulteriore rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con riguardo alla procedura che aveva portato la Corte suprema a dichiarare l’illegittimità delle questioni pregiudiziali e alla procedura disciplinare attivata in conseguenza a tale dichiarazione di illegittimità. Con questo secondo rinvio, Vasvári chiedeva se fosse compatibile con il diritto europeo la dichiarazione di illegittimità da parte di un organo nazionale di una questione pregiudiziale e se fosse possibile sottoporre a procedura disciplinare un giudice per il fatto di aver operato un rinvio pregiudiziale. Come si può immaginare, la Corte di giustizia UE (C‑564/19) aveva concluso che «l’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un procedimento disciplinare sia avviato contro un giudice nazionale per il fatto che quest’ultimo ha presentato alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale». Quello che preme qui evidenziare è però il grave conflitto istituzionale che ha coinvolto i vertici della magistratura ungherese e le corti inferiori.
6. Conclusioni: la professionalità del giudice come baluardo dell’indipendenza
Una visione d’insieme delle riforme qui richiamate ci offre l’immagine incrementale ed erratica di due ondate riformatrici successive (2011-2012 e 2018-2019) che riflettono il pragmatismo tipico dell’ideologia politica orbaniana e una concezione del diritto che, pur nel quadro di un apparato formale, appiattisce la dimensione giuridica sulla dimensione politica. Da questo punto di vista, se si ricorre alla tripartizione proposta da Ugo Mattei delle tradizioni e dei sistemi giuridici, il decennio segnala uno scivolamento dalla dimensione del rule of law a quello del rule of politics (by law).
Alla base di questo scivolamento vi è chiaramente un orientamento ideologico relativo al rapporto tra poteri dotati di legittimazione democratica e contropoteri istituzionali. Nella sua prima esperienza da Primo ministro, tra il 1998 e il 2002, Viktor Orbán aveva del resto espresso simili intenzioni di modifica del modello di governo della magistratura, affermando pubblicamente l’intollerabilità di una configurazione istituzionale di autonomia organizzativa e amministrativa del corpo giudiziario che non rendesse possibile determinare in maniera coerente una politica del diritto governativa.
Le soluzioni individuate in queste due ondate di riforme tradiscono anch’esse tale opzione ideologica. Ad esempio, la riforma dell’OIT e la creazione dell’OBH sono state giustificate con la scarsa efficienza del sistema di governo esistente e l’eccesso di corporativismo. In effetti, l’OIT si riuniva una sola volta al mese poiché i suoi membri, in particolare quelli togati, continuavano a esercitare le loro funzioni giurisdizionali. Ne derivava l’impossibilità da un lato di prendere decisioni tempestive, laddove necessario, nonché una concentrazione di fatto dell’attività ordinaria dell’organo sotto la responsabilità del suo ufficio direttivo. Si tratta di rilievi – bisogna dire – fondati e rispetto ai quali vi era una convergenza non solo tra gli attori politici ma anche tra gli osservatori critici delle iniziative della maggioranza Fidesz. Alla scarsa efficienza si sarebbe però potuto far fronte attraverso l’introduzione di forme di aspettativa per i giudici nominati membri dell’OIT o l’elezione di giudici che non ricoprissero funzioni direttive; al corporativismo si sarebbe potuto far fronte introducendo consiglieri che fossero rappresentativi di altre professioni giuridiche o della società: proposte evocate anche nel parere n. 663/2012 reso dalla Commissione di Venezia. Sicuramente, i limiti del sistema di governo della magistratura in vigore dal 1997, pur non giustificando le specifiche scelte riformatrici adottate, le hanno però in parte legittimate.
Vi è poi una spiegazione sistemica che ha a che fare con la debolezza e i difetti della transizione ungherese, inclusa la sovraesposizione della dimensione giudiziaria nell’assunzione di decisioni di sicuro rilievo politico che riflettono un ruolo di supplenza rispetto a un sistema politico (e ai relativi organi di rappresentanza: Parlamento in primis) inefficiente[9]. Tale spiegazione porta a leggere le riforme descritte come reazione: il riaffermarsi del popular constitutionalism dopo una fase di sbilanciamento verso il legal constitutionalism e la difficoltà di trovare un equilibrio tra queste dimensioni. Si tratta, in questo caso, di un insegnamento rilevante per il nostro ordinamento.
Venendo alla ratio, allo spirito delle riforme, si può dire che l’obiettivo perseguito non sia un controllo totalizzante degli organi giurisdizionali, anche perché il poter rivendicare un certo grado di indipendenza delle corti può essere esso stesso fattore di legittimazione per il sistema politico. Quello a cui si è mirato, in maniera chirurgica, è l’allineamento della magistratura soprattutto nei casi giudiziari più scottanti, laddove possibile. Esistono dunque isole di resistenza nel giudiziario ungherese, sebbene non sia chiaro quale sia la loro concreta estensione.
Ho richiamato prima i conflitti tra tribunali inferiori e suprema giurisdizione e quelli coinvolgenti l’OIT nella sua nuova configurazione di organo consultivo. Ma prima della nomina di Varga alla presidenza della Kúria (e prima della riforma legislativa che tale nomina ha reso possibile) la stessa Kúria era stata in grado di avere un ruolo assertivo in casi delicati. Il caso relativo alla segregazione scolastica (nota come vicenda Gyöngyöspata) è significativo in tal senso.
Si è richiamato a questo riguardo il noto paradosso del gatto di Schrödinger: la magistratura ungherese sarebbe allo stesso tempo viva e morta, e la sua reale condizione si manifesta solo una volta che venga aperta la scatola di acciaio. Certo, il biennio 2018-2019 ha costituito un ulteriore irrigidimento, con un aumento della probabilità di trovare il gatto esanime: ma anche in quel caso, rimane difficile dire se il gatto sia morto o solo svenuto.
In conclusione, l’esame della vicenda più che decennale della riforma della giustizia in Ungheria conferma sia la rilevanza che il giudiziario ha nei sistemi contemporanei, tanto maggiore laddove le istituzioni rappresentative siano inefficienti, sia i rischi collegati a tale rilevanza. Nell’impossibilità di agire sugli elementi di sistema, uno dei modi per rendere il giudiziario più robusto di fronte ai potenziali attacchi esterni (ma anche interni) consiste nel rafforzamento della professionalità del giudice. Non è forse un caso che a questo tema sia stata posta particolare attenzione anche nel nostro ordinamento negli ultimi lustri. Il controllo della magistratura è infatti senz’altro determinato da incentivi di natura istituzionale relativi all’attivazione di forme di accountability – disciplinare, amministrativa relativa alla carriera, alla valutazione, etc. – ma è tanto più efficace quanto più il corpo oggetto di tale controllo si dimostri molle per assenza di un nucleo duro di etica professionale. È forse questa, in definitiva, la lezione più utile che può fornirci l’esame del caso ungherese.
[1] G. F. Ferrari, La nuova Legge fondamentale ungherese, Torino, Giappichelli, 2012; A. Arato – G. Halmai – J. Kis (cur.), Contitution for a Disunited Nation. On Hungary’s 2011 Fundamental Law, Budapest, CEU Press, 2012.
[2] S. Benvenuti, La riforma del sistema giudiziario ungherese tra recrudescenze autoritarie e governance europea, in Nomos. Le attualità nel diritto, 2012, 3, pp. 1-20.
[3] D. Kosař – K. Šipulová, The Strasbourg Court Meets Abusive Constitutionalism: Baka v. Hungary and the Rule of Law, in Hague Journal on the Rule of Law, 2018, 10, pp. 83-110.
[4] S. Benvenuti, La riforma del sistema giudiziario ungherese, cit., p. 8 ss.
[5] A. Patyi, Rifts and deficits – lessons of the historical model of Hungary’s administrative justice, in Institutiones Administrationis. Journal of Administrative Sciences, 2021, 1, pp. 60-72.
[6] R. Uitz, An Advanced Course in Court Packing: Hungary’s New Law on Administrative Courts, in Verfassungsblog, 2 gennaio 2019.
[7] S. Benvenuti, Libertà accademica, politiche dell’istruzione superiore e processi costituzionali Riflessioni a partire dal caso ungherese, in G. Caravale – S. Ceccanti – L. Frosina – P. Pichiacchia – A. Zei, Scritti in onore di Fulco Lanchester, Napoli, Jovene 2022, pp. 157-176.
[8] V. Z. Kazai – A. Kovács, The Last Days of the Independent Supreme Court of Hungary?, in Verfassungsblog, 13 ottobre 2020.
[9] W. Sadursky, Constitutional Courts, Individual Rights, and the Problem of Judicial Activism in Postcommunist Central Europe, in J. Přibáň – P. Roberts – J. Young, Systems of Justice in Transition. Central European Experiences since 1989, Aldershot, Ashgate, 2003, p. 19, G. Halmai, Who is the Main Protector of Fundamental Rights in Hungary? The Role of the Constitutional Court and the Ordinary Courts, in J. Přibáň – P. Roberts – J. Young, Systems of Justice in Transition, cit., p. 50 ss. G. Halmai, The Transformation of Hungarian Constitutional Law, in A. Jakab – P. Takács – A. F. Tatham, The Transformation of the Hungarian Legal Order 1985-2005, Aalphen aan den Rijn, Wolters Kluwer, p. 5 ss.; A. Sajo, The Judiciary in Contemporary Society: Hungary, in Case Western Reserve Journal of International Law, 1993, 2, p. 293.
Il contributo si inserisce nell'approfondimento del tema Accesso in magistratura, precedenti contributi Accesso alla magistratura - 1. Pensieri sparsi sul concorso in magistratura di Giacomo Fumu, Riflessioni sul concorso in magistratura di Mario Cigna Il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 di Ernesto Aghina, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca di Cristiano Valle, sotto la voce della rivista Ordinamento giudiziario.
Sommario: I. Introduzione - 1. Le riforme del 1997 e 2012 dell’amministrazione del sistema giudiziario e i tribunali ungheresi - 2. L’amministrazione degli organi giudiziari ungheresi - II. Percorso di accesso alla magistratura - 1. I requisiti prescritti dalla legge per l’ammissione al concorso - 2. Il procedimento del concorso per magistrato ordinario.
I. Introduzione
1. Le riforme del 1997 e 2012 dell’amministrazione del sistema giudiziario e i tribunali ungheresi
Negli anni ’90 per la riforma dei sistemi giudiziari nei paesi post-comunisti le circostanze erano favorevoli: con l’esperienza della dittatura appena passata e le intenzioni verso l'integrazione europea, tutti i legislatori dei paesi dell’Est Europa cercavano di creare un'organizzazione giudiziaria indipendente e istituire consigli giudiziari indipendenti, ponendo così la selezione dei giudici nelle mani dei giudici stessi.
L’Ungheria con la riforma del 1989 ha compiuto una transizione verso un regime democratico, tale riforma ha consentito al sistema ungherese di passare da un modello di amministrazione della giustizia di tipo ministeriale ad uno compiutamente consiliare. L’articolo 50 della Costituzione del 1989 ha previsto l’istituzione del Consiglio Giudiziario Nazionale[1], effettivamente introdotto dalla legge sull’Organizzazione e l’amministrazione delle corti del 1997[2]. Con la transizione ad un sistema democratico la titolarità delle competenze che hanno ad oggetto lo status dei giudici, ad. es. reclutamento, promozioni, retribuzione, responsabilità, sono state trasferite dall’esecutivo ad un organo indipendente a composizione mista di membri togati e laici. L’adesione al modello consiliare ha consentito al sistema ungherese di soddisfare gli standard internazionali ed europei relativi all’indipendenza della magistratura[3].
La seconda riforma generale della magistratura é avvenuta con l’entrata in vigore della nuova Costituzione, la Legge Fondamentale, nel 2012[4]. La riforma della magistratura ha rappresentato un elemento centrale del processo di mutamento con il quale é stato introdotto un sistema ’ibrido’[5]. Si prevede l’istituzione di un Ufficio Nazionale per la Magistratura[6], presieduto da un giudice nominato a maggioranza assoluta dal Parlamento, al quale la nuova Costituzione attribuisce 'le responsabilità fondamentali dell’amministrazione delle corti ordinarie’, limitando il ruolo del Consiglio Giudiziario Nazionale[7] ad una funzione di mero controllo dell’amministrazione centrale, di cui risulta titolare il Presidente dell’Ufficio Nazionale. Tale assetto costituzionale rivela la volontà politica di introdurre un sistema organizzativo ’ibrido’, caratterizzato dalla coesistenza tra un organo di nomina parlamentare e un rappresentante della magistratura, all’interno del quale le funzioni che più incidono sullo status dei giudici, e.g. decisioni su carriere, trasferimenti, nomine, giudizi disciplinari dei magistrati, siano attribuite in via esclusiva al primo, relegando il secondo a funzioni meramente consultive e di controllo[8].
La ridefinizione dell’assetto istituzionale avvenuta a livello costituzionale trova conferma anche a livello legislativo, al quale la ‘Costituzione nuova’[9] rinvia per la concreta attribuzione ai due organi citati delle funzioni in materia. Dalla legge organica n. 61 del 2011 è stata realizzata un’assoluta concentrazione in un organo monocratico – il Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura – di tutte le competenze relative allo status dei giudici, alla organizzazione e al budget degli uffici giudiziari. Allo stesso tempo, la legge declina la partecipazione all’amministrazione della giustizia da parte del Consiglio Giudiziario Nazionale in termini esclusivamente accessori rispetto alle funzioni attribuite al Presidente.
Rispetto a questa ultima riforma complessa del sistema giudiziario ungherese la Commissione di Venezia ha espresso valutazioni fortemente critiche[10]. In particolare, la Commissione ha affermato che la concentrazione di poteri in un organo monocratico e la contestuale compressione del ruolo del Consiglio non solo finiscono con il contraddire gli standard europei in materia di organizzazione della giustizia, relativi al rispetto dell’indipendenza dei giudici, ma risultano difficilmente compatibili anche con la tutela effettiva del diritto a un processo giusto garantito dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[11]. L’indipendenza del sistema giudiziario e dei giudici ungheresi é ancora un oggetto molto importante del dialogo in corso relativo allo stato di diritto tra la Commissione Europea e il Governo ungherese.
2. L’amministrazione degli organi giudiziari ungheresi
L’amministrazione centrale dei tribunali è di competenza del Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura, coadiuvato dai vicepresidenti. L’operato amministrativo del Presidente è soggetto alla vigilanza del Consiglio Nazionale Giudiziario. Il Presidente dell’Ufficio è responsabile del funzionamento e dell’efficienza dell’amministrazione centrale, deve assicurare che quest’ultima, come previsto dalla legge, svolga le proprie mansioni nell’osservanza del principio costituzionale dell’indipendenza giudiziaria. Nell’esercizio delle sue funzioni il Presidente adotta decisioni, regolamenti e raccomandazioni. Il Presidente dell’Ufficio è eletto dal parlamento nazionale – a maggioranza dei due terzi dei deputati – su proposta del Presidente della Repubblica e la carica può essere rivestita soltanto da un giudice.
Il Consiglio Nazionale esercita la vigilanza sull'amministrazione centrale dei tribunali ed è composto da 15 membri. Ne fa parte d’ufficio il Presidente della Corte suprema mentre gli altri 14 giudici sono eletti da e tra i membri dell’assemblea dei giudici delegati.
In Ungheria la giustizia è amministrata dai seguenti organi giudiziari:
- la Corte suprema (Kúria),
- le corti d’appello regionali (5),
- i tribunali regionali (20),
- i tribunali locali (107) e distrettuali (secondo i distretti di Budapest (6))
La competenza giurisdizionale dei tribunali corrisponde in generale alle suddivisioni amministrativo-territoriali del paese. I tribunali locali in campagna e distrettuali a Budapest esercitano la loro giurisdizione in primo grado per i casi civili e penali, e giudicano in composizione monocratica. I tribunali regionali si occupano dei casi civili, penali, amministrativi e del lavoro in primo grado, ove previsto in tal senso dalla legge, e decidono sui ricorsi in appello presentati contro le sentenze dei tribunali locali e distrettuali. I tribunali regionali in primo grado giudicano in composizione monocratico e in secondo grado in composizione collegiale di tre giudici.
