Questo contributo costituisce il secondo di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista. Si veda D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere) di Andrea Apollonio.
D.d.l. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza [1]
di Costantino De Robbio
Sommario: 1. La riforma preannunciata sui media… e il disegno di legge. 2. Custodia in carcere e arresti domiciliari: le due misure cautelari più afflittive separano i loro destini. 3. Verso un nuovo assetto del bilanciamento tra interesse pubblico e diritti del singolo nella valutazione delle esigenze cautelari. 4. Ancora un bilanciamento di interessi: la misura cautelare tra necessità di azione tempestiva e diritto al contraddittorio. 5. Il dilemma tra efficacia dell’azione e responsabilità per gli errori: uno sguardo all’esterno. 6. La gerarchizzazione delle esigenze cautelari…. e l’elefante nella stanza.
1. La riforma preannunciata sui media… e il disegno di legge.
Poco più di un anno fa il Ministro della Giustizia ed alcuni esponenti del Governo attualmente in carica rilasciavano alcune dichiarazioni ai media preannunciando l’ennesima riforma del codice penale e del codice di procedura penale.
Tra le modifiche sommariamente illustrate, due riguardavano il delicato settore delle misure cautelari personali:
- l’introduzione dell’obbligo di interrogatorio da parte del G.I.P. prima della adozione di una misura cautelare coercitiva e
- l’attribuzione delle ordinanze cautelari al GIP in composizione collegiale.
Si trattava di novità così allarmanti e dirompenti rispetto al sistema processuale vigente da provocare molteplici e diffuse riflessioni critiche “in prevenzione”[2].
Poche settimane dopo il progetto preannunciato sui media dagli esponenti del Governo si è tradotto nella presentazione del disegno di legge numero 808, che giunge in questi giorni, a tappe forzate, alla votazione alla Camera dei Deputati.
Rispetto alle previsioni iniziali, il provvedimento in discussione contiene alcune precisazioni, che non diminuiscono le perplessità e l’allarme[3] ma impongono una nuova riflessione.
2. Custodia in carcere e arresti domiciliari: le due misure cautelari più afflittive separano i loro destini.
Nelle prime interviste il Ministro della Giustizia e gli altri esponenti del Governo avevano proclamato l’intenzione di introdurre un generale obbligo di interrogatorio prima dell’emissione delle ordinanze cautelari personali.
Il disegno di legge effettivamente presentato contiene invece due importanti limitazioni, poiché circoscrive l’ambito di applicazione dell’interrogatorio preventivo:
- alla sola custodia cautelare in carcere e
- alle misure cautelare basate sulle esigenze cautelari indicate dalla lettera c dell’articolo 274 del codice di procedura penale.
La limitazione della previsione dell’interrogatorio preventivo ai casi di massima compressione della limitazione della libertà personale (custodia in carcere) non può che essere salutata con favore, quantomeno perché riduce significativamente l’impatto quantitativo di un intervento legislativo che suscita profonda perplessità, per le ragioni che qui si proveranno ad esporre.
Questo risultato viene ottenuto però “a caro prezzo”, perché il legislatore pone in discussione, forse inavvertitamente, uno dei cardini storici del sistema della cautela, costituito dalla equiparazione della misura cautelare degli arresti domiciliari a quella inframuraria.
Tale equiparazione, va ricordato, nasce dall’esigenza di riconoscere massima afflittività alla misura degli arresti domiciliari (conteggiando ad esempio il periodo trascorso tra le mura domestiche a quello in carcere ai fini del pre-sofferto), in ossequio ad una visione garantista che tende a limitare al massimo l’applicazione delle misure cautelari custodiali (carcere e domiciliari) e in tempi recenti è servito anche per fornire una copertura giuridica alla necessità di deflazionare le case circondariali da sempre sollecitate oltre la capienza: allorquando la Corte EDU ha “bacchettato” l’Italia per l’eccessivo sovraffollamento delle strutture carceraria, si è intervenuti implementando l’utilizzo alternativo degli arresti domiciliari, sul presupposto che si trattasse di due misure cautelari parimenti afflittive e quindi sostanzialmente equiparabili.
