ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Art. 344 bis c.p.p.: questioni di incostituzionalità e criticità applicative
di Giorgio Spangher
Il dibattito, finalmente sviluppatosi, intorno all’operatività dell’art. 344 bis c.p.p., superando le contrapposte posizioni ideologico-politiche in materia, fa emergere le criticità della norma e i suoi contrasti interpretativi.
Emerge, comunque con chiarezza, come sia mancata nella concitata fase di chiusura dell’accordo politico, una certa lucidità nel percepire le implicazioni di ciò che si stava introducendo in un sistema complesso come quello della giustizia penale, così fortemente strutturato in termini sistematici e normativi.
Ci sono, come sempre, in un sistema governato dalla gerarchia delle fonti, aspetti costituzionali e sovranazionali di cui l’interprete deve tener conto, anche prima di affrontare gli aspetti più strettamente processuali.
Sotto questo aspetto, la norma prospetta una serie non secondaria di questioni che ci si limiterà ad indicare e sulle quali potrà prospettarsi quel confronto di idee che è il sale della dialettica che non voglia fideisticamente schierarsi.
Si prospetta, invero, la stessa legittimità della norma che, togliendo al giudice il potere di decidere, le questioni che le parti hanno prospettato, potrebbe confliggere, se non con l’art. 112 Cost., quanto meno con l’art. 101 Cost., cioè con la stessa funzione giurisdizionale, senza contare i riflessi delle norme sovranazionali. Più che le parti, sicuramente lese nel diritto all’effettività delle decisioni, è lo stesso ruolo del giudice che la norma sembra pregiudicare.
Si prospettano poi questioni di maggior dettaglio: il potere ufficioso del giudice di prorogare il termine di definizione del giudizio d’impugnazione; la razionalità-proporzionalità dei tempi del giudizio in relazione alla diversità dei reati; la lesione della durata ragionevole in caso di proroghe che non sono quantificate essendo suscettibili di un numero indefinito.
Sempre in relazione alle proroghe si prospettano questioni in ordine alla impugnabilità della relativa decisione, nonché in materia di tassatività delle condizioni che legittimano le proroghe (pluralità dei reati, di imputati, complessità).
Non manca la “classica” questione sulla retroattività o meno della disciplina appena introdotta, condizionata dalle diverse possibili opinioni in ordine alla sua natura (processuale, penale, mista).
Ancora maggiori incertezze prospettano le questioni processuali che possono essere qui elencate in rapida successione.
In primo luogo, si manifestano incertezze sul regime transitorio di cui ai commi 3, 4 e 5 dell’art. 2 della l. n. 134 del 2021, apparendo incerta una ricostruzione contrastante con la formulazione letterale delle previsioni.
Criticità si evidenziano, con pregiudizio per il prosciolto e per l’innocente, non superabili, con la rinuncia, in ordine all’operatività dell’art. 129 cpv. c.p.p.
Fortemente controversa si prospetta la questione del rapporto tra l’inammissibilità e l’improcedibilità per decorso dei termini della fase di gravame.
Non sono definiti tempi di celebrazione dei mezzi di impugnazione straordinari, né tempi massimi in caso di plurimi annullamenti e rinvii.
Incertezze si prospettano in ordine al valore del materiale probatorio raccolto nel procedimento definito con l’improcedibilità.
Non sono delineati i tempi in caso di plurime rinnovazioni probatorie differite in più udienze; manca una individuazione dei termini in caso di annullamento di una declaratoria di inammissibilità.
Questioni complesse si prospettano in caso di rinvio con annullamento parziale.
Non è convincente l’idea che la previsione non operi in caso di impugnazione della parte civile per i soli interessi civili.
Si sono già prospettati contrasti interpretativi in materia di effetti della decisione sulla responsabilità degli enti.
Alcune questioni (interessi civili e confisca) attendono l’attuazione della direttiva dell’art. 1 della l. n. 134 del 2021 contenute in ampia delega in materia.
Può prospettarsi una questione in tema di ne bis in idem?
Una particolare patologia si evidenzia in caso di erronea dichiarazione di prescrizione in seguito all’operatività dell’art. 604, c. 6, c.p.p. ed impossibilità di dichiarare la prescrizione.
Una certa criticità evidenzia la disciplina di cui all’art. 161 bis c.p., in punto di momento di ripresa del tempo della prescrizione in caso di annullamento della decisione e rinvio, individuato nella definitività della decisione.
Naturalmente si tratta di questioni problematiche alle quali non è escluso che possano essere proposte adeguate soluzioni interpretative, atte a superare comunque non tutte le criticità segnalate.
Forse meno improvvisazione sarebbe stata opportuna.
Ergastolo ostativo: rispettare la Convenzione, la Costituzione e le sentenze delle Corti
di Ignazio Juan Patrone
del Comitato scientifico dell’Associazione Antigone Onlus [1]
Sommario: 1. Ergastolo, ostativo e non: di cosa parliamo? - 2. Prima venne la Corte Europea… - 3. …poi arrivò la sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale sul permesso premio… - 4. …è quindi arrivata l’ordinanza n. 97 del 2021 della Corte costituzionale sulla liberazione condizionale - 5. …e la parola è passata ora al legislatore.
1. Ergastolo, ostativo e non: di cosa parliamo?
A partire dalla fine del 2015, una volta finiti gli effetti della sentenza Torregiani della CEDU e dei provvedimenti assunti per tamponare il fenomeno del sovraffollamento carcerario, in Italia la popolazione detenuta è cresciuta costantemente, ciò in assenza di una parallela crescita della criminalità, anche grave, che al contrario, secondo i dati del Ministero dell’interno è in costante diminuzione così come il dato degli stessi nuovi ingressi in carcere .
Se guardiamo ad un arco di tempo più ampio, vediamo che al 31 dicembre 2005 le persone detenute cui era stata inflitta una pena superiore ai 10 anni di carcere erano il 23,3% dei detenuti con una condanna definitiva. Alla fine del 2019 tale percentuale è salita al 26,9% e, secondo i dati del Garante nazionale, esse erano 8.929 al 24 giugno 2021.
Un aumento ancora maggiore si è avuto nelle condanne alla pena dell’ergastolo. La percentuale dei “fine pena: mai”, rispetto al totale dei detenuti condannati, è salita dal 3,3% al 4,3%. In numero assoluto, nel 2003 gli ergastolani avevano superato di poco il migliaio di unità, arrivando a 1.068, nel 2004 erano 1.161, nel 2009 erano 1.224, aumentati nel 2014 a 1.604 per arrivare nel giugno 2021 addirittura a 1.780 condannati alla pena perpetua , un numero presumibilmente destinato a salire per la recente riforma del rito abbreviato introdotta dall'art. 1, comma 1, lett. a), della legge 12 aprile 2019, n. 33, che ha escluso per i reati commessi dalla data della sua entrata in vigore (20 aprile 2019) l'applicabilità della riduzione di pena prevista da tale rito ai delitti puniti con l’ergastolo (art. 438 co. 1 bis c.p.p.).
Va al contrario rilevato che è costante, nello stesso arco di tempo, la linea tendenziale del calo della grave criminalità in Italia che indica – secondo le statistiche dell'Istat e del Ministero dell’interno, una progressiva riduzione nel numero dei reati, a partire dal delitto di omicidio volontario, il reato per il quale più frequentemente viene irrogata la pena perpetua: gli omicidi dolosi sono stati 1.773 nel 1990, 746 nel 2000 e 318 nel 2019, una diminuzione assoluta e percentuale impressionante: quindi, mentre il tasso di omicidi è diminuito le condanne alla pena perpetua sono aumentate in modo assai rilevante.
Gli ergastolani in regime ostativo sono oggi circa il 70% del totale dei condannati alla pena perpetua: parliamo infatti, secondo i dati dell’ultimo Rapporto annuale al Parlamento del Garante nazionale che sono riferiti al 28 aprile 2020, di 1.259 detenuti che stanno scontando una pena che – salve le ipotesi di cui all’art. 58-ter OP - non presenta possibilità di reintegrazione sociale, a fronte di un numero totale alla stessa data di 1.779 ergastolani: è un numero che dovrebbe far riflettere in quanto dimostrativo del fatto che l’ergastolo, e in particolare quello scontato in regime ex art. 4-bis OP, non è sicuramente una pena in disuso né di marginale applicazione, anzi se ne va allargando il campo di applicazione. Una conseguenza di ciò è l’aumento del numero dei decessi di ergastolani in carcere (11 nel 2020) e dell’età media dei detenuti, tra i quali le persone con 70 anni e più erano 350 nel 2005 e 851 nel 2020 secondo i dati elaborati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
2. Prima venne la Corte Europea…
La Corte Europea, nella causa Marcello Viola Italia (n. 2) (ricorso n. 77633/16), sentenza del 13 giugno 2019, non avrebbe potuto essere più chiara: l’ergastolo ostativo ex art. 4-bis OP, nella parte in cui stabilisce una presunzione assoluta di permanente pericolosità per l’ergastolano non collaborante, non è compatibile con la Convenzione Europea per la violazione dell’art. 3: la violazione assume in Italia carattere strutturale: il legislatore deve intervenire se vuole evitare condanne in serie [2].
Non sembra che nel dibattito sviluppatosi dopo la sentenza Viola - e dopo l’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021 - lo specifico aspetto della violazione “strutturale” della Convenzione, con tutte le sue potenziali conseguenze, sia stato tenuto nel debito conto.
Come purtroppo è noto, il nostro Paese ha già dovuto risolvere problemi nascenti da sentenze della Corte di Strasburgo e da questa qualificati come strutturali: mi limito a ricordare Bottazzi c. Italia, (ricorso n. 34884/97) del 28 luglio 1999, Grande Chambre, che diede l’avvio alla nota giurisprudenza seriale in tema di irragionevole durata dei nostri processi e ci costrinse alla introduzione del rimedio rappresentato dalla legge Pinto; ed ancora, in tema di sovraffollamento carcerario e di modalità inumane di esecuzione delle pene, la sentenza Torreggiani c. Italia dell'8 gennaio 2013, che ci costrinse ad approntare in tutta fretta misure atte a diminuire il numero delle persone ristrette in carcere. In tutti questi casi l’accertamento da parte della Corte di un problema seriale o strutturale ha comportato oneri economici, discussioni infinite, interventi tardivi ed accumulo di casi davanti alla Corte europea ed alle giurisdizioni nazionali. Ciò senza voler considerare un effetto, a volte latente, dato dalla perdita di prestigio del sistema di giustizia che tali violazioni seriali comportano agli occhi dei nostri Partners, con conseguenze, specie in materia di cooperazione penale, che riguardano l’affidabilità dei provvedimenti nazionali, le eccezioni delle difese in materia di mandato di arresto europeo, il grado di preventiva fiducia da parte delle autorità nazionali. Sarebbe meglio perciò evitare il ripetersi di simili situazioni.
La sentenza Viola non è stata un fulmine a ciel sereno: essa si è inserita perfettamente in una lunga serie di pronunce di contenuto analogo, riguardanti diversi Stati membri del Consiglio d’Europa, tutte ampiamente citate nella motivazione . Si tratta dunque di una giurisprudenza consolidata, come tale meritevole di considerazione nel diritto interno anche ai sensi dell’art. 117 Cost. Ci dobbiamo perciò domandare se una legge che, pur accogliendo l'invito del Giudice di Strasburgo, limitasse in concreto l'accesso effettivo ai benefici, ad esempio aumentando la durata della pena da scontare prima di poter presentare l'istanza, ovvero ponendo a carico del condannato oneri probatori estremamente difficili se non impossibili da adempiere, non ci esporrebbe ad una nuova serie di ricorsi e probabilmente di condanne, con tutto ciò che ne deriverebbe in termini di disfunzioni e di perdita di credibilità del nostro sistema penale.
3. …poi arrivò la sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale sul permesso premio…
La sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; ed ha dichiarato in via consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo OP.
La decisione è una delle più commentate (ed importanti) nei tempi recenti (sul sito giurcost.org si contano, alla data di pubblicazione di questa nota, ben tredici commenti di autorevoli costituzionalisti e penalisti) e chi scrive non ha né le capacità né l’intenzione di aggiungere qualcosa di nuovo e di utile in proposito. Ai modesti fini del presente scritto importa però rilevare che nella sentenza è chiaramente detto che la presunzione assoluta di perdurante pericolosità del condannato in mancanza di collaborazione viola gli arti. 3 e 27 della Costituzione, in quanto contraria ai principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, dovendo le esigenze sottese alla prevenzione dei delitti di criminalità organizzata e di terrorismo essere soddisfatte attraverso “l’acquisizione di stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (a partire da quelli di natura economico-patrimoniale)”. L'incostituzionalità del vigente regime ostativo era già stata dichiarata nel 2019 e, dopo quella del permesso premio, era inevitabile che sarebbe arrivata presto o tardi la questione della liberazione condizionale.
4. …è quindi arrivata l’ordinanza n. 97 del 2021 della Corte costituzionale sulla liberazione condizionale
Anche questo provvedimento ha dato luogo ad una lunga serie di commenti, sia sotto il profilo dell’aderenza dello stesso ai compiti assegnati dalla Costituzione alla Corte, sia nel merito del decisum della Corte. Ci asterremo perciò anche qui dall’aggiungere un nostro parere, salvo precisare, ai fini che interessano, che a nostro avviso:
- L’incostituzionalità della vigente disciplina dell’ergastolo ex art. 4-bis O.P., ostativa alla concessione dei benefici salvo collaborazione, è già stata dichiarata sia dalla citata sentenza n. 253 del 2019 che dall'ordinanza n. 97 del 2021 e sul punto non si potrà tornare:
- Il legislatore, che già era in mora a seguito della sentenza Viola c. Italia, ora ha un termine perentorio per adempiere, il 10 maggio 2022:
- la futura disciplina dovrà necessariamente avere un contenuto vincolato all’adempimento di quanto è stato deciso dalla Corte Europea e dalla Corte costituzionale:
Mentre un mancato intervento normativo avrà la conseguenza di condurre inevitabilmente alla dichiarazione di incostituzionalità della disciplina vigente, con conseguente effetto anche sui ricorsi pendenti a Strasburgo, non è del tutto chiaro cosa accadrebbe qualora le due Corti dovessero riscontare, ciascuna nell’ambito delle propria competenza, che le disposizioni che verranno introdotte non adempiono (o non adempiono pienamente) a quanto deciso: ma mentre la Corte Europea, presumibilmente, in applicazione dei principi sottesi alla sua giurisprudenza per le violazioni strutturali, non farebbe altro che condannare l’Italia (quasi) automaticamente nel caso di ricorsi di persone che scontano l’ergastolo e che non sono collaboranti, la Corte costituzionale sembra essersi assegnata un compito ulteriore, quello di “verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte (ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018)” (n. 11 del Considerato in diritto): un inciso questo che, salvo errore, non era contenuto nelle due ordinanze di incostituzionalità differita citate. Si profila perciò un possibile scrutinio di legittimità costituzionale sollevato dalla Corte davanti a se stessa, ciò che in questi termini forse sarebbe un inedito.