Le Corti d’appello regionali si occupano dei ricorsi in appello presentati contro le decisioni dei tribunali regionali, sono composte dalle divisioni penale, civile, amministrativo, lavoro e giudicano in composizione collegiale di tre giudici.
Il titolare dell’amministrazione dei tribunali e delle corti è sempre il presidente, e ogni tribunale regionale e corte d’appello ha il suo consiglio giudiziario e la seduta plenaria.
La Corte suprema, con sede a Budapest, è la massima autorità giudiziaria in Ungheria, che garantisce l’uniformità di applicazione del diritto da parte dei tribunali e, a tal fine, adotta decisioni di armonizzazione del diritto che sono vincolanti per tutti i tribunali. Il presidente della Corte suprema è eletto dal parlamento nazionale – a maggioranza dei due terzi dei deputati – su proposta del Presidente della Repubblica. La carica di presidente della Corte Suprema può essere rivestita soltanto da un giudice. La Corte Suprema esamina (nei casi previsti dalla legge) i ricorsi presentati contro le decisioni dei tribunali e delle corti di appello regionali, esamina le istanze di revisione, adotta decisioni di uniformità vincolanti, esamina la giurisprudenza che emerge dalle cause definitivamente chiuse, analizza e riesamina la prassi giurisprudenziale dei tribunali, pubblica decisioni e risoluzioni in materia di principi giuridici. É composta da collegi giudicanti e collegi preposti all’armonizzazione del diritto e da sezioni penale, civile e amministrativo.
La Corte Suprema è indipendente dall’amministrazione del Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura, la sua amministrazione compete al Presidente della Corte Suprema, nominato a maggioranza assoluta dal Parlamento.
II. Percorso di accesso alla magistratura
1. I requisiti prescritti dalla legge per l’ammissione al concorso
La garanzia della qualità e dell'efficacia del sistema giudiziario si ritrova, da un lato, nelle condizioni strutturali e, dall'altro, nelle caratteristiche del personale. Come condizioni strutturali si considerano la produzione legislativa (e.g. le procedure giudiziare, la situazione costituzionale dei tribunali, la gestione dei tribunali, la distribuzione dei poteri di controllo) e le condizioni di lavoro (e.g. la gestione del personale degli uffici giudiziari, il carico di lavoro del personale, le infrastrutture personali e materiali). Un fattore chiave nel funzionamento del sistema giudiziario é il fattore “umano", che significa il sistema di selezione, nomina e promozione dei giudici. Evidentemente il modo in cui si accede alla magistratura e il potere di decidere sulla carriera di un giudice possono avere un impatto fondamentale sulla qualità del giudizio[12].
Una parte importante della riforma giudiziaria menzionata precedentemente è stata la modifica sostanziale della procedura di selezione dei giudici introdotta dalla legge n. 162 del 2011[13]. Alla magistratura professionale si accede per concorso pubblico, che assicura un procedimento trasparente, sulla base di soli requisiti di capacità e merito. Per diventare giudice di livello superiore (corti d’appello e Corte Suprema) non esiste una procedura diversa, i giudici dei livelli inferiori della magistratura (tribunali distrettuali o tribunali regionali) accedono ai tribunali superiori mediante il concorso pubblico, secondo le regole generali applicati per tutti.
I requisiti previsti dalla legge e verificati insieme con la domanda per essere nominato magistrato sono i seguenti: il candidato (i) ha più di 30 anni; ii) ha la cittadinanza ungherese, iii) possiede la piena capacità giuridica e la capacità di agire definita dal codice civile, iv) é in possesso di una laurea in giurisprudenza; v) ha espletato il periodo di 3 anni di tirocinio forense vi) ha superato l’esame di specializzazione (in materia di diritto penale e procedura penale, diritto civile e procedura civile, diritto amministrativo, diritto del lavoro e della previdenza sociale e diritto comunitario), (vii) dopo l’esame di specializzazione ha svolto almeno 1 anno di esperienza lavorativa forense e.g. segretario di tribunale o avvocato, notaio, pubblico ministero o pubblico ufficiale, viii) ha presentato la dichiarazione sul proprio patrimonio richiesta dalla legge, ed (ix) risulta idoneo ad agire come giudice sulla base del risultato ‘dell’esame d’idoneità’.
ad v) Il periodo di tirocinio
Il percorso classico per diventare magistrato inizia con lo svolgimento di un tirocinio giudiziario, che al quale si accede tramite un altro concorso pubblico[14], diverso dal concorso in relazione a un posto vacante di magistrato ordinario. La selezione è attuata mediante esame scritto e orale in materie giuridiche. Il concorso é bandito periodicamente dal Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura nella Gazzetta Ufficiale. Il contenuto e la valutazione dell’esame spettano al Presidente[15], ma il candidato viene nominato tirocinante dal Presidente del tribunale nel cui territorio è stata presentata la domanda dell’applicazione.
I vincitori del concorso assumono la qualifica di ’tirocinante di tribunale’ e svolgono il periodo di tirocinio, della durata complessiva di 3 anni, articolato in corsi di approfondimento teorico-pratico e sessioni presso uffici giudiziari. I tirocinanti frequentano tutti gli uffici giudiziari, affiancando i magistrati tutor già in servizio nello svolgimento delle funzioni giudiziarie. I corsi teorici si tengono presso il tribunale regionale, nel cui territorio il tirocinante é stato nominato e la materia della formazione professionale dei tirocinanti é disciplinata dal decreto del Ministro della Giustizia. L’attività svolta durante il periodo di tirocinio é valutata dai tutor nominati dal Presidente del tribunale regionale. Il tirocinante di tribunale non esercita funzioni giudiziarie.
Si nota che sono ammessi a partecipare al concorso per un posto vacante di magistrato ordinario anche quelli che hanno espletato il loro tirocinio in un altro campo legale, e.g. studio legale di avvocati o notarile, ma durante la loro valutazione professionale dal consiglio giudiziario questo possa essere uno svantaggio.
ad vi) L’esame di specializzazione
Concluso il periodo del tirocinio e se la valutazione del tirocinante è positiva, il candidato puó presentare la domanda per l’esame di specializzazione organizzato dal Ministero della Giustizia[16]. L’esame si divide in tre parti secondo le materie dell’esame, che materie sono: 1. diritto penale, procedura penale, diritto penitenziario, diritto delle contravvenzioni, 2. diritto civile e di famiglia, diritto commerciale e fallimentare, procedura civile 3. diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto comunitario, diritto del lavoro e della previdenza sociale.
L'esame di specializzazione è uniforme per tutti i laureati in giurisprudenza che hanno completato i 3 anni di pratica forense (magistrati, avvocati, pubblici ministeri, notai, etc.). La commissione esaminatrice è composta da professionisti provenienti da tutti i campi legali (e.g. giudici, avvocati, professori universitari, pubblici ministeri, pubblici ufficiali) che hanno almeno dieci anni di esperienza professionale legale e hanno superato l’esame di specializzazione. I membri della commissione sono nominati dal Ministro della Giustizia per un periodo di cinque anni.
ad vii) Segretario di tribunale
Dopo il superamento dell’esame di specializzazione il percorso classico per diventare magistrato continua con la nomina del candidato a ‘segretario di tribunale’. Il segretario esercita certe funzioni giudiziarie previste dalla legge nel settore penale (e.g. nei casi delle contravvenzioni e, nel settore civile, nei casi relativi al registro delle imprese o degli enti civili9 in un modo autonomo, e aiuta anche il collabora anche al lavoro dei magistrati in tutti i settori. Il segretario di tribunale é nominato dal presidente del tribunale regionale nel cui territorio svolge la sua attività.
ad ix) L’esame d’idoneità
L’esame d’idoneità é un esame fisico e psicologico. Sono autorizzati a gestirlo solo gli esperti professionisti (medici, psicologi e psichiatri) affiliati agli Istituti di ricerca per gli affari giudiziari e il procedimento dell’esame è stabilito da un decreto[17] comune del Ministero della Giustizia e del Ministero della Sanità Pubblica. Le parti principali dell'esame sono: l’esame fisico, l’esame psicologico e l’esame neuropsichiatrico. In ogni caso la commissione composta da tre esperti decide all’unanimità in merito all'ammissibilità, deve elaborare un parere professionale motivato e la decisione della commissione è impugnabile.
2. Il procedimento del concorso per magistrato ordinario
Il concorso in relazione a un posto vacante di magistrato ordinario si apre con la pubblicazione del bando. In ogni caso compete al Presidente dell’Ufficio Nazionale di bandire un concorso per un posto vacante e la legge prescrive che il processo di nomina sia aperto, non discriminatorio, trasparente e deve fornire pari opportunità a ciascun candidato. Il bando del concorso è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Magistratura e sul sito web centrale dell'amministrazione della giustizia. Il candidato deve inviare la domanda e tutti i documenti di verifica dei criteri prescritti dalla legge direttamente al presidente del tribunale regionale, nel cui circondario il posto vacante si trova, indicato nel decreto di indizione. Dopo la scadenza del termine per la presentazione delle domande ogni candidato è ascoltato dal consiglio giudiziario del tribunale regionale o della corte di livello superiore.
Dopo aver ascoltato i candidati, il consiglio giudiziario valuta i documenti presentati e la capacità professionale del candidato assegnando punti e, secondo il numero totale dei punti in classifica, indica il miglior candidato. Nella valutazione dei candidati sono presi in considerazione i criteri determinati dal decreto ministeriale[18] in cui sono determinati anche i punti di valutazione assegnati ai singoli criteri:
- la durata dell’esperienza lavorativa in un campo legale (max. 26 punti),
- la valutazione del tirocinio e la valutazione del lavoro di segretario di tribunale (max. 20 punti) o per un posto di magistratura superiore la valutazione di professionalità (max. 24 punti),
- il risultato dell'esame di specializzazione (max.10 punti),
- il titolo scientifico (max. 20 punti),
- il risultato di una formazione post-laurea relativamente alla materia in cui il candidato svolgerà la sua funzione come giudice (max. 15 punti),
- i viaggi di studio all'estero (max. 5 punti),
- le competenze linguistiche (max. 10 punti),
- le pubblicazioni su argomenti giuridici (max. 5 punti) e altre attività professionali (max. 20 punti) che possono essere prese in considerazione sempre relativamente alla materia in cui il candidato svolgerá la sua funzione come giudice.
Nel caso di un concorso per la nomina a magistrato superiore, un ulteriore criterio di valutazione è il parere della divisione o sezione del tribunale o di corte d’appello o della Corte Suprema di cui diventerà giudice il candidato vincitore del concorso (max.20 punti). Dopo aver ascoltato il candidato anche il consiglio giudiziario del tribunale lo valuta (max. 10 punti).
Al consiglio giudiziario del tribunale non é consentito di discostarsi dalla graduatoria dei candidati, ma se due o più candidati raggiungono la stessa quantità di punti, il consiglio giudiziario stabilisce l’ordine tra i candidati con una decisione motivata. Il consiglio manda le domande e l’ordine dei candidati al presidente del tribunale regionale. Se il presidente del tribunale è d'accordo con la graduatoria dei candidati, trasmette le domande e la graduatoria al Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura. Nel caso in cui il presidente del tribunale non sia d'accordo con la graduatoria dei candidati, deve motivare la sua decisione di proporre un candidato diverso dal candidato arrivato al primo posto.
Il risultato del concorso alla fine è deciso dal Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura o, nel caso di un concorso per la Corte Suprema, dal Presidente della Kúria. Se il Presidente dell'Ufficio Nazionale per la Magistratura accetta il candidato arrivato al primo posto della graduatoria, presenta la domanda di nomina al Presidente della Repubblica. Il Presidente dell'Ufficio Nazionale per la Magistratura può discostarsi dalla graduatoria e proporre il secondo o il terzo classificato per la nomina al posto vacante, ma in questo caso deve motivare la decisione e inviare la sua proposta prima al Consiglio Giudiziario Nazionale per il suo accordo.
I candidati per la prima volta sono nominati magistrati dal Presidente della Repubblica. Nel caso di una domanda per un tribunale o corte superiore il vincitore del concorso è trasferito dal Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura e nel caso di un concorso per la Corte Suprema il vincitore é nominato dal Presidente della Corte Suprema. La decisione sulla nomina del candidato è sempre pubblicata nella Gazzetta Ungherese e il candidato deve prestare giuramento prima di iniziare l'attività giudiziaria. Per la prima volta il giudice è nominato per un periodo determinato di tre anni e dopo la prima valutazione positiva sarà nominato per un periodo indeterminato.
Nel 2019 è entrata in vigore una modifica[19] della legge n. 162 del 2011 sullo ‘Status e retribuzione dei giudici’ che prevede un’eccezione per i giudici della Corte Costituzionale, eletti a maggioranza assoluta del Parlamento, che sono nominati magistrati della Corte Suprema dalla Presidente senza partecipare al concorso generale. Questa recente modifica è stata fortemente criticata dalla Commissione Europea nelle Relazioni sullo Stato di diritto degli ultimi anni.
Infine, viene si evidenzia che la legge ungherese prevede seri requisiti per quanto riguarda la condotta sociale dei giudici. Secondo le esperienze relativamente recenti del passato socialista, l'attività politica dei giudici è generalmente proibita, ciò significa che la partecipazione ad attività politiche e l'appartenenza ad associazioni o organizzazioni politici sono vietati dalla legge. Oltre al loro lavoro professionale, i giudici sono autorizzati ad impegnarsi solo con le attività scientifiche, educative, di coaching, arbitraggio, artistiche, editoriali e tecnologiche, o altre attività protette dalla legge sulla proprietà intellettuale. La legge specifica che i giudici sono autorizzati a svolgere le attività sopramenzionate solo se tale attività non mette in pericolo la loro indipendenza e imparzialità e non ostacola l'adempimento dei loro obblighi giudiziari.
Un'altra caratteristica particolare del sistema giudiziario ungherese, che ha anche le sue origini nel passato socialista è, che diversamente che in molte altre parti del mondo, nei tribunali ungheresi tra i giudici le donne sono in maggioranza rispetto agli uomini. Poi secondo il rapporto annuale 2017 della Commissione Europea in Ungheria ci sono circa 30 giudici per ogni 100 mila ungheresi. La relazione annuale della Commissione Europea per l'Efficienza della Giustizia (CEPEJ) ha valutato i sistemi giuridici nel 2022 e ha comunicato una relazione rispetto a tutti i paesi europei sulla base dei dati del 2012 e del 2020.
In Ungheria la ripartizione dei posti tra i giudici donne e uomini secondo CEPEJ:
Source: European judicial systems CEPEJ Evaluation Report (2022: 65)
Per quanto riguarda i motivi storici e sociologici bisogna ricordare che prima della seconda guerra mondiale le donne non avevano la possibilità di studiare e laurearsi alle università. Dopo la guerra è diventata più comune che le donne studiassero e avessero più possibilità di fare carriera, ma in Ungheria per circa 40 anni la filosofia comunista determinava e limitava la libertà del pensiero, il che valeva anche per il sistema giudiziario. Nell’ambiente comunista i giudici tradizionalmente lavoravano più come pubblici ufficiali che come giudici indipendenti, e la formazione dei magistrati ovviamente non sosteneva l’approfondimento del principio dell'indipendenza della magistratura. Tradizionalmente sembra che le donne si adattino meglio a lavorare in un modo burocratico e, secondo alcuni autori[20] ungheresi, per le donne laureate è sempre stato più facile fare carriere nei campi in cui si guadagna meno, perché gli uomini semplicemente si ritirano dalle carriere mal pagate. Tra i laureati in giurisprudenza, la maggior parte delle donne lavora in campo giudiziario. Come sopra menzionato i giudici ungheresi hanno possibilità molto limitate di impegnarsi con altre attività e i loro stipendi tradizionalmente sono molto bassi rispetto alle altre carriere legali.
