L’evoluzione della magistratura italiana in età repubblicana: un profilo storico
Intervento di Antonella Meniconi al 36° Congresso dell'ANM, Palermo 10-12 maggio 2024
Sommario: 1. Premessa – 2. La Costituzione tra eredità del passato e lenta attuazione – 3. Il cambiamento di prospettiva (1961-1992) – 4. Una nuova fase (1994-?).
Porgo un saluto deferente al presidente della Repubblica e alle autorità presenti.
Ringrazio molto il presidente Giuseppe Santalucia e l’Associazione per avermi invitato a fornire il mio contributo in questa prestigiosa occasione.
Dopo una breve premessa, il mio intervento si concentrerà su tre momenti importanti nella storia della magistratura e del nostro Paese nel periodo repubblicano:
- L’innovazione della Costituzione e il suo rapporto con l’eredità del passato;
- Il cambiamento di prospettiva intervenuto dopo il primo ventennio (1961-1992)
- Una nuova fase che si è forse aperta nel 1994 e che ancora prosegue (1994-?)
1. Premessa
Un lungo e accidentato cammino ha portato la magistratura dagli esordi stentati nell’età liberale alla compressione della libertà del giudice durante il fascismo fino a giungere alla Costituzione repubblicana e al riconoscimento pieno dell’indipendenza ma poi alla sua lenta attuazione e alle tensioni per realizzarla degli anni Sessanta e Settanta, che contribuirono ad avviare la democratizzazione dell’ordine giudiziario e l’adeguamento della giurisprudenza ai principi costituzionali.
Un cammino complesso che – possiamo dire – ha portato alla nascita di un nuovo modello di giudice, un giudice che definirei «democratico» nel senso della attuazione piena della funzione costituzionale. Un giudice che si è dimostrato in grado di fronteggiare con coraggio e con dolorosi sacrifici il terrorismo, le mafie e la corruzione. E che ora si trova a dover far fronte alle nuove sfide poste dalla crescente domanda di giustizia (e non solo in termini quantitativi) di una società in rapida evoluzione e alla necessità di riaffermare i valori di indipendenza e autonomia costituzionali nel nuovo contesto che si profila[1].
2. La Costituzione tra eredità del passato e lenta attuazione
Nel novembre del 1950, al V Congresso nazionale dei magistrati italiani che si svolse a Napoli, Piero Calamandrei, già «padre costituente», allora anche presidente del Cnf, sottolineò come il lavoro dei magistrati impegnati in quell’assise si potesse definire come quello degli «architetti» della Costituzione.
«Voi – diceva il giurista fiorentino – cooperate col vostro consiglio a portare a compimento l’augusto edificio costituzionale che la Costituzione lasciò necessariamente incompiuto».
Mancava, infatti, a quasi tre anni dall’approvazione della Carta, «il coronamento supremo di quell’edificio che dovrebbe essere non solo il simbolo visibile, ma proprio la garanzia interna di una coesione stabile», quella più importante, ovvero – sempre secondo Calamandrei – «la indipendenza della Magistratura impersonata dal Consiglio superiore che la Costituzione ha voluto porre sotto l’alta presidenza del Capo dello Stato». Se ci si batteva – come facevano allora i magistrati riunitisi nell’Anm – perché l’indipendenza divenisse realtà, ci si batteva dunque per il consolidamento e il compimento della Repubblica[2].
La Costituzione aveva introdotto una rottura forte rispetto all’assetto precedente, connotato dalla soggezione del giudice, e ancor più del pubblico ministero, sia al potere politico, sia a quello dei superiori gerarchici, scelti a loro volta dal governo.
Una gabbia gerarchica avvolgeva allora l’esercizio dell’attività giurisdizionale; una gabbia rafforzata dall’Ordinamento Grandi del 1941, ma in parte già attiva e operante anche nel periodo liberale, quando margini di autonomia maggiore erano magari riconosciuti alla magistratura giudicante, ma non però a quella requirente sottoposta, anche per quello che atteneva alle sue funzioni, alla direzione del guardasigilli[3].
Il controllo gerarchico e politico fu solo in parte rimosso con la c.d. Legge Togliatti delle guarentigie del 1946, che aveva, tra l’altro, stabilito l’elettività del Consiglio superiore della magistratura e della Corte suprema disciplinare (due organi separati, entrambi istituiti nel primo Novecento dal ministro di Giolitti Vittorio Emanuele Orlando), ma che restavano composti solo da alti magistrati.
L’azione del ministro comunista – lo avrebbe poi rivendicato egli stesso in Assemblea costituente – si era spinta «sino al limite estremo delle garanzie dell'indipendenza e dell'autonomia, ma non [aveva fatto ancora] della Magistratura un potere autonomo dello Stato»[4].
Una pagina nuova si apriva con la Carta costituzionale: una «Giustizia con l’abito nuovo», per citare un anonimo commentatore dell’agosto 1943 (a soli pochi giorni dalla caduta del fascismo), avrebbe smesso la «clamide dittatoriale» per tornare «alla sua vecchia e fiera tradizione»[5]. Forse la tradizione, come ho detto, non era stata tutta virtuosa, ma che si dovesse superare il fascismo era un fatto dato per assodato.
