ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Lo sciopero del 17 novembre 2023. - 2. Il problematico silenzio sullo “sciopero generale” (non una “lacuna”) della l. n. 146 del 12 giugno 1990. - 3. La possibile soluzione, non realizzata, della regolazione tramite le tecniche normative della l. n. 146/1990. - 4. La soluzione seguita: l’interpretazione della Commissione di garanzia nella delibera n. 03/134 del 24 settembre 2003. - 5. La delibera della Commissione di garanzia dell’8 novembre 2023 e la fattispecie dello sciopero generale. - 6. La fattispecie dello sciopero generale: peculiari modalità dello sciopero, nessuna appropriazione “definitoria”. - 7. Altre ragioni di solidità della delibera n. 03/134; il motivo di debolezza della delibera dell’8 novembre 2023. - 8. Precettazione e Commissione di garanzia, piani distinti ma comunicanti. - 9. L’illegittimità dell’ordinanza di precettazione del 13 novembre 2023.
1. Lo sciopero del 17 novembre 2023.
Di recente è tornata d’attualità la questione dello sciopero generale nei servizi pubblici essenziali. La questione attirò una certa attenzione della dottrina nei primi anni Duemila[1]; oggi è il recente sciopero del 17 novembre 2023[2] ad averla riportata alla ribalta della scena, anzitutto politica e, quindi, mediatica[3].
La vicenda - da cui le pagine che seguono hanno origine - è nota. Lo sciopero del 17 novembre, qualificato “generale” da due delle storiche grandi Confederazioni sindacali, Cgil e Uil, è stato invece considerato, prima della sua attuazione, “plurisettoriale” dalla Commissione di garanzia con il conseguente cambio di regime e la valutazione d’illegittimità. A quanto consta, non esistono precedenti. Ha fatto poi seguito, complicando il quadro, l’intervento della precettazione da parte del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, per delega del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nelle riflessioni che seguono lo spazio maggiore sarà dedicato alla configurazione dello sciopero generale e alle sue possibili regole, profilo più problematico e dalle maggiori implicazioni sul piano giuridico.
In via introduttiva v’è da dire che lo sciopero generale è tema denso di significati. L’intreccio tra i piani storico-sociologico, politico e giuridico ne fanno pressoché un emblema. Si ha l’esatta misura della questione se si pensa che è, questa, una considerazione già valida, in misura solo appena ridotta, per lo sciopero tout court, crocevia di quel fenomeno sindacale da sempre terra di diritti e libertà fondamentali per le democrazie del Novecento. Si aggiunge poi un fattore non marginale. È ampiamente noto come il tratto distintivo dell’esperienza sindacale italiana post-costituzionale sia l’anomia. La l. n. 146 del 12 giugno 1990[4], di regolazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, costituisce, a tutt’oggi, l’eccezione più compiuta. Ma inevitabilmente, sullo sfondo, l’anomia fa avvertire ancora la sua presenza anche in relazione ad essa; e a maggior ragione se lo scenario politico-sindacale si presenta ad alta tensione, come accaduto nella vicenda in parola. Ciò, tuttavia, nulla toglie alla necessità, per la riflessione giuridica, di procedere, più che mai, lungo propri percorsi.
2. Il problematico silenzio sullo “sciopero generale” (non una “lacuna”) della l. 146 del 12 giugno 1990.
Il primo punto della questione da considerare è il silenzio della l. 146, che nulla dice sullo sciopero generale.
Siamo davanti a una lacuna o, piuttosto, il legislatore non ha dedicato alcuna previsione allo sciopero generale perché non ha inteso sottrarlo alle regole nella legge contenute, secondo il noto brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit? È il caso di porsi la domanda per sgombrare il campo da ogni possibile dubbio, pure in qualche misura riemerso dopo lo sciopero del 17 novembre. Con tranquillità si può rispondere che rinvenire una lacuna appare una forzatura[5]. Lo sciopero generale è fenomeno tanto antico quanto rilevante, come si è già ricordato: impensabile che il legislatore del ’90 potesse trascurarlo. Di questo avviso è stata anche la Corte costituzionale, che nella sentenza del 10 giugno 1993, n. 276[6] - dovuta alla penna di Luigi Mengoni - decidendo circa uno sciopero generale rivolto a un fine politico-economico, lo ritenne assoggettato alla disciplina generale della l. 146 e non al particolare regime derogatorio dell’art. 2, c. 7, della stessa legge[7]. Inoltre, nel primo decennio di vigenza della l. 146, nei servizi pubblici essenziali più di una volta sono stati proclamati scioperi generali, giunti anche dinanzi alla Commissione di garanzia, che non li ha affatto esclusi dall’ambito di applicazione della normativa[8]. Pure nella l. 11 aprile 2000 n. 83 - si badi - nessuna specifica previsione si rinviene in proposito, benché questa legge, come si sa, modificando in diversi punti la l. 146 abbia recepito più d’una soluzione a problemi di vario genere emersi nella sua concreta applicazione.
Ed è proprio dopo la recezione, da parte della riforma del 2000, di alcune regole emerse nel decennio precedente che la questione è divenuta più spinosa. Infatti, il nocciolo del problema, ossia la compatibilità tra caratteristiche dello sciopero generale e disciplina dello sciopero nei servizi essenziali, si è accentuato in seguito all’introduzione, ad opera della l. n. 83, di regole come il preventivo svolgimento di procedure di raffreddamento e come la rarefazione (art. 2, c. 2, l. 146), difficilmente compatibili con il carattere “generale” dello sciopero: la prima per la non facile individuazione di “un interlocutore datoriale ben definito”[9], in grado di raffreddare o conciliare una protesta di per sé diretta contro decisioni politiche; la seconda, volta a imporre intervalli minimi tra “l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo” da parte di “soggetti sindacali diversi e che incidono sullo stesso servizio finale o sul medesimo bacino d’utenza” (sempre art. 2, c. 2, l. 146), altrettanto difficilmente compatibile con un’azione che in ragione - si è osservato - della finalità (non di arrecare un danno immediato alla controparte, bensì) di “manifestazione del pensiero” e - si può aggiungere – dell’“ampiezza” del suo raggio d’azione[10], “per essere efficace e visibile non può che essere corale”[11].
Se, dunque, nella l. 146 non è dato rinvenire una lacuna, il suo silenzio sullo sciopero generale vuol dire che essa, al riguardo, non prevede espresse deroghe, ossia regole particolari che lo sciopero generale rendano possibile. Ciò, tuttavia, non significa che siffatte regole non sussistano. Piuttosto, l’ipotesi che la disciplina della l. 146 comporti la “virtuale messa a bando” dello sciopero generale[12] porrebbe seri dubbi di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 39, c. 1, e 40 Cost.: risulterebbe intaccata una delle più rilevanti espressioni dell’autotutela collettiva, mettendo a rischio il contenuto essenziale del fondamentale diritto di sciopero. Non a caso, nei primi anni del Duemila, l’attenzione alla questione, anche da parte della dottrina, è cresciuta, con una serie di riflessioni stimolate dalla stessa Commissione di garanzia[13].
3. La possibile soluzione, non realizzata, della regolazione tramite le tecniche normative della l. n. 146/1990.
Una possibile soluzione al problema è stata prospettata proprio facendo perno sulla disciplina della l. 146, precisamente sulle finalità e sulle relative tecniche normative, anzitutto sulla fonte tipica della regolazione dello sciopero nei servizi essenziali[14], cioè il contratto collettivo sottoposto alla “valutazione d’idoneità” della Commissione di garanzia.
L’impianto della l. 146 è strutturalmente duttile, in quanto, per “contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati” al fine di “assicurare l’effettività, nel loro contenuto essenziale, dei diritti medesimi”[15], appresta necessariamente percorsi e tecniche normative funzionali proprio a una regolazione diversificata così come richiede la diversità dei contesti e delle situazioni in cui quel contemperamento deve avvenire. Sicché, si comprende chi, in relazione al tema che ci occupa, ha osservato come non vi sia ragione per non considerare questo contemperamento e le relative tecniche in relazione alle differenti caratteristiche, non solo dei menzionati diritti della persona e dei relativi servizi essenziali, ma anche dello sciopero[16]. Contemperamento che, alla stregua di qualsiasi operazione di bilanciamento, impone ovviamente la salvaguardia del contenuto essenziale dei diritti in gioco, come d’altro canto il citato passo dell’art. 1, c. 2, della l. 146 puntualmente ribadisce.
Benché la prospettiva richiamata sia condivisibile, non può tacersi che, per lo sciopero generale, occorre fare i conti con un possibile ostacolo normativo, il dato letterale. Proprio delle due regole legali prima menzionate, preventivo svolgimento delle procedure di raffreddamento e rarefazione, il dettato della l. 146 pare infatti stabilire la necessaria presenza e, peraltro, con specifico riferimento ai contratti collettivi di cui all’art. 2, c. 1, introducendo entrambe le relative previsioni col verbo dovere[17]. Verbo che non fa pensare a deroghe di sorta, nemmeno, quindi, ad opera della fonte tipica della regolazione dello sciopero nei servizi essenziali.
4. La soluzione seguita: l’interpretazione della Commissione di garanzia nella delibera n. 03/134 del 24 settembre 2003.
L’ipotesi incentrata sulla soluzione contrattuale non ha avuto seguito. Si è invece andati in direzione almeno in parte diversa: l’esperienza ha visto protagonista la Commissione di garanzia.
La Commissione, sin dai primi anni del Duemila, ha imboccato la strada degli indirizzi interpretativi. Lo snodo principale è stata la delibera n. 03/134 del 24 settembre 2003[18].
In questa delibera l’organo di garanzia muove anzitutto da una serie di premesse. Alcune qui già prima riprese: l’attenzione da tempo rivolta allo sciopero generale; la sua peculiare rilevanza dopo la l. n. 83/2000; l’assenza di espliciti riferimenti legislativi; il richiamo alla rammentata sentenza della Consulta n. 276/1993 di conferma dell’applicazione della l. 146. Altre premesse, ugualmente importanti, sottolineano invece come l’intero iter della delibera sia stato ampiamente condiviso con le organizzazioni sindacali in varie fasi[19], precisando in particolare (in relazione a una di esse) il perseguito fine di garantire “certezza nei comportamenti da seguire” nonché “il miglior contemperamento tra l’esercizio del diritto di sciopero e i diritti della persona costituzionalmente tutelati”.
Alla premessa relativa all’assenza di espliciti riferimenti legislativi segue un’affermazione che merita qui di essere riportata integralmente. La Commissione afferma che, in ragione di questa assenza, “si è trovata nella necessità di valutare se, tenuto conto della peculiarità sul piano sociale e delle relazioni sindacali del fenomeno sciopero generale, la disciplina di legge trovi applicazione anche all’azione collettiva proclamata da una o più confederazioni sindacali dei lavoratori, coinvolgente la generalità delle categorie del lavoro pubblico e privato” (mio il corsivo). Alla domanda la Commissione dà una risposta positiva, enucleando, in via interpretativa, una serie di particolari norme, volte a rendere possibile lo sciopero, quindi per esso più favorevoli, vale a dire: a) non applicazione della regola del preventivo svolgimento delle procedure di raffreddamento e di conciliazione; b) non applicazione della regola del limite della durata massima della prima giornata di astensione, previsto dai contratti; c) regime “elastico”[20] della rarefazione oggettiva[21]; d) rilievo esclusivo dell’“effettuazione” degli scioperi ai fini del calcolo dell’intervallo minimo tra le varie azioni di autotutela[22].
L’attività interpretativa della Commissione è stata definita, perentoriamente, “creatrice”[23]. Volendo intendere l’aggettivo nei limiti tecnicamente compatibili con il ruolo dell’interprete[24], qualsiasi soggetto ne vesta i panni, si può forse parlare - in ragione di quanto prima osservato - di un’interpretazione costituzionalmente orientata che ha privilegiato il dato assiologico-sistematico, a scapito (oltre misura?) del dato letterale.
5. La delibera della Commissione di garanzia dell’8 novembre 2023 e la fattispecie dello sciopero generale.
Venendo allo sciopero del 17 novembre, come già ricordato il punto oggetto di maggiore contestazione è stata la sua qualificazione. La Commissione, con la delibera dell’8 novembre scorso, ex art 13, c. 1, lett. d), della l. 146 - quindi di carattere interlocutorio adottata in una “fase precedente all’astensione collettiva” - ha posto l’accento sulla esclusione dalla proclamazione di una serie di “settori[25], qualificando di conseguenza lo sciopero come “plurisettoriale”. Ne è derivata la non applicazione della delibera n. 03/134 sullo sciopero generale e delle sue particolari regole più favorevoli.
Non sono mancate critiche, da più d’uno e anche piuttosto severe. Si è rimarcata l’assenza di una nozione legale di sciopero generale al cospetto di una fenomenologia variegata; assenza non colmata neppure dalla pluridecennale giurisprudenza della Commissione. In ottica analoga, si è aggiunto che la delibera della Commissione riporta alla memoria stagioni trascorse, dove la definizione di cosa fosse lo sciopero è stata sottratta alle parti sociali al fine di restringerne l’esercizio. Già in apertura di queste pagine si è sottolineato quanto la questione sia delicata. Tuttavia, le critiche appaiono, in verità, eccessive.
Andando per ordine, ciò che risulta fuor di discussione - a parere di chi scrive - è un solo dato, l’assenza di una fattispecie legale di sciopero generale. Ma proprio in conseguenza di questo dato il quadro giuridico che ne consegue appare non scarno, bensì articolato.
La Commissione, nella delibera n. 03/134, muovendo dalla serie di premesse rammentate, nel menzionato intento di evitare che l’integrale applicazione della l. 146 comprimesse un’espressione prioritaria dello sciopero, ossia lo sciopero generale, e quindi al fine di individuare per quest’ultimo, una volta per tutte, un regime privilegiato, ha provveduto a un’operazione necessaria: ha individuato, in via interpretativa, la fattispecie di sciopero generale[26]. In altre parole, ha messo a fuoco il dato fenomenico cui dare una determinata rilevanza giuridica all’interno della l. 146, cioè le peculiari modalità assunte dallo sciopero che ne comportano l’esclusione dall’applicazione di talune regole al fine di renderlo concretamente possibile. È appunto il passaggio della delibera n. 03/134 prima posto in corsivo che vale la pena riprendere: azione collettiva proclamata da una o più confederazioni sindacali dei lavoratori, coinvolgente la generalità delle categorie del lavoro pubblico e privato. Torna - ed è una fase storica in cui ciò accade piuttosto spesso per noi giuslavoristi - la correlazione fattispecie/effetti, imprescindibile per il proposito normativo in questione: alla fattispecieconfigurata la Commissione ha collegato i menzionati più favorevoli effetti al fine di rendere possibile lo sciopero generale; che, nell’ambito della l. 146, trova quindi sue regole.