La nuova previsione, che prevede che l’indagato debba essere ascoltato prima della sola applicazione della custodia in carcere come se l’applicazione degli arresti domiciliari improvvisamente non avesse (più) la medesima afflittività, potrebbe costituire un pericoloso passo indietro in questo senso, poiché sembra frutto del ritorno ad una concezione che vede la custodia in carcere come misura indirettamente più efficace in quanto più oppressiva per chi la subisce.
3. Verso un nuovo assetto del bilanciamento tra interesse pubblico e diritti del singolo nella valutazione delle esigenze cautelari.
Perplessità (ancora) maggiori desta la differenziazione operata tra le diverse esigenze cautelari previste dall’articolo 274 del nostro codice di rito, che porterà ad un’implicita gerarchizzazione tra tipologie di misure cautelari aventi analogo contenuto di cui è difficile scorgere la rispondenza al nostro sistema.
Secondo il disegno di legge in commento si potrà continuare ad applicare inaudita altera parte la misura custodiale massima, rinviando l’interrogatorio alla fase successiva all’esecuzione, nel caso in cui la misura sia applicata per il pericolo di inquinamento delle prove (art. 274 lettera a) o per il pericolo di fuga (art. 274 lettera b), mentre l’indagato dovrà essere interrogato prima della valutazione della richiesta del Pubblico Ministero se il pericolo paventato è quello di reiterazione di delitti della stessa specie di quelli per cui si procede (art. 274 lettera c).
Qual è la ragione di questa inedita differenziazione del procedimento esecutivo delle misure cautelari personali?
La ratio dell’interrogatorio preventivo è (o dovrebbe essere) quella di non procedere alla limitazione della libertà personale dell’indagato in modo azzardato, risultato che si ritiene di poter raggiungere attribuendo al soggetto passivo dell’ordinanza la facoltà di fornire al giudice la propria versione dei fatti prima di essere esposto al danno di essere ristretto in carcere.
In merito, occorre sgombrare il campo da un retropensiero pernicioso: nessuno può seriamente affermare che, in linea generale ed astratta e fatte salve le dolorose eccezioni presenti in ogni categoria o professione, i giudici delle indagini preliminari non abbiano ben presente l’afflittività delle misure cautelari che redigono e sottoscrivono.
Incidere sulla libertà degli altri è un lavoro tutt’altro che piacevole o agevole, e si procede in tal senso all’esito di un ponderato e sofferto bilanciamento tra due interessi fondamentali: da un lato i diritti individuali dell’indagato, dall’altro i rischi per la collettività e la sicurezza sociale.
Solo quando risultano a giudizio del magistrato prevalenti i secondi, secondo i criteri dettati dalla legge, si ricorre ad una misura “a cautela” della collettività e a detrimento del singolo, a carico del quale devono peraltro essere stati individuati gravi indizi di colpevolezza in ordine a uno o più reati di sensibile allarme sociale.
Spiace dover precisare questi concetti, che non si dubita siano ben presenti in ogni collettività che affida la Giustizia allo Stato e non alla vendetta individuale e che a maggior ragione si ritiene siano patrimonio di tecnici del diritto quali devono essere considerati i rappresentanti del potere legislativo.
Tuttavia, l’esame della riforma in discussione sembra partire dal presupposto che la valutazione dei giudici sul predetto bilanciamento degli interessi sia attualmente viziata dalla mancata audizione delle ragioni dell’indagato.
È evidente che l’unica ragione della necessità di ricorrere alla sua voce (peraltro, naturalmente, tutt’altro che imparziale) sia da cercare nella solita ed onnipresente sfiducia nel ruolo del Pubblico Ministero, ritenuto non (più) in grado di offrire al giudice un quadro imparziale ed esaustivo così come previsto dall’impianto codicistico.
La riforma, a ben vedere, ha un senso solo se si immagina un pubblico ministero confinato nel ruolo di accusatore a tutti i costi e ormai incapace di onorare il ruolo di magistrato che dirige le indagini nella indifferenza dei suoi esiti come indicato dal codice di procedura penale: l’asserito venir meno del ruolo di interprete imparziale del suo ruolo è all’origine dell’esasperazione dell’anticipazione del contraddittorio prevista.