La situazione è migliorata dalla metà degli anni 90, e nel 2019 il Ministro della Giustizia ungherese ha annunciato l’aumento degli stipendi dei magistrati di oltre il 60%. Negli ultimi anni il numero di uomini è aumentato nel sistema giudiziario, ma rimane ancora inferiore rispetto al numero delle donne. Dobbiamo ancora aggiungere il vantaggio dell'orario flessibile del lavoro, la possibilità di 'home office’ che in Ungheria esisteva nel sistema giudiziario già in un'epoca in cui per altri campi di lavoro ancora non era assolutamente riconosciuta questo modo di lavoro, la chiusura estiva e invernale dei tribunali, e si capisce facilmente perché la carriera giudiziario fosse più attraente per le donne che per gli uomini.
Infine, si nota che diversamente dal sistema italiano in Ungheria il pubblico ministero non è un organo della magistratura ordinaria, non è un giudice. La Procura della Repubblica ungherese è un’autorità indipendente prevista dalla Costituzione, soggetta soltanto alla legge. È presieduta e amministrata dal Procuratore generale, nominato a maggioranza assoluta dal Parlamento. I procuratori sono nominati dal Procuratore Generale, ma i percorsi di accesso alla procura sono molto simili all’accesso alla magistratura[21].
*Giudice della sezione fallimentare della Corte Capitale di Budapest.
[1]Országos Igazságszolgáltatási Tanács (OIT)
[2]Legge n. 87 del 1997 sulla Organizzazione e l’amministrazione delle corti (artt. 34-59)
[3]S. Penasa: L’amministrazione della giustizia in Ungheria:un sistema istituzionale ’bicefalo’ di derivazione ’democratico-illiberale’, Gli organi di governo autonomo della magistratura:un’analisi comparativa, Saggi-DPCE online, 2020/4, ISSN:2037-6677
[4] La Legge Fondamentela di Ungheria (25 Aprile 2011)
[5]Ibid. S. Penasa
[6]Országos Bírósági Hivatal (OBH)
[7]Országos Bírói Tanács (OBT)
[8]I. Vörös, The Constitutional Landscape after the Fourth and Fifth Amendment of Hungarian Fundamental Law, cit. 2 ss, Commissione di Venezia, Parere sul Quarto emendamento della Legge Fondamentale, 14-15 giugno 2013, 16 ss.
[9]La Legge Fondamentela di Ungheria (25 Aprile 2011) Articolo 25
[10]Commisione di Venezia Parere n. 663/2012, Opinion on Act CLXII of 2011 on the Legal Status and Renumeration of Judges and Act CLXI of 2011 on the Organisation and Administration of Courts of Hungary
[11]Rule of Law Report 2020 capitolo dedicato all’Ungheria.
[12]Bencze M. – Badó A. (2016): A magyar bírósági rendszer hatékonyságát és az ítélkezés színvonalát befolyásoló strukturális és személyi feltételek, in: A magyar jogrendszer állapota, MTA-TKJTI, 2016, 14_Bencze_Matyas_Bado_Attila.pdf (tk.hu), 14_Bencze_Matyas_Bado_Attila.pdf (tk.hu)
[13]Legge organica n. 161 del 2011 in materia di ’Organizzazione e amministrazione delle corti’ e la legge organica n. 162 del 2011 in materia di ’Status e retribuzione dei giudici’
[14]Decreto del Ministro della Giustizia n.11 del 1999.
[15]3/2016. (II.29.) OBH utasítás
[16]Decreto del Ministro della Giustizia n. 5 del 1991
[17]Decreto comune del Ministero della Giustizia e del Ministero della Sanità Pubblica n. 1 del 1999.
[18]Decreto del Ministro della Giustizia (KIM) n.7 del 2011.
[19]Legge no.127 del 2019
[20] A.Laczó-A.Madarasi, Dominance of female judges in the courts of Hungary – A different path to the development of women’s equality, 2022.
[21] Legge no. 164 del 2011.
Sommario: 1. Le vicende oggetto delle due sentenze: ricostruzione e categoria della ristrutturazione edilizia. – 2. Il progressivo ampliamento della nozione di ristrutturazione edilizia nel t.u. edilizia. – 3. Demo-ricostruzione e continuità sostanziale (oltre che temporale). – 4. Ripristino di edifici diruti: natura sostanziale di nuova costruzione e conseguenze. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Le vicende oggetto delle due sentenze: ricostruzione e categoria della ristrutturazione edilizia
Con due pronunce di pari data del gennaio 2023 Cassazione e Consiglio di Stato forniscono un’interpretazione della categoria di intervento edilizio della “ristrutturazione edilizia”[1] che ne circoscrive rigorosamente l’ambito di applicazione con riguardo, rispettivamente, alla demo-ricostruzione e al ripristino di edifici diruti.
Nella fattispecie affrontata dalla Cassazione viene in rilievo un permesso di costruire rilasciato per la demolizione di una casa colonica, costituita da due unità immobiliari e da alcuni annessi agricoli, con costruzione, in luogo delle predette strutture, di un complesso residenziale costituito da dieci villini in linea e un parcheggio a raso. La questione essenziale trattata, qui di interesse, attiene alla configurabilità o meno nella specie di un intervento di ristrutturazione edilizia, quale categoria di intervento massimo consentito nel piano di recupero ivi vigente. Risolvendo in senso negativo la questione, la Suprema Corte, pur prendendo atto dei ripetuti interventi del legislatore che hanno ampliato la nozione di ristrutturazione edilizia (su cui si darà conto infra), ritiene sia rimasta invariata “la ratio qualificante l'intervento edilizio, che, postulando la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, è comunque finalizzata al recupero del medesimo, pur con le ammesse modifiche di esso”. Tale essendo la finalità, non può essere ragionevolmente sussunto nella categoria della ristrutturazione edilizia un intervento che faccia scomparire ogni traccia della preesistenza; l’esito della trasformazione è più correttamente da qualificarsi come “nuova costruzione” e, peraltro, è di tale rilevanza sotto il profilo urbanistico da far ritenere integrati i presupposti della lottizzazione abusiva.
Nella fattispecie decisa dal Consiglio di Stato viene in rilievo un intervento di ripristino di un preesistente fabbricato abitativo integralmente demolito nel 1995 in quanto gravemente danneggiato dal sisma occorso in Campania negli anni ‘80. Nel 2014, a distanza di un ventennio dalla demolizione, i proprietari presentano un’istanza di permesso di costruire per realizzare un edificio fedele al preesistente, in ritenuta applicazione dell’art. 30, co. 1, lett. a), d.l. 21 giugno 2013 n. 69 (noto come decreto del fare), convertito nella l. 9 agosto 2013 n. 98, che, modificando e integrando l’art. 3 t.u. edilizia (d.P.R. n. 380/2001), ha incluso nella categoria della “ristrutturazione edilizia” la ricostruzione di edifici crollati o demoliti dei quali possa essere dimostrata la preesistente consistenza. Mentre la commissione edilizia integrata e il responsabile dell’ufficio del paesaggio del comune condividono la sussunzione nella predetta categoria di intervento – trattandosi di fedele ricostruzione di un documentabile fabbricato demolito –, in termini negativi si esprime la soprintendenza, competente sul progetto in ragione del vincolo paesaggistico gravante sull’intero territorio comunale. In particolare, l’amministrazione statale, rilevato che l’edificio non risulta più esistente dal 1995, motiva il proprio parere negativo in ragione del divieto di “qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti” sancito per la zona di riferimento dal piano territoriale paesistico approvato nel 2002.
Nel giudicare legittimo il diniego, il Consiglio di Stato fornisce una rigorosa interpretazione della disciplina dell’intervento del ripristino di edifici crollati o demoliti sotto due distinti profili: il presupposto del crollo o della demolizione della preesistenza deve essere successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 69/2013; sono comunque opponibili al progetto di intervento in questione le previsioni – come quelle urbanistiche e paesaggistiche – entrate in vigore successivamente alla demolizione o al crollo e che, come nella specie, non consentano la realizzazione di nuovi volumi o nuove costruzioni. Se l’interpretazione della irretroattività come riferita anche al verificarsi dei presupposti della fattispecie appare discutibile, il secondo principio, ampiamente argomentato dal Consiglio di Stato, consente di ricondurre a ragionevolezza una previsione normativa altrimenti idonea a incidere in modo imprevedibile e significativo sull’assetto del territorio e sulle scelte di pianificazione urbanistica.
2. Il progressivo ampliamento della nozione di ristrutturazione edilizia nel t.u. edilizia.
Le attuali definizioni delle diverse categorie di intervento edilizio – come noto, fondamentali ai fini della individuazione dei titoli abilitativi necessari e delle sanzioni in caso di abusi nonché ai fini della corretta lettura degli strumenti urbanistici che a tali categorie fanno riferimento nell’individuare gli interventi consentiti[2] – riprendono in parte quelle contenute nella l. n. 457/1978 che, nel disciplinare i neo-introdotti piani di recupero e gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, all’art. 31 definiva gli interventi di ristrutturazione edilizia come “quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, la eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
La distinzione rispetto all’intervento di “nuova costruzione” rilevava all’epoca non tanto sotto il profilo del titolo edilizio necessario (comunque rappresentato dalla concessione edilizia ai sensi della l. n. 10/1977), quanto sotto il profilo dell’onerosità (beneficiando la ristrutturazione edilizia di un regime contributivo di favore), del diverso trattamento sanzionatorio previsto dalla l. 28 febbraio 1985, n. 47, e della disciplina urbanistica applicabile (alla ristrutturazione edilizia applicandosi quella della preesistenza legittima e non quella, eventualmente diversa, recata da norme di legge o di piano sopravvenute)[3].
La definizione di ristrutturazione edilizia era stata interpretata dalla giurisprudenza come comprensiva anche degli interventi consistenti nella demolizione e successiva ricostruzione di un fabbricato, a condizione che la ricostruzione fosse fedele – in termini di piena conformità di sagoma, volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto – e fosse effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione[4], dovendo altrimenti l’intervento essere qualificato come “nuova costruzione”. Identificata l’intenzione del legislatore nell’obiettivo di agevolare il recupero estetico e funzionale di manufatti che, in quanto già inseriti nel tessuto edilizio, non determinano per effetto dell’intervento un incremento del carico urbanistico dell’area interessata, la giurisprudenza ne faceva conseguire il principio secondo cui gli interventi di ristrutturazione edilizia soggiacciono alla normativa urbanistica sostanziale vigente all'epoca di realizzazione del manufatto oggetto di recupero (e non a quella, eventualmente diversa, vigente alla data della richiesta del titolo abilitativo necessario per il nuovo intervento).
La finalità di recupero non era contraddetta dalla possibilità – prevista in definizione – che l’intervento potesse portare a un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente e, quindi, integrare anche un’attività di trasformazione (tramite il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti): identificato nell’organismo preesistente l’elemento qualificante del recupero e della trasformazione, l’eventuale diversità – ancorché in ipotesi totale – non avrebbe potuto coincidere con la novità assoluta, risultando altrimenti integrata una nuova costruzione[5].
Così delimitata la nozione, essa era quindi reputata idonea ad accogliere – non per creazione giurisprudenziale, ma in ragione di una corretta interpretazione del tenore letterale e della finalità della disposizione di riferimento[6] – anche la demolizione e fedele ricostruzione, “specie quando ciò risulti più conveniente sotto il profilo tecnico ed economico”: la demolizione in tale caso identifica, infatti, “lo strumento necessario per la realizzazione del risultato finale, costituito dal pieno ripristino del manufatto”[7], vale a dire una sua preliminare modalità esecutiva.
Il t.u. edilizia, d.P.R. n. 380/2001, nella versione originaria dell’art. 3, co. 1, lett. d), riproponendo la definizione di ristrutturazione edilizia, vi includeva espressamente gli interventi “consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Come illustrato dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, l’espressa inclusione della demo-ricostruzione tra gli interventi di ristrutturazione edilizia sottende l’adesione e il recepimento dell’elaborazione giurisprudenziale di cui si è riferito, e trova fondamento nell’essere il genus ristrutturazione edilizia una tipologia di intervento edilizio che “presuppone la preesistenza e la conservazione di un edificio, che si intende rinnovare o modernizzare”. Il tratto distintivo della ristrutturazione edilizia è rappresentato, quindi, dall’esistenza di una relazione di continuità tra l’edificio preesistente all’intervento e l’edificio che di questo sia il risultato.
A distanza di poco tempo, con il d.lgs. 27 dicembre 2002 n. 301, venivano parzialmente attenuati i tratti rigorosi della relazione di continuità, limitando i relativi parametri identificativi alla volumetria e alla sagoma (mentre veniva espunto il riferimento all’area di sedime e alle caratteristiche dei materiali e, significativamente, non veniva riproposto il più generale concetto di “fedele ricostruzione”). Peraltro, l’inserimento nella macrocategoria degli interventi di “recupero” – e, quindi, la coerenza a tale finalità – conduceva a ritenere, per esigenze di interpretazione logico-sistematica della nuova normativa, che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per evanescenza dei presupposti per inglobare interventi di trasformazione più correttamente qualificabili come “nuova costruzione”, dovesse comunque conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente[8] e che, ad esempio, l’eliminazione tra i referenti della continuità dell’area di sedime non aprisse la strada al posizionamento discrezionale della preesistenza nel lotto, se non addirittura in altro sito, ma consentisse modifiche dell’area di sedime nei limiti delle varianti non essenziali (per il riempimento della cui nozione l’art. 32 t.u. edilizia rinvia, come noto, alle definizioni delle leggi regionali)[9].
È del resto proprio in ragione di tale relazione di continuità – e della già intervenuta trasformazione del territorio[10] – che gli oneri di urbanizzazione corrisposti con riferimento alla preesistenza sono riconosciuti e portati a scomputo in caso di demo-ricostruzione[11].
Nell’elaborazione originaria del t.u., la relazione di continuità tra edificio preesistente demolito e quello risultante dalla ricostruzione richiedeva, inoltre, oltre al rispetto della volumetria, della sagoma e degli elementi distintivi, anche che le due operazioni avvenissero in un unico contesto temporale, senza soluzione di continuità: l’intervento, in definitiva, è unitario in quanto la demolizione è finalisticamente legata alla ricostruzione, è un mezzo per la sua realizzazione[12].
Su tale continuità temporale (o contestualità) ha poi inciso nel 2013 il già citato art. 30, co. 1, lett. a), d.l. n. 69/2013, convertito nella l. n. 98/2013, che ha ampliato la definizione della “ristrutturazione edilizia” includendovi gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, a condizione che sia possibile accertarne la preesistente consistenza[13].
Si tratta di interventi edilizi che in precedenza la giurisprudenza aveva qualificato come “nuova costruzione” in base alla combinata considerazione che un rudere ha perso, sia in termini strutturali che funzionali, i caratteri dell’entità urbanistico-edilizia originaria[14], mentre la preesistenza oggetto di intervento deve essere un organismo edilizio dotato di componenti essenziali – quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura – idonee ad assicurargli un minimo di consistenza (e a identificare un volume) e a farlo giudicare presente nella realtà materiale[15], in mancanza delle quali si identifica un’area non edificata[16].
La ricostruzione di ruderi – vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio nei termini predetti – veniva pertanto ricondotta nell’alveo della “nuova costruzione”, non rilevando in senso contrario la possibilità di risalire, attraverso complesse indagini tecniche, all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale[17].
In chiara rottura rispetto al sintetizzato orientamento giurisprudenziale, l’inclusione nel 2013 nella ristrutturazione dell’intervento consistente nella sola ricostruzione di quanto risulti già demolito o crollato comporta che il concetto di preesistenza non si basi più sull’esistenza attuale del manufatto (preesistenza materiale) ma sulla relativa documentazione (preesistenza documentale)[18].