Naturalmente si può discutere sulla fattispecie individuata. Tuttavia sembra difficile disconoscere che la Commissione abbia ripreso una manifestazione del fenomeno “sciopero generale” assai diffusa, se non la più diffusa, sicuramente confermata da opinioni, anche autorevoli, che sul punto all’epoca si sono pronunciate. Infatti, vuoi per la mancanza di indicazioni legali che consentano di soppesare l’effettiva rilevanza sociale dell’astensione sì da giustificare regole peculiari[27], vuoi perché lo sciopero generale esprime “l’autotutela di un interesse collettivo talmente esteso, da coincidere quasi con l’interesse generale”[28], si è scritto che la “definizione corretta” dovrebbe comprendere soltanto lo sciopero che coinvolge “tutti i lavoratori”[29], che “tende proprio a concentrare la protesta di tutte le categorie e di tutti i settori”[30]. E v’è da pensare che questo profilo strutturale, nella delibera della Commissione, assorba anche il profilo politico, rectius la finalità politico-economica dello sciopero generale, pure da sempre considerata cifra distintiva della figura: il silenzio della Commissione sul profilo teleologico evidentemente attesta, da un lato, l’inevitabile incrocio tra di esso e il profilo strutturale, dall’altro, l’insufficienza - ad avviso della Commissione - della sola presenza del primo, che, se non accompagnato dal secondo, rende compatibile l’astensione con l’intera disciplina della 146 (sulla scia della citata sentenza della Corte costituzionale n. 276 del ’93)[31].
6. La fattispecie dello sciopero generale: peculiari modalità dello sciopero, nessuna appropriazione “definitoria”.
Nell’individuare la fattispecie di sciopero generale la Commissione si è mossa all’interno di un preciso quadro giuridico - si diceva - inusuale per l’“anomia” del diritto sindacale italiano. Eppure la sua ricostruzione secondo alcuni[32] - come accennato - ha riportato alla memoria le restrittive aprioristiche tecniche definitorie degli anni ’50, proprie di una stagione non del tutto felice per il fondamentale diritto di sciopero, stagione giunta da tempo al capolinea con la famosa sentenza della Cassazione del 30 gennaio 1980, n. 711[33]. In proposito ho l’impressione che sia sorto qualche equivoco; cerco di spiegarmi.
Nonostante la sua data risalente e il ben noto contenuto, è opportuno riprendere alcuni passaggi della sentenza della Cassazione del 1980. Le norme che contemplano il diritto di sciopero (si menzionano per l’esattezza gli artt. 40 Cost. e 15 e 28 Stat. Lav.) sono tra quelle con cui la legge - afferma la Suprema Corte - “non tipicizza in modo compiuto e diretto la fattispecie che pur intende disciplinare”; l’interprete quindi - prosegue la sentenza - “è tenuto ad assumer[e i suoi elementi] nel significato linguistico e sociale che essi hanno nel contesto di riferimento”. Sicché - si legge ancora nella decisione - “con la parola sciopero, quale non poteva non essere presente anche al legislatore costituente e ordinario, suole intendersi nulla di più di una astensione collettiva dal lavoro disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”. Come sappiamo, la Cassazione da questo ragionamento muoverà per porre esclusivamente limiti cc.dd. “esterni” allo sciopero articolato. Precisamente, per individuare, in via interpretativa, alcune sue concrete modalità che lo rendono illegittimo[34]: è tale - scrive la Cassazione - lo sciopero “non effettuato con gli opportuni accorgimenti e cautele” sì da risultare “idoneo a pregiudicare […] irreparabilmente (non la produzione, ma) la produttività dell’azienda” (mio il corsivo). In tal modo la Corte individua una situazione di fatto al fine di determinati effetti giuridici: di nuovo la correlazione fattispecie/effetti. Dunque, la sua ricostruzione rimanda al piano empirico per la definizione della fattispecie dello sciopero tout court, ma poi individua (la fattispecie di) particolari modalità dello sciopero che ne determinano l’illegittimità. D’altro canto, un percorso normativo obbligato, questo, che lo sciopero, nella seconda metà del Novecento, ha ben conosciuto giacché - per dirla con altre famose parole, stavolta di un’illustre dottrina degli anni ’50 - avendo “accettato di diventare un diritto […] si è adattato a sentirsi prefiggere condizioni o restrizioni di esercizio”[35].
Ad ennesima testimonianza della loro lungimiranza, quelle parole ci riportano, qui, alla Commissione di garanzia. È indiscutibile che la Commissione, nell’individuare la fattispecie sciopero generale con la delibera n. 03/134, ha dato del tutto per pacifico l’approdo della Cassazione: evidentemente pure l’organo di garanzia - come ancora prima la l. 146 - è partita dalla definizione di “sciopero” assunta a riferimento dalla Cassazione. E lo ha fatto per individuare poi, anch’essa, alcune particolari modalità dello sciopero, sintetizzabili nel carattere generale, che potessero, anzi dovessero determinare la non applicazione di talune regole della l. 146 al fine della sua possibile attuazione, secondo la logica della medesima legge. A ben vedere l’operazione è concettualmente uguale ma di segno opposto a quella compiuta dalla Cassazione nell’80: non l’individuazione di limiti cui consegue l’illegittimità dello sciopero (articolato), bensì la sottrazione a limiti dati ai fini della legittimità dello sciopero (generale). Comunque, siamo in presenza dell’individuazione di modalità di sciopero per la tutela di “posizioni soggettive concorrenti”, come afferma la Corte nell’80, o, per dirla col legislatore del ’90, del “contemperamento” tra dette posizioni. Nessuna appropriazione definitoria dello sciopero da parte dell’organo di garanzia, dunque.
È appena il caso di precisare che la sentenza della Cassazione si presentava, all’epoca, sintonica al “sistema sindacale di fatto” e alla relativa autonomia, perché segnava il distacco dalle precedenti operazioni aprioristiche di delimitazione del diritto di sciopero decisamente più restrittive rispetto a quelle che pure la stessa sentenza ha delineato. La ricostruzione della Commissione s’inserisce invece nel preciso quadro di regole disegnato dalla l. 146, in una logica sì di attenzione allo sciopero generale, ma oggi, in relazione allo sciopero del 17 novembre, meno sintonica rispetto all’autonomia collettiva. Ciò ha assunto giocoforza particolare rilievo in un contesto segnato dal surriscaldamento del clima politico-sindacale.
7. Altre ragioni di solidità della delibera n. 03/134; il motivo di debolezza della delibera dell’8 novembre 2023.
Della delibera della Commissione n. 03/134 vanno sottolineati ancora due aspetti.
Il primo riguarda l’iter che l’ha preceduta, di cui si è fatto menzione. Eloquentemente si è scritto, la delibera “è frutto di un percorso ampiamente condiviso con le forze sociali”[36]. In più momenti e con diverse organizzazioni sindacali la Commissione ha avuto incontri e confronti; l’ultimo in relazione a una bozza inviata alle confederazioni presenti nel Cnel. Tant’è che la delibera risulta adottata “all’esito di detti incontri e tenuto conto delle osservazioni in quella sede formulate”. Non siamo al consenso che caratterizza la fonte tipica della regolazione dello sciopero nella l. 146 - il contratto collettivo valutato idoneo dalla Commissione -, ma siamo anche molto distanti da un percorso unilaterale ed eteronomo.
Il secondo aspetto, al primo correlato sì da dare a esso pure solidità, è la conferma, nel tempo, della posizione della Commissione di garanzia. Anzitutto, la Commissione ha confermato la delibera del 2003 in più di una occasione e - punto ovviamente qui importante - ne ha anche precisato i contorni, escludendo espressamente articolazioni o restrizioni dello sciopero di carattere temporale, territoriale o settoriale[37]. Neppure questo sviluppo poi, a quanto consta, è stato oggetto di alcuna contestazione. Sicché, nella “‘giurisprudenza” della Commissione sembra rinvenibile un orientamento piuttosto consolidato e univoco[38]. In proposito interessante appare la conforme opinione di un autorevole studioso, sino a qualche mese fa componente della Commissione, secondo cui, per lo sciopero del 17 novembre, la delibera dell’organo di garanzia dell’8 novembre 2023 “si è limitata ad applicare” la precedente delibera del 2003[39].
V’è però un piano su cui la delibera dell’8 novembre scorso segna uno stacco non trascurabile rispetto a quella del 2003, la sensibilità istituzionale e sociale. Il punto centrale della delibera dell’8 novembre, si è più volte detto, è la qualificazione dello sciopero come “plurisettoriale” e non “generale”. Tuttavia - è stato puntualmente osservato[40] - al riguardo essa nulla espressamente afferma. Il punto è lasciato interamente allo stringato già menzionato comunicato del 13 novembre[41]. Il “vuoto” è un punto di debolezza e, considerando la più volte rimarcata delicatezza della questione, non marginale: non si confà a un’autorità che, nei suoi molteplici compiti, sovraintende all’impostazione dialogica caratterizzante l’intera l. 146.
8. Precettazione e Commissione di garanzia, piani distinti ma comunicanti.
Veniamo, infine, all’ordinanza di precettazione del 14 novembre 2023. In proposito, i motivi ai nostri fini rilevanti sono limitati, ma non privi di interesse teorico e, soprattutto, pratico. Attengono ai presupposti dell’ordinanza.
Riepilogando brevemente il quadro normativo, secondo il dettato introdotto dalla riforma del 2000 (art. 8, c. 1, l. 146[42]) l’ordinanza di precettazione può essere emanata, su segnalazione della Commissione di garanzia, quando, in conseguenza dello sciopero, sussista “un fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati”; l’autorità titolare del potere di ordinanza può invece procedere “di propria iniziativa” nei casi “di necessità e urgenza”.
Sin dall’indomani della riforma non si mancò di rilevare come la formulazione della norma non fosse felice, giacché la “necessità e urgenza”, in ogni caso imprescindibile[43], o introduceva una graduazione difficile da individuare oppure di fatto consentiva all’autorità amministrativa di attivarsi indipendentemente dalla segnalazione della Commissione[44]. Comunque sia, è fuor di discussione che il presupposto della “necessità e urgenza” del fondato pericolo deve sussistere.
Il presupposto evidenzia un altro dato indubbio già nella versione originaria dell’art. 8: la natura di extrema ratio della precettazione, come tale collocata su un piano distinto dalla fisiologia del conflitto nei servizi essenziali, che trova nelle regole a carattere consensuale la propria espressione[45].
Quanto detto si collega a un altro profilo della l. 146 che occorre sottolineare prima di tornare allo sciopero del 17 novembre. Il carattere di extrema ratio fa sì che l’autorità titolare del potere di precettazione si collochi su un piano diverso già da quello su cui si pone la Commissione di garanzia, che alla fisiologica regolazione del conflitto nei servizi essenziali anzitutto sovraintende. Nondimeno le due autorità, ragionevolmente, non possono non operare in raccordo. Era così già nella versione originaria dell’art. 8[46], lo è nell’attuale. In particolare, l’art. 8 oggi prevede che, là dove “la Commissione di garanzia, nella sua segnalazione o successivamente, abbia formulato una proposta in ordine alle misura da adottare con l’ordinanza al fine di evitare il pregiudizio ai predetti diritti, l’autorità competente ne tiene conto”. L’espressione adoperata - tiene conto - è il punto di approdo di un percorso, anch’esso sviluppatosi negli anni Novanta e che aveva coinvolto Commissione, giurisprudenza (pure, benché incidentalmente, della Corte costituzionale[47]) e dottrina, originato da una formulazione sicuramente più oscura della prima versione dell’art. 8. L’espressione messa a punto dalla l. 83 del 2000 è di compromesso tra chi riteneva che l’autorità precettante fosse vincolata dall’operato della Commissione e chi propendeva per un rapporto meno stringente tra i due organi: induce decisamente a ritenere che l’autorità precettante possa sì disporre diversamente da quanto indicato dalla Commissione, ma non senza “motivare l’eventuale dissenso”[48].
9. L’illegittimità dell’ordinanza di precettazione del 13 novembre 2023.
In relazione allo sciopero del 17 novembre v’è certamente da notare che manca, da parte della Commissione di garanzia, la “segnalazione” e quindi anche la successiva proposta. Elemento, tuttavia, francamente difficile da considerare decisivo, tale da “liberare” da ogni vincolo l’autorità precettante: sarebbe un’interpretazione davvero formalistica. Come più volte sottolineato, la Commissione costituisce uno dei perni della l. 146, se non il principale, nella veste di garante delle sue finalità (ancor più dopo la riforma del 2000), in primo luogo proprio per quanto concerne la messa a punto delle regole da rispettare in caso di sciopero (basti pensare all’attività di valutazione degli accordi, al cd. potere di regolamentazione sostitutiva, al ruolo nell’ambito dell’apparato sanzionatorio). È questa - giova ripeterlo - la fisiologia normativa prevista dalla l. 146. Di conseguenza, sebbene la precettazione si collochi su un piano distinto, sarebbe del tutto illogico e controproducente configurare anche una sola ipotesi in cui essa possa liberamente disporre regole senza tener conto di quanto prodotto da tale fisiologia. Piuttosto, è nei presupposti della precettazione - v’è ragionevolmente da pensare - che il rapporto tra i due piani trovi sempre il suo equilibrio: nell’imprescindibile pregiudizio di un pericolo grave e imminente - che dovrà sussistere tanto se le regole dei contratti collettivi “idonei” non sono state rispettate (ma non per questo solo, evidentemente) quanto se lo sono state - troverà fondamento la possibile differente regolazione disposta dalla precettazione.
Sicché, venendo all’ipotesi che qui interessa, se non vi è segnalazione e proposta da parte della Commissione, si potrà formalisticamente ritenere che manchi lo specifico atto di cui l’autorità precettante deve “tener conto”, ma, di certo, non si potrà sorvolare sul perché l’autorità competente disponga regole difformi da quanto comunque deliberato dalla Commissione: piuttosto, per non risultare sostanzialmente debole nei presupposti, è ragionevole ritenere che la precettazione debba puntualmente motivare, anche in questa ipotesi, la difformità rispetto a quanto indicato dalla Commissione.
In riferimento allo sciopero del 17 novembre tutto ciò va attentamente tenuto presente. L’ordinanza di precettazione, non preceduta dalla segnalazione della Commissione di garanzia, muove - si badi - dalla delibera della stessa Commissione dell’8 novembre 2023, ossia, in pratica, dalla valutazione d’illegittimità dello sciopero nell’ambito del trasporto[49] per violazione della regola della durata massima della prima azione di autotutela. Tuttavia, l’ordinanza di precettazione va oltre quanto affermato dalla Commissione, nel senso che “ordina” una serie di misure che vanno al di là della violazione rilevata dall’organo di garanzia[50]: eppure, circa i motivi di tale differenza, nulla dice. Nell’ordinanza si possono leggere invece una serie di considerazioni, tutte poco o per nulla pertinenti: generiche o in ogni caso descrittive di meri elementi di contesto o di effetti caratterizzanti la fisiologia dello sciopero nei servizi essenziali[51]. A ben guardare, ciò fa sì che essa appaia comunque debole nel suo imprescindibile presupposto, ossia l’urgente necessità di evitare un pregiudizio grave ai diritti della persona costituzionalmente tutelati dalla l. 146. A dispetto peraltro - giova ribadirlo - del carattere “autonomo” dell’iniziativa dell’autorità precettante (non preceduta dalla “segnalazione” della Commissione), come tale ancor più radicata in quel presupposto.