In buona sostanza, la parzialità della prospettazione del magistrato inquirente abbisognerebbe di un contrappeso che si individua nel diritto di interlocuzione anticipata dell’indagato, prima che il giudice – a sua volta, evidentemente, incapace di formarsi un giudizio non condizionato - arrechi un danno irreparabile procedendo alla privazione della libertà personale dell’indagato.
Entrambi i presupposti su cui poggia questa costruzione sono però indimostrati e smentiti dai fatti, che attestano come sia la perdita generalizzata della tenuta istituzionale della figura del Pubblico Ministero che l’appiattimento incondizionato del ruolo del GIP a quello del PM siano più spauracchi che realtà.
Del resto, si tratta di postulati indimostrabili: inutile invocare l’alta percentuale di accoglimento delle richieste del PM da parte dei GIP per dimostrare il potere di condizionamento dei primi sui secondi, perché questa percentuale può essere utilizzata anche a contrario, per dimostrare l’alta professionalità dei magistrati inquirenti (proprio il contrario dell’assunto di partenza del disegno di legge).
E del resto, nei casi in cui i giudici hanno mostrato sul campo di non essere condizionati dalle richieste dei Pubblici Ministeri non solo nessuno si è tranquillizzato, ma si è registrato curiosamente l’effetto opposto: in un recente caso di imputazione coatta, celebre perché riguardante un esponente del Governo, gli stessi che hanno esposto il disegno di legge in esame si sono affrettati a preannunciare … l’abolizione dell’istituto dell’imputazione coatta.
È dunque problematico scorgere linee di coerenza nella tumultuosa opera di riforma in atto, sicché non bisogna forse sorprendersi se la ratio invocata – sottrarre i GIP all’influenza nefasta di pubblici ministeri imparziali dando voce all’indagato – non convinca del tutto.
4. Ancora un bilanciamento di interessi: la misura cautelare tra necessità di azione tempestiva e diritto al contraddittorio.
Quanto detto non comporta ovviamente che il sistema attuale sia a prova di errore; gli errori ci sono e in questo settore – coinvolgendo un bene primario come la libertà personale – hanno un costo enorme e dolorosissimo.
Conseguentemente, l’intento di limitarli è assolutamente giusto e condivisibile.
È necessario però non dimenticare l’altro interesse in gioco, costituito come detto dalla necessità di tutela della collettività e chiedersi in che misura questo interesse viene sacrificato e se il bilanciamento dei due interessi ne risulti ancora equilibrato.
La riforma, giova ricordarlo, non introduce un obbligo nuovo, ma ne anticipa uno esistente.
L’interrogatorio del soggetto attinto da misura cautelare è infatti già previsto dall’articolo 294 del codice di procedura penale ed è il primo, doveroso adempimento, cui il giudice è tenuto dopo l’emissione dell’ordinanza applicativa della misura stessa, peraltro in termini strettissimi, pena l’inefficacia della misura emessa.
È però stato immaginato – finora - come adempimento differito rispetto alla restrizione della libertà dell’indagato per un motivo evidente: evitare che la misura cautelare sia del tutto inefficace o ridotta ad un mero simulacro, togliendo alla stessa i caratteri di tempestività e segretezza che le sono connaturali.
La misura cautelare è strumento connotato ontologicamente dal carattere di urgenza, essendo stato pensato quale intervento di reazione al pericolo di un accadimento irreparabile che interviene, vanificandolo, nelle more del processo penale (periculum in mora).
Facciamo un passo indietro: la privazione della libertà personale disposta dall’autorità giudiziaria è normalmente effetto dell’affermazione della responsabilità per un reato, e presuppone l’accertamento incontrovertibile della violazione di un precetto penale e l’attribuibilità di tale violazione all’imputato da parte del giudice competente (condanna passata in giudicato).
Incidere sopprimendolo, sia pur temporalmente, sul più sacro dei diritti costituzionali o anche semplicemente comprimere tale diritto, in assenza della certezza processuale di avere di fronte il colpevole del reato sembra dunque un controsenso.
Tuttavia, è altrettanto vero che la proclamazione della responsabilità penale non può prescindere da un accertamento serio, approfondito e in cui sia garantito il pieno rispetto del contraddittorio.
