ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Profili della presunzione di innocenza e della modalità della comunicazione nel d.lgs. n. 188 del 2021*
di Luigi Salvato
1. Per il tempo a disposizione, mi limito ad alcune sintetiche considerazioni in ordine alla presunzione di innocenza con riguardo alle modalità della comunicazione alla luce del d.lgs. n. 188 del 2021[1].
La premessa dalla quale muovere è che non irragionevolmente l’interesse suscitato dal decreto potrebbe destare sorpresa. Molta strada è stata infatti percorsa da quando la considerazione della presunzione di innocenza come una sorta di «stravaganza» germogliata «dai principi della Rivoluzione francese»[2] è stata accantonata dalla Costituzione, sia pure con la formula «presunzione di non colpevolezza», frutto di un compromesso che lasciava irrisolti alcuni problemi teorici. La presunzione di innocenza è assurta infatti a regola saldamente radicata nella coscienza, anche perché espressamente codificata[3] e nel tempo riempita di contenuto da numerose sentenze, in particolare, tra le altre, della Corte EDU[4], che l’hanno riferita alle dichiarazioni di tutte le autorità pubbliche[5], da rendere sempre «con tutta la discrezione e tutto il riserbo imposti dal rispetto della presunzione di innocenza»[6], avendola altresì inclusa la Corte di giustizia nell’ambito dei diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento comunitario[7]. Numerose, sono state le prescrizioni dettate da fonti “interne” ed “esterne”, di vario rango[8], con riguardo proprio al profilo della comunicazione, dettagliate al punto da indurre a ritenere che tutto fosse stato già detto.
Così non è stato; l’insufficienza di queste fonti è sotto i nostri occhi e giustifica il recente intervento normativo. Al riguardo, basta considerare, in primo luogo, le criticità evidenziate dalla Commissione europea il 31 marzo 2020[9]; in secondo luogo, che il fenomeno definito nel 1993 da Daniel Soulez Larivièr «circo mediatico giudiziario»[10], sommamente lesivo della presunzione di innocenza, è stato aggravato dallo sviluppo delle nuove tecnologie.
2. Per porre rimedio a tali criticità, le «misure appropriate» richieste dall’art. 4 della direttiva[11] si sono concentrate, con il d.lgs. n. 188, sul versante delle autorità pubbliche; in particolare, anche rafforzando quelle di natura disciplinare, l’unico profilo al quale accenno, per ragioni di tempo e perché l’immaginario collettivo rimandato dai media le attribuisce una sorta di risolutiva funzione salvifica.
L’intervento, sotto questo profilo, è tuttavia sembrato quasi subito poco incisivo[12], al punto che costituisce oggetto di discussione la proposta di prevedere quale illecito disciplinare la violazione di tutti gli obblighi del richiamato art. 5[13].
Non pochi sono i dubbi e le preoccupazioni sollevati sulla congruità della disciplina: di quella introdotta dal d.lgs. n. 188, per difetto; di quella in itinere, per eccesso.
Sui dubbi e sulle preoccupazioni ‘per difetto’ occorrerà riflettere tenendo conto che, anche in mancanza di un ampliamento del catalogo degli illeciti[14], la violazione della presunzione di innocenza nella ‘comunicazione’, nella declinazione datane dal decreto legislativo, può integrare non poche fattispecie. Esemplificativamente: può determinare uno «ingiusto danno» (rilevante ai sensi dell’art. 2, lettera a); può costituire condotta gravemente scorretta (ex art. 2, lettera d); può permettere un’interpretazione più rigorosa dell’ingiustificata interferenza (art. 2, lettera e); può dare luogo ad una grave violazione di legge, ai sensi dell’art. 2, lettera g) (in presenza, ovviamente, di tutti i noti elementi richiesti ai fini disciplinari); può integrare l’illecito dell’art. 2, lettera l)[15]; può essere riconducibile all’art. 2, lettera n)[16].
I dubbi e le preoccupazioni ‘per eccesso’ dovranno invece essere approfonditi alla luce della considerazione che la gran parte dei nuovi (proposti) illeciti, certo quelli più problematici, sono previsti da clausole generali, quali sono quelle che consentono la diffusione delle informazioni «solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico», ovvero di tenere una conferenza stampa soltanto in presenza di «specifiche ragioni di pubblico interesse». Si tratta di clausole compatibili con il principio di legalità come declinato dalla Corte costituzionale[17]. Le espressioni identificano infatti con certezza il precetto e fanno riferimento a concetti di comune esperienza ed a valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall'interprete, anche perché, al fine di stabilire se la fattispecie sia stata integrata, occorre accertare che sia stato leso il bene giuridico specifico oggetto della fattispecie, che si pone accanto a quello generale della credibilità del magistrato e del prestigio dell’ordine giudiziario[18].