In definitiva, volendo tirare le somme, l’articolato impianto della l. 146 - esempio positivo e paradigmatico del carattere dialogico che il diritto assume dinanzi a una pluralità di fondamentali situazioni soggettive da comporre in un non facile equilibrio - se, nella vicenda esaminata, ha in sostanza trovato espressione per quanto concerne la qualificazione dello sciopero, per altri aspetti ha vacillato; in particolare, ha sensibilmente vacillato nell’ordinanza di precettazione, a causa di ragioni che, al piano giuridico, è bene non ricondurre.
[1] Cfr. i dossier promossi dalla Commissione di garanzia nelle Newsletter CgS, n. 1/2 del 2003 e n. 3/4 del 2004, con i contributi, nel primo dossier, di: Liso, Sciopero generale e regole per il suo esercizio, p. 14; Pino, Sciopero generale, servizi essenziali e Commissione di garanzia. Alcuni spunti di riflessione, p. 6; Rusciano, Sciopero generale, legge 146 del ’90 e rappresentatività sindacale, p. 18; Santoni, Quali regole applicare allo sciopero generale?, p. 25; e, nel secondo dossier, di Del Punta, Sciopero generale e servizi essenziali, p. 9; Magrini, Ancora in tema di sciopero generale e regole legislative: sciopero generale e scelte “politiche” della Commissione di garanzia, p. 6. Nella Newsletter del 2004 v. anche l’editoriale di Magnani, Ancora sullo sciopero generale, p. 3.
[2] Da ora sciopero del 17 novembre.
[3] Per riflessioni di vario genere e di prospettive anche radicalmente opposte v.: F. Carinci, Il caso “17 novembre”: sciopero generale e precettazione, in Bollettino Adapt 2023, n. 40; Carrieri, Interviste, in Il diario del lavoro, in www.ildiariodellavoro.it, 28 novembre 2023; Cazzola, Politically (in)correct. Chi trasforma lo sciopero in una pagliacciata non può erigersi a strenuo difensore del diritto, in Bollettino Adapt 2023, n. 40; Lassandari, Intervista, in Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2023; Morese, Peggio di Salvini soltanto la Commissione di Garanzia Sciopero, in Newsletter Nuovi lavori, 28 novembre 2023; Sacconi, Il mio canto libero. Sciopero generale e autonomia dei corpi, in Bollettino Adapt 2023, n. 40; Scarpelli, Sciopero generale e prestazioni indispensabili: i dubbi sul provvedimento della Commissione di garanzia, in RGL giurisprudenza online, Newsletter, 11.2023; Scotto di Luzio, Lo sciopero uno strumento banalizzato, in Il Mattino, 18 novembre 2023; Tridico, Sciopero, diritto violato, in la Repubblica, 1 dicembre 2023, p. 35; L. Zoppoli, Nessuno tocchi il diritto di sciopero, in la Repubblica Napoli, 17 novembre 2023; Id., Lo sciopero generale tra diritto e conflitto (politico-istituzionale), in RGL giurisprudenza online, Newsletter, 11.2023.
[4] Da ora l. 146.
[5] L’affermazione trova pieno riscontro in dottrina: cfr. gli autori citati in nota 1, nonché Vallebona, Le regole dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, Giappichelli, Torino, 2007, p. 74; Magrini, La regolamentazione dello sciopero generale, in DRI, 2008, p. 59; G. Santoro Passarelli, Sciopero politico-economico, sciopero politico, sciopero generale e preavviso, in DRI, 2008, p. 6, e, di recente, F. Carinci, Il caso “17 novembre”: sciopero generale e precettazione, in Bollettino Adapt 2023, n. 40.
[6] In www.cortecostituzionale.it.
[7] In virtù del quale le regole sul preavviso minimo e sull’indicazione della durata dello sciopero “non si applicano nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”.
[8] Cfr. Pino, op. cit., p. 7; Vallebona, op. cit., p. 74.
[9] Rusciano, op. cit., p. 23.
[10]G. Santoro Passarelli, op. cit., p. 7.
[11]Liso, op. cit., p. 15. Non tutte le regole emerse nel decennio precedente sono state riprese dalla l. 83 del 2000. Tra queste, come vedremo, qui interessa, in particolare, la regola della durata massima della prima astensione, che poco si confà allo sciopero generale, caratterizzato - si è detto - dalla “eccezionalità e, quindi, per definizione, non inquadrabile in una serie concatenata di azioni collettive” (G. Santoro Passarelli, op. cit., p. 8).
[12] Del Punta, op. cit., p. 9.
[13] V. i dossier citati in nota 1.
[14] Al riguardo cfr., per tutti, Pascucci, Tecniche regolative dello sciopero nei servizi essenziali, Giappichelli, Torino, p. 113; A. Zoppoli, “Disdetta” ed efficacia temporale degli accordi sui conflitti, in GDLRI, 1994, p. 443.
[15] Art. 1, c. 2, l. 146: i diritti sono quelli indicati nella tassativa elencazione di cui al c. 1 del medesimo art. 1.
[16] Liso, op. cit., p. 15; Magrini, La regolamentazione, cit., p. 59; Rusciano, op. cit., p. 24; di recente L. Zoppoli, Lo sciopero, cit., p. 2, secondo il quale, se nel silenzio della l. 146 sullo sciopero generale si rinviene una lacuna, ciò vuol dire che il legislatore ha rimesso la materia (a cominciare dalla nozione di sciopero generale) alla “regolazione concordata” prevista dalla stessa legge. Per Santoni (op. cit., p. 29) lo sciopero generale andrebbe invece sottoposto alla l. 146, ma lasciando alla Commissione di garanzia “la valutazione del suo impatto sui servizi essenziali, con una ragionevole flessibilità dell’applicazione dei principi in vigore”.
[17]Per comodità del lettore si riporta, per quanto qui interessa, integralmente il dato normativo (sempre miei i corsivi): l’art. 2, c. 2, stabilisce che, le “misure dirette a consentire gli adempimenti di cui al comma 1” - contenute nei contratti collettivi dallo stesso comma contemplati - tra le altre previsioni, “devono […] indicare intervalli minimi da osservare tra l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo, quando ciò sia necessario ad evitare che, per effetto di scioperi proclamati in successione da soggetti sindacali diversi e che incidono sullo stesso servizio finale o sullo stesso bacino d’utenza, sia oggettivamente compromessa la continuità dei servizi pubblici di cui all’art. 1”; e, prosegue sempre il c. 2, nei predetti contratti collettivi “devono essere in ogni caso previste procedure di raffreddamento e di conciliazione, obbligatorie per entrambe le parti, da esperire prima della proclamazione dello sciopero ai sensi del comma 1”.
[18] Nella Relazione sull’attività della Commissione 1° gennaio 2005-30 giugno 2006, Parte I, p. 10, si legge che la Commissione ha adottato questa delibera dopo aver “accertata l’impossibilità di pervenire a una disciplina negoziale”. E nella Parte III, a cura di Ferrari-Fiata, si precisa che la delibera nasce dall’esigenza di “dover predeterminare in via generale, per esigenze di certezza, le regole applicabili allo sciopero generale” modificando la “prassi, basata sulla valutazione caso per caso, fino ad allora seguita”.
[19] Donde, nella delibera, a seconda della fase si menzionano le “confederazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative”, “alcune organizzazioni sindacali interessate agli scioperi”, le “confederazioni presenti nel CNEL”, le “confederazioni che ne hanno fatto richiesta”.
[20] Magrini, Ancora, cit., p. 6.
[21] Precisamente nella delibera si legge che: “a) nel caso di ‘rarefazione soggettiva’ (quando gli scioperi che non rispettano l’intervallo minimo sono proclamati nell’ambito della stessa o delle stesse confederazioni) la Commissione provvederà all’indicazione immediata ai sensi dell’art. 13 lett. d) della l. 146/1990, al fine di consentire una nuova formulazione della proclamazione e delle adesioni tale da assicurare il rispetto di detto intervallo; b) nel caso, invece, di ‘rarefazione oggettiva’ (quando cioè la questione dell’intervallo minimo si pone in relazione a proclamazioni da parte di altre confederazioni o di organizzazioni non aderenti alla o alle confederazioni proclamanti), la Commissione si riserva di valutare, al fine della eventuale adozione dei provvedimenti di cui al citato art. 13, se il mancato rispetto dell’intervallo minimo possa in concreto impedire l’equo contemperamento tra diritto di sciopero e diritti della persona costituzionalmente garantiti, tenuto conto del possibile impatto delle astensioni collettive”.
[22]Senza quindi che - si precisa nella delibera - “assuma rilievo la eventuale previsione, nella regolamentazione di settore, della necessaria proclamazione dello sciopero soltanto dopo l’effettuazione di quello precedente”. Per quanto concerne invece il cd. divieto di concomitanza - in seguito alla l. n. 83 del 2000 riconducibile all’art. 13 c. 1 lett. e) della l. 146 - previsto in concreto soprattutto per il settore dei trasporti e anch’esso (per intuibili ragioni) non facilmente conciliabile con lo sciopero generale, ma su cui la delibera nulla dice, v., per tutti, Del Punta, op. cit., p. 9; Pino, op. cit., p. 9.
[23] F. Carinci, op. cit.; Magrini, La regolamentazione, cit., p. 60; Id., Ancora, cit., p. 7. Del Punta (op. cit., pp. 12 e 13) ritiene invece che la Commissione abbia sfruttato “all’estremo” il “margine di discrezionalità nella concretizzazione della regola della rarefazione oggettiva” lasciato dalla legge e abbia “forse passato il segno” per quanto riguarda il rilievo esclusivo dato all’effettuazione degli scioperi ai fini del computo dell’intervallo minimo tra le diverse azioni di autotutela.
[24] Al riguardo, anche per i necessari riferimenti bibliografici, sia consentito il rinvio a A. Zoppoli, Prospettiva rimediale, fattispecie e sistema nel diritto del lavoro, Editoriale Scientifica, Napoli, 2022, p. 53 e ss.
[25] Precisamente: “acqua, carburanti, credito, distribuzione farmaci e logistica farmaceutica, elettricità, energia e petrolio, farmacie, gas, gas/acqua, istituti di vigilanza, metalmeccanici, pulizie e multiservizi, radio e tv, telecomunicazioni, ristorazione collettiva, appalti ferroviari e lavanderie industriali”.
[26]Ha precisato, scrive G. Santoro Passarelli (op. cit., p. 8), la “nozione di sciopero generale”.
[27] Liso, op. cit., p. 17.
[28] Rusciano, op. cit., p. 21.
[29] Entrambe le citazioni sono di Liso, op. cit., p. 17.
[30] Rusciano op. cit., p. 23; nello stesso senso Magrini, La regolamentazione, cit., p. 61; Del Punta, op. cit., p. 10; Magnani, op. cit., p. 4; Pino, op. cit., p. 6; G. Santoro Passarelli, op. cit., p. 6. Tanto Liso quanto Rusciano escludono espressamente dalla definizione di sciopero generale (almeno ai fini delle regole particolari del contemperamento di cui alla l. 146) forme che nel gergo comune vengono talvolta così denominate, come quello effettuato da tutte le categorie di un determinato settore (trasporti, sanità), anche se è la stessa proclamazione a qualificarle come sciopero generale. Della medesima opinione la Magnani, che però fa riferimento a scioperi del solo settore pubblico o privato.
[31] Del Punta (op. cit., p. 12) osserva che “la diversità della tecnica di normazione impiegata fornisce, d’altra parte, un argomento decisivo per escludere, a contrario, che l’esistenza dell’art. 2 c. 7 tolga allo sciopero generale il titolo ad una disciplina separata” (come si ricorderà, l’art. 2 c. 7 della l. 146 è incentrato esclusivamente su una particolare finalità dello sciopero).
[32]Scarpelli, op. cit., p. 4; Tridico, op. cit.; L. Zoppoli, Lo sciopero, cit., p. 4.
[33] In MGL, 1980, p. 176.
[34] Limiti al diritto di sciopero - si legge nella sentenza - “possono rinvenirsi soltanto in norme che tutelino posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario o quanto meno paritario, con quel diritto”. E qui - come si rammenterà - la Cassazione richiama, tra le altre, l’art. 4, c. 1, Cost. cui riconduce la tutela della libertà d’iniziativa economica in quanto “forma di lavoro” per il suo titolare e “concreto strumento di realizzazione” del diritto al lavoro per tutti i cittadini.
[35] Calamandrei, Significato costituzionale del diritto di sciopero, in RGL, 1952, I, p. 221.
[36] L. Zoppoli, Lo sciopero, cit., p. 3. Sul punto cfr. anche le considerazioni di Martone, nel 2003 Presidente della Commissione di garanzia, il quale, in particolare, sottolinea come la delibera n. 03/134 sia “stata espressamente richiamata dalle stesse confederazioni nei diversi atti di proclamazione e di adesione allo sciopero generale del 24 ottobre 2003” (Editoriale, in Newsletter CgS, n. 1/2, 2003, p. 3).
[37] Cfr., tra le altre, la delibera n. 545/2004 del 30 aprile 2004 di integrazione della delibera n. 03/134; le delibere n. 05/606 del 28 giugno 2005 e n. 05/622 del 19 ottobre 2005; la comunicazione della Commissione del 18 novembre 2013, verb. n. 1012; e, per i trasporti, le delibere n. 22/22 dell’8 febbraio 2022, n. 22/129 del 27 maggio 2022 e n. 22/279 del 12 dicembre 2022 che reintervengono sulla regola della rarefazione nonché la delibera n. 22/280, del 12 dicembre 2022, sulla cd. valutazione d’impatto dello sciopero generale. Sull’esclusione delle restrizioni settoriali e territoriali cfr. la Relazione sull’attività della Commissione di garanzia, cit., Parte I, p. 11, e, in dottrina, G. Santoro Passarelli, op. cit., p. 9; Vallebona, op. cit., p. 74.
[38] Contra Scarpelli, op. cit., p. 2, 3; L. Zoppoli, Lo sciopero, cit., p. 3.
[39] Carrieri, op. cit., il quale sottolinea quello che sicuramente è uno dei principali problemi in materia di sciopero generale, ossia l’incremento di proclamazioni da parte di soggetti sindacali privi di adeguata rappresentatività. Problema, per ovvi motivi, estraneo allo sciopero del 17 novembre e, quindi, anche a queste pagine. Al riguardo ci si può limitare ad osservare come non si tratti di un problema nuovo; esso, oggi come ieri, sconta la “mancanza di una legge sindacale” (Liso, op. cit., p. 17, che lo sottolineava nel 2003).
[40] Scarpelli, op. cit., p. 3; L. Zoppoli, Lo sciopero, cit., p. 3.
[41] Nel comunicato stampa della Commissione del 13 novembre 2023, pubblicato sul suo sito, si legge che lo sciopero del 17 novembre “non può essere considerato, come da consolidato orientamento della Commissione, quale sciopero generale, ai fini dell’applicazione della disciplina che consente delle deroghe alla normativa di settore sui servizi pubblici”.
[42] Da ora art. 8.