Questo tipo di processo comporta l’impiego di un notevole lasso di tempo: la formazione della prova richiede la massima attenzione e, nonostante i principi di oralità ed immediatezza che teoricamente informano il nostro sistema processuale penale, un’attenta ponderazione sia nella fase delle indagini che in quella del dibattimento.
Prima ancora della formazione in contraddittorio e della valutazione, le prove devono essere raccolte, ed in un momento ancora anteriore individuate e cercate, in quella fase delicata e importante del processo denominata nel nostro attuale sistema processuale penale “indagini preliminari”: un esito insoddisfacente o incompleto delle stesse porta inevitabilmente all’assoluzione, secondo il principio fondamentale del sistema accusatorio.
È pertanto fondamentale preservare tutta la fase delle indagini, e quella successiva del dibattimento, dal pericolo che le prove siano occultate, nascoste, manipolate, distrutte, distorte: ed è inevitabile e naturale che sia proprio chi ha commesso il reato ad essere interessato ad un accertamento incompleto o distorto.
Sorge dunque la necessità di “proteggere” (cautelare) il procedimento penale dalle aggressioni del suo attore principale: l’indagato/imputato.
È inoltre inevitabile che, man mano che si acquisisca la ragionevole certezza della colpevolezza di taluno, anche se questa certezza non è ancora sacralizzata in una sentenza di condanna definitiva, il fatto stesso che il colpevole continui a circolare libero crea allarme sociale, soprattutto in relazione a determinati reati.
Laddove, in casi siffatti, si raccolgano elementi consistenti sulla persistente attività delinquenziale dello stesso soggetto lo Stato è chiamato ad intervenire, con la massima urgenza possibile, per evitare che il tempo occorrente per lo svolgimento del giusto processo comporti un prezzo eccessivamente alto per la collettività e l’ordine pubblico.
Anche la funzione general-preventiva della pena, oltre che quella strettamente sanzionatoria, è dunque “cautelata” dal nostro sistema processuale; ed è proprio a questo scopo che è dettata la norma della lettera c dell’articolo 274 del nostro codice di rito.
Infine, è intuitivo che l’imputato, man mano che si rende conto che l’accertamento processuale procede verso l’acquisizione di un compendio probatorio pieno ed inoppugnabile e che dovrà dunque essere assoggettato alla privazione della libertà in risposta alla violazione del precetto da lui compiuta, possa considerare la fuga come strumento per sottrarsi alle conseguenze penali della sua azione: per impedire che il tempo di accertamento processuale del responsabilità comporti la frustrazione in concreto dello scopo principale del processo stesso (assoggettare a sanzione il responsabile della violazione del precetto) è dunque possibile, ancora una volta, intervenire in via preventiva impedendo che l’imputato fuggendo si sottragga alle sue responsabilità.
La prima ragione dell’esistenza delle misure cautelari è dunque data dalla necessaria protrazione temporale del momento di accertamento della verità processuale, che comporta l’esistenza di un sensibile periodo in cui taluno, pur sospettato o gravemente indiziato di essere l’autore di un reato, non è ancora formalmente etichettabile come “colpevole”: “se il processo fosse un punto e non una retta non occorrerebbero le misure cautelari” (la citazione è di Giovanni Conso).
Da quanto detto deriva che il requisito più importante per assicurare l’efficacia dell’intervento cautelare è senza dubbio la tempestività: un intervento tardivo rispetto alla verifica della sussistenza delle situazioni di pericolo rischia di essere del tutto vano, e risolversi nella mera anticipazione degli effetti della pena che l’articolo 274 del codice di procedura penale intendeva, come si è visto, scongiurare.
Questo requisito rischia di passare in secondo piano con la riforma in esame.
La totale elisione dell’effetto sorpresa, l’instaurazione del contraddittorio, la ponderazione del materiale raccolto dal richiedente e l’allungamento dei tempi configurano la misura cautelare ipotizzata come una sorta di dibattimento anticipato, dove i pericula in mora hanno perso ogni valore e sbiadiscono sullo sfondo della decisione dell’istituendo collegio, ridotta ad una valutazione quasi del tutto sbilanciata sull’analisi della sussistenza dei gravi indizi.