Contestualmente, il decreto del fare ha eliminato – a eccezione degli “immobili sottoposti a vincoli ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42”[19] – la condizione, prima necessaria per l’inquadramento nella ristrutturazione edilizia della demo-ricostruzione, del rispetto della sagoma dell’edificio preesistente e, conseguenzialmente ma implicitamente, anche quella connessa all’area di sedime[20]. Il rispetto di tale condizione è stata direttamente non menzionata per la neo-introdotta fattispecie del ripristino di ruderi.
Demo-ricostruzione e ripristino sono “accomunati dalla medesima finalità di contenimento del consumo di suolo”[21]. Si legge, infatti, nella relazione al decreto del fare che: “Al fine di favorire la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente ed evitare ulteriore consumo del territorio, si agevolano gli interventi di ristrutturazione edilizia volti a ricostruire un edificio con il medesimo volume dell'edificio demolito, ma anche con sagoma diversa dal precedente, e si ricomprendono tra gli interventi di demolizione e ricostruzione classificati come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”. La lettura della relazione è utile per comprendere la ratio dell’inserimento nella ristrutturazione edilizia, ancorché la relazione stessa si esprima in modo non preciso – per ciò che si dirà infra nel paragrafo 4 – nella parte in cui comprende gli interventi di ripristino in quelli di demo-ricostruzione: si tratta di sottospecie di ristrutturazione edilizia diverse, con conseguente non integrale sovrapponibilità del relativo regime giuridico, come verrà rilevato.
La novella ha quindi intaccato il requisito della continuità anche sotto il profilo sostanziale, consentendo di ricostruire una preesistenza con diversa sagoma e ponendo come unico limite quello della volumetria.
Si tratta in ogni caso di modifiche per effetto delle quali talune fattispecie sino ad allora rientranti nella nozione residuale di “nuova costruzione”, recata dall’art. 3, co. 1, lett. e) t.u. edilizia, sono state fatte “scivolare”[22] entro la diversa categoria della ristrutturazione edilizia.
La giurisprudenza, peraltro, si manteneva ostinatamente ferma nel richiedere una sostanziale continuità con l’edificio preesistente nelle caratteristiche planivolumetriche e architettoniche[23].
Ed è probabilmente in risposta a tale rigore giurisprudenziale che il d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (decreto semplificazioni), convertito nella l. 11 settembre 2020 n. 120, ha espressamente incluso nella ristrutturazione edilizia gli interventi di demo-ricostruzione di edifici esistenti “con diversa sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, per l'applicazione della normativa sull'accessibilità, per l'istallazione di impianti tecnologici e per l'efficientamento energetico”; e consentito, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria, “anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”.
La riscrittura della definizione ha quindi specificato puntualmente i parametri la cui modifica non risulta rilevante, ammettendo espressamente che l’esito dell’intervento possa presentare “caratteristiche molto differenti”[24]. La finalità perseguita dalla novella del 2020 è dichiaratamente quella di “semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese, nonché di assicurare il recupero e la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processi di rigenerazione urbana, decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo” (art. 10, co. 1, d.l. n. 76 cit.)[25].
Il rigore è stato invece conservato – e, anzi, accresciuto nei termini di una “fedele ricostruzione”[26] – nella definizione dei parametri qualificanti la continuità con riferimento agli “immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio” nonché innovativamente – ma con salvezza di diverse previsioni legislative e degli strumenti urbanistici – a quelli ubicati nelle zone omogenee A o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico: in tali casi, gli interventi di demo-ricostruzione e quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono – nel testo del 2020 – interventi di ristrutturazione edilizia a condizione che siano mantenuti non solo la sagoma ma anche prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e che non siano previsti incrementi di volumetria.
L’interpretazione letterale di tale ultima previsione conduceva a ritenere applicabile – a fronte peraltro di una prassi di minore rigore seguita da alcune amministrazioni[27] – la clausola di salvaguardia non solo agli interventi su immobili gravati da specifico provvedimento di vincolo in quanto dotati di pregio intrinseco – e quindi sottoposti a specifica tutela come beni culturali ex art. 10 o bellezze paesaggistiche individue ai sensi delle lettere a e b dell’art. 136 d.lgs. n. 42/2004 – ma anche a tutti gli immobili insistenti su aree tutelate con vincolo paesaggistico ex lege ai sensi dell’art. 142 d.lgs. n. 42/2004 o come bellezze d’insieme ai sensi delle lettere c) e d) dell’art. 136 citato[28].
Sollecitato dall’esigenza pratica di rendere possibile applicare le agevolazioni sull’efficientamento energetico (si pensi al superbonus del 110%) – concesse per interventi al più inquadrabili nella ristrutturazione edilizia – anche agli interventi su immobili tutelati non ex se per caratteristiche intrinseche proprie ma in quanto inseriti in ambiti tutelati paesaggisticamente ex lege o come complessi più o meno estesi, il legislatore dell’urgenza è da ultimo intervenuto nuovamente ad ampliare l’ambito della ristrutturazione edilizia. Esclusivamente con riferimento alla speciale previsione relativa agli immobili tutelati, l’art. 28 d.l. 1 marzo 2022 n. 17 (decreto energia), convertito nella l. 27 aprile 2022 n. 34, e l’art. 14 d.l. 17 maggio 2022 n. 50 (decreto aiuti), convertito nella l. 14 luglio 2022, n. 91, hanno escluso dall’ambito applicativo della disposizione di maggior rigore, rispettivamente, gli edifici situati in aree vincolate paesaggisticamente ex lege ai sensi dell’art. 142 del Codice di settore e quelli situati in aree tutelate ai sensi degli artt. 136, co. 1, lett. c) e d) (vale a dire all’interno di “bellezze d’insieme”) del medesimo Codice[29].
3. Demo-ricostruzione e continuità sostanziale (oltre che temporale).
Come anticipato, nella fattispecie decisa dalla Cassazione l’intervento assentito con il permesso di costruire era funzionale non alla realizzazione di un organismo edilizio che, pur in ipotesi in tutto o in parte diverso dal precedente come consentito dall’art. 3, lett. d) t.u. edilizia, fosse “pur sempre identificabile con quest’ultimo” (rappresentato da una casa colonica e annessi agricoli), quanto piuttosto di plurimi e diversi organismi (quali le villette a schiera). Inoltre, la previsione in progetto di una strada e di parcheggi a raso è valsa a denotare, a giudizio della Suprema Corte, la predisposizione di un nuovo complesso residenziale, “distante dal criterio fondante della ristrutturazione”, la quale impone, per rispettare la ratio della categoria di intervento e la distinzione rispetto alla “nuova costruzione”, “un connubio materiale o comunque funzionale e identitario tra l’edificio originario e l’immobile frutto di ristrutturazione”[30].
Il ragionamento conduce la Cassazione a escludere dall’ambito della categoria della “ristrutturazione edilizia” la moltiplicazione da un unico edificio di plurime distinte strutture così come, per converso, l’assorbimento di plurimi immobili in un unico complesso edilizio[31].
Il necessario connubio tra preesistenza ed esito dell’intervento – e, quindi, la necessaria identificabilità del singolo immobile ristrutturato con il nuovo organismo realizzato – spiega perché esuli dalla nozione legislativamente fissata di ristrutturazione edilizia la demolizione di distinti immobili accessori con acquisizione della relativa volumetria all’immobile principale: difetta in tale caso la ricostruzione dell’edificio demolito; questo, anziché essere al più rinnovato o modificato nei termini consentiti dal t.u. edilizia, scompare, con mero acquisto all’immobile principale della relativa volumetria.
Si tratterebbe, in definitiva, di una demolizione a vantaggio di un diverso, nuovo, edificio.
La Suprema Corte desume la conferma della “ontologica necessità che l’intervento di ristrutturazione edilizia”, nonostante le ampie concessioni legislative in termini di diversità tra la struttura originaria e quella frutto di ristrutturazione, “non possa prescindere dal conservare traccia dell'immobile preesistente” dall’art. 10 del decreto semplificazioni (d.l. n. 76/2020): questo introduce le integrazioni e modifiche dell’art. 3, lett. d), t.u. edilizia spiegando come esse rispondano alle finalità “di semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese, nonché di assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processi di rigenerazione urbana, decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo”.
Ma dalla stessa lettura dell’art. 3 t.u. edilizia risulta che la totale o parziale diversità ammessa riguarda qualità dell’edificio che ne producono la trasformazione senza però determinarne l’eliminazione: gli interventi di demo-ricostruzione sono testualmente “ricompresi” “nell’ambito” degli interventi di ristrutturazione edilizia e, quindi, devono preliminarmente essere coerenti con la definizione generale. L’insieme sistematico di opere deve pertanto essere rivolto non a cancellare ma a trasformare la struttura di riferimento, lasciando permanere un rapporto di continuità con l’organismo precedente (configurando, altrimenti, il progetto un’opera nuova, destinata a confluire negli “interventi di nuova costruzione”, “strutturalmente connotati dalla assenza di una preesistenza edilizia”).
In altri termini, rileva condivisibilmente la Cassazione, “con riguardo alla ristrutturazione non vi è spazio per nessun intervento che lasci scomparire ogni traccia del preesistente”[32].
4. Ripristino di edifici diruti: natura sostanziale di nuova costruzione e conseguenze.
In tema di ripristino e relativo regime giuridico, è necessario in primo luogo precisare i confini rispetto alla demo-ricostruzione, con cui il primo condivide l’essere una sottospecie dell’intervento di ristrutturazione edilizia. La distinzione rileva, ad esempio, allorquando permangano sul territorio tracce di una preesistenza (parti dei muri perimetrali, tracce di solaio, o altro) di cui l’intervento di ripristino implichi la preliminare rimozione e ha importanti implicazioni in merito al regime giuridico dell’intervento.
Si è ricordato che, per orientamento giurisprudenziale pacifico, esula dalla demo-ricostruzione species della ristrutturazione edilizia l’intervento che abbia ad oggetto un rudere di cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare. In particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali e privo di copertura e di strutture orizzontali non può essere riconosciuto come edificio – id estvolume – allo stato esistente[33].
Per sottrazione, il ripristino di edifici crollati o demoliti riguarda le ipotesi in cui ciò che resta della preesistenza sul territorio non abbia la predetta consistenza.
Così distinto dalla demo-ricostruzione, il ripristino pone una serie di ulteriori questioni interpretative[34], alcune delle quali non ancora risolte a distanza di un decennio dalla inclusione nella ristrutturazione edilizia, come la sentenza del Consiglio di Stato in commento dimostra.
Se sulla questione delle modalità di accertamento della preesistente consistenza la giurisprudenza è ampia e, salve alcune differenze sul grado di rigore della prova, pacifica, profili di maggiore incertezza riguardano le questioni: dell’eventuale rilievo da attribuire, ai fini della inclusione nella ristrutturazione edilizia, alla distinzione tra ruderi ed edifici del tutto inesistenti ma comprovabili a mezzo di documentazione certa; di un eventuale limite temporale entro cui sia possibile ricostruire un edificio crollato o demolito da tempo, potendo la disposizione dell’art. 3, co. 1, lett. d) t.u. edilizia, in mancanza di diverse testuali indicazioni, fondare pretese a riedificare immobili da tempo inesistenti ma la cui esistenza e consistenza sia possibile dimostrare tramite documentazione catastale, tecnica, iconografica ecc.; del rispetto delle distanze, degli standard e delle previsioni urbanistiche vigenti alla data dell’intervento di ripristino, in considerazione del fatto che nel dimensionamento degli strumenti urbanistici e nel calcolo degli standard gli edifici diruti non necessariamente sono presi in considerazione dal pianificatore, con conseguenti problematiche urbanistiche in caso di loro ripristino.
Nella fattispecie del ripristino di ruderi il legislatore compensa la continuità che si perde sul piano temporale tra demolizione (o crollo) e ricostruzione sancendo il limite del rispetto della “preesistente consistenza” del fabbricato demolito o crollato. La prova della preesistente consistenza strutturale e plano-volumetrica – che, come è evidente, grava sul soggetto interessato a intraprendere l’intervento[35] – è quindi elemento discretivo tra ristrutturazione e nuova costruzione[36].
Nel dettaglio, viene giudicata non sufficiente ai fini dell’inquadramento nella “ristrutturazione edilizia” la dimostrazione che un immobile sia esistito in un dato luogo e che attualmente risulti crollato, reputandosi necessario dimostrare, oltre all’an, il quantum (vale a dire l’esatta consistenza dell’immobile preesistente)[37].
Secondo parte della giurisprudenza, l’accertamento deve essere effettuato “con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie ecc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente”[38].
Più nel dettaglio, l’utilizzo del termine “consistenza” è stato inteso come comprensivo di tutte le caratteristiche essenziali dell’edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, ecc.) o come “complessivo ingombro plani-volumetrico (altezza, sagoma, prospetto, estensione)”[39], con la conseguenza che la mancanza di dati certi relativamente anche a uno soltanto di questi elementi determina l’insussistenza del requisito richiesto dall’art. 3, co. 1, lett. d) t.u. edilizia[40]. È ulteriormente specificato che la verifica non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve basarsi su dati certi, completi e obiettivamente apprezzabili[41].
Esprime posizioni meno rigide quella giurisprudenza che ammette l’accertamento della preesistenza “anche in via deduttiva” e “anche in misura inferiore, ma [pur sempre: n.d.r.] comprovabile, rispetto a quanto assunto dagli interessati, ovvero optando, in presenza di più risultati possibili, motivatamente per quello più restrittivo”[42]. Quest’ultimo orientamento giurisprudenziale si declina poi nella affermata illegittimità del diniego di permesso o del riscontro negativo alla s.c.i.a. che siano motivati dalla sola mancata prova certa della consistenza da parte del privato[43].
In ogni caso, ai fini dell’accertamento viene in rilievo attualmente quanto previsto dal co. 1-bis dell’art. 9-bis t.u. edilizia[44], introdotto nel 2020 dal d.l. semplificazioni, non solo perché la preesistenza deve essere legittima, ma in quanto la dimostrazione dei parametri urbanistici ed edilizi dell’edificio da ripristinare può essere fornita attraverso pratiche edilizie precedenti, o per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, attraverso le informazioni catastali di primo impianto o altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti di archivio o altro dato, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, integrati, ove occorra, da indagini tecniche finalizzate a un – imprescindibile – calcolo della volumetria.
L’inserimento del ripristino tra gli interventi sull’esistente solleva poi la già anticipata questione della consistenza degli elementi superstiti della costruzione crollata o demolita, tema non trattato dalla giurisprudenza chiamata ad applicare la disciplina del t.u. edilizia precedente al decreto del fare in ragione della allora affermata equivalenza tra rudere ed edificio non più esistente[45].
Se il recupero e la riqualificazione del patrimonio edilizio e delle aree edificate esistenti si pongono, nell’intenzione del legislatore, come strumento per contenere il consumo di suolo connesso a nuove edificazioni, e se in ragione di tale finalità è stata progressivamente ampliata la categoria della ristrutturazione edilizia, si giustifica il rigore dell’orientamento giurisprudenziale che afferma la necessità, affinché il ripristino possa essere ricondotto alla categoria della ristrutturazione (e non a quella della nuova costruzione), che l’intervento “resti all’interno del confine semantico dettato dalla nozione di ‘trasformazione’ di un edificio preesistente”, alla quale non può logicamente essere ricondotto il caso in cui non residui alcuna traccia materiale del preesistente edificio. Per quanto progressivamente ampliato, il concetto di ristrutturazione non può, infatti, “ontologicamente prescindere quantomeno dall’apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione e che è rappresentato […] dalla ‘trasformazione’ di organismi edilizi, la quale presuppone che l’intervento si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente trasformata”[46].