Bene specifico tutelato dalle fattispecie è il diritto alla presunzione di innocenza, che si affianca a quello all’immagine di indipendenza, imparzialità e serenità di giudizio del magistrato, nonché all’inesistenza di una «possibile percezione di disparità di trattamento tra accusa e difesa», sicuramente già tutelato dalle vigenti previsioni in tema di modalità della comunicazione[19]. Nondimeno, va ricordato che accanto a tale diritto si pone altresì il diritto all’informazione, «cardine di democrazia nell’ordinamento generale»[20], anche in considerazione del ruolo della stampa di «cane da guardia» della democrazia[21], assumendo la libertà di stampa «un’importanza peculiare, in ragione del suo ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico, nel quale al diritto del giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini»[22], costituendo l’accesso alla pubblica opinione non una «opportunità», ma una «necessità politica»[23], correttamente e chiaramente considerata – è opportuno sottolinearlo – anche dal d.lgs. n. 188, tenendo conto che, come di recente ricordato dal Presidente della Repubblica, «è opportuna la trasparenza della decisione da assicurare attraverso un’adeguata comunicazione istituzionale», nell’osservanza del «principale dovere che deve assumere il magistrato: l’eticità dei suoi comportamenti, anche nelle diverse forme di comunicazione»[24]. La questione, non esistendo nell’ordinamento costituzionale alcun diritto tiranno, resta dunque quella della modalità dell’informazione e del bilanciamento dei valori in gioco, bilanciamento difficile, ma non impossibile, anche tenendo conto delle coordinate fissate, anche di recente, dalla Corte costituzionale[25].
3. Queste sintetiche considerazioni permettono di ridimensionare alcune preoccupazioni e di dare risposta ad alcuni dubbi, ma forse non eliminano le perplessità per l’enfatizzazione della pregnanza dell’intervento disciplinare, e ciò per almeno tre ordini di ragioni.
La prima è che tale enfatizzazione conforta la preoccupazione, di recente ricordata dal Procuratore generale della Corte di cassazione, Giovanni Salvi[26], per la «crescente tensione per un diritto punitivo etico», che ripropone dinamiche degenerative concernenti il diritto penale (giustamente criticate ed irragionevolmente esportate), giungendo ad invocare, non correttamente, il diritto disciplinare quale strumento di garanzia dell’etica e della professionalità delle condotte dei magistrati. Essa rischia, inoltre, di tramandare l’inesatto convincimento sull’esistenza di un inscindibile nesso tra etica, deontologia e responsabilità disciplinare che, confondendo i diversi livelli di riprovevolezza dei comportamenti, ne impedisce un efficace contrasto sui differenti piani dell’etica (individuale e sociale) e della responsabilità sociale e deontologica, prima ancora che disciplinare, civile e penale, postulando un’inesistente, perniciosa, relazione che finisce con l’ostacolare anche l’irrogazione di quelle sanzioni (in senso lato) non condizionate alla celebrazione di un processo. L’enfatizzazione alimenta una concezione della responsabilità disciplinare erronea, che ne oblitera l’esclusivo carattere di rimedio preordinato a sanzionare la violazione dei doveri funzionali del magistrato nei confronti dello Stato e ad irrogare una sanzione che incide esclusivamente sul rapporto di impiego, all’interno di un procedimento cui il cittadino resta estraneo. Non è dunque (non può essere) strumento di garanzia della esattezza delle decisioni dei diritti lesi da provvedimenti e/o condotte non corretti, i quali restano tutelati e tutelabili con rimedi diversi, autonomi e indipendenti, oggetto di altri, differenti, procedimenti che non sono influenzati (e/o condizionati) da quello disciplinare e, dunque, sul piano dell’immediata tutela del diritto leso la misura disciplinare può rivelarsi non appagante e finanche fuorviante.
La seconda delle richiamate ragioni è costituita dal rischio che l’enfatizzazione del profilo disciplinare possa far perdere di vista, ed impedire di considerare al giusto, le cause della complessità della questione. Queste ultime sono anzitutto di sistema, rinvenendo radice nell’avanzata dello stato costituzionale che, ha scritto Peter Häberle, ha posto all’ordine del giorno la questione del peso dei problemi di verità e del diritto dell’uomo alla verità, assurto a diritto fondamentale quando si riconosca che la verità è una forma di giustizia[27]. Lo stato costituzionale si caratterizza tuttavia «per la consapevolezza di non essere in possesso di precostituite verità eterne, ma di essere invece destinato ad una mera ricerca della verità»; unica regola assoluta è quella, di metodo, della sua ricerca attraverso la dialettica ed il confronto. Per tale imperativa regola, nello stato costituzionale deve ritenersi rafforzata la distinzione tra verità «storica», «giornalistica» e «giudiziaria»: ciascuna può non essere identica all’altra; si collocano su piani diversi che non sempre si intersecano; vanno ricercate attraverso le procedure previste ed è questo che ne certifica la validità. Verità giudiziaria è solo quella raggiunta nella rigorosa osservanza del giusto processo di legge. Il giurista è tenuto a «valorizzare l’”autonomia” del suo discorso di verità ed elaborarlo specificandone gli ambiti e le funzioni: alla libera stampa è consentito un rapporto con la verità diverso da quello che coinvolge il giudice»[28]. Restano quindi valide le considerazioni con cui non un giurista, ma un intellettuale e giornalista, ricordò anni addietro che gli era capitato di indossare «una toga e di fare una dozzina di processi televisivi. Ma io scherzavo», osservando efficacemente: «la storia sputa sentenze che appartengono a lei sola, e la giustizia non deve imitarla, rincorrerla, ricalcarla, mescolarla a sé. Ne va del Vero giuridico, quell’approssimazione al fatto “come è accaduto” che ha un senso soltanto se non è intuizione, giudizio o accertamento storico, soltanto se si fonda su garanzie liberali di cui uno storico non saprebbe come servirsi»[29]. Se non comprendiamo questo, «allora la base delle nostre libertà è non già incrinata o messa in mora ma letteralmente distrutta» ed è sicura la perdita di «quella secolare conquista della civiltà giuridica secondo cui solamente all’esito di un giusto processo» si può essere definiti colpevoli[30].