Di più: appare impossibile emettere un’ordinanza motivata sul periculum in mora, perché l’intervento pensato per scongiurare i suddetti pericula è vanificato dalle regole di azione del giudice della cautela, che è chiamato ad agire, paradossalmente, senza alcuna cautela ma anzi con modalità tale da avvertire l’indagato del pericolo per la sua libertà, effetto contrario a quello proprio delle misure cautelari.
Un esempio, tra i tanti, di applicazione delle nuove ipotizzate regole ai procedimenti che i Pubblici Ministeri gestiscono quotidianamente: nel corso di un’indagine per pedopornografia gli inquirenti individuano alcuni degli utilizzatori degli IP da cui parte e si diffonde quotidianamente materiale illecito e scoprono, attraverso intercettazione dei messaggi, che gli stessi si apprestano a reperire e divulgare ulteriore materiale pedopornografico. Il Pubblico Ministero avanza dunque richiesta di applicazione di misura cautelare motivata – oltre che dai gravi indizi di colpevolezza delle condotte precedenti – dal concreto ed attuale pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie.
Il Collegio dei GIP dovrebbe dunque, secondo le regole della paventata riforma, convocare gli indagati e chiedergli, alla presenza dei difensori, di fornire la loro versione sui delitti di cui sono accusati nonché convincere i giudici della insussistenza del pericolo di reiterazione, dopo essere stati avvertiti che se non saranno convincenti potrebbero essere privati della libertà personale.
È evidente che la tutela delle vittime, della sicurezza, dell’ordine pubblico e tutte le ragioni che sono connaturate all’intervento cautelare (cioè, letteralmente: “a cautela”) scompaiono del tutto in favore del principio di non colpevolezza, trascurando la circostanza che quando si agisce in via di urgenza l’articolo 272 del codice di procedura penale impone già un severo vaglio della sussistenza dei gravi indizi.
La stessa scena può essere immaginata nel caso di una richiesta di misura cautelare per soggetti per i quali emerge dalle indagini un’attività di spaccio di stupefacente in corso: anche in questo caso non si potrebbe intervenire con una misura cautelare prima di avere chiesto agli indagati di fornire la loro versione e convincere il Collegio dei GIP del fatto che il Pubblico Ministero sbaglia a ritenere che l’attività di spaccio in itinere continuerà anche in futuro.
Di fatto, si sta proponendo di abolire le misure cautelari previste dalla lettera c dell’articolo 274 e procedere ad una sorta di incidente probatorio del tutto eccentrico in quanto avente ad oggetto non l’assunzione di una singola prova ma il giudizio di colpevolezza dell’indagato (non ancora imputato); un innesto nel procedimento penale sostanzialmente inutile e al contempo una pericolosa abdicazione del presidio d’urgenza del processo e della sicurezza pubblica.
5. Il dilemma tra efficacia dell’azione e responsabilità per gli errori: uno sguardo all’esterno.
Il tentativo di eliminare o limitare al massimo gli errori nell’applicazione delle misure cautelari attraverso un depotenziamento totale della loro efficacia dunque non convince, perché sacrifica del tutto la protezione degli interessi collettivi a cui sono finalizzate le misure medesime.
Quello del processo penale non è del resto l’unico campo in cui la collettività demanda a qualcuno, in nome degli interessi collettivi, il potere di comprimere (a certe condizioni) diritti individuali fondamentali.
Basti pensare al medico, che ha il potere, anche senza il consenso del paziente (ad esempio in casi di urgenza) di provocare lecitamente lesioni ad un individuo, aggredendone addirittura l’integrità fisica.
Anche in questo campo, naturalmente, si determinano errori; e questi errori hanno conseguenze persino più importanti (e a volte drammatiche) di quelli che possono derivare da una custodia cautelare.
Eppure, è a tutti noto che il legislatore è più volte intervenuto negli ultimi anni per limitare fin quasi ad azzerare la responsabilità penale per gli errori dei medici e degli operatori sanitari, sul presupposto che non si possa consentire alla magistratura di intimorire e condizionare con lo spettro di un processo penale l’operato di un settore così importante.
E senza andare troppo lontano, nello stesso disegno di legge 808 che qui si commenta è contenuta la norma che abroga l’abuso d’ufficio.
Questa abrogazione viene giustificata dalla necessità di liberare gli amministratori pubblici dal “terrore della firma”.