[43] V., per tutti, D’Atena, Contrattazione, rappresentatività, conflitto, Futura, Roma, 2000, p. 34; Orlandini, sub Articoli 8, 9 e 10. Il procedimento di precettazione, in Pascucci (a cura di), La nuova disciplina dello sciopero nei servizi essenziali. Legge n. 146/1990 (modificata dalla legge n. 83/2000), Ipsoa, 2000, p. 172.
[44] Orlandini, op. cit., p. 171, che ritiene la seconda ipotesi “più plausibile”.
[45] Cfr., per tutti, per la versione originaria dell’art. 8, A. Zoppoli, Art. 8, in Rusciano - G. Santoro Passarelli, Lo sciopero nei servizi essenziali. Commentario alla legge 12 giugno 1990, n. 146, Giuffrè, Milano, p. 117; per la versione attuale, Orlandini, op. cit., p. 171.
[46] A. Zoppoli, Art. 8, cit., p. 119.
[47] Corte cost. 18 ottobre 1996, n. 344, in www.cortecostituzionale.it.
[48] Orlandini, op. cit., p. 173, a cui si rinvia anche per una sintesi del dibattito sull’argomento.
[49] Diverso dal trasporto aereo, per il quale invece la Commissione aveva rilevato la violazione della regola della rarefazione oggettiva e, per questo, lo sciopero è stato da tale area escluso dalle organizzazioni sindacali.
[50] Ad esempio, ordina per il trasporto ferroviario la riduzione dello sciopero a 4 ore a fronte delle 8 consentite dalla Commissione; così pure per il trasporto merci su rotaia; per il trasporto pubblico locale dispone la precisa collocazione delle 4 ore di sciopero, dalle 9 alle 13, non prevista altrove.
[51]Vale a dire: grado di interconnessione tra varie modalità di traffico su strada ferrata; trend positivo del turismo, nuovamente settore trainante per la nostra economia, con forte intensificazione dei flussi turistici in entrata e in uscita dal territorio nazionale, che si aggiungono agli spostamenti dei lavoratori pendolari; alto numero di persone interessate dal diritto alla mobilità; in linea generale crescente lesione dei diritti dei cittadini alla libera circolazione per coincidenza oraria di più scioperi; percentuali di cancellazione dei treni tra il 15% e il 25% a seconda del tipo di treno, con il massimo del 40% per i treni regionali; peculiarità di alcune mansioni, ad esempio del personale di macchina o degli addetti ai sistemi di controllo, il cui sciopero può determinare “effetti gravissimi”; carattere intermodale del sistema di trasporto con diversi trasporti tra loro complementari sì che lo sciopero comporti un “danno eccedente” quello relativo al solo trasporto pubblico locale”.
(foto: fonte Ansa via RaiNews)
Audizione di Claudio Castelli presso la Commissione Giustizia del Senato avente ad oggetto il Disegno di legge Ministeriale n. 808 in tema di abuso di ufficio, intercettazioni e modifiche in tema di adozione di misure cautelari.
Sommario: 1.Introduzione - 2. Le Procure che indagano - 3. La sicurezza del business - 4. Zone off limits - 5. La tragedia dei minori - 6.Il gruppo ORS.
1. Introduzione
La triste vicenda della morte del giovane originario della Nuova Guinea, Ousmane Sylla, che si è tolto la vita nel CPR di Ponte Galeria riporta alla ribalta della cronaca la triste realtà di queste strutture di “trattenimento”. Il giovane era giunto nel CPR di Roma da pochi giorni, proveniente dal CPR di Trapani dove era stata già accertata la sua precarietà psicologica. Nonostante ciò è stato deciso il trasferimento a Roma e contemporaneamente gli è arrivato il provvedimento che portava a 18 mesi il suo periodo di permanenza nel CPR (cosi come le recenti normative prevedono).
Il ragazzo non ha retto allo stress e si è impiccato scrivendo con un mozzicone di sigaretta un messaggio struggente: “Vorrei che il mio corpo sia portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre. Non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”
Altri casi analoghi si registrano continuamente in altri CPR: un ragazzo tunisino è caduto dal tetto del Centro di Gradisca d’Isonzo ed è stato ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Udine. Atti di autolesionismo sono registrati in continuazione in tutti centri, segno tangibile di una grande sofferenza che regna in queste strutture e della difficoltà di governarli.
2. Le Procure che indagano
Si sono avviate in questi mesi importanti indagini delle Procure sia a Milano che in Lucania per accertare le condizioni di vita all’interno di questi centri e le eventuali irregolarità di gestione.
Il Centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli a Milano è stato commissariato dal Giudice per le indagini preliminari per frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta (ma nonostante il commissariamento è proprio di questi giorni la notizia di ennesime proteste).
Nel CPR lucano si indaga per verificare se realmente, come sembra, i migranti sarebbero stati sottoposti a maltrattamenti e sedati con psicofarmaci Ma al di là dei risultati delle indagini giudiziarie I CPR continuano ad essere luoghi che generano disagio, ribellione e violenza e che difficilmente riescono a rimpatriare gli stranieri che trattengono. Invece di chiuderli o provare a migliorarli, le ultime dichiarazioni del Governo vanno nella direzione di aumentarne il numero e costruirne uno in ogni regione con l’estensione a 18 mesi come limite massimo di permanenza.
3. La sicurezza del business
L’idea e ormai la certezza di costruire nuovi CPR risponde ad una vaga e fumosa tendenza securitaria, ma anche ad un preciso piano di aumentare il business con l’affidamento a strutture private che spesso sono riconducibili a multinazionali tipo ORS che gestisce il CPR di Ponte Galeria. Multinazionali che fanno grandi guadagni in tutta Europa sulla pelle dei migranti.
Il numero delle espulsioni da questi centri è molto basso e quando, nella maggior parte dei casi, non si riesce a realizzare, viene ordinato allo straniero di allontanarsi entro 7 giorni. Spesso lo straniero non ha i mezzi economici per andarsene e rimane semi clandestino nelle nostre città in attesa di tornare di nuovo nel CPR.
È sufficiente farsi un giro nei cestini della spazzatura intorno alla fermata del treno di Ponte Galeria per trovare accartocciati i fogli di via consegnati a coloro che escono dal centro terminato il periodo massimo di trattenimento.
Si vogliono costruire nuovi CPR, ma non si fa nulla per rendere dignitosa la vita in queste strutture. Anche l’annuncio dell’apertura di un centro in Albania sembra una risposta di “pancia” per affrontare il problema. Si sposta in un altro paese quello che non si riesce a gestire in Italia. Fortunatamente qualche falla in questa proposta così come da alcune Regioni stanno arrivando nette opposizioni all’apertura di questi centri nei loro territori.
Durante il mio mandato di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale (giugno 2017/marzo 2023) ho visitato molte volte il Centro di Ponte Galeria.
4. Zone off limits
Solo nell’ultimo anno del mio incarico, e cioè nel 2022, sono riuscita ad entrare senza chiedere preventivamente autorizzazione alla Prefettura. A differenza di quello che avviene per il carcere fino al 2022 non era possibile l’accesso ai garanti territoriali e questo ha reso difficile fare ulteriori ispezioni e farle a sorpresa (come in genere avviene quando si entra negli istituti penitenziari).
La mancanza di controlli esterni e la mancanza di un magistrato di sorveglianza (figura non prevista per la detenzione amministrativa) ha fatto sì che molte violazioni si siano compiute (e si continuano a verificare ). Dal 2022 e dopo un lungo impegno del Garante Nazionale è stato stipulato un accordo con il Ministero degli Interni che prevede la possibilità di ingresso dei garanti territoriali senza previa autorizzazione della Prefettura ed anche la possibilità per le persone trattenute di inviare richiesta di colloquio con il garante stesso.
Ogni volta che ho visitato il CPR ho chiesto di parlare con le persone trattenute.
Ho raccolto sempre molto dolore, richieste di ascolto, di cura. La maggior parte si lamenta delle condizioni di invivibilità all’interno del centro. Molti di loro non hanno chiaro il motivo perché sono stati portati lì. Molti sono coloro che hanno problemi di salute e tanti che vorrebbero avere contatti con la propria famiglia che il più delle volte non è a conoscenza del loro stato (come è accaduto per il giovane della Nuova Guinea che si è suicidato)
Mi hanno particolarmente colpito le donne: quasi sempre trattenute perché prive di documenti e senza aver commesso reati. Erano alloggiate in una parte distinta della struttura con spazi senza porte, bagni alla turca e d’estate pieni di zanzare.
5. La tragedia dei minori
Nel CPR risultano alcune volte essere entrati anche dei minori. La detenzione dei minori non dovrebbe mai avvenire in quanto la c.d. legge Zampa (legge 47/2017) prevede che nel dubbio sull’età il minore non debba essere trattenuto presso un CPR, ma immediatamente collocato in un centro dedicato dove essere sottoposto all’accertamento dell’età e non il contrario, ovvero sottoposto all’accertamento dell’età presso il CPR e poi eventualmente collocato in un centro per minori.
Sarebbe importante che le Procure, a seguito delle segnalazioni, riuscissero a fare più controlli su questi centri. Esistono i capitolati con i quali i gestori si aggiudicano le gare delle Prefetture per la loro gestione, ma, come ho potuto constatare più di una volta, questi capitolati non vengono rispettati, a partire dal servizio medico, cibo, numero di operatori e mediatori culturali.
È sul rispetto dei capitolati di appalto che si dovrebbe maggiormente concentrare il controllo degli organismi preposti.
Aumentare il tempo del trattenimento (a 18 mesi) come è stato deciso con l’ultima legge non farà altro che peggiorare le condizioni fisiche e psicologiche delle persone trattenute (e non meravigliamoci delle rivolte).
6.Il gruppo ORS
Una particolare attenzione andrebbe posta (come io nel mio piccolo ho cercato di fare) nei confronti dell’attuale gestore che si è aggiudicato l’appalto di due anni da parte della Prefettura di Roma. Parliamo del Gruppo ORS, gruppo già presente a livello internazionale, sbarcato in Italia poco tempo e già gestore molto chiacchierato del centro di Macomer. A proposito di questa società riporto uno stralcio di una importante inchiesta apparsa sulla rivista Irpimedia (a cura di Alessandro Leone, Marika Ikonomu e Simone Manda):
“Ors è una multinazionale svizzera nata nel 1977 a Zurigo. Dalla fornitura di servizi a pubblico e privato è poi entrata nel mondo dell’accoglienza, espandendosi anche in Germania, Austria e più di recente in Italia e Spagna.
Dopo diverse denunce di malagestione in centri di accoglienza in Svizzera e Austria e il calo dei richiedenti asilo nel paese natio, decide di espandersi nel Mediterraneo e aprire una filiale in Italia nel 2018, ORS Italia srl.
La società però inizia la sua attività solo nel gennaio 2020, riuscendo comunque ad aggiudicarsi il CPR di Macomer il centro di prima accoglienza Casa Malala, pur essendo inattiva, ma il Tar del Friuli Venezia-Giulia revoca l’assegnazione del centro nei pressi di Trieste proprio per il suo stato di inattività.
Ors è l’unica, tra le società che gestiscono i CPR in Italia, ad essere rappresentata in Parlamento da una società di lobbyng, la Telos Analisi e Strategie.
All’inizio del 2022 Ors inizia la gestione del CPR di Roma, che continua ancora oggi, e Torino, chiuso dopo le proteste dei detenuti a febbraio per le condizioni di trattenimento.
A fine 2022 è stata acquistata dal colosso britannico Serco e può vantare la collaborazione di un comitato consultivo composto da ex politici ed imprenditori”
Mi sembra evidente dal questo rapporto e da tante testimonianze raccolte in questi mesi che esista un problema reale di queste società multinazionali nella gestione di un servizio pubblico così delicato che coinvolge la vita ed i diritti di migliaia di persone.
(Nella foto il CPR di Ponte Galeria, fonte)
L’impugnazione del bando da parte dell’impresa che non partecipa alla gara: dalla legittimazione al ricorso all’onere della prova. Nota a T.A.R. Campania – Salerno, sez. I, n. 1344 del 12 giugno 2023
di Fortunato Gambardella
Sommario: 1. La vicenda processuale. – 2. La legittimazione all’impugnazione del bando di gara in capo a soggetti non partecipanti alla gara: le basi del ragionamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. – 3. Il regime d’impugnazione delle clausole attinenti la formulazione dell’offerta che ne rendono impossibile la presentazione: l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2018. – 4. Brevi considerazioni critiche sull’impiego dello strumento probatorio della verificazione nei giudizi di impugnazione dei bandi provocati da imprese non partecipanti alle gare.
1. La vicenda processuale
La sentenza n. 1344 del 2023 del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sezione I di Salerno, rilancia l’attenzione, con orientamento spiccatamente aperturista, sul tradizionale tema della legittimazione a ricorrere, nelle gare ad evidenza pubblica, in capo agli operatori economici che non abbiamo partecipato alla relativa procedura di scelta del contraente.
La vicenda riguarda l’impugnazione di un bando/disciplinare relativo alla “Procedura aperta per l’affidamento del Servizio di gestione integrata dei rifiuti e spazzamento del Comune di Castellabate”, da parte di un operatore economico non partecipante alla gara ma interessato a presentare domanda di partecipazione alla stessa. Il ricorso si fonda sull’assunto secondo cui le previsioni contenute nei documenti di gara prevederebbero, a carico degli operatori privati, attività antieconomiche e sottocosto, così alterando la dinamica concorrenziale e la regola della più ampia partecipazione alla competizione.
Sospesi con ordinanza i provvedimenti impugnati, il collegio campano ha disposto l’espletamento della verificazione, al fine di analizzare le relazioni di stima dei costi sulla scorta delle quali è stato redatto il bando/disciplinare e di valutare le lamentate anomalie per ciascuna voce determinante l’importo a base di gara per come descritte nel ricorso, tra cui: - la sottostima del costo del personale; - la sottostima del costo degli automezzi; - il costo annuo delle attrezzature da installare presso il centro di raccolta. In particolare, l’ordinanza ha disposto che il verificatore dovesse accertare se i costi fossero sottostimati al punto da impedire all’operatore di formulare un’offerta economicamente sostenibile, seria, congrua ed attendibile.
La relazione conclusiva delle operazioni di verificazione ha riscontrato “alcune criticità nella documentazione progettuale oggetto di verificazione”, con riferimento particolare: ai “costi in ammortamento” considerati nel bando per gli automezzi e valutati come diversi rispetto ai costi ottenuti a seguito dell’analisi di mercato svolta in maniera autonoma e indipendente nell’ambito della verificazione; alla stima del costo del personale non aggiornato alla più recente contrattazione collettiva per i servizi ambientali; al costo per l’acquisto delle attrezzature da installare nel centro di raccolta.
Per l’effetto, il giudice amministrativo ha accolto il ricorso, annullando gli atti impugnati nel punto relativo ai riferiti costi, ferma la conclusione della relazione di verificazione, che evidenziava uno scarto rilevante (nella misura del 10,38%) tra i costi individuati nella lex specialis e i costi effettivi e reali a carico dell’aggiudicatario, tale da comportare la circostanza che l’operatore economico non fosse stato messo in condizione di presentare un’offerta congrua, seria e non antieconomica, con conseguente “danno alla concorrenza e alla massima partecipazione alle gare”.