La terza delle accennate ragioni di complessità è costituita dalla novità dell’irrompere del mondo di Internet, nel quale la valutazione ed il verdetto sono diventati frutto della «smisurata giuria pubblica» dei social media, che giudica in tempo reale, pretende una risposta immediata attraverso plebisciti governati dalla sola logica dell’emotività, a prescindere (e contro) i principi del giusto processo di legge, visto «come un lungo e a tratti noioso percorso burocratico per arrivare a definire qualcosa che […] nella coscienza collettiva è già certo»[31], come invece non è, ed è necessario ribadirlo con forza, senza stancarsi. Tutto ciò senza peraltro che il popolo dei social media abbia consapevolezza del rischio, insito negli stessi, della «relativa facilità con cui le emozioni negative possono essere usate per creare dipendenza e manipolare [che] produce risultati aberranti», a causa di una «sfortunata combinazione di biologia e matematica»[32].
Un passato non troppo remoto ci ha consegnato luminosi esempi del corretto modo del magistrato e del professionista dell’informazione di porsi di fronte al processo, in una vicenda in cui tutte le questioni che costantemente si ripropongono erano particolarmente esaltate; a questi dobbiamo avere riguardo, da questi dobbiamo trarre i dovuti insegnamenti. Mi riferisco al celeberrimo reportage di Hannah Arendt relativo al processo ad Adolf Eichmann[33]. L’Autrice sintetizzò con rara efficacia la diversità dei compiti della politica, dei giudici e dell’informazione («Ben Gurion non si “curava” della sentenza che sarebbe stata pronunziata», ma «è innegabile che emettere una sentenza era l’unico compito del Tribunale di Gerusalemme»), gli imperativi che ai diversi attori si impongono, di non cadere preda dell’opinione pubblica (il Presidente della Corte non esitò ad usare nel corso del processo la sua lingua materna, il tedesco, dimostrando «la sua notevole indipendenza di spirito che gli aveva permesso di non curarsi dell’opinione pubblica israeliana») e di non sostituirsi al giudice, ma di descrivere il processo, analizzarne le contraddizioni e ricercare verità e significati diversi da quella giudiziaria (come ella fece, senza indietreggiare di fronte al fuoco di fila delle polemiche che la travolsero perché aveva inteso adempiere a questo suo unico compito), nel massimo rispetto della dignità di coloro che sono coinvolti dallo stesso.
4. Riflettere su queste complessità è imprescindibile per identificare le «misure appropriate» ai fini del ragionevole bilanciamento della presunzione di innocenza e del diritto all’informazione, per evitare che restino vane le molte (finanche troppe, visti i risultati) parole spese sulla modalità della comunicazione. La riflessione permette di apprezzare anzitutto la necessità di ripristinare, nel significato più profondo, il principio di competenza, relegato negli ultimi anni tra i vecchi, inutili arnesi, come non è e non può essere. Dobbiamo accantonare l’idea che tutti possano fare tutto. Ciò non è, non soltanto quando si tratta di pilotare un jet o di operare a cuore aperto, ma anche di informare professionalmente, ovvero di celebrare un processo. L’opinione pubblica di derivazione illuministica non deve essere confusa con lo «indistinto aggregato, prodotto dall’insieme di acritici e passivi utenti di televisione e di rete, pronti ad accettare per vera un’opinione per il solo fatto che viene ripetuta e diffusa»[34]. Occorre dirlo con forza, nella speranza che la concezione corretta diventi patrimonio della coscienza collettiva. E’ ovviamente indiscusso il diritto di ciascun cittadino di esprimere le proprie idee ed opinioni, beninteso nell’assoluto rispetto dei diritti degli altri. Ma l’informazione, in senso tecnico, spetta ai professionisti. Ed è necessario che questi, ma non solo loro, rivendichino il compito che, in virtù dei principi di competenza e professionalità, spetta soltanto ad essi, da perseguire tenendo conto che la stessa deve parlare del processo, ma non può sostituirlo. Celebrare il processo spetta invece esclusivamente ai magistrati ed agli avvocati, ai quali si impone di osservare tutte le regole che lo governano, dovendo altresì i primi avere quale stella polare l’alto ammonimento del Presidente della Repubblica che il magistrato «non deve mai farsi suggestionare dalla pressione che può derivare dal clamore mediatico […] poiché le sue decisioni non devono rispondere alla opinione corrente – né alle correnti di opinione – ma soltanto alla legge»[35] e deve altresì informare la condotta nella comunicazione alle regole che la disciplinano, tutte a ben vedere già scritte anche prima del d.lgs. n. 188. Ma è anche necessario che questi fondamentali principi divengano davvero patrimonio comune della coscienza collettiva e che, quindi, si radichi in ognuno il convincimento che la sola sottoposizione ad un procedimento penale non mina la presunzione di innocenza, che deve essere rispettata da tutti i cittadini, indistintamente.