5. …e la parola è passata ora al legislatore
Afferma la Corte costituzionale nell'ordinanza n. 97 che “anche nel presente caso, ed anzi in questo a maggior ragione, la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino“.
La Corte costituzionale ha poi affermato a chiare lettere anche che “spetta in primo luogo al legislatore ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata”: equilibrio tra argomenti in campo che, senza poter essere qui troppo analitici, discendono sia dalle disarmonie createsi tra le diverse misure premiali dopo la sentenza della Corte n. 253 del 2019, che ha dichiarato incostituzionale il divieto di concedere per i delitti di cui all'art. 4-bis i permessi premio, sia soprattutto dal fatto che l'art. 4-bis è diventato ormai un contenitore di delitti dal legislatore ritenuti tutti tanto gravi da meritare un regime penitenziario differenziato, ma che risulta privo di qualsiasi coerenza sotto entrambi i profili di politica criminale e di politica penitenziaria, visto che comprende reati di criminalità organizzata e terrorismo insieme a reati contro la pubblica amministrazione, reati contro la libertà sessuale ed altri ancora.
La disciplina che verrà introdotta dovrà essere perciò rispettosa delle pronunce delle due Corti, nel senso che dovrà regolare l’acquisizione dei “congrui e specifici elementi” che escludano i collegamenti, senza rendere però eccessivamente difficile l'esercizio del diritto sino a renderlo illusorio. Il passaggio certamente più delicato concerne dunque le modalità con le quali, in concreto, potrà essere regolato il superamento della presunzione di pericolosità, che da assoluta dovrà diventare relativa. Un aggravio probatorio che venga posto a carico del richiedente che giunga sino a chiedergli di provare il fatto negativo della mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, renderebbe solo nominale la modifica della presunzione di pericolosità, senza contare che la prova negativa di un fatto non può mai essere richiesta, incombendo semmai all'autorità provare la mancanza dei requisiti richiesti per accedere ad un beneficio. Una soluzione che non tenesse conto di queste basilari regole di diritto esporrebbe la nuova disciplina ad un nuovo giudizio di costituzionalità ed aprirebbe la strada ad ulteriori ricorsi alla CtEDU, il che sarebbe assolutamente da evitare.
Sono in discussione alla Commissione giustizia della Camera tre proposte di legge, ora unificate in un testo base, che, esaminate nel loro complesso, sembrano più orientate a salvaguardare le ragioni che hanno fondato il regime speciale originario di cui all'art. 4-bis dell'OP piuttosto che alla considerazione delle chiare e vincolanti indicazioni provenienti dalle due Corti.
Il testo base contiene in qualche passaggio una riscrittura addirittura peggiorativa della disciplina vigente ovvero poco comprensibile, mentre altri punti appaiono meritevoli di positiva considerazione.
Anzitutto nel testo del comma 1-bis si vorrebbe far scomparire la disciplina delle situazioni di collaborazione impossibile e inesigibile che verrebbero dunque assimilate alla collaborazione possibile ma non prestata. Qui occorre ricordare che la disciplina vigente – che è il frutto di due interventi della Corte costituzionale – si attaglia a situazioni che continuerebbero ad esistere e che paiono meritevoli di specifica considerazione perché le differenze tra chi non può collaborare e chi non vuole collaborare sono sotto ogni riguardo significative. Il risultato è un non necessario ed ingiustificato aggravamento delle condizioni del condannato che non possa collaborare in modo.
Viene escluso ogni riferimento all'obbligo di indicare le ragioni della mancata collaborazione, soluzione che si condivide nella misura in cui tale indicazione rappresentava una condizione necessaria per l’accesso ai benefici, anziché un possibile elemento valutativo come indicato dalla stessa Corte costituzionale: far dipendere la concessione del beneficio dalla esternazione delle ragioni del silenzio significherebbe far rientrare dalla finestra la collaborazione necessaria, in quanto è chiaro che tutte le ragioni che si fondano sul timore di ritorsioni a carico proprio o dei familiari, ovvero sulla volontà di non autoincriminarsi per ulteriori delitti, non possono essere esplicitate a meno che non si chieda di dire proprio ciò che il detenuto ha scelto di non rivelare per non mettere in pericolo sé stesso o il suo nucleo familiare.
Per come è scritto, l’onere a carico del condannato quanto alla “specifica” allegazione di “congrui, specifici elementi concreti”, che consentano di escludere con certezza l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata assomiglia molto ad un inammissibile onere di prova negativa: poco chiari sono i riferimenti al “contesto nel quale il reato è stato commesso”, alle “circostanze personali e ambientali”, espressioni che sembrano voler indicare una sorta di sospetto a vita, anche dopo molti anni trascorsi in carcere, a carico del condannato, creando quasi un inammissibile “tipo d'autore”; espressioni troppo vaghe e poco tecniche lascerebbero il campo ad interpretazioni le più varie da parte degli uffici di sorveglianza, ciò che invece nella delicata materia andrebbe in ogni modo evitato.
Va visto con favore l'abbandono, nel testo base oggi in discussione, della proposta sulla competenza unica nazionale in capo al Tribunale di sorveglianza di Roma, che diventerebbe così il giudice unico della pena per i reati più gravi di mafia essendo già competente per i provvedimenti di sottoposizione al regime di cui all'art. 41-bis e per i benefici per i collaboratori di giustizia. L'originaria proposta si giustificava con l'esigenza di avere interpretazioni il più possibile conformi da parte degli uffici di sorveglianza: essa però potrà essere garantita da un sistema di raccolta delle informazioni che sia massimamente razionale ed uniforme, ciò che nel testo non è: intanto non sembra del tutto logico che vengano acquisite informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica non del luogo di detenzione, come è oggi, ma di quello del luogo ove ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado, ciò perché la sentenza di primo grado ben potrebbe essere stata di assoluzione, la condotta criminale essersi manifestata in più luoghi collocati in diversi distretti: se si intende far riferimento al luogo (o ai luoghi) di commissione dei fatti oggetto di condanna sarebbe meglio scriverlo chiaramente.
Vi è una certa confusione nel ruolo degli uffici del PM chiamati ad esprimere pareri che, al tempo stesso, sembrerebbero autorizzati anche a formulare istanze istruttorie, atti questi che presuppongono la qualità di parte del procedimento e non quella di organo consultivo.
Del tutto ingiustificati ( ed anche poco razionali) appaiono i nuovi termini di espiazione della pena che si vorrebbero introdurre agli artt. 58-quater OP e 176 e 177 codice penale.
Le proposte modifiche sembrano infatti non tenere in alcun conto i più recenti orientamenti della Corte costituzionale, in particolare la sentenza n. 32 del 2020 la quale: a) ha dichiarato illegittime le disposizioni della legge cd spazzacorrotti nella parte le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale; b) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso. Cisò in quanto, come ha scritto la Corte, “allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato… In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes… che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato”.
Ora, in base ai principi affermati dalla Corte, le modifiche che si vogliono introdurre quanto alla misura delle pene da scontare prima di accedere ai benefici, o vengono applicate ai reati commessi dopo l'entrata in vigore della nuova legge, o ricadrebbero in una inevitabile incostituzionalità. Come ricorda la Corte costituzionale in motivazione, disposizioni come quelle che si vorrebbero introdurre rischiano anche di venire censurate anche dalla CtEDU la quale “ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta – però – per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice». Altrimenti, ha osservato la Corte, «gli Stati resterebbero liberi – ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti – di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato. Ove il divieto di retroattività non operasse in tali ipotesi – conclude la Corte – l’art. 7 CEDU verrebbe privato di ogni effetto utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89).
[1] La presente nota riproduce, in parte, il contenuto delle Osservazioni depositate da Antigone Onlus quale amicus curiae nel giudizio davanti alla Corte costituzionale che ha portato alla pronuncia dell'ordinanza n. 97 del 2021, e di una memoria inviata ai deputati componenti la Commissione giustizia della Camera in occasione della discussione dei progetti di legge oggi unificati nel testo base di cui si dirà in prosieguo. Ovviamente la responsabilità di questo testo è solo di chi scrive.
[2] La motivazione della Corte è di limpida chiarezza: “141. La presente causa mette in luce un problema strutturale che fa sì che un certo numero di ricorsi sono attualmente pendenti dinanzi alla Corte. In prospettiva, essa potrebbe dare luogo alla presentazione di molti altri ricorsi relativi alla stessa problematica. 142. La Corte ribadisce che la presunzione inconfutabile di pericolosità, prevista in materia di ergastolo per i reati di cui all’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, derivante dall’assenza di collaborazione con la giustizia, rischia di privare i condannati per tali reati di qualsiasi prospettiva di liberazione e della possibilità di ottenere un riesame della pena. 143. La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della «dissociazione» dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente. 144. …la possibilità di riesame della reclusione perpetua implica la possibilità per il condannato di chiedere una liberazione, ma non di ottenere necessariamente la scarcerazione se continua a costituire un pericolo per la società.”
Brevi riflessioni critiche sulle modifiche all’articolo 4 bis della legge 26 luglio 1975 numero 354, proposte nel testo unificato derivante dalle proposte di legge C. 1951, 3106 e 3184 in discussione presso la Camera dei Deputati
di Giovanni Di Leo
1. Il nuovo testo della norma in corso di discussione alla camera dei deputati, è frutto della fusione di tre diversi disegni di legge presentati dai vari schieramenti, e presenta una serie di interventi sul testo del vigente articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario.
Scopo della riforma è, secondo i promotori, rispettivamente:
- (Proposta Bruno Bossio) …..la revisione della preclusione assoluta all’accesso ai benefìci penitenziari da parte dei soggetti autori di reati di cui all’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, per il solo fatto della loro mancata « collaborazione » con la giustizia ai sensi dell’articolo 58-ter della medesima legge. In particolare, la presente proposta di legge, con le modifiche apportate, permetterà il superamento del regime costituito dal cosiddetto « ergastolo ostativo », una figura di creazione dottrinale, e a trasformare l’attuale presunzione di non rieducatività in assenza di collaborazione da assoluta in relativa, riducendo così la pena dell’ergastolo prevista dall’articolo 22 del codice penale, che già di per sé pone seri problemi di costituzionalità sotto due profili: il principio rieducativo e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, entrambi sanciti dal terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, quest’ultimo ribadito anche dall’articolo 3 della Convenzione europea per la salva-guardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge n. 848 del 1955, norma avente rango sub-costituzionale per effetto dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione.
- (Proposta Ferraresi ed altri) la necessità di un intervento correttivo mediante cui il legislatore introduca adeguati criteri e princìpi per concedere o negare i permessi premio e ogni altro tipo di beneficio ai condannati per reati legati alla criminalità organizzata cui si applicava il regime « ostativo », disciplinando la discrezionalità dei giudici di sorveglianza per quanto riguarda il percorso rieducativo, il risarcimento del danno e i collegamenti con la criminalità organizzata… L’obiettivo della presente proposta di legge è, inoltre, quello di garantire l’uniformità delle decisioni a livello nazionale per quanto concerne i giudizi riguardanti i detenuti o gli internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975, per i delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, nonché per i delitti di cui all’articolo 416-bis del codice penale o commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di age-volare l’attività delle associazioni in esso previste, assicurando, nel contempo, una maggiore tutela ai soggetti che dovranno prendere queste delicate decisioni. La presente proposta di legge, inoltre, è volta a introdurre modifiche alla legislazione vigente che impediscano ai responsabili di reati molto gravi – in conseguenza dei quali sono stati condannati a pene tanto rigide – di ottenere permessi e altri benefìci senza meritarli e con gravi pericoli per la collettività. Per i motivi esposti e tenuto conto della citata ordinanza della Corte costituzionale, che ha rinviato a maggio 2022 la tratta-zione sul tema, dando al legislatore il tempo necessario per intervenire, si auspicano una forte convergenza da parte delle forze politiche parlamentari e un celere esame della presente proposta di legge, che si compone di cinque articoli…..
- (Proposta DELMASTRO ed altri) L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 dell’11 maggio 2021 ha segnato un « punto di non ritorno » in merito alla compatibilità della disciplina relativa all’ergastolo cosiddetto « ostativo » con gli articoli 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione……Tale pronuncia si pone al culmine di un processo di lenta, ma inarrestabile erosione della normativa speciale per contrastare la criminalità organizzata fondato sulla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi sulla disciplina ostativa, per oltre venticinque anni, a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 306 dell’8 luglio 1993 fino alla sentenza della stessa Corte n. 253 del 4 dicembre 2019. ………è urgente e improcrastinabile un intervento del legislatore, peraltro sollecitato dalla stessa Corte costituzionale, al fine di intervenire sulla normativa introdotta nel periodo più difficile della lotta allo sciagurato fenomeno mafioso. La presente proposta di legge si pone l’obiettivo di salvaguardare, pur nel rispetto delle indicazioni della Corte, le esigenze social-preventive nei confronti della criminalità organizzata e di difesa sociale e di scongiurare che il percorso di frontale contrasto della criminalità organizzata venga disarticolato a causa di mal interpretati e mal metabolizzati princìpi relativi alla funzione rieducativa della pena. Attualmente, per le condanne inflitte a seguito dei delitti elencati al citato comma 1 dell’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, i benefìci della liberazione condizionale e della retrocessione dell’ergastolo sono ammessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia o di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione mede-sima. Con la citata ordinanza del 2021, la Corte costituzionale, a seguito di una sua precedente pronuncia sul punto della compatibilità dell’ergastolo ostativo con la finalità rieducativa della pena, ha sollecitato il legislatore a intervenire per rimuovere i profili di criticità evidenziati e che si porrebbero in contrasto con la funzione rieducativa della pena, contemperando il regime generale applicabile ai condannati per delitti connessi alla criminalità organizzata con la possibilità per il tribunale di sorveglianza di adottare decisioni personalizzate alla presenza di determinate condizioni. La Corte costituzionale, evitando un intervento meramente demolitorio che non solo avrebbe avuto chiari effetti disarmonici sul complessivo equilibrio della speciale disciplina, ma che avrebbe anche compromesso le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, ha sollecitato il Parlamento a modificare la disciplina dell’ergastolo ostativo. È necessario, dunque, intervenire tempestivamente perché la funzione rieducativa della pena venga mantenuta in equilibrio costituzionale con altre funzioni della pena che, nel caso del contrasto della criminalità organizzata, hanno un valore certamente fondamentale e soprattutto che si circoscriva con precisione il perimetro all’interno del quale si possa ritenere maturato un serio, genuino, sincero, metabolizzato e convinto percorso di reinserimento nella società, previo abbandono della mentalità, degli agiti e delle frequentazioni criminali e associative. La Corte costituzionale ha censurato la presunzione assoluta di perdurante pericolosità a carico del soggetto condannato all’ergastolo non collaborante. La vischiosità dei fenomeni criminali associativi induce a ritenere che la meritevolezza di qualsiasi beneficio debba essere decisamente soppesata, soprattutto in assenza di collaborazione, e, in ogni caso, che l’onere probatorio debba essere posto in capo al detenuto. La finalità rieducativa della pena deve essere contemperata con le esigenze di sicurezza della collettività e con le esigenze social-preventive: solo una fondata e argomentata prognosi in ordine alla non reiterazione del reato e alla rescissione di ogni collegamento con ambienti criminosi, con onere probatorio a carico del detenuto, può consentire una positiva valutazione relativa alla non attualità della pericolosità sociale che giustifica l’ammissione ai benefìci. La presente proposta di legge si com-pone di due articoli e intende contemperare i contrapposti valori di preminente rilievo costituzionale dell’esigenza di difesa sociale e della finalità rieducativa della pena.
Si è scelto di riportare i termini iniziali delle relative relazioni illustrative dei singoli disegni di legge per dare conto della diversità in alcuni casi profonda delle “sensibilità” politiche sul tema. Complessivamente, tuttavia, le diverse proposte partono dalla presa d’atto della crisi “costituzionale” dell’attuale assetto normativo vigente in tema di misure alternative alla detenzione, benefici penitenziari e permessi premio, ponendo, ciascuna, l’accento maggiormente su l’una o l’altra delle esigenze che rendono necessaria la riforma. Sia essa la riconduzione a compatibilità costituzionale della pena dell’ergastolo per i detenuti per reati “di prima fascia” (per la definizione si veda la estesa giurisprudenza costituzionale sull’art. 4 bis O.P.), o la piena estrinsecazione della finalità rieducativa della pena, o le perduranti esigenze di sicurezza connesse alla richiesta “meritevolezza” di tali benefici, tutte le riforme finiscono con il richiedere l’abbandono dell’automatismo impeditivo sorto, come rilevato nella proposta di legge a firma dell’on.le Ferraresi, anche a tutela della magistratura di sorveglianza, per i condannati che non collaborano con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter O.P., e con il ricercare elementi alternativi che consentano al decisore di rilevare eventuali elementi di attuale collegamento con le organizzazioni criminali di provenienza e di porre nel nulla un giudizio di non perdurante pericolosità sociale del detenuto. In sintesi, è necessario l’abbandono di ogni presunzione legale, così come richiesto già dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte Costituzionale in tema di permessi premio, disciplinati dall’art. 30 ter O.P., l’elaborazione di criteri concreti da porre in sede di verifica dei presupposti nelle mani di giudici pienamente liberi di esercitare il loro discrezionale giudizio nel caso concreto.
Il testo in ultimo concordato tra le forze politiche, e le ulteriori necessarie modifiche ad alcune norme dell’ordinamento penitenziario, nello sforzo di adeguarsi al decisum della Corte Costituzionale n. 97/21 che, nella sostanza, preannuncia una declaratoria d’illegittimità costituzionale del regime in atto vigente, in caso di mancata modifica dell’attuale assetto normativo, non sembra, tuttavia, raggiungere lo scopo.
2. Com’è noto, il divieto di concessione dei benefici previsti dagli articoli 47 e seguenti dell’ordinamento penitenziario, nonché ai sensi dell’art. 2 del D.L. 152/91 della liberazione condizionale prevista dal codice penale, ai detenuti per taluni reati di particolare gravità ed efferatezza, previsti dal comma 1 dell’art. 4 bis O.P., di cui si presumeva ex lege la pericolosità “perdurante” anche in regime di detenzione speciale, era fondato, da un lato, su un’analisi delle caratteristiche criminologiche intrinseche dei detenuti per tali delitti, legati ad organizzazioni criminali immanenti e radicate nel territorio, come nella sub-cultura criminale di appartenenza, e dall’altro dalla necessità di opporre uno scudo alle pressioni che venivano di fatto esercitate sull’ultimo settore dell’ordinamento penale, quello della esecuzione in concreto delle pene, e cioè sulla Magistratura di sorveglianza e sugli operatori carcerari.
Vale la pena riportare la attenta ricostruzione del sorgere della disciplina in questione operata nella sentenza n. 253/2019 della Corte delle leggi: “Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale che indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi a modificare, secondo una linea di progressivo inasprimento, l’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354» (sentenza n. 68 del 1995), riversando così tali ragioni all’interno dell’ordinamento penitenziario e dell’esecuzione della pena.
Nella prima versione – introdotta dall’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito – l’art. 4-bis ordin. penit. prevedeva due distinte “fasce” di condannati, a seconda della riconducibilità, più o meno diretta, dei titoli di reato a fatti di criminalità organizzata o eversiva.
Per i reati “di prima fascia” – comprendenti l’associazione di tipo mafioso, i relativi “delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico – l’accesso a taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario era possibile, alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».
Per i reati “di seconda fascia” (omicidio, rapina ed estorsione aggravate, nonché produzione e traffico di ingenti quantità di stupefacenti: «delitti, questi, per i quali le connessioni con la criminalità organizzata erano, nella valutazione del legislatore, meramente eventuali», come affermato nella sentenza n. 149 del 2018) si richiedeva – in termini inversi, dal punto di vista probatorio – l’insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti.
Accanto a questa distinzione di fondo, singole previsioni stabilivano, quale ulteriore requisito per l’ammissione a specifici benefici (tra i quali il permesso premio), che i condannati avessero espiato un periodo minimo di pena più elevato dell’ordinario, a meno che non si trattasse di persone che avevano collaborato con la giustizia, secondo la nuova previsione dell’art. 58-ter ordin. penit., che lo stesso d.l. n. 152 del 1991, come convertito, aveva introdotto nella legge penitenziaria del 1975.
In questa prima fase, dunque, il trattamento di maggior rigore per i condannati per reati di criminalità organizzata veniva realizzato su due piani, fra loro complementari. Come spiega la sentenza n. 68 del 1995: da un lato «si stabiliva, quale presupposto generale per l’applicabilità di alcuni istituti di favore, la necessità di accertare (alla stregua di una graduazione probatoria differenziata a seconda delle “fasce” di condannati) l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva; dall’altro, si postulava, attraverso l’introduzione o l’innalzamento dei livelli minimi di pena già espiata, un requisito specifico per l’ammissione ai singoli benefici, fondato sulla necessità di verificare per un tempo più adeguato l’effettivo percorso di risocializzazione di quanti si fossero macchiati di delitti iscrivibili nell’area della criminalità organizzata o eversiva. Requisito, a sua volta, dal quale il legislatore riteneva di poter prescindere in tutti i casi in cui fosse lo stesso condannato ad offrire prova dell’intervenuto distacco dal circuito criminale attraverso la propria condotta collaborativa».
Subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato «a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva» (sentenza n. 306 del 1993).
L’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, apporta decisive modifiche all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. Per quel che più direttamente ora interessa, nei confronti dei condannati per i reati appartenenti alla prima “fascia”, si stabilisce che l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia (fatte salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche se la collaborazione offerta risulti oggettivamente impossibile o irrilevante e sempre che sussistano, in questi casi, elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata).
Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua condurre l’accertamento circa la permanenza, nel condannato che aspira ai benefici penitenziari, di legami con la criminalità organizzata; e acquisisce invece risalto esclusivo una condotta, quella della collaborazione con la giustizia, assunta come la sola idonea a dimostrare, per facta concludentia, l’intervenuta rescissione di quei collegamenti. Ancora la sentenza n. 68 del 1995: si passa «da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)».
Come mette in luce la sentenza n. 239 del 2014, la nuova disciplina poggia insomma sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri l’appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata, o il suo collegamento con la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della sua valenza “rescissoria” del legame con il sodalizio criminale.”
È appena il caso di sottolineare che il censurato “automatismo ostativo” non fu introdotto nella originaria formulazione del testo normativo, ma nell’inasprimento dovuto alla strage del 23 maggio 1992. In precedenza come sopra evidenziato si era voluto ricercare una prova rafforzata della meritevolezza del beneficio carcerario, diversamente automatico nella sostanza, lasciando e ponendo nelle mani della magistratura di sorveglianza il potere discrezionale, che il giudice ucciso a Capaci, da Direttore Generale degli affari penali del Ministero allora della Grazia e Giustizia, non si era mai sognato di menomare.
La concessione della maggior parte di tali benefici, infatti, era ed è di competenza del Tribunale di Sorveglianza, composto anche da esperti non togati, che valutano detenuto e trattamento penitenziario, ma pretendere, allora come oggi, da parte di magistrati ed esperti che compongono tali organi, una forza d’animo ed uno spirito di servizio ancora maggiore dei loro colleghi inquirenti e giudicanti, che arrivavano in ufficio su macchine blindate e scortati sembrava, ed onestamente sembra ancora, impossibile ed ingiusto.
Donde l’alternativa dettata alla fine, dopo la strage di Capaci, dalle risorse in concreto disponibili: dotare tutti i giudici di sorveglianza dei ventisei distretti di misure di protezione analoghe a quelle assicurate, e non con esiti positivi come si era visto nel 1992 ed ancora prima, ai loro colleghi inquirenti e giudicanti di merito, o creare una sorta di scudo legale, l’impossibilità giuridica di concedere benefici penitenziari a tale tipologia specifica e limitata di detenuti, sulla base della presa d’atto della assoluta e straordinarietà pericolosità sociale del fenomeno criminale in sé e di coloro che vi prendono parte attiva commettendo delitti di tale efferatezza. Sappiamo per cosa si è optato.
La condizione ostativa alla concessione di tali benefici - spicca tra tali divieti ad esempio, ed è l’oggetto del caso concreto portato all’attenzione della Corte Costituzionale con la decisione n.253 del 2019, sulla scia della sentenza Viola contro Italia della Corte Europea per i Diritti dell’uomo, il divieto di concedere permessi premio, nonché, è il caso concreto oggi all’esame della Corte Costituzionale, la liberazione condizionale ai condannati all’ergastolo per reati di criminalità organizzata in mancanza di collaborazione con la giustizia - ha finora funzionato, di fatto precludendo ad un lungo elenco di soggetti detenuti per gravissimi delitti di criminalità organizzata, di riguadagnare la libertà non soltanto in caso di mancata collaborazione con la giustizia, ma in assenza di qualsivoglia segno concreto di resipiscenza, sulla base della mera formale partecipazione al trattamento rieducativo, ed al buon comportamento in carcere, che come è noto ai più, per il detenuto non è una facoltà, ma un dovere.
3. Il regime “ ostativo” è stato esteso a certe condizioni dalla cosiddetta legge “spazzacorrotti” n. 3 del 2019, anche ai condannati alcuni gravi reati contro la pubblica amministrazione, con la precisazione, derivante dalla decisione della Corte Costituzionale n. 32 del 2020, che la previsione non è applicabile a coloro che hanno commesso il fatto per cui è condanna anteriormente all’entrata in vigore della legge stessa.
Di particolare importanza sul punto è quanto affermato dalla pronuncia indicata a proposito di modifiche sostanziali del trattamento penale esecutivo, sin dal momento del comunicato stampa sulla pronuncia citata: “….secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione vengono applicate retroattivamente, e che questo principio è stato sinora seguito dalla giurisprudenza anche con riferimento alla legge n. 3 del 2019.
La Corte ha dichiarato che questa interpretazione è costituzionalmente illegittima con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna.
Secondo la Corte, infatti, l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione".
Si ritiene, senza ipocrisie, che proprio questa normativa sia stata in sostanza la pietra dello scandalo che ha provocato nuove, ulteriori riflessioni sulla disciplina normativa scaturita in epoca emergenziale con lo scopo precipuo e dichiarato di tenere la magistratura di sorveglianza, categoria direttamente interessata dalla responsabilità delle decisioni in materia e conseguentemente esposta alla pressione “mafiosa”, al riparo da tali pressioni. Pressioni che tuttavia non sono ipotizzabili nel contesto dei nuovi reati via via sempre più accostati nell’art. 4 bis O.P. a quelli di “prima fascia”.
La successiva evoluzione normativa ha portato, infatti, nel tempo ad una progressiva estensione del divieto di concessione dei benefici indicati nel comma 1 dell’articolo 4 bis O.P. ad altre categorie di detenuti: per effetto dell’articolo 3 comma 1 lettera a) del Dl 23 febbraio 2009 n. 11 convertito con modificazioni nella legge 23 aprile 2009 n. 38, vennero sostituiti integralmente i commi da 1 a 1 quater dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario introducendo nella previsione della norma i condannati, a titolo esemplificativo per reati di omicidio, riduzione in schiavitù, spaccio di stupefacenti aggravato, associazione per delinquere allo scopo di commettere reati in materia di marchi contraffatti o i delitti previsti dal libro II titolo XII capo III sezione I del codice penale ( per una più agevole lettura si va dalla pedopornografia, alla riduzione in schiavitù terminando nel “caporalato”), così determinando un’estensione del trattamento “ duro” in tema di concessione di benefici ad una platea sempre più ampia di destinatari. Estensione non sempre giustificata dalla pericolosità dei detenuti per tali reati.
L’intervento del legislatore sul testo dell’articolo 4 bis è poi proseguito con la legge 1 ottobre 2012 n. 172 che, con l’articolo 7 comma 2, ha introdotto condizioni specifiche per la concessione dei benefici ai detenuti per una serie di delitti in materia di prostituzione e pornografia minorile, violenza sessuale ecc…., subordinandone la concessione alla positiva partecipazione a un programma di riabilitazione specifica, previsto dall’introdotto articolo 13 bis dell’ordinamento penitenziario. La norma si inquadra nella maggior attenzione del legislatore verso il problema derivante dalla commissione di reati in danno di minori.
Era, e purtroppo rimane, del tutto prevedibile, anche con il nuovo testo, che la progressiva estensione di un regime penitenziario speciale per i detenuti per delitti di particolare gravità ed efferatezza, ad altre categorie di detenuti per reati di matrice totalmente diversa, non meno importanti sotto il profilo mediatico sull’immaginario collettivo, ma certamente di non eguale pericolosità per l’ordine pubblico, profilo che aveva caratterizzato l’introduzione della norma speciale per i mafiosi, finisse e finisca con il determinare una incoerenza complessiva del sistema stesso, ponendo le basi delle questioni affrontate dall’ordinanza della Corte Costituzionale. Un regime speciale che diventa nella sostanza ordinario non può più definirsi speciale, e la sua “giustificabilità” costituzionale in relazione a forme di criminalità di particolare pericolosità per l’ordine pubblico, efferate e sanguinarie, è stata diluita con l’aumentare dei “beni giuridici” alla cui tutela viene esteso il regime speciale attraverso una ingiustificabile equiparazione dei “rei”.
Da questo fatto deriva l’incoerenza del sistema che ha dato luogo alle proposte di modifica che si passa brevemente ad esaminare.
4. Una prima notazione critica al disegno di modifica dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario può essere rivolta, per le ragioni in precedenza evidenziate, alla stessa tecnica normativa. Non si procede infatti, malgrado le premesse già insite nella precedente pronuncia del 2019 sulla compatibilità tra divieti e permesso premio a “riscrivere” l’intero testo dell’art. 4 bis O.P..
Seguendo, infatti, la stessa Corte Costituzionale, ben consapevole della estrema pericolosità e della possibile concreta ripresa delle attività criminali delle organizzazioni storiche, attualmente contenute attraverso la detenzione in regime di carcere duro dei principali esponenti, il legislatore non ha toccato, in teoria, il divieto generalmente previsto dal comma 1 dell’articolo 4 bis di concedere la misura dell’assegnazione al lavoro esterno, permessi premio delle misure alternative alla detenzione previste dal capo sesto, esclusa la liberazione anticipata, ai detenuti che non collaborano con la giustizia.
Si tratta, ad avviso di chi scrive, di un elemento significativo nel senso di un approccio parziale del legislatore al problema segnalato dalla Corte Costituzionale, nella cui decisione non mancano affermazioni, seppure non del tutto convinte, sulla necessità di non pregiudicare uno strumento fondamentale nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, quale la collaborazione con la giustizia.
Il legislatore, infatti, omette, con riferimento allo specifico problema della previsione dell’ergastolo nel nostro ordinamento di affrontare il problema, sebbene la censura che viene mossa in tema di non concedibilità della liberazione condizionale della pena, nella stessa decisione del giudice delle leggi, vi sia strettamente collegata. Anzi, sia proprio con riferimento a tale previsione che l’attuale sistema stride maggiormente.
Se, infatti, il nocciolo della questione affrontata dalla Corte Costituzionale era l’incompatibilità della pena dell’ergastolo effettivo, meglio così definito rispetto ad ostativo, con il principio costituzionale, della finalità rieducativa della pena, la soluzione prospettata a proposito della liberazione condizionale – previsione che, con l’efficacia di una foglia di fico, ha tenuto in piedi e nei parametri di costituzionalità l’istituto dell’ergastolo come “pena” prevista nel nostro ordinamento - non è stato e non è risolto dalla modifica di seguito proposta:
«1-bis. I benefìci di cui al comma 1 del presente articolo, al di fuori dei casi già espressamente esclusi dalla legge, possono essere concessi ai detenuti condannati alla pena dell’ergastolo per i delitti ivi previsti, anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’articolo 58-ter o dell’art. 323 bis del codice penale purché oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento nonchè, a seguito di specifica allegazione da parte del condannato, si accertino congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali.
Queste disposizioni si applicano anche ai detenuti o agli internati per taluno dei delitti indicati nel comma 1 del presente articolo ai fini della concessione dei permessi premio di cui all’articolo 30-ter, anche se non condannati alla pena dell’ergastolo».
Nel testo su riportato, infatti, sono state introdotte alcune clausole ed espressioni di difficile se non impossibile interpretazione e di concreta applicazione.
Anzitutto il nuovo articolo sembra riguardare soltanto i detenuti condannati all’ergastolo, che non abbiano collaborato con la giustizia “ai sensi dell’articolo 58 ter o dell’articolo 323 bis del codice penale”, ma quest’ultimo articolo prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale per una serie di reati che non comportano l’ergastolo.
Ne deriva comunque che la possibilità di concessione dei benefici riguarda anche i detenuti condannati per reati contro la pubblica amministrazione? E tutti gli altri?
La norma così disegnata presenta già un primo problema interpretativo di compatibilità col principio di uguaglianza dei detenuti davanti alla legge.
Di difficile comprensione appare poi l’inciso “al di fuori dei casi già espressamente esclusi dalla legge”. Il comma 1 infatti, prevede l’esclusione della possibilità di concessione dei benefici per tutti i detenuti per reati compresi nel catalogo indicato dal comma in questione, senza la collaborazione con la giustizia. Si fa, al contrario, riferimento al dato oggettivo dell’esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o di stampo terroristico o eversivo? La previsione sarebbe allora pleonastica.
E allora?
Il comma 1 bis riformato prevede, quindi, una serie di possibili deroghe al divieto di cui al comma 1, ancorate a una serie di condizioni:
a) la dimostrazione dell’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie dipendente dal reato, o, si badi bene, l’assoluta impossibilità di tale adempimento.
È del tutto evidente che, se il problema della modifica è posto da una ordinanza della Corte che preannuncia una incompatibilità della disciplina prevista in atto per gli ergastolani per reati di mafia con l’articolo 27 Cost, in relazione alla previsione dell’art. 2 del D.L. 152/91 che estende alla liberazione condizionale il divieto previsto dall’articolo 4 bis c.p., ed a parte i condannati per reati contro la p.a. per i quali non è previsto l’ergastolo, si tratta in genere di detenuti ristretti da più di 25 anni (il caso all’esame della corte riguarda la liberazione condizionale, il progettato intervento normativo si estende alla norma nella sua quasi totalità).
Alla maggior parte di tali detenuti, già formalmente nullatenenti all’epoca della condanna, è stato, verosimilmente, già sequestrato il patrimonio che è stato allora rinvenuto con conseguente confisca; da qui il buon gioco di tali detenuti ad allegare l’assoluta impossibilità di tale adempimento. Si tratta con ogni evidenza di una condizione “inutilmente” apposta alla concessione del beneficio, che non può portare ad alcuna concreta valutazione discrezionale del Tribunale di Sorveglianza, che non potrà ancorare un diniego ad un “sospetto” di capienza patrimoniale.
Un ulteriore e congiunta condizione apposta dal testo in discussione - il “nonché” adoperato nel testo non lascia margini di dubbio sulla necessaria ricorrenza di entrambe le condizioni - è quello che occorra:
b) la specifica allegazione da parte del condannato,….(di) elementi concreti, ulteriori e diversi, rispetto alla “mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza” che consentono di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica od eversiva, con il contesto nel quale reato è stato commesso, nonché - ulteriore condizione apposta legislatore e che deve ricorrere congiuntamente alle altre - il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali.
Ebbene, malgrado la norma proposta parli di un onere di allegazione, conformemente alla giurisprudenza prevalente in materia di onere del condannato che insta per accedere ai benefici previsti dall’ordinamento, l’avere aggiunto l’avverbio “specificamente” e l’impersonale “si accertino”, ovviamente ad opera della magistratura di sorveglianza, riferito agli elementi concreti, ulteriori e diversi, si finisce con il porre a carico del medesimo detenuto un onere di indicazione di circostanze negative, la cui smentita finisce con l’essere affidata ad una mera valutazione discrezionale del giudice di merito, o per converso con il gravare il decisore di un compito non esattamente suo proprio.
Ciò che conta e che ne è riprova è la richiesta esclusione “con certezza” dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o terroristica od eversiva.
Chi mai potrà prendersi la responsabilità di un’affermazione di tal genere ed in questi termini, quando la stessa realtà di tali fattispecie criminali si fonda nella stragrande maggioranza dei casi, su elementi largamente indiziari apprezzabili in modo diverso dal singolo osservatore.
Quale “certezza” si potrà mai avere in siffatta materia, che non abbia la stessa attendibilità della “preveggenza” di Tiresia.
In fattispecie criminali quali quelle di cui ci si occupa con la previsione normativa in esame, la realtà di contesto, alla quale pure si fa riferimento, è tale, comunque la si pensi, da dare adito al sospetto e quasi mai alla certezza, intese come categorie gnoseologiche. Ed il sospetto è categoria del tutto incompatibile con il dovere decisorio proprio di chi è chiamato ad occuparsi di un bene come la libertà personale di un individuo, tenuto conto che, anche laddove vi fosse certezza dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, gli stessi elementi ben difficilmente potrebbero essere portati a conoscenza del Tribunale di Sorveglianza dai soggetti chiamati ad esplicitare un parere, senza per ciò stesso svelare le fonti di tale conoscenza, e quindi verosimilmente elementi di indagine non ancora noti.
Vero è che la libertà condizionale è sempre revocabile, come gli altri benefici di cui si discute, in caso di violazione delle prescrizioni apposte all’atto della concessione, ma quanto ciò sia compatibile con la necessaria tutela preventiva dell’ordine e della sicurezza pubblica appare di difficile conciliabilità con un “diritto alla liberazione condizionale” in assenza di dimostrate cause ostative.
Ne deriverà, inevitabilmente, un peso insopportabile in capo al decisore, che dovrà andare alla ricerca di elementi concreti e positivi, per smentire anche in termini di mera possibilità le allegazioni del soggetto istante, venendo in tal modo esposto ad una pressione, anche esterna, collegata alle stesse modalità di accertamento di tali elementi. E ciò anche quando la stessa istanza del condannato sia, sotto il profilo della mera allegazione delle circostanze, del tutto inammissibile (si veda per un caso recente Sent. Sez. 1 N. 33743 Anno 2021).
Sotto tale profilo, due ulteriori brevi considerazioni: per quanto il rito della sorveglianza attribuisca al collegio i medesimi poteri del giudice dell’esecuzione è indubitabile che lo stesso esercizio di tali poteri, a fronte delle allegazioni del detenuto, costituirà un fattore di rischio e di esposizione dei magistrati; la mancata considerazione da parte del legislatore di tale profilo va in senso diametralmente opposto alla ratio legis che portò, agli albori degli anni “90, alla introduzione dell’incondizionato divieto di concessione di benefici a ben delimitate categorie di detenuti.
Non sembra che tanto a livello della Corte Costituzionale, quanto a livello parlamentare, tale profilo sia stato oggetto di adeguata riflessione, anche se ne è cenno nella relazione della Proposta Ferraresi, cenno rimasto però non sviluppato.
5. Una ulteriore breve nota va rivolta alla previsione dell’aumento (art. 2 del testo unificato) della metà dei termini previsti nell’art. 58 quater dell’ordinamento penitenziario, per accedere ai benefici ed al richiamo dei termini indicati dalle norme sul lavoro all’esterno, ed alla semilibertà.
Una ulteriore previsione di aumento della pena in concreto espiata per accedere al beneficio della liberazione condizionale della pena è contenuta nell’art. 3 in relazione all’art. 176 comma 3 c.p..
Anche queste appaiono previsioni, in astratto praticabili, che tuttavia non tengono conto, come accennato sopra, della sentenza n. 32 del 2020 della Corte Costituzionale.
In esito ad una completa disamina dei precedenti di legittimità e costituzionali, e proprio partendo dalla considerazione che la stessa norma che nel 1991 introdusse limitazioni alla concessione dei benefici ai mafiosi, esplicitamente prevedeva che le stesse non fossero applicabili retroattivamente, e cioè a chi era già detenuto per fatti pregressi, la Corte ha infatti, stabilito in relazione alla concreta possibilità di concessione di misure alternative alla detenzione che “…Si tratta di «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena […] e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto» (sentenza n. 349 del 1993), finendo anzi per costituire delle vere e proprie “pene” alternative alla detenzione (ordinanza n. 327 del 1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un’accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva.
Ciò è stato anche di recente ribadito da questa Corte con riferimento sia all’affidamento in prova al servizio sociale per i condannati adulti, definito quale «strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)» (sentenza n. 68 del 2019); sia alla detenzione domiciliare, che costituisce anch’essa «“non una misura alternativa alla pena”, ma una pena “alternativa alla detenzione”», caratterizzata da prescrizioni meramente «limitative della libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale» (sentenza n. 99 del 2019, con richiamo alla già citata ordinanza n. 327 del 1989).
Tali considerazioni valgono anche rispetto alla semilibertà, ove l’obbligo di trascorrere una parte della giornata – e quanto meno le ore notturne – all’interno dell’istituto penitenziario (ma, di regola, in sezioni autonome: art. 48, comma 2, ordin. penit.) si accompagna al godimento di spazi di libertà assai significativi, al di fuori della fitta rete di prescrizioni che normalmente corredano la concessione di meri benefici extramurari.
La medesima conclusione si impone – in forza del rinvio “mobile” (sentenza n. 39 del 1994) di cui all’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991 – per ciò che concerne la liberazione condizionale: istituto disciplinato dagli artt. 176 e 177 cod. pen., ma funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione, essendo anch’esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario, «tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».
La subordinazione anche della liberazione condizionale alla collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporta per il condannato per delitti contro la pubblica amministrazione l’evidente rischio di un significativo prolungamento del periodo da trascorrere in carcere, rispetto alle prospettive che gli si presentavano sulla base della legge vigente al momento del fatto; con conseguente incompatibilità con l’art. 25, secondo comma, Cost. dell’applicazione retroattiva della preclusione di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. anche rispetto alla liberazione condizionale.”
Il complessivo effetto di maggior rigore che appare animare tale punto della proposta riforma, pertanto, non sarà applicabile ai detenuti per fatti commessi antecedentemente all’entrata in vigore di tali norme, anche laddove venisse prevista una norma transitoria in senso contrario, che si infilerebbe sotto la scure dell’incostituzionalità, già in realtà pronunciata.
6.In conclusione, il testo unificato della riforma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, pur nel commendevole scopo di impedire un “liberi tutti”, con il preannunciato venire meno del divieto di concessione dei benefici, e presentando alcuni apprezzabili spunti nelle previste condizionalità, non si sottrae ad una valutazione di critica insufficienza rispetto allo scopo.
Meglio sarebbe stato, a questo punto, riscrivere totalmente una norma divenuta ormai illeggibile per effetto delle continue interpolazioni, di difficilissimo coordinamento con gli altri istituti previsti dall’ordinamento, scardinando un divieto ormai insostenibile dal punto di vista costituzionale.
Sarebbe infatti possibile, così come in parte proposto dal testo della ipotizzata riforma in discussione, ancorare la concedibilità dei benefici penitenziari a comportamenti concreti del detenuto, in particolare per quelli detenuti per i reati di cosiddetta “prima fascia” (vedi la ricostruzione della normativa operata nelle citate sentenze n. 253 del 2019 e n. 32 del 2020 della Corte Costituzionale ed in quelle ivi citate), dai quali far dipendere la effettiva valutabilità del venir meno della pericolosità sociale e dei rischi di perduranti collegamenti con i contesti di provenienza.
Nel variegato panorama di possibili fatti concreti, da valutare ai fini della possibile concessione dei benefici, la scelta spetta soltanto ed esclusivamente al legislatore, ma va operata con saggezza. L’esperienza ci insegna che il comportamento in carcere e la partecipazione ai trattamenti rieducativi operati in ambito carcerario non costituiscono, nei confronti dei detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, elementi dirimenti ai fini del giudizio sul concreto grado di reinserimento sociale.
Il contesto nel quale maturano tali personalità criminali è tale che la ricerca di elementi va condotta all’esterno dell’ambito penitenziario e della vita che ivi si svolge.
Non appare, altresì, sufficiente la mera tardiva, labiale dissociazione dal proprio passato criminale quando si proviene da un ambiente dove il disvalore criminale è elevato a mito, a condizione dell’esistenza, a titolo di merito per una progressione nella carriera “criminale” all’interno delle organizzazioni. L’aver sopportato in silenzio anni di detenzione al carcere duro fa dei possibili beneficiari della liberazione condizionale tanti generali di corpo d’armata.
Sono, al contrario necessari fatti concreti, che devono provenire personalmente dal detenuto che fa l’istanza; che possono già essere intervenuti nel passato giudiziario, o che possono intervenire anche ai fini della concessione del chiesto beneficio, ma che devono essere indicativi di un qualche segno di ravvedimento tangibilmente apprezzabile.
Poiché è di condannati all’ergastolo che si discute va considerato il diritto dei parenti delle vittime quantomeno ad una ricostruzione postuma della verità storica degli accadimenti che hanno portato alla loro perdita, ad una ammissione, ad una presa di coscienza da parte del condannato del dolore arrecato, ad una degna sepoltura di resti mai trovati.
Un operato risarcimento morale, quando quello materiale sia impossibile, può avere efficacia addirittura maggiore ai fini di un giudizio necessariamente prognostico sul rischio di una ripresa dei collegamenti criminali, impossibile da valutare per la magistratura di sorveglianza, e può essere adeguatamente valorizzato in una motivazione. Una personale richiesta di perdono, anche se non lo si ottiene, rivolta ai familiari può essere indicativa di un abbandono di certe logiche comportamentali di tipo mafioso. Si tratta di comportamenti e fatti che se improntati a sincerità – donde la serietà e difficoltà del loro apprezzamento, che va rimesso a giudici collegiali esperti e dedicati – possono testimoniare quella concreta recisione dei legami “culturali” con l’ambiente ed il contesto di provenienza, in grado di superare i timori – giustificatissimi - per la sicurezza e l’ordine pubblico. Da valutare in tale senso, ad esempio, anche ciò che in fase di cognizione non ha sortito effetto pratico, come la confessione dei fatti, non seguita da collaborazione, finalizzata soltanto alla concessione delle circostanze attenuanti generiche; l’offerta reale o non accolta di somme a titolo di risarcimento del danno; l’essersi costituito spontaneamente in carcere.
Potrà e dovrà essere oggetto di valutazione ogni fatto e dato positivo, purché inerente al comportamento dell’istante quando non era ancora detenuto, o al comportamento del medesimo verso il mondo che lo circonda. E ciò senza che possa escludersi che, malgrado il suo positivo comportamento in carcere, il contesto familiare e sociale in cui il detenuto vada a reinserirsi sia tale da costituire esso stesso fonte di pericolo per il permanente rischio di collegamento con la criminalità organizzata di provenienza. Situazione nella quale il diritto alla liberazione condizionale non dovrebbe essere oggettivamente configurabile per le stesse considerazioni di tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico prese in considerazione dalla stessa corte nella sentenza del 2019 sulla concedibilità dei permessi premio ai detenuti per reati ostativi.
Ben venga, infine, qualsiasi prescrizione comportamentale per tali detenuti, nell’esecuzione della misura concessa e della libertà vigilata connessa in particolare alla liberazione condizionale, purché si sia consapevoli che la sempre possibile violazione di tali regole non sarà soltanto causa di immediata revoca del beneficio o della liberazione condizionale, ma sarà soprattutto sintomo di una sconfitta.
Autorizzazione all’immissione in commercio condizionata e vaccinazione Covid-19 (nota a Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045) di Alice Cauduro
Sommario: 1. La vaccinazione Covid-19 tra obbligo e raccomandazione - 2. Le autorizzazioni all’immissione in commercio condizionate - 3. Sul rapporto rischio-beneficio individuale e collettivo.
1. La vaccinazione Covid-19 tra obbligo e raccomandazione
La pronuncia del Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045 affronta il tema dell’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari previsto dall’art. 4, d. l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021. Le argomentazioni del giudice d’appello si inseriscono nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale che, di recente, in occasione del giudizio di legittimità costituzionale del c.d. decreto Lorenzin[1], ha ripercorso l’evoluzione della disciplina in tema di vaccinazioni, evidenziando come nel tempo la scelta del legislatore di obbligare piuttosto che raccomandare una certa vaccinazione sia dipesa (ragionevolmente) dalla maggiore o minore adesione spontanea alla pratica vaccinale in quel dato momento storico[2]. La legge impositiva di un trattamento sanitario non contrasta con l’art. 32 Cost. [3] se il trattamento ha come obiettivo non solo la salute del soggetto obbligato, ma anche degli altri individui; se è prevedibile che il trattamento non sia negativo per la salute individuale oltre la normale tollerabilità; se è prevista la corresponsione dell’indennizzo[4]. Il giudizio di legittimità costituzionale della legge sull’indennizzo da vaccinazioni ha evidenziato che l’obiettivo di profilassi delle malattie infettive a cui tendono sia gli obblighi sia le raccomandazioni è quello di garantire «la tutela della salute (anche) collettiva, attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale»[5]. Nella pronuncia qui commentata il Consiglio di Stato si riferisce al dovere solidaristico (art. 2 Cost.) affermando che la legge sulle vaccinazioni, quali strumenti di profilassi collettiva, è «tutela dei più vulnerabili» e realizza la tutela della salute intesa non solo come diritto fondamentale dell’individuo ma anche come interesse della collettività (art. 32 Cost.).
2. Le autorizzazioni all’immissione in commercio condizionate
Secondo i ricorrenti la rapidità con cui sarebbero stati resi disponibili i vaccini per il contrasto del Covid-19 non avrebbe consentito di raggiungere quelle condizioni di sicurezza e di efficacia che sono necessarie per prevedere come obbligatoria una vaccinazione (art. 32 c. 2 cost.); i vaccini in uso sarebbero ancora in fase di sperimentazione, quindi non sarebbero sicuri, e prova ne sarebbe il fatto che la loro autorizzazione è stata rilasciata in forma condizionata. Sulla questione si è già espresso un Tribunale amministrativo regionale affermando che l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata «si colloca a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’immissione in commercio di un qualsiasi farmaco, senza alcun impatto negativo sulla completezza e sulla qualità dell’iter di studio e ricerca»; si tratta di «uno strumento collaudato e utilizzato già diverse volte prima dell’emergenza pandemica»[6]. Il Consiglio di Stato, in linea con questo orientamento, dedica diversi passaggi argomentativi alla questione della procedura di autorizzazione per l’immissione in commercio condizionata dei vaccini Covid-19 affermando che non è una procedura utilizzata per la prima volta per l’attuale emergenza sanitaria; non condividendo perciò né l’idea che i vaccini autorizzati con questa procedura siano ancora in fase di sperimentazione, né che mancherebbero dati sulla loro efficacia e sicurezza. Infatti, «l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata non è una scorciatoia incerta e pericolosa escogitata ad hoc per fronteggiare irrazionalmente una emergenza sanitaria come quella attuale, ma una procedura di carattere generale, idonea ad essere applicata - e concretamente applicata negli anni passati, anche recenti, soprattutto in campo oncologico - anche al di fuori della situazione pandemica, a fronte di necessità contingenti (non a caso la lotta contro i tumori ne è il terreno elettivo)»; respinge perciò l’affermazione secondo cui i vaccini sarebbero “sperimentali”, come anche ogni dubbio sulla loro efficacia e/o sicurezza.
L’affermazione secondo cui la sicurezza non è incisa dal carattere condizionato dell’autorizzazione trova riscontro nella disciplina sulla circolazione dei farmaci e in specie in quella sulle autorizzazioni all’immissione in commercio[7]. Nella cornice normativa europea di regolazione della circolazione dei farmaci delineata dal codice comunitario relativo ai medicinali ad uso umano[8], la disciplina dell’autorizzazione all’immissione in commercio trova riferimento nel regolamento che istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’agenzia europea dei medicinali,[9] nonché in quello relativo all’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata dei medicinali per uso umano[10].
La disciplina delle autorizzazioni all’immissione in commercio dei medicinali nell’Unione europea prevede una valutazione continua del rischio-beneficio dei medicinali e, a tal fine, l’Agenzia europea dei medicinali può richiedere al titolare dell’autorizzazione - in ogni momento - di presentare dati a dimostrazione della persistenza del favorevole rapporto[11]; nell’attività di sorveglianza sulla sicurezza dei farmaci possono sempre rilevarsi nuovi dati in grado di modificare le decisioni precedentemente assunte. La disciplina delle procedure autorizzatorie prevede, inoltre, che «in casi debitamente giustificati, per rispondere a esigenze mediche insoddisfatte dei pazienti, può essere rilasciata un’autorizzazione all’immissione in commercio, prima della presentazione di dati clinici dettagliati, per medicinali volti a trattare, prevenire o diagnosticare malattie gravemente invalidanti o potenzialmente letali, a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari. In situazioni di emergenza l’autorizzazione all’immissione in commercio di tali dati può essere rilasciata anche in assenza di dati preclinici o farmaceutici completi» (art. 14 bis, Regolamento CE 726/2004). L’autorizzazione condizionata può essere rilasciata quando «malgrado non siano forniti dati clinici completi in merito alla sicurezza e all’efficacia del medicinale siano rispettate tutte le condizioni richieste» (art. 4 par. 1, Regolamento CE 507/2006). Il Consiglio di Stato, dopo aver osservato che «il vaccino, come tutti i farmaci, non può essere considerato esente da rischi», chiarisce che la mancanza di completezza dei dati relativi a sicurezza ed efficacia non deriva dall’assenza o incompleta sperimentazione, ma dal fatto che determinati dati possono essere acquisiti solo successivamente. Si tratta di valutare quindi che i possibili effetti negativi, eventi avversi, derivanti dall’assunzione del farmaco non siano negativi oltre la normale tollerabilità che, specie nel caso dei vaccini, non va considerata solo in termini individuali, ma anche collettivi.
3. Sul rapporto rischio-beneficio individuale e collettivo
L’Agenzia europea dei medicinali può rilasciare autorizzazioni condizionate se: a) il rapporto rischio-beneficio del medicinale è positivo; b) è probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi; c) il medicinale risponde ad esigenze mediche insoddisfatte; d) i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superano il rischio inerente al fatto che occorrono ancora dati supplementari (art. 4 par. 1, Regolamento CE 507/2006). Un’autorizzazione condizionata presuppone perciò che non esista già un trattamento soddisfacente e che i benefici, non solo individuali, ma anche per la salute pubblica, superino i rischi correlati alla necessità di acquisire dati supplementari. La questione dell’assunzione del rischio individuale e collettivo viene trattata dal Consiglio di Stato nel valutare l’idea che «in assenza di una certezza assoluta offerta dalla scienza circa la sicurezza dei vaccini anche nel lungo periodo, il legislatore dovrebbe lasciare sempre e comunque l’individuo libero di scegliere o meno il trattamento sanitario […]»; questo assunto porterebbe ad «attendere irragionevolmente un tempo lunghissimo», con la «conseguenza paradossale che, nel rivendicare la sicurezza ad ogni costo, e con ogni mezzo, della cura imposta dal legislatore a beneficio di tutti, ne negherebbe però in radice ogni possibilità, paralizzando l’intervento benefico»; ciò sarebbe in contraddizione con la necessità di un intervento pubblico in via precauzionale[12].
Le argomentazioni richiamate sono certamente di estremo interesse, anche al di là del caso di specie, e suggeriscono di considerare due ordini di questioni di portata generale: la prima relativa alla dimensione della valutazione del rapporto rischio-beneficio, la seconda con riguardo alla rilevanza della corretta informazione medico-scientifica ai fini di una diffusa adesione consapevole alla vaccinazione.
Riguardo alla dimensione della valutazione del rapporto rischio-beneficio va evidenziato che la prima condizione prescritta per il rilascio di un’autorizzazione condizionata (art. 4 par. 1, lett. a, Regolamento CE 507/2006) fa riferimento al rapporto rischio-beneficio che, per l’autorizzazione di ogni medicinale, attiene alla valutazione degli effetti terapeutici positivi del medicinale rispetto ai rischi - sia per la salute del paziente sia per la salute pubblica - connessi alla sua utilizzazione (art 1, par. 28 bis, Direttiva 83/2001/CE). Se il rapporto rischio-beneficio è sempre valutato in sede di autorizzazione all’immissione in commercio in una dimensione non solo individuale, ma anche collettiva, nelle autorizzazioni condizionate si aggiunge un’ulteriore specifica valutazione benefici-rischi per la salute pubblica (art. 4 par. 1, lett. d, Regolamento CE 507/2006). Nei casi in cui le autorizzazioni condizionate riguardano i vaccini, l’intreccio di questi piani di valutazione forse appare più intricato perché la decisione richiede uno sforzo maggiore nel mantenere in equilibrio la duplice dimensione, individuale e collettiva, della tutela della salute. In effetti, un conto è valutare il rapporto rischio-beneficio per autorizzare in via condizionata un medicinale per la cura di malattie incurabili (ad es. un medicinale oncologico), altro è autorizzare in via condizionata un vaccino (come quello per il contrasto del virus Covid-19) seppure anch’esso incurabile. La differenza sta non solo nella diversa valutazione, ma anche nella percezione del rapporto rischio-beneficio. Per l’assunzione di un farmaco, infatti, si tratta di valutare gli effetti avversi a fronte dell’effetto benefico su una patologia di cui la persona-paziente è affetta; la difficoltà nel valutare il rischio-beneficio delle vaccinazioni “innovative”, come in tutte le vaccinazioni, sta invece nel considerare il rischio per una persona sana di assumere un farmaco per la cura di una malattia di cui non è affetto in quel momento, ma che potenzialmente può contrarre o trasmettere.
Questa differenza tra assunzione di un farmaco e di un vaccino introduce la questione ulteriore, che il Consiglio di Stato non approfondisce, della rilevanza della corretta informazione medico-scientifica ai fini di una diffusa adesione consapevole alla vaccinazione. Se, infatti, ritornando all’esempio del farmaco innovativo oncologico, la corretta informazione è certo presupposto di un consenso informato prestato dal paziente, il quale tuttavia può trovarsi di fronte alla prospettiva di (non poter) scegliere di non curarsi o accettare gli eventi avversi del farmaco innovativo ignoti alla medicina, nelle vaccinazioni “innovative” la corretta informazione è non solo presupposto del consenso informato individuale, ma anche uno strumento di coinvolgimento nella tutela della salute come interesse della collettività. In questo caso, infatti, la corretta informazione non solo è in grado di superare la resistenza individuale alla vaccinazione, ma costituisce possibilità di comprensione della dimensione sovraindividuale in cui si colloca l’azione solidaristica dell’individuo che si sottopone alla vaccinazione.
[1] D. L. 7 giugno 2017, n. 73, conv. con mod. in legge 31 luglio 2017, n. 119.
[2] Cost., 18 gennaio 2018, n. 5.
[3] Per la letteratura sterminata sul diritto alla salute, qui per tutti, C. Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Riv. Infort. Mal. Prof., 1961, I, 1 ss.; P. Vincenti Amato, Art. 32, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1975; L. Carlassare, L’art. 32 della Costituzione e il suo significato, in L’amministrazione sanitaria, a cura di R. Alessi, Milano, 1967; M. Luciani, voce Salute, in Enc. giur. trecc., XXXII, 1998, Torino, 1 ss.; R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, in Sistema del diritto amministrativo italiano, diretto da F. G. Scoca, F. A. Roversi Monaco, G. Morbidelli, Torino, ed. II, 2020, 39 ss. Si è detto di recente che «la primaria rilevanza del bene giuridico protetto, cioè la salute collettiva, giustifichi la temporanea compressione del diritto al lavoro del singolo che non voglia sottostare all’obbligo vaccinale: ogni libertà individuale trova infatti un limite nell’adempimento dei doveri solidaristici imposti a ciascuno per il bene della comunità cui appartiene», Tar, Friuli Venezia-Giulia, sez. I, 10 settembre 2021, n. 261.
[4] Cfr. ex plurimis, Corte Cost., n. 258/1994; n. 307/1990.
[5] «[…] In questa prospettiva, incentrata sulla salute quale interesse (anche) obiettivo della collettività, non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione», Corte Cost., 23 giugno 2020, n. 118, nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, c.1, legge 25 febbraio 1992, n. 210 recante disposizioni in materia di indennizzo per danni da vaccinazioni.
[6] «I quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale sono stati invece regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata […] strumento collaudato e utilizzato già diverse volte prima dell’emergenza pandemica […] La “sperimentazione” dei vaccini si è dunque conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica e non è corretto affermare che la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata. L’equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali”, dunque, è frutto di un’interpretazione forzata e ideologicamente condizionata della normativa europea, che deve recisamente respingersi», Tar, Friuli Venezia-Giulia, sez. I, 10 settembre 2021, n. 261.
[7] Sulle autorizzazioni all’immissione in commercio dei farmaci, specie in tema di procedura di mutuo riconoscimento, si rinvia a M. P. Genesin, La disciplina dei farmaci, in Salute e sanità, a cura di R. Ferrara, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà, P. Zatti, Milano, 635 ss.; per l’autorizzazione all’immissione in commercio nell’ambito del tema dell’accesso al farmaco sia consentito rinviare a A. Cauduro, L’accesso al farmaco, Milano, 2017, 125 ss.
[8] Direttiva 2001/83/CE recepita con D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 219.
[9] Regolamento (CE) n. 726/2004.
[10] Regolamento (CE) n. 507/2006.
[11] Art. 16 par. 2, Regolamento (CE) n. 726/2004.
[12] Il Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045 parla della c.c. amministrazione precauzionale al punto 30.1. in diritto. Su rischio, incertezza e principio precauzionale in sanità si rinvia a R. Ferrara, L’ordinamento in sanità, cit., 13 ss.
su questa rivista nota a Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045 di Giuliano Scarselli
Obbligo di vaccinazione e principi di precauzione e solidarietà (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045) di Fortunato Gambardella
Sommario: 1. Esitazione vaccinale e politiche pubbliche di incentivazione - 2. Le politiche di vaccinazione tra raccomandazione e obbligo: gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale - 3. L’obbligo di vaccinazione per SARS-CoV-2: profili procedimentali - 4. La legittimità dell’obbligo di vaccinazione per SARS-CoV-2 nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato - 5. Le misure di sanità pubblica in un contesto di pandemia: oltre l’amministrazione di prevenzione.
1. Esitazione vaccinale e politiche pubbliche di incentivazione
Il tema dei trattamenti di vaccinazione obbligatoria è da sempre una questione divisiva, che tocca la salute individuale e coinvolge le preoccupazioni più rispettabili dell’individuo. Diventa ancora più sensibile nel momento in cui la necessaria risposta alla pandemia in corso passa per il doveroso impiego, su larga scala, di prodotti farmaceutici innovativi, di recente immissione nel mercato, approvati dalle competenti Autorità di regolazione attraverso procedure accelerate e solo in parte semplificate.
Da una parte c’è la spinta delle Autorità per la più veloce e diffusa profilassi, dall’altra ci sono le legittime preoccupazioni dei soggetti chiamati a trattamenti intesi a prevenire patologie neppure sempre percepite come individualmente pericolose. Nel mezzo resta la cd. esitazione vaccinale[1], un fenomeno storicamente noto e dalle evidenze consolidate, che da tempo rappresenta un problema con il quale è chiamato a confrontarsi il decisore pubblico.
Le soluzioni in concreto sperimentate variano, oscillando dalla raccomandazione persuasiva all’imposizione di specifici obblighi vaccinali, nell’ambito di prassi che tradizionalmente vengono ascritte al capitolo dell’amministrazione della prevenzione.
L’utilizzo di tecniche di prevenzione del rischio rappresenta infatti il piano privilegiato di espressione delle misure di sanità pubblica, per tale intendendosi l’insieme delle misure amministrative e sanitarie finalizzate a proteggere e migliorare la salute generale e la qualità della vita di intere popolazioni, principalmente attraverso iniziative destinate alla prevenzione delle malattie ed a garantire l’assistenza sanitaria collettiva. Il quadro delle azioni è dunque articolato e abbraccia una vasta serie di interventi, i cui settori di elezione riguardano: l’epidemiologia; la prevenzione delle malattie infettive e cronico-degenerative; l’igiene degli alimenti e della nutrizione; l’igiene edilizia, civile e ambientale[2].
In questo quadro, le misure di profilassi vaccinale rappresentano ovviamente uno strumento di impiego prioritario, funzionale alla prevenzione delle malattie infettive ed alla mitigazione del rischio epidemico.
Eppure, le politiche di vaccinazione, a partire dall’introduzione, nel Settecento, delle prime terapie di profilassi sanitaria contro il vaiolo, hanno dovuto storicamente confrontarsi con resistenze ed opposizioni di segmenti (anche cospicui) della popolazione, con conseguenze rilevanti in termini di difficoltà nel contenimento delle malattie infettive[3].
Stando all’Italia (ma il fenomeno ovviamente ha rilevanza globale) e guardando ai tempi più recenti, ad esempio, il problema sì è posto con particolare criticità con riguardo alle epidemie di morbillo, favorite da tassi di vaccinazione che, nel 2013, sono stati stimati ben al di sotto della soglia di sicurezza raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Circostanza che, come noto, ha infatti costretto il legislatore nazionale ad intervenire con il d.l. n. 73 del 2017, che ha determinato un incremento della copertura non solo per la vaccinazione contro gli agenti patogeni di morbillo, parotite e rosolia, ma anche per i vaccini non obbligatori e per tutti i gruppi di età.
2. Le politiche di vaccinazione tra raccomandazione e obbligo: gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale
La riferita normativa del 2017 sulla reintroduzione delle vaccinazioni obbligatorie ha, in ogni caso, rilanciato all’attenzione della giurisprudenza costituzionale il tema del presunto contrasto delle misure di imposizione vaccinale con l’impianto della Costituzione, a partire dall’articolo 32 della Carta sulla tutela del diritto fondamentale alla salute.
Il giudice delle leggi, nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018[4], ha tuttavia precisato come, in un ordinamento democratico, rientri nella discrezionalità del legislatore prevedere la raccomandazione dei vaccini o l’obbligatorietà degli stessi.
La scelta tra la tecnica della persuasione e quella dell’obbligo, segnatamente, vien fatta dipendere dal grado di efficacia persuasiva[5] con il quale il legislatore, sulla base delle acquisizioni scientifiche più avanzate ed attendibili, riesce a sensibilizzare i cittadini in ordine alla necessità di vaccinarsi per il bene proprio e, ad un tempo, dell’intera società. Muovendo da questa premessa, la Corte costituzionale ha poi chiarito come la legge impositiva di un trattamento sanitario non sia incompatibile con l’art. 32 Cost. qualora il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale. Per questa via, la Corte ha enfatizzato la previsione dell’articolo 32 laddove qualifica la tutela della salute non solo come diritto dell’individuo ma anche come interesse della collettività.
Quella previsione è la premessa che consente alla Costituzione di ammettere, al secondo comma dello stesso articolo 32, che disposizioni di legge possano imporre specifici trattamenti sanitari, al contempo ancorando tale fattispecie al doveroso “rispetto della persona umana”. La misura del rispetto della persona, con riguardo alle norme che impongano trattamenti di profilassi, è peraltro individuata dalla stessa giurisprudenza costituzionale, che ritiene legittime le relative disposizioni: a condizione si preveda che il vaccino non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e in ogni caso purché sia prevista, nell’ipotesi di danno ulteriore, la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.
Sul punto, peraltro, la Corte Costituzionale si è mossa nell’ambito di un percorso tracciato a partire dalla sentenza n. 307 del 1990[6], nella quale, posta la compatibilità, nei termini appena riferiti, della legge 4 febbraio 1966, n. 51 sull’obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica rispetto alle previsioni contenute nell’articolo 32 della Carta fondamentale, al contempo ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevedeva, a carico dello Stato, un’equa indennità per il caso di danno derivante, al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c., da contagio o da altra apprezzabile malattia causalmente riconducibile alla vaccinazione antipolio.
L’indirizzo emergente dalla giurisprudenza costituzionale è dunque nel senso di ritenere che la problematica delle politiche di promozione vaccinale intersechi una pluralità di valori costituzionali, fino a coprire uno spazio che muove dalla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie, in una dimensione individualistica dell’opzione terapeutica, fino alla valorizzazione della tutela della salute come bene di fruizione collettiva, nell’ambito di una lettura ermeneutica che attribuisce specifico risalto al principio costituzionale di solidarietà, come canone di giustificazione delle politiche di promozione vaccinale, sia che assumano la forma dell’obbligo che della raccomandazione.
La considerazione della solidarietà come pilastro costituzionale degli interventi legislativi e amministrativi in materia emerge peraltro, nella lettura della giurisprudenza della Consulta, da tutte quelle sentenze nelle quali si estende progressivamente la portata dell’obbligo di indennizzo a favore di quanti abbiano riportato danni permanenti in accertata conseguenza della sottoposizione a trattamenti di vaccinazione, tanto obbligatoria quanto meramente raccomandata. Il diritto all’indennizzo, ha chiarito la Corte, trova la sua ratio infatti nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia[7]) effettuato anche nell’interesse della collettività, in capo alla quale si giustifica la traslazione degli effetti dannosi eventualmente conseguenti alla scelta vaccinale e solidale del singolo (vedi Corte Cost., 26 aprile 2012, n. 107).
Resta quindi chiarito come, alla base delle politiche di promozione vaccinale insistano molteplici principi di rilevanza costituzionale, il cui contemperamento lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare la più efficace prevenzione delle malattie infettive. Posto che l’adesione spontanea, per quanto raccomandata, resta ovviamente la strada da percorrere con priorità nelle compagne di vaccinazione, a fronte di resistenze ed esitazioni particolarmente rischiose per la salute collettiva, resta nella disponibilità del legislatore attingere alla tecnica dell’obbligo, calibrando variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantirne l'effettività.
3. L’obbligo di vaccinazione per SARS-CoV-2: profili procedimentali
È a questi indirizzi costituzionali che fa riferimento la recente sentenza della terza sezione del Consiglio di Stato del 20 ottobre 2021, n. 7045, con la quale è stato respinto nel merito l’appello proposto avverso precedente decisione del Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia (sez. I) con la quale era stato dichiarato inammissibile il ricorso collettivo e cumulativo proposto contro gli atti con i quali le Aziende Sanitarie friulane hanno inteso dare applicazione alla regola dell’obbligo di vaccinazione contro il virus SARS-CoV-2, prevista dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021[8] (conv. con mod. in l. n. 76 del 2021) a carico degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario[9].
Il citato art. 4, nel comma 1, in particolare, dispone che, in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica, fino alla completa attuazione del Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della l. n. 43 del 2006, che svolgano attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali siano obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione dal riferito agente patogeno. Si tratta di un obbligo che copre dunque interamente le categorie professionali ivi contemplate, con l’unica eccezione (comma 2), relativa all’ipotesi di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate e attestate dal medico di medicina generale e con conseguente possibilità di differimento del trattamento sanitario ovvero esenzione dallo stesso.
L’attuazione dell’obbligo passa per una procedura articolata in più fasi. La prima, di tipo istruttorio, prevede che ciascun ordine professionale territoriale competente trasmetta l’elenco degli iscritti alla Regione o alla Provincia autonoma in cui ha sede, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza. Medesima trasmissione, parallelamente, deve essere peraltro curata anche dai relativi datori di lavoro con destinatari, ancora una volta, Regioni o Province autonome nel cui territorio operino i dipendenti.
La seconda fase, propriamente di verifica, invece è in capo alle Regioni e alle Province autonome, tenute a verificare l’avvenuta vaccinazione dei soggetti rientranti negli elenchi ricevuti, avvalendosi dei servizi informativi vaccinali. Qualora dall’istruttoria emerga che determinati soggetti non si siano sottoposti alla vaccinazione, né abbiano presentato richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell’ambito della campagna vaccinale, la Regione o la Provincia autonoma è tenuta a segnalare immediatamente all’Azienda sanitaria locale, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, i nominativi dei soggetti non vaccinati.
La terza fase è invece quella di azione funzionale all’adempimento dell’obbligo e prevede, innanzitutto, che l’A.S.L. inviti l’interessato a produrre la documentazione intesa a comprovare, alternativamente: l’avvenuta vaccinazione; l’omissione o il differimento della stessa, nei limiti in cui consentiti; la presentazione della richiesta di vaccinazione; l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale. In risposta all’invito dell’Azienda sanitaria, possono darsi due eventualità: la prima corrisponde all’ipotesi in cui il destinatario dell’invito presenti documentazione che attesti la richiesta di vaccinazione, con conseguente invito dell’A.S.L. a trasmettere tempestivamente la certificazione dell’avvenuto adempimento; la seconda riguarda invece l’ipotesi di mancata presentazione della documentazione richiesta, con conseguente formale invito dell’Azienda sanitaria a sottoporsi alla terapia profilattica, con indicazione di modalità e termini per l’adempimento.
La quarta fase, meramente eventuale, vede convivere elementi di accertamento e profili sanzionatori. Essa riguarda l’ipotesi di inadempimento dell’obbligo vaccinale a seguito del formale invito dell’Azienda sanitaria, cui compete l’accertamento dell’inosservanza e la comunicazione scritta della stessa all’interessato, al datore di lavoro e all’ordine professionale di appartenenza. Sul piano propriamente sanzionatorio, posto che la normativa qualifica espressamente la vaccinazione come “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati”, il comma 6 dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 dispone che l’atto di accertamento dell’A.S.L. comporti “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”, con adibizione del lavoratore a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle che implichino il rischio di diffusione del contagio e con attribuzione del trattamento corrispondente alle mansioni effettivamente esercitate. L’individuazione delle mansioni inferiori resta, ovviamente, in capo al datore di lavoro e, qualora tale assegnazione non fosse possibile, è stabilito non siano dovuti retribuzione né altro compenso o emolumento “fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”.
4. La legittimità dell’obbligo di vaccinazione per SARS-CoV-2 nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello in discorso sulla base di un’esposizione articolata, nella quale è ravvisabile innanzitutto una sorta di premessa di ordine scientifico e giuridico, cui segue la reiezione puntuale dei singoli motivi di impugnazione.
In sede di premessa, le preoccupazioni del giudice sono due: offrire idonee garanzie in rapporto alla sicurezza ed efficacia delle terapie vaccinali e inquadrare il trattamento profilattico nell’ambito dei principi generali e costituzionali che renderebbero legittima l’imposizione del relativo obbligo.
Sotto il primo profilo, relativo alla sicurezza ed efficacia dei prodotti farmaceutici in uso per la vaccinazione di massa, il percorso argomentativo si sviluppa a sua volta su due piani intimamente connessi: quello della legittimità ed affidabilità della procedura di autorizzazione al commercio dei vaccini e quello delle evidenze scientifiche emergenti intorno all’efficacia della protezione assicurata dagli antidoti.
In punto di autorizzazione al commercio, la sentenza ricostruisce la normativa europea sull’autorizzazione all’impiego dei vaccini e chiarisce come la procedura di “immissione in commercio condizionata” (CMA, Conditional marketing authorisation)[10], utilizzata per garantire il più celere accesso alla terapia in costanza di pandemia, non sia “una scorciatoia incerta e pericolosa escogitata ad hoc per fronteggiare irrazionalmente una emergenza sanitaria, ma una procedura di carattere generale, presidiata da particolari garanzie e condizionata a specifici obblighi in capo al richiedente e peraltro già applicata negli anni passati (anche recenti, soprattutto in campo oncologico), a fronte di necessità contingenti”. La circostanza consente di superare ogni obiezione sul presunto carattere ancora “sperimentale” della terapia vaccinale in uso, essendo la CMA una procedura in cui la maggiore rapidità e la parziale sovrapposizione delle fasi di sperimentazione (fast track/partial overlap) consentono comunque l’acquisizione di dati sufficientemente solidi e attendibili in ordine all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci.
Sul piano dell’efficacia della terapia, pur con i riconosciuti “ovvi limiti del sindacato che spetta al giudice amministrativo sugli atti adottati dalle autorità e dagli enti sanitari nazionali nell’esercizio della loro discrezionalità tecnica”[11], il Consiglio di Stato evidenzia l’utilità della vaccinazione in termini di prevenzione, per quanto non assoluta, del contagio e, massimamente, di protezione dagli stadi patologici più gravosi. L’evidenza, nel ragionamento del giudice, muove dalla combinazione dei dati prodotti in fase di sperimentazione con quelli acquisiti sul campo, nell’ambito della vastissima campagna vaccinale avviata a seguito dell’autorizzazione condizionata.
Il capitolo della sicurezza riguarda invece l’ampiamente favorevole rapporto costi/benefici della somministrazione vaccinale su larga scala, come emergente dalle risultanze parziali dei rilevamenti di farmacovigilanza, cui è preposta l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA).
Come anticipato, il ragionamento del giudice amministrativo transita poi sui principi che renderebbero legittima l’imposizione dell’obbligo a carico dei sanitari e delle categorie affini, con particolare attenzione ai canoni di precauzione e solidarietà[12].
L’istanza precauzionale[13], nell’ordito della sentenza, assume una valenza prioritaria, posto che, nella contingente emergenza pandemica, la pubblica amministrazione ha “il dovere di promuovere e, se necessario, imporre la somministrazione dell’unica terapia – quella profilattica – in grado di prevenire la malattia o, quantomeno, di scongiurarne i sintomi più gravi”.
Singolare appare peraltro la tecnica di applicazione del canone di precauzione utilizzata dal giudice in relazione alla fattispecie esaminata. Nella sentenza si legge infatti che “in fase emergenziale, di fronte al bisogno pressante di tutelare la salute pubblica contro il dilagare del contagio, il principio di precauzione, che trova applicazione anche in ambito sanitario, opera in modo inverso rispetto all’ordinario e, per così dire, controintuitivo, perché richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l’utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l’utilizzo di quel farmaco”.
In ogni caso, chiarisce il giudice, nel contesto pandemico emergenziale, l’esigenza di tutela precauzionale acquisirebbe rilevanza tale da prevalere sulla libera autodeterminazione del singolo, il quale, all’opposto, cercherebbe conforto rispetto al cd. ignoto irriducibile “corrispondente alla circostanza per cui, ad oggi, non si dispone di tutti i dati completi per valutare compiutamente il rapporto rischio/beneficio nel lungo periodo”. Si tratta di valutazioni che richiederebbero tempi lunghissimi, del tutto incompatibili[14] con l’esigenza di rapida risposta sanitaria che l’attualità pandemica impone.
Quell’istanza di pronta tutela trae invece la sua ragione di giustificazione più profonda nella valenza costituzionale del principio di solidarietà (articolo 2 della Carta) e nel momento in cui lo stesso offre la possibilità di restituire il rapporto tra libertà e responsabilità individuale in termini di endiadi. Il Consiglio di Stato, per questa via, mette a sistema una pluralità di insegnamenti della Corte costituzionale. Il discorso riguarda tanto il valore di premessa della solidarietà come “base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione” (Corte cost., 28 febbraio 1992, n. 75) e della tutela della salute come “patto di solidarietà” tra individuo e collettività (Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118), quanto la corretta ermeneutica intorno al valore della dignità della persona, che non può prescindere dalla protezione della salute di tutti, quale interesse collettivo (Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258) “conformemente, del resto, al principio universalistico a cui si ispira il Servizio sanitario in Italia (art. 1 della l. n. 833 del 1978), e nella prospettiva di assicurare la tutela primaria delle persone più vulnerabili”, la cui condizione li espone a più frequenti e intense occasioni di contatto nei luoghi di cura e assistenza.
Poste queste premesse di carattere generale e costituzionale, la decisione passa in rassegna gli ulteriori elementi di diritto positivo che sorreggono l’opzione del legislatore per l’obbligo vaccinale nel caso di specie. Qui il discorso intercetta il doppio piano dell’esigenza di tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro a protezione degli stessi lavoratori, disciplinata dal d. lgs. n. 81 del 2008, e della effettività del principio di sicurezza delle cure, che si colloca a fondamento della relazione di fiducia che deve intercorrere tra sanitari e pazienti e che, in questa prospettiva, è enunciato dalla l. n. 24 del 2017 (c.d. legge Gelli - Bianco), laddove, all’art. 1, comma 1, si chiarisce che la sicurezza delle cure è “parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività”[15].
L’ultima parte della sentenza è invece dedicata al superamento degli specifici motivi di impugnazione.
C’è un primo gruppo di questioni che attengono all’asserita incompatibilità tra l’imposizione dell’obbligo vaccinale e fonti sovranazionali, molte delle quali sono in realtà invocate impropriamente. È il caso, ad esempio, dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La norma, nel sancire il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, chiarisce infatti non possa “esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Eppure quella petizione non assume rilevanza in ordine nel caso di specie, posto che, di recente, la stessa Corte EDU, nella sentenza Vavřička e altri c. Repubblica Ceca dell’8 aprile 2021[16], proprio in tema di vaccinazioni obbligatorie (nella specie introdotte a protezione dei minori), ha ritenuto che l’imposizione di un obbligo vaccinale possa rappresentare, ai sensi dell’art. 8 della CEDU, una legittima interferenza nel diritto al rispetto della vita privata qualora, chiarisce il Consiglio di Stato nella sentenza in commento, “vi sia comunque una base legale, uno scopo legittimo e le vaccinazioni siano necessarie in una società democratica per garantire il principio di solidarietà, che consiste nell’esigenza di proteggere tutti i membri della società e, in particolare, quelli che sono più vulnerabili, a tutela dei quali si chiede al resto della popolazione di assumersi un minimo rischio sotto forma di vaccinazione”.
Altre doglianze hanno invece a che fare con il diritto interno. Centrale, in questo quadro, il riferimento all’articolo 32 della Costituzione e all’idea che il diritto di autodeterminazione terapeutica ivi contemplato risulterebbe menomato dall’imposizione dell’obbligo di profilassi sanitaria. All’obiezione, il giudice amministrativo risponde sulla scorta delle già richiamate acquisizioni della giurisprudenza costituzionale, assumendo come parametro più recente e comprensivo la sentenza n. 5 del 2018 nella sua capacità di compendiare i requisiti che l’ordinamento pone al legislatore per la costruzione normativa di specifici obblighi vaccinali. Tra questi, un ragionamento più approfondito, nell’ordito della sentenza in commento, è dedicato alla necessaria corresponsione di una posta di indennizzo per l’eventuale danno grave e/o permanente per l’integrità fisica che rappresenti conseguenza della profilassi sanitaria. Sul punto, l’appello si spingeva infatti a contestare la stessa legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, in rapporto agli artt. 2 e 32 Cost., per via della mancata espressa previsione, nel testo normativo, del riferito indennizzo. L’argomento viene tuttavia superato dal giudice in una chiave normativo-sistemica, riflettendo sulla non necessarietà di una espressa previsione di indennizzo nel testo dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, posto che la vaccinazione ivi imposta s’iscrive, a pieno titolo, tra quelle previste dall’art. 1 della legge n. 210 del 1992, a norma del quale “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge”.
5. Le misure di sanità pubblica in un contesto di pandemia: oltre l’amministrazione di prevenzione
Come già rilevato, nell’impianto della sentenza, al netto degli argomenti a rilevanza processualistica affrontati nell’incipit, alla analisi (e reiezione) dei motivi di appello, il giudice premette una sorta di parte generale, nella quale si offre una giustificazione di sistema dell’obbligo vaccinale a carico dei sanitari e delle categorie affini. Quella giustificazione fa perno, sostanzialmente, intorno alla riconosciuta valenza dei principi di precauzione e di solidarietà.
Da questo punto di vista, il compito che si dà il giudice è certamente lodevole. Rispetto a questioni così delicate e divisive nel dibattito sociale, offrire una lettura che risolva il caso di specie non soltanto nell’ottica della contestazione degli addotti motivi di illegittimità di una determinata misura, ma anche volendo restituire alla materia una coerenza generale che guardi ai principi, può contribuire alla costruzione di una maggiore consapevolezza sociale e, in ultima analisi, alla auspicabile accettazione di determinate scelte politiche e amministrative anche da parte dei segmenti dell’opinione pubblica che coltivano posizioni di più dura opposizione.
In questo quadro, nessun dubbio riguardo al fatto che il richiamo al principio di solidarietà appaia più che opportuno, posto che nella struttura dell’articolo 2 della Costituzione, l’adempimento dei doveri di solidarietà sociale comporta che ogni individuo debba mettersi a disposizione di chi ha bisogno, offrendo assistenza morale e materiale, e posto che sta alla Repubblica il compito di rendere “inderogabili” i doveri di solidarietà sociale[17], nella specie attraverso l’imposizione dell’obbligo vaccinale che incomba su categorie prioritariamente a contatto con gli individui più fragili e bisognosi di assistenza.
Più incerto mi sembra invece, nel caso di specie, il riferimento al principio di precauzione, del quale peraltro nella sentenza si evoca un’applicazione di tipo controintuitivo, perché ammette possa il decisore pubblico imporre la terapia vaccinale pur sulla base di una procedura di autorizzazione condizionata all’immissione in commercio, nella quale evidentemente i dati non sono completi ma fermo che il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo resti di gran lunga inferiore al danno sociale che possa procurare il mancato pronto ricorso alla vaccinazione.
Il punto, più che una contro-intuizione, può rischiare di apparire un cortocircuito nel ragionamento del giudice, perché utilizza una norma di principio attraverso un modello di applicazione non del tutto adeguato al contesto emergenziale[18] che l’attualità propone.
Come noto, il principio di precauzione[19] si è sedimentato nel linguaggio giuridico e nella prassi amministrativa a partire dalla Dichiarazione di Rio del Janeiro, sottoscritta al termine della Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite (Earth Summit) del 1992. In quel testo si raccomandava che “al fine di proteggere l’ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale”. Nel tempo, l’ambito di applicazione del canone si è progressivamente esteso alla politica di tutela dei consumatori, della salute umana, animale e vegetale. In ambito europeo, in particolare, la Comunicazione COM(2000)-1 della Commissione europea definisce il principio di precauzione come una strategia di gestione del rischio nei casi in cui si evidenzino indicazioni di effetti negativi sull’ambiente o sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante, ma i dati disponibili non consentano una valutazione completa del rischio. Per questa via, nel nostro ordinamento, il Servizio sanitario nazionale adotta (e rimborsa) soltanto quelle terapie e trattamenti che siano di comprovata efficacia, clinica o terapeutica.
Poste queste coordinate basilari di applicazione del principio, l’evocata applicazione controintuitiva del principio rischia di introdurre, anche nel dibattito sociale, elementi contraddittori.
In realtà la giustificazione di sistema dell’obbligo vaccinale è probabilmente ricavabile ragionando sulla valenza specifica che, in un contesto di pandemia, assume il principio di solidarietà[20] nella sua dimensione sociale in rapporto alla declinazione della tutela della salute come interesse della collettività, di cui è traccia nell’articolo 32 della Costituzione.
Siamo partiti dall’inquadrare, infatti, la misura dell’obbligo vaccinale nell’ambito delle misure di sanità pubblica, ovvero quell’insieme di strumenti amministrativi e sanitari intesi a proteggere e migliorare la salute generale e la qualità della vita della popolazione complessivamente considerata. Queste iniziative abbiamo evidenziato comportino prioritariamente azioni finalizzate alla prevenzione delle malattie ed a garantire l’assistenza sanitaria collettiva, discostandosi profondamente dagli interventi di medicina individuale, nell’ambito dei quali oggetto del “trattamento” è il singolo.
La differenza di approccio tra sanità pubblica e medicina individuale determina, conseguentemente, anche una differenza nel concepire il ruolo del pubblico potere. Nella medicina individuale, infatti, il ruolo del potere pubblico è prioritariamente un ruolo di pubblico servizio, quindi di assicurazione di efficienza del servizio e di garanzia della soddisfazione dei livelli essenziali delle prestazioni terapeutiche e assistenziali. Nella sanità pubblica, invece, il ruolo del pubblico potere si esplica in forma consistente negli spazi della funzione amministrativa, come abbiamo avuto modo di osservare, anche di recente e prima dell’emergenza pandemica, con l’introduzione delle riferite misure di profilassi obbligatoria nel 2017.
Il richiamo alle misure di incentivazione vaccinale ci restituisce, in ogni caso, la dimensione privilegiata di espressione delle misure di sanità pubblica che, in questi termini e propriamente, è amministrazione di prevenzione. Al contempo è tuttavia anche amministrazione di precauzione, nella misura in cui attinge a presidi farmaceutici di comprovata efficacia, in quanto approvati attraverso procedure standardizzate nelle quali i dati acquisiti risultano completi.
Viene però da chiedersi se una politica vaccinale in un contesto di pandemia risponda alle medesime istanze ed ambizioni e fino a che punto possa legittimamente farsi carico dell’applicazione ortodossa del principio di precauzione. Se le misure di sanità pubblica sono infatti solitamente misure di prevenzione (implementate con tecniche precauzionali) che dispiegano la loro efficacia sulla scala vasta della popolazione e non del singolo soggetto, la contemporanea esperienza pandemico-emergenziale porta le azioni di sanità pubblica a doversi confrontare non più con una con una popolazione da proteggere, con le misure preventive di profilassi, ma con una popolazione malata, da dover curare per via di un virus ad alta capacità di contagio e di rilevante efficacia patogena.
Rispetto alla popolazione malata nel contesto pandemico, la terapia che mette in campo la sanità pubblica è innanzitutto una terapia amministrativa, che attinge ai “farmaci amministrativi” che la scienza suggerisce allo stato dell’arte[21]. In questi termini, il frangente storico che attraversiamo ci ha restituito “provvedimenti terapeutici” di varia natura: dagli obblighi di utilizzo delle mascherine di protezione alle misure di distanziamento fisico, dal contingentamento dei trasporti pubblici ai cd. lockdowns, di portata più o meno generalizzata e più o meno pervasiva. Si tratta, in ogni caso, di cure amministrative impiegate per soccorrere un paziente malato, riconoscibile in termini di popolazione e non già di singolo individuo.
In questo quadro, oggi il più efficace strumento disponibile di cura, sul piano strettamente terapeutico-sanitario, è la vaccinazione con i prodotti in commercio e con questo dato devono confrontarsi le politiche pubbliche di suasion vaccinale. Sta al legislatore, nell’esercizio della discrezionalità che la Carta fondamentale gli riconosce nella prospettiva della piena attuazione del dettato costituzionale che reclama la tutela della salute come interesse della collettività e fermi i limiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale, individuare la soglia dell’induzione: per alcune categorie, dove i rischi sociali sono più evidenti, l’obbligo (i sanitari: l’organo più a rischio del paziente malato); per altre, la certificazione di adempimento vaccinale come titolo di accesso in determinati contesti (cd. green pass). Sta di fatto che la circostanza per cui determinate misure di sanità pubblica si collochino in un contesto di pandemia ascrive quelle misure non tanto nei capitoli dell’amministrazione della precauzione ma dell’amministrazione che, legittimamente e doverosamente, cura su di una scala che è diversa da quella individuale.
[1] La definizione di “Vaccine Hesitancy” deriva da uno studio promosso dallo Strategic Advisory Group of Experts (Sage) on Immunizationdell’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2012, che ha creato un gruppo di lavoro specifico sul tema. Il materiale prodotto è stato raccolto e pubblicato, ad agosto 2015, su un numero monografico della rivista Vaccine dedicato interamente all’esitazione vaccinale e intitolato “WHO Recommendations Regarding Vaccine Hesitancy”. Il gruppo di lavoro ha formulato una definizione dell’esitazione vaccinale come un ritardo nell’adesione o come rifiuto della vaccinazione, nonostante la disponibilità di servizi vaccinali.
[2] Per un approfondimento sul catalogo degli interventi e sulle strategie, si rinvia all’Health Promotion Glossary, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1998.
[3] Sul tema si rinvia ampiamente a M. Pontecorvo, Storia delle vaccinazioni, Varese, 1991.
[4] Per un commento: M. Tomasi, Lo stato dell’arte sugli obblighi vaccinali all’indomani della sentenza costituzionale n. 5 del 2018, in Studium iuris, 2018, 7-8, 819.
[5] G. Pascuzzi, La spinta gentile verso le vaccinazioni, in Mercato concorrenza regole, 2018, 1, 89.
[6] Si tratta di un indirizzo consolidato e ribadito dalla Corte Costituzionale a più riprese. Si veda: Corte Cost., 20 giugno 1994, n. 258; 23 febbraio 1998, n. 27; 16 ottobre 2000, n. 423; 20 giugno 1994, n. 258; 26 aprile 2012, n. 107. Di recente e successivamente alla pronuncia del 2018; C. Cost., 26 maggio 2020, n. 118.
[7] L. Principato, La parabola dell’indennizzo, dalla vaccinazione obbligatoria al trattamento sanitario raccomandato, in Giurisprudenza costituzionale, 2018, 1, 375.
[8] Per un inquadramento dell’istituto si veda anche M. Giovannone, La somministrazione vaccinale nei luoghi di lavoro dopo il d.l. n. 44/2021, in www.federalismi.it, 2021, 14, 103. Prima dell’introduzione della norma ma comunque successivamente all’inizio della pandemia: G. Scarselli, Note sulla obbligatorietà o meno della vaccinazione anti Covid 19, in www.ambientediritto.it, 2020, 4, 1079.
[9] Per un approfondimento sulle prime pronunce del giudice amministrativo sull’obbligo vaccinale per SARS-CoV-2, S. Caggegi, Premesse alla lettura della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. Terza 20 ottobre 2021 n. 7045 sull’obbligo vaccinale, in Questa Rivista, 28 ottobre 2021.
[10] La procedura prevede, al pari dello strumento abilitativo ordinario, che l’autorizzazione alla commercializzazione nel mercato dell’Unione sia di competenza della Commissione Europea, previa raccomandazione dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA), che valuta sicurezza, efficacia e qualità del vaccino. Il profilo differenziale riguarda invece la scansione delle fasi di sperimentazione clinica. Le stesse, nella procedura ordinaria, sono infatti sequenziali, laddove nella procedura condizionata si assiste ad una parziale sovrapposizione dei segmenti, con l’avvio della fase successiva a poca distanza dall’avvio della precedente, il che permette l’acquisizione di un insieme di dati meno ampio ma comunque ampiamente qualificante. In ogni caso, l’autorizzazione condizionata, nella previsione dell’art. 4 del Reg. (CE) n. 507/2006, viene accordata in costanza dei seguenti rigorosi requisiti: che il rapporto rischio/beneficio del medicinale risulti positivo; che sia probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi (da cui deriva, per l’appunto, il carattere condizionato della procedura); che il medicinale risponda a specifiche esigenze mediche insoddisfatte; che i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che siano comunque necessari dati supplementari.
[11] La decisione, sul punto, rinvia a: Cons. St., sez. III, 10 dicembre 2020, ord. n. 7097; nonché, più di recente, Cons. St., sez. III, 9 luglio 2021, n. 5212.
[12] Sul tema, N. Vettori, Le decisioni in materia di salute tra precauzione e solidarietà. Il caso delle vaccinazioni, in Diritto Pubblico, 2018, 1, 181.
[13] Con specifica attenzione al rapporto tra principio di precauzione e obblighi vaccinali, G. Manfredi, Vaccinazioni obbligatorie e precauzione, in Giurisprudenza italiana, 2017, 6, 1418.
[14] Sul punto, la decisione del Consiglio di Stato richiama l’orientamento manifestato dalla Corte costituzionale con riguardo alla normativa introduttiva della vaccinazione obbligatoria contro l’epatite virale di tipo B, impugnata anche per la omessa previsione di accertamenti preventivi idonei quantomeno a ridurre il rischio, pur percentualmente modesto, di lesioni all’integrità psicofisica per le complicanze del vaccino. Nella sentenza 23 giugno 1994, n. 258, la Corte ebbe infatti modo di chiarire che “la prescrizione indeterminata e generalizzata di tutti gli accertamenti preventivi possibili, per tutte le complicanze ipotizzabili e nei confronti di tutte le persone da assoggettare a tutte le vaccinazioni oggi obbligatorie” renderebbe “di fatto impossibile o estremamente complicata e difficoltosa la concreta realizzabilità dei corrispondenti trattamenti sanitari”.
[15] La sicurezza delle cure, precisa il comma 2, si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative. Aggiunge il comma 3 del richiamato art. 1 che le attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, è tenuto a concorrere tutto il personale, compresi i liberi professionisti che vi operano in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale.
[16] Emessa dalla Grande Camera in ric. n. 47621/13, n. 3867/14, n. 73094/14, n. 19306/15, n. 19298/15 e n. 43883/1.
[17] F. Polacchini, Doveri costituzionali e principio di solidarietà, Bologna, 2016.
[18] In argomento, F. Scalia, Principio di precauzione e ragionevole bilanciamento dei diritti nello stato di emergenza, in www.federalismi.it, 2020, 32.
[19] Sul tema si rinvia ampiamente a F. de Leonardis, Il principio di precauzione nell'amministrazione di rischio, Milano 2005. Più di recente, nell’ambito dei contributi monografici: R. Titomanlio, Il principio di precauzione fra ordinamento europeo e ordinamento italiano, Torino, 2018.
[20] Sul rapporto tra emergenza sanitaria e tutela del principio di solidarietà, M. Ramajoli, Emergenza, disordine, solidarietà, in Il diritto dell’economia, 2020, 3, 1.
[21] Sul tema si rinvia a D. Zanoni, Razionalità scientifica e ragionevolezza giuridica a confronto in materia di trattamenti sanitari obbligatori, in Costituzionalismo.it, 2020, 1, 140.
su questa rivista nota a Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045 di Giuliano Scarselli
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.