2. La legittimazione all’impugnazione del bando di gara in capo a soggetti non partecipanti alla gara: le basi del ragionamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
In punto di legittimazione all’azione del ricorrente non partecipante alla procedura di gara, ma semplicemente interessato alla partecipazione alla medesima, la sentenza in commento si colloca esplicitamente nel solco degli indirizzi giurisprudenziali nel tempo consolidatisi nella giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
È una traiettoria che ha ormai dei precisi punti fermi e che origina dalla sentenza n. 1 del 2003, transita per le decisioni n. 4 del 2011 e n. 11 del 2014, per approdare alla sentenza n. 4 del 2018 del supremo collegio. Ed è una traiettoria che, com’è noto, muove dalla considerazione della partecipazione alla procedura di gara come presupposto di qualificazione e differenziazione dell’interesse ad impugnare, in quanto elemento idoneo a collocare l’operatore economico in posizione giuridica differenziata rispetto alle altre imprese presenti sul mercato, radicando, in capo all’impresa, un interesse legittimo che le consenta di provocare il sindacato di legittimità sulle clausole della lex specialis. Si tratta di una linea ermeneutica animata anche da intenti di deflazione del contenzioso ([1]) ma non scevra da rischi, sia sul piano della garanzia di effettività della tutela giurisdizionale e della compressione del diritto costituzionale di difesa (ex articolo art 24 Cost.), quanto nella prospettiva del rispetto dei principi del diritto europeo in materia di contratti pubblici, a partire dalla considerazione del canone comunitario della massima concorrenza, lungo una traccia più volte rivendicata dalla giurisprudenza sovranazionale ([2]).
Nella sentenza dell’Adunanza plenaria del 2003, sia chiaro, il tema della legittimazione processuale attiva avverso il bando di gara non è affrontato in termini espliciti e diretti. Quella decisione si riferisce infatti, tra i vari profili che intercetta, alla questione della “esatta delimitazione dell’ambito oggettivo dell’onere di immediata impugnazione dal bando di gara o di concorso”. Posta la natura del bando quale atto generale, la questione è risolta dal Supremo Collegio in continuità con l’indirizzo giurisprudenziale risalente secondo cui i bandi di gara e di concorso vanno normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi a identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato. Alla base del ragionamento il collegamento tra lesione della situazione giuridica e interesse all’impugnazione, per cui: di regola, a fronte di una clausola illegittima del bando, il partecipante alla procedura non è ancora titolare di un interesse attuale all’impugnazione, in quanto ancora ignaro della lesione concreta ed attuale della propria situazione soggettiva; eppure, a titolo di eccezione, qualora una clausola illegittima impedisca alla radice la partecipazione alla procedura di gara, la stessa appare idonea a produrre una lesione immediata, diretta ed attuale, nella situazione soggettiva dell’interessato, radicando, per l’effetto, un interesse immediato alla impugnazione.
Per questa via, l’Adunanza Plenaria del 2003 avalla quegli orientamenti giurisprudenziali che affermavano l’onere dell’immediata impugnativa delle clausole del bando che prescrivono requisiti di ammissione o di partecipazione alle gare, posto che la relativa lesività “non si manifesta e non opera per la prima volta con l’aggiudicazione, bensì nel momento anteriore nel quale tali requisiti sono stati assunti come regole per l’amministrazione (Cons. Stato, Sez. IV, 27 marzo 2002, n. 1747)”.
Il ragionamento della Plenaria del 2003 riguarda dunque la questione del tempo dell’impugnazione del bando e si muove, in ogni caso, sul tradizionale terreno della necessaria partecipazione alla gara come elemento di legittimazione all’impugnativa delle relative clausole. Si tratta però di una traiettoria speculativa che non può non avere effetti anche sul differente tema della legittimazione al ricorso, posto che “di regola, la lesione non si produce che con l’atto applicativo (di esclusione, di diniego di aggiudicazione): ed è allora, di regola, evidentemente necessaria la partecipazione; in via di eccezione la lesione si produce immediatamente per la presenza di clausole che precludono la partecipazione: ma in questi casi non è allora, altrettanto evidentemente, necessaria (oltre che in alcun modo utile) la partecipazione” ([3]). È una traccia interpretativa praticata, in quei settori della giurisprudenza inclini ad ammettere l’impugnativa del bando ad opera di imprese non partecipanti in tutti quei casi in cui la lex specialis concretizzi, per l’appunto, una lesività immediata sul piano della mera partecipazione alla procedura ([4]).
Orientamenti aperturisti dei quali successivamente terrà conto l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 4 del 2011. Il collegio, nell’ambito di una decisione che pur concentrava il relativo focus sulla questione sull’ordine delle trattazioni tra ricorso principale e incidentale, ha infatti affrontato anche il tema dell’onere di presentazione della domanda come presupposto legittimante del ricorso, proponendo un’impostazione di tipo evolutivo.
Il punto di partenza del ragionamento della Plenaria del 2011 è dato infatti dalla constatazione dell’evoluzione dell’ordinamento processuale amministrativo nel senso del progressivo ampliamento della legittimazione al ricorso. Una prospettiva che incontra terreno fertile anche nel campo delle controversie relative all’affidamento dei contratti pubblici, laddove l’esigenza di tutela della concorrenza ha permesso, all’elaborazione giurisprudenziale, di declinare ipotesi ulteriori di legittimazione al ricorso, slegate dalla partecipazione ad una determinata procedura. Nondimeno, si legge nella decisione, “la portata di questo allargamento della legittimazione non è affatto indiscriminata e generalizzata, correlandosi, anzi, a puntuali presupposti normativi e a rigorose fattispecie”.
Tali fattispecie sono pertanto puntualmente individuate dal supremo collegio e si snodano lungo tre direzioni: la legittimazione del soggetto che contrasta, in radice, la scelta della stazione appaltante di indire la procedura; la legittimazione dell’operatore economico “di settore”, che intende contestare un “affidamento diretto” o senza gara; la legittimazione dell’operatore che manifesta l’intenzione di impugnare una clausola del bando “escludente”, in relazione alla illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione. Si tratta di deroghe che non mettono in discussione la regola generale della necessaria sussistenza di un interesse sostanziale qualificato e differenziato del ricorrente, perché in ciascuno dei casi segnalati è ravvisabile una qualificazione soggettiva di chi agisce in giudizio che vale a differenziarne la condizione dalla mera situazione soggettiva di imprenditore potenzialmente aspirante all’indizione di una nuova gara.
3. Il regime d’impugnazione delle clausole attinenti la formulazione dell’offerta che ne rendono impossibile la presentazione: l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2018.
L’autorevole indirizzo dell’Adunanza Plenaria è stato successivamente confermato, dal medesimo collegio, nella sentenza n. 9 del 25 febbraio 2014 ([5]), quindi ulteriormente esplicitato nella sentenza n. 4 del 26 aprile del 2018 ([6]).
La decisione del 2018 fa propri gli approdi delle sentenze del 2003 ([7]), del 2011 e del 2014 per ribadire, sia alla luce dell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale nazionale ([8]) quanto in considerazione degli input del diritto europeo ([9]), l’eccezione alla regola-base del difetto di legittimazione attiva per il concorrente non partecipante, in relazione alle prospettate, tassative ipotesi: I) contestazione in radice dell’indizione della gara; II) contestazione dell’affidamento diretto disposto in luogo di gara; III) impugnazione diretta di clausole del bando immediatamente escludenti.
Sotto quest’ultimo profilo, l’Adunanza plenaria definisce come “escludenti”, quelle clausole che “con assoluta certezza … precludano l’utile partecipazione” dell’operatore economico. In questo novero, l’Adunanza Plenaria fa rientrare sia le clausole afferenti ai requisiti soggettivi quanto quelle “attinenti alla formulazione dell’offerta, sia sul piano tecnico che economico laddove esse rendano (realmente) impossibile la presentazione di una offerta”. È una definizione di carattere generale che la stessa sentenza ulteriormente dettaglia nel momento in cui passa in rassegna, sulla base degli indirizzi giurisprudenziali maggioritari, una pluralità di fattispecie concrete nelle quali evidentemente prende forma il canone della reale impossibilità nella presentazione dell’offerta. Si tratta di un repertorio vasto, che contempla, ad esempio, le clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, oppure quei bandi contenenti gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate ([10]).
Nel medesimo repertorio, il supremo collegio fa poi rientrare le “condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente”. Sotto questo profilo, l’Adunanza Plenaria recupera un indirizzo più volte ribadito dallo stesso Consiglio di Stato e ben esplicitato nella sentenza della Sez. III del 23 gennaio 2015, n. 293. In quella decisione, il giudice amministrativo ribadiva l’obbligo di immediata impugnativa per quelle clausole che “impediscano (indistintamente a tutti i concorrenti) una corretta e consapevole elaborazione della propria proposta economica; in tali casi, infatti, risulta pregiudicato il corretto esercizio della gara, in violazione dei cardini procedimentali della concorrenza e della par condicio tra tutti i partecipanti alla gara”. In quella circostanza, ad apparire viziato era il capitolato di una gara per l’affidamento di un servizio di mensa, nel quale venivano descritte condizioni dei locali da adibire al servizio non corrispondenti, in punto di capacità ricettiva, alla realtà di fatto e tali da rendere impossibile l’espletamento del servizio in conformità a legge. In questa prospettiva, la sentenza chiarisce che l’inadeguatezza dei locali rappresenta un vizio da far valere immediatamente, in quanto tale da rendere la partecipazione difficoltosa o addirittura impossibile, “ovvero (qualora fosse stato inteso come comportante implicitamente un onere dell’aggiudicatario di reperire soluzioni idonee ad ovviare all’inadeguatezza) da rendere il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso”.
La riferita sentenza del 2015, per come evocata dalla stessa Adunanza Plenaria n. 4 del 2018, evidenzia dunque una sensibilità del giudice di appello che appare la stessa che ispira il giudice salernitano di prime cure nella sentenza che qui si commenta, nel momento in cui, come già evidenziato, rileva che le previsioni sui costi contenute nel bando/disciplinare oggetto d’impugnazione “prevedendo costi sottostimati addirittura nella misura del 10,38% e quindi imponendo la presentazione di offerte incongrue, sottocosto e economicamente insostenibili per l’offerente, sono sussumibili nelle viziate clausole della lex specialis di gara attinenti alla formulazione dell’offerta, sia sul piano tecnico che economico laddove esse rendano (realmente) impossibile la presentazione di una offerta”.
4. Brevi considerazioni critiche sull’impiego dello strumento probatorio della verificazione nei giudizi di impugnazione dei bandi provocati da imprese non partecipanti alle gare.
Per quanto fin qui evidenziato, la sentenza del T.A.R. Campania in commento, nel riconoscere la legittimazione al ricorso all’operatore economico non partecipante alla gara, si colloca in una traiettoria ermeneutica che la giurisprudenza amministrativa coltiva da tempo, suffragata dall’organo giurisdizionale titolare della funzione nomofilattica.
Qualche considerazione critica piuttosto può essere formulata con riguardo all’uso della verificazione ([11]) quale mezzo di prova nell’istruttoria processuale documentata nella decisione, sulla base degli indirizzi giurisprudenziali che si sono formati in tema di onere della prova in capo al ricorrente non partecipante alla procedura di gara.
Si stratta di uno strumento che il codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), al quarto comma dell’articolo 64, annovera tra i mezzi di prova cui possa fare ricorso il giudice “qualora reputi necessario l’accertamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche”.
Il funzionamento dell’istituto è poi disciplinato nell’articolo 66 del codice, che stabilisce la verificazione sia disposta con ordinanza del collegio, nel cui corpo della quale si procede alla individuazione dell’organismo che debba provvedervi, alla formulazione dei relativi quesiti, alla fissazione di un termine per il relativo compimento e per il deposito della relazione conclusiva.
Le scarne parole del legislatore lasciano emergere evidentemente la configurazione di uno strumento probatorio “a contenuto indeterminato” ([12]) cui si ricorre “nella ritenuta impossibilità per il giudice, in sede di legittimità, di avere una cognizione autonoma dei fatti oggetto del giudizio” ([13]) e il cui utilizzo resta nella discrezionalità del giudice, tenuto a servirsene laddove considerato necessario ai fini di “accertare la sussistenza di una situazione di fatto” ([14]), In questi termini, la verificazione si distingue dalla consulenza tecnica d’ufficio ([15]), quale mezzo di prova da utilizzarsi invece, com’è noto, a fini valutativi e cui il giudice può fare riferimento quando l’acquisizione di specifiche valutazioni sia, oltre che necessaria, indispensabile.
Tornando al caso in esame, come abbiamo visto, il giudice amministrativo ha accolto il ricorso, annullando gli atti impugnati nel punto relativo ai riferiti costi, ferma la conclusione della relazione di verificazione, che evidenziava uno scarto rilevante (nella misura del 10,38%) tra costi individuati nella lex specialis e i costi effettivi e reali a carico dell’aggiudicatario, tale da comportare che l’operatore economico non sia stato messo in condizione di presentare un’offerta congrua, seria e non antieconomica, con conseguente “danno alla concorrenza e alla massima partecipazione alle gare”.
A tal proposito, il dubbio che insorge riguarda tuttavia la stessa possibilità, per il giudice, di ricorrere allo strumento probatorio della verificazione in rapporto a fattispecie processuali nelle quali si determini un’estensione della legittimazione attiva all’impugnazione di bandi in capo a soggetti economici non partecipanti alle relative gare.
Alimenta indirettamente il dubbio l’indirizzo efficacemente sintetizzato di recente da T.A.R. Lazio, sez. V, 27 aprile 2023, n. 7254, che, nell’ambito di una vicenda sostanziale dal tenore analogo a quella descritta nella sentenza del T.A.R. Salerno che stiamo commentando, chiarisce come la lesività delle norme della lex specialis ritenute impedienti la formulazione di un’offerta, in quanto tali da rendere impossibile il calcolo di convenienza economica che anima la scelta di partecipare alla contesa, “deve essere oggetto di allegazione adeguata”. Un carattere di adeguatezza della allegazione che viene, dal giudice laziale, ulteriormente specificato, attraverso il ricorso all’orientamento giurisprudenziale diffuso, secondo cui: “l’onere probatorio ovviamente muta ai fini del merito del giudizio, poiché l’illegittimità della legge di gara sussiste sole se l’impossibilità, che il ricorrente deduce sotto il profilo soggettivo, è comune a qualsiasi delle imprese operanti nel settore. La prova da fornire in tal caso concerne, dunque l’oggettiva e generalizzata impossibilità di una partecipazione remunerativa, qualunque sia il modello organizzativo adottato” ([16]).
Ne viene fuori, nel ragionamento del TAR Lazio, un onere probatorio, in capo al ricorrente, che la sentenza definisce “aggravato”, come conseguenza del riferito carattere eccezionale dell’impugnazione immediata del bando rispetto alla regola generale dell’impugnazione differita, dovendo il ricorrente “dimostrare con oggettiva certezza che le prescrizioni lamentate, producendo effetti distorsivi della concorrenza, incidono sulla sua sfera giuridica in un momento precedente quello della mancata aggiudicazione ed indipendentemente da questa”.