5. Il ragionevole bilanciamento dei valori in gioco va ricercato operando anzitutto sul piano della professionalità, mediante la maturazione e l’elaborazione di modelli di comportamento condivisi. Con riguardo ai magistrati, in particolare del pubblico ministero, merita dunque condivisione il d.lgs. n. 188 nella parte in cui ha esteso l’attività di vigilanza dell’art. 6 del d.lgs. n. 106 del 2006 all’osservanza dei doveri di cui all’art. 5. L’art. 6 stabilisce infatti «un potere (non gerarchico) di informazione e di controllo sulle attività dei Procuratori della Repubblica svolto tramite i Procuratori generali dei singoli distretti di Corte d’appello […] funzionale a garantire il rispetto dei principi convenzionali e costituzionali del giusto processo» ed ora anche delle modalità della comunicazione[36]. Rileva dunque che attraverso la Procura generale della Cassazione possono essere individuate e diffuse buone prassi organizzative, all’interno di un sistema "a rete" e di un modello dialettico che realizza la c.d. nomofilachia delle prassi mediante un processo collegiale e condiviso, garanzia della crescita e del consolidamento di una professionalità comune e condivisa sempre più elevata, che assicura il ragionevole bilanciamento al quale ho accennato. Al riguardo, va ricordata la tempestività dell’azione di molte Procure della Repubblica, tradottasi in numerosi documenti di indirizzo dei criteri da osservare nella comunicazione[37] e l’avviato confronto degli stessi all’interno del circuito dell’art. 6, al fine di elaborare orientamenti condivisi.
L’obiettivo da perseguire, a ben vedere, con riguardo alla comunicazione del P.M., è stato peraltro già compiutamente e puntualmente fissato nella Relazione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022 dal Procuratore generale della Corte di cassazione ed è quello di garantire il rispetto «[del]l’autonomia delle scelte del Procuratore della Repubblica sulle modalità della comunicazione istituzionale», senza appesantire l’aspetto burocratico, tenendo conto che «la comunicazione delle attività dell’ufficio costituisce un dovere», da adempiere «nel rispetto dei principi indicati dal Legislatore e prima ancora, temporalmente, dal Consiglio superiore della magistratura e dal Consultative Council of European Prosecutors (CCPE), ma deve al contempo essere completa, tempestiva ed efficace». La sfida è, dunque, di cogliere al meglio le opportunità offerte dal d.lgs. n. 188, nella consapevolezza che l’obiettivo da conseguire è quello di realizzare il corretto bilanciamento della presunzione d’innocenza e del diritto all’informazione, che è nelle mani non soltanto dei magistrati e degli avvocati, ma anche dei professionisti dell’informazione, oltre che di tutti i cittadini.
* Il testo riproduce, con l’aggiunta delle note, l’intervento al convegno organizzato dalla Rivista Giustizia Insieme sul tema Processo mediatico e presunzione di innocenza, Roma, 1° aprile 2022.
[1] Oggetto di numerosi commenti, tra gli altri, negli interventi in questa rivista di F. Resta (Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza), A. Spataro (Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188) e V.A. Stella (Recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: è davvero la fine dei processi mediatici?); G. De Marzo, Il d.leg. 8 novembre 2021, n. 188 e la presunzione di innocenza nel nostro ordinamento, in Foro it., 2022, V, 12; A. Malacarne, La presunzione di non colpevolezza nell’ambito del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188: breve sguardo d’insieme, in Sistema penale, 17 gennaio 2022; F. Rotondo, Presunzione di innocenza, informazione giudiziaria e diritti fondamentali, in Freedom Security Justice, 2022, 1, 308.
[2] Contenuta nella Relazione al progetto preliminare del c.p.p. del 1930.
[3] Tra l’altro, nell’art. 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948; nell’art. 6 della Convenzione EDU; nell’art. 14 par. 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, approvato dall’Assemblea delle Nazioni unite il 16 dicembre 1966; nell’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; nello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale; nelle conclusioni del X Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione e il trattamento dei trasgressori
[4] Almeno a partire dalle fondamentali sentenze 27 febbraio 1980, Deweer c. Belgio; 25 marzo 1983, Minelli c. Svizzera; per ulteriori riferimenti sulla giurisprudenza della Corte EDU, v. R. Chenal, Il rapporto tra processo penale e media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Dir. pen. Cotemporaneo, 3, 2017; F. Rotondo, Presunzione di innocenza, cit., 308.
[5] Sentenza 28 ottobre 2004, Y.B. e altri c. Turchia.
[6] Sentenza 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia, da osservare altresì nella motivazione della sentenza, sentenza 25 agosto 1987, Lutz c. Germania.
[7] Sentenza 8 luglio 1999, C-235/92, Montecatini S.p.A.
[8] In via meramente esemplificativa, per le prime, tra le altre, il d.lgs. n. 109 del 2006, da leggere in correlazione con l’art. 5 del d.lgs. 106/2006; l’art. 6 del codice etico dell’ANM; la circolare del CSM recante le Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale; l’ art. 8 del TU dei doveri del giornalista; la delibera 13/2008 dell’Autorità Garante delle telecomunicazioni; per le seconde, ex plurimis, le Raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri: Rec(2000)19, Rec(2012)11, Rec(2003)13, Rec(2010)12, Rec(2011)7; i pareri del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) n. 7(2005) e “Magna Carta of Judges (Fundamental Principles” (2010), n. 14(2011); i pareri del Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE): n. 8 (2013), n. 9(2014); al parere congiunto CCJE-CCPE, “Dichiarazione di Bordeaux” (2009); i molteplici rapporti dell’ENCJ (European Network of Councils for the Judiciary).
[9] Puntualmente richiamata nella relazione allo schema di decreto delegato poi emanato quale d.lgs. n. 188 del 2021.
[10] D. Soulez Larivier, Il circo mediatico giudiziario, Macerata, 1994.
[11] Direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.
[12] In quanto il d.lgs. n. 188 del 2021 non ha introdotto nuove fattispecie disciplinari, sicchè appare restare tale esclusivamente la violazione dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 106 del 2006 prevista dall’art. 2, lettera v), del d.lgs. n. 109 del 2006.