La possibilità di ricostruire qualcosa che fisicamente non esiste stride, già a livello teorico, con il concetto di ristrutturazione: il ripristino di edifici, per integrare ristrutturazione, richiede, quindi, “l’esistenza almeno di un rudere o comunque di resti attestanti la passata presenza dell’edificio e comportanti un impegno di suolo ancora in essere, a prescindere dalla loro incapacità di rivelare la consistenza originaria dell'immobile, cui sia necessario pervenire attraverso un'indagine storico-tecnica” [47].
Si tratta di un limite della nozione di ristrutturazione edilizia che non trova riscontro in altra giurisprudenza che più genericamente collega la fattispecie “al caso di edificio che più non esiste, di cui però la consistenza originaria si può ricostruire” tramite un’indagine tecnica[48].
Quest’ultimo orientamento estensivo, collegato alla laconicità del dato letterale che indica come oggetto di ripristino un edificio crollato o demolito senza richiedere espressamente elementi superstiti, è palesemente incoerente rispetto all’intenzione del legislatore (parimenti importante ex art. 12 preleggi) di “evitare l’ulteriore consumo di suolo, valorizzando le già intervenute trasformazioni edilizie del territorio”[49] e conduce a risultati ancora più irragionevoli ove si consideri che il t.u. edilizia non fornisce alcuna indicazione sull’ulteriore questione se esista un limite temporale oltre il quale non si possa risalire nel tempo per dimostrare l’insistenza su un’area di una preesistenza e la relativa consistenza.
I notevoli e imprevedibili effetti urbanistici nonché sul rispetto di vincoli sopravvenuti che l’eccessiva genericità della fattispecie potrebbe determinare sono, almeno in parte, attenuati grazie alla soluzione che il Consiglio di Stato nella sentenza in commento fornisce alla questione – riferibile anche al caso in cui tracce visibili della preesistenza permangano – del rilievo da riconoscere a sopravvenuti vincoli o norme di piani territoriali o urbanistici ostativi a nuove costruzioni o, comunque, impeditive del ripristino della preesistenza “come era” e “dove era”.
Come anticipato in premessa, nel caso trattato nella sentenza n. 616/2023 il privato aveva presentato il progetto di fedele ricostruzione dell’edificio, lesionato dal sisma del 1980 e demolito nel 1995, sul presupposto che la volumetria preesistente non si fosse mai estinta e, conseguentemente, l’intervento di ripristino progettato non realizzasse alcun nuovo volume vietato dal vigente piano territoriale paesistico.
Disattendendo le argomentazioni del privato, il giudice amministrativo rileva che quando la ricostruzione non segue “nel medesimo contesto temporale” alla demolizione o al crollo, sono “opponibili all’interessato le previsioni, entrate in vigore in epoca successiva alla demolizione o al crollo, che precludano la realizzazione, sul relativo fondo, di nuove costruzioni o di nuovi volumi”.
Per regola generale la demolizione di un edificio determina l’eliminazione, fisica e giuridica, della volumetria esistente, con la conseguenza che la ricostruzione dell’edificio è in linea di principio preclusa se, in epoca posteriore alla realizzazione della preesistenza, sono entrati in vigore nuovi strumenti di governo del territorio ostativi alla realizzazione di nuove costruzioni. A questa regola generale – spiega il Consiglio di Stato – fa eccezione, al ricorrere di determinate condizioni, il caso in cui la demolizione sia seguita, nell’ambito di un unitario intervento, dalla ricostruzione.
Invece, in caso di ripristino di un edificio crollato o demolito il legame di continuità – connotato, come visto, degli interventi di ristrutturazione –, non solo è più labile ma “viene ad esistenza solo a posteriori”, cioè a seguito della scelta del privato di ricostruire l’edificio crollato o demolito tempo prima: “fintanto che l’interessato non manifesta l’intenzione di procedere alla ricostruzione nella realtà fisica, il fabbricato non esiste più e quindi non può essere percepito come entità ‘virtualmente’ ancora presente”. Da ciò consegue che “le norme che, a vario titolo (urbanistiche, tutela del paesaggio, etc.), intervengono dopo la demolizione o il crollo dell’edificio, disciplinando l’uso del suolo in modo che la realizzazione di nuove costruzioni o di nuovi volumi non sia più consentita, devono ritenersi opponibili al proprietario del fondo, e quindi preclusive anche di interventi di ristrutturazione nel senso che qui si sta considerando, trattandosi di norme che legittimamente (e prima ancora logicamente) sono partite dalla considerazione del fondo come sgombro dai volumi che si intendono ricostruire, e sulla base di tale considerazione hanno espresso una scelta”[50].
Il principio per cui la ‘volumetria’ rinveniente dalla demolizione/crollo di un edificio non si “estingue” se seguita dalla ricostruzione e per cui, conseguentemente, la relativa ricostruzione non è nuova costruzione non è quindi applicabile allorquando la ricostruzione non sia programmata in un momento precedente alla demolizione – e quindi la seconda non sia modalità esecutiva della prima –, non essendovi in tale caso certezza circa il fatto che tale volumetria sarà “riutilizzata”.
Diversamente opinando, in difetto di specifiche norme urbanistiche disciplinanti tale situazione[51], il regime giuridico di un fondo sarebbe lasciato a “una situazione di incertezza giuridica che ridonderebbe sulla capacità dell’amministrazione di programmare correttamente l’uso del territorio”. Rileva condivisibilmente il Consiglio di Stato che in sede di pianificazione urbanistica l’amministrazione non sarebbe certa di poter ritenere la volumetria rinveniente da demolizioni/crolli quale volumetria ancora “impegnata” o esistente o, al contrario, non esistente e tale da poter essere eventualmente collocata altrove.
L’iter argomentativo conduce il Consiglio di Stato ad affermare che in caso di ripristino di edifici crollati – “in cui il legame di continuità tra l’edificio preesistente e quello ricostruito è fittizio, poiché frutto di una scelta assunta a posteriori, e anche perché l’edificio ricostruito non deve neppure essere totalmente fedele a quello preesistente (salvi i casi di ricostruzione in zona tutelata)” – “la volumetria rinveniente dalla demolizione o dal crollo di un edificio si estingue, salvo “rivivere” nel momento in cui il privato manifesta l’intenzione di utilizzarla nuovamente.
Badando alla sostanza dell’operazione, l’intervento integra, in realtà, una “nuova costruzione”, il cui inserimento da parte del legislatore nella categoria della ristrutturazione edilizia è finalizzata ad una semplificazione procedurale (potendo essere assentita anche con s.c.i.a.), a un alleggerimento contributivo, oltre che a rendere possibile l’accesso – come forma di incentivo per interventi che soddisfano anche l’interesse pubblico al contenimento dell’uso del suolo e alla riqualificazione – ai benefici fiscali e agli incentivi connessi ai bonus edilizi.
La natura sostanziale di nuova costruzione, a prescindere dall’eccezionale regime giuridico abilitante, implica però che “all’atto della sopravvenienza di nuove norme che precludano sul fondo la realizzazione di nuove costruzioni o di nuovi volumi, gli interventi di ristrutturazione in parola devono ritenersi preclusi, salvo che non siano specificamente fatti salvi dalle nuove norme”.
Se, quindi, dall’intervenuta demolizione o dal crollo dell’immobile non si può desumere una volontà del proprietario di abbandonare gli intenti edificatori di ricostruzione[52] (a meno che nelle more tra demolizione o crollo e pretesa di ripristino il sedime su cui insisteva l’edificio da ripristinare sia stato oggetto di diversa trasformazione urbanistica-edilizia[53]), al contempo, l’edificabilità del suolo – e quindi la possibilità di sfruttamento edificatorio – resta soggetta, come di regola accade in sede di nuova pianificazione o di variante per i residui di piano (cioè per le previsioni di trasformazione dello strumento urbanistico rimaste inattuate), a possibili sopravvenute diverse scelte di destinazione o di standard così come al sopravvenire di prescrizioni di vincolo più restrittive o in radice ostative all’edificazione[54].
In definitiva, l’esito del ripristino – seppure agevolato sul piano procedurale con l’inserimento nella categoria della ristrutturazione edilizia – costituisce comunque un novum, sulla base della distinzione tra volume esistente (demo-ricostruzione) e volume virtuale (edificio crollato e demolito).
Il ragionamento del Consiglio di Stato sulla opponibilità delle previsioni di piano o di vincolo sopravvenute non può non rilevare, per ragioni di coerenza, anche in merito alle distanze: venendo sostanzialmente in rilievo una nuova costruzione, e dunque un novum, a prescindere dal fatto che il progettato ripristino sia fedele o meno, non possono non trovare applicazione le distanze prescritte al momento della ricostruzione.
Né, in senso contrario, potrebbe sostenersi l’applicabilità al ripristino dell’art. 2-bis, co. 1-ter t.u. edilizia, in quanto norma eccezionale e derogatoria e dunque non suscettibile di applicazione analogica.
Il testo originario[55] dell’art. 2-bis, co. 1-ter t.u. edilizia, introdotto dal d.l. 18 aprile 2019 n. 32 (decreto sblocca cantieri), convertito in l. 14 giugno 2019 n. 55 confermava il principio generale dell’applicabilità a tutto ciò che identifica un novum delle distanze prescritte al momento dell’intervento di ristrutturazione. Disponeva, infatti, che “in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest'ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell'altezza massima di quest'ultimo”. Si trattava della positivizzazione del principio elaborato dalla giurisprudenza[56] per il quale la demo-ricostruzione di un edificio se effettuata con coincidenza di area di sedime e di sagoma si sarebbe sottratto al rispetto delle norme sulle distanze prescritte per le nuove costruzioni, mentre se effettuata senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime avrebbe rappresentato, quanto a collocazione fisica, un novum, soggetto come tale al rispetto (“indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione”) delle norme sulle distanze[57]. L’art. 9 n. 2 d.m. n. 1444/1968 riguarda, infatti, i “nuovi edifici” e non già gli edifici preesistenti[58].
Nuovamente rincorrendo esigenze manifestatesi nella pratica, il già citato decreto semplificazioni nel 2020 ha poi modificato la disposizione poiché le condizioni poste risultavano eccessivamente limitanti riducendo nei tessuti urbani consolidati le possibilità di operare significativi interventi di rigenerazione (come trasformazioni planivolumetriche necessarie per cambi di destinazione d’uso o per migliorare caratteristiche architettoniche o per usufruire di premialità volumetriche incentivanti nella ricostruzione). Il legislatore ha quindi introdotto una norma eccezionale e derogatoria rispetto al ricordato principio generale, riscrivendo il citato co. 1-ter che attualmente recita: “In ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici […] la ricostruzione è comunque consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti” (senza più imporre la condizione della coincidenza di sedime, volume e altezza)[59].
Nel caso del ripristino (che, come illustrato, ha ad oggetto un volume virtuale) l’art. 2-bis, co. 1-ter, in quanto norma eccezionale ed espressamente riferita alla sola demo-ricostruzione, non può trovare applicazione e torna a vigere il principio generale che in riferimento a un novum – identificabile nella specie perché la volumetria si è estinta con la demolizione o il crollo, lasciando solo un potenziale edificatorio in termini di volume virtuale – considera opponibili le sopravvenienze[60].
Tale soluzione – nella consapevolezza che risulta probabilmente di eccessivo rigore qualora il ripristino sia fedele e contribuisca a riqualificare un’area su cui permangono tracce visibili (possibili fonti di degrado, di pericolo e di non uso di un suolo già trasformato) – consegue, in assenza di diverse specifiche indicazioni del legislatore, dalla natura sostanziale del ripristino quale nuova costruzione.
Tornando alla sentenza del Consiglio di Stato n. 616/2023, non altrettanto condivisibile è il secondo principio affermato: ricordato che le previsioni dell’art. 30 del decreto del fare trovano applicazione, come stabilito al co. 6 della medesima disposizione, “dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, il giudice interpreta l’irretroattività non solo nel senso che l’intervento di ripristino è ristrutturazione a partire da tale data, ma riferendola anche al momento di integrazione dei fatti presupposti dell’intervento: la nuova fattispecie di ristrutturazione edilizia troverebbe allora applicazione “se ed in quanto i fatti presupposti si siano inverati, tutti, nel vigore delle nuove disposizioni”, conducendo il giudicante alla conclusione che solo in relazione a edifici crollati o demoliti in epoca successiva all’entrata in vigore della l. n. 98/2013, di conversione del d.l. n. 69/2013, è possibile assentirne la ricostruzione (non contestuale) come ristrutturazione edilizia[61].
Sennonché, limitare l’applicazione della novella alle ipotesi in cui il crollo o la demolizione siano successivi al 21 agosto 2013 significa circoscriverne l’ambito oggettivo oltre che drasticamente anche irragionevolmente alla luce della ratio dell’integrazione operata nel 2013 “da individuare […] nel recupero al territorio e alla vita sociale di edifici, oggi diroccati, che non svolgono alcuna funzione se non quella negativa di danno al paesaggio ed alla sicurezza pubblica in considerazione, tra l’altro, dello stato precario in cui insistono e dell’assenza di manutenzione; ciò determina il recupero del suolo ed il risparmio del medesimo ma anche una maggiore percezione sociale di zone, anche disabitate e periferiche, ove questi edifici insistono”[62].
Il co. 6 dell’art. 30 del decreto del fare si limita, in realtà, a ribadire il principio generale per cui, a fronte dei plurimi interventi modificativi e integrativi delle disposizioni del t.u. edilizia, per verificare la rispondenza del concreto intervento edilizio al tipo normativo occorre di volta in volta individuare la norma vigente al momento del conseguimento del titolo edilizio[63].
5. Considerazioni conclusive.
I ripetuti interventi del legislatore di revisione della disciplina edilizia sottendono un intento non solo semplificatorio, con auspicati effetti favorevoli sugli investimenti, ma anche di maggiore sostenibilità ambientale, in collegamento con gli obiettivi di riduzione del consumo di suolo e di efficientamento energetico[64]. Sotto il primo profilo, è sufficiente ricordare che l’Agenda 2030 richiede un allineamento del consumo di suolo alla crescita demografica entro il 2030 (indicatore s.d.g. 11.3.1) e che l’Unione europea, a partire dalla comunicazione della Commissione del 2011 “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse” ha posto agli Stati membri l’obiettivo di giungere nel 2050 a un saldo netto pari a zero del consumo di suolo (con applicazione del principio del “riciclo” anche al territorio e alla pianificazione territoriale ed urbanistica, poi tradottosi in una “gerarchia del consumo di suolo” da recepire nei piani comunali, indicata dalla Strategia europea del suolo per il 2030 approvata dalla Commissione europea il 17 novembre 2021). Sul piano della disciplina urbanistica, la rilevanza delle politiche del riuso e della rigenerazione urbana[65] dovrebbe condurre a stabilire che gli strumenti comunali di governo del territorio possano prevedere consumo di suolo esclusivamente nei casi in cui sia dimostrata l’impossibilità di riqualificare e rigenerare aree già edificate, mediante il riuso o la sostituzione di edilizia esistente inutilizzata o il recupero di aree dismesse.
Sotto il secondo profilo, è sufficiente ricordare la strategia di ristrutturazione del parco nazionale di edifici residenziali e non residenziali, sia pubblici che privati, che l’art. 3-bis d.lgs. 192/2005 prevede – in recepimento di direttive europee – al fine di ottenere un patrimonio immobiliare decarbonizzato e ad alta efficienza energetica entro il 2050, facilitando la trasformazione degli edifici esistenti in edifici a energia quasi zero.
Le novità recate al t.u. edilizia con una sequenza quasi alluvionale di novelle sono senz’altro apprezzabili quanto a obiettivi sottesi, ma risultano, come le sentenze commentate dimostrano, fonte di problemi interpretativi, teorici e applicativi, e di conseguente incertezza per gli operatori e gli amministratori e, quindi, contenzioso. Il che ridonda sul grado di effettività delle stesse.
Le fattispecie oggetto delle recenti sentenze della Cassazione e del Consiglio di Stato evidenziano la necessità di una rivisitazione normativa delle definizioni degli interventi edilizi che torni a categorie generali e alla summa divisio tra interventi conservativi, trasformativi e di nuova costruzione, rifuggendo da un’eccessiva analiticità e fornendo, piuttosto, chiarezza sulla ratio identificativa e distintiva delle diverse categorie, sì che possa tale ratio orientare secondo ragionevolezza l’interprete e i professionisti dinanzi agli innumerevoli casi pratici. Come condivisibilmente rilevato dalla dottrina, l’eccessiva minuziosità delle definizioni non elimina quell’incertezza applicativa, generata dalla casistica, che è la causa stessa delle ripetute modifiche legislative, non raramente avendo anzi contribuito ad accrescere la divergenza delle interpretazioni[66].
L’incertezza delle definizioni si traduce in incertezza sui titoli abilitativi necessari e sul regime giuridico dell’intervento, esito aggravato dall’orientamento giurisprudenziale che qualifica come privo di titolo l’intervento realizzato o intrapreso sulla base di un titolo inidoneo (come una s.c.i.a. in luogo dell’istanza di permesso di costruire)[67].
Le pronunce commentate appaiono allora utili, nei termini illustrati, a ribadire, bloccando eccessive fughe in avanti incoerenti con gli stessi obiettivi di sostenibilità ambientale citati, che la demo-ricostruzione – in qualunque modalità essa si estrinsechi – non è attività costruttiva del “nuovo”, ma è relativa al recupero estetico e funzionale dell’“esistente”, come tale non fonte di ulteriore compromissione del territorio e di incremento del carico antropico, e a chiarire che il ripristino di un volume non più esistente identifica, nella sostanza, una “nuova costruzione” inserita in via eccezionale nella categoria di intervento minore a meri fini di semplificazione procedimentale e di consentire l’accesso a incentivi.
[1] Sulla ristrutturazione edilizia, tra i molti contributi, senza pretesa di esaustività: S. Antoniazzi, G. Leone, G. Maione, A. Parisi, Art. 3, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2015, 69 ss.; E. Mitzman, Art. 3, in S. Battini, L. Casini, G. Vesperini, C. Vitale (a cura di), Codice ipertestuale dell’edilizia e dell’urbanistica, Torino, 2013, 1096 ss..; C.P. Santacroce, Gli interventi di ristrutturazione edilizia (artt. 3 e 10 TUED), in Riv. giur. urb., 2014, 478; P. Tanda, La nuova disciplina dei titoli abilitativi in materia urbanistica: in particolare, gli interventi di ristrutturazione edilizia anche alla luce della l. 21 giugno 2017 n. 96, in Riv. giur. edil., 2017, 335; A. Calegari, L’evoluzione del concetto di ristrutturazione edilizia, tra esigenze di conservazione e volontà di promuovere la rigenerazione urbana, in Riv. giur. urb., 2022, 221.
[2] Sulla valenza trasversale rispetto all’intero impianto del corpus normativo rivestita dalla codificazione degli interventi edilizi, condizionando essa l’applicazione e l’interpretazione delle disposizioni in tema di titoli abilitativi, di contributo di costruzione e di regime sanzionatorio, tra i molti contributi: S. Antoniazzi, G. Leone, G. Maione, A. Parisi, Art. 3, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2015, 42; M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. giur. edil., 2022, 171.
[3] In argomento A. Calegari, L’evoluzione del concetto di ristrutturazione edilizia, cit., 222.
[4] Cons. Stato, Sez. V, 3 aprile 2000, n. 1906; Id., Sez. IV, 9 luglio 2010, n. 4462; Id., 5 ottobre 2010 n. 7310; Id., Sez. II, 18 maggio 2020, n. 3153.
[5] In argomento D. Foderini, La ristrutturazione edilizia mediante l'integrale demolizione e ricostruzione delle opere, in Riv. giur. edil., 2000, 65.
[6] D. Foderini, La ristrutturazione edilizia, cit..
[7] Cons. Stato, Sez. V, 3 aprile 2000, n. 1906, cit.; Id., Sez. IV, 28 luglio 2005, n. 4011.
[8] Cons. Stato, Sez. IV, 28 luglio 2005, n. 4011, cit..
[9] Circolare Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 7 agosto 2003 n. 4174, Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, come modificato e integrato dal decreto legislativo 27 dicembre 2002, n. 301. Chiarimenti interpretativi in ordine alla inclusione dell’intervento di demolizione e ricostruzione nella categoria della ristrutturazione edilizia.
[10] Ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 1847: la ristrutturazione edilizia “si distingue dalla nuova costruzione perché mentre quest’ultima presuppone una trasformazione del territorio, la ristrutturazione è invece caratterizzata dalla preesistenza di un manufatto, in quanto tale trasformazione vi è in precedenza già stata”.
[11] Cons. Stato, Sez. VI, 7 maggio 2015, n. 2294; Id., Sez. II, 18 maggio 2020, n. 3153.
[12] In argomento S. Antoniazzi, Ristrutturazione edilizia ed interventi di demolizione e ricostruzione dell'edificio preesistente: alcuni spunti di riflessione sulle caratteristiche essenziali, in Riv. giur. edil., 2005, 127.
[13] In argomento P. Urbani, La ristrutturazione edilizia leggera nel “decreto del fare”, in Urb. app., 2014, 631 ss.; A. Di Leo, Questioni pratiche (edilizie ed urbanistiche) relative alla ricostruzione di edifici, in tutto o in parte, crollati, in L’Ufficio tecnico, 2018, 3, 62 ss..
[14] Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106.
[15] Cons. Stato, Sez. VI, 3 ottobre 2019, n. 6654.
[16] Cass. pen., Sez. III, 9 luglio 2018, n. 39340 e giurisprudenza ivi richiamata in senso adesivo; Id., 30 settembre 2014, n. 40342; Id., 23 gennaio 2007, n. 15054; Cons. Stato, Sez. V, 10 marzo 1997, n. 240; Id., Sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 735.
[17] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106, cit., e i precedenti citati.
[18] Cfr. la nota Regione Lazio, Direzione regionale territorio, urbanistica, mobilità e rifiuti del 21 maggio 2015 n. 278103 ad oggetto Richiesta di parere in merito all'intervento di ripristino di un edificio alla luce delle modifiche apportate all'art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. 380/2001 da parte del d.l. 69/2013, come convertito dalla legge 98/2013, al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, cui ha fatto seguito la Nota del Ministero 24 dicembre 2015 n. 10911 e il parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, adunanza del 18 febbraio 2016, n. 3/2016, reperibili nel sito della Regione Lazio: “sembra quindi sancito il passaggio dalla preesistenza e consistenza comprovabile esclusivamente dall’esistenza materiale a quella comprovata a mezzo di fonti documentali in cui sia dimostrata preesistenza e consistenza dell'organismo edilizio, benché non più fisicamente individuabile nella sua volumetria, in base a documentazione dalla quale possano essere accertati con certezza i parametri edilizi essenziali”.
[19] In argomento, in relazione a quanto trattato infra nel testo, la giurisprudenza ha inteso l’uso del termine “vincoli” come riferito anche all’ipotesi in cui “il vincolo paesaggistico riguarda una zona e non un singolo immobile”: Cass. pen., Sez. III, 8 marzo 2016, n. 33043; così anche T.A.R. Sardegna, Sez. II, 5 dicembre 2017, n. 772 dove si legge: “vista la genericità della previsione, non possono operarsi distinzioni a seconda della fonte della natura del vincolo; ne consegue che [la previsione] si applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità non già assoluta ma solo relativa”.
[20] Il mancato riferimento all’identità di sagoma conduce a escludere anche l’esigenza che sia conservata un’identica area di sedime: T.A.R. Abruzzo, Pescara, 9 luglio 2015, n. 294 (n.a.); T.A.R. Piemonte, Sez. II, 15 novembre 2016, n. 1410 (in tale parte non riformata da Cons. Stato, Sez. IV, 12 ottobre 2017, n. 4728). Sulle modifiche recate dal decreto del fare, con particolare riferimento alla lettura combinata degli artt. 3 e 10 t.u. edilizia e alla conseguente individuazione del titolo edilizio necessario A. Calegari, Il permesso di costruire ordinario e convenzionato, cit., 500.
[21] TAR Lazio, Latina, Sez. I, 27 maggio 2022, n. 505.
[22] C.P. Santacroce, Gli interventi di ristrutturazione edilizia (artt. 3 e 10 TUED), cit., 489; E. Boscolo, Le novità in materia urbanistico-edilizia introdotte dall’art. 17 del decreto “Sblocca Italia”, in Urb. e app., 2015, 28.
[23] In argomento cfr. la Circolare congiunta del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero della funzione pubblica 2 dicembre 2020, avente ad oggetto Articolo 10 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120. Chiarimenti interpretativi.
[24] Circolare congiunta del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero della funzione pubblica 2 dicembre 2020, cit..
[25] Cfr. A. Calegari, L’evoluzione del concetto di ristrutturazione edilizia, tra esigenze di conservazione e volontà di promuovere la rigenerazione urbana, in Riv. giur. urb., 2022, 239 rileva che ci potrebbero comunque essere ostacoli di natura amministrativa o civile alla ricostruzione “dove era” e “come era”, come “ad esempio, il divieto di ricostruzione stabilito dagli artt. 16, 17 e 18 del Codice della strada (approvato con d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285), i quali operano in modo assoluto per qualunque forma di ricostruzione, indipendentemente dal fatto che la stessa possa essere qualificata come ristrutturazione edilizia o come nuova costruzione”; aggiunge che “la possibilità di qualificare qualunque forma di ricostruzione come ristrutturazione edilizia ha innanzi tutto una valenza classificatoria, che può avere importanti ripercussioni sul piano giuridico amministrativo, ma che non garantisce necessariamente l’ammissibilità dell’intervento sul piano urbanistico”; se è vero che le definizioni recate dall’art. 3 t.u. edilizia prevalgono su quelle regionali e locali, “sarà sempre possibile demolire e ricostruire tutte le volte in cui il piano ammetta la ristrutturazione. Ma il piano rimane comunque libero di stabilire che in certe zone o per certi edifici la demolizione e ricostruzione non sia possibile, allorquando le caratteristiche degli stessi impongano di mantenerne gli elementi costruttivi originali. In altre parole, la valenza dell’art. 3 è solo edilizia, non anche urbanistica. E la prova più evidente di ciò è data proprio dal già ricordato art. 3-bis, nella misura in cui esso assicura sempre la ristrutturazione conservativa, ma non fa altrettanto per la ristrutturazione ricostruttiva”.
[26] Così T.A.R. Campania, Sez. II, 10 gennaio 2022, n. 171.
[27] Si v., ad esempio, la nota Regione Liguria prot. 92712 del 13 marzo 2021, cui ha fatto seguito la richiesta da parte del Comune di Genova (nota 6 maggio 2021 prot. n. 164506) di parere al Ministero della cultura. L’ufficio legislativo del Ministero della cultura, con parere prot. 31477 del 21 settembre 2021, allegato alla circolare della Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio n. 38/2021, ha fornito della disposizione un’interpretazione rigorosa e conforme al tenore letterale. La diversa interpretazione era favorevole a circoscrivere il maggiore rigore agli interventi su immobili dotati di un intrinseco pregio, lasciando fuori quelli su immobili tutelati solo in quanto compresi in ambiti vincolati nel loro complesso.
[28] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 28 marzo 2022, n. 3486.
[29] La semplificazione non opera però sul piano procedurale, posto che l’art. 10 t.u. edilizia è stato contestualmente integrato nell’elenco delle fattispecie di ristrutturazione edilizia pesante con la previsione della necessità del permesso di costruire per gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino la demolizione e ricostruzione di edifici situati in aree tutelate ai sensi degli artt. 136, co. 1, lett. c) e d), e 142 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, o il ripristino di edifici, crollati o demoliti, situati nelle medesime aree, in entrambi i casi ove siano previste modifiche della sagoma o dei prospetti o del sedime o delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente oppure siano previsti incrementi di volumetria.
[30] In tale senso la giurisprudenza amministrativa evidenzia che “la ristrutturazione edilizia, quale intervento sul preesistente, non può fare a meno di una certa continuità con l’edificato pregresso”: T.A.R. Veneto Sez. II, 2 maggio 2022, n. 660, relativa a una fattispecie in cui un complessivo intervento analogo a quello oggetto della decisione della Cassazione è stato qualificato come “ristrutturazione urbanistica”; T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna Sez. II, 16 febbraio 2022, n. 183; Cons. Stato, Sez. II, 6 marzo 2020, n. 1641.
[31] In termini Cass. pen., Sez. III, 29 luglio 2020, n. 23010, ancorché rispetto a un quadro normativo non inclusivo ancora del citato d.l. n. 76/2020, ha ravvisato gli estremi della lottizzazione abusiva in una fattispecie analoga a quella decisa nella sentenza in commento, in cui l’intervento realizzato era consistito nella demolizione di diversi corpi di fabbrica (un fabbricato principale e tre ruderi annessi agricoli) e nella edificazione, al loro posto, di un unico immobile mediante accorpamento delle volumetrie espresse da quelli precedenti.
[32] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 dicembre 2008, n. 6214: la trasformazione di due manufatti agricoli in villa a uso residenziale, con accorpamento di volumi e parziale spostamento dell’area di sedime, esula dalla nozione di ristrutturazione. Si tratta di decisione formulata in un quadro giuridico più restrittivo rispetto a quello vigente a seguito della novella del 2020, ma utile laddove ribadisce la ratio della disciplina della ristrutturazione e la necessaria correlazione tra edificio demolito e quello ricostruito: “ciò che distingue […] gli interventi di tipo manutentivo e conservativo da quelli di ristrutturazione è, indubbiamente, il carattere innovativo di quest’ultima in ordine all’edificio preesistente; ciò che contraddistingue, però, la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un “insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita”. Analogamente Cass. pen., Sez. III, 29 luglio 2020, n. 23010.
[33] Cons. Stato, Sez. II, 20 dicembre 2019, n. 8634.
[34] Alcune di queste questioni vennero sottoposte già all’indomani della novella introdotta dal decreto del fare dalla Regione Lazio nella richiesta di parere 21 maggio 2015 n. 278103 al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, già citata.
[35] Cons. Stato, Sez. IV, 27 settembre 2017, n. 4516.
[36] T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 18 dicembre 2020, n. 530; Cons. Stato, Sez. IV, 19 marzo 2018, n. 1725; Id., Sez. V, 15 marzo 2016, n. 1025.
[37] In argomento C.P. Santacroce, Gli interventi di ristrutturazione edilizia, cit., 498.
[38] Cass. pen., Sez. III, 9 luglio 2018, n. 39340 e giurisprudenza ivi richiamata in senso adesivo.
[39] Cons. Stato, Sez. IV, 17 febbraio 2023, n. 1681.
[40] Cfr. T.A.R. Toscana, Sez. I, 16 maggio 2017, n. 692, che ha escluso la prova della consistenza della preesistenza in un caso in cui “l’unica possibile testimonianza della sua esistenza fisica” era “una ripresa fotografica aerea risalente al 1956 (di cui non si conosce la scala) dalla quale, però, non è dato evincere altro che la probabile pianta dell’edificio”.
[41] Cass. pen., Sez. III, 9 luglio 2018, n. 39340, cit. (“l’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d) non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza”); Id., 8 ottobre 2015, n. 45147.
[42] Cons. Stato, Sez. IV, 27 settembre 2017, n. 4516.