In disparte ogni valutazione sulla sostenibilità giuridica dell’impostazione proposta dal TAR Lazio, che meriterebbe differenti approfondimenti, non può non evidenziarsi però come la stessa possa dispiegare effetti rilevanti sulla interpretazione dei margini di discrezionalità del giudice nel ricorso alla verificazione in relazione a fattispecie processuali nelle quali si tratti di estendere le maglie della legittimazione attiva di bando a vantaggio di operatori economici non partecipanti alla gara. Se infatti sta al ricorrente l’onere di offrire una prova di “oggettiva certezza” del carattere viziato delle prescrizioni contestate, come suggerisce la riferita decisione, sembra allora venire meno al contempo ogni spazio per il ricorso, da parte del giudice, allo strumento della verificazione. Quello strumento è descritto, infatti, dal legislatore come a disposizione dal giudice “qualora lo reputi necessario” e resta da chiedersi come possa risultare tale in quelle vicende processuali nelle quali l’onere della prova, secondo indicazioni giurisprudenziali, resti così sensibilmente a carico della parte ricorrente.
[1] Sottolinea la necessità di “evitare azioni emulative” da parte di soggetti disinteressati alla procedura di gara o privi di concrete possibilità di aggiudicazione F. Saitta, La legittimazione ad impugnare i bandi di gara: considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali, in Rivista trimestrale degli appalti, 2001, 3, 537.
[2] Il riferimento è all’indirizzo, sviluppato del giudice europeo in sede di interpretazione delle direttive comunitarie del 2004 in materia di appalti, secondo cui, qualora un’impresa non abbia presentato un’offerta a causa della presenza nel bando di specifiche che ritiene discriminatorie, e comunque ostacolanti la possibilità di fornire l’insieme delle prestazioni richieste, la stessa mantiene il diritto di presentare ricorso direttamente avverso tali specifiche, prima ancora che si perfezioni la procedura di aggiudicazione. Si veda, CGCE, sez. VI, 12 febbraio 2004, n. 230, in Serv. pubbl. e app., 2004, 383. Sul punto, G. Crepaldi, L’impugnazione delle clausole del bando che impediscono la partecipazione alla gara: i soggetti e l’oggetto, in Foro amm. CDS, 2007, 285.
[3] D. Vaiano, L’onere dell’immediata impugnazione del bando e del-la successiva partecipazione alla gara tra legittimazione ad agire ed interesse a ricorrere, in Dir. proc. amm., 2004, 3, 703.
[4] Si veda, in questa prospettiva, T.A.R. Puglia – Lecce, sez. II, 14 aprile 2005, n. 2227, in Foro amm. TAR, 2005, 6, 2151, con nota di S. De Paolis, L’impugnativa del bando di gara e la presentazione della domanda di partecipazione: una soluzione legata alla qualificazione delle clausole della lex specialis.
[5] La decisione, ancora una volta, si occupa della querelle intorno all’ordine di trattazione tra ricorso principale e ricorso incidentale e, in quest’ottica, costituisce l’occasione per enucleare principi fondamentali sviluppati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea in tema di garanzie giurisdizionali nei processi aventi ad oggetto procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti. In questo quadro, ogni dubbio di compatibilità comunitaria del nostrano e rigoroso regime di verifica delle condizioni dell’azione ai fini della proposizione dell’impugnativa viene superato lungo due piani. Il primo è quello dell’operatività del c.d. “principio di autonomia processuale nazionale”, che la Corte di giustizia ha fatto proprio, riservando agli ordinamenti dei singoli Stati la disciplina delle modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali, pur nei limiti del rispetto dei canoni di non discriminazione ed effettività della tutela (Vedi CGUE, 22 dicembre 2010, C507/08 Governo Slovacchia). Il secondo riguarda, invece, la “cospicua esegesi” (per utilizzare lo stesso lessico impiegato nell’Adunanza Plenaria in discorso) sviluppata dalla Corte di Giustizia in relazione alle direttive in materia di garanzie processuali nei procedimenti giurisdizionali sugli appalti pubblici, attraverso la quale sarebbero stati affermati alcuni principi basilari del sistema di giustizia sull’evidenza pubblica. Tra questi, per quanto di nostro specifico interesse, trova posto la regola per cui “l’impresa che non partecipa alla gara non può in nessun caso contestare l’aggiudicazione in favore di ditte terze”. Critico rispetto all’impostazione seguita dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2014, A. Bartolini, Una decisione poco europea, in Giorn. dir. amm., 2014, 10, 936, secondo il quale la stessa “si pone in chiaro contrasto con la dimensione oggettiva del processo europeizzato degli appalti, dove la legittimazione, in pratica, non è condizione di accessibilità alla giustizia, essendo assorbita nell’interesse ad agire”.
[6] Per un commento alla sentenza: S. Terracciano, Immediata impugnazione dei bandi di gara: tra novità legislative e conferme giurisprudenziali, in Diritto processuale amministrativo, 2018, 4, 1438; S. Tranquilli, Brevi note sulla fine della parabola del revirement giurisprudenziale sull’onere di immediata impugnazione delle clausole del bando, in Foro amministrativo, 2018, 3, 331; Nonché L. Bertonazzi, Notarelle originali in tema di impugnazione dei bandi, in Diritto processuale amministrativo, 2019, 3, 959, cui si rinvia per una raffinata costruzione critica tesa ad evidenziare la “natura di atto endoprocedimentale” della lex specialis, che “non entra a comporre l’oggetto del giudizio (e non è suscettibile di annullamento giurisdizionale), neppure quando, nel dettare un requisito partecipativo illegittimo, invalida in via derivata il susseguente provvedimento di esclusione”.
[7] È riportato nella sentenza: “sembra al Collegio che gli approdi raggiunti dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 1 del 2003 non costituiscano un passaggio isolato od eccentrico, rispetto ai principi generali in materia di condizioni dell’azione, desumibili dall’art. 24, co. 1°, della Costituzione (‹‹tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi››) ed in riferimento al principio processuale codificato dall’art. 100 c.p.c. (e da intendersi richiamato nel processo amministrativo dall’art. 39, comma 1, c.p.a.) secondo cui ‹‹per proporre una domanda o per contraddire alla stessa essa è necessario avervi interesse››, posto che … nel processo amministrativo l’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che qualificano l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 20 ottobre 1997 n.1210, Consiglio di Stato, sez. V, 23 febbraio 2015 n. 855 ma si veda anche Cassazione civile, sez. un., 2 novembre 2007, n. 23031 secondo cui l’interesse a ricorrere deve essere, non soltanto personale e diretto, ma anche attuale e concreto - e non ipotetico o virtuale- per fornire una prospettiva di vantaggio)”.
[8] La sentenza cita, a tal fine, Corte cost., 22 novembre 2016 n. 245 che ha ritenuto inammissibile – per difetto di rilevanza – una questione di legittimità costituzionale promossa dal T.A.R. per la Liguria, nell’ambito di un giudizio in materia di appalti pubblici originato dal ricorso proposto da un’impresa che non aveva partecipato alla gara: “secondo la Corte, infatti, la verifica di legittimità costituzionale della disciplina sostanziale indicata dal T.A.R. non potrebbe influire sull’esito della lite, destinata a concludersi con una pronuncia di inammissibilità del ricorso). La decisione chiarisce che “tale opzione ermeneutica muove dalla condivisibile considerazione secondo cui l’operatore del settore che non ha partecipato alla gara al più potrebbe essere portatore di un interesse di mero fatto alla caducazione dell’intera selezione (ciò, in tesi, al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara), ma tale preteso interesse “strumentale” avrebbe consistenza meramente affermata, ed ipotetica: il predetto, infatti, non avrebbe provato e neppure dimostrato quell’ “interesse” differenziato che ne avrebbe radicato la legittimazione, essendosi astenuto dal presentare la domanda, pur non trovandosi al cospetto di alcuna clausola “escludente” (nel senso ampliativo fatto proprio dalla giurisprudenza e prima illustrato); ed anzi, tale preteso interesse avrebbe già trovato smentita nella condotta omissiva tenuta dall’operatore del settore, in quanto questi, pur potendo presentare l’offerta si è astenuto dal farlo”. Paraltro, conclude la decisione: “anche se si volesse accedere ad una nozione allargata di legittimazione individuando un interesse dell’operatore economico a competere secondo i criteri predefiniti dal legislatore, ugualmente resterebbe insuperabile la considerazione che esso non sarebbe né attuale né “certo”, ma meramente ipotetico”.
[9] La sentenza sottolinea al riguardo come “anche sul piano del diritto europeo, non si rinvenga alcun riferimento che militi per l’estensione della legittimazione ad impugnare clausole non escludenti contenute nei bandi di gara agli operatori del settore che si siano astenuti dal partecipare alla gara medesima. 18.5.3. Giova precisare, in proposito che: a) la Corte di Giustizia, Sez. VI, 12 febbraio 2004, in causa C-230/02 ha stabilito che l’operatore economico il quale si ritenga leso da una clausola della legge di gara la quale impedisca la sua partecipazione ha la possibilità (rectius: l’onere) di impugnare in modo diretto tale clausola (affermazione questa, certamente in linea con quella della giurisprudenza nazionale prima citata a partire dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 2003), ma non ha esteso la legittimazione del non partecipante alla gara all’ impugnazione di clausole non certamente preclusive della propria partecipazione; b) più di recente la Corte di Giustizia (CGUE, Sez. 21 dicembre 2016 in causa C-355/15 -Bietergemeinschaft Technische Gebäudebetreuung GsmbH) ha espresso il principio secondo cui “l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa”; c) se, quindi, seppur a particolari condizioni, può non essere riconosciuta la legittimazione all’impugnazione in capo ad un soggetto, pur partecipante alla gara ma che ne sia stato definitivamente escluso, a fortiori non si vede perché essa dovrebbe essere riconosciuta al soggetto che, pur potendo partecipare alla gara (in quanto il bando non recava clausole escludenti, discriminatorie, etc), si sia astenuto dal presentare un’offerta: va semmai rilevato che la posizione dell’impresa che non abbia partecipato ab imis alla procedura appare ancor meno meritevole di considerazione, sul piano dell’interesse, rispetto a quella dell’impresa che pur abbia manifestato in concreto la volontà di partecipare alla procedura, rimanendo però esclusa”.
[10] Nel repertorio, la decisione inserisce anche: le regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile; disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta; clausole impositive di obblighi contra ius; atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2011 n. 5421).
[11] Per un inquadramento dell’istituto, si rinvia ampiamente a G. Clemente di S. Luca, Verificazione e consulenza tecnica d’ufficio nel quadro dei mezzi di prova esperibili nel processo amministrativo, in Diritto e processo amministrativo, 2018, 3, 761.
[12] V. Caracciolo La Grotteria, Verificazione e consulenza tecnica nel processo amministrativo. Nota a Cons. Stato 24 marzo 2023 n. 3025, in www.giustiziainsieme.it, 21 giugno 2023, che sottolinea come lo strumento possa “tradursi in ispezioni, sopralluoghi, accertamenti tecnici, acquisizione di testimonianze o documenti, finalizzati a fornire tutta una serie di elementi probatori, assimilabili a quelli di cui dispone il giudice civile”.
[13] L. Giani, La fase istruttoria, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2023, 441.
[14] V. Caracciolo La Grotteria, op. ult. cit.
[15] Sulla differenza fra verificazione e consulenza tecnica, nella giurisprudenza recente: Consiglio di Stato, sez. II, 26 gennaio 2022, n. 546. Per un approfondimento intorno a natura e oggetto della consulenza tecnica, prima del codice del processo amministrativo: M.A. Sandulli, La consulenza tecnica d’ufficio, in Il Foro amministrativo T.A.R., 2008, 12, 3533.
[16] Così, Consiglio di Stato, Sez. III, 26 aprile 2022, n. 3191.
Gli effetti delle “valutazioni” di merito e delle prove raccolte in un giudizio successivamente definito in rito per inammissibilità del ricorso (Nota a Consiglio di Stato, sentenza n. 8466 del 22 settembre 2023)
di Enrico Roveroni
Sommario: 1. Il giudizio e la questione oggetto di commento – 2. Le “valutazioni” di merito contenute nella motivazione di una sentenza di rigetto in rito – 3. La rilevanza delle “valutazioni” di merito nell’ambito di un successivo giudizio – 4. Riflessi delle tesi esposte sui limiti del giudicato – 5. La sorte delle prove raccolte nel giudizio poi definito in rito
1. Il giudizio e la questione oggetto di commento
La sentenza in commento conclude una complessa vicenda relativa alla realizzazione di un impianto di distribuzione carburanti in località Cantalupa (Milano). In estrema sintesi, la società istante propone ricorso avverso il provvedimento con cui il Comune di Milano ha negato l’autorizzazione alla realizzazione del distributore. La domanda viene rigettata dal T.A.R. Lombardia.
La società modifica il progetto originario dell’impianto e presenta dunque una nuova istanza, ma il Comune di Milano nega il rilascio dell’autorizzazione richiesta, in ragione del fatto che il distributore ricadrebbe nella cd. “fascia di rispetto autostradale” (cfr. art. 18, d.lgs., 30 aprile 1992, n. 285, nonché art. 26 e 28, d.p.r. 16 dicembre 1992, n. 495). La circostanza trova riscontro anche nel parere negativo reso dalla società concessionaria del tratto automobilistico.
La medesima società istante impugna il provvedimento di diniego, ma il ricorso viene dichiarato inammissibile dal T.A.R. Lombardia ai sensi dell’art. 41, co. 2, c.p.a.[1], per la mancata notifica al controinteressato concessionario (T.A.R. Lombardia, 6 aprile 2016, n. 664)[2]. La pronuncia precisa, tuttavia, che il ricorso appare “infondato anche nel merito, essendo chiaramente emerso dall’esperimento della verificazione effettuata che l’impianto che l’istante vorrebbe realizzare sarebbe situato nella fascia di rispetto autostradale”.
Successivamente, la richiedente presenta una nuova istanza di autorizzazione. In esito ad un articolato procedimento, il Comune di Milano adotta infine provvedimento di diniego, anche questo impugnato dalla società avanti al T.A.R. Lombardia. A fronte del rigetto nel merito della domanda di annullamento, la società propone appello in Consiglio di Stato avverso la sentenza di primo grado, impugnazione che tuttavia è anch’essa rigettata con la sentenza in commento.
Ritiene il Consiglio di Stato che la domanda di annullamento sia infondata in quanto (fra l’altro) “coperta” dal giudicato della sentenza resa dal T.A.R. Lombardia, 6 aprile 2016, n. 664, circostanza ritenuta dal Giudice di appello “decisiva”. La sentenza del T.A.R. Lombardia consentirebbe di ritenere accertata (in esito alla verificazione esperita in giudizio) la violazione delle norme disciplinanti la cd. fascia di rispetto autostradale.
La pronuncia presenta alcune problematiche in materia di: a) valutazioni di merito compiute dal giudice in un giudizio definito in rito; b) estensione del giudicato; c) rilevanza giuridica delle prove assunte in un giudizio definito in rito con pronuncia di inammissibilità del ricorso.
2. Le “valutazioni” di merito contenute nella motivazione di una sentenza di rigetto in rito
Il Consiglio di Stato ritiene la questione oggetto di controversia coperta da giudicato, in quanto già decisa in maniera definitiva dal T.A.R. Lombardia con la sentenza del 6 aprile 2016.
Gli effetti di una sentenza acquisiscono autorità di cosa giudicata qualora la pronuncia sia divenuta definitiva tra le parti, rendendo dunque la relativa questione di diritto incontrovertibile. Al fine di poter invocare l’autorità di cosa giudicata in ordine ad una determinata questione è dunque necessario che la sentenza (oltre che definitiva) decida la controversia nel merito[3].
Si è specificato tuttavia come, nel caso qui esaminato, la sentenza del T.A.R. Lombardia 6 aprile 2016, n. 664 non statuisca nel merito della vicenda, ma definisca la controversia soltanto in rito, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dalla società ricorrente per omessa notifica nei confronti del controinteressato. Solo in motivazione (e non nel dispositivo) il T.A.R. Lombardia precisa che (a suo avviso) la domanda di annullamento è comunque da ritenersi infondata.
È dunque necessario stabilire se l’autorità giudiziaria, definendo in rito la controversia, possa anche decidere nel merito e (eventualmente) quali effetti produca tale decisione. Sembra naturale propendere per la risposta negativa per il seguente ordine di ragioni.
Le ipotesi di inammissibilità del ricorso previste nel nostro ordinamento sono quanto mai varie e tra loro disomogenee, ma solitamente esse si ricollegano all’inesistenza di condizioni essenziali del ricorso, tali da rendere l’atto introduttivo inidoneo a instaurare un valido rapporto processuale. Mutuando l’espressione utilizzata dall’art. 35, co. 1, lett. b), c.p.a., è possibile affermare che, in via generale, il ricorso è inammissibile laddove vi siano “ragioni ostative ad una pronuncia nel merito”[4].
L’inammissibilità del ricorso impedisce al ricorrente di poter discutere il merito della controversia e soprattutto di ottenere una sentenza che si pronunci sulla fondatezza o infondatezza della pretesa dedotta in giudizio. Ma essa comporta anche (e ciò maggiormente rileva ai fini della presente analisi) l’impossibilità per il giudice di conoscere la controversia nel merito. Ciò in quanto, l’autorità giudiziaria può e deve pronunciarsi soltanto nei limiti della domanda validamente proposta dal ricorrente[5]. La domanda proposta con un ricorso dichiarato inammissibile non è evidentemente idonea a suscitare una pronuncia nel merito, dunque ad investire l’autorità giudiziaria del potere di decidere la controversia[6]. Di conseguenza, il giudice adito non solo non può, ma (soprattutto) non deve pronunciarsi in ordine alla fondatezza (o infondatezza) della domanda proposta dal ricorrente[7].
3. La rilevanza delle “valutazioni” di merito nell’ambito di un successivo giudizio
È necessario domandarsi quali effetti producano le eventuali “valutazioni” compiute dal giudice nel merito della controversia pur a fronte dell’inammissibilità del ricorso o comunque della definizione in rito del processo.
Nel caso di specie, la sentenza del T.A.R. Lombardia – richiamata dal Consiglio di Stato nella pronuncia qui annotata – una volta esposte le ragioni a sostegno dell’inammissibilità del ricorso, si esprime anche nel merito della controversia, ritenendo infondata la domanda di annullamento del provvedimento di diniego. L’argomento è confinato nella motivazione della sentenza e non trova poi alcun riscontro nel dispositivo della decisione.
La valutazione compiuta dal T.A.R. Lombardia non riguarda una questione incidentale della controversia, anche solo per il fatto che (ovviamente) la conoscenza dei profili di merito della controversia non assume alcun valore pregiudiziale o essenziale per potere decidere sull’ammissibilità del ricorso. Sembra logico concludere sostenendo che le valutazioni nel merito della controversia rese dal giudice nonostante la definizione della causa in rito siano prive di effetti per il ricorrente e, dunque, del tutto irrilevanti nell’ambito di eventuali successive controversie.
Ma si potrebbe affermare che l'eventuale valutazione compiuta dal giudice – essendo stata adottata in assenza di una domanda di parte validamente proposta – sia affetta da nullità, dunque “sanabile” ai sensi dell'art. 161 c.p.c. qualora la nullità non venga fatta valere in appello[8]. A prescindere dalla circostanza che la fattispecie non rientra tra le ipotesi di invalidità della sentenza tassativamente previste[9], la soluzione trascura tuttavia che, nel caso di specie, non siamo di fronte nemmeno ad una vera e propria decisione (prova ne sia che il dispositivo della sentenza riguarda unicamente la definizione della causa in rito), ma ad una mera “valutazione” del giudice in ordine alla fondatezza del ricorso.
Non trattandosi di una decisione in senso stretto (dunque non producendo effetti per le parti in ordine alla domanda proposta dal ricorrente) non può parlarsi di nullità della sentenza nella parte in cui si esprime sul merito della controversia.
Nemmeno le tesi più estensive in materia di interpretazione della sentenza consentirebbero di giungere ad un risultato differente[10]: parte della dottrina ipotizza infatti che la motivazione assuma rilievo determinante (e vincolante) ai fini della esatta individuazione dell’oggetto della decisione resa dal giudice (ossia, in altre parole, dell’interpretazione del dispositivo). Ma anche a voler ragionare in tal senso, è evidente che le valutazioni compiute nel merito della controversia e confinate nella motivazione non possono in alcun modo rilevare ai fini della “interpretazione” di una decisione di mero rito.
La conclusione trova conferma negli argomenti svolti poco sopra in relazione alla preclusione per il giudice di pronunciarsi nel merito della controversia in presenza di ragioni di inammissibilità del ricorso. L’impossibilità di pronunciarsi nel merito comporta l'assenza dei poteri di giurisdizione propri dell'autorità giudiziaria, con la conseguenza che l’eventuale valutazione della fondatezza del ricorso non assume rilevanza giuridica.
D’altro canto, se così non fosse, il ricorrente verrebbe gravemente pregiudicato nella propria tutela, in quanto la valutazione resa dal giudice in ordine alla fondatezza del ricorso non sarebbe comunque impugnabile in appello.
Infatti, il ricorrente (soccombente in primo grado), per poter contestare la parte di sentenza in cui il giudice ha valutato il merito della controversia, dovrebbe previamente impugnare la decisione laddove essa ha dichiarato inammissibile in rito il ricorso. In caso contrario, il ricorrente risulterebbe privo di interesse ad impugnare, non potendo trarre dall’accoglimento dell’impugnazione alcuna utilità: la riforma della decisione di primo grado con riguardo ai profili di merito presuppone, in altre parole, una nuova (e difforme) valutazione dell’ammissibilità del ricorso.
Il Consiglio di Stato potrebbe accogliere il motivo di appello principale, ritenendo ammissibile il ricorso presentato in primo grado, decidendo poi la controversia nel merito e assicurando dunque piena tutela all’appellante[11]. Ma potrebbe anche rigettare il motivo di appello principale, confermando l’inammissibilità in rito del ricorso: in tale caso, il capo di sentenza con cui il giudice di primo grado ha conosciuto sulla fondatezza della domanda di annullamento non sarebbe oggetto di esame da parte del giudice di appello. È evidente il pregiudizio che a ciò conseguirebbe il capo al ricorrente, il quale sarebbe vincolato dagli effetti della sentenza di primo grado anche in relazione al merito della controversia, senza nemmeno aver potuto ottenere dal giudice di appello un nuovo esame della questione controversa.
Per le ragioni esposte, è possibile concludere affermando che: il rigetto in rito del ricorso (quantomeno nei casi di inammissibilità e irricevibilità) impedisce al giudice di conoscere e pronunciarsi nel merito della controversia; l’eventuale decisione o valutazione compiuta dal giudice in violazione di tale principio non configura un’ipotesi di nullità del relativo capo di sentenza. Esso, infatti, deve ritenersi meramente privo di effetti. Pertanto, la parte soccombente non deve – e nemmeno può – impugnare il capo di sentenza nella parte in cui il giudice ha erroneamente pronunciato nel merito della domanda.
4. Riflessi delle tesi esposte sui limiti del giudicato
Se la sentenza di rigetto in rito non può in ogni caso produrre effetti rilevanti sul piano sostanziale (essendo la decisione limitata entro l’ambito processuale), nemmeno è possibile che essa acquisti autorità di cosa giudicata in ordine al merito della controversia. Come già accennato sopra, il giudicato non rappresenta – come spesso affermato in dottrina – un effetto della sentenza, ulteriore e distinto rispetto agli altri effetti che essa produce, ma una qualità (una caratteristica) della stessa[12]. La sentenza produce i propri effetti anche laddove non ancora passata in giudicato; il passaggio in giudicato comporta “soltanto” l’incontrovertibilità della decisione, ossia la definitività degli effetti propri della decisione.
Ma qualora la sentenza definisca la controversia in rito, essa risulta improduttiva di effetti nel merito e, pertanto, inidonea a acquistare autorità di cosa giudicata: ne consegue, per logica, l’inesistenza dei vincoli del giudicato in capo al ricorrente, il quale rimane libero di agire nuovamente in giudizio al fine di far valere i vizi del provvedimento amministrativo.
Si sottolinea soltanto che la riproposizione della (medesima) domanda di annullamento già rigettata in rito risulterà (con buona frequenza) impedita dal decorso del termine di impugnazione del provvedimento amministrativo. Ma sul piano teorico essa rimarrebbe comunque proponibile, senza che la precedente sentenza di rito produca vincoli in ordine alla introduzione di un giudizio avente ad oggetto la medesima domanda già proposta con ricorso dichiarato inammissibile.
Fermo quanto sopra, vale pur sottolineare che la dichiarazione di inammissibilità del ricorso non è improduttiva di effetti in ordine all’eventuale successivo giudizio: essa, infatti, ha deciso (con efficacia vincolante) sulla necessaria sussistenza di determinati presupposti (nel nostro caso: la notifica al controinteressato) al fine della ammissibilità del ricorso, decisione divenuta comunque incontrovertibile tra le parti del processo.
Peraltro, un ulteriore aspetto merita di essere evidenziato. Pur ammettendo che la sentenza T.A.R. Lombardia n. 664 del 2016 riguardi il merito e non (solo) il rito della controversia, essa si riferisce ad un provvedimento diverso rispetto a quello oggetto della pronuncia del Consiglio di Stato di cui al presente commento. È possibile affermare, pur in via generale[13], che la sentenza resa sulla validità di un provvedimento amministrativo non produce effetti (e non acquisisce dunque autorità di cosa giudicata) in relazione alla validità (o invalidità) di un provvedimento diverso e successivo. Il giudicato, infatti, si estende entro i limiti dell’oggetto della controversia, potendo dunque rilevare soltanto in riferimento alla questione della fondatezza o infondatezza del ricorso proposto avverso uno specifico provvedimento amministrativo. Sicché, nel giudizio avente ad oggetto il provvedimento successivo, il giudice è chiamato a svolgere una (nuova e diversa) valutazione dei fatti di causa e degli elementi di diritto, potendo in astratto giungere a conclusioni difformi rispetto a quelle della prima decisione. In altre parole, se le valutazioni compiute in un precedente giudizio possono agevolare la decisione della controversia successiva, esse non acquisiscono tuttavia autorità di cosa giudicata[14].
5. La sorte delle prove raccolte nel giudizio poi definito in rito
Escluso che la sentenza del T.A.R. Lombardia possa far stato tra le parti in ordine al merito della questione, resta da valutare la rilevanza delle prove raccolte in giudizio e in particolare della verificazione disposta nel processo poi definito in rito (e non in merito).
Nel caso particolare, si trattava di verificare la distanza tra l’autostrada e il confine del terreno su cui il ricorrente intendeva realizzare un impianto di distribuzione di carburanti, al fine di stabilire se esso ricadesse o meno nella cd. fascia di rispetto autostradale. La circostanza è stata appunto oggetto di verificazione del processo poi definito in rito dal T.A.R. Lombardia.
Il Consiglio di Stato utilizza le risultanze istruttorie ivi raccolte, mantenendo fermo l’assunto per cui l’impianto di distribuzione che la società istante avrebbe voluto realizzare rientrava (parzialmente) nella cd. fascia di rispetto autostradale. Ma è lecito domandarsi se le prove formate in un giudizio definito soltanto in rito possano essere utilizzate anche in un diverso processo.
Le norme in materia di processo amministrativo non regolano la fattispecie. E, in realtà, nemmeno il codice del processo civile contiene una disciplina specificamente applicabile. Si potrebbero allora richiamare le disposizioni in materia di estinzione del processo civile: a riguardo, l’art. 310, co. 3, c.p.c. prevede che le prove assunte nel giudizio dichiarato estinto sono valutate (in un eventuale diverso processo) come argomenti di prova ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c.
Il codice del processo amministrativo non regola (nemmeno in generale) le conseguenze della dichiarazione di estinzione del processo. Sicché, la disciplina prevista dall’art. 310 c.p.c. troverà applicazione anche nell’ambito del giudizio amministrativo, tramite il cd. rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. o quantomeno in via di applicazione analogica[15].
Rimane da stabilire se la disciplina prevista in materia di estinzione sia o meno estendibile anche all’ipotesi in cui il processo sia definito con una sentenza di rito in ragione dell’inammissibilità del ricorso introduttivo.
Un argomento a favore della tesi positiva potrebbe essere desunto dall’art. 85 c.p.a., norma che regola la forma della dichiarazione di estinzione e di improcedibilità del giudizio. La disposizione equipara le fattispecie in oggetto, riservando ad entrambe il medesimo procedimento. Si potrebbe dunque concludere ritenendo che tale equiparazione rilevi non soltanto a fini procedimenti, ma anche con riguardo agli effetti: in altre parole, l’improcedibilità del giudizio risulterebbe anch’essa disciplinata (quanto alle conseguenze derivanti dalla relativa dichiarazione) dall’art. 310 c.p.c.
Anche ammesso che tale soluzione sia corretta, ciò tuttavia non consente di estendere le medesime conclusioni anche all’ipotesi in cui il ricorso sia dichiarato inammissibile[16]. Risultato che invero sembra assai difficile da sostenere dal punto di vista interpretativo.
In primo luogo, l’art. 85 c.p.a. si riferisce solamente alle ipotesi di estinzione e improcedibilità del giudizio: sicché viene meno qualsiasi sostegno normativo per estendere l’applicazione dell’art. 310 c.p.c. a fattispecie diverse, come appunto l’inammissibilità del ricorso.
Soprattutto, l’ipotesi di inammissibilità si distingue dalle fattispecie previste dall’art. 85 c.p.a. per la diversità dei relativi presupposti[17]. L’estinzione e l’improcedibilità attengono infatti allo svolgimento del processo, configurando ipotesi straordinarie in cui il giudizio non giunge ad una definizione del merito della controversia per eventi o circostanze sopravvenute rispetto alla sua instaurazione. Al contrario, l’inammissibilità presuppone la sussistenza di ragioni ostative alla pronuncia nel merito, ragioni che possono essere sopravvenute rispetto all’atto introduttivo ma che di regola attengono il momento “genetico” del processo.
In tale prospettiva, l’eventuale inammissibilità del ricorso – impedendo al giudice di pronunciarsi sulla domanda – preclude anche lo svolgimento della fase istruttoria, la quale (non potendo la controversia essere decisa nel merito) si dimostrerebbe del tutto superflua[18]. Sicché il giudice non solo non dovrebbe, ma nemmeno potrebbe procedere all’istruzione della causa. Qualora si sia ugualmente provveduto in tal senso, si potrebbe perfino sostenere che le prove raccolte in giudizio non siano affatto degradate a meri argomenti di prova, ma piuttosto che esse (in quanto invalidamente raccolte) non abbiano alcuna rilevanza processuale e che pertanto non possano essere utilizzate in un eventuale successivo processo.
Non può trascurarsi che la soluzione prospettata mal si concilia con le esigenze di economicità dei mezzi processuali e di limitazione dei tempi di giudizio, particolarmente avvertite nell’odierno contesto giurisprudenziale. Tuttavia, una diversa interpretazione (che appare ardua sul piano argomentativo) presupporrebbe di equiparare l’inammissibilità del ricorso all’estinzione del giudizio, con particolare riguardo ai rispettivi effetti, equiparazione che non trova, come sopra esposto, alcun conforto normativo e richiederebbe di individuare nell’art. 310 c.p.c. una sorta di “principio generale”, applicabile in tutti i casi in cui il giudizio venga definito con una sentenza di rito (anziché di merito)[19].
[1] L’art. 41, co. 2, c.p.a. prescrive l’onere di notifica al controinteressato a pena di “decadenza”, non di inammissibilità. Ma la giurisprudenza largamente prevalente ravvisa nel caso previsto dalla disposizione una ipotesi di (appunto) inammissibilità del ricorso (v. recentemente T.A.R. Lazio 2 maggio 2023, n.7329, secondo cui “la presenza di un controinteressato all'interno del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica del ricorso, a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p.a., trattandosi di un onere minimo imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto processuale e il G.A. non può fare altro che statuire sul vizio di inammissibilità del gravame, non potendo essere sanato tale difetto di notifica mediante l'integrazione del contraddittorio, a mente dell'art. 41, comma 2, c.p.a., ovvero con la concessione dell'errore scusabile ai sensi dell'art. 37 c.p.a., non sussistendo oggettive ragioni di incertezza”). L’art. 35 c.p.a. – laddove individua le diverse ipotesi di sentenze di rito – non disciplina la fattispecie della “decadenza”. Per tale ragione, probabilmente, la giurisprudenza ha ritenuto di dover ricondurre la mancata notifica del ricorso al controinteressato entro una delle varie categorie previste all’art. 35 c.p.a., sorvolando sulla lettera dell’art. 41, co. 2, c.p.a. Sicché la decadenza non appare, ad oggi, fattispecie giuridica dotata di autonoma rilevanza processuale. Così non era in passato, si veda ad esempio (seppur in una prospettiva “casistica” più che sistematica) E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, Padova, 1954, p. 280, secondo cui la decadenza del ricorso interviene “quando il deposito del ricorso dopo la notificazione non sia effettuato nel termine prescritto, o quanto non vi sia stata accompagnata la copia del provvedimento impugnato o altro atto equipollente, o quando il ricorrente, terminato il giudizio di falso da lui instaurato, non depositi copia della relativa sentenza entro il termine prescritto presso la segreteria del collegio giudicante”.
[2] Così la sentenza: “la presenza di un controinteressato all'interno del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica allo stesso del ricorso proposto al giudice amministrativo a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art. 41, comma 2, del d.lgs. n. 104/2010 (c.p.a.), trattandosi di un onere minimo imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto processuale. Nella fattispecie all’esame del collegio la Milano Serravalle – Milano Tangenziali S.p.a. riveste certamente tale qualifica, avendo espresso il proprio parere negativo alla realizzazione dell’impianto oggetto della presente controversia nell’ambito della conferenza di servizi che ha portato all’emanazione del diniego impugnato, nella sua qualità di concessionaria dell’autostrada della cui fascia di rispetto il provvedimento impugnato ha rilevato la violazione”.
[3] Sia consentita la semplificazione esposta nel testo, la quale non vuole certo trascurare le tesi dottrinarie secondo cui non solo le sentenze di merito, ma anche le pronunce in rito potrebbero acquisire autorità di cosa giudicata. A ben vedere, l’autorità di cosa giudicata altro non è se non una qualità della sentenza, conseguente alla incontrovertibilità della questione decisa. Tale questione potrebbe essere anche di rito: ciò significa che le parti del processo non potranno più porre in discussione i profili di rito esaminati e decisi dalla sentenza passata in giudicato. Sul punto sia consentito rinviare a quanto dettagliatamente esposto in C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, 171 ss.
[4] Per una più ragionata analisi della fattispecie della inammissibilità, seppur condotta in riferimento al diritto processuale civile, sia consentito rinviare a R. Poli, Inammissibilità e improcedibilità, in Treccani Diritto on line 2016.
[5] Si può anche affermare, sotto diverso punto di vista, che la sussistenza di ragioni di inammissibilità del ricorso comporta l’illegittimo o comunque inefficace esercizio dell’azione. Non è questa la sede per approfondire il concetto (particolarmente complesso) di azione, la cui definizione viene resa nel testo secondo le indicazioni di autorevole dottrina processualista (v. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2017, I, 62 ss.; per un esame approfondito si veda, ad esempio, R. Orestano, Azione in generale, Enc. Dir., spec. p. 797 ss.).
[6] Sulla correlazione tra domanda e limiti del potere decisorio del giudice, v. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2017, I, 93 ss.
[7] Quanto esposto sembra la logica conseguenza dei principi che regolano il nostro sistema processuale, fra tutti il principio della domanda e il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Tuttavia, a quanto consta, la dottrina si è finora espressa in termini di mera “irrilevanza” delle valutazioni di merito contenute in una sentenza di rigetto in rito della domanda. Si veda, ad esempio, E. Fazzalari, Sentenza civile, Enc. Dir., 1268 ss.: “La sentenza di rito è, come rilevato, quella che incide soltanto sul processo e non anche sul merito; si può anche qualificare come 'giurisdizionale', ma solo lato sensu (infatti, non realizza misure giurisdizionali). Si tratta, ancor qui di volizione (preceduta, ovviamente, dalla ricognizione dei presupposti). Così, è rifiuto di pronunciare nel merito la sentenza che declina la giurisdizione o la competenza. Queste declinatorie possono intervenire tardi cioè dopo che il processo si è svolto completamente. Ma esse possono intervenire anche molto prima: così quando il giudice constati, già in base al metro del provvedimento richiesto, e senza necessità d'istruttoria, di esser privo di giurisdizione e/o di competenza (non altrimenti il giudice deve por termine al processo quando constati che neanche in ipotesi le parti possono essere considerate destinatarie degli effetti del provvedimento richiesto che, dunque, esse non sono munite di legittimazione ad agire). Da ribadire, poi, che quand'anche le pronunce di rito che pongono fine al processo sopravvengano tardi, e una parte delle attività processuali svolte risulti, perciò, superflua, non per questo esse sono da ritenere giuridicamente invalide: ciò è confermato dalla nostra legge processuale, che consente al giudice di non decidere subito la quaestio pregiudiziale (e così, ad esempio, quella di competenza), ma di rimandare la decisione alla fine (art. 187 comma 3 c. p. c.)”.
[8] Sull’applicazione delle disposizioni in materia di nullità della sentenza nel processo amministrativo, v. F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, Torino, 2023, 288.
[9] Si rammenta che l’art. 156, co. 1, c.p.c. prevede infatti che la nullità per inosservanza delle forme degli atti processuali non può essere pronunciata “se la nullità non è comminata dalla legge” ovvero laddove l’atto manchi dei “requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”, ipotesi che nel caso qui annotato non paiono sussistere.
[10] Salvo non portare alle estreme conseguenze i numerosi “corollari” derivanti da una interpretazione eccessivamente “elastica” della pronuncia giurisprudenziale. Sul punto si veda F. Francario, Il contrasto tra giudicati, Il Processo, 2022, p. 301: “I problemi nascono nel momento in cui la nozione di cosa giudicata abbandona il ristretto, ma certo, confine del dispositivo della sentenza, la conclusione del sillogismo in cui si esprime la logica della sentenza, per estendersi alle sue premesse, alla parte motiva della sentenza. E, nel caso del processo amministrativo, si acuiscono a dismisura per via delle eccessive fluidità ed elasticità della nozione di giudicato. Ciò è dovuto non tanto al fatto che nel processo amministrativo è pacifica l’affermazione che occorre guardare alla motivazione della sentenza per ricostruire il dictum del giudice, quanto piuttosto al fatto che essa si accompagna ad altre affermazioni quali sono quella che nel giudizio di legittimità il giudicato copra comunque solo i vizi dedotti e non quelli deducibili; che la motivazione possa essere integrata nell’ambito del giudizio di ottemperanza “al giudicato”, completando in questa stessa sede l’accertamento mancante nella sentenza; o (si accompagna) al dato esperienziale di una prassi che origina motivazioni prolisse, eccessivamente articolate e complesse, che troppo spesso rendono assolutamente labile ed evanescente il confine tra un obiter dictum e ciò che è un antecedente logico necessario della decisione e al fatto che questa prassi è per altro verso dissonante dall’esplicito riconoscimento legislativo della possibilità di pronunciare sentenza in forma semplificata, ovvero con «sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero al precedente conforme» (art. 74 c.p.a.)”.
[11] Nel caso di accoglimento del motivo di appello avverso la pronuncia di inammissibilità, il Consiglio di Stato decide la controversia senza rinviare al giudice di primo grado (v. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2018 n. 10 e 11: “La questione di diritto all’esame dell’Adunanza plenaria deve essere risolta dando continuità al consolidato orientamento interpretativo che, anche dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, afferma il carattere tassativo ed eccezionale dei casi di rimessione al giudice di primo grado, oggi descritti dall’art. 105 dello stesso Codice. Va in particolare, escluso che tra i casi di annullamento con rinvio possa rientrare l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità della domanda, oppure l’ipotesi in cui il giudice di primo grado abbia totalmente omesso di esaminare una delle domande proposte (anche per ragioni diverse dall’accoglimento di una eccezione pregiudiziale di rito)”.
[12] Si fa riferimento alla tesi di Liebman, variamente esposta in diversi scritti, secondo cui l’autorità di cosa giudicata non è un effetto della sentenza (la quale è infatti produttiva di effetti indipendentemente dal passaggio in giudicato) ma una sua qualità o caratteristica, ricollegata alla raggiunta incontrovertibilità della questione oggetto di decisione (ne consegue peraltro l’irrilevanza della distinzione tra giudicato formale e giudicato sostanziale); la tesi si trova esposta in vari scritti, in particolare E.T. Liebman, Efficacia e autorità della sentenza Milano, 1962.
[13] Il tema, in realtà, è più complesso e meriterebbe una estesa trattazione. Soltanto per accennare un possibile aspetto problematico, si pensi all’ipotesi in cui il primo giudizio abbia deciso su questioni pregiudiziali rispetto alla controversia oggetto del secondo processo (per una approfondita trattazione del tema, C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, p. 129; nonché F. Francario, Il contrasto tra giudicati, Il Processo, 2022, 299).
[14] Si potrebbe obiettare che talora (come parrebbe nel caso di specie) le ragioni poste a fondamento della “prima” decisione permangono immutate anche nell’ulteriore giudizio relativo al “secondo” provvedimento. Nella sentenza in commento, ad esempio, l’impianto di distribuzione risultava ricompreso, tanto nel primo quanto nel secondo progetto, nella cd. fascia di rispetto autostradale. Ma si tratta di una obiezione non risolutiva. Essa non consente infatti di superare quanto affermato nel testo, ossia che la valutazione resa dal giudice riguarda (necessariamente) soltanto gli elementi di fatto e di diritto relativi allo specifico provvedimento impugnato. Quantomeno, il giudice sarà chiamato a stabilire se una data circostanza – ritenuta dirimente ai fini di un precedente giudizio – sia o meno altrettanto determinante per la decisione della controversia.
[15] La giurisprudenza appare orientata nel senso di ritenere applicabile alla giurisdizione amministrativa la disciplina dell’art. 310 c.p.c. Recentemente, Cons. Stato, 30 maggio 2023, n. 9187. In maniera argomentata, v. T.A.R. Puglia, 24 ottobre 2013, n.1489: “A tenore dell’art. 310 c.p.c., l’estinzione del processo non estingue l’azione. Si può ritenere che tale norma si applichi – in ragione del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. – anche al processo amministrativo, dove l’estinzione processuale è determinata dalla perenzione, ex art. 9 comma secondo della legge n. 205/2000 (ora art. 81 c.p.a.). Infatti, l’estinzione del processo civile e la perenzione del processo amministrativo sono istituti in tutto simili, con la differenza che, mentre la perenzione considera il processo nel suo insieme e sanziona l’inattività assoluta delle parti, protrattasi per un certo periodo di tempo, l’estinzione ha riguardo ad atti specifici e alla loro specifica collocazione temporale e sanziona non solo la lunghezza e rilassatezza dei tempi, ma anche il mancato compimento di attività funzionali a una corretta decisione di merito”.
[16] Le medesime considerazioni possono trarsi anche per l’ipotesi di irricevibilità.
[17] Nel testo si propone – per ragioni di brevità – una interpretazione semplificata del fenomeno dell’estinzione del processo e dei suoi rapporti con categorie “limitrofe”, quali l’inammissibilità del ricorso e l’improcedibilità del giudizio. Per una interessante disamina delle principali tesi dottrinarie, si veda C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, p. 235 ss.
[18] Si veda il già citato E. Fazzalari, Sentenza civile, Enc. Dir., 1268: “Da ribadire, poi, che quand'anche le pronunce di rito che pongono fine al processo sopravvengano tardi, e una parte delle attività processuali svolte risulti, perciò, superflua, non per questo esse sono da ritenere giuridicamente invalide”.
[19] In buona sostanza, troverebbe applicazione la (pacifica) giurisprudenza secondo cui le prove raccolte in un giudizio diverso possono essere valutate come “argomenti di prova”. Tale indirizzo si riferisce tuttavia alle prove assunte nell’ambito di processi poi giunti ad una definizione di merito della controversia, risultando dunque quantomeno discutibile l’applicazione del medesimo principio nel caso di un processo concluso con una sentenza di rito (v. di recente Cons. Stato, 4 agosto 2023, n. 7539: “Quanto all’accertamento svolto in sede civile va rammentato che, per principio generale, il giudice può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse e anche altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, al fine di trarne non solo semplici indizi o elementi di convincimento, ma anche di attribuire loro valore di prova esclusiva, il che vale anche per una perizia svolta in sede penale o una consulenza tecnica svolta in altre sedi civili”; ma anche, seppur in via incidentale, Cass. SS.UU., 8 aprile 2008, n. 9040: “il giudizio circa l'utilità e la pertinenza di un mezzo di prova rientra nei poteri di valutazione del giudice di merito, il quale può anche utilizzare per la formazione del proprio convincimento prove raccolte in altro giudizio, sebbene estinto, tra le stesse parti”).
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