[13] Il riferimento è, in particolare, al maxiemendamento al disegno di legge A.C. 2681, oggetto delle considerazioni svolte nel parere reso dal CSM il 23 marzo 2022 su richiesta del Ministro della Giustizia, ai sensi dell'art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195.
[14] Quale previsto dal d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, cui si fa riferimento nel testo.
[15] Nei casi in cui i commi 1 e 3-bis del novellato art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 prescrivono l’obbligo della motivazione, non rilevando, per escluderlo, natura e la finalità del provvedimento, ma soltanto che si tratta di atto posto in essere nell’esercizio delle funzioni.
[16] Per la violazione delle specifiche direttive stabilite in apposito ‘ordine di servizio’ o nei criteri organizzativi, nella parte relativa alla modalità dell’informazione in esame.
[17] Sul punto, avendo riguardo esclusivamente alla materia degli illeciti disciplinari dei magistrati, è sufficiente richiamare la sentenza n. 100 del 1981 avente ad oggetto la clausola generale già contenuta nell’art. 18 della legge delle guarentigie.
[18] Al riguardo, è sufficiente rinviare al principio enunciato dalle Sezioni unite civili nella sentenza n. 31058 del 2019.
[19] Secondo la declinazione di recente offertane dalle Sezioni unite civili proprio con specifico riguardo al dovere di riserbo ed alle modalità della comunicazione, con accenti in parte nuovi, dalla sentenza n. 22373 del 2020.
[20] Corte cost., sentenza n. 206 del 2019.
[21] Corte EDU, sentenza 27 marzo 1996, Goodwin contro Regno Unito.
[22] Corte cost., sentenza n. 1 del 1981; v. anche le sentenze n. 84 del 1969, n. 126 del 1985, n. 112 del 1993, n. 105 del 2002.
[23] G. Giostra, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007, 68.
[24] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 2 marzo 2021, Roma 30 marzo 2022.
[25] Con specifico riguardo alla relazione tra diritto di informare e reputazione della persona, sentenze n. 206 del 2019 e n. 150 del 2021.
[26] Il riferimento è al testo della Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022.
[27] P. Häberle, Diritto e verità, Torino, 2000.
[28] P. Häberle, op. cit., XIX.
[29] G. Ferrara, Introduzione, in Il circo mediatico giudiziario, cit., IX ed XI.
[30] P. Sammarco, Giustizia e social media, Bologna, 2019, edizione digitale, pos. 648.
[31] P. Sammarco, op. cit., pos. 711.
[32] J. Lanier, Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Milano 2018, 26, la cui considerazione è particolarmente significativa, poiché è uno dei padri dell’A.I. che governa il mondo di Internet.
[33] H. Arendt, La banalità del male, edizione digitale, Milano, 2019.
[34] F. Ippolito, Recuperare la fiducia e non rincorrere il consenso, in Questione Giustizia, 2018, 4, 235.
[35] Intervento – il 5 aprile 2019 – del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di inaugurazione dei corsi di formazione della Scuola Superiore della Magistratura per l’anno 2019.
[36] Al riguardo, per apprezzare il contenuto dei compiti fissati dall’art. 6 ed il modello non gerarchico dallo stesso fissato è sufficiente rinviare alle indicazioni offerte dalla P.G.C. leggibili nel sito web dell’ufficio.
[37] Senza pretese di completezza, cfr. gli atti delle Procure di Bologna, Cuneo, Cremona, Perugia, Pesaro, Terni, Vicenza, leggibili nei siti web degli uffici.
Dirigenza giudiziaria: la parola al CSM
Intervista di Riccardo Ionta e Federica Salvatore a Alberto Benedetti, Giuseppe Cascini e Loredana Miccichè
Il carico di lavoro consiliare, le carenze delle fonti informative, i pericoli di valutazioni basate su curricula pletorici e di carriere dirigenziali parallele, le motivazioni imperfette delle decisioni: le opinioni di tre componenti del Consiglio Superiore non sempre collimano, talvolta divergono. E l’intervento del giudice amministrativo sempre più spesso incombe.
Anche in questa consiliatura il CSM ha provveduto a un numero elevatissimo di nomine e conferme. Quanto incide questo numero sulla valutazione della qualità effettiva dei candidati, sui progetti organizzativi presentati dagli aspiranti direttivi? È compatibile, anche in prospettiva, con l’idea di un’estensione delle audizioni?
Alberto Benedetti I numeri sono stati alti, anche se certamente inferiori a quelli della consiliatura precedente. Mi ha certamente impressionato l’alto numero di domande per le varie posizioni, anche in relazione a uffici non direttivi. L’audizione può essere importante se, poi, se ne valorizzano i contenuti e i risultati nei provvedimenti di nomina; se, invece, sono un mero passaggio formale o rituale, non servono a nulla e, anzi, finirebbero con l’allungare ulteriormente i tempi delle decisioni. Credo nell’importanza del colloquio con gli aspiranti, soprattutto per le posizioni apicali più delicate, purché, ripeto, si tratti di un passaggio utile per valutare le capacità del candidato, non per ascoltare da lui un riassunto del proprio curriculum.
Giuseppe Cascini Da una rilevazione effettuata dall’Ufficio statistico del CSM nei primi 1156 giorni dall’inizio della consiliatura sono stati conferiti 383 incarichi, di cui 160 direttivi e 223 semidirettivi. Nello stesso periodo, cioè nei primi 1156 giorni, nella precedente consiliatura sono stati conferiti 771 incarichi (334 direttivi e 437 semidirettivi), nella consiliatura 2010/2014, sono stati conferiti 475 incarichi (199 direttivi e 276 semidirettivi), nella consiliatura 2006/2010 sono stati conferiti 761 incarichi (361 direttivi e 400 semidirettivi). E’ chiaro che le consiliature 2006/2010 e 2014/2018 hanno dovuto far fronte ad un numero molto più elevato di pratiche, come conseguenza, nel primo caso, della introduzione della temporaneità degli incarichi con la riforma del 2006 e, nel secondo caso, della riduzione dell’età pensionabile.