[43] Cons. Stato, Sez. IV, 27 settembre 2017, n. 4516: “Ciò non significa che incombe sulla pubblica amministrazione l’onere di comprovare detta consistenza (ponendosi tale onere, come è evidente, a carico dell’istante), ma, al tempo stesso, non risulta coerente con la tutela delle facultates agendi del proprietario e con le disposizioni in tema di ristrutturazione edilizia (art. 3, lett. c), DPR n. 380/2001), il diniego di una istanza volta ad ottenere il permesso di costruire per ristrutturazione edilizia attesa la “impossibilità” di definire la preesistente consistenza del manufatto. E ciò in presenza, come nel caso di specie, di riscontro dell’esistenza del fabbricato in catasto, di atti di compravendita del medesimo e di una pluralità di rilievi fotografici, che possono condurre, anche in via deduttiva, a stabilire la più volte citata consistenza (anche in misura inferiore, ma comprovabile, rispetto a quanto assunto dagli interessati, ovvero optando, in presenza di più risultati possibili, motivatamente per quello più restrittivo). Nel caso di specie, dunque, a fronte della documentazione prodotta dagli interessati […], non può condividersi la sentenza impugnata, laddove essa assume un difetto di allegazione probatoria, anche in giudizio, da parte dei ricorrenti. Al contrario, deve concludersi per la sussistenza del vizio di difetto di istruttoria nel quale è incorsa l’amministrazione e che rende illegittimo il diniego del permesso di costruire”.
[44] Su cui M. Sollini, L’accertamento documentale dello stato legittimo dell’immobile, quale presupposto indefettibile di identificazione della sua destinazione d’uso giuridicamente rilevante, in Riv. giur. urb., 2022, 268 ss..
[45] Così T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. III, 26 maggio 2020, n. 631.
[46] T.A.R. Veneto, Sez. II, 28 febbraio 2023, n. 278, relativa a una fattispecie in cui, al momento della presentazione dell’istanza di permesso di costruire, il capannone – oggetto del progettato intervento di ripristino – era già stato interamente demolito (previa presentazione di una s.c.i.a. da parte del precedente proprietario); T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. III, 6 settembre 2021, n. 1151; Id., 28 dicembre 2020, n. 1737, relativa a una fattispecie in cui si chiedeva di ripristinare un immobile demolito a seguito di un evento franoso (immobile, tra l’altro, già ricostruito in assenza di titolo in altra sede con conseguente – eseguito – ordine di demolizione) e in cui il T.A.R. ha rilevato che per effetto della intervenuta demolizione “è certamente venuto meno l’impegno di suolo ascrivibile al bene e la connessa trasformazione del territorio”; Id., 26 maggio 2020, n. 631; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 7 novembre 2017, n. 5234.
[47] T.A.R. Veneto, Sez. II, 28 febbraio 2023, n. 278.
[48] T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 18 gennaio 2023, n. 79; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 2 agosto 2021, n. 1875.
[49] T.A.R. Campania, Sez. II, 10 gennaio 2022, n. 171.
[50] In termini non dissimili, seppure non altrettanto ampiamente argomentati, Cons. Stato, Sez. IV, 25 gennaio 2023, n. 847: “l’attuale concetto normativo di ristrutturazione edilizia contenuto nel testo unico dell’edilizia, che in precedenza postulava la preesistenza di un organismo dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, consente oggi di porre in essere interventi di ristrutturazione edilizia anche sui ruderi, a condizione che il proprietario sia in grado di dimostrarne la consistenza originaria. Ciò tuttavia non implica che gli stessi ruderi siano suscettibili di ricostruzione a prescindere dalle previsioni della disciplina urbanistica di zona, né può ritenersi venuta meno la potestà del pianificatore comunale di operare scelte che, alla luce del peculiare contesto territoriale dell'area di protezione, escludono interventi volti al ricupero di strutture edilizie ormai non più riconoscibili”.
[51] La pianificazione urbanistica dovrebbe quindi tenere in adeguata considerazione le cubature virtuali in sede di ricognizione dell’esistente e in sede di disciplina integrativa degli interventi di ricostruzione. In argomento, però, cfr. T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 21 marzo 2022, n. 278 che giudica illegittima la prescrizione contenuta nel regolamento urbanistico edilizio comunale della prova della insistenza dell’edificio nella Carta tecnica comunale usata come base di riferimento del piano strutturale comunale, sul rilievo che l’art. 3 del t.u. edilizia si limita a richiedere la dimostrazione della preesistente consistenza “che può essere fornita con qualunque mezzo idoneo e utile”.
[52] T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 2 agosto 2021, n. 1875, cit. In argomento B. Graziosi, Appunti sulla demolizione edilizia “abdicativa”, in Urb. e app., 2015, 1122, che nel trattare il tema del patrimonio edilizio marginale, insuscettibile di qualsiasi utilizzazione, e per il quale il proprietario può optare per la demolizione, rileva (nota 3) che “La demolizione “mera” che conserva la proprietà dell’area scoperta non comporta, evidentemente, perdita dello ius aedificandi laddove questo sia riconosciuto dalle norme urbanistiche vigenti […]. Ne deriva che se - e quando - lo strumento vigente consentisse, nell’ambito urbanistico relativo, la ristrutturazione, l’edificio legittimamente demolito potrebbe “ricomparire” […]. Demolizione cui consegue volumetria “a credito”.
[53] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 7 novembre 2017, n. 5234 (che risulta appellata) sulla possibilità di qualificare come ristrutturazione edilizia un intervento caratterizzato dall'assenza fisica e materiale di ogni traccia del fabbricato preesistente, demolito per l’instabilità statica conseguente al sisma degli anni ’80, e la cui area di insistenza è stata sottoposta a trasformazione edilizia e urbanistica in quanto destinata a parcheggio all'aperto con pavimentazione regolarmente assentita: “L’area […] un tempo (quasi quarant’anni or sono) occupata dal fabbricato, è stata sottoposta ad una trasformazione rilevante sul piano urbanistico ed edilizio che ha reciso ogni rapporto di continuità con la preesistenza e ciò preclude la stessa configurabilità di un intervento di “ristrutturazione” in quanto, sia la presenza di una qualche traccia materiale della preesistenza sia la continuità (valutati congiuntamente o anche solo disgiuntamente) costituiscono il nucleo imprescindibile degli interventi di ricostruzione”; “Ogni opzione interpretativa di segno diverso determinerebbe un pregiudizio grave all’ordinato sviluppo del territorio ed alla tutela del relativo assetto, travalicando ogni limite di ragionevolezza ed esigibilità la pretesa di una considerazione di simili fattispecie (consistenze e cubature – che hanno perduto i caratteri dell’entità urbanistica ed edilizia – non solo radicalmente inesistenti ma “abbandonate” dagli interessati che hanno impresso una diversa destinazione al terreno) nell’attività di pianificazione, con evidenti implicazioni anche sul piano della legittimità costituzionale”.
[54] In senso analogo, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, in un parere del 2016 (citato nella nota 18), ha precisato che la ricostruzione non può che avvenire nel rispetto dei vincoli normativi o pianificatori vigenti: quindi, dei vincoli apposti sull’area interessata dalle normative urbanistiche ed edilizie locali (n.t.a. di strumenti urbanistici comunali e sovracomunali, regolamenti edilizi) e dei vincoli introdotti da strumenti pianificatori di settore (ambientali, idraulici, idrogeologici, paesaggistici ecc.), delle fasce di rispetto, ecc..
[55] Su cui si v. Cons. Stato, Sez. IV, 16 ottobre 2020, n. 6282.
[56] Cons. Stato, Sez. IV, 12 ottobre 2017, n. 4728; Id., 14 settembre 2017, n. 4337; Cass. pen., Sez. III, 6 dicembre 2018, n. 11505.
[57] N. Millefiori, Il dibattito sulla sentenza 70/2020 della Corte Costituzionale, in Pausania.it, 9 giugno 2020.
[58] Cons. Stato, Sez. IV, 14 settembre 2017, n. 4337; Id., 9 luglio 2010, n. 4462.
[59] Sul co. 1-ter dell’art. 2-bis t.u. edilizia e, in particolare, sulle ragioni sottese alla introduzione e successiva modificazione, si v. A. Giusti, Deroghe agli standard e volumetrie premiali nella disciplina dell’art. 2-bis del Testo unico dell’edilizia, in Riv. giur. urb., 2022, 263 ss.; A. Calegari, L’evoluzione del concetto di ristrutturazione edilizia, cit., 242.
[60] La distinzione tra demo-ricostruzione e ripristino non è quindi destinata a essere superata in quanto, tra gli altri profili rilevanti, l'art. 2-bis, co. 1-ter, t.u. edilizia si riferisce solo alla prima. Per T.A.R. Campania, Sez. II, 10 gennaio 2022, n. 171, “l’indirizzo tradizionale, secondo cui per aversi ristrutturazione edilizia sarebbe comunque necessaria la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali - murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura - idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza (così da determinare lo scorrimento nella diversa categoria delle “nuove costruzioni” degli interventi di ricostruzione di “ruderi”, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell'edificio), sembra destinato al superamento, alla luce della inequivocabile equiparazione normativa tra “demolizione e ricostruzione” e “ripristino di edifici crollati e demoliti”, ovviamente purché anche di questi sia rinvenibile traccia ed accertabile l’originaria consistenza con un'indagine tecnica”.
[61] In senso contrario, non attribuisce rilievo all’epoca a cui risalga il crollo o la demolizione della preesistenza, ex multis: T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 6 luglio 2020, n. 517 (non appellata): “Il vincolo della intellegibilità delle caratteristiche del fabbricato demolito non include […] alcun limite in relazione alla maggiore o minore risalenza nel tempo dell’intervento di demolizione”; il caso deciso riguarda un intervento di ricostruzione di un edificio demolito negli anni ‘50 “la cui consistenza è evincibile sia dallo stato dei luoghi (conformazione della corte e segni presenti sulla muratura del fabbricato adiacente) sia dalle mappe del cessato catasto fabbricati, dal N.C.U.E. vigente e dalle schede catastali risalenti all’anno 1994. Da tali elementi è possibile rilevare la consistenza planimetrica del fabbricato originario”; “La documentazione fotografica storica […] è invece idonea ad attestarne la consistenza volumetrica e le caratteristiche costruttive”. Risulta quindi accertata la consistenza della preesistenza e il T.A.R. rileva che: “La qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione scatta […] ove sia impossibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, circostanza che qui non si verifica. Il fabbricato previsto ha infatti una sagoma, un ingombro ed un impatto che risultano nella sostanza del tutto coincidenti con la situazione pregressa”. Nel medesimo senso T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 2 agosto 2021, n. 1875, che, con riferimento a un edificio demolito nel 2007 e quindi prima dell’entrata in vigore della norma, afferma: “Ciò che rileva ai fini dell’applicabilità della normativa di cui al d.l. n. 69/2013 è l’epoca di svolgimento del procedimento amministrativo di formazione del titolo abilitativo e non il momento in cui è avvenuto il crollo o la demolizione dell’edificio oggetto di ricostruzione”
[62] Cons. Stato, Sez. IV, 17 gennaio 2023, n. 541.
[63] Il principio è affermato, ad esempio, in Cons. Stato, Sez. IV, 12 ottobre 2017, n. 4728.
[64] In argomento E. Boscolo, Le novità in materia urbanistico-edilizia introdotte dall’art. 17 del decreto “Sblocca Italia”, cit., 26 ss..
[65] Sulla rigenerazione urbana cfr., in particolare, A. Giusti, La rigenerazione urbana tra consolidamento dei paradigmi e nuove contingenze, in Dir. amm., 2021, 439; Id., La rigenerazione urbana. Temi, questioni e approcci nell’urbanistica di nuova generazione, Napoli, 2018; G. Guzzardo, La rigenerazione urbana, in P. Stella Richter (a cura di), Verso leggi regionali di quarta generazione, Milano, 2019, 179.
[66] G. Pagliari, Le recenti novelle relative alla definizione degli interventi sul patrimonio edilizio esistente, in Riv. giur. urb., 2022, 203: “sembra auspicabile che ci si fermi al “genus” e non si introducano le “species”: prospettiva non certo immediata, perché inscindibilmente connessa ad una revisione della impostazione della legislazione in materia urbanistico-edilizia, che soffre in maniera evidentissima di un’esasperata ed esasperante analiticità, sempre più inattuale e causa di ineffettività delle normative stesse”.
[67] Tra le più recenti T.A.R. Lombardia, Sez. II, 9 gennaio 2023, n. 120. In dottrina M.A. Sandulli, Edilizia, cit.; Id., Il regime dei titoli abilitativi edilizi tra semplificazione e contraddizioni, in Riv. giur. ed., 2013, 301.
*Il contributo si inserisce nell’approfondimento del tema Carcere e detenzione. Precedenti contributi: Carcere e suicidi. Chacun de nous est concerné di Vincenzo Semeraro, Il 41 bis ‘oltre i pizzini’: riflessioni sulla sentenza della Cassazione nel caso Cospito di Angela Della Bella - Il regime differenziato dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, ontologia, problemi, prospettive (prima parte) di Carlo Renoldi - Il regime differenziato dell’art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, ontologia, problemi, prospettive (seconda parte) di Carlo Renoldi - Intervista di Giuseppe Amara a Gabriella Stramaccioni, già Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale - Il carcere visto da chi lo dirige di Carlo Berdini e Nicoletta Siliberti, sotto la voce della rivista Giustizia e pene.
Nel suo celebre saggio Stefano Rodotà descrive la proprietà privata come “Il terribile diritto” perché idoneo ad escludere chiunque altro dal rapporto con una cosa, ma non è difficile immaginare come possa essere ben più “terribile” il diritto penale e della procedura penale in quanto in grado di escludere una persona dai suoi affetti, dal suo lavoro, dalla sua vita.
All’interno del perimetro delle situazioni di cui si occupa l’avvocato penalista, l’incontro con le realtà detentive merita una riflessione peculiare.
Gianrico Carofiglio - scrittore, politico, ma anche ex magistrato di sorveglianza - descrive in maniera nitida e coinvolgente lo stato d’animo che lo pervase allorquando si trovò a dover decidere della sorte dei soggetti detenuti, raccontando la tensione che lo pervase, volta a cercare di restituire la libertà ad un numero di persone maggiore possibile.
Nonostante la dimensione carceraria non sia adeguatamente percepita dai non addetti ai lavori, il carcere resta, a buon ragione, un luogo terrificante nell’immaginario collettivo, tant’è che quando parlando al telefono con parenti o amici mi capita di dire “scusa ti richiamo, sto entrando in carcere” mi pare di cogliere un attimo di panico nel tono dell’interlocutore e cerco sempre di tranquillizzarlo immediatamente “tranquillo, tra un’ora dovrei essere fuori”.
Per ciò che attiene alla prospettiva dell’avvocato, quanto detto da Carofiglio è vero, ma non ancora sufficiente.
Il difensore rappresenta per il detenuto tante cose: il soggetto dal quale si attende una spiegazione sulle ragioni che hanno determinato la detenzione ed al quale si chiede di prevederne i tempi, i modi, i luoghi; la persona a cui raccontare le proprie ansie, paure, speranze, necessità; il primo contatto (a volte anche l’unico) con il mondo esterno; il mezzo attraverso il quale attivare i meccanismi della giustizia che possono portare alla fine della coazione inframuraria.
Esiste una differenza ontologica tra la custodia cautelare in carcere e la condizione del detenuto “definitivo”: nel primo caso l’arresto è stato naturalmente improvviso, spesso inaspettato, prevale il disorientamento e la necessità di sapere quanto durerà la privazione della libertà personale; nel secondo caso (salvo rare eccezioni) l’esecuzione della pena è stata prevista e se ne conosce l’entità, quanto meno formale.
In tutti i casi, però, il detenuto ha la “necessità” di vedere, o almeno sentire, il proprio difensore, quanto prima possibile dopo il suo ingresso in carcere. Ciò perché appunto, l’avvocato rappresenta “il braccio” o “la voce” attraverso il quale il soggetto in vinculis cerca di “lanciarsi” oltre i muri e le sbarre.