Attenuare (se non azzerare) la responsabilità di chi provoca danni con la sua azione in nome di un superiore interesse pubblico (la salute del paziente, il buon andamento della pubblica amministrazione) è dunque possibile e il legislatore, anche questo legislatore, sembra essere assai propenso a questa scelta per molti settori, persino se coinvolgono interessi ancora più importanti della libertà personale (come la salute o la stessa vita, settori di azione dei medici).
Se ne potrebbe dedurre che la sicurezza e l’ordine pubblico, interessi alla cui tutela è preposta la lettera c dell’articolo 274 del codice di procedura penale, sono interessi ritenuti dall’attuale legislatore sacrificabili.
Ma questa conclusione è smentita da una penalizzazione esasperata che è impossibile non riscontrare nell’attuale legislazione e da altre recenti riforme del settore, tra cui si segnalano quelle che rafforzano i poteri della Polizia Giudiziaria nella applicazione di misure precautelari come arresto e fermo.
E allora torna ad affacciarsi il dubbio che il problema non sia la salvaguardia della libertà personale dell’indagato ma una larvata forma di commissariamento del potere di controllo sulla violazione dei precetti penali che la Costituzione affida alla magistratura.
6. La gerarchizzazione delle esigenze cautelari…. e l’elefante nella stanza.
Un ulteriore elemento di perplessità è costituito dalla gerarchizzazione tra le esigenze cautelari previste dal nostro codice di procedura penale, cui si accennava al termine del primo paragrafo.
Dall’impianto della riforma emerge, come si è visto, che tempestività ed efficacia della misura cautelare non sono più valori meritevoli di tutela, ma solo per alcune delle ipotesi che pure sono previste dall’articolo 274 come talmente “pericolose” da richiedere all’autorità giudiziaria di agire senza attendere l’esito del processo per comprimere la libertà dell’accusato.
Non è agevole comprendere quale sia il motivo per cui sia stata operata questa divisione tra esigenze cautelari, che sembra postulare una differenza tra un intervento cautelare a salvaguardia del processo (lettere a e b), che si connota di urgenza tale da superare l’esigenza di audire l’indagato anticipatamente, e intervento cautelare a salvaguardia della collettività (lettera c).
Il periculum in mora, in pratica, è un po’ meno… “periculum” se il rischio cui la collettività è esposta è che un soggetto gravemente indiziato di un delitto continui a delinquere.
L’importante è che non fugga o non inquini le prove del reato già commesso.
Viene da chiedersi quale sia la coerenza sistematica rispetto a recenti modifiche quali l’arresto in flagranza differita, che sembrano avere indicato la necessità di ricorrere alla privazione della libertà personale in modo massiccio anche a costo di torcere il concetto di flagranza oltre i suoi limiti concettuali.
Non è senza significato che pochi mesi orsono è stato indetto un referendum per l’abrogazione della lettera c dell’articolo 274 del codice di procedura penale.
Pur se la consultazione popolare ha avuto esito negativo per i proponenti, è interessante rilevare che la ragione per cui si è proposta l’abrogazione della norma è stata indicata in un asserito contrasto con il principio di colpevolezza.
Sul punto è sufficiente rilevare che tale contrasto è reiteratamente stato escluso dalla Corte Costituzionale, che ha stabilito che ragioni di prevenzione (esterne al processo) possono essere poste a fondamento delle misure cautelari.
Vale la pena rilevare incidentalmente che la stragrande maggioranza delle misure cautelari nel nostro paese sono adottate proprio con riferimento alla lettera c dell’articolo 274, perché di fatto è evento statisticamente assai più ricorrente che chi si renda responsabile di un reato possa reiterarlo piuttosto che lo stesso soggetto inquini le prove o si dia alla fuga, anche perché il giudizio prognostico nel primo caso è meno arduo da provare rispetto a quello delle altre due.
L’abrogazione di questa norma avrebbe dunque comportato di fatto una riduzione drastica dei casi di applicazione delle misure cautelari e la conseguente perdita di un presidio di sicurezza di fondamentale importanza.
L’introduzione dell’interrogatorio preventivo porterebbe al medesimo risultato, in pratica portando alla rarefazione dell’intervento cautelare da parte dei Pubblici Ministeri in fase di indagine, proprio mentre - per altro verso - si chiede alla Polizia Giudiziaria di arrestare anche senza flagranza.