Non voglio certo ricordare a voi i principi fondamentali che la nostra Costituzione ha stabilito, mi limiterò a elencarli:
la magistratura è riconosciuta come “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104, c. 1);
viene affermata l’indipendenza dei singoli giudici, stabilendo che essi sono soggetti soltanto alla legge (art. 101, c. 2);
ai magistrati (quindi anche ai p.m.) è riconosciuta la garanzia dell’inamovibilità. (art. 107, c.1) e della eguaglianza secondo il principio che “i magistrati si distinguono soltanto per diversità di funzioni” (art. 107, c. 3).
Per rendere effettiva una condizione essenziale dell’indipendenza dei magistrati viene istituito il Csm cui erano attribuiti compiti di autogoverno, in particolare in materia di assunzioni, assegnazioni di sede e di funzioni, promozioni, trasferimenti, e provvedimenti disciplinari (art. 105) nei confronti di tutti i magistrati.
Al dicastero della Giustizia erano tassativamente riservate solo attribuzioni riguardanti l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110). Il ruolo di controllo della legalità sull’operato degli altri apparati dello Stato e del potere politico era garantito dall’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112), che imponeva al p.m. il potere-dovere di procedere nei confronti di qualsiasi reato, da chiunque commesso, in attuazione del principio di eguaglianza.
Di fatto nel testo costituzionale si prevedeva il superamento dei precedenti modelli (quello dell’integrazione/dipendenza e quello della separazione/dipendenza).
L’Assemblea costituente abbandonava totalmente l’idea del giudice-funzionario, disegnando uno «statuto», e un modello di magistrato, che rafforzava e garantiva la sua indipendenza, valorizzandone il ruolo professionale.
Questo sistema fu rafforzato dall’applicazione rigorosa del principio del «giudice naturale», che, stabilita l’attuazione della disciplina relativa al sistema della precostituzione del giudice impedì la possibilità per chiunque di operare in modo tale da scegliersi il magistrato da cui farsi giudicare.
Nei decenni successivi, tuttavia, questi valori costituzionali stentarono ad affermarsi: tardò l'istituzione della Corte costituzionale e del Csm, avvenute rispettivamente nel 1956 e nel 1958; intanto due disposizioni transitorie frenarono ulteriormente l’attuazione costituzionale: si prevedeva, infatti, che, fino a quando non fosse stato emanato il nuovo ordinamento giudiziario, si continuassero ad applicare le norme del 1941 (modificate, ma solo in parte, come si è accennato nel 1946). Inoltre, il controllo di costituzionalità sarebbe stato esercitato secondo le norme allora vigenti fino all’entrata in funzione della nuova Corte costituzionale, e ciò comportava che quel compito fosse affidato alla Cassazione. Il che avrebbe dopo il 1956 generato non pochi conflitti tra le due istituzioni, superati poi con la prevalenza finale del nuovo organo.
Le ragioni di questo che è stato definito anche (da Calamandrei) «congelamento costituzionale», sono molteplici.
Caduto il regime, molta parte della struttura amministrativa e giudiziaria precedente restò in piedi, per lo meno lungo tutto il primo decennio repubblicano. Si è parlato di «continuità» tra il regime fascista e la nuova Repubblica: fu una continuità anche e forse soprattutto di uomini, di élites dirigenti formatesi durante l’esperienza del regime. Non vi fu, peraltro, un’epurazione dei vertici della magistratura più compromessi con il fascismo, come del resto ciò non avvenne in tutta l’amministrazione dello Stato: tentata timidamente nel 1944-45, l’epurazione fu definitivamente accantonata dopo la proclamazione della Repubblica e l’amnistia del 22 giugno 1946[6].
Per questi e per altri motivi (legati al mutato contesto internazionale e alla rottura dell’unità antifascista), i cambiamenti profondi sanciti dalla Costituzione faticarono a penetrare nelle stanze chiuse del Ministero della giustizia, e ancor più nei palazzi marmorei dei tribunali. Una eredità difficile da gestire condizionò la nascita e lo sviluppo del nuovo Stato democratico, anche in termini di «stili» giudiziari e modalità di esercizio del potere giurisdizionale, nonché in ragione di un fattore generazionale da non sottovalutarsi. Non era un caso che il modello «sacerdotale» del magistrato, «decoroso funzionario», tecnocrate e burocrate, rimanesse, nella pubblicistica solo di poco precedente alla Costituzione (il volumetto assai diffuso Il sacerdote di Temi del magistrato Guido Raffaelli edito nel 1945), l’archetipo asettico anche se ormai già un po’ démodé del buon giudice italiano[7].
L’entrata in funzione del Csm (nel 1959, dopo l’emanazione della legge dell’anno precedente)[8] fu il primo elemento ad aprire la crisi del sistema; insieme alla rifondazione nel 1945 dell’Anm e al crescere del dibattito sull’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Un dibattito che non solo si sviluppò in seno all’Associazione ma anche in altre sedi «miste» di giuristi di diversa provenienza (come il Centro d’Azione per la Riforma Giudiziaria, fondato nel 1949, poi dal 1962 riorganizzato nei Comitati di azione per la giustizia)[9].
Era però – quello del 1959 – ancora un Csm a rigida composizione gerarchica, nel quale mantenevano salde posizioni di preminenza i giudici della Cassazione. Essi rappresentavano salvo eccezioni, per ragioni anagrafiche oltre che ideologiche, la quintessenza del conservatorismo giudiziario. Di fatto il nuovo Csm risentiva del clima polemico, e anche frettoloso, nel quale era nato, e la stessa legge istitutiva, che ne aveva limitato la portata su alcuni punti decisivi, sarebbe stata sottoposta a dure critiche dalla dottrina e dalla magistratura, fino al punto da essere ritenuta per alcuni versi incostituzionale.
La prima consiliatura del Csm, che ancora all’epoca si riuniva nella Sala degli Arazzi al Quirinale, dove spesso il presidente Gronchi, che ne aveva fortemente voluto l’istituzione, partecipava quasi al termine della sua giornata di lavoro, fu connotata in definitiva dal tentativo di configurare un organo meramente amministrativo (quasi di «consulenza del ministro»)[10], piuttosto che come il vertice di un potere autonomo di «rilevanza costituzionale» quale stabilito dalla Carta del 1948[11].
L’inaugurazione della nuova sede nel restaurato Palazzo dei Marescialli (ora intitolato a Vittorio Bachelet) avvenne il 15 febbraio 1962. Iniziava così anche una fase strutturalmente diversa della vita del Csm.
3. Il cambiamento di prospettiva (1961-1992)
Il 1961 fu un anno importante. Si tenne infatti un primo importante convegno scientifico, con la partecipazione di magistrati, politici, studiosi anche stranieri, organizzato da Giuseppe Maranini (poi criticato nell’assise di Gardone di quattro anni successiva), dal titolo «Magistrati o funzionari?», che era poi l’interrogativo retorico, che si poneva chi voleva un cambiamento di prospettiva dopo la deludente prova della legge di attuazione del Csm. Il futuro della magistratura italiana appariva allora come sospeso tra due idee contrapposte: un corpo giudiziario composto da «giuristi che traevano la loro qualificazione da un elevato grado di professionalità» e dal rispetto dei dettami della Costituzione; oppure un segmento sociale di specialisti caratterizzato da una progressione in carriera tipica dei funzionari pubblici, com’era stata in definitiva fino ad allora lungo l’intera esperienza dello Stato liberale e in quello fascista?[12]. In termini attuali si potrebbe tradurre così: esponenti di un ramo della burocrazia statale sia pure prestigioso e autorevole oppure membri di una istituzione posta a cerniera tra la Repubblica e la società civile?
E in effetti il rischio di una burocratizzazione del «mestiere di giudice» – è stato avvertito recentemente da magistrate autorevoli come Gabriella Luccioli – è un pericolo presente anche nella realtà odierna.
I Sessanta furono, d’altronde, gli anni del cosiddetto «disgelo costituzionale», cioè la fase storica in cui emerse con più nettezza – sino ad apparire insopportabile – la contraddizione profonda tra i principi costituzionali e l’ordinamento giuridico ereditato dal fascismo. Il tumultuoso sviluppo di una società attraversata da un’accelerata modernizzazione (erano gli anni del boom economico) e i nuovi equilibri politici rappresentati dai governi di centro-sinistra avrebbero presto inciso anche sul tradizionale assetto del potere giudiziario. Così come avrebbero inciso le difficoltà di adeguare la struttura giudiziaria così com’era organizzata allora alla domanda crescente di giustizia posta dalla modernizzazione (si pensi allo sviluppo di intere aree del diritto come quello del lavoro, alle novità presentatesi nel diritto commerciale e bancario, ai mutamenti radicali che si profilavano in ambito penale).
Si formava contemporaneamente nelle università, sulle riviste specialistiche, negli studi legali, negli stessi tribunali una generazione nuova di intellettuali accomunati dall’esigenza di ripensare metodi e categorie delle scienze giuridiche. Anche la contestazione del potere assoluto delle alte gerarchie giudiziarie si svolgeva con un forte connotato generazionale: nel 1968 tutti i magistrati di Cassazione (e il 70 per cento di quelli d’appello) risultavano in servizio da prima del 1944, mentre ben il 99 per cento dei componenti dei tribunali erano entrati dopo quello spartiacque. A dieci anni dalla istituzione del Csm l’«alta magistratura», da cui erano tratti i capi degli uffici giudiziari, proveniva per tre quarti dal periodo fascista nel quale si era formata e aveva compiuto parte della carriera, mentre i gradi «inferiori», i giovani, erano stati reclutati pressoché interamente dopo la caduta della dittatura[13]. Una leva di «pretori-ragazzi» dirigeva molte delle preture: ne erano entrati 3.154 tra il 1946 e il 1957 su circa 5.000 posti in organico.
Avanzava in quegli anni un’impostazione basata innanzitutto sulla critica del formalismo giudiziario, cioè alla teoria del giudice «bocca della legge» posta a fondamento del controllo gerarchico, a cui adesso si contrapponevano due obiettivi ormai imprescindibili: la rilevanza dell’ideologia costituzionale (i valori del giudice, il sistema di linee guida rappresentato dalla Costituzione) e l’indipendenza (la separazione del magistrato dalla sua origine di classe, la sua terzietà rispetto al conflitto sociale). Del resto, se si pongono a confronto lo stile delle sentenze della Suprema Corte e quello delle pronunce dei pretori (più tardi definiti «d’assalto» dalla stampa conservatrice) non si può non rilevare – pur ovviamente nella differente funzione delle due giurisdizioni – il diverso «stile», la sensibile attenzione posta dai secondi alle materie del diritto del lavoro, della libertà sindacale e di sciopero, ai diritti civili, alla libertà di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, di stampa, di espressione artistica e cinematografica. Spesso – come emerge dai documenti d’archivio – il confronto tra queste due concezioni sarebbe giunto a un punto critico, provocando il deferimento davanti alla sezione disciplinare del Csm di giovani magistrati ritenuti colpevoli di partecipare troppo attivamente alla vita politica e sociale del tempo: e il Csm avrebbe dovuto allora esercitare tutta la sua capacità e il suo ruolo di mediazione per tenere insieme le due anime del corpo giudiziario. Insomma, una lotta forse non solo sorda si combatteva in quegli anni tra innovatori e conservatori.
Cionondimeno si apriva una stagione «straordinaria» – secondo le parole di Adolfo Beria di Argentine, che vi prese parte – con protagonisti di diverso orientamento politico e culturale uniti nell’avvertire i «sussulti del rinnovamento che attraversava il Paese», un movimento repentino e travolgente cui occorreva che la giurisdizione desse risposta.
Dal punto di vista «interno», ma con una valenza anche esterna, si succedevano cambiamenti rilevanti.
In primo luogo, la sentenza della Corte costituzionale, che, nel 1963, aveva dichiarato incostituzionali alcune parti della legge del 1958 relative agli eccessivi poteri del guardasigilli, aveva rafforzato l’indipendenza del Csm rispetto al potere esecutivo. Poi nel 1965 e nel 1966, in due discorsi tenuti davanti al Csm, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, aveva chiesto un profondo rinnovamento della giustizia, auspicando un ruolo più propositivo del Consiglio (anche attraverso la promozione e l’impulso di opportune indagini statistiche) per arrivare a un più efficiente utilizzo dei magistrati, anche con la eventuale revisione delle piante organiche degli uffici giudiziari.
Ma c’era poi un altro fatto, in prospettiva ancora più significativo, che si verificava proprio in quegli anni. Per la prima volta, nel 1963, dopo molte resistenze e un lungo percorso iniziato almeno dal 1919, le donne furono ammesse al concorso in magistratura. Le prime otto vincitrici entrarono in servizio il 5 aprile 1965. Alla fine del 1967 – dopo altre tornate di concorso – si contavano ormai 73 uditrici giudiziarie. Fu l’inizio di una «lunga marcia» dentro le istituzioni: dal 2015 in poi la presenza femminile in magistratura ha superato definitivamente quella maschile.
Anni di cambiamenti, dicevo.
Non è un quindi un caso che nel 1965 – dopo la scissione dell’Umi avvenuta nel 1961 e la costituzione delle correnti (Magistratura indipendente, Terzo Potere e Magistratura democratica) all’interno dell’Anm (che nacquero per esprimere il pluralismo all’interno dell’Associazione) – il congresso di Gardone rappresentasse non solo un momento determinante per l’affermazione di un nuovo modello di giurisdizione, ma fondativo di una nuova idea di giurisdizione in un’Italia che mutava vertiginosamente.
Un evento che portava al centro della società italiana la magistratura («sono presenti oltre un migliaio di congressisti, magistrati, parlamentari, professori, avvocati, giornalisti» ci dicono le cronache congressuali). A Gardone venne approvata all’unanimità, dopo accese e tumultuose discussioni, una mozione che introduceva l’impegno del giudice «alla consapevolezza della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili limiti della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione»[14]. Si apriva adesso una stagione profondamente diversa, segnata dal progetto del giudice interprete e custode dei valori costituzionali.
Un altro mutamento importante riguardò le carriere dei magistrati e contribuì a scardinare il sistema gerarchico:
le nuove regole sull’avanzamento in carriera approvate tra il 1966 e il 1973 (le cd Leggi Breganze e Breganzone) abolirono la progressione di carriera per concorso, stabilendo quella per anzianità con una valutazione del Csm, prima per i magistrati di appello e poi anche per quelli di Cassazione. Il che dava una risposta concreta alle esigenze avanzate dai magistrati anche in termini stipendiali.
Si trattava anche qui di un mutamento quasi «epocale», in quanto il potere sugli avanzamenti di carriera (e relativi stipendi) era stato da sempre una prerogativa gelosamente conservata e puntigliosamente esercitata dalla magistratura dei gradi alti, e si era tradotta in un potere enorme di condizionamento sulla stessa attività giurisdizionale, in quanto il concorso per titoli si basava propriamente sulla valutazione successiva dei provvedimenti giudiziari. Il potere di conformazione così esercitato dalla gerarchia aveva a lungo avuto la meglio sugli indirizzi giurisprudenziali più innovativi (per esempio nel campo del diritto del lavoro o dell’ambiente) o semplicemente sulle indagini scomode nei confronti degli esponenti del potere economico e politico.
Scindendosi ora gli avanzamenti economici dalle funzioni effettivamente svolte, si compiva un passo importante nella direzione dell’indipendenza interna del corpo giudiziario, ma si apriva la strada anche a una sorta di automatismo della carriera, conferendo un ruolo delicatissimo al Csm nella valutazione dei curriculum degli interessati ai fini del conferimento degli incarichi direttivi. Ruolo – va subito detto – che in anni più recenti sarebbe stato però condizionato dal peso delle correnti e dall’influenza della componente laica nelle loro diverse combinazioni[15].
Inoltre, è stato rilevato anche da autorevoli magistrati come la conquistata indipendenza interna ed esterna abbia sconfinato talvolta in una sensazione di irresponsabilità con conseguenze negative anche in termini di «laboriosità», «diligenza», e «contenuto dei provvedimenti»[16].
Gli anni Settanta sono spesso definiti «anni di piombo», ma furono anche, e direi, soprattutto un «decennio operoso» secondo la felice definizione che ne diede nel 1981 Massimo Severo Giannini valutando l’accumularsi in quel decennio di alcune importanti riforme[17]. In effetti, solo a titolo di esempio, si pensi all’approvazione della legge sul divorzio, alla nuova legislazione sul diritto di famiglia, allo Statuto dei lavoratori, alle leggi sul referendum, all’attuazione dell’ordinamento regionale. Tappe importanti per ognuna delle quali il ruolo della magistratura si sarebbe rivelato decisivo.
In questi anni il giudice si trasformava: da mero interprete a soggetto attivo del nuovo diritto (fino a teorizzarne anche un «uso alternativo»), e ciò grazie alla Costituzione e al controllo di costituzionalità «diffuso», cioè affidato al singolo magistrato su ogni singola legge, in un rapporto fondamentale con la Corte costituzionale. L’ampio accoglimento delle eccezioni di costituzionalità sollevate dai giudici di merito contribuì a completare l’opera di riforma, contribuendo a quella che Roberto Romboli ha definito «una defascistizzazione in mano ai giudici».
Non fu però una rivoluzione pacifica. Anche per l’influenza che vi esercitavano fattori esterni (il conflitto sociale e politico via via più aspro), continuava a svolgersi lo scontro mai definitivamente tra due concezioni del giudice: una costruita attorno all’applicazione formale del diritto e alla corrispondente nozione di riserbo attorno alla propria vita professionale (e personale) l’altra incline a un diritto che chiamerei sostanziale, aperto al riferimento costante alla Costituzione; ma anche foriero, nel lungo periodo, di una esposizione pubblica (ben presto anche mediatica) del giudice. Dal 1988 una trasmissione Rai avrebbe avuto un successo quasi travolgente: si intitolava «Un giorno in Pretura» e portava (sarei per dire metteva in scena) i momenti topici di processi talvolta intentati contro gente comune, più tardi contro esponenti del ceto politico soprattutto imputati di corruzione.
Ciò sembrava ad alcuni una apertura democratica (la giustizia diventava finalmente – si diceva – l’agognata casa di vetro alla portata del cittadino); ma ad altri appariva, e forse in fondo era, un metodo malsano di rappresentare la complessa attività del giudice nel processo, stralciandone e spettacolarizzandone gli aspetti più appetibili in chiave di audience per darli in pasto al grande pubblico.
È indubbio, tuttavia, che in quegli anni, dai Settanta in poi (in campo civile, dei diritti, e in campo penale nella lotta al terrorismo) emerse a tutto tondo l’importanza centrale che i magistrati storicamente ricoprono nella società italiana, divenuta assai più evidente negli anni di fine secolo. Si vide, ad esempio, come assumessero un peso le parole delle sentenze, forse anche al di là delle decisioni nel merito: mi ha molto colpito la sentenza del 2005 della Corte di cassazione sulla strage di piazza Fontana del 1969, che non potendo condannare gli imputati li ha dichiarati responsabili di fronte al tribunale della storia[18], un’espressione che forse qualche decennio prima non avrebbe figurato in un atto giudiziario; ma si potrebbero fare molti esempi.
Al tempo stesso, la proiezione pubblica della sfera giudiziaria cominciò a porre un problema, che si sarebbe evidenziato con più forza dall’inizio degli anni Novanta, ovvero quello della responsabilità e della legittimazione politica dei magistrati nel momento in cui godevano di una piena autonomia e indipendenza.
È, peraltro, questo un problema molto attuale, che si lega al tema stesso di questo Congresso, ovvero quello dell’imparzialità nell’esercizio della giurisdizione (ma non solo: anche in ciò che può apparire non imparziale), e dello spazio che può avere l’interpretazione giurisprudenziale nell’ambito dei valori costituzionali e in quelli, successivi, dei principi fondamentali dell’Unione europea, soprattutto quando maggiore è l’ambito di scelta dell’interprete in campi controversi, ovvero quando i valori si contrappongono, ciascuno rivendicando un riconoscimento di tipo costituzionale. Il limite che i magistrati si dovrebbero dare – ha sostenuto Vladimiro Zagrebelsky – sta probabilmente in un self restraint, non certo nell’applicazione nei confronti di tutti della legge penale, come giusto che sia, ma nella riduzione il più possibile della discrezionalità che la legge conferisce loro[19]. Mi sembra una ragionevole riflessione.
Tornando agli anni Settanta, senza ombra di dubbio nella lotta al terrorismo i magistrati pagarono il prezzo più alto di tutti in termini di vite umane. I giudici caduti sia per mano del terrorismo di destra che di quello di sinistra, alla fine di quella sanguinosa stagione, sarebbero stati undici, meticolosamente selezionati nell’élite della magistratura italiana, la più impegnata nel fronteggiare in prima fila l’insorgenza sovversiva. Basterà fare i nomi di Emilio Alessandrini, Guido Galli e Girolamo Tartaglione (tutti, tra l’altro, collaboratori del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale di Milano) per ricordare quale ferita i terroristi abbiano inflitto allo Stato e alla società civile che si riconosceva nelle istituzioni democratiche e a esse rimaneva tenacemente fedele.
Dal punto di vista della tipologia del lavoro giudiziario – come è stato sottolineato acutamente da Edmondo Bruti Liberati – quest’ultimo sarebbe cambiato in misura notevole, almeno per quanto riguarda le procure e gli uffici di istruzione, aprendosi al lavoro d’équipe e superando il tradizionale modulo organizzativo del giudice dedito isolatamente al proprio fascicolo. Una metodologia, questa, sperimentata con successo durante il terrorismo e poi implementata e istituzionalizzata nella lotta contro le mafie e la corruzione.
Furono questi due che ho appena citati, infatti, gli altri fronti che si aprirono a partire dagli anni Ottanta e Novanta, in cui caddero quattordici magistrati di grande valore. Tra i quali non posso non ricordare, qui, a Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che riuscirono a istruire il maxiprocesso, il quale proprio nel gennaio del 1992 aveva portato a una decisa sconfitta di Cosa nostra (poi confermata in Cassazione). Il primo avrebbe anche promosso, pur tra contrasti anche all’interno della stessa magistratura e revisioni del progetto originario, l’istituzione della Direzione nazionale antimafia e delle Direzioni distrettuali antimafia (1991-1992).
Si trattava a questo punto di una magistratura dotata di una indipendenza «interna», sia «esterna». Una magistratura di altissima qualificazione professionale e dotata di uno spirito di missione, che si trovò a combattere in primo piano le emergenze criminali. Con successo, indubbiamente. Ma anche in una posizione che è stata definita di «supplenza» nei confronti della classe politica. Una classe politica, che, nella sua parte predominante almeno, fu ambigua, in qualche misura connivente se non complice, comunque spesso latitante nei confronti della lotta alle mafie, mentre per quanto riguarda la corruzione divenne a partire dagli anni ’80 una sorta di antagonista della magistratura.
La rottura tra classe politica e magistratura, che non si era verificata nel caso del terrorismo, è stato uno dei fatti istituzionali più gravi e drammatici degli ultimi decenni del secolo scorso e del primo, almeno, del nuovo. L’effetto più vistoso è che la magistratura ha assunto potere ma al tempo stesso è stata lasciata sola, isolata ed esposta più di quanto non implicassero i doveri da essa espletati.
Negli stessi anni – intanto – emergeva una crisi non inedita (era stata oggetto anzi di indagini e studi, nonché di denunce, sin dagli anni Settanta almeno) della giustizia in quanto sistema. Le statistiche giudiziarie facevano emergere la realtà sconfortante dei ricorsi pendenti in ambito civile (con un numero esorbitante di controversie di lavoro e previdenziali), e anche in ambito penale (i tempi esorbitanti dei processi, dei rinvii, delle sentenze definitive). Mentre si manifestava una domanda di giustizia, anche nuova, che non riceveva un’adeguata risposta[20]. La macchina della giustizia, se si vuole usare questa espressione, si era ingolfata.
È questo un dato importante, su cui non mi posso soffermare, quello della crescita della giustizia inevasa, della mancata risposta al bisogno di giustizia da parte del cittadino. Causata da molti fattori che anch’essi non possono essere analizzati come meriterebbero in questa mia relazione, tra i quali certamente si deve almeno citare l’incontrollato proliferare e la via via peggiore qualità della legislazione ma anche la giurisdizionalizzazione di molti settori, l’affermarsi dei nuovi diritti riconosciuti dalla giurisprudenza.
Quanto all’organo di autogoverno, il Csm, già a partire dalla III consiliatura (1968-1972) con la presenza di grandi figure della magistratura, come Salvatore Giallombardo, Adolfo Beria d’Argentine, Francesco Saja (e gli altri che non nomino) il Consiglio perse il suo carattere di organo «burocratico» di secondo piano dal punto di vista istituzionale, che aveva connotato le prime due consiliature (ancora senza un proprio apparato o una sede, ad es.), per acquisirne sempre di più uno di primo piano, promuovendo man mano lo status dei diritti e dei doveri dei magistrati più consono al dettato costituzionale (ad es. la formazione delle tabelle annuali per la composizione degli uffici giudiziari per attuare il principio del giudice naturale) ed elaborando importanti relazioni al Parlamento (la prima del 1970, su Realtà sociale ed amministrazione della giustizia), nonché sviluppando il suo potere «paranormativo» attraverso lo strumento delle circolari contenenti le norme dirette ai capi degli uffici.
Nel 1975, la riforma in senso proporzionale[21] accentuò in misura notevole il carattere rappresentativo dell’organo e il pluralismo giudiziario al suo interno, segnando una tappa centrale per l’affermazione del ruolo costituzionale del CSM, un ruolo che si era sviluppato a partire dal 1958, rafforzati con l’abolizione della carriera e che si affermava adesso, appunto, con l’introduzione del sistema proporzionale.
Nonostante le divisioni, in special modo sulla legislazione d’emergenza, tra il 1978 e il 1980, un segnale di unità fu dato dall’Anm, che ridivenne l’espressione di tutto il corpo giudiziario, con il rientro di Md nella giunta unitaria e dell’Umi tra i suoi ranghi e con l’elezione di Adolfo Beria di Argentine alla presidenza dell’Associazione.
Il Csm divenne purtroppo centrale tra gli organi dello Stato anche per gli avversari della democrazia, perché, il 12 febbraio 1980, le Brigate rosse ne uccisero il vicepresidente, Vittorio Bachelet. E fu poi al centro anche della vicenda della P2, non solo perché a scoprirne gli elenchi a Castiglion Fibocchi furono due magistrati (Gherardo Colombo e Giuliano Turone nel 1981), ma perché la magistratura fu l’unico corpo dello Stato a intervenire con fermezza, proprio attraverso l’azione della sezione disciplinare dell’organo, contro i giudici appartenenti alla loggia e il nuovo vicepresidente Zilletti costretto alle dimissioni dal presidente Pertini.
Non mi è possibile seguire partitamente, senza scadere nella cronistoria o in una visione semplificante di un «conflitto» tra politica e magistratura purtroppo molto frequente e complesso da interpretare, gli eventi che si succedettero così velocemente a cavallo e dopo la crisi della c.d. Prima Repubblica. Semplificando, si può dire che ancora una volta la magistratura si trovò in prima fila, sia nelle indagini condotte sulla corruzione, a volte partite negli anni Ottanta, ma spesso conclusesi al tempo senza un nulla di fatto per una serie di avocazioni e dinieghi delle autorizzazioni a procedere (prima dell’abolizione della Commissione inquirente avvenuta per referendum nel 1987 e dell’autorizzazione a procedere nel 1993), sia per gli attacchi ricevuti dal Partito socialista e dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga in conseguenza dell’avvio di quella che è stata chiamata Mani pulite.
4. Una nuova fase (1994-?)
Con Mani pulite e la lotta alla criminalità mafiosa iniziava davvero una nuova fase. Da un lato, il lavoro giudiziario uscì dall’alveo di un discorso per addetti ai lavori e divenne fattore di rinnovamento complessivo della società e della politica, con una legittimazione anche politica dell’operato della magistratura e un senso comune, quasi morale, dei magistrati di contribuire in prima persona al rispristino della legalità e della giustizia nel nostro Paese; dall’altro, di conseguenza, mutò la rappresentazione e l’autorappresentazione del magistrato visto sempre più dall’opinione pubblica, anche grazie alla spinta dei mass media, nella sua veste di pubblico ministero (rafforzato anche dal nuovo codice di procedura penale del 1989), e meno di giudice terzo, imparziale. E questa torsione potrebbe aver determinato, negli anni successivi, delle conseguenze anche sull’esercizio della giurisdizione, un esercizio delicato che deve tener conto di tutti i settori (anche di quello civile, spesso trascurato) e di tutti i diritti, soprattutto di chi non ha altri strumenti se non quelli della giustizia. Per questo motivo ritengo che l’unità della cultura della giurisdizione tra pubblici ministeri e giudici sia un valore da conservare proprio a tutela dei cittadini.
D’altro canto, la politica non seppe o non volle individuare un nuovo sistema di pesi e contrappesi, in grado di evitare che i controlli sull’agire pubblico e amministrativo venissero demandati solo alla sfera penale e che vi fosse questo sovraccarico di aspettative nei confronti dell’azione giudiziaria: sarebbero state necessarie riforme volte a estirpare per il futuro le cause della corruzione e dei fenomeni criminali.
I dieci anni successivi furono segnati da instabilità parlamentari, connotati da un bipolarismo e da un’alternanza incompiuti nella loro rissosità, scanditi dallo sfarinamento della coalizione di centro-destra nel 1995, poi dall’affermazione del centro-sinistra nelle elezioni politiche del 1996, e infine dal ritorno al potere di Berlusconi nel 2001. Oltre un decennio di vita pubblica fu contaminato da polemiche e attacchi violenti, e contraddistinto da numerosi provvedimenti in materia di giustizia assunti a tutela manifesta, e dichiarata, di interessi particolari.
Il tutto sfociò, nel 2005 (all’epilogo del secondo esecutivo Berlusconi), nell’approvazione di una riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario ad opera del titolare del dicastero, Roberto Castelli (ministro della Lega Nord). Nonostante il parere negativo del Csm, il rinvio alle Camere per vizi di incostituzionalità da parte del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e malgrado le pressanti critiche delle opposizioni, la legge Castelli fu varata con poche modifiche rispetto al testo originario e costituì una reale controriforma rispetto agli indirizzi affermatisi faticosamente negli anni precedenti.
Una riforma che era in realtà una controriforma, guardandola in una prospettiva storica, al di là della contingenza, per individuarne le continuità e le discontinuità: un tentativo di rimettere indietro le lancette dell’orologio della storia e tornare all’ordinamento precedente.
Al di là degli aspetti specifici, pur importanti, relativi alla separazione di fatto delle funzioni di giudice e pubblico ministero e all’introduzione dei test psico-altitudinali (tra l’altro), le novità sostanziali erano costituite dalla forte limitazione dei poteri riservati al Csm (ad esempio nella materia concorsuale) e, più in generale, dal deciso ritorno al passato, con la valorizzazione dell’aspetto gerarchico (con il ruolo accresciuto della Cassazione) e dell’iniziativa del guardasigilli in molti ambiti (come per le nomine dei capi degli uffici)
La riforma ebbe vita breve, non si radicò nell’ordinamento. Fu dapprima sospesa dal nuovo governo di centrosinistra nel 2006 e poi corretta, sia pure con certe ambiguità, con la rimozione di alcune parti, come l’abolizione del test, rimanendo alcuni limiti al passaggio tra le funzioni giudicante e requirente, e la valutazione quadriennale della professionalità del magistrato da parte del Csm.
Sono questi aspetti che penso conosciate bene.
Il dato significativo, che mi sento di segnalare, fu che, ancora una volta, in un quadro politico molto instabile, non si riuscì a dare risposte di più lungo respiro che riformassero la giustizia nel rispetto sia del principio dell’indipendenza, sia di quello, non più prescindibile, dell’efficienza del servizio giudiziario (anche in relazione alla prospettiva europea). Criticità che hanno assunto sempre di più dimensioni enormi (non mi posso soffermare sui dati), ma che pongono un problema ineludibile – come ben sapete – anche alla stessa magistratura.
In fondo, questo si è ripetuto anche nel periodo più recente. La crisi della giustizia e del ruolo della magistratura, così evidente anche per quello che riguarda la situazione delle correnti (su cui occorrerebbe aprire una riflessione e un’autocritica maggiore)[22], si può rinvenire, salvo virtuose eccezioni, sempre in questa assenza di progettualità complessiva condivisa (si pensi al ritardo nella riforma del codice penale del 1930 oggetto di non so quante commissioni di studio). Si succedono, invece, riforme parziali, che vengono subito smantellate e ridiscusse dai governi successivi, spesso per motivi politici, senza dare loro il tempo di essere attuate e di vederne i risultati; riforme che, in una continua instabilità, riguardano anche le regole processuali, mettendo in crisi, ancora una volta, il rapporto tra il cittadino e lo Stato. Riforme, inoltre, che mettono in discussione quei valori di autonomia e indipendenza della magistratura che la Costituzione ha consegnato e che sono stati attuati faticosamente nel corso di quasi 80 anni.
Nel 1950 Calamandrei, nel discorso al Congresso dell’Anm che ho citato all’inizio, riprendeva, a proposito dell’autonomia piena della magistratura da lui auspicata, una famosa frase del Contratto sociale di Rousseau «Malo periculosam libertatem quam quietum servitium»: «Preferisco una libertà insicura a una servitù tranquilla». «Perché solo la libertà – continuava – può dare agli uomini ed anche ai magistrati il pieno senso della loro responsabilità»[23].
[1] Per motivi di spazio si rinvia per la bibliografia e gli approfondimenti ad Antonella Meniconi, Storia della magistratura italiana, Bologna, Il Mulino, 2013 e Edmondo Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 2018.
[2] Piero Calamandrei, Per l’indipendenza della magistratura, ora in Id., Opere giuridiche, Napoli, Morano, 1976, vol. II, pp. 424-428, p. 425.
[3] Art. 69 del R.d. n. 12 del 30 gennaio 1941.
[4] D.lgt. n. 511 del 31 maggio 1946.
[5] C.M., La Giustizia con l’abito nuovo, in «La Tribuna», 11 agosto 1943.
[6] Mi permetto di rinviare a L’epurazione mancata. La magistratura tra fascismo e Repubblica, a cura di Antonella Meniconi e Guido Neppi Modona, Bologna, Il Mulino, 2022.
[7] Michele Luminati, Priester der Themis. Richterliches Selbstverstandnis in Italien nach 1945, Frankfurt am Main, V. Klostermann, 2007.
[8] Legge n. 195 del 24 marzo 1958.
[9] Giovanni Mammone, 1945-1969. Magistrati, Associazione e correnti nelle pagine de La Magistratura, in Cento anni di Associazione magistrati, Milanofiori, Assago, IPSOA, 2009, pp. 27-53.
[10] In tal senso si veda la decisione n. 248 del 14 marzo 1962 del Consiglio di Stato.
[11] Daniela Piana, Antoine Vauchez, Il Consiglio superiore della magistratura, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 64 ss.
[12] Magistrati o funzionari? Atti del Symposium Ordinamento giudiziario e indipendenza della magistratura, a cura di Giuseppe Maranini, Milano, Edizioni di Comunità, 1962.
[13] Si trattava di 524 magistrati di Cassazione e 1.317 di appello su 1.881; per i tribunali il numero era di 2.692. Cfr. Guido Neppi Modona, La Magistratura dalla Liberazione agli anni Cinquanta. Il difficile cammino verso l’indipendenza, in Storia dell’Italia repubblicana, a cura di Francesco Barbagallo, vol. III, 2, Torino, Einaudi, 1997, pp. 83-137 pp. 83-137, p. 136.
[14] Associazione nazionale magistrati, Atti e commenti. XII Congresso nazionale Brescia-Gardone 15-28-XI-1965, Roma, Arti grafiche Jasillo, 1966, pp. 309-310.
[15] Vladimiro Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi, in Storia d’Italia. Annali 14. Legge
Diritto Giustizia, a cura di Luciano Violante, Torino, Einaudi, 1998, pp. 713-792, pp. 757 ss.
[16] Giorgio Lattanzi, La «carriera» dei magistrati tra vecchio e nuovo ordinamento giudiziario, in «Quaderni costituzionali», 1983, p. 154.
[17] Cit. da Guido Melis, La legislazione ordinaria, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», n. 4, 2001, numero speciale dedicato a Il diritto pubblico nella seconda metà del XX secolo, pp. 1043- 1077, p. 1059.
[18] Benedetta Tobagi, Piazza Fontana. Il processo impossibile, Torino, Einaudi, 2019.
[19] Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi, cit., pp. 789-790.
[20] Angelo Ferrati, Relazione per l’inaugurazione per l’anno giudiziario 1980. Assemblea generale 9 gennaio 1980, Tavole statistiche.
[21] L. n. 695 del 22 dicembre 1975.
[22] Guido Melis, Le correnti nella magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, «Questione giustizia», 2020.
[23] Calamandrei, Per l’indipendenza della magistratura, cit., p. 428.
Gli altri contributi dal 36° Congresso dell'Associazione Nazionale Magistrati (Palermo 10-12 maggio 2024) apparsi finora su Giustizia insieme sono la Relazione introduttiva al 36° congresso nazionale Associazione Nazionale Magistrati di Giuseppe Santalucia, Intervento di Lia Sava al 36° congresso nazionale ANM, Intervento di Matteo Frasca al 36°congresso nazionale ANM.