Mentre per il soggetto colpito dalla misura custodiale normalmente i primi temi da affrontare con il difensore riguardano la possibilità di sottoporsi ad interrogatorio di garanzia e la valutazione sul ricorso al Tribunale della Libertà, i condannati in via definitiva si concentrano, fin da subito, sulla tempistica necessaria ad ottenere benefici e/o misure alternative; anche nei casi in cui queste possibilità siano pacificamente lontane nel tempo, il ristretto sente il bisogno di avere un “piano” immediato per il suo futuro da recluso.
Temi comuni a tutti i detenuti sono quelli che riguardano le autorizzazioni per i colloqui familiari, telefonici e visivi, e l’allocazione all’interno delle diverse sezioni dei penitenziari.
Al di là delle prime attività tecniche, l’aspetto più delicato per il difensore è la necessità di trovare le parole esatte per rendere ‘sopportabile’ la condizione di detenzione e spiegare puntualmente le possibilità esistenti e i tempi necessari per riacquistare la libertà.
È straordinariamente difficile riuscire a dare speranza, senza creare false illusioni, prospettare percorsi illustrando le possibilità di un esito favorevole, pur sapendo che in quasi tutti i casi il “risultato” dipende da molte variabili, non prevedibili anticipatamente.
Le storie, personali e giudiziarie, dei detenuti sono tutte ovviamente differenti e, allo stesso tempo, tutte segnate da alcuni attimi, alcuni stati d’animo che, immancabilmente, vanno a marchiare i soggetti che varcano le soglie del carcere.
D’altronde gli stessi istituti di pena hanno caratteristiche strutturali replicate in maniera identica da Sassari a Voghera, da Saluzzo a Catania: in un paese dove gli Ospedali, le Scuole, i Tribunali sono diversi dal punto di vista estetico ed edilizio anche all’interno dello stesso Comune, le Case Circondariali sono sorprendentemente simili in tutta Italia.
In particolare, dal punto di vista del difensore, le sale adibite ai colloqui con gli avvocati hanno dimensioni e collocazioni molto simili, così come immutabile pare l’aria di tensione che si respira all’interno.
Il mio dominus una volta mi disse che ero stato fortunato ad iniziare la professione dopo il 2003, perché altrimenti avrei sperimentato l’impossibilità di non fumare in carcere durante i colloqui con i detenuti: quegli spazi erano inondati dal fumo delle sigarette consumate dai reclusi, dagli avvocati e dagli agenti della Polizia Penitenziaria.
D’altronde, paradossalmente, il consumo di tabacco in carcere è direttamente proporzionale alla mancanza di “aria”.
In generale si fuma per passare il tempo, per allentare le tensione, per noia…tre segmenti che nella reclusione di susseguono ininterrottamente per le 24 ore quotidiane.
Tornando al rapporto tra il difensore e l’assistito detenuto quasi naturalmente si crea un legame diverso da quello che “fuori” regola i rapporti tra il professionista e il cliente.
La fiducia, elemento imprescindibile nell’incarico professionale, deve essere in questo caso massima, perché non solo quell’avvocato è la persona alla quale il ristretto sta mettendo in mano le sue possibilità di tornare in libertà, ma anche il soggetto al quale inevitabilmente dovrà riferire aspetti personalissimi della sua esistenza, non solo i guai giudiziari, ma anche gli eventuali problemi di salute e gli aspetti della propria vita affettiva.
Il ruolo del difensore è quindi certamente prettamente giuridico, ma quasi mai può limitarsi a questo.
La cura delle dinamiche processuali difficilmente può essere percorsa tralasciando aspetti più intimi del soggetto che ha commesso, o comunque è stato accusato di aver commesso, un reato che ha determinato la sua carcerazione.
Volendo provare a passare rapidamente in rassegna gli istituti che il difensore si trova a dover maneggiare in fase esecutiva e le principali problematiche connesse a tali istituti, è necessario prendere le mosse dalle misure alternative alla detenzione.
L’affidamento in prova ai servizi sociali rappresenta la misura più “ampia” e quindi la più “desiderata” di chi si trova ristretto.
Il soggetto ammesso al beneficio deve interfacciassi con l’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) e rispettare le indicazioni fornite dalla Magistratura di Sorveglianza con il provvedimento applicativo con il quale spesso vengono previsti dei limiti alla libertà di movimento sul territorio nazionale.
La casistica riscontrabile facilmente nelle aula di Giustizia vuole che un requisito quasi imprenscindibile, per ambire all’affidamento in prova, sia l’esistenza di una possibilità lavorativa.
Questa misura alternativa può essere concessa a chi debba espiare fino 4 anni di reclusione, anche come residuo di maggior pena (personalmente ho sempre trovato singolare il fatto che non si cerchi di riacquistare la libertà per poter, poi, lavorare, ma si debba andare alla ricerca di un lavoro per poter tornare liberi).
Invece, la detenzione domiciliare (equivalente degli arresti domiciliari in fase esecutiva) può essere concessa - salvo situazioni particolari legate allo stato di salute, all’età o altre condizioni personali del condannato - solo a chi abbia un residuo di pena inferiore a due anni.
Proprio il confronto tra i limiti edittali per la concessione delle diverse misure alternative alla detenzione dovrà, a parere di chi scrive, essere oggetto di una nuova valutazione “attualizzata” alla luce della Riforma c.d. Cartabia.
Invero, desta perplessità il fatto che la detenzione domiciliare (misura più restrittiva rispetto all’affidamento in prova) possa trovare applicazione, ancora oggi, solo per pene non superiori a due anni.
La novità con la quale è necessario confrontarsi è rappresentata dalle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, oggi previste dall’art. 20 bis c.p. che elenca: 1) semilibertà sostitutiva; 2) detenzione domiciliare sostitutiva; 3) lavoro di pubblica utilità sostitutivo; 4) pena pecuniaria sostitutiva.
Volendo semplificare oltremodo, si può dire che queste sanzioni consentono una anticipazione della pena governata dallo stesso giudice del merito. In tal modo vi è la possibilità di “scontare” il debito con la giustizia, attraverso misure diverse della detenzione carceraria, senza attendare i tempi della fase esecutiva.
Tuttavia, in questa fase, la detenzione domiciliare sostitutiva può essere concessa in caso di condanna fino 4 anni, così creando una disparità “per fase” rispetto al limite di 2 anni previsto dal comma 1 bis dell’art. 47 ter O.P.
La semilibertà, che attualmente trova applicazione modesta nel sistema penitenziario, è anch’essa connessa all’esigenza di svolgere un’attività lavorativa (o istruttiva o comunque utile al reinserimento sociale) all’esterno del carcere, terminata la quale il detenuto fa rientro nell’istituto di pena, in sezioni “dedicate” ai c.d. semi-liberi.
La possibilità di svolgere un lavoro fuori dalle mura è raggiungibile anche attraverso l’art. 21 (c.d. “esterno”) O.P.
Le possibilità di lavorare all’interno delle Case Circondariali sono, invece, ancora molto ridotte e si sostanziano in progetti - spesso molto positivi e apprezzati - che non raggiungono un’applicazione sistemica omogenea sul territorio nazionale.
Al contrario di quanto si può pensare, la quasi totalità dei detenuti agogna la possibilità di prestare attività lavoratore: per far passare le interminabili giornate da internati, per guadagnare qualcosa e pesare meno sul nucleo familiare, per “mettersi alla prova” e dare conto di meritare la possibilità di tornare in libertà.
Per la generalità dei detenuti residuano attività di ausilio alla vita detentiva. Le figure dello “spesino”, del “portavitto” e il “lavorante di sezione” o ”scopino” (le cui mansioni facilmente intuibili) sono presenti in tutti gli Istituti di Pena.
Un capitolo a parte merita la situazione del tossicodipendente, per il quale il DPR 309/90 dispone, agli artt. 90 e 94, rispettivamente: 1) la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena detentiva per 5 anni in presenza di un programma terapeutico e socio-riabilitativo; 2) l’affidamento in prova al servizio sociale (per pene fino a 6 anni) per intraprendere o proseguire l’attività terapeutica.
La pena detentiva inflitta può essere anche differita per motivi di salute.
Gli artt. 146 e 147 c.p. regolano il differimento obbligatorio o facoltativo in caso di grave infermità fisica.
Con le stesse norme viene anche disciplinata la situazione della condannata, madre di prole inferiore a tre anni.
I detenuti possono beneficiare di permessi per gravi motivi familiari (art. 30 O.P.) e permessi premio (art. 30 ter O.P.).
Quest’ultimi, in particolare, rappresentano un “assaggio” di libertà, attraverso il quale la persona ristretta comincia a riprendere contatto con il mondo esterno.
I permessi per gravi motivi familiari sono, invece, purtroppo dettati da eventi tragici e la difficoltà per il difensore sta nel riuscire a portare tempestivamente a conoscenza del Magistrato di Sorveglianza la situazione che riguarda un familiare dell’assistito-detenuto, documentandola in maniera idonea.
La gradualità del ritorno alla vita senza restrizioni è in molti casi necessaria, specie dopo detenzioni di durata consistente. Ciò perché il passaggio dal “microcosmo” carcerario alla “bolgia del mondo fuori” causa non di rado sfasamento e ansia, tanto che spesso l’ex detenuto, divenuto libero, ha difficoltà ad orientarsi negli spazi non più limitati che si (ri)trova ad affrontare.
Tutta la materia dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione trova, poi, un limite nell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario con la quale il legislatore ha inteso porre dei limiti per i condannati per taluni reati.
L’ostatività dettata con tale norma rappresenta in molti casi un muro invalicabile contro il quale si scontrano le aspettative dei condannati ristretti e gli sforzi del difensore.
La rigidità dell’art. 4 bis O.P. rende la gestione della fase esecutiva assai più complessa rispetto a quella cautelare in fase di merito, durante la quale i limiti alla concessione di misure meno afflittive rispetto alla custodia in carcere sono certamente minori e più agevolmente superabili.
Non soggiace ai limiti dell’art. 4 bis il beneficio dalla liberazione anticipata, con il quale il condannato che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione può usufruire di una riduzione di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata.
Questa norma è probabilmente alla base del dibattito (molto mediatico) sulla differenza tra pena inflitta e pena “effettiva”.
La percezione di fastidio che si riscontra in molti casi circa lo “sconto” applicato sulla condanna non tiene conto della necessarietà della previsione contenuta nell’art. 54 O.P.
Premesso che, realmente, il requisito per guadagnare la liberazione anticipata non è tanto la partecipazione ad attività che quasi mai esistono in carcere, quanto il corretto comportamento inframurario (che si traduce nell’assenza di richiami e sanzioni), ciò non toglie che la vita carceraria sarebbe assai peggiore senza una disposizione di tal sorta.
Ciò sia perché, effettivamente, la rieducazione passa ragionevolmente anche dal sapersi comportare “dentro” prima che fuori dal carcere, ma anche perché i conflitti, la litigiosità, la conflittualità che “in cattività” sono fisiologici, trovano un fortissimo deterrente nella volontà di evitare comportamenti che possono determinare la negazione della liberazione anticipata.
Residua, poi, l’istituito della liberazione condizionale (art. 176 c.p.) concedibile al condannato che abbia espiato almeno 30 mesi e almeno metà dalla propria condanna, nel caso in cui lo stesso abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.
Nella realtà (forse per la naturale ritrosia a valutare come “sicuro” il ravvedimento dell’essere umano) tale istituto è rimasto quasi esclusivamente una previsione codicistica che non trova applicazione concreta.
Di recente introduzione (2014) è l’art. 35 ter O.P. che, sulla scorta di ripetuti richiami da parte degli Organi Comunitari, ha introdotto dei rimedi risarcitori per la detenzione in condizione “disumana e degradante”.
Le condizioni disagiate in cui versano le carceri italiane, afflitte anche da atavico sovraffollamento, hanno determinato numerose condanne all’Italia per il suo sistema carcerario.
La soluzione italiana (o all’italiana) è consistita, non nel rimediare alle carenze degli edifici penitenziari, ma nel concedere a chi viene detenuto in maniera (ancora) non adeguata un risarcimento.
Tale ristoro può essere pecuniario per chi ha già finito espiare la pena, oppure può consistere in uno sconto di pena (1 giorno per 10 giorni di detenzione “degradante”).
Anche in questo caso la prassi applicativa ha tradito al ribasso le aspettative (legittime visto quanto indicato dalle pronunce di condanna dell’Italia), limitando il riconoscimento del risarcimento al numero di persone detenute in relazione alle dimensioni delle celle.
Dopo questa rapidissima (e necessariamente estremamente superficiale) panoramica fin qui compiuta rispetto agli strumenti giuridici con il quale si cimenta il difensore del detenuto, per chiudere, ma anche per alleggerire la lettura del contributo, provo a riportare alcuni passaggi (a volte esilaranti, a volte drammatici) di conversazioni o lettere ricevute dal carcere durante questi anni di professione:
- (detenuto senza tetto, con problemi di alcol-dipendenza) “…le devo dire che tutto sommato sto bene. Ho mangiato, ho dormito, mi sento in forma…mi sento che potrei lavorare anche…3 ore al giorno!”;
- (lettera da un detenuto accusato di reati in materia di droga con compendio accusatorio tutto basato su intercettazioni telefoniche) “avvocato, questo processo ha mille orecchie, perché hanno ascoltato miliardi di intercettazioni, ma non ha occhi, perché non hanno voluto vedere l’evidenza delle cose!… E comunque Forza Juve!!”;
- (lettera di un detenuto dopo udienza di discussione) “Gentilissimo avvocato, per prima cosa vi scrivo per dirvi che il giorno 11, il giorno del processo, sono rimasto come un cretino. Forse sentendo tutti quei nomi a cui venivo accostato, di persone che non ho mai conosciuto, sono rimasto scioccato. Avvocato sono rimasto molto contento dal discorso che gli avete fatto alla Corte. Vi faccio i miei complimenti e speriamo che otteniamo quello che abbiamo chiesto”;
- (il più classico dei telegrammi) “Avvocato ho urgente bisogno di parlare con voi”;
- (lettera di assistito in procinto di cambiare difensore) “Ciao Roberto come stai? Spero che hai passato buone ferie tu e famiglia. Ti volevo ringraziare per il lavoro svolto nei miei confronti, ma purtroppo a causa di problemi finanziari non sono in grado di mantenere la mia parola…”;
- (telegramma da un detenuto appena trasferito) “Egr. Avvocato la informo che sono stato trasferito presso la casa circondariale di … Vi prego di avvisare i miei familiari e di venirmi a trovare appena possibile”;
- (lettera da un detenuto straniero in attesa di giudizio) “…Sono convinto che mi fai uscire di qua e torno libero. Ancora grazie per tutto che hai fatto per me e se è possibile mandami una lettera per capire come andrà il mio problema, male o bene”;
- (detenuto in attesa di novità) “Avvocato qui è sempre tutto fermo”;
- (detenuto con gravi problemi di salute) “Carissimo Roberto, perdonami se ti scrivo in stampatello, ma il Parkinson male si accosta al corsivo…”;
- (recidiva) “Buongiorno Avvocato, sono Maria e come puoi vedere dall’indirizzo sulla busta mi trovo nuovamente in carcere”;
- (detenuto con problemi di tossicodipendenza e aspirazioni da avvocato) “…In attesa di sue notizie, io ripongo ancora molta fiducia e stima nei suoi confronti. Si ricordi oltretutto che c’è una sentenza di Cassazione che dice che una persona che sta facendo un programma al SERT non può essere rimessa in carcere, per lo più senza aver commesso nessun crimine!”;
- (per chiudere) “Avvocato se gentilmente potete dire a mia mamma se nel pacco che mi deve mandare lunedì può mettere: 2 pacchi di caramelle Rossana, 1 confezione di lievito, 2 felpe senza cappuccio, 1 paio di scarpe da ginnastica per correre (adidas o nike) e invece i farmi il vaglia da 100 euro me lo fa da 50”.
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