Il nuovo articolo 362bis cod.proc.pen.[1] (introdotto dall’art. 7, comma 1, L. 24 novembre 2023, n. 168) impone ai pubblici ministeri di valutare entro trenta giorni la sussistenza dei presupposti di applicazione delle misure cautelari per una vasta serie di reati commessi in danno del coniuge o della persona cui si è o si è stati legati da relazione (tra gli altri i consueti maltrattamenti, atti persecutori, lesioni, violenza sessuale… ma anche – meno prevedibilmente – minaccia aggravata e violenza privata).
Premesso che in presenza di gravi indizi ed esigenze cautelari è normale che venga avanzata richiesta di misura cautelare e che già oggi si assiste a un evidente incremento esponenziale delle misure richieste per codice rosso (conosco i dati della Procura di Bologna, ma credo che la tendenza sia evidente e nazionale), ci si deve chiedere quale sia l’obiettivo di questo ennesimo intervento del legislatore volto a sollecitare iniziative della magistratura requirente.
La risposta più scontata e immediata è che si vuole indurre a fare maggiore uso delle misure cautelari, il che potrebbe anche accadere, con il paradosso che sarebbe soprattutto l’effetto intimidatorio nei confronti dei sostituti procuratori e non tanto una effettiva evoluzione del grado di tutela delle vittime. Effetto intimidatorio per il PM, che diviene di fatto il parafulmine di qualsiasi evento successivo non previsto e non evitato (e quindi da attribuire – con il senno del poi – alla mancata adozione della misura, in qualche modo suggerita e presunta come necessaria dal legislatore).
Gli operatori del diritto già conoscono gli effetti distorsivi che la minaccia sanzionatoria ha prodotto sui sanitari, producendo la c.d. medicina difensiva; analogamente la produzione normativa in materia di codice rosso (ed il clima che questa ha alimentato) sta conducendo ad una procedura penale difensiva, volta anche (se non soprattutto) a scongiurare rischi per il magistrato prima ancora che per la presunta persona offesa.
Altro che diritto penale minimo: con buona pace della presunzione di innocenza, la logica eccezionale della misura cautelare viene mortificata e distorta al punto da mettere il titolare delle indagini nella posizione quasi di dover giustificare la sua non adozione.
L’esperienza degli ultimi anni ci dice come il maggiore ricorso a questo strumento e l’aumento delle pene non si sono dimostrati sufficienti a invertire l’allarmante tendenza del fenomeno.
È un problema che i penalisti conoscono bene: la risposta processuale e sanzionatoria è necessaria e doverosa ma non risolve problemi che hanno sempre radici più complesse (mutatis mutandis, l’eccezionale severità delle pene in materia di stupefacenti si è rivelata da decenni un’arma spuntata per contrastare questa piaga…)
Perché ci si concentra sulla minaccia di repressione? Perché non costa nulla ed è più efficace nel convincere l’opinione pubblica che si sta affrontando il problema.
Basta un tratto di penna per aumentare la pena o chiedere al PM di valutare sempre l’adozione di misure cautelari, mentre una strategia di prevenzione richiede tempo e investimenti: sostegno all’occupazione femminile, aiuto alla maternità, creazione di una forte rete di strutture qualificate per l’aiuto alle vittime e l’accompagnamento rieducativo dei maschi maltrattanti e violenti, educazione civica e sentimentale che raggiunga tutti i giovani, superamento di schemi culturali radicati…
Si tratta di una strada lunga ed in salita, alla quale si è preferita la scorciatoia di aumentare la pressione sulle Procure. Altro che diritto penale minimo: si sceglie una visione rovesciata, come se l’adozione di misure potesse essere la normalità in un sistema di diritto che deve fare della presunzione di innocenza la pietra angolare del processo.
Ancora una volta, tocca ribadire ciò che dovrebbe essere ovvio: il processo penale è una delicata procedura tecnica per attribuire responsabilità e non può essere trasformato in uno strumento di prevenzione generale, se non - appunto - rischiando una distorsione dei principi giuridici posti a tutela di diritti fondamentali.
Questa ennesima norma manifesto finisce per complicare e burocratizzare ulteriormente il lavoro delle Procure (moltiplicando gli adempimenti per i magistrati e per segreterie già in crisi cronica). Non ci si vuole certo sottrarre al deciso contrasto della violenza di genere, ma ciò deve avvenire nel rispetto dei principi costituzionali che governano il nostro diritto penale.
C’è anche un ulteriore rischio insito in questa alluvionale crescita degli obblighi connessi al codice rosso: gli uffici requirenti e i tribunali (soprattutto i piccoli e medio-piccoli) stanno finendo per essere inesorabilmente schiacciati su questa materia, con la conseguenza fisiologica che viene abbassata la guardia su altri fenomeni criminali.
Pensiamo, ad esempio, a quanto sarebbe decisivo un più efficace contrasto ai reati tributari ed economici (in crescita esponenziale anche per il grande flusso di fondi per il PNRR e non solo), così da recuperare alla collettività enormi somme di denaro (centinaia di milioni), che potrebbero investirsi anche in politiche di prevenzione della violenza di genere.
Gli obblighi previsti dall’articolo 362bis cpp (sapientemente rubricato misure urgenti di protezione della persona offesa: chi oserebbe essere contrario!?) rappresentano un approccio sbagliato: sia al fenomeno grave che si vuole prevenire e tutelare, sia rispetto alle ricadute sul lavoro delle Procure, divenute ancora una volta comodo capro espiatorio di ciò che la politica non sa comprendere.
[1] Art. 362-bis. Misure urgenti di protezione della persona offesa (1)
1. Qualora si proceda per il delitto di cui all'articolo 575, nell'ipotesi di delitto tentato, o per i delitti di cui agli articoli 558-bis, 572, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583-bis, 583-quinquies, 593-ter, da 609-bis a 609-octies, 610, 612, secondo comma, 612-bis, 612-ter e 613, terzo comma, del codice penale, consumati o tentati, commessi in danno del coniuge, anche separato o divorziato, della parte dell'unione civile o del convivente o di persona che è legata o è stata legata da relazione affettiva ovvero di prossimi congiunti, il pubblico ministero, effettuate le indagini ritenute necessarie, valuta, senza ritardo e comunque entro trenta giorni dall'iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato, la sussistenza dei presupposti di applicazione delle misure cautelari.
2. In ogni caso, qualora il pubblico ministero non ravvisi i presupposti per richiedere l'applicazione delle misure cautelari nel termine di cui al comma 1, prosegue nelle indagini preliminari.
3. Il giudice provvede in ordine alla richiesta di cui al comma 1 con ordinanza da adottare entro il termine di venti giorni dal deposito dell'istanza cautelare presso la cancelleria.
(Immagine: Benjamin West, Benjamin Franklin Drawing Electricity from the Sky, olio su tela, Philadelphia Museum of Arts, 1816)