C’è da chiedersi come abbiano fatto, perché anche con la metà delle delibere, la situazione è molto difficile da gestire e i tempi di definizione sono molto lunghi.
In questa consiliatura la valutazione sulla qualità dei candidati, in base ai dati disponibili, e sui progetti organizzativi presentati è sempre stata molto approfondita, ma certamente un numero così elevato di pratiche è assolutamente incompatibile con la previsione di audizioni obbligatorie per tutte le pratiche.
Occorre, inoltre, considerare che con la riforma del TU della dirigenza del 2014, soprattutto alla luce della giurisprudenza amministrativa che si è formata a seguito di quella riforma, la procedura di nomina si è andata sempre più trasformando in una sorta di concorso per titoli, nel quale, soprattutto secondo l’impostazione del giudice amministrativo, non vi è molto spazio per valorizzare l’esito della audizione o la qualità del progetto organizzativo presentato.
Il sovraccarico di lavoro della Commissione ha determinato, però, un rilevante ritardo nella valutazione delle conferme. Ed è questo, oggi, l’aspetto più negativo dell’azione della quinta Commissione.
La proposta avanzata da AreaDG di una riduzione del numero di posti semi-direttivi, elaborata sulla base di motivazioni di politica giudiziaria ben più ampie e articolate, avrebbe comunque anche l’indubbio vantaggio di rendere più gestibile il carico di lavoro della Commissione.
Loredana Micciché L’elevato numero di nomine non incide sulla qualità delle valutazioni ma sui tempi necessari per la copertura dei posti direttivi, che richiede, in media, circa un anno. La durata delle procedure dimostra che il lavoro è svolto con il necessario approfondimento: nella esperienza biennale in Quinta Commissione ho potuto constatare che tutti i componenti conoscevano i profili professionali dei candidati e che la decisione ha richiesto, spesso, molte sedute. Preciso che i profili degli aspiranti vengono redatti dalla Segreteria della Commissione in base alla documentazione allegata alla domanda e in relazione a tutti gli indicatori dell’attitudine direttiva previsti dal Testo Unico della Dirigenza. Certamente l’elevato numero dei posti da conferire rende impossibile audire tutti i candidati, ma, in ogni caso, il ricorso ad audizioni generalizzate, a prescindere dal numero dei posti, può costituire un inutile appesantimento istruttorio, posto che le audizioni hanno un mero valore conoscitivo – comunque valutabile – ma non possono rivestire efficacia dirimente nella decisione. Una insoddisfacente valutazione della qualità “effettiva” è invece legata ad un problema di lacunosità delle fonti di conoscenza, poiché molto difficilmente i pareri attitudinali specifici degli Organi di autogoverno locale segnalano criticità.
Si lamenta da sempre la carenza delle fonti di conoscenza sui profili dei candidati. Ma, anche quando siano individuate, ciò che ne emerge viene verificato o è almeno verificabile da parte del Consiglio?
Alberto Benedetti Nella mia esperienza, generalmente si ritiene affidabile ciò che i candidati indicano nell’autorelazione; poi, naturalmente, le Commissioni possono fare ulteriori verifiche, specie all’interno del consiglio, per completare il quadro del profilo del candidato. Osservo che se si dovesse verificare ciò che si legge nelle autorelazioni, i tempi ulteriormente si allungherebbero; ogni consigliere – io l’ho fatto spesso – può poi verificare nelle fonti aperte i dati che legge sulle autorelazioni, per esempio per quel che riguarda le pubblicazioni allegate dai candidati o le esperienze didattiche.
Giuseppe Cascini Io credo che sia un errore, e anche un po’ una illusione, pensare di affidare ai sistemi di valutazione la “misurazione” delle qualità professionali dei candidati. I sistemi di valutazione (quelli quadriennali sulla professionalità, quelli in sede di conferma o di parere per il conferimento di incarichi) dovrebbero servire esclusivamente (o almeno prevalentemente) ad individuare eventuali elementi di criticità. Non è cosa da poco, in quanto un sistema in grado di escludere i candidati inadeguati può affidarsi con maggiore serenità a regole più stringenti e “oggettive” nella attribuzione degli incarichi. Su questo terreno io penso che il complessivo sistema di valutazione dei magistrati sia largamente carente. Ciò che prevale è l’uso, sovente generoso, di aggettivi superlativi sganciati dai fatti, mentre gli elementi di criticità, che spesso sono ampiamente conosciuti da tutti, raramente emergono.
La riforma, già approvata dal Consiglio, sulle procedure di conferma dei direttivi e semidirettivi e quella, in discussione in questi giorni in Quarta Commissione sulle valutazioni di professionalità, si pongono proprio l’ambizioso obiettivo di eliminare gli aggettivi e sostituirli con i fatti. Dalla approvazione, e dalla effettiva attuazione, di queste riforme passa, a mio avviso, la vera possibilità di un recupero di credibilità dell’azione consiliare.