Forse lo scenario tanto spesso evocato dai critici della separazione delle carriere, che paventano un pubblico ministero depotenziato e ridotto a mero esecutore delle operazioni di polizia, avanza a passi più veloci di quanto si immagini.
Ma c’è un ultimo aspetto da considerare: se il legislatore avesse voluto assegnare al pericolo di reiterazione dei delitti un valore ontologicamente diverso dagli altri due pericula avrebbe semplicemente previsto che, per tutte le richieste basate sulla lettera c dell’articolo 274 c.p.p., si doveva procedere ad interrogatorio preventivo.
Per quanto discutibile, questa soluzione avrebbe mantenuto un profilo di coerenza riconoscibile: la cautela della collettività (protetta dalla lettera c) è meno importante di quella del processo (protette dalle lettere a e b) e dunque deve cedere di fronte ai diritti dell’indagato.
Tuttavia, come si è detto, non è questa la scelta evincibile dal disegno di legge in esame, perché anche nell’ambito delle misure cautelari per il pericolo di reiterazione dei delitti è stata introdotta un’ulteriore distinzione: solo quelle per i reati “meno gravi” richiederanno l’interrogatorio preventivo, mentre per le altre si seguirà la regola tradizionale.
Al di là della discutibilità del criterio seguito, che rinviando all’elenco dell’articolo 407 comma 2 lettera a del codice di procedura penale assegna maggiore o minore gravità ai reati a seconda che siano o meno inserite nella norma pensata per la lunghezza dei termini delle indagini preliminari (che è cosa ben diversa), è evidente che allora anche il discorso cambia completamente.
Non si può dire che la tutela della collettività ceda rispetto agli interessi del singolo, ma che l’interesse del singolo prevale solo per determinati reati che ricadono in una fascia considerata grave (perché consentono l’adozione di una misura cautelare) ma non abbastanza (perché non inseriti nello speciale elenco dell’articolo 407 comma 2 lettera a).
Per questa specifica fascia di reati dovrebbe ipotizzarsi che una reiterazione dei delitti possa essere elisa anticipando l’interrogatorio dell’indagato, come se – anziché privare il soggetto che si rivela gravato da indizi di colpevolezza della libertà personale – bastasse chiamarlo e renderlo edotto della spada di Damocle di una richiesta di misura cautelare per indurlo a cessare dalle condotte illecite, circostanza che risulta difficile immaginare in chi vive abitualmente di delinquenza (come negli esempi fatti del soggetto dedito alla pedopornografia o dello spacciatore) ma che si attaglia bene ai delitti compiuti da non professionisti del crimine come ad esempio i “colletti bianchi”.
E poiché è inverosimile che un giudice si accontenti in tal senso delle mere rassicurazioni dell’indagato di impegnarsi a non reiterare il delitto, questa cessazione dovrebbe essere resa plasticamente da qualche condotta riscontrabile, come può accadere ad esempio per i delitti contro la Pubblica Amministrazione con le dimissioni dalla carica…. Cominciate a vedere anche voi l’elefante nella stanza?
[1] Da Wikipedia: “elefante nella stanza” (in inglese elephant in the room) è un’espressione tipica della lingua inglese per indicare una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene ignorata o minimizzata. L’espressione si riferisce cioè ad un problema noto ma di cui nessuno vuole discutere… questo atteggiamento è tipicamente adottato in presenza di tabu sociali o di situazioni imbarazzanti”.
[2] Costantino De Robbio, Collegialità del giudice della misura cautelare e separazione delle carriere: due tasselli di uno stesso mosaico, in questa Rivista, 19 maggio 2023.
[3] Le voci critiche, pressoché unanimi, non vengono solo dalla magistratura cfr. documenti redatti sul punto dall’ANM – ma altresì dalla dottrina: sul punto cfr. Tra gli altri MARANDOLA, Troppi dubbi sulle garanzie dell’interrogatorio cautelare anticipato, in Sistema Penale, 10 maggio 2024 o BRONZO, Brevi note sul “disegno di legge Nordio”, in Sistema Penale, 12 aprile 2024.
Nell'immagine, l'elefante in una stanza secondo Banksy.