ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa - 2. Gli arresti giurisprudenziali più recenti - 3. La quantificazione del provento da sottoporre a sequestro o confisca.
1. Premessa
L’esperienza giudiziaria più recente ha visto l’incremento delle contestazioni di riciclaggio e di reimpiego sia nei procedimenti di criminalità comune che in quelli di criminalità organizzata, anche di stampo mafioso, in ragione di un progressivo affinamento dell’azione di contrasto all’accumulazione di patrimoni illeciti e alla infiltrazione delle strutture criminali nella economia legale.
In particolare, l’impresa mafiosa rappresenta l’attuale paradigma delle forme più moderne e pericolose di operatività dei sodalizi, impegnando di conseguenza l’autorità giudiziaria - inquirente e giudicante - in uno sforzo di elaborazione di protocolli investigativi e modelli decisori maggiormente in grado di assicurare il perseguimento dell’obbiettivo, risalente quanto bisognevole di ammodernamento continuo, della sottrazione ai gruppi criminali delle ricchezze illecitamente accumulate e soprattutto del contrasto alle manovre criminali volte al condizionamento dei mercati e alla alterazione delle relazioni economiche attraverso l’immissione di capitali illeciti, cui si aggiunge talvolta anche l’utilizzo del metodo mafioso e della finalità agevolatrice delle attività dei sodalizi di stampo mafioso.
Nulla di nuovo, si potrebbe affermare, poiché nella operatività delle organizzazioni mafiose la leva economica e le finalità di accaparramento di ampi settori dell’economia, a fini di accumulazione di ricchezza e di implementazione del controllo delle attività d’impresa attraverso condotte lato sensu riciclatorie, rappresentano da sempre il cuore degli obbiettivi strategici dei gruppi più potenti e radicati.
Così come, sul versante del crimine economico comune, le condotte di riciclaggio e reimpiego offrono da tempo gli strumenti più efficaci per il perseguimento degli scopi di arricchimento illecito, di assicurazione delle provviste accumulate e di ulteriore locupletazione.
A fronte di tale quadro fattuale, lo sforzo della giurisdizione è non solo di tipo operativo ma anche di ricostruzione sistematica del quadro normativo di riferimento: e ciò soprattutto in tema di cautela reale, essendosi oramai da tempo compreso che il delitto non deve pagare e che gli strumenti ablativi offrono la risposta più efficace possibile a queste gravi forme di lesione degli interessi protetti dall’ordinamento, che investono non solo i patrimoni privati ma l’ordine economico e la corretta operatività dei mercati. In ultima analisi, l’economia del Paese.
Sequestri e confische, dunque, come forma insostituibile dell’azione di contrasto attraverso la predisposizione normativa di una ampia gamma di strumenti; non sempre – a dire il vero – sottoposti a una adeguata ricostruzione sistemica e razionale. Soprattutto, di pluriforme natura, collocazione operativa e funzione: penale e di prevenzione; di tipo preventivo/pertinenziale o per sproporzione.
In questa cornice si inserisce l’attuale dibattito sulla individuazione del quantum sequestrabile in caso di riciclaggio (ai sensi dell’art. 648 bis codice penale) o di reimpiego (ex art. 648 ter codice penale) di provviste finanziarie di provenienza illecita: tema particolarmente delicato sol se si pensi alle cronache giudiziarie degli ultimi tempi, che vedono una manovra investigativa sempre più attenta a colpire patrimoni e aziende coinvolti in vicende di crimine economico o economico-mafioso.
2. Gli arresti giurisprudenziali più recenti
Al fine di individuare criteri adeguati per quantificare la somma sequestrabile va riconosciuto che allo stato è sicuramente più avanzata la riflessione giurisprudenziale in materia di riciclaggio rispetto a quella affermatasi per i delitti di reimpiego; e vanno ricordate le nette differenze strutturali e funzionali delle due fattispecie[1].
La condotta di riciclaggio consiste infatti in attività di sostituzione/trasferimento finalizzate al mero occultamento della illecita provenienza di una determinata somma o di un determinato bene, mentre la seconda incrimina l’impiego di beni e di somme di denaro in attività a loro volta produttive di ulteriore guadagno: precisazione assolutamente necessaria nel momento in cui occorre verificare quale sia il profitto (o, in termini generali, il provento) della operazione delittuosa.
Poiché se è vero che il profitto del riciclaggio consiste nel risultato di occultamento (attraverso attività di sostituzione e trasferimento, o qualsiasi altra operazione finalizzata a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa) della somma (o del bene) che il produttore della provvista illecita affida al terzo, nel caso di reimpiego (in particolare di somme di denaro) il profitto consiste evidentemente nel risultato economico conseguito con l’investimento, potenzialmente (e da verificare in fatto) più elevato della somma investita: diversamente ragionando si opererebbe infatti una indebita assimilazione, in punto di sequestro, tra fattispecie assolutamente diverse che peraltro rappresentano esattamente il frutto di una volontà di incriminazione di condotte progressive nelle quali l’impiego in attività economiche o finanziarierappresenta uno step successivo e ulteriore rispetto a quello del loro mero nascondimento.
Quantificare il risultato economico del reimpiego “come se” si trattasse di una operazione di mero riciclaggio non è evidentemente corretto, pena una ingiustificata disparità di trattamento tra il semplice riciclatore (in ipotesi anche colui che abbia soltanto depositato la somma di provenienza illecita sul proprio conto corrente) e l’autore del reimpiego, che realizza una più complessa condotta caratterizzata dal reinvestimento in attività imprenditoriali, economiche e finanziarie le quali, se e in quanto producano (ulteriore) vantaggio economico, devono rappresentare il criterio di verifica e il parametro di quantificazione del profitto del reato.
Che tale debba essere l’impostazione per una corretta ricostruzione in diritto discende anche dall’analisi della giurisprudenza di legittimità che, intervenuta per la ipotesi di sequestro di somme in ipotesi di riciclaggio, ha fissato principi che consentono di risolvere anche la questione del sequestro di somme in caso di reimpiego.
In relazione al delitto di riciclaggio di provviste finanziarie, infatti, vale la pena in primo luogo rilevare che la più recente giurisprudenza di legittimità ha respinto l’orientamento per così dire restrittivo di cui alla sentenza Cass sez. II pen, n. 21820/22, relatore Mantovano[2], secondo la quale in caso di riciclaggio di somme potesse addirittura essere sequestrato soltanto lo stretto guadagno (del tutto eventuale e sicuramente inferiore alla somma riciclata) del riciclatore, inteso come “accrescimento” eventuale del patrimonio dell’autore della condotta riciclatoria, e non l’intera somma riciclata.
Posizione rimasta del tutto isolata, essendosi affermato il diverso orientamento che, richiamando anche decisioni precedenti e soprattutto guardando ai principi e alle finalità di cui alla Dec. 2001/500/GAI del 26.6.01 (Decisione Quadro del Consiglio concernente il riciclaggio di denaro e il sequestro degli strumenti e dei proventi del reato) e alla Direttiva 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose), da considerare nel nostro ordinamento multilivello quali importanti punti di riferimento per l’interpretazione e l’applicazione della legge nazionale, ha statuito che in caso di riciclaggio che ha per oggetto somme di denaro il profitto è costituito “dall’intero ammontare delle somme che sono state ripulite attraverso le operazioni di riciclaggio compiute dall’imputato…il denaro di provenienza illecita viene sostituito con denaro pulito che può liberamente circolare…quindi, nel caso di riciclaggio il profitto coincide con il denaro derivante dal delitto presupposto, quindi con la ricchezza illecitamente conseguita dal reato presupposto, e non importa se poi il soggetto condannato per riciclaggio abbia goduto di questa somma solo in minima parte: il valore del profitto del primo reato si identifica col valore del secondo, cioè del riciclaggio” (così Cass. II sez. pen. n. 7503/22 relatore Di Pisa)[3].
Questa stessa pronuncia, poi, ha affrontato anche la questione dell’applicazione del principio solidaristico – secondo il quale al singolo può sequestrarsi anche l’intera somma profitto del delitto a prescindere dal ruolo di ciascuno dei concorrenti – alla fattispecie di riciclaggio, riconoscendo che se è vero che tale principio presuppone il concorso di più soggetti nel medesimo reato (cosa che non accade nei confronti dell’autore del reato presupposto, non punibile per riciclaggio), è anche vero che nel caso di riciclaggio all’autore del delitto presupposto la mancata contestazione del riciclaggio avviene soltanto in applicazione di una deroga normativa alla ordinaria operatività della norma sul concorso, mentre deve riconoscersi sussistente comunque un “concorso nell’illecito complessivo” fra l’autore del delitto presupposto e il riciclatore (ancora, Cass. II sez. pen. 7503/22 relatore Di Pisa). Anche per questo motivo, dunque, la somma da sequestrare deve essere l’intera somma “ripulita” e non soltanto l’eventuale guadagno specifico del riciclatore.
Peraltro, va detto per completezza, l’identificazione del soggetto (autore del delitto presupposto) che abbia affidato la provvista illecitamente prodotta a un terzo (estraneo al delitto presupposto) il quale abbia provveduto poi o a sostituirla/trasferirla oppure a impiegarla comporta oggi (a partire dal 2015, data della entrata in vigore della norma di cui all’art. 648 ter 1 c.p.) anche la contestazione al primo della condotta di autoriciclaggio: si completa così il quadro normativo che consente di parlare di “concorso nell’illecito complessivo”, individuandosi una categoria ricostruttiva utile anche sotto il profilo dell’applicazione del principio solidaristico oltre che per la quantificazione della somma illecita da sequestrare[4].
Infatti, l’applicazione del principio solidaristico a maggior ragione si imporrà nel caso di concorso tra l’auto-riciclatore e il reimpiegante (o il mero riciclatore), atteso che in questo caso abbiano addirittura il concorso di persone in una identica condotta delittuosa, seppure diversamente qualificata in capo ai due partecipi “in fatto” alla complessiva operazione illecita: un chiaro caso di “concorso nell’illecito complessivo”.
3. La quantificazione del provento da sottoporre a sequestro o confisca
Occorre allora verificare gli ulteriori parametri normativi utili per calcolare il quantum.
Ebbene, di estrema rilevanza appare anche la direttiva ermeneutica (richiamata ancora nella sentenza su indicata, Cass. II sez. pen. 7503/22 relatore Di Pisa) volta a valorizzare a questo fine la valutazione “in concreto” dell’operazione illecita di volta in volta realizzata; essa è stata ad esempio ribadita da Cass. II sez. pen n. 34218/20, relatore Sgadari, secondo la quale, ancora una volta in tema di profitto del riciclaggio, “la determinazione della misura del profitto è funzione direttamente correlata sia alla tipologia del delitto da cui discende il profitto, sia alla natura dei beni oggetto del delitto stesso, in quanto il vantaggio economico che può ritrarsi dalla commissione dei singoli reati dipende da variabili rappresentate dalla tipologia delle operazioni di fatto e giuridiche che si realizzano attraverso la commissione dei reati, dalla loro capacità di incidere sul valore e sulla concreta disponibilità di beni, diversamente incommerciabili o di valore di mercato inferiore…”; e per questo secondo la Cassazione “bisogna fare riferimento alle specifiche circostanze del caso concreto per stabilire l’entità del profitto del riciclaggio…”.
Principi che, applicati nel nostro caso, impongono una valutazione in concreto dei vantaggi conseguiti dai concorrenti attraverso le complesse operazioni commerciali di investimento in attività produttive o finanziarie. Vantaggi in concretoche devono tener conto delle specifiche attività economico-finanziarie realizzate in fatto.
Ancora più chiara è infine la posizione espressa nella sentenza n. 22053/23 della Cass. II sez. pen. relatrice Minutillo Turtur, che, intervenendo espressamente (ed è una delle pochissime, allo stato) sul tema del sequestro in caso di delitto di reimpiego, ha precisato in prima battuta che il sequestro/confisca ha ad oggetto “il valore del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dagli autori del reato, assolvendo in tal modo a una sostanziale funzione ripristinatoria della situazione economica modificata a seguito della commissione del reato” (come del resto già chiarito anche da Cass. SS.UU. n. 31617 del 26.6.15). Aggiungendo che, in caso di concorso, “tutti i rei rispondono per intero dei beni che costituiscono il prodotto del reato”; dunque, secondo il principio solidaristico, ciascuno risponde del “valore complessivo riferito a tutte le attività illecite ascritte al complessivo gruppo dei concorrenti a prescindere dal profitto di ciascuno dei concorrenti responsabili in concorso”. E chiarisce poi questa pronuncia, richiamando sul punto una granitica giurisprudenza, che certamente ciò non dovrà comportare duplicazioni, ma che esse saranno da risolvere nella fase esecutiva.
In applicazione di tali principi, ad esempio, in caso di investimento di somme di provenienza illecita, da parte dell’autore del delitto presupposto, in aziende appaltatrici formalmente intestate a un terzo (estraneo al delitto presupposto), per quantificare la somma da sequestrare dovrà farsi riferimento all’ammontare del valore degli appalti ottenuti dai rei (l’autoriciclatore, in concorso con il reimpiegante) attraverso la condotta illecita in contestazione, rappresentata da una complessa attività di partecipazione ad appalti attraverso ditte nelle quali sono confluiti – proprio per quegli affari – gli investimenti di provviste illecite: il sequestro delle sole somme investite corrisponderebbe infatti al quantum da sequestrare in caso di delitto di “mero” riciclaggio, mentre qualora non ci sia stata soltanto attività di sostituzione ma sia stato realizzato un investimento che abbia prodotto un ulteriore risultato economico attraverso l’impiego di quelle somme in attività produttive, dovrà essere sottoposto a sequestro quell’ulteriore illecito arricchimento, provento del delitto di reimpiego, rappresentato nel caso dal risultato economico complessivo dell’affare (ad esempio, il valore dell’appalto ottenuto).
[1] Sul tema, Giacomo Pestelli, Riflessioni critiche sulla riforma dei reati di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio, in Sistema Penale, 12/2021.
[2] La decisione aveva ad oggetto la confisca operata nei confronti di imputato di riciclaggio, e affermava che “una cosa è il prodotto, il profitto o il prezzo che l’autore del riciclaggio trae dal reato che ha commesso e altra e differente cosa è il bene riciclato. Nei confronti del riciclatore può essere disposta la confisca esclusivamente del prodotto, del profitto e del prezzo che egli ha tratto dal reato di riciclaggio che ha consumato, mentre nei confronti del “riciclante” può essere disposta la confisca del bene riciclato, sempre che ne sussistano i presupposti”: si escludeva pertanto la possibilità di sequestrare e confiscare l’intera somma riciclata poiché essa non poteva essere considerata “prodotto, profitto o prezzo” del riciclaggio; dunque, fuori dalla rilevanza penale del delitto di riciclaggio. E nel motivare tale esclusione si introduceva una figura del tutto originale, quella del “riciclante”, non perseguibile per il delitto di riciclaggio ma che avrebbe potuto autonomamente subire la confisca della somma riciclata “sempre che ne sussistessero i presupposti”. Dunque, è da interpretarsi, soltanto come provento del delitto presupposto; e dunque soltanto in quell’eventuale procedimento, a carico dell’autore del delitto presupposto: per usura, estorsione, narcotraffico, o per qualsiasi altro delitto produttivo di somme di denaro. Giungendosi però in tal modo ad affermare che in un procedimento per riciclaggio di una somma di denaro di provenienza illecita non si potrebbe sequestrare la somma riciclata.
[3] Precisava la sentenza che “appare difficile sostenere, quindi, che il denaro ripulito nella disponibilità del riciclatore non possa farsi rientrare nella nozione di profitto del reato o quanto meno di prodotto del reato nell’accezione che di tali categorie dà la giurisprudenza. Posto che il cuore del disvalore del delitto di riciclaggio risiede nell’immettere nel circuito economico somme illecitamente acquisite, la somma ripulita passata nelle mani del riciclatore, ove non ritenuto quale vero e proprio profitto, si configura quanto meno quale risultato empirico dell’esecuzione criminosa…si tratta del frutto diretto dell’attività criminosa, ossia del risultato ottenuto direttamente dalla attività illecita. Nel caso di riciclaggio che ha per oggetto somme di denaro, il profitto del reato o comunque il prodotto del reato è quindi l’intero ammontare delle somme che sono state ripulite”.
[4]In ordine alla tematica del rapporto fra autoriciclaggio e riciclaggio (ovvero reimpiego) si ricordano glki arresti giurisprudenziali più recenti: Cass II sez. pen, n. 17235/18, relatore Beltrani: “In tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell'autore del reato - presupposto delle condotte indicate dall'art. 648-ter.1 cod.pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo questo configurabile solo nei confronti dell'intraneus”. Cass. VI sez. pen., n. 3608/18, relatore Agliastro: “In tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell'autore del reato-presupposto delle condotte indicate dall'art. 648-ter.1 cod.pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo quest'ultimo configurabile solo nei confronti dell' "intraneus". (Fattispecie in cui l'imputata aveva versato su un libretto di deposito di una cooperativa di consumo, e poi prelevato mediante assegni, denaro provento dell'attività concussiva attuata dal marito). Dunque, alla luce della attuale ricostruzione sistematica delle norme incriminatrici appare corretto contestare, in ordine alla medesima imputazione in fatto (avente ad oggetto le complesse operazioni economiche e finanziarie di volta in volta accertate, alle quali abbiano partecipato il “produttore” del reddito illecito e il terzo “reimpiegante”) il delitto di autoriciclaggio ai soggetti che abbiano prodotto le provviste illecite attraverso la commissione dei delitti presupposti (associazione per delinquere, estorsione, usura, narcotraffico, etc) e il delitto di reimpiego a carico del terzo estraneo che abbia contribuito consapevolmente al reinvestimento in attività produttive e di impresa.
(Immagine: "L'avarizia. Scena ambientata nel Banco di San Giorgio di Genova", miniatura tratta dal Trattato sui sette vizi, (1330-1340 circa), British Library, Londra)
Lo scritto riprende alcuni dei temi trattati nel corso della relazione tenuta al convegno sul tema “Diritto d'amore” tenutosi a Roma nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 2024 organizzato dall'Associazione Cammino. Si tratta della terza di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno. Si veda Diritto d'amore e responsabilità civile di Alessandra Cordiano, Diritto, biodiritto e amore di Roberto Giovanni Conti.
Diritti d'amore e rapporti familiari[1]
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Amore e diritto: un rapporto di indifferenza reciproca. Il contributo del pensiero di tre grandi Maestri: Stefano Rodotà, Angelo Falzea e Cesare Massimo Bianca- 2. La famiglia quale isola che il diritto può lambire soltanto. La rilevanza dell'amore e l'irrilevanza del diritto. - 3. La rivoluzione copernicana della progressiva rilevanza dell'amore nei rapporti di famiglia. Dall'amore al diritto d'amore. Prima tappa: La Riforma della filiazione. - 4. Seconda tappa: la giurisprudenza: i danni da deprivazione affettiva e il riconoscimento di nuove forme di genitorialità non di sangue - 5. Terza tappa: la riforma della giustizia familiare e minorile: la rilevanza dei “fatti di sentimento disvalore”: la nuova disciplina della violenza domestica e di genere. - 6. L'unità della famiglia nella complessità dei modelli. L'amore quale ponte che collega tutti gli isolotti della famiglia. - 7. Riflessioni conclusive: l'amore quale strumento di attuazione dei diritti fondamentali dei componenti della comunità familiare.
1. Amore e diritto: un rapporto di indifferenza reciproca. Il contributo del pensiero di tre grandi Maestri: Stefano Rodotà, Angelo Falzea e Cesare Massimo Bianca
Amore e diritto sono stati per molto tempo considerati due estranei, legati da un rapporto di indifferenza reciproca. L'irruenza dell'amore, della passione, dei sentimenti e delle emozioni sono stati oggetto di studio da parte delle discipline psicologiche e sociologiche ma sono stati trascurati per molto tempo dalle discipline giuridiche. Il diritto e il rigore della scienza giuridica hanno così manifestato una tradizionale ritrosìa ad occuparsi dell'amore e in generale dei fatti di sentimenti, fenomeni lasciati al mondo del costume e dell'etica, ma estranei alle speculazioni giuridiche. Questa certezza ha cominciato a vacillare quando Maestri autorevoli si sono posti l'interrogativo in ordine all'attribuzione di una qualche rilevanza giuridica all'amore e alla dimensione affettiva, così aprendo un dibattito[2] che ancora non si è esaurito e la cui suggestione cercherò di dimostrare nelle pagine che seguono. Il sentiero aperto dai Maestri è stato poi definito dal legislatore e dalla giurisprudenza che, soprattutto nel settore del diritto di famiglia, hanno disegnato una parabola evolutiva che ha visto il passaggio da una stagione di totale indifferenza verso i fatti di sentimento alla stagione attuale nella quale la dimensione affettiva svolge un ruolo decisivo nel nuovo paradigma del diritto di famiglia e delle persone, con importanti corollari applicativi.
Il primo Maestro che si è occupato della rilevanza dei fatti di sentimento è stato Angelo Falzea, il quale, nell'ambito di una trattazione di teoria generale dedicata ai fatti giuridici e ai loro effetti, ha collocato i fatti di sentimento tra i fatti di coscienza, contrapponendoli ai fatti di volontà[3]. Non potendomi soffermare nel dettaglio nel fascino di quelle pagine, è utile ricordare che nel pensiero del Maestro, la rilevanza dei fatti di sentimento passa attraverso l'accoglimento di una metodologia che, secondo l'insegnamento di Jhering, affida allo scopo e quindi all'interesse lo strumento per scandagliare la realtà giuridica e il suo divenire[4]. Questa lettura consente al Maestro di selezionare quei soli fatti di sentimento che si siano tradotti in valori dell'ordinamento, e quindi in definitiva in interessi, la cui meritevolezza è accolta dalla coscienza sociale. Angelo Falzea teorizza così una trilogia dei fatti di sentimento che vede la distinzione tra sentimenti-valori, sentimenti-disvalori e sentimenti neutri. Quanto quella triologia fosse anticipatrice della rilevanza dei fatti di sentimento, cercherò di dimostrarlo nelle pagine che seguono.
Il secondo Maestro che in tempi recenti ha dato un contributo significativo alla teorizzazione di una certa rilevanza dell'amore per il diritto è stato Stefano Rodotà. Nel volume Diritto d'amore[5], è già il titolo che evidenzia un'indagine storica volta ad esplorare gli spazi di contiguità tra amore e diritto. L'indagine si incentra prevalentemente sull'amore nelle relazioni affettive di coppia e rappresenta un utile strumento per studiare e analizzare il fenomeno del superamento della famiglia matrimoniale e dell'affermarsi di nuove famiglie.
Il terzo Maestro che ha dato un contributo significativo all'oggetto di questa indagine è stato Cesare Massimo Bianca. Quella che ho voluto indicare come la sua vera e propria 'missione' nel diritto di famiglia[6] si è svolta sia in qualità di studioso che in qualità di legislatore per affermare il principio di uguaglianza e di giustizia nel diritto di famiglia. La rilevanza dell'amore nel diritto di famiglia, espressa prevalentemente nell'analisi del rapporto verticale genitori-figli, e del rapporto ascendenti-nipoti, è stata affermata attraverso il riconoscimento del principio di uguaglianza e del principio di giustizia. Questa teorizzazione ha acquistato la massima concretezza quando il diritto all'assistenza morale è stato riconosciuto come uno dei diritti fondamentali del figlio, che ne compongono lo statuto ai sensi dell'art. 315-bis del codice civile, introdotto dalla Riforma della filiazione. L'amore è diventato così uno dei diritti fondamentali del figlio che arricchisce e completa la relazione genitori-figli.
2. La famiglia quale isola che il diritto può lambire soltanto. La rilevanza dell'amore e l'irrilevanza del diritto
I rapporti familiari e in generale il diritto di famiglia sono stati il campo di elezione per sperimentare l'ambito di rilevanza dell'amore. In una prima stagione che vedeva con sospetto l'intervento del diritto nelle questioni familiari, la dimensione ontologicamente affettiva dei rapporti familiari è stata la giustificazione per legittimare l'estraneità della famiglia all'intervento del diritto e la considerazione, ormai da tempo superata, del diritto di famiglia quale diritto residuale, con funzione ancillare rispetto al diritto civile. Al riguardo Carlo Arturo Jemolo così emblematicamente si esprimeva: “la famiglia è un'isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto...rocca sull'onda ed il granito che costituisce la sua base appartiene al mondo degli affetti, agl'istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto”[7]. I rapporti familiari intrisi della dimensione affettiva erano per questa ragione rapporti giuridici spuri, che poco avevano a che fare con i rapporti giuridici veri e propri. I corollari di questa impostazione erano tanti. Tra questi, l'impossibilità di concepire veri e propri obblighi giuridici tra i familiari e di conseguenza l'impossibilità di ravvisare una responsabilità per violazione degli stessi. Solo in tempi recenti ha trovato riconoscimento la responsabilità endofamiliare, quale diretta conseguenza del riconoscimento di veri e propri diritti familiari, la cui violazione determina, secondo i principi generali, l'insorgenza dell'obbligo di risarcimento del danno. Anche il tema della violenza domestica e degli abusi familiari ha trovato riconoscimento solo in tempi recenti quando si è stabilita una netta linea di distinzione tra conflitto e abuso familiare.
3. La rivoluzione copernicana della progressiva rilevanza dell'amore nei rapporti di famiglia. Dall'amore al diritto d'amore. Prima tappa: La Riforma della filiazione
La parabola evolutiva della progressiva rilevanza dell'amore nel mondo del diritto e in particolare del diritto di famiglia si è svolta nell'arco dell'ultimo settantennio e ha visto la partecipazione della dottrina, del legislatore e della giurisprudenza, che hanno delineato un itinerario concettuale con risvolti significativi e tecnici. Una prima e significativa tappa è stata la Riforma della filiazione del 2012 e 2013. Con questa Riforma che ha raggiunto il significativo traguardo dell'applicazione del principio di uguaglianza e quindi della giustizia al rapporto di filiazione, per la prima volta è stato codificato il diritto all'amore del figlio nei confronti dei genitori. L'art. 315-bis del codice civile prevede oggi espressamente il diritto del figlio all'assistenza morale, diritto che avrebbe dovuto essere chiamato “diritto all'amore”[8], anche se alla fine il contenuto è equivalente. Il diritto all'amore del figlio nei confronti del genitore si collega significativamente ad altri diritti, tra i quali il diritto a mantenere rapporti significativi con i parenti e con il diritto ad essere ascoltato. Il diritto all'ascolto, soprattutto l'ascolto in famiglia, diventa “un modo in cui si realizza l'assistenza morale”[9] del figlio. Nella Riforma della filiazione la rilevanza dei fatti di sentimento è stata completata dalla modificazione dei termini di prescrizione delle azioni di stato, che ha determinato la conferma del riconoscimento di un diritto alla stabilizzazione degli affetti, a prescindere dalla esistenza di un legame di sangue. L'introduzione di un termine tombale di 5 anni per l'esercizio delle azioni di rimozione dello stato filiale è infatti diretta ad evitare che l'esercizio delle azioni di disconoscimento o di impugnazione per difetto di veridicità, anche se fondate, possano pregiudicare la stabilità della relazione affettiva già consolidata. Il diritto alla continuità affettiva era stato già riconosciuto dal legislatore con la legge del 2015[10], che ha consentito di convertire situazioni di affidamento in adozione quando è in gioco la tutela e la conservazione di una valida relazione affettiva.
4. Seconda tappa: la giurisprudenza: i danni da deprivazione affettiva e il riconoscimento di nuove forme di genitorialità non di sangue
Una seconda tappa importante è stata compiuta ad opera della giurisprudenza che ha operato in due significativi versanti. Il primo è stato quello del riconoscimento del danno da deprivazione affettiva nel rapporto genitori-figli, riconoscimento che riecheggia la trattazione di Angelo Falzea, il quale aveva individuato un'area di rilevanza dei danni affettivi. Il danno da deprivazione affettiva, che rappresenta un sottotipo del danno endofamiliare, riconosciuto in una prima decisione della Corte di Cassazione del 2000[11], e da decisioni successive, oggi viene qualificato come ipotesi di illecito omissivo permanente che “determina un'inevitabile e insanabile ferita di quei diritti fondamentali nascenti dal rapporto di filiazione, che trovano nella Carta costituzionale (in particolare, negli artt. 2 e 30) e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un livello assoluto di riconoscimento”[12]. Il diritto del figlio all'amore da parte dei propri genitori è una pretesa azionabile in giudizio, la cui violazione determina l'obbligo del risarcimento del danno. Le riflessioni sulla incoercibilità dell'amore, se ancora valida nei rapporti di coppia, si rivela inadeguata con riferimento al rapporto genitori-figli. Come la dottrina illuminata ha più volte ribadito “tra gli interessi essenziali del minore si pone infatti in primo piano l'interesse a ricevere quella carica affettiva di cui l'essere umano non può fare a meno nel tempo della sua formazione”[13].
Un secondo e significativo versante racchiude una gamma di interventi della giurisprudenza che in vari settori attribuiscono rilevanza ai rapporti affettivi. Un primo significativo àmbito è quello della genitorialità sociale, genitorialità che individua relazioni che prescindono dal legame biologico e si caratterizzano per la dimensione prevalentemente affettiva. Tra queste è ricompresa la relazione che si instaura tra il figlio del coniuge o del partner, con il quale si convive e si condivide una vita familiare. L'emersione di queste relazioni affettive non di sangue è stato accelerato dal fenomeno delle famiglie ricomposte. La giurisprudenza ha riconosciuto al riguardo rilevanza anche ai nonni sociali[14]. Queste relazioni, che operano sul piano del fatto, non sono irrilevanti per il diritto. Anche quando non si decida di convertire la situazione di fatto in situazione giuridica, attraverso l'adozione in casi particolari, deve rilevarsi che la convivenza stabile fa nascere un obbligo minimale di solidarietà e di accoglienza, oltre che di rispetto reciproco. Così deve condividersi il pensiero della dottrina che ha affermato che “famiglia costituzionalmente tutelata è anche il legame affettivo che si costituisce di fatto tra un minore e un estraneo che lo accoglie presso di sé come un figlio”[15]. La stessa dottrina fa al riguardo l'esempio del legame affettivo che nella famiglia ricomposta o rinnovata si crea tra il minore e il convivente del genitore[16]. Altro àmbito applicativo in cui si è assistito alla emersione della rilevanza delle relazioni affettive è stato quello della genitorialità cd di intenzione, termine riferito ai soggetti che, pur non essendo genitori biologici, hanno condiviso con il genitore biologico un progetto genitoriale. Nella discussa problematica dei nati da maternità surrogata o da PMA fatte all'estero, l'esistenza e il controllo in ordine alla esistenza di un legame affettivo autentico con il nato hanno portato la nostra Corte di Cassazione a sezioni unite a rifiutare l'automatismo della trascrizione e ad affidare al giudice tale controllo[17]. La rilevanza delle relazioni affettive di fatto è stato di recente affermato anche da parte della Corte costituzionale[18] chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 27, 3° co l. adoz., là dove non consente di valutare in concreto se sia nell'interesse del minore interrompere le relazioni con la famiglia di origine. La distinzione operata dalla Corte tra rapporti giuridici e rapporti affettivi di fatto non ha impedito di far emergere la rilevanza di un principio di conservazione della continuità affettiva, che si è dispiegato nel sistema attraverso vari istituti, tra i quali l'adozione mite e che consente di affermare che la recisione con la famiglia di origine, sia da ritenersi, con riferimento ai rapporti affettivi di fatto, una presunzione juris tantum, che attende la verifica in ordine alla realizzazione in concreto dell'interesse del minore[19].
5. Terza tappa: la riforma della giustizia familiare e minorile: la rilevanza dei “fatti di sentimento disvalore”: la nuova disciplina della violenza domestica e di genere
La terza tappa è stata la recente Riforma della giustizia familiare e minorile[20] che, introducendo un’apposita sezione dedicata alla violenza domestica e di genere, ha dato rilevanza ai fatti di sentimento-disvalore secondo la lettura di Angelo Falzea. I fatti di sentimento rilevano anche quando essi si traducono in un disvalore dell'ordinamento come ci insegnava il Maestro. La Riforma della giustizia familiare e minorile ha applicato questo insegnamento. La violenza domestica non è più nascosta dietro le pieghe del rapporto conflittuale. Di essa si chiede l'emersione e ciò determina l'applicazione di precise regole giuridiche, regole che sono poste a presidio della vittima e degli altri familiari. Il minore che non vuole incontrare il genitore deve essere prontamente ascoltato dal giudice, al fine di indagare se il rifiuto è giustificato da fatti di violenze e di abusi. Il genitore o il marito violento deve essere allontanato dalla casa familiare, secondo la disciplina degli ordini di protezione, già introdotti nel 2001, la cui disciplina è stata confermata nella recente Riforma. L'allegazione o la prova di fatti di violenza impedisce di iniziare un'attività di mediazione familiare e richiede che sia interrotta, ove già iniziata, al fine di evitare che la vittima sia costretta ad incontrare l'autore della violenza.
6. L'unità della famiglia nella complessità dei modelli. L'amore quale ponte che collega tutti gli isolotti della famiglia Ai tasselli di questo mosaico deve esserne aggiunto un altro che assume un significativo valore sistematico nel dibattito sulla pluralità dei modelli familiari e sull'incertezza in ordine all'esistenza di una nozione unitaria di famiglia. Il turbinìo dell'avvento di nuove famiglie e di nuovi modelli di genitorialità ha infatti destabilizzato a tal punto l'interprete che taluno ha parlato di morte della famiglia e comunque della difficoltà di ricercare un minimo comune denominatore che possa qualificare tutte le relazioni come familiari, anche nella diversità dei modelli. Questo comune denominatore è stato individuato proprio nell'esistenza di una relazione affettiva stabile, elemento questo che rappresenta l'humus dei rapporti orizzontali di coppia e dei rapporti verticali genitori-figli. E' stato infatti simbolicamente affermato da parte di Cesare Massimo Bianca in uno dei suoi ultimi scritti che, di fronte ai pericoli di disgregazione della nozione di famiglia, “identificata la famiglia nel legame affettivo di coppia, di filiazione e di stretta parentela, deve dirsi piuttosto che la famiglia è una e una è la nozione di famiglia. Vari sono i modelli familiari e varia la loro disciplina, ma unico il valore sociale del vincolo affettivo che in essa si realizza”[21]. La forza dirompente di questa affermazione ha proiettato i disagi dell'interprete in una dimensione di effettività che, lungi dall'essere irrealistica, si pone in perfetta linea di assonanza con il diritto europeo e con l'art. 8 della Cedu che, nel riconoscere il diritto alla vita familiare, non pone differenze tra i diversi modelli familiari, tutti deputati al riconoscimento di alcuni diritti, pur nella diversità. La molteplicità dei modelli viene ricondotta ad unità ed è proprio la dimensione affettiva, un tempo irrilevante, che diventa l'elemento aggregante. Come mi è capitato di scrivere in un recente saggio in via di pubblicazione, riprendendo la nota metafora di Carlo Arturo Jemolo, il legame affettivo è il ponte che collega tutti i vari isolotti che compongono l'arcipelago familiare[22]. Tale riflessione assume poi un altro valore sistematico molto importante, non solo ai fini del dibattito in ordine alla distinzione/assimilazione dei vari modelli familiari, ma anche al fine di individuare un corpo di diritti che si applicano trasversalmente a tutte le famiglie, indipendentemente dalla disciplina dei distinti modelli. Si tratta di un dibattito ancora aperto che si proietta secondo alcuni verso uno scenario di totale assimilazione e secondo altri di selezione di alcuni diritti che devono essere applicati trasversalmente ai vari e tanti modelli familiari. Con riferimento al diritto al riconoscimento della propria prestazione lavorativa, proprio di recente la Corte di Cassazione a sezioni unite[23] ha sollevato il problema della legittimità costituzionale delle norme relative all'impresa familiare, là dove non prevedono uguali diritti del coniuge e del convivente.
7. Riflessioni conclusive: l'amore quale strumento di attuazione dei diritti fondamentali dei componenti della comunità familiare
A questo punto è possibile cercare di trarre delle riflessioni conclusive alla luce della parabola evolutiva che ha scandito le varie stagioni del diritto di famiglia. L'affetto non è più, come affermava Jemolo, l'elemento che legittima l'esclusione della giuridicità dei rapporti familiari. Al contrario, l'affetto è una componente essenziale della riconosciuta giuridicità dei rapporti familiari. L'isola è stata invasa dal diritto e l'affetto è il ponte che collega i vari isolotti dell'arcipelago. L'indagine che ho cercato sinteticamente di illustrare mostra l'impossibilità di continuare a predicare l'irrilevanza dell'amore per il diritto. In questa nuova dimensione di alleanza tra l'amore il diritto, l'amore esce dall'area della istintività, della passione e quindi della precarietà e diventa un impegno costante verso l'altro in cui l'amore è lo strumento di realizzazione di altri diritti fondamentali dell'uomo, primo tra tutti il principio della dignità umana[24]. L'amore che emerge dal nuovo diritto di famiglia è rispetto, empatia, armonia, intimità, protezione, partecipazione, condivisione, pazienza, sopportazione, dialogo, complicità, solidarietà e tanto tanto altro.... E' nella realizzazione dei diritti fondamentali di rispetto della persona umana che deve essere individuata l'essenza della relazione affettiva e solo allora la famiglia diventa il luogo ideale per la realizzazione del principio della dignità umana.
[1]Il testo del saggio è la rielaborazione della Relazione tenuta al Convegno: “Diritto d'amore” tenutosi a Roma nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 2024 organizzato dall'Associazione Cammino, in occasione del XXV anno dalla sua fondazione. Dedico la mia relazione e il mio saggio al ricordo indelebile di mio Padre, che con la Sua opera di legislatore ha consentito all'amore di diventare diritto.
[2]In passato sulla rilevanza dei fatti di sentimento per il diritto è stata affermata da M. PARADISO, La comunità familiare, Milano, 1984, 32 e ss.; F. GAZZONI, Amore e diritto ovverosia i diritti dell'amore, Napoli, 1994, 3, il quale rileva che “il diritto ha difficoltà a regolamentare i c.d fatti di sentimento, non solo per motivi di lessico giuridico, ma anche perchè le vicende che coinvolgono sentimenti (e non patrimoni) sono per loro natura ambigue ed oscure, in particolare per quel che riguarda i fatti d'amore”. Sulla rilevanza dei fatti di sentimento per il diritto, oltre ai Maestri cui faccio riferimento in questo saggio, v. N. LIPARI, Famiglia (evoluzione dei modelli), in Enc dir. I tematici: La famiglia, Milano, 2022, 417 e spec. 435: “A meno di non voler ridurre la famiglia ad un indice puramente formale... si deve prendere atto che oggi il modello sociale prevalente individua la famiglia non in una convivenza purchessia, ma in un progetto di vita comune peculiari indici affettivi ed esistenziali, nell'ottica di una tendenziale stabilità”. P. SPAZIANI, Diritto e sentimento: le ragioni di un ritorno al principio di effettività, in Giustiziainsieme, 6 maggio 2020; nell'ambito del diritto di famiglia, v. M. BIANCA, Il diritto del minore all'amore dei nonni, in Studi in onore di Cesare Massimo Bianca, II, Milano, 2006, 117 e ss e più di recente, Una rilettura dei fatti di sentimento di Angelo Falzea alla luce dell'attuale stagione del diritto di famiglia, in G. D'AMICO- A. GORASSINI (a cura di), Angelo Falzea, Napoli, 2023, 463 e ss.
[3]A. FALZEA, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, II, Milano, 1997, 437 e s
[4]V. A. FALZEA, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, cit., 437 e ss.
[5]S. RODOTA', Diritto d'amore, Roma-Bari, 2015.
[6]V. M. BIANCA, Il diritto di famiglia e la missione del giurista. L'insegnamento di mio padre Cesare Massimo Bianca, in Familia, 2021, 125 e ss.
[7]Così testualmente, C.A. JEMOLO, in Ann. Sem. Giur. Università Catania, III, 1948-1949, 38.
[8]Cesare Massimo Bianca, allora Presidente della Commissione incaricata di redigere la Riforma della filiazione, aveva proposto di inserire la dicitura “diritto all'amore”, ma in sede parlamentare la tradizionale ritrosìa per coniugare amore e diritto portò a rifiutare quella soluzione e a preferire quella di “diritto all'assistenza morale”, da ritenersi tuttavia equipollente. Il termine “diritto all'amore” intitola un paragrafo del Trattato di Diritto di famiglia: C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, 7° ed., Milano, 2023, 380 e ss.
[9]C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, op. cit., 385.
[10]V. L. 19 ottobre 2015, n. 173, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affidamento familiare.
[11]V. C. n. 7713 del 2000.
[12]Così testualmente in una recente ordinanza sul danno da deprivazione affettiva: C. 13 aprile 2023, n. 9930.
[13]Così testualmente C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, op. cit., 381.
[14]C. 25 luglio 2018, n. 19780: “Il diritto degli ascendenti di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni deve essere riconosciuto non solo ai soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile dalla quale il minore trae beneficio”.
[15]Così testualmente C.M. BIANCA, C.M. BIANCA, Famiglia è la famiglia fondata sull'affetto coniugale e sull'affetto filiale, in U. SALANITRO (a cura di), Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle Riforme, Atti del Convegno 27-29 settembre 2018 dedicato a Tommaso Auletta, Pisa, 2019, 125.
[16]C.M. BIANCA, Famiglia è la famiglia fondata sull'affetto coniugale e sull'affetto filiale, in U. SALANITRO (a cura di), Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle Riforme, Atti del Convegno 27-29 settembre 2018 dedicato a Tommaso Auletta, cit., 125, nt. 20.
[17] C. Sez Un. 30 dicembre 2022, n. 38162.
[18] Corte Cost. n. 183 del 2023
[19]Sia consentito al riguardo un rinvio a M. BIANCA, Verso la costruzione di un diritto di famiglia in concreto (Nota a Corte Cost. 183/2023, in Giustiziainsieme 6 novembre 2023.
[20]V. Mirzia BIANCA- F. DANOVI, ( a cura di), La nuova giustizia familiare e minorile. Commento alla l. 26 novembre 2021 e al d.lgs. 10 ottobre 2022, in Le nuove leggi civili commentate 2023, n. 4 e 5.
[21]C.M. BIANCA, Famiglia è la famiglia fondata sull'affetto coniugale e sull'affetto filiale, in U. SALANITRO (a cura di), Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle Riforme, Atti del Convegno 27-29 settembre 2018 dedicato a Tommaso Auletta, cit., 122-3.
[22]M. BIANCA, La penisola dei figli nell'arcipelago delle famiglie, saggio destinato agli scritti in onore di M. SESTA.
[23] V. C. n. 1900 del 18 gennaio 2024.
[24]Su questo principio si vedano i bellissimi scritti di G. LUCCIOLI e da ultimo Dignità della persona e fine della vita, Bari, 2022.
(Immagine: Marc Chagall, Les amoureux de Vence, 1957, collezione privata)
Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio.
Giacomo Matteotti. Il giurista
di Giovanni Canzio
Sommario: 1. Premessa. - 2. Matteotti giurista e cultore della procedura penale. - 3. Il pensiero e l’azione di Giacomo Matteotti fra diritto e politica. - 4. Il delitto Matteotti. - 5. Il processo, rectius i processi, per il delitto Matteotti. - 6. Una metafora del Potere.
1. Premessa
Il Parlamento, con il voto unanime di entrambi i rami, ha approvato nel 2023, su proposta della Sen. Liliana Segre, la legge che istituisce le celebrazioni per il centenario della morte di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924 – 10 giugno 2024), con l’importante avviso che tra le attività di ricerca su vita, pensiero e opera di Matteotti «saranno sostenute anche iniziative didattiche e formative, in sinergia con biblioteche, musei e istituzioni culturali, attraverso il coinvolgimento diretto delle istituzioni scolastiche»
Uno speciale rilievo va attribuito all’impegno culturale e formativo del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara che, insieme a quello di Rovigo, agli Ordini degli Avvocati di Ferrara e Rovigo, alla Casa-Museo Giacomo Matteotti e al Comune di Fratta Polesine, ha contribuito efficacemente alla pubblicazione nel 2022 del terzo Quaderno di Casa Matteotti intitolato “Giacomo Matteotti fra diritto e politica”, oggetto di due partecipati seminari presso le citate Università nell’ottobre-dicembre 2023.
Il volume, curato dal Prof. Daniele Negri, ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Ferrara, raccoglie una serie di studi preziosi di Michele Pifferi, Donato Castronuovo, Paolo Veronesi, Fernando Venturini, Ludovica Mutterle, Gianpaolo Romanato e dello stesso Negri, perché, nel ricordo dell’opera del martire del fascismo, si rinnovi la cultura e la passione dei giuristi per le regole dello Stato di diritto e per la democrazia.
2. Matteotti giurista e cultore della procedura penale
Giacomo Matteotti - dottore in legge, allievo dei maestri Alessandro Stoppato e Luigi Lucchini, studioso di diritto e procedura penale -, dopo avere rielaborato e pubblicato nel 1910 la poderosa (e documentata con ampio apparato statistico) tesi di laurea su “La recidiva”[1], discussa nel 1907 nell’Ateneo bolognese con Stoppato, redige una serie di saggi in materia processuale nel breve arco temporale di tre anni fra il 1917 e il 1919, mentre era ristretto al confino di polizia a Campo Inglese, nei pressi di Messina, come “internato militare politico”.
Il rigore scientifico di Matteotti si dimostra pienamente all’altezza del confronto serrato e talora aspramente critico che apre con taluni aspetti di rilievo della disciplina dettata dal “nuovo” codice di procedura penale Finocchiaro Aprile (r.d. 27 febbraio 1913, entrato in vigore il 1° gennaio 1914), come illustrata nelle note accompagnatorie della Relazione al Re[2].
Il giurista dialoga, senza alcuna sudditanza accademica, con la dottrina penalistica italiana dell’epoca, rappresentata dalle Scuole classica-liberale, positivista e del socialismo giuridico, che erano schierate, con le rispettive Riviste di riferimento, a favore (Stoppato) o contro (Lucchini e la Rivista Penale) la riforma o in posizione neutrale (Eugenio Florian e la Rivista di diritto e procedura penale), ma anche con la dottrina d’Oltralpe, tedesca e francese, da lui direttamente frequentata nei viaggi e negli incontri di studio all’estero, nonché con la giurisprudenza, peraltro non sempre giudicata perspicua, della Cassazione penale dell’epoca.
Orbene, se una compiuta attenzione è stata rivolta dalla ricerca storico-giuridica alla figura e all’opera del giurista Matteotti come “penalista”[3], non sembra che siano stati finora adeguatamente indagati e valorizzati gli straordinari contributi offerti dallo studioso alla evoluzione della scienza e della dottrina processualpenalistica italiana, nel contesto del riformismo penale europeo, fatta eccezione per taluni, lontani riferimenti di L. Mascilli Migliorini e di C. Carini e per il recente e perspicuo saggio di D. Negri cui si è fatto cenno[4].
Di qui l’esigenza della riscoperta, dell’analisi e della riproposizione all’attenzione soprattutto dei più giovani studiosi di quelli che si ritiene costituiscano gli scritti di Giacomo Matteotti di maggior rilievo nella materia.
2.1. Nel lungo e articolato saggio su “Il concetto di sentenza penale e le dichiarazioni d’incompetenza in particolare”[5] il giurista di Fratta Polesine sottopone a serrata critica la definizione di sentenza penale offerta dall’art. 98, comma 1, cod. proc. pen., secondo il quale “sentenza è la decisione che definisce l’istruzione o il giudizio”, mentre secondo il comma 2 della medesima norma, “ordinanza è la decisione pronunziata nel corso dell’istruzione o del giudizio o in sede di esecuzione”.
Il legislatore ultimo del 1913 non fissa in realtà l’oggetto specifico che la sentenza definisce, con la conseguenza che, a fronte di “un puro nome per sé stesso nulla significante”, la lettera della legge appare “inesatta, contraddittoria, senza che alcuno spirito le stia dietro a supplire a vivificare”, sì che spetta alla dottrina di formulare, “non contro ma oltre la legge”, una precisa definizione.
Di qui il severo monito ad abbandonare abiti mentali, deviazioni, formule sterili dettate da un astratto tecnicismo giuridico, errori di definizioni prese a prestito dalla dottrina civilistica o dai trattati scolastici o dall’allora dominante dottrina germanica, per assecondare invece la corrispondenza del concetto con l’essenza, l’oggetto e i fini del procedimento. A tal fine lo studioso rivendica con fermezza l’autonomia scientifica della procedura penale, perché il processo penale si presenta “più libero dalle tradizioni, più semplice nell’unico tipo e nell’unico scopo, trovando nel suo stesso fondamento il criterio”. E conclude con un appello a che le soluzioni proposte siano non solo empiricamente semplici e concretamente praticabili ma anche coerenti con un’armonica composizione del vigente sistema processuale:
“Nessuno deve illudersi di possedere l’unica e assoluta verità. Ogni epoca, ogni momento storico ha un complesso variabile di necessità e di esigenze, di tradizioni e ambizioni, costituenti l’elemento politico dell’opera, di cui il legislatore deve tenere conto per le premesse e gli effetti pratici della norma da dettare, in corrispondenza coi fini che egli si propone. La nobiltà giuridica dell’opera appare poi quando a ogni proposta sia data la formulazione più adeguata e più chiara, e tutte le norme si riuniscano e si fondano nel sistema più armonico e semplice. … Quindi non vi è un’idea immutabile di sentenza ma migliore è quel concetto che, perspicuo in sé e non equivocabile, sia conforme ai fini della legge e, traendo luce dall’essenza di essa, la riverberi sulle altre norme e gli effetti che ne devono seguire”.
Una conclusione, questa, invero preannunciata e coerente con l’esergo del saggio: “Non ex regula ius, sed ex iure regula”.
A prescindere dal giudice che emana il provvedimento o dal momento processuale in cui questo interviene e dalla sua impugnabilità o irrevocabilità, sentenza è solo quella che decide sull’oggetto del procedimento e quindi esaurisce la pretesa penale attinente all’istanza punitiva: i concetti di pretesa penale, procedimento e sentenza sono “correlativi”.
2.2. Nel saggio su Nullità assoluta della sentenza penale[6], Matteotti apprezza la definizione di nullità assoluta, insanabile, deducibile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, offerta dall’art. 136 del nuovo codice di rito del 1913[7]. Avverte tuttavia che è urgente determinarne con esattezza la portata, “per arrestare le deviazioni e gli errori che minacciano di diffondersi anche ad opera dei migliori cultori della disciplina”, con speciale riguardo alla fissazione dei precisi confini con l’opposta categoria della inesistenza.
Osserva che, dal punto di vista strettamente letterale, nullità vuol dire causa di annullabilità non già inesistenza, sicché, se manchi l’impugnazione o non intervenga il giudizio di annullamento, l’atto resta valido e capace di effetti giuridici, comunque affetto da nullità assoluta. Questa “ha sempre un limite nel procedimento, di fronte al passaggio in giudicato”.
E però, la pur chiara volontà del legislatore non è bastata a impedire le interpretazioni arbitrarie della Cassazione penale, la quale, pure a fronte del ricorso inammissibile o invalido, talora procede all’annullamento di una sentenza invocando “il supremo interesse della giustizia” o sostenendo che le “verità giuridiche non possono essere coverte dal giudicato”. Parole, queste, che ad avviso del commentatore, “non hanno precisione né delimitazione giuridica”, come del pari l’opinione formulata da V. LANZA circa la persistente rilevabilità della nullità in sede di incidente di esecuzione.
Ammette tuttavia che “per i casi speciali”, non previsti dalla legge, di vizi così essenziali da rendere la sentenza una non-sentenza, possa provvedersi “con altri mezzi ulteriori al giudicato formale … protestando non la annullabilità ma la straordinaria e non legata a termine inesistenza stessa della sentenza”. Spetta alla dottrina identificare la chiave per riconoscerli, oltre ogni indeterminatezza ed elasticità propria delle suggestioni di tipo civilistico o delle teorie sulla mancanza dei presupposti o elementi essenziali della sentenza, quali: la capacità del giudice, l’illegale costituzione e l’incompetenza, gli errori nell’apprezzamento del fatto, rilevabili in appello e in pochi casi mediante la revisione, o gli errori di diritto, la sentenza contraddittoria, il difetto di querela o autorizzazione, gli ultra petita o gli errori di pura procedura.
Solo nel caso del non-giudice (quello privo di giurisdizione) la sentenza non è semplicemente annullabile bensì inesistente e la nullità eccepibile e rilevabile anche in sede di incidente di esecuzione. Qui non si ha in fatto una sentenza: la sentenza in fatto non esiste.
Ancora una volta il pensiero critico dell’Autore verso soluzioni ermeneutiche elastiche, flessibili, perciò incerte, è ispirato dalla costante preoccupazione per la salvaguardia dell’unità e dell’armonia del sistema:
“Si può forse ammettere o lodare codesto dal punto di vista dell’equità … però è sempre una breccia che si apre in un sistema legislativo ben definito scuotendone le fondamenta … pericolosa breccia anche per la difficoltà di un limite. … L’istituto della cassazione verrebbe così svuotato del suo principale contenuto… Non è l’arditezza della proposta che ci spaventa. Nemmeno ci impressiona la marca italiana o tedesca della proposta. La scienza ha confine e marca soltanto per coloro che sono meno degni della disputa scientifica: potremmo essere d’accordo e anzi più arditi nel desiderio di riforme che diano più larga soddisfazione alla giustizia di contro alla formalità del giudicato, ma poiché questo non è e non vuole il sistema legislativo attuale, è dovere dell’interprete e dello studioso di applicarlo secondo la sua precisa e chiara volontà. Gli inconvenienti non si tolgono con sottigliezze e amputazioni incoerenti: ma è meglio che la pratica li riveli nella loro piena corrispondenza con i testi di legge per suggerire oneste e sicure modificazioni”.
Di contro alle pretese esigenze di equità del caso concreto oppone decisamente la forza e il valore del giudicato:
“Non un artificio formale ma una manifesta necessità sociale… senza la quale sarebbe tutto risospinto nell’incertezza”. Si potrà proporre de lege ferenda una diversa disposizione, si potrà costruire un sistema meglio corrispondente alle esigenze del senso popolare di giustizia del momento storico attuale, ma intanto si applichi quello che la legge vuole. E de lege ferenda si intenda un unico sistema coordinato e armonico di disposizioni sul giudicato, le impugnazioni, le nullità, l’esecuzione; non la disordinata proposta di colui che, lasciandosi vincere dall’impressione del particolare iniquo caso concreto, ne pretenda il più pronto rimedio, senza tener conto dei danni che ne verrebbero per altri casi o sotto altri aspetti”.
Conclude, infine, con un severo e profetico monito:
“In uno Stato e in un tempo come il nostro dove è altrettanto facile l’abuso delle autorità quanto la diffidenza del popolo verso di esse, è da preferirsi nelle leggi l’interpretazione più esatta e rigida e far posto alle esigenze dell’equità solo con le dovute riforme legislative”.
Non certamente il mito conservatore dell’intangibilità del giudicato domina, quindi, il pensiero giuridico di Giacomo Matteotti. La rigorosa difesa dei valori della certezza del diritto e della legalità processuale, sulla linea di stretta interpretazione letterale del testo legislativo, viene giustificata dal socialista riformista con il richiamo allo storico verificarsi di ripetuti abusi di autorità, che segnalano il drammatico avvento di un regime autoritario e di una deriva antidemocratica.
2.3. L’analisi condotta nell’ulteriore scritto su “Oggetti di ricorso per cassazione nelle giurisdizioni non ordinarie (militare, marittima, coloniale ecc.). Art. 500 capov°. cpp”[8] appare strettamente e logicamente coerente con le riflessioni svolte sul concetto di sentenza penale, sulla nullita’ assoluta della sentenza e sulla forza del giudicato.
L’art. 500 del codice di rito del 1913, dopo avere delimitato nel primo comma i casi di proponibilità del ricorso per cassazione, stabilisce nel capoverso che “Contro le sentenze di condanna penale di qualsiasi altra autorità, eccetto quelle del Senato costituito in alta corte di giustizia, può essere in ogni tempo proposto il ricorso per difetto di legittima costituzione, incompetenza, od eccesso di potere, qualora non possano essere altrimenti impugnate. Il ricorso non ha effetto sospensivo.”.
Suggerendo una lettura sistematica della disposizione sulla base del rapporto fra regola generale e regola speciale, l’Autore individua i caratteri di una norma generale valida per ogni giurisdizione possibile, essendo riferita a “qualsiasi altra autorità”, cui l’ordinamento processuale attribuisce una funzione suppletiva in difetto di previsioni speciali - “qualora non possano essere altrimenti impugnate” -, peraltro proponibile “in ogni tempo”. E avverte che ciò vale a maggior ragione per le sentenze di quei tribunali speciali costituiti talvolta in Italia in occasione di moti rivoluzionari o lotte civili con la proclamazione dello stato d’assedio e i poteri assoluti delle autorità militari, anch’esse impugnabili senza limite di tempo “per resistere agli arbitrii e abusi della forza”.
In tal modo, per una condivisibile ragione teorica, la regola del ricorso diviene generale e assoluta, estendendosi a tutte le sentenze penali nella loro esistenza oggettiva, quali che siano il soggetto giudicante e le diverse specie di giurisdizione, così che l’applicazione del ricorso per cassazione alle giurisdizioni non ordinarie, “fino allora abbandonate”, diviene reale ed effettiva.
La formula del nuovo art. 500 cpv. risponde inoltre a una esigenza di ordine processuale e materiale, che, posizionando al vertice di tutte le giurisdizioni penali “una unica Corte per la unità del diritto”, assicura il controllo della Cassazione anche sul Tribunale supremo di guerra e marina.
Con questa radicale e argomentata affermazione, Matteotti sembra anticipare il testo del tuttora vigente art. 65 dell’ordinamento giudiziario di cui al r.d. n. 12 del 1941, che attribuisce alla Corte di cassazione, quale organo supremo della giustizia, il ruolo nomofilattico e coerenziatore di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale.
Altrettanto acute sono le sue osservazioni circa la portata delle due sole eccezioni previste dalla citata disposizione:
2.4. Nella ricostruzione del pensiero giuridico dello studioso polesano assumono particolare rilievo le profonde riflessioni svolte nel saggio intitolato “Classificazione degli incidenti di esecuzione”[9], in tema di esecuzione amministrativa delle pene e misure di sicurezza, con peculiare riferimento al rischio di atti arbitrari dell’amministrazione in una fase nella quale il giudice e la giurisdizione sono di regola assenti.
Di fronte alle divergenze e incertezze e ai persistenti difetti metodologici della dottrina nell’esame delle disposizioni di cui agli artt. 548-550 del nuovo codice di rito, nel titolo “Degli incidenti di esecuzione”, avverte innanzitutto che “dove la materia è ancora così greggia come la nostra, l’elaborazione dottrinaria dev’essere più intensa, graduale e attenta”.
Classifica quattro gruppi principali di incidenti di esecuzione, dei quali il primo e il secondo si riportano alla sentenza da eseguire, cui sono di chiarimento o integrazione, mentre il terzo e quarto si riferiscono più propriamente alla legalità della esecuzione e al controllo giurisdizionale del giudice sui limiti legali dell’operato dell’autorità amministrativa. A questa è invero riservato un ampio margine di discrezione nelle modalità della esecuzione di cui “può fare l’uso che vuole e incontrollabilmente”.
Disegna le caratteristiche del rito: la richiesta del pubblico ministero o l’istanza di parte, che non esclude una riforma nel senso della procedibilità talora anche d’ufficio; il contraddittorio nella forma contratta, prevalentemente scritta, che tollera talora la procedibilità de plano nei casi incontroversi; la decisione del giudice dell’esecuzione con ordinanza; il ricorso per cassazione per violazione di legge.
Conclude profeticamente, con uno sguardo rivolto decisamente al controllo giurisdizionale di legalità nei casi di violazione della legge, che nel prossimo avvenire tutti i provvedimenti della esecuzione spetteranno a una “importantissima magistratura fornita di speciali cognizioni, capacità e facoltà”.
Va rimarcato infine che, per le medesime ragioni di principio, un’analoga posizione critica è espressa dallo studioso in un differente scritto riguardante quelle figure della pubblica amministrazione alle quali vengono attribuite dalla legge competenze proprie della giurisdizione penale, come l’Intendente di Finanza[10].
2.5. Nel breve e fulminante saggio intitolato “Il pubblico ministero è parte”[11]Matteotti sostiene con particolare vigore che il pubblico ministero, nel sistema processuale penale e nell’esercizio dei poteri assegnatigli in particolare dagli artt. 1 e 179 cod. proc. pen. del 1913, va decisamente considerato nella sostanza come “parte”, questa intesa come colui che può far valere o contro il quale è fatta valere la pretesa penale. La tesi è sostenuta in aperto dissenso con l’opposta annotazione recata in proposito della Relazione al Re, per la quale quella del pubblico ministero sarebbe, viceversa, “una posizione più nobile e imparziale al di sopra delle parti”.
L’Autore osserva che indubbiamente il pubblico ministero dispone dell’azione penale per fini superiori di giustizia, per il rispetto e l’osservanza della legge e per un interesse collettivo, pubblico e generale, cioè dello Stato; difende gli interessi della collettività offesa da un reato, e ben può se del caso, alla luce delle prove raccolte, chiedere l’assoluzione dell’imputato o l’esenzione della pena in suo favore.
Ma tutto ciò non rileva ai fini dell’attribuzione della qualità di parte perché sottende soltanto che il contrasto fra pubblico ministero e imputato è “essenzialmente potenziale”: può, ma non deve necessariamente sussistere.
Le norme di procedura confermano la qualità di parte del P.M. o più esattamente la sua qualità di “organo della collettività persecutrice”.
Invero,
“La divisione dei poteri su cui si fondano i moderni regimi costituzionali e la divisione delle funzioni, fra le quali anche la “funzione persecutiva” assegnata “agli organi esecutivi dello Stato”, permettono codesto apparente assurdo di uno Stato che è giudice e parte nel tempo stesso; fino a quando almeno sembreranno sufficienti quelle garanzie d’indipendenza di cui sono circondati gli organi di giustizia … organi sempre più autonomi”.
Il pensiero di Matteotti sulla figura del pubblico ministero, pur senza volere trarne conclusioni sopra le righe, apre scenari inediti e di attuale modernità: dal riconoscimento della piena parità delle posizioni delle parti davanti al giudice terzo, per il corretto equilibrio del rapporto fra accusa e difesa, secondo i principi di quello che oggi si qualifica come “il giusto processo” (art. 111, comma 2, Cost.), alla lettura politica delle differenti forme della unità della magistratura, nella comune cultura della giurisdizione, o della separazione – solo delle funzioni o anche delle carriere – fra i diversi organi statuali del pubblico ministero e del giudice.
3. Il pensiero e l’azione di Giacomo Matteotti fra diritto e politica
Dalla lettura dei saggi sopra richiamati emergono con chiarezza le linee caratteristiche del metodo di lavoro del fine cultore della procedura penale.
Contro ogni definizione aprioristica e autoreferenziale Matteotti oppone l’analisi empirica, prevalentemente di tipo induttivo, sostenuta dal riferimento a dati e fatti concreti. Le singole disposizioni codicistiche vengono di volta in volta investigate e destrutturate con intransigente rigore antidogmatico e antiformalista e con originalità di visione. Spesso in dissenso non solo con le varie Scuole, classica o positivista o del socialismo giuridico, ma anche con talune soluzioni formulate dalla giurisprudenza di legittimità, la lettura delle norme risponde a una logica coerente di ricomposizione e ristrutturazione del sistema processuale da ricondurre ad armonica e organica unità. Prevale sempre l’attitudine sistematica dell’interprete contro gli eccessi del tecnicismo giuridico[12] imputati soprattutto a Vincenzo Manzini, in rigorosa difesa dell’autonomia scientifica della procedura penale rispetto alle tradizionali categorie del diritto processuale civile o delle allora dominanti correnti germaniche.
In stretta contiguità storico-concettuale con gli studi di Piero CALAMANDREI su La Cassazione civile, pubblicati nel 1920, si fa inoltre strada l’ambizioso disegno del giurista polesano (confessato nella fitta corrispondenza con la moglie Velia Titta[13]) di percorrere la strada parallela di un approfondimento in due volumi della ricerca e degli studi intorno al ruolo e alla funzione della Cassazione penale, vertice indiscusso della relativa giurisdizione. Il che lascia pure immaginare che, se fosse vissuto più a lungo, Giacomo Matteotti sarebbe stato non solo un protagonista della vita politica nazionale nel dopoguerra ma anche, insieme con Piero Calamandrei, fra i più nobili padri costituenti dell’Italia repubblicana, con particolare riguardo alla dibattuta redazione del Titolo IV della Costituzione su “La Magistratura”.
Alla luce dell’eccezionale contributo dato agli sviluppi del pensiero giuridico dell’epoca, Matteotti è stato giustamente definito “autorevole rappresentante del riformismo penale europeo”[14]. E però, la sua ricca e complessa personalità di uomo di raffinata cultura (anche extragiuridica) a tutto tondo e di intransigente spirito dialettico, rende davvero ardua, se non erronea, l’operazione concettuale di tenere distinta la figura del politico da quella del giurista e di perimetrare due differenti stagioni della sua attività, l’una del socialista riformista e l’altra del giurista.
L’esaltazione dei valori liberali della legalità del diritto e della procedura, meglio assicurati dall’auspicata armonia e unità del sistema di giustizia penale e dalla tendenziale certezza e uniformità delle applicazioni giurisprudenziali, e la valorizzazione del ruolo coerenziatore e della funzione nomofilattica della Cassazione penale, non sembrano affatto in contraddizione, bensì si coniugano e s’intrecciano con gli accenti profondamente drammatici – e tutti politici - della lettera di risposta a Luigi Lucchini del 10 maggio 1924, appena un mese prima della sua uccisione per mano fascista.
Al Maestro che (forse per proteggerlo dalle ritorsioni già minacciate nei suoi confronti) lo invitava a riprendere la prestigiosa carriera universitaria, Giacomo Matteotti, eletto ancora una volta deputato nelle file del socialismo riformista di Filippo Turati, replica che, per necessità, si è dovuto distaccare dagli “studi prediletti e abbandonati” ormai da qualche anno, per rispondere al “dovere” morale di situarsi “al posto più pericoloso”, quello centrale della democrazia rappresentativa in Parlamento, per “difendere i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna”, cioè lo Stato di diritto contro l’arbitrio del regime fascista[15].
Nobile e drammatica testimonianza, questa, dell’aspra resistenza diretta a tracciare, talora in perfetta solitudine, i confini legali del Potere esecutivo, nel contesto della incombente minaccia di una assoluta compressione delle libertà individuali, politiche, sindacali e di pensiero[16].
L’audacia innovativa e antiformalista verso un più moderno, giusto e civile sistema di giustizia penale s’accompagna costantemente con l’esigenza di tenere fermo il pur insufficiente ordinamento liberale dell’epoca, nella triste e talora solitaria consapevolezza dell’avanzare della minaccia di un nuovo e illiberale ordine statuale. In una sofferta e inquieta contingenza fatta di contraddizioni giuridiche, morali e politiche, fra modernizzazione e stabilità e fra arbitrio e legalità democratica, l’appassionato socialista riformista convive, di necessità, con l’ideologia liberale, schierandosi senza esitazione a difesa dei residui spazi di legalità penale e processuale.
Leonardo SCIASCIA, con la sua acuta sensibilità, coglie l’importanza della figura di Giacomo Matteotti nella storia nazionale e il senso profondo della complessità della sua opera, laddove, in Porte aperte[17], nel dialogo fra il piccolo giudice e il procuratore generale, questi afferma che “Matteotti era stato considerato tra gli oppositori del fascismo il più implacabile, non perché parlava in nome del socialismo … ma perché parlava in nome del diritto. Del [terribile] diritto penale”.
4. Il delitto Matteotti
Al termine del discorso tenuto alla Camera il 30 maggio 1924 su preciso incarico di Turati, nel corso del quale, nella veste di segretario del Partito socialista unitario d’ispirazione riformista, aveva accusato il partito fascista e lo stesso Mussolini di avere stravolto la libertà di voto dei cittadini nelle recenti elezioni politiche del 6 aprile mediante brogli e inauditi atti di violenza fisica e morale, Matteotti rivolse al compagno di partito Giovanni Cosattini, seduto accanto a lui, e indirettamente ai compagni del suo partito e della lacerata sinistra parlamentare, la seguente frase, che ne evidenziava il coraggio e però anche il progressivo e rischioso isolamento fisico e politico: «Io, il mio discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”[18].
Dopo pochi giorni, infatti, un gruppo di squadristi, ex arditi di guerra, composto da Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo, appartenenti alla cosiddetta Ceka, un corpo speciale agli ordini della gerarchia fascista e del capo della polizia Emilio De Bono, nel pomeriggio del 10 giugno 1924, sequestra dopo una breve colluttazione Giacomo Matteotti mentre sta camminando sul Lungotevere Arnaldo di Brescia. La vittima, caricata a forza a bordo di una Lancia Kappa nera, viene subito dopo accoltellata al torace e muore per dissanguamento. Il cadavere verrà ritrovato il 16 agosto 1924 da un brigadiere nella Macchia della Quartarella in territorio del comune di Fiano, a venti chilometri circa da Roma[19].
5. Il processo, rectius i processi, per il delitto Matteotti.
5.1. Al pronto arresto degli uomini della Ceka, favorito da una serie di testimonianze oculari del rapimento, segue l’istruttoria per il sequestro e il barbaro assassinio. Questa, avocata dalla Procura Generale, viene affidata al presidente della Sezione d’Accusa della Corte d’appello di Roma, Mauro Del Giudice[20], al quale viene affiancato il sostituto procuratore Guglielmo Tancredi. Anzi, fu lo stesso Del Giudice, nonostante il tentativo di dissuasione del primo presidente della Corte, ad autoassegnarsi coraggiosamente l’inchiesta invece di affidarla al consigliere anziano della Sezione, che egli riteneva «contagiato da lue fascista».
Come avvenne per altri magistrati scomodi, non allineati o definiti “incompatibili” che per l’imparzialità dimostrata, talora anche a fronte di atti di violenza, si erano caratterizzati per doti non gradite di intransigenza e d’indipendenza, Del Giudice venne rimosso dall'incarico attraverso una promozione, che lo costringerà a lasciare il suo ufficio alla volta di Catania, per poi essere mandato forzatamente in pensione.
Sono note le vicende successive.
Dopo il rinvio a giudizio dinanzi alla Corte d’assise di Roma (Sez. Istr. App., sent. 1/12/1925) di Dumini e altri con l’accusa di omicidio aggravato, esclusa la premeditazione, venne disposta la rimessione del giudizio alla Corte d’assise di Chieti da parte della Corte di cassazione, su istanza del P.G. presso la Corte d’appello di Roma, per gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica (Cass., sez. I, 21/12/1925).
Il giudizio di merito in primo grado venne celebrato a Chieti, in assenza della parte civile essendosi i familiari di Matteotti ritirati dal processo. Gli imputati Dumini, Volpi e Poveromo, difesi dall’Avv. Roberto Farinacci, segretario nazionale del Partito nazionale fascista, vennero dichiarati colpevoli del delitto di omicidio preterintenzionale e condannati, con le attenuanti generiche, alla pena di anni 5 mesi 11 e giorni 20 di reclusione, di cui condonati 4 anni ex r.d. n. 1276/1925, mentre i coimputati Viola e Malacria vennero assolti (Ass. Chieti, sent. 24/3/1926, non impugnata e irrevocabile).
Nello stesso tempo la Commissione permanente istruttoria dell’Alta Corte di Giustizia presso il Senato, con sentenza del 12 giugno 1925, dichiarava non doversi procedere nei confronti del Sen. Emilio De Bono, già capo della polizia, in ordine alle accuse di complicità o favoreggiamento mosse nei suoi confronti per il rapimento e l’uccisione di Matteotti.
5.2. Dopo la caduta del fascismo, il processo Matteotti viene riaperto alla luce dell’art. 6, comma 4, del d.lgs. 27 luglio 1944, n. 159, che consentiva all’Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo di chiedere alla Corte di cassazione, sezione speciale, la dichiarazione di inesistenza giuridica delle sentenze penali irrevocabili, istruttorie o pronunciate nel giudizio, e la riapertura dell’istruttoria e del giudizio, sulla base di due presupposti: l’indole del delitto, commesso per motivi fascisti, e la influenza esercitata sulla decisione da uno stato di morale coercizione determinato dal fascismo.
Espletate le indagini preliminari in merito alla verosimile sussistenza dei due presupposti e quindi alla verifica positiva circa l’ammissibilità della procedura - assimilabile per analogia alla revisione -, la Corte di cassazione penale, sezione Seconda speciale, riconosceva la consistenza e la rilevanza delle prove a sostegno non solo dell’indole del delitto Matteotti commesso per motivi fascisti, ma anche della effettiva influenza esercitata sulla decisione da uno stato di morale coercizione esercitata dal fascismo. Deponevano decisamente in tal senso le chiare e incisive dichiarazioni rese dai magistrati a riposo Mauro Del Giudice e Filippo Occhiuto, in merito alle indebite e gravi ingerenze del governo e del partito fascista per deviare il normale svolgimento del processo e far prevalere soluzioni conformi agli interessi di parte e non a quelli superiori di giustizia. In particolare, viene definita “notevole e impressionante” la deposizione di Del Giudice, il quale, oltre le lusinghe e le pressioni subite durante l’istruzione del processo, aveva messo in luce le manovre usate per allontanarlo dal posto di presidente della sezione di accusa, di fronte alla adamantina fermezza con cui resistette agli allettamenti e alle minacce. Come pure viene considerata importante la dichiarazione resa da tale Salvatore Girgenti circa le confidenze ricevute dal P.G. Salucci in ordine alle benemerenze politiche acquisite per i suoi interventi nel processo Matteotti favorevoli al regime.
Ad avviso del P.G. requirente la dichiarazione d’inesistenza giuridica, oltre a conformarsi alle condizioni di legge, “risponde anche ad imperiose esigenze di giustizia e viene a rimuovere l’ostacolo perché’ il magistero punitivo abbia finalmente libera esplicazione in relazione a un delitto che tanta commozione e indignazione destò in tutto il mondo civile”.
La Corte, con sentenza del 6 novembre 1944 (Pres. rel. De Ficchy)[21], fatte proprie tutte le argomentazioni della requisitoria scritta del P.G. Battaglini, dichiarava “giuridicamente inesistenti” le sentenze, sia quella istruttoria della Sezione d’accusa App. Roma dell’ 1 dicembre 1925 che quella di merito della Corte di assise di Chieti del 24 marzo 1926, disponendo la rimessione degli atti al P.G. della Corte di appello di Roma per la riapertura dell’istruttoria e per il rinnovato giudizio a carico di Dumini e altri.
All’esito del nuovo processo gli imputati sopravvissuti - Dumini, Viola e Poveromo - vennero condannati nel 1947 all’ergastolo, commutato in trenta anni di reclusione. Poveromo morì in carcere a Parma nel 1952; Dumini ottenne la grazia e venne definitivamente liberato il 23 marzo 1956 per poi morire a Roma il giorno di Natale del 1967[22].
A Mussolini, il quale aveva implicitamente rivendicato l’uccisione di Matteotti nel noto e arrogante discorso tenuto alla Camera il 3 gennaio 1925, viene imputata la correità nel sequestro e nell’omicidio, cui si aggiungono la costituzione della Ceka e le numerose spedizioni punitive compiute dal gruppo omicida, di cui viene riconosciuto come mandante[23].
6. Una metafora del Potere
Al termine di questa pur breve disamina degli eventi che hanno caratterizzato i processi per il delitto Matteotti risulta impressionante la divaricazione dei descritti esiti giudiziari rispetto alle categorie liberali e garantiste del pensiero giuridico di Giacomo Matteotti intorno al diritto processuale penale, ispirate – come si è visto – alla più stretta legalità delle regole e delle forme del procedere, senza cedimento alcuno alle soluzioni arbitrarie dettate da asserite “imperiose esigenze di giustizia” sostanziale.
A ben vedere, tanto la sentenza istruttoria quanto la sentenza di merito della Corte di assise di Chieti, nonostante l’accertato condizionamento del magistero inquirente e punitivo ad opera di uomini e servizi del fascismo, non erano in fatto una “non sentenza”, ne’ erano state emesse da un “non giudice”, per cui non poteva essere legittimamente invocata la fattispecie straordinaria della inesistenza giuridica della sentenza, con il conseguente venir meno della irrevocabilità della cosa giudicata.
In realtà, appare evidente che fu esclusivamente la caduta del regime fascista e l’avvento di quello democratico a legittimare il rovesciamento di quello che, quanto al delitto Matteotti, era (e tale ben poteva restare) l’inesorabile giudizio “storico-politico” di condanna del fascismo e dei suoi capi in un rinnovato, forse più debole, giudizio stavolta di fonte “giudiziaria”, che era peraltro conseguito a una eccentrica e incostituzionale procedura di revisione del giudicato di condanna contra reum.
Una metafora del Potere, dunque, che per conseguire i suoi fini, talora spregevoli o talora anche nobili come in questo caso, mostra di non esitare a impiegare – e piegare - lo strumento “terribile” del diritto e della procedura penale, sovvertendone, ove lo ritenga occorrente, i principi liberali e il sistema di garanzie.
[1] G. MATTEOTTI, La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici (dedicato alla memoria del fratello Matteo), F.lli Bocca, 2010. Per un’attenta analisi del saggio, cons. D. CASTRONUOVO, La concezione della recidiva in Giacomo Matteotti, in Giacomo Matteotti fra diritto e politica, a cura di D. Negri, Cierre Edizioni, 2022, p. 33 ss.: A. GARGANI, La visione socio-criminologica della recidiva nel pensiero di Giacomo Matteotti, in L’Indice penale, V, 1 (2002), p. 1247 s.
[2] M.N. MILETTI, Un processo per la terza Italia. Il codice di procedura penale del 1913, I, L’attesa, Giuffrè, 2003.
[3] S. CARETTI, Introduzione, in G. Matteotti. Scritti giuridici, a cura di S. Caretti, I, Pisa, 2003, p. 7 ss.; G. VASSALLI, Presentazione, ivi, p. 29 ss.; L. MASCILLI MIGLIORINI, La formazione giuridica di Giacomo Matteotti, in Ricerche storiche, VIII, n. 3, 1978, p. 730; C. CARINI, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Olschki, Firenze, 1984; A. GARGANI, Il sistema penale tra tradizione liberale e positivismo (a proposito degli Scritti giuridici di Giacomo Matteotti), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 32 (2004), p. 555; P. MARCHETTI, voce Matteotti, Giacomo, in Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, a cura di I. Birocchi e altri, II, Bologna, 2013, p. 1307 ss. Da ultimo, D. CASTRONUOVO, op. loc. cit.
[4] D. NEGRI, Giacomo Matteotti custode della legalità processuale contro l’arbitrio del potere, in Giacomo Matteotti fra diritto e politica, cit., p. 47 ss.
[5] Riv. pen., 1918, vol. LXXXVIII, p. 206 ss. e 353 ss.
[6] Riv. dir. proc. pen., 1917, I, p. 315 ss.
[7] Art. 136. La osservanza delle disposizioni che concernono la costituzione del giudice, l'intervento e la rappresentanza del pubblico ministero, l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato, nei casi e nelle forme che la legge stabilisce, si intende sempre prescritta a pena di nullità. Tale nullità non può essere sanata in alcun modo, può essere dedotta in ogni stato e grado del procedimento e deve anche essere pronunciata di ufficio.
[8] Riv. pen., 1918, V, 2° Suppl., p. 206 ss.
[9] Riv. dir. proc. pen., 1919, I, p. 114 ss.
[10] G. MATTEOTTI, Dalla critica alla ricostruzione (a proposito dell’Intendente di finanza improvvisato giudice penale), in Riv. dir. e proc. pen., 1918, I, p. 396 ss.
[11] Riv. pen., 1919, XC, p. 346 ss.
[12] Cons. G. MATTEOTTI, Rendiconti analitici (recensione favorevole all’opera di G. Sabatini, Principi di scienza del diritto penale, in Riv. dir. e proc. pen., 1919, p. 154 ss.
[13] C. CARINI, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Firenze, 1984, p. 81.
[14] M. PIFFERI, Giacomo Matteotti e il riformismo penale europeo, in Giacomo Matteotti fra diritto e politica, cit., p. 13 ss.
[15] La lettera a L. Lucchini è pubblicata in Rivista penale, 1924, p. 102. Sottolinea il fermo ancoraggio del pensiero di Matteotti al principio di legalità D. NEGRI, Giacomo Matteotti custode della legalità processuale contro l’arbitrio del potere, cit., p. 58.
[16] Per una recente rivisitazione e valorizzazione del pensiero e dell’azione politica del socialista riformista polesano, cons. M.L. SALVADORI, L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Donzelli Editore, 2023. V. anche P. VERONESI, Giacomo Matteotti, i fatti e le idee dal Polesine al Parlamento, in Giacomo Matteotti fra diritto e politica, cit., p. 69 ss.; G. ROMANATO, Conclusioni, ivi, p. 151 ss.; G. ROMANATO, Un italiano diverso. Giacomo Matteotti, Longanesi, 2011.
[17] L. SCIASCIA, Porte aperte, Adelphi, 1987, p. 16. Il passo è menzionato da D. CASTRONUOVO, La concezione della recidiva in Giacomo Matteotti, cit., p. 43.
[18] La frase è riportata da E. LUSSU, Marcia su Roma e dintorni, Einaudi, 1965, p. 154. Secondo M. CANALI, Il delitto Matteotti: affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Il Mulino, 1997, sarebbe altrettanto probabile che Mussolini tema un attacco sulla vicenda legata alla stipulazione della convenzione con la Sinclair Oil, una società petrolifera americana che, nel maggio 1924, acquista oltre 100 mila ettari di terreni italiani. Matteotti scrive sulla questione un lungo articolo (“Machiavelli, Mussolini e il fascismo”) che la rivista britannica English Life pubblica a luglio, dopo il suo assassinio, in cui prospetta la tesi che la convenzione con la Sinclair nasconda pratiche di corruttela a favore di alti funzionari del regime per finanziare i propri giornali.
[19] G. SABBATUCCI, 1924. Il delitto Matteotti, tratto da Novecento italiano, Laterza, 2012; G. TAMBURRANO, Giacomo Matteotti. Storia di un doppio assassinio, Utet, 2004.
[20] Il materiale istruttorio raccolto da Del Giudice è custodito nell'Archivio Centrale dello Stato, ma non è stato consultabile fino al 2004. Per un ritratto di Del Giudice si veda Il magistrato che fece tremare il Duce: Mauro Del Giudice. Memorie e Cronistoria del processo Matteotti”, a cura di Teresa Maria Rauzino, by Amazon, 2022. Cons. anche P. SERRAO, La legalità del male, in Quest. giust., 22 novembre 2018. Nel film Il delitto Matteotti, regia di Florestano Vancini (1973), la figura di Mauro Del Giudice è interpretata da Vittorio De Sica.
[21] Foro it., 1944-46, II, p. 25 ss.
[22] G. MAYDA, Il pugnale di Mussolini. Storia di Amerigo Dumini, sicario di Matteotti, Bologna, Il Mulino 2004.
[23] Per M. CANALI, Il delitto Matteotti, Il Mulino, 2015, le responsabilità addebitate a Rossi e Marinelli per l’organizzazione del delitto, a De Bono e Finzi per intralcio alle indagini e occultamento di prove, vanno estese anche a Mussolini. Nel periodo della detenzione, della latitanza e negli anni successivi Mussolini fa versare consistenti somme di denaro ai sicari autori dell’omicidio per comprarne il silenzio. Secondo CANALI alcune lettere scritte da Dumini al suo avvocato non lasciano dubbi sul coinvolgimento di Mussolini. Lo squadrista toscano si considera un esecutore di ordini pervenutigli dal capo tramite Rossi e Marinelli per «un delitto da noi commesso – certamente – ma che ci fu imposto e che noi eseguimmo – come tanti altri prima di quello – con cieca disciplina e dopo che ci fu garantita in modo assoluto qualsiasi immunità penale».
(Contributo già apparso su Sistema Penale a gennaio 2024 https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/canzio-giacomo-matteotti-il-giurista e qui ripubblicato con il consenso dell'autore, che ringraziamo.)
Il cigno verde e la separazione dei poteri (nota a sentenza Tribunale civile di Roma del , sez. II, causa n. 39415 del 2021)
di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. La vicenda contenziosa. – 2. Alcuni antecedenti giurisprudenziali e talune premesse culturali. – 3. Quale situazione giuridica è agita nel contenzioso climatico? – 4. Spunti conclusivi sul giudice.
1. La vicenda contenziosa
Deve prevalere un concetto di verità “forte”, in quanto “naturale”, ossia composta delle sue cinque classiche qualità epistemiche (corrispondenza, rivelazione, conformità, coerenza e utilità) scopribili attraverso protocolli scientifici, oppure una verità “debole”, perché soltanto “istituzionale”, ossia frutto dell’ermeneutica giuridica che inquadra tutti i fatti come interpretazioni e reputa insindacabile l’interpretazione fornita dal potere, quando questo è legittimato democraticamente?[1] Il giudice è custode dei “principi”, nonostante le “leggi di natura” e la scienza, o delle “garanzie”, grazie anche alle “leggi di natura” e alle scoperte scientifiche sulla sopravvivenza umana?[2] E ancora: le leggi di natura possono condizionare, come parametro di validità, le previsioni normative, interponendosi la predizione scientifica come parametro di legalità cui il giudice soggiace secondo una logica di legalità di risultato e di anticipatory regulation?[3]
Tali capitali domande, sottese alla sentenza del Tribunale civile di Roma qui in commento, dimostrano quanto essa fosse attesa, non solo fra gli addetti ai lavori, e quanti fronti di interesse essa sottende, in tutte le scienze sociali[4]. Già la denominazione enfatica del caso, “Giudizio universale”, la dice lunga sul carattere storico della pronuncia.
I numerosi ricorrenti sono costituiti da alcune organizzazioni non-governative, da un ampio numero di individui maggiorenni, da alcuni minori rappresentati in giudizio dai propri genitori. L’obiettivo generale dell’azione giudiziaria è accertare l’inadempimento da parte dello Stato italiano degli obblighi internazionali, europei e domestici in tema di contrasto al cambiamento climatico di origine antropica. Il contenzioso non mira ad ottenere uno specifico strumento legislativo né un risarcimento dei danni.
Quello che si domanda al Tribunale è di ordinare al Governo italiano di ridurre le proprie emissioni di gas a effetto serra del 92% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e di adottare un piano comunicativo efficace in relazione ai rischi connessi al cambiamento climatico e alle politiche di prevenzione e adattamento a tali rischi da questo intraprese.
Il caso, che rappresenta la prima causa climatica in Italia, si colloca sulla scia di importanti sentenze già rese in altri paesi europei.
Basti pensare alla sentenza resa il 20 dicembre 2020 dalla Corte Suprema olandese nel caso Urgenda, in cui la Corte ordina al governo olandese di ridurre urgentemente e significativamente le emissioni in linea con i propri obblighi in materia di diritti umani.
Oppure alla sentenza resa dal Tribunale amministrativo di Parigi del 3 febbraio 2021, con la quale si riconosce una diretta responsabilità omissiva dello Stato francese in relazione agli obiettivi e agli impegni dell’Unione Europea e nazionali in materia di riduzione dei gas a effetto serra.
Vi sono delle differenze di fondo tra questi due precedenti. Mentre infatti con la decisione Urgenda i giudici hanno deciso non alla luce del dato positivo, ma del dato scientifico[5], nella vicenda Affaire du siècle, invece, il giudice amministrativo francese ha deciso sulla base del dato positivo, a cominciare dall’Accordo di Parigi del 2015 e dalla sua attuazione interna[6]. L’approccio human rights based che ha caratterizzato il caso Urgenda non ha avuto quindi la stessa rilevanza nel caso Affaire du siècle. Qui non è stato necessario mettere in luce la contrarietà della condotta dello Stato rispetto agli obblighi di protezione di diritti fondamentali quali la vita[7] e la salute delle persone, in quanto i ricorrenti avevano lamentato che la condotta dello Stato francese fosse in contrasto, prima ancora che con tali previsioni, con la stessa normativa nazionale in materia di lotta al cambiamento climatico, la cui legittimità non era in discussione[8].
Infine, si consideri la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 29 aprile 2021(Neubauer et al. c. Germania), la quale ha ritenuto la legge sul cambiamento climatico (c.d. Klimaschutzgesetz, “KSG” o “Legge sul Clima”) adottata dal governo tedesco nell’ottobre del 2019 come inadeguata a raggiungere gli obiettivi posti dagli obblighi internazionali sulla riduzione di emissioni di gas serra assunti da quest’ultimo.
Insomma, vi erano una serie di precedenti che facevano ritenere in molti che il Tribunale di Roma avrebbe accolto l’istanza di parte attrice[9].
Così non è stato, e in questo senso la posizione restrittiva del Tribunale italiano sembra maggiormente avvicinarsi, con le debite differenze del caso, alla recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale ha ritenuto lo Stato francese non responsabile per la non piena attuazione delle direttive sulla qualità dell’aria, in quanto le direttive perseguono gli obiettivi della tutela della salute e dell’ambiente e, pertanto, non sono in grado di far sorgere diritti differenziati in capo ai cittadini europei[10].
Il giudice ha osservato, infatti, che la domanda risarcitoria ricollegata alla titolarità di un diritto soggettivo (e come tale considerata scrutinabile dal giudice ordinario), per come formulata, è diretta in concreto a chiedere, quale petitum sostanziale, un sindacato sulle modalità di esercizio delle potestà statali previste dalla Costituzione. Sennonché, l’interesse di cui si invoca la tutela risarcitoria ex art. 2043 e 2051 c.c. non rientra nel novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati, in quanto le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico antropogenico - che comportano valutazioni discrezionali di ordine socio-economico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana - rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nel giudizio.
La responsabilità dello Stato sarebbe originata dalle condotte omissive, commissive e provvedimentali del Governo e del Parlamento che non consentirebbero il raggiungimento di obiettivi più ambiziosi rispetto a quelli cui lo Stato si è vincolato. Quelli posti in essere dal Governo e dal Parlamento sono tuttavia atti, provvedimenti e comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico, consistente nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e della politica dello Stato nella delicata e complessa questione del cambiamento climatico antropogenico. Le censure mosse si appuntano sull’azione di indirizzo politico realizzata dai titolari della sovranità statuale in ordine alle concrete modalità con cui stanno contrastando il cambiamento climatico per il raggiungimento degli obiettivi individuati nell’ambito dell’ordinamento eurounitario e internazionale.
Da qui il giudice trae il proprio difetto assoluto di giurisdizione, pur ricordando che la domanda proposta in via subordinata, volta ad ottenere una modifica del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), attenendo alla legittimità dell’atto amministrativo e, comunque, a comportamenti e omissioni riconducibili all’esercizio di poteri pubblici in materia di contrasto al cambiamento climatico antropogenico, è afferente alla giurisdizione amministrativa generale di legittimità.
2. Alcuni antecedenti giurisprudenziali e talune premesse culturali
Riassumendo: il Tribunale di Roma respinge con tali secche argomentazioni tre punti essenziali di attacco su cui si fondava la strategia degli attori.
Da un lato l’azione rappresenta un tipico esempio di lite strategica, sulla falsariga del già menzionato caso Urgenda. Vi è poi l’aspetto ambientale, basato per lo più sulla violazione del diritto internazionale del clima e delle norme che ne hanno dato attuazione sia sul piano comunitario che sul piano interno. Infine, vi è l’aspetto puramente civilistico, per cui si reclama la responsabilità extracontrattuale dello Stato italiano (ex art. 2043 c.c.) per non aver rispettato obblighi di prevenzione di danni in situazioni di ‘minaccia urgente’; minaccia, secondo i ricorrenti, comprovata ampiamente dalla scienza.
Un altro aspetto interessante riguarda proprio il rapporto fra scienza e autonomia della politica. I ricorrenti, in linea con questo tipo di contenzioso, rimarcano come la politica debba agire secondo quelle che sono le più autorevoli indicazioni scientifiche in materia di cambiamento climatico (a livello internazionale si considerino i rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change), da cui discende anche un obbligo di informare correttamente i cittadini circa l’attuazione dei piani nazionali (cd. ‘riserva di scienza’), obbligo recepito dal diritto internazionale ambientale nonché dalla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale italiana[11].
Invero, la strategia dei ricorrenti, non si fondava solo su importanti precedenti in altri Stati, anche di civil law.
Essa ha come base una importante corrente dottrinale[12] fondata su alcuni snodi essenziali. La premessa è che viviamo un’emergenza sia ecosistemica che climatica, aggravata dall’urgenza del necessario abbandono di qualsiasi opzione di transizione energetica ancora fossile, perché ormai «minacciosa» essa stessa.
In tale contesto, i contenuti dell’obbligazione climatica, tracciati primariamente a livello internazionale dal Preambolo e dai primi quattro articoli dell’UNFCCC[13], sono self-executing e integrabili con fattispecie tipiche già disciplinate dai singoli ordinamenti (come, per es., l’art. 2051 c.c. sulla «custodia di cose», non a caso richiamato dalle parti attrici della causa “Giudizio Universale”).
Quindi la tipizzazione resta tutta di matrice internazionale, integrandosi, in ragione della relazione di specialità dell’UNFCCC con le fonti degli Stati, con gli istituti interni compatibili con quella ratio. Si spiega in questo modo il ricorso, nelle c.d. climate change litigation, alle categorie del tort e dell’illecito extracontrattuale. Esse rivendicano il principio del neminem laedere come norma generale interna/esterna, espressiva di un principio di diritto internazionale umanitario, e in secondo luogo ricorrono ancora a esso come regola di responsabilità, non derogabile da nessun genere di diposizione interna[14].
In questo approccio il principio di riserva di scienza ha delle ricadute inevitabili sul piano dei poteri del giudice e dei rapporti di quest’ultimo con l’amministrazione[15], la legislazione e la stessa scienza. In buona sostanza, la discrezionalità politica viene ritenuta pienamente sindacabile nel modo in cui utilizza le conoscenze scientifiche istituzionalizzate dall’UNFCCC[16]; quanto alla cognizione del giudice, il principio ha delle evidenti ricadute con riguardo all’individuazione dei fatti notori (art. 115 c.p.c.) e di quelli non contestabili[17].
La sentenza del Tribunale di Roma si distacca da questo paradigma teorico, non solo nella misura in cui invoca il rispetto della discrezionalità politica e del principio di separazione dei poteri, ma anche ove lamenta la mancanza delle informazioni necessarie per l’accertamento della correttezza delle complesse decisioni prese dal Parlamento e dal Governo.
3. Quale situazione giuridica è agita nel contenzioso climatico?
È accettabile questo self restaint giudiziale? O, al contrario, lo Stato di eccezione permanente che viviamo, col picco del Covid-2019, autorizza severe deroghe ai principi cardine dello Stato di diritto, su tutti quello di separazione dei poteri[18], mercé la riserva di scienza?
Forse si dovrebbe tornare a riflettere sui fondamenti, e in particolare sul rapporto fra giurisdizione e teorica delle situazioni soggettive. Una suggestione in tal senso ci viene proprio dalla sentenza del Tribunale di Roma, che per un verso in maniera condivisibile si dichiara sfornito di giurisdizione di fronte alle immani questioni poste dal “cigno verde” (sono state individuate ben ventiquattro co-emergenze fra loro interdipendenti, fra le quali la «sesta estinzione di massa» e il possibile collasso degli ecosistemi nel 2030[19]), per altro verso individua un margine di intervento – più modesto ma forse più efficace – in capo al giudice amministrativo, rispetto a un atto di pianificazione generale quale il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima.
Quando parlo di teorica delle situazioni soggettive lo faccio all’interno di un discorso che non vuole toccare il tema, altrettanto spinoso, delle condizioni legittimanti e dell’interesse all’azione. Sul punto nella nostra dottrina è in corso un fecondo dibattito, con diverse opinioni, più o meno favorevoli a un’estensione della legittimazione per via del recupero della teorica astratta dell’azione o di una valorizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale in chiave di standing processuale[20].
Mi limito ad osservare come il tema è spesso filtrato, o forse inquinato, dal profilo dell’insindacabilità delle scelte politiche di Governo e Parlamento sul punto, a sua volta collegato (e confuso) col tema del controllo giudiziale sull’atto politico. Non è un caso che il Tribunale di Roma preferisca atterrare sul tema del difetto assoluto di giurisdizione, piuttosto che soffermarsi su possibili dichiarazioni di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione o per sussistenza dell’atto politico.
Anche a mio avviso queste ultime due questioni sono dei falsi problemi[21], perché comunque rifrazioni del nucleo duro costituito dalla riserva di scienza e dal suo rapporto potenzialmente destabilizzante e dirompente rispetto all’acciaccato principio di separazione dei poteri. A meno di non prenderne in prestito aspetti euristici utili e interessanti, come quello che guarda alla teoria dell’atto politico come modalità – scettica e storicista, come in un filone delle origini francesi della teoria – di indagine sui rapporti mobili tra giudice, politica e amministrazione[22].
Il Tribunale di Roma, in ogni caso, evidenzia la sommatoria di due lacune connesse: la mancanza nel caso di specie di interessi soggettivi giuridicamente tutelati, in quanto le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nel giudizio. Insomma: l’eccesso di potere giurisdizionale ai danni del legislatore e dell’amministrazione si coniuga qui al il difetto assoluto di giurisdizione per radicale assenza di una posizione giuridica soggettiva meritevole di tutela da parte di qualsiasi giudice[23]. Nonostante la sentenza parli di difetto assoluto di giurisdizione, in realtà essa si riferisce più propriamente all’eccesso di potere giurisdizionale, categoria di più rara frequenza statistica ma meno soggetta a rilievi critici rispetto al difetto assoluto di giurisdizione[24].
Il punto è, quindi, se muoverci in una tradizionale ottica individualista o assumere una diversa prospettiva rispetto al problema.
Anche le più avanzate e coraggiose tesi sulla tutela climatica talora restano intrappolate nella prima, più rassicurante, logica.
Sul punto esistono molte impostazioni sul campo[25]: il diritto alla natura, il diritto della natura, il diritto al clima, la natura come patrimonio comune, la public trust doctrine. Non è questa la sede per approfondirle tutte, ma posso dire di essere dell’idea che anche le più raffinate elaborazioni soggettivistiche, come quella del diritto al clima[26], scontano la crisi della tirannia del diritto[27] e perpetuano una visione antropocentrica del problema.
Contro questa impostazione si è osservato che la diversa narrazione del clima come “bene comune” o “Global Common”, ha portato ad affrontare la classica “tragedia” dell’utilizzo comune senza danni reciproci. Non ci sarebbe più spazio per nessuna inerzia: l’unica tragedia all’orizzonte sarebbe quella «dell’orizzonte temporale», e semmai si dovrebbe aprire ad orizzonti deliberativi e di gestione “comune” in tema di energia e beni vitali da cui la stabilità climatica dipende[28].
Il giudice della sentenza qui in commento non ha evidentemente seguito questa linea, sia pure nel ristretto rigore delle aule e delle “carte” processuali, che solo fino a un certo punto possono riecheggiare le altezze della speculazione teorica. Ma c’è una certa saggezza in questa autolimitazione giudiziale, da non leggere solo in una difesa conservativa e di retroguardia della separazione dei poteri[29].
Forse, dunque, c’è qualcosa d’altro.
È stato osservato[30] che l’idea dell’ambiente come patrimonio collettivo comune, terreno di incontro tra diritto alla natura e diritto della natura, mette al centro la teoria dei doveri, che a sua volta rafforza la dimensione pubblicistica della problematica ambientale[31]. In questo senso, la criticità non sta solo nel profilo dello spostamento delle competenze dalla politica alla giurisdizione[32], ma anche nel senso di collocare le decisioni fondamentali sui complessi rapporti tra ambiente, economia e società fuori dalla mediazione politica ed entro un campo essenzialmente sofocratico, giudice o scienziato che sia[33].
4. Spunti conclusivi sul giudice
Questa sentenza non è evidentemente un punto di arrivo, ma di partenza.
Guarda al passato, ma talora può esser sano un approccio di questo genere, anche se non può portarci a dimenticare la prospettiva disastrosa del “cigno verde”, per riprendere l'immagine suggestiva utilizzata dalla Banca dei regolamenti internazionali per indicare i rischi provenienti dal climate change in relazione alla stabilità finanziaria mondiale[34].
In questo senso, il richiamo finale nella sentenza al giudice amministrativo e alla sua sfera di cognizione sul potere mi pare interessante.
Mi rendo ben conto che la “microfisica” del giudice speciale e del suo processo è tuttora sottoposta ad attacchi, anche salaci e in più punti condivisibili[35].
Ma qui interessa l’opzione teorica di fondo che sembra sottesa al passaggio finale della sentenza del Tribunale civile di Roma.
L’idea mi pare evocare l’applicazione della tecnica del bilanciamento[36], ormai intrinseca alla logica del diritto fondamentale, come sappiamo sin dalla sentenza sull’Ilva di Taranto del 2013 della Consulta, sentenza non a caso definita schmittiana[37], confermata poi dalla giurisprudenza del tempo pandemico. In buona sostanza, emergenze e criticità talmente gravi da mettere in pericolo un assetto sociale impongono di disporre in una scala discendente di interessi; esse, inoltre, implicano unità e prontezza di decisione e valorizzazione di doveri e responsabilità. Insomma, si pongono nuovamente al centro della scena i doveri inderogabili di cui parla l’art. 2 Cost. Il nostro giudice amministrativo ha riflesso in più occasioni tale posizione, ritenendo che l’interesse privato vada contemperato con quello della collettività a prevenire il diffondersi del virus.
Tutto ciò, peraltro, a fonte della ritenuta inadeguatezza del diritto soggettivo a dar conto di determinate dimensioni di doverosità e responsabilità, sull’onda lunga della categoria, di sempre maggiore dignità teorica, dell’interesse legittimo fondamentale, e della centralità del giudice amministrativo non solo al fine di rendere giustizia al privato, ma sempre più anche come arbitro del dialogo e del confronto tra le amministrazioni e del conflitto di attribuzioni fra enti[38].
In campi come il biodiritto e l’immigrazione, ad esempio, le resistenze del legislatore hanno se possibile accresciuto gli interstizi della normazione secondaria e terziaria, sovente tecnica, e spesso in contrazione di “nuovi” diritti o meglio libertà, con nuovamente accresciuto ruolo del giudice, sempre più mediatore di conflitti cui la politica non vuole o non può accedere. In questi casi il giudice al centro della scena, oltre a quello amministrativo, è anche quello costituzionale, il quale spesso stigmatizza l’inerzia legislativa per lo più nei settori eticamente sensibili, e nel farlo colma la lacuna dettando – sia pure in forma embrionale – la disciplina del procedimento da seguire per erogare le prestazioni costituzionalmente dovute.
Probabilmente anche i climate change litigation attecchiranno presso il giudice amministrativo, specie dopo la sentenza in commento, e magari con più fortuna.
La parabola, quindi, sembra essere tornata alle origini: più amministrazione, meno giudice; mi riferisco evidentemente al giudice civile, non a quello amministrativo e costituzionale, che, come detto, si collocano progressivamente al centro della scena, talora peraltro con una ripartizione dei reciproci confini non sempre agevole (si pensi, ancora, alla giurisprudenza pandemica).
Questo non toglie, comunque, che i limiti tra giudice e legislatore dovrebbero essere fatti salvi anche in questo caso, pena la frantumazione sociale e l’esposizione della stessa giurisprudenza a tentativi di delegittimazione da parte della politica.
Peraltro, proprio il carattere embrionale di queste discipline svela i limiti di effettività della tutela solo giurisdizionale proprio in settori come quello delle crisi ambientali, settori che richiedono il coinvolgimento di altri decisori e chiamano ampiamente in causa il sapere tecnico. Anche le liti strategiche come le climate change litigation, quindi, da un lato segnalano i difetti e le insufficienze delle politiche ambientali, dall’altro non possono consentire che il giudice supplisca a inadeguati contemperamenti di interessi del legislatore e dell’amministrazione[39].
Poteri, questi, che a loro volta devono rispettare il – pur discusso – principio di “riserva di scienza”, in base al quale le evidenze scientifiche giocano ormai un ruolo rilevante nel sottrarre spazi di discrezionalità al decisore.
Sulle modalità con cui ciò deve accadere il dibattito è aperto presso i costituzionalisti, che guardano con interesse alla nostra teoria del procedimento amministrativo per rimediare alle annose criticità di quello legislativo[40].
Ma il tema immane della crisi della politica, e dei suoi meccanismi di funzionamento, non può certo essere oggetto di queste brevi note.
[1] Sulla concezione tarskiana della verità cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. 12, Novara-Roma, 2006.
[2] Su questo dilemma, si pensi ad alcune note contrapposizioni: in ambito giuridico fra Robert Alexy e Luigi Ferrajoli, e, in quello filosofico-sociale, fra Niklas Luhmann e Jürgen Habermas.
[3] G. Campeggio, La causa “Giudizio Universale” e il problema della verità, in www.diritticomparati.it, 21 settembre 2022.
[4] Per un’ampia e recente ricognizione v. AA.VV., Handbook of the Philosophy of Climate Change, ed. G. Pellegrino-M. Di Paola, Cham, 2023.
[5] M. Morvillo, Climate change litigation e separazione dei poteri: riflessioni a partire dal caso Urgenda, in www.forumcostituzionale.it, 28 maggio 2019.
[6] P. Patrito, Cambiamento climatico e responsabilità dei pubblici poteri: aspetti (più o meno) problematici di un recente fenomeno, in Resp. civ. prev., 2023, 1934 ss.
[7] Sulla centralità del diritto alla vita in materia ambientale v. ora M. Monteduro, La tutela della vita come matrice ordinamentale della tutela dell’ambiente (in senso lato e in senso stretto), in Riv. quad. dir. amb., 2022, 423 ss.
[8] L. Del Corona, Brevi considerazioni in tema di contenzioso climatico alla luce della recente sentenza del Tribunal Administratif de Paris sull’“Affaire du siècle”, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, 2021, 333.
[9] Per una ragionata rassegna v. M. Delsignore, Il contenzioso climatico dal 2015 ad oggi, in Giorn. dir. amm., 2022, 265 ss.; AA.VV., Environmental Law Before the Courts. A US-EU Narrative, ed. G. Antonelli, M. Gerrard, S. Colangelo, G. Montedoro, M. Santise, L. Lavrysen, M.V. Ferroni, Cham, 2023. Sull’importanza dei casi giurisprudenziali avvenuti nel Global South v. M. Schirripa,Climate Change Litigation and the Need for ‘Radical Change’, in www.federalismi.it. Si consideri che mentre il presente contributo era in corso di pubblicazione è sopraggiunta la sentenza della Corte Edu, del 9 aprile 2024, con la quale i giudici di Strasburgo hanno dato ragione alle ricorrenti dell’associazione svizzera «Klimaseniorinnen», ovvero «le nonne svizzere» data l’età media over 70, che hanno accusato il governo elvetico di aver violato i loro diritti umani non impegnandosi abbastanza rapidamente per affrontare la «febbre» della Terra. In particolare, la Corte Edu ha stabilito la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, riguardante «il rispetto della vita privata e familiare», ma ha escluso la violazione dell’articolo 2, ovvero «il diritto alla vita». Nella stessa data la Corte Edu è stata chiamata a esprimersi anche sul caso «Duarte Agostinho and Others v. Portugal and 32 Other States», una causa promossa da un gruppo di giovani portoghesi nei confronti di 32 Stati membri dell’Unione Europea (Italia compresa), accusati di non fare abbastanza per ridurre le emissioni. Il loro ricorso è stato dichiarato inammissibile dai giudici di Strasburgo, secondo cui i ricorrenti avrebbero dovuto rivolgersi ai tribunali portoghesi prima di fare ricorso alla Cedu. La stessa sorte è toccata anche al terzo e ultimo contenzioso climatico finito sul tavolo della Corte europea dei diritti dell’uomo. A presentare ricorso in questo caso è stato Damien Carême, ex sindaco di Grande-Synthe, che ha fatto causa alla Francia per non aver agito con abbastanza convinzione ed efficacia per limitare gli effetti dei cambiamenti climatici. La Corte di Strasburgo ha fatto notare però che Carême non vive più in Francia e di conseguenza non può dichiararsi vittima dell’inazione del governo francese.
[10] Corte di Giustizia UE, Grande sezione, 22 dicembre 2022, Causa C-61/21 - J.P. c. Ministre de la Transition écologique e Premier ministre, in Giorn. dir. amm., 2023, con nota di M. Delsignore, Il giudice europeo e il risarcimento del danno per inquinamento dell’aria, la quale, pur criticando la pronuncia, mette in luce la preferibilità di strumenti di public enforcement piuttosto che di private enforcement.
[11] V. ad esempio le sentenze della Corte costituzionale n. 169/2017, n. 338/2003, n. 282/2002.
[12] M. Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), in Dig. disc. pubbl., Agg. 2021, 51 ss.
[13] La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, da cui l'acronimo UNFCCC o FCCC), nota anche come Accordi di Rio.
[14] Cfr. Corte cost. n. 16/1992.
[15] M.F. Cavalcanti, Fonti del diritto e cambiamento climatico: il ruolo dei dati tecnico-scientifici nella giustizia climatica in Europa, in DPCE online, 2/2023. Per una tassonomia dei diversi ruoli svolti e assunti dai giudici rispetto alla scienza (ricostruzione “soggettiva” del giudice, assunzione del parere consolidato all’interno della comunità scientifica, determinazione in concreto del contenuto scientifico di una disposizione legislativa scientificamente indeterminata, utilizzo di una tecnica innovativa a livello medico-scientifico, interpretazione conforme a Costituzione che risulta condizionata dal dato scientifico, self-restraint rispetto alla discrezionalità politica del legislatore, self-restraint a favore di istanze medico-scientifiche), rilevandosi un’inevitabile pluralità di approcci, cfr. S. Penasa, Giudice “Ercole” o giudice “Sisifo”? Gli effetti del dato scientifico sull’esercizio della funzione giurisdizionale in casi scientificamente connotati, in www.forumcostituzionale.it, 17 dicembre 2015.
[16] S. Jasanoff, A World of Experts: Science and Global Environmental Constitutionalism, in B.C. Envtl. Aff. L. Rev., 2, 2013, 439-452.
[17] L. Bergkamp, Adjudicating Scientific Disputes in Climate Science, in Envtl Liability, 2015, 80-102.
[18] M. Ramajoli, Il cambiamento climatico tra Green Deal e Climate Change Litigation, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2021, 53 ss.
[19] M. Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), cit., 62.
[20] Mi permetto di rinviare a G. Tropea, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo: una rassegna critica della letteratura recente, in Dir. proc. amm., 2021, 462 ss.
[21] L. Magi, Giustizia climatica e teoria dell’atto politico: tanto rumore per nulla, in www.osservatoriosulle fonti.it, 2021, 1030 ss. Di contro, tra i primi critici della sentenza del Tribunale di Roma, v’è chi richiama la sentenza n. 81/2012 della Corte costituzionale sull’atto politico. Cfr. L. Cardelli, La sentenza “Giudizio Universale”: una decisione retriva, in www.lacostituzione.info, 11 marzo 2024.
[22] Ribadisco tale idea, da ultimo, in G. Tropea, Teoria e ideologia del controllo giurisdizionale sull’amministrazione, Relazione al Convegno annuale Aipda Lo spazio della pubblica amministrazione. Vecchi territori e nuove frontiere, Napoli, 29-30 settembre 2023, in corso di stampa sull’Annuario Aipda 2023.
[23] Riprendo qui la terminologia dell’attento studio di A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018, 625 ss.
[24] Cfr. M. Mazzamuto, L'eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677 ss.
[25] Si v. l’attento studio di S. Valaguzza, Liti strategiche: il contenzioso climatico salverà il pianeta?, in Dir. proc. amm., 2021, 293 ss.
[26] A. Pisanò, Il diritto al clima. Una prima concettualizzazione, in L’ircocervo, 2021, 261 ss.
[27] R. Bin, Critica della teoria dei diritti, Milano, 2018.
[28] M. Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), cit., 72.
[29] È la garbata critica che (sia pure in una condivisione dei valori e dei temi di fondo, e nella consapevolezza del modo in cui la separazione dei poteri viene declinata, bilanciata, attuata ed accettata in tutte le sue conseguenze) viene avanzata all’importante ultimo libro di M. Luciani da A. Cassatella, Separazione dei poteri, ruolo della scienza giuridica, significato del diritto amministrativo e del suo giudice. Osservazioni a margine di “Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri” di Massimo Luciani, in corso di pubblicazione.
[30] S. Valaguzza, Liti strategiche: il contenzioso climatico salverà il pianeta?, cit.
[31] F. Fracchia, Coronavirus, senso del limite, deglobalizzazione e diritto amministrativo: nulla sarà più come prima?, in www.dirittodelleconomia.it, n. 3/2019, 575 ss.; P. Pantalone, La crisi pandemica dal punto di vista dei doveri, Napoli, 2023.
[32] Così D. Porena, Giustizia climatica e responsabilità intergenerazionale, in www.rivistaaic, 2023, 186 ss.
[33] Aggiungo che questa centralità del giudice, in un contesto eminentemente di soft law quale il diritto internazionale della crisi ecologica, è tipica della de-politicizzazione derivante dal contesto neoliberale che pervade i nostri ordinamenti. In esso a spiccare è il concetto di resilienza, tipico lemma che può facilmente divenire vettore di assestamenti neoliberali, come dimostrano le pionieristiche ricerche sul tema di Crawford Holling. Si v., se si vuole, G. Tropea, Considerazioni sulla rimeditazione delle relazioni giuridiche di diritto amministrativo dopo la pandemia. Il libro di Pasquale Pantalone sulla “Crisi pandemica del punto di vista dei doveri”, in corso di pubblicazione.
[34] Sui rapporti tra crisi ecologica e attività economica di produzione di beni e di servizi per fini ambientali v. ora F. de Leonardis, Lo Stato ecologico, Approccio sistemico, economia, poteri pubblici e mercato, Torino, 2023.
[35] F. Volpe, Un marziano a spasso per il processo amministrativo (divertissement sul non processo), in www.giustiziainsieme.it, 13 marzo 2024.
[36] Sulla teoria del bilanciamento nella crisi ecologica in atto v. M. Monteduro, Le decisioni amministrative nell’era della recessione ecologica, in www.rivistaaic.it, n. 2/2018.
[37] M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Milano, 2023, 58.
[38] G. Tropea, Teoria e ideologia del controllo giurisdizionale sull’amministrazione, cit.
[39] Cfr. C. Tripodina, La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale, in M. Cavino, C. Tripodina (a cura di), La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale: “casi difficili” alla prova, Milano, 2012, 78, la quale, pur riconoscendo la «primazia della decisione legislativa» su quella giurisdizionale, ritiene che «il “buon legislatore” è quello che non si sottrae al dovere di dettare una disciplina sui “casi difficili”, ma sa farlo rimanendo in equilibrio lungo il sottile crinale che gli è imposto dal rispetto di costituzione, scienza, coscienza e corpo».
[40] Cfr., da ultimo, L. Del Corona, Libertà della scienza e politica. Riflessioni sulle valutazioni scientifiche nella prospettiva del diritto costituzionale, Torino, 2022. Sulla produzione di norme attuative del principio di precauzione come archetipo del rapporto tra scienza e tecnica da un lato e fra politica e diritto dall’altro, e come principio procedurale che non oscura la dimensione politico-valutativa del rapporto fra scienza e diritto, v. L. Buffoni-A. Cardone, Il procedimento normativo precauzionale come caso paradigmatico del ravvicinamento “formale-procedurale” delle “fonti” del diritto, in www.osservatoriosullefonti.it, n. 3/2012.
Giustizia Insieme è felice di ospitare oggi un articolo di Federica Ceccaroni, assegnista di ricerca presso l’Università di Pisa con un progetto sul tema dell’ordine del superiore nel diritto penale internazionale, vincitrice della quarta edizione del Premio Giulia Cavallone istituito presso la Fondazione Calamandrei.
Giulia Cavallone era una giovane magistrata che, fino alla sua morte a soli 36 anni, ha prestato servizio presso il Tribunale di Roma, dove ha trattato tra l’altro il processo relativo ai depistaggi nel caso Cucchi, e che prima di entrare in magistratura aveva dedicato ampia parte delle sue energie intellettuali alla ricerca accademica in materia penalistica, con un percorso di ampio respiro internazionale. Aveva infatti effettuato periodi di tirocinio presso Istituzioni europee, vinto borse di studio e svolto periodi di ricerca presso importanti istituti stranieri, fino al dottorato di ricerca in cotutela internazionale tra l’Università La Sapienza di Roma e l’Università Paris II Panthéon Assas di Parigi. La comparazione, lo sguardo rivolto a sé e all’altro con identico rispetto ed attenzione, è lo strumento che Giulia ha scelto, convinta che fosse l’unico utile, nel diritto come nella vita.
Il Premio voluto dalla famiglia Cavallone in memoria di Giulia è un ideale passaggio di testimone ad altre generazioni di giovani ricercatori che, con quello stesso spirito di apertura, intendano inserire nel proprio percorso accademico un periodo presso università o istituti di ricerca esteri. E il testimone è stato raccolto da Federica Ceccaroni, la cui vocazione internazionale è testimoniata dagli studi già compiuti presso le università di Oxford e Stoccolma durante il corso di studi, nonché presso il Max Plank Institute for Comparative Public Law and International Law di Heidelberg e presso l’École Normale Supérieure di Parigi, nell’ambito del suo percorso di dottorato presso l’Università della Tuscia.
Accogliendo Federica tra i nostri autori accogliamo idealmente quel respiro, che sopravvive a Giulia grazie al filo invisibile che il Premio contribuisce a tessere, legando il suo percorso interrotto a quello di Federica, di tutte le altre e gli altri giovani ricercatori che costruiscono la propria cultura nell’apertura e nel confronto.
Per chi non abbia conosciuto Giulia, Giustizia Insieme l’ha ricordata qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/gli-attori-della-giustizia/1350-giulia-cavallone-un-ricordo
Ancora di Giulia e del Premio Giulia Cavallone avevamo già parlato qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/2541-premio-giulia-cavallone-anno-2022
https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3005-premio-giulia-cavallone-anno-2023
Per una giustizia dell'inumano. Riflessioni sulla codificazione italiana dei crimini internazionali
di Federica Ceccaroni
Sommario: 1. La giustizia penale internazionale di fronte alle nuove guerre. – 2. Coordinate preliminari sull’adeguamento allo Statuto di Roma. – 3. La parabola discendente della complementarietà. Note su sanzioni, tipizzazione e criteri imputativi. 4. – La dimensione ascendente della complementarietà. La responsabilità dell’ente. – 5. Conclusioni.
1. La giustizia penale internazionale di fronte alle nuove guerre.
L’aggressione russa all’Ucraina, i massacri del 7 ottobre in Israele, come pure l’atroce sterminio della popolazione civile di Gaza sollevano un acuto interrogativo sul ruolo e l’efficacia della giustizia penale internazionale. In questo scenario, il sistema istituito dallo Statuto di Roma, imperniato sul principio di complementarietà, rivela una dinamica che colloca le giurisdizioni nazionali al centro del processo di giustizia globale. È infatti compito primario degli Stati perseguire penalmente i crimini internazionali di competenza della Corte penale internazionale (CPI). Tuttavia, in Italia, a quasi ventisei anni dall’adozione dello Statuto di Roma, si ravvisa una normativa in materia frammentata e lacunosa. Invero, la l. 20 dicembre 2012, n. 237, dall’ambiziosa rubrica “Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale”, si è limitata a disciplinare gli aspetti procedurali degli obblighi di cooperazione con la Corte, tacendo sugli aspetti di natura sostanziale[1].
Del delicato compito di dare completa attuazione allo Statuto di Roma è stata investita, da ultimo, con decreto del 22 marzo 2022 della ministra della giustizia Marta Cartabia, una Commissione per la stesura di un progetto di «Codice dei crimini internazionali»[2]. L’articolato, unitamente a una meditata relazione di accompagnamento, è stato prontamente elaborato nel rispetto delle strette tempistiche assegnate[3]. L’auspicata riforma ha subito, però, una inattesa battuta d’arresto: il 16 marzo 2023 il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per l’introduzione del Codice che si limita a prevedere il crimine di aggressione e a estendere le condotte costituenti crimini di guerra[4]. I crimini contro l’umanità sono stati stralciati dal testo e ogni menzione al genocidio è stata dunque omessa. La virata del nuovo governo è difficilmente spiegabile in un contesto minacciato dalle ostilità che richiede l’urgente implementazione di strumenti in grado di supportare attivamente anche la raccolta e condivisione del materiale probatorio, essenziale per i futuri processi di fronte ai tribunali nazionali o internazionali (c.d. complementarity preparedness)[5]. Da più parti si sussurra che le denunce recentemente presentate al Procuratore della CPI per crimini contro l’umanità commessi nei confronti dei migranti in Libia spiegherebbero la premura del Consiglio dei ministri di precludere alle procure e ai tribunali nazionali la possibilità di svolgere simili indagini e procedimenti. Ma si tratterebbe di una prospettiva estremamente miope, considerando che, proprio ai sensi dell’art. 17 ICC St, la Corte è invero dotata della potestà di agire in supplenza, avocando a sé casi che lo Stato non voglia (unwillingness) o non possa (inability) giudicare in modo serio ed effettivo (innanzitutto per lacune del sistema giuridico)[6].
Il diritto penale internazionale, del resto, presenta una spiccata proiezione politica, considerando che si tratta di giudicare i crimini commessi dal potere. Ecco, dunque, che anche la codificazione di questi crimini diventa un atto politico, così come la scelta di non codificarli. Al di là delle ragioni di opportunità come pure di considerazioni relative alla dimensione culturale, occorre stimolare la riflessione, tutta giuridica, sulla necessità di un Codice che dia completa attuazione allo Statuto di Roma. Questo processo, come si vedrà, vede la complementarietà come un principio che si manifesta in una duplice direzione: la prima è una parabola discendente (v. infra § 3), che comporta l’adeguamento del diritto interno allo Statuto; la seconda è una parabola ascendente (v. infra § 4), che prevede l’introduzione di nuovi istituti giuridici che non solo si allineano allo Statuto, ma lo superano, contribuendo così allo sviluppo del diritto internazionale.
2. Coordinate preliminari sull’adeguamento allo Statuto di Roma.
L’adeguamento del corpus delle norme sostanziali interne allo Statuto della CPI sollecita una riflessione sulla diversità genealogica e quindi di funzione del diritto penale internazionale rispetto a quello di matrice nazionale. Si tratta, infatti, di una complessa operazione di integrazione tra sistemi che presentano legittimazione, metodi e finalità politico-criminali non coincidenti. Il diritto penale interno nasce come congegno di garanzia della libertà dei cittadini, come Magna Charta del reo. Il diritto penale è innanzitutto una “scienza dei limiti” che circoscrive lo spazio dell’azione punitiva statale: è strumento di protezione contro l’arbitrio del potere.
D’altra parte, già dal Preambolo, il sistema delineato dallo Statuto di Roma [7] svela la sua autentica vocazione: evitare che continui a perpetuarsi la situazione storica di impunità che avvolge la barbarie dei core crimes, un’impunità altrimenti “cronica” che rappresenta insopportabile pietra di scandalo per un’architettura giuridica modellata sui diritti fondamentali dell’uomo.
È singolare assumere come finalità un obiettivo che la giustizia ordinaria disconosce: la tradizionale “cifra oscura” dei crimini che restano impuniti non rappresenta in ottica interna un fallimento della giustizia penale, ma è piuttosto il normale, tollerabile prezzo da pagare al garantismo[8].
Nell’ordinamento interno, il diritto penale come strumento di difesa dei diritti individuali (scudo) e come mezzo di repressione della criminalità (spada) è una dicotomia mal posta. Non può esistere un diritto penale senza il telaio delle garanzie individuali. Non vi è spazio nella Costituzione per un approccio punitivo che non sia al contempo garantista. La Costituzione non insegue il concetto di una lotta alla criminalità; piuttosto ci parla di una giustizia ancorata alla responsabilità dell’individuo, al rispetto del giusto processo, alla protezione inalienabile della libertà della persona.
In questo senso la giustizia penale internazionale presenta un afflato profondamente diverso: non c’è una necessità di limitare una potestà punitiva, ma al contrario si rivolge all’implosione di statualità. Al potere che, da garante o giustiziere, diventa carnefice.
Per ciò solo risulta impraticabile un’automatica trasposizione interna degli istituti presenti nello Statuto: il diritto penale nazionale esce inevitabilmente riscritto e riplasmato dall’incontro con la dimensione internazionale.
A ben vedere, anche la legalità, per contenuto e funzione, non sembra coincidere con l’idea che anima il principio che negli ordinamenti interni porta lo stesso nome. Per il diritto penale interno è vincolo alla fonte, funzione di garanzia; nel diritto penale internazionale assume i connotati di una tipicità differenziale, in quanto delinea i presupposti di attivazione della giurisdizione della Corte per reati che sono perlopiù previsti anche negli ordinamenti interni. Perimetra, insomma, i limiti di rilevanza del possibile intervento della CPI.
Il problema della determinatezza nella formulazione delle fattispecie nello Statuto di Roma acquista dunque una diversa luce: non è rivolto alla collettività ma ai giudici, segna i vincoli e criteri di esercizio della propria giurisdizione. Difatti, la selezione primaria dell’illiceità è, in realtà, presupposta dallo Statuto; l’attribuzione alla Corte della giurisdizione si basa su un fatto che costituisce reato in base a una fonte di qualificazione distinta e indipendente. In tal senso, può parlarsi di un principio di legalità processuale[9].
Questione che, è evidente, apre a possibili tensioni con il principio di tassatività con cui la Commissione si è effettivamente confrontata. Per fare un esempio, si pensi al crimine di guerra di “violazione della dignità personale, in particolare trattamenti umilianti e degradanti” o al crimine contro l’umanità degli “altri atti inumani”: si è rivelato impossibile tradurre nel Codice interno simili previsioni perché gravemente indeterminate. Del resto, proprio la trasposizione dell’art. 8 (2)(b)(xxi) e (c)(ii) ICC St ha portato la recente giurisprudenza tedesca ad interpretare il termine “persona” protetta dal diritto umanitario del corrispondente § 8 (1) no. 9 Völkerstrafgesetzbuch (VStGB) come riferibile anche a un soggetto deceduto[10]. Esito ermeneutico che costituisce anche il frutto della mancanza di forza tipologica della fattispecie, di un tipo criminoso slabbrato e sfuggente.
3. La parabola discendente della complementarietà. Note su sanzioni, tipizzazione e criteri imputativi.
Questo diverso atteggiarsi della legalità si manifesta anche dal punto di vista sanzionatorio. Mentre nel diritto penale interno la legalità investe anche le sanzioni, nel diritto penale internazionale manca un analogo principio di prevedibilità della misura della pena.
Si deve rammentare come il sistema delle pene delineato nello Statuto di Roma sia delineato in modo sommario, lasciando al giudice una notevole discrezionalità nella determinazione della pena[11]. Non vengono definiti i fini, non si stabilisce un sistema edittale tipico degli ordinamenti di civil law, ma neppure si prevede che il precedente assuma rilevanza come negli ordinamenti di common law. Le uniche norme rilevanti sono l’articolo 77 ICC St, che indica come pena principale la pena detentiva nella forma della reclusione di massimo trent’anni o nella forma dell’ergastolo per i casi più gravi; l’art. 78 ICC St e la regola 145 del Regolamento di procedura e di prova, che si limitano a fare un elenco di fattori da considerare ai fini della valutazione della gravità del crimine e del grado di colpevolezza del reo. Questo si traduce in una pratica sanzionatoria internazionale che differisce significativamente da quella del diritto penale interno, dove esistono parametri ben definiti (artt. 23, 24 e 133 c.p.), che garantiscono la prevedibilità e la proporzionalità delle sanzioni.
In questo senso si è proceduto nella proposta di Codice dei crimini internazionali alla previsione di precisi limiti edittali. Operazione non semplice in quanto ci si confronta con crimini incommensurabili[12]. Il criterio, che trova numerosi corrispondenti a livello comparato, non da ultimo il Codice dei crimini internazionali tedesco, è stato quello di un confronto con le fattispecie “corrispondenti” di diritto interno ma con una scelta di fondo che spinge verso l’alto.
Ma anche a livello di fatto tipico è risultata necessaria una trasposizione delle fattispecie previste dallo Statuto. Occorre, invero, dare conto della peculiare tipizzazione delle fattispecie nello Statuto di Roma, strutturate attorno al c.d. elemento di contesto. Elemento cruciale per comprendere la complessità dei crimini internazionali che, in effetti, implicano una moltitudine di attori e forme di violenza istituzionalizzata e che funge da decisivo amplificatore del disvalore delle singole condotte. Il contesto, dunque, si erge a triste palcoscenico – la violenza di massa – all’interno del quale si colloca il giudizio di responsabilità individuale ed è centrale per decifrare la particolare struttura legale dei crimini, che si compongono di due livelli. Il primo è quello della commissione dei singoli reati-base (c.d. underlying offences, omicidio, lesioni personali, stupro, tortura, sequestro di persona, e via dicendo).
Il secondo livello è, per l’appunto, quello del contesto, la cornice entro cui si iscrivono le underlying offence: ad esempio, le condotte di omicidio, stupro o tortura divengono crimini contro l’umanità se commessi in connessione con un “attacco esteso o sistematico ad una popolazione civile”. Il contesto esprime quindi il disvalore tipico della dimensione macro-sistematica dei crimini internazionali, seleziona i beni giuridici tutelati dalla norma (pace o sicurezza internazionale), ontologicamente diversi rispetto a quelli di diritto penale interno e segna anche una precisa caratterizzazione dal lato degli autori del crimine. Tendenzialmente immancabile è, invero, il legame tra responsabilità degli individui e responsabilità degli Stati: la dimensione massiva di questi crimini, infatti, non può non coinvolgere più o meno direttamente strutture del potere statale. La perpetrazione di tali atrocità trascende le capacità individuali, suggerendo un’involuzione dello Stato da garante di diritto a partecipante attivo nelle violazioni.
Questa complicità statuale porta a riflettere sulla reale necessità di simili previsioni nell’ambito di uno Stato di diritto. Ovviamente la situazione tipica di applicazione del penale internazionale non è quella dello Stato che giudica sé stesso, ma trova un suo importante canale applicativo attraverso il grimaldello della giurisdizione universale[13]. Diventa però essenziale interrogarsi pure sui margini di responsabilità che possono ravvisarsi in operazioni più o meno autorizzate di sterminio, sulla legittimità della guerra preventiva, di eccidi consumati sotto il vessillo della democrazia e di altri valori assoluti. Lo Stato democratico di diritto non è per ciò solo immune dal pericolo di convertire il suo monopolio della forza, le sue strutture politiche, in un mezzo per la consumazione di massacri ammantati da un’apparenza legittima[14].
Tuttavia, occorre rilevare che per una tesi minimalista e conservatrice non vi è necessità di una ulteriore tipizzazione di fattispecie che sono già coperte dal diritto penale interno[15]. Difatti, alcune violazioni previste nel codice penale militare di guerra possono essere equiparate a “crimini di guerra” nel contesto internazionale e la legge n. 962 del 9 ottobre 1967 già punisce alcune forme di genocidio. Ancora, i “crimini contro l’umanità” sembrano essere la trasposizione a livello internazionale di reati contemplati nel nostro Codice penale, come omicidio (anche in forma multipla, per coprire situazioni di “sterminio”), lesioni personali, schiavitù, tortura, violenza sessuale, arresto arbitrario e violenza privata.
Se certamente molte fattispecie previste dallo Statuto trovano un corrispondente nel diritto interno, la necessità di introdurre nuove figure di reato emerge al fine di esprimere il particolare disvalore dei crimini internazionali. L’opzione nominalistica non è mai neutra, ma riafferma con forza i significati; il linguaggio veicola l’intensità della pregnanza simbolica punitiva, recepisce e costruisce la realtà. Non si tratta solo di dare il giusto nome alle cose: “sequestro di persona” non è “sparizione forzata” quale crimine contro l’umanità. Il diverso segno linguistico rimanda, invero, a una specifica fenomenologia criminosa che si apprezza dal punto di vista qualitativo, per via del carattere odioso di questi crimini in quanto costituiscono un attentato a quella dignità che è propria dell’umanità nel suo complesso, e quantitativo, in ragione della loro ampiezza, della dimensione massiva.
Le parole sono importanti, verrebbe da dire. Ma alla portata simbolica dell’intervento penale si accompagna – e non poteva essere altrimenti – quella strumentale. Invero, la necessità di simili previsioni a livello interno appare con evidenza laddove si consideri che il processo italiano al plan Cóndor si è chiuso con ben diciannove assoluzioni per intervenuta prescrizione con riguardo ai crimini commessi durante le dittature in America latina[16]. Non a caso, la proposta di Codice prevede, all’art. 16, l’imprescrittibilità dei crimini internazionali.
A favore di questo progetto di riforma milita altresì il fatto che non tutte le fattispecie trovano un corrispondente interno, almeno nella cornice tipologica prevista dallo Statuto: si pensi ai crimini di guerra di illecita deportazione e illecito trasferimento di popolazione[17] ma anche apartheid, reclutamento e impiego di bambini-soldato: lacuna che potrebbe portare alla attivazione della Corte al nostro posto.
Ad ogni modo, si pone il problema cruciale in questo particolare momento storico circa l’impossibilità di cooperazione investigativa con riguardo ai crimini internazionali commessi all’estero, ove non siano presenti i rigidi criteri di collegamento previsti dal Codice penale.
Ovviamente l’introduzione di un Codice ad hoc non è priva di elementi di criticità soprattutto laddove si vada ad incidere sulle categorie di parte generale: vi è il rischio di una flessibilizzazione delle garanzie nonché della propagazione di criteri imputativi meno stringenti dall’ambito dei macro-crimini ad ipotesi limitrofe (si pensi al terrorismo). Ipotesi non così remota se solo si considera l’esperienza del “doppio binario”, quel canale differenziato della giustizia penale originariamente destinato al solo fenomeno mafioso, che poi ha conosciuto una progressiva ed inesorabile espansione con riferimento a fenomeni del tutto eterogenei. Per questo la Commissione ha optato per valorizzare gli istituti già esistenti, preservando integrità e coerenza del sistema attraverso un equilibrio tra vincoli costituzionali, parametri di diritto internazionale e proiezione dei principi interni. Approccio che ha permesso di evitare le insidie delle pulsioni punitive che talvolta emergono nei sistemi di giustizia penale internazionale.
Ad esempio, in materia di command responsibility, la scelta è stata quella di codificare distintamente una forma di concorso doloso per omesso impedimento nel reato altrui, una corrispondente ipotesi omissiva colposa costruita secondo lo schema dell’art. 57 c.p., e alcuni reati omissivi propri di mancata denuncia e mancata punizione. Soluzione che perimetra adeguatamente i titoli per i quali il superiore gerarchico può essere ritenuto responsabile, fugando il rischio di una automatica ascrizione per posizione del crimine commesso dal subordinato, con inevitabile violazione dei principi costituzionali di responsabilità personale colpevole.
Emerge quindi lo sforzo della Commissione con riguardo alla strutturazione del nesso ascrittivo nell’ipotesi di concorso doloso per omesso impedimento nel reato altrui. In particolare, i termini dell’art. 40, cpv. c.p. sono stati integrati meditatamente con gli esiti dell’evoluzione giurisprudenziale che ha esteso la responsabilità omissiva impropria, alla luce di una lettura combinata con l’art. 110 c.p., anche al caso di omesso impedimento del reato (e non solo dell’evento come testualmente previsto nel Codice penale) che si «aveva l’obbligo giuridico di impedire». A ciò si aggiunga che le ipotesi colpose di command responsibility, sanzionate con pena diminuita, sono state ricostruite come una specifica ipotesi di punibilità dell’agevolazione colposa, ispirata all’art. 57 c.p. sulla responsabilità del direttore di una pubblicazione periodica.
Quanto alle altre ipotesi di responsabilità omissiva, sono state espunte dal titolo di responsabilità per il fatto del subordinato l’ipotesi della mancata adozione da parte del superiore di misure punitive o disciplinari a carico del primo, ovvero dell’omessa denuncia, in una fase successiva alla commissione del crimine, riprendendo una distinzione già fatta propria dal legislatore tedesco. La condotta del soggetto in posizione gerarchicamente sovraordinata rimane penalmente rilevante, ma assurge ad illecito autonomo – una omissione propria – la cui cornice edittale è nettamente inferiore rispetto a quella contemplata per il crimine internazionale del subordinato.
4. La dimensione ascendente della complementarietà. La responsabilità dell’ente.
Il principio di complementarietà che vede i sistemi nazionali di giustizia penale come the most appropriate forum for adjuticating international crimes[18], può ben essere declinato anche in una prospettiva proattiva, introducendo opzioni che vanno oltre la stessa disciplina dello Statuto di Roma. In questo senso, è significativa la scelta operata nella proposta di Codice di prevedere una responsabilità degli enti per crimini internazionali[19].
È noto, infatti, che il tentativo di introdurre tale forma di responsabilità naufragò nell’ambito della conferenza di Roma, principalmente a causa della resistenza degli ordinamenti giuridici romano-germanici che presagivano conseguenze sgradite per via del principio di complementarietà. Si temeva infatti che la sua applicazione potesse risultare in una mancata capacità o volontà da parte degli Stati di perseguire società per crimini internazionali, lasciando tale onere alla CPI secondo l’articolo 17 dello Statuto[20].
Tuttavia, l’evoluzione delle normative nazionali negli ultimi vent’anni ha visto una crescente adozione del modello di responsabilità per enti collettivi. Peraltro, specie laddove si sia fatto ricorso ad un modello generalizzante (senza numerus clausus) dei reati presupposto, i crimini internazionali risultano oggetto di applicazioni giurisprudenziali, sia pur episodiche: si osserva infatti un numero crescente di casi giudiziari per le responsabilità di soggetti di vertice di imprese per serious violations of human rights, talvolta con implicazioni per l’ente (casi in Francia, Olanda, Germania, Svizzera, Argentina, e di recente anche in Italia)[21].
A ciò si affianca la questione se non vi ostino argomenti di ordine ontologico, che discendono dall’identità nonché dalla base di legittimazione del diritto penale internazionale. Sin dal giudizio di Norimberga l’imputazione penale ruota attorno alla persona fisica; non vi è spazio, invece, per una responsabilità dell’ente, in senso proprio. Si tratta di un’opzione che, del resto, riflette il rivoluzionario cambio di paradigma maturato nell’ambito di quella esperienza storica, che può compendiarsi nelle parole della nota sentenza del 1° ottobre 1946 del Tribunale militare internazionale: «i crimini sono commessi da uomini, non da entità astratte, e soltanto punendo gli individui che commettono tali crimini si può dare effettivamente attuazione alle previsioni del diritto internazionale». Il carattere originario del diritto penale internazionale, quale meccanismo sanzionatorio, è la capacità di individualizzare le responsabilità nei contesti di macrocriminalità che connotano i crimini internazionali. L’introduzione di criteri di imputazione autonomi e in senso lato funzionali, come la «corporate culture», o la «colpa di organizzazione», potrebbe così costituire un punto di rottura.
Ad ogni modo, vi è da chiedersi se il coinvolgimento delle imprese nei crimini internazionali non rappresenti forse l’incarnazione di una moderna e antichissima banalità del male[22]. Significativi studi criminologici indicano nello State-corporate crime una nuova fenomenologia criminosa[23] che richiede un’adeguata evoluzione del rimprovero internazional-penalistico. Questo nuovo formante della macrocriminalità, costituito da attori economici e politici, impone così una rinnovata attenzione nella selezione e nell’analisi delle violazioni sistemiche ai valori fondamentali tutelati dalla comunità internazionale.
L’inclusione della responsabilità degli enti nella proposta di Codice italiano costituisce dunque un virtuoso esempio della dinamica innescata dal principio di complementarietà e apre anche all’auspicio di simili evoluzioni nel contesto dello Statuto di Roma[24]. È ampiamente riconosciuto che i sistemi giuridici nazionali esercitino un’influenza significativa sul nucleo duro del diritto penale internazionale, generando un flusso giuridico che promuove un dialogo multilivello tra differenti ordinamenti giuridici.
Quanto al contenuto della proposta italiana di Codice dei crimini internazionali, l’art. 67 integra il regime di responsabilità ex crimine degli enti collettivi all’interno del sistema stabilito dal d.lgs. n. 231/2001. La scelta è particolarmente significativa per ragioni di coerenza di sistema e per il potenziale preventivo nelle realtà di impresa dei Modelli di organizzazione e gestione (MOG) atti a contenere il rischio della commissione di condotte illecite, e nella specie di quelle che possano sfociare in crimini internazionali. Approccio che si distingue positivamente da quello adottato in precedenti tentativi di codificazione dei crimini internazionali in Italia, come il progetto Kessler, che prevedeva l’ipotesi estrema dello scioglimento dell’ente. La Commissione ha quindi adottato una strategia più misurata, tesa a prevenire eccessi punitivi e a salvaguardare lo svolgimento di attività economiche lecite che comportano intrinseche dimensioni di rischio. In particolare, ha limitato la rilevanza del contributo dell’ente ai casi in cui «il reato sia stato determinato da gravi carenze organizzative», così come previsto, in relazione alle sanzioni interdittive, dall’art. 13 d.lgs. n. 231/2001.
Deve, tuttavia, osservarsi che al comma 5 è stata inserita una causa di non punibilità dell’ente: «L’ente non risponde quando la condotta sia stata realizzata nel rispetto di provvedimenti dell’autorità». Si è dunque ritenuto di escludere la responsabilità dell’ente quando questo, ad esempio, abbia agito sotto l’egida di licenze o autorizzazioni amministrative. Si pensi al caso di una impresa di produzione di materiali bellici che abbia effettuato una cessione a una entità pubblica straniera, previo provvedimento permissivo degli uffici preposti, cessione cui sia poi seguito l’impiego della fornitura in un conflitto armato nel quale si ritiene vengano perpetrati crimini di guerra avvalendosi della stessa.
Su quest’ultimo aspetto, la soluzione proposta non convince. Si tratta, infatti, di un punto di equilibrio troppo sbilanciato a favore dell’impresa, traducendosi in una sorta di scudo penale per chi vanti provvedimenti autorizzatori dell’autorità. Permettere che l’impresa che esporta armi verso un regime dittatoriale, notoriamente coinvolto nella commissione di crimini internazionali, nulla possa temere in presenza di un provvedimento legittimante finisce per vanificare la meritevolezza della proposta. Del resto, il diritto penale internazionale trova il suo fondamento nonché una sua base di legittimazione proprio nel tentativo di rivolgersi alle perversioni del potere statuale: è la stessa base criminologica di riferimento, quella dello State-corporate crime, a pretendere uno scrutinio degli atti che promano dall’autorità.
5. Conclusioni
L’integrazione tra il diritto penale internazionale e il diritto penale interno è essenziale per affrontare i crimini di massa che turbano la coscienza collettiva. I nuovi conflitti mettono alla prova l’efficacia del sistema di giustizia penale internazionale, evidenziando la necessità di una dimensione solidale della complementarietà, un concetto che costituisce il sottotesto del progetto di Codice italiano dei crimini internazionali. Progetto che è senz’altro la sapiente canalizzazione del diritto penale internazionale nel tessuto del diritto nazionale. La ritirata di tale iniziativa appare dunque sorprendente, nell’attuale momento storico, e sollecita una rinnovata riflessione che trascende i meri aspetti tecnici per abbracciare anche questioni culturali e politiche.
Il Codice dei crimini internazionali può essere visto non solo come un mezzo di giustizia, ma anche come un simbolo dell’impegno di un paese a difendere i valori fondamentali dell’umanità contro le peggiori forme di barbarie, come la risposta – sia pure imperfetta – alla sofferenza, come l’arduo compito di ricondurre quel male a razionalità. Di fronte alle atrocità di massa il diritto. Il diritto penale dell’inumano[25], riprendendo la felice formula coniata da Mireille Delmas-Marty.
Se il diritto penale internazionale può essere visto come un tentativo di razionalizzare l’indicibile, di reazione all’etica del male, l’adattamento delle norme interne allo Statuto di Roma, ha anche l’indiscusso pregio di riaffermare l’umanità come valore comune da preservare.
[1] La legge include, in effetti, disposizioni sostanziali che mirano a modificare certi reati contro l’amministrazione della giustizia, come la falsa testimonianza e le false dichiarazioni al Pubblico Ministero, e contro la pubblica amministrazione, tra cui concussione e corruzione, al fine di assicurare la punibilità di tali condotte in danno della CPI. Nulla si dice però sui core crimes.
[2] Il testo dell’articolato e della relazione di accompagnamento è rinvenibile online alla seguente pagina: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?contentId=COS372730.
[3] Sulla proposta di Codice si vedano N. Selvaggi, The way forward. An overview on the draft “Palazzo-Pocar” of 2022, in C. Meloni, F. Jeßberger, M. Crippa (eds.), Domesticating International Criminal Law, Abingdon-New York, 2023; E. Fronza, C. Meloni, The Draft Italian Code of International Crimes, in J. Int. Crim. Justice, Volume 20, Issue 4, September 2022, p. 1027 ss.; A. Vallini, Il codice a pezzi. Ascesa e caduta della proposta di una legge organica sui crimini internazionali, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2023, pp. 91-110; Id., “Una sola moltitudine”: le atrocità della guerra in Ucraina, la giustizia penale internazionale, la Commissione “Palazzo – Pocar” per un Codice dei Crimini Internazionali, lceonline, n. 2/2022, II/Osservatorio, p. 21 ss.; M. Crippa, L’approvazione di un codice dei crimini internazionali “dimezzato” Le ragioni di un (dis)atteso intervento normativo, in Quest. Giust., 21 marzo 2023, 8 ss.
[4] https://www.governo.it/it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-25/22 114.
[5] F. Jeßberger, Towards a ‘Complementary Preparedness’ Approach to Universal Jurisdiction – Recent Trends and Best Practices in the European Union, Briefing, in Workshop: Universal Jurisdiction and International Crimes: Constraints and Best Practices, Directorate General for External Policies of the Union, Policy Department for External Relations, Settembre 2018, p. 9 ss.
[6] In questo senso il recepimento delle fattispecie dello Statuto, sollecitato dal principio di complementarietà, può essere considerato non tanto come un obbligo ma come un rilevante onere. Sul punto, e più in generale sul tema dell’adeguamento italiano allo Statuto, v., da ultimo, R. Lopez, L’Italia e la mancata repressione dei crimini internazionali, in Proc. pen. giust., n. 2/2024, p. 502 ss.
[7] Nel Preambolo dello Statuto di Roma, alinea 5, si legge testualmente «determined to put an end to impunity for the perpetrators of these crimes and thus to contribute to the prevention of such crimes».
[8] In termini pressoché coincidenti, L. Cornacchia, La funzione della pena nello Statuto della Corta Penale Internazionale, Milano, 2009, p. 89 ss.
[9] A. Di Martino, Postilla sul principio di legalità nello Statuto della Corte criminale internazionale, in M. Delmas-Marty, E. Fronza, E. Lambert Abdelgawad (a cura di), Les sources du droit international pénal: l'expérience des Tribunaux Pénaux Internationaux et le Statut de la Cour Pénale Internationale, Paris, 2004, p. 329 ss.
[10] Si veda, da ultimo, Bundesgerichtshof [BHG], Jan. 28, 2021, 3 StR 654/19, ECLI:DE:BGH:2021:280121U3STR564.19.0. Per un’analisi compiuta delle questioni sottese alla casistica citata cfr. K. Ambos, Deceased Persons as Protected Persons Within the Meaning of International Humanitarian Law: German Federal Supreme Court Judgment of 27 July 2017, in Journal of International Criminal Justice, Volume 16, Issue 5, December 2018, p. 1105 ss.; V. Bergmann, F. Blenk, N. Cojger, Desecration of Corpses in Relation to § 8(1) no. 9 German Code of Crimes Against International Law (VStGB): The Judgment of the German Federal Court of Justice (Bundesgerichtshof) of July 27, 2017–3 StR 57/17, in German Law Journal, 22(2), 2021, p. 276 ss.
[11] A. Riccardi, Sentencing at the International Criminal Court. From Nuremberg to the Hague, Roma, 2016, p. 113 ss.
[12] C. Meloni, Punire l’incommensurabile? Sulla difficile funzione e commisurazione della pena nel diritto penale internazionale, in C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta, (a cura di), La pena, ancora fra attualità e tradizione, Studi in onore di Emilio Dolcini, Milano, 2018, p. 389 ss.
[13] Si vedano le belle pagine di A. Garapon, Des crimes qu’on ne peut ni punir ni pardonner. Pour une justice internationale, Paris, 2002, 19 ss. per una riflessione sulla “compétence universelle”. Secondo l’A. “la competenza universale, oltre a rimarcare la supremazia di alcuni diritti fondamentali sulla sovranità, testimonia la deterritorializzazione estrema dell’idea di giustizia penale internazionale. Questa non si incarna più in una singola istituzione, ma è rinvenibile allo stato latente in qualsiasi organo di giustizia di tutti i paesi firmatari della convenzione. La giustizia sogna di realizzare la profezia del diritto cosmopolita immaginato da Kant nel suo progetto di pace perpetua: «con la comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della terra, che alla fine ha dappertutto prevalso, si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti»” (tr. it. di S. Allegrezza). Attuali anche le considerazioni sull’intricato rapporto tra politica internazionale e giurisdizione universale, che ripropone a livello interno la tensione tra diritto e potere.
[14] Così ammoniva Palazzo nella magistrale introduzione al convegno “La dismisura del male: il diritto di fronte ai crimini di massa”, organizzato dall’Istituto italiano di Scienze Umane, Firenze, 3 marzo 2008. Per il testo della Relazione v. F. Palazzo, Il diritto penale di fronte ai crimini di massa. Introduzione, in Riv. it. dir. proc. pen, n. 2/2009, 750 ss.,
[15] In tal senso, A. Cruciani, Il progetto per un codice di crimini internazionali alla lente dei principi di complementarità e ne bis in idem dello Statuto della CPI, in Quest. Giust., 2 marzo 2023.
[16] Cass. pen., Sez. I, 09/07/2021, n. 43693.
[17] Qui il riferimento non può che andare alla contestazione inerente il mandato di arresto nei confronti di Vladimir Putin. Cfr. Situation in Ukraine: ICC judges issue arrest warrants against Vladimir Vladimirovich Putin and Maria Alekseyevna Lvova-Belova, in www.iccc-cpi.int, 17 marzo 2023.
[18] A. Cassese, The Role of Internationalized Courts and Tribunals in the Fight Against International Criminality, in C. Romano – A. Nollkaemper – J.K. Kleffner (eds.), Internationalized criminal courts and tribunals. Sierra Leone, East Timor, Kosovo and Cambodia, Oxford, 2004, p. 4.
[19] Il tema lambisce i confini disciplinari riconducibili alla nozione tedesca di Wirtschaftsvölkerstrafrecht, settore ancora in via di sedimentazione che indaga la risposta del diritto penale dinanzi ai gravi abusi di potere economico-politico. Cfr. F. Jessberger – W. Kaleck – T. Singelstein (eds.), Wirtschaftsvölkerstrafrecht, Baden-Baden, 2015; K. Ambos, International Economic Criminal Law: The Foundations of Companies’ Criminal Responsibility Under International Law, in Criminal Law Forum, 29, 2018, p. 499; P. Severino – J. Vervaele – A. Gullo (eds.), Criminal Justice and Corporate Business, Proceedings of AIDP – XX International Congress, 13-16 November 2019, Rome, 2021; F. Jeßberger, On the Origins of Individual Criminal Responsibility under International Law for Business Activity, IG Farben on Trial, in Journal of International Criminal Justice, vol. 8, 2010, pp. 783-802; S. Manacorda, Fragments’ of International Economic Criminal Law: Short Notes on Corporate and Individual Liability for Business Involvement in International Crimes, in F. Jeßberger, M. Vormbaum, B. Burghardt (eds.), Strafrecht und Systemunrecht, Festschrift für Gerhard Werle zum 70. Geburtstag, Tübingen, 2022, pp. 193-206.
[20] S. Manacorda, Codificare i crimini internazionali? Prospettive penalistiche nella cornice costituzionale, in Quad. cost., 4/2022, p. 797 ss.
[21] Temi non dissimili sono stati oggetto di communication alla CPI. In particolare, nel dicembre del 2019, è stata proposta una comunicazione relativa alla responsabilità di alcune imprese europee, registrate o attive negli Stati membri dello Statuto CPI, accusate di aver facilitato crimini di guerra in Yemen attraverso la vendita di armi alla coalizione guidata dagli Emirati Arabi Uniti. Già nel 2017, un’associazione di enti impegnati nella difesa dei diritti umani aveva formalmente sollecitato il Procuratore della CPI ex art. 15 dello Statuto CPI, ad avviare un’indagine riguardante il coinvolgimento della Chiquita Brands International in crimini contro l’umanità perpetrati da formazioni paramilitari in Colombia.
[22] H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, tr. it. P. Bernardini, Milano, 2014.
[23] Il crimine politico-economico è stato formalmente definito come «illegal or socially injurious actions that result from a mutually reinforcing interaction between (1) policies and/or practices in pursuit of the goals of one or more institutions of political governance and (2) policies and/or practices in pursuit of the goals of one or more institutions of economic production and distribution». Cfr. R.C. Kramer – R.J. Michalowski – D. Kauslarich, The Origins and Development of the Concept and Theory of State-Corporate Crime, in Crime & Delinquency, 48(2), 2002, pp. 263–282; R.J. Michalowski, R.C. Kramer (eds.), State-Corporate Crime. Wrongdoing at the Intersection of Business and Government, New Brunswick, 2006; K. Schlegel – D. Weisburd, White-Collar Crime Reconsidered, Boston, 1992, p. 215.
[24] In questo contesto, può osservarsi come la responsabilità degli enti per core crimes potrebbe ispirare rinnovato ottimismo nello strumento internazional-penalistico. Note sono le posizioni critiche di chi parla di una giustizia politicizzata, dipendente dai rapporti di forza tra Stati. In contrapposizione all’idea di un diritto penale portatore di valori universalmente condivisi, si agita da più parti il sospetto che tale strumento giuridico si riveli adatto piuttosto «ad imporre un’idea egemonica – e a dominanza occidentale – dell’ordine mondiale». La deviazione dell’interesse verso la responsabilità delle imprese, generalmente figlie dei paesi sviluppati, potrebbe dunque costituire un punto di rottura per la narrazione neocoloniale della giustizia penale internazionale. In tal senso anche J. Aparac, Business and Armed Non-State Groups: Challenging the Landscape of Corporate (Un)accountability in Armed Conflicts, in Business and Human Rights Journal, 2020, p. 274 ss.: «It would be timely for the ICC to investigate the socio-economic aspects, the root causes and the role of external actors to the conflict, which could help to correct the neo-colonial narrative that violence is specific to third world countries while reiterating the legitimacy of the ICC». In senso contrario v. G. Baars, Capital, corporate citizenship and legitimacy: The ideological force of ‘corporate crime’ in international law, in Baars, G. – Spicer, A. (eds.), The Corporation: A Critical, Multi-Disciplinary Handbook, Cambridge, 2017, pp. 419-433, che sostiene che la responsabilizzazione a livello internazionale delle imprese conferirebbe alle stesse legittimazione.
[25] M. Delmas-Marty, Violenza e massacri: verso un diritto penale dell’inumano?, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2009, p. 753 ss.
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