Loredana Micciché Il CSM dispone d’ufficio, per ogni aspirante, la verifica sulla posizione disciplinare o sulla esistenza di pendenze riguardanti procedimenti di incompatibilità ambientale o parentale. Può acquisire elementi valutativi da atti, documenti o informazioni nella sua disponibilità, garantendo il contraddittorio del candidato ove si tratti di elementi negativi. Può anche disporre accertamenti presso le proprie articolazioni interne, come prevede l’art. 36 TU sulla Dirigenza Giudiziaria. Certamente, dunque, il Consiglio ha la possibilità e i mezzi per disporre verifiche e in tal senso si è sempre proceduto.
Nella “meritevolezza” su cui il CSM cerca basare le nomine quali capacità sono riconosciute? E c’è spazio per le capacità relazionali? Non si rischia piuttosto di premiare ambizioni basate su curricula costruiti ad hoc in un percorso professionale?
Alberto Benedetti Il rischio c’è, è molto concreto; nella mia esperienza, ho visto scelte basate solo sulle autorelazioni (talvolta accompagnate da audizioni, ma non sempre) e sui dati in queste contenuti. Le capacità relazionali potrebbero essere verificate solo ascoltando i colleghi del candidato o chi ha coordinato e diretto gli uffici in cui ha lavorato; ma allo stato non si fa e mi auguro che la riforma possa affrontare questo importantissimo aspetto con regole specifiche.
Giuseppe Cascini Come accennavo prima, già con la riforma del 2006, ma soprattutto con il nuovo TU della dirigenza del 2014 e la giurisprudenza amministrativa che su di esso si è formata, la procedura di nomina dei dirigenti si è andata sempre più trasformando in un concorso per titoli, nel quale conta prevalentemente il dato del formale svolgimento di un incarico, senza che vi sia una seria ed effettiva possibilità di verificare come quell’incarico è stato svolto e quali risultati sono stati conseguiti. L’eccessivo numero di indicatori, speciali e generali, in posizione pariordinata tra loro offre eccessivi “margini di manovra” al Consiglio, ma anche al giudice amministrativo, che sempre più spesso tende ad “invadere” la sfera della discrezionalità delle scelte.
La proposta di riforma del TU della dirigenza avanzata dal gruppo di AreaDG si pone l’obiettivo di attribuire peso prevalente alla esperienza professionale maturata nell’esercizio dell’attività giudiziaria, riducendo la rilevanza dei tanti, e diversi, incarichi di “collaborazione”.
Resta, però, un nodo ineludibile. In qualunque sistema di valutazione comparativa le precedenti esperienze direttive o semidirettive hanno un peso obiettivamente rilevante. Ciò determina il rischio della creazione di un circuito separato di dirigenti che passano da un incarico all’altro, accrescendo sempre più il proprio carnet di titoli. L’importante, allora, è entrare in quel circuito, casomai partendo da un semidirettivo scomodo e poco ambito, per poi risultare vincenti in tutti i successivi concorsi.
Loredana Micciché Il Testo Unico sulla Dirigenza giudiziaria è basato sulla fonte primaria, ossia sull’art. 12 del d.lgs. n.160/2006, che richiede “capacità di programmare e gestire le risorse”, “propensione all’impiego di tecnologie avanzate”, “capacità di valorizzare le attitudini dei magistrati e funzionari”, di “operare il controllo di gestione sull’andamento generale dell’ufficio”, di “dare piena attuazione a quanto indicato nel progetto tabellare”. È la legge, dunque, che richiede la presenza di una attitudine direttiva che deve necessariamente ricollegarsi ad elementi concreti. Detti elementi, nell’impianto del Testo Unico, si chiamano “indicatori” e vengono distinti tra indicatori “specifici” – che riguardano esperienze collegate alla tipologia di ufficio a concorso, quali esperienze di collaborazione, pregressi incarichi semidirettivi o direttivi, esperienza giurisdizionale nel settore civile o penale a seconda dell’incarico da conferire – e indicatori “generali”, rivelatori invece della attitudine direttiva a prescindere dal tipo di ufficio, quali le esperienze ordinamentali, le esperienze di referente informatico, le esperienze di formazione. Quanto alle capacità relazionali, le stesse sono espressamente valutabili, secondo il Testo Unico, solo con riferimento alle capacità dimostrate nello svolgimento di pregressi incarichi dirigenziali ai fini dell’acquisizione della dirigenza di un ufficio di grandi dimensioni, a norma dell’art. 18 T.U. Il “rischio di curricula ad hoc” che si paventa è legato alla esigenza tratteggiata dalla legge primaria, cui la normativa consiliare ha cercato di dare attuazione, non dimenticando però la contemporanea valorizzazione del lavoro giudiziario.
Quanto ritiene grande il rischio che, nella mole degli indicatori previsti dal t.u. sulla dirigenza, si crei una categoria di magistrati direttivi per carriera, estromettendo quanti, vale a dire la maggioranza, che per una parte della propria vita professionale non ha modo di acquisire titoli che vadano al di là dell’attività giurisdizionale?
Alberto Benedetti Il rischio mi pare elevatissimo; non occorre scomodare l’analisi economica del diritto per capire che se si appesantisce una scelta con mille parametri di ogni genere l’aspirante cerca di orientare la propria carriera all’obiettivo del conseguimento di questi parametri. E questo non va bene. Crea infatti persone che, ansiose di progredire, pensano più al loro cv che al lavoro che, in quel momento, stanno facendo, con risultati pessimi in termini di efficienza del sistema giustizia.
Giuseppe Cascini Il rischio, almeno a mio avviso è un rischio, è che si determini una separazione delle carriere tra un ristretto numero di dirigenti e tutti gli altri. Per evitare questo rischio sono necessari, a mio avviso, interventi su più fronti. Sul piano della legislazione primaria occorre, come accennavo prima, ridurre il numero di posti semidirettivi, secondo la proposta avanzata da Area DG e oggi fatta propria dalla Ministra Cartabia nel suo emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Occorre, inoltre, introdurre una effettiva temporaneità delle funzioni direttive e semidirettive, con la previsione di un periodo di decantazione tra un incarico e l’altro. In ogni caso dovrebbe, quantomeno, essere esclusa la possibilità di presentare domande per ulteriori incarichi direttivi o semidirettivi prima della conclusione dell’incarico precedente. Sul piano dell’azione del governo autonomo il tema è quello delle procedure di conferma.
Loredana Micciché Come detto, è la fonte primaria che richiede una specifica attitudine direttiva, la quale va ancorata ad elementi concreti. Va segnalato, al riguardo, che il Testo Unico valorizza le esperienze nel lavoro giudiziario, anche sotto il profilo dei risultati conseguiti in relazione alla gestione degli affari, e viene in rilievo altresì la durata delle esperienze nel settore ove si colloca il posto da conferire. L’esperienza professionale nella giurisdizione, dunque, è considerata ampiamente dalla normativa consiliare. Certamente l’impianto del Testo Unico – in armonia con la legge primaria – incoraggia il ricorso ad attività che comportino la sperimentazione delle attitudini organizzative non limitate al proprio lavoro individuale, quali il coordinamento di fatto di settori o sezioni se prolungato nel tempo, la collaborazione con la dirigenza, l’attività di magistrato di riferimento per l’informatica, l’esperienza ordinamentale ovvero l’attività formativa. Non si tratta, però, di esperienze “inarrivabili”: spesso non si registrano aspiranti per le attività di MAGRIF o di formatore decentrato; le presidenze di fatto, cui possono accompagnarsi attività organizzative, si acquisiscono per mera anzianità, le collaborazioni con la dirigenza sono regolarmente richieste con interpelli. In conclusione, l’approdo ad un incarico semidirettivo non è affatto irraggiungibile o riservato a pochi, ma è ampiamente alla portata di ogni magistrato che svolga bene il proprio lavoro e manifesti disponibilità per esperienze che sono ampiamente accessibili a tutti.
La percentuale di conferme positive di direttivi e semidirettivi è elevata, tendente alla totalità. Manca una reale “misurazione” della performance, che valuti gli obiettivi realizzati e la qualità dei provvedimenti o le ragioni sono altre?
Alberto Benedetti Vero, mancano indicatori sicuri e affidabili; bisognerebbe ascoltare chi ha lavorato con il confermando, gli avvocati del foro, gli amministrativi. Le conferme non devono essere più atti scontati o rituali, ma dovrebbero diventare momenti di verifica effettiva e come tali dovrebbero essere percepiti soprattutto dai titolari degli uffici.
Giuseppe Cascini Su questo versante è essenziale dare piena ed effettiva attuazione alla riforma del procedimento di conferma approvata in questa consiliatura, in modo da riuscire ad estromettere da quel circuito quelli che si rivelino inadeguati, così da evitare il rischio, che io credo si stia verificando oggi, che per la carriera dei magistrati si sia passati dalla anzianità senza demerito, in base alla quale si nominava il più anziano del concorso, indipendentemente dalle sue qualità e purchè non avesse particolari criticità, alla dirigenza senza demerito, in base alla quale si nomina chi ha già svolto un precedente incarico, indipendentemente da come lo abbia in concreto svolto e purchè non risultino particolari criticità. È assolutamente necessario, inoltre, ridurre drasticamente i tempi delle decisioni consiliari sulle conferme, che oggi registrano ritardi intollerabili.
Loredana Micciché In ordine alla elevata percentuale di conferme si possono reiterare le considerazioni già espresse sul fatto che anche in ordine alla valutazione del quadriennio nell’incarico direttivo o semidirettivo i pareri dei Consigli giudiziari sono sempre positivi e non segnalano alcuna criticità. In questa Consiliatura abbiamo riformato il Testo Unico proprio nella parte riguardante le conferme, predisponendo una modulistica per auto relazioni e pareri con la necessaria allegazione anche dei dati statistici riguardanti l’andamento dell’ufficio o della sezione diretta. È stata valorizzata la valutazione, da parte della settima Commissione del CSM, dei provvedimenti organizzativi adottati. Va comunque segnalato che, una volta acquisiti gli elementi indicati, il procedimento di conferma richiede uno sforzo valutativo pari o anche superiore a quello della designazione per l’incarico, compito difficile da svolgere per l’attuale struttura del Consiglio, del tutto insufficiente.
Gli annullamenti delle nomine da parte del giudice amministrativo sembrano rappresentare un indice delle disfunzioni nell’esercizio della discrezionalità da parte del CSM. Emerge una difficoltà di tenuta delle motivazioni rispetto alle scelte consiliari. Da cosa dipende: il numero delle nomine, la quantità e l’estensione dei parametri attitudinali, altri fattori?
Alberto Benedetti Prima di tutto occorre domandarsi: perché così tanti magistrati non accettano le decisioni del CSM e trovano naturale ricorrere al giudice amministrativo come fosse un atto necessitato? Certo, alla base c’è anche una questione di elevata autostima, tale da far ritenere a molti del tutto impensabile che qualcuno venga loro preferito; c’è un aspetto umano non trascurabile. A questo si aggiunge una perdita di autorevolezza dell’organo che decide, accentuata in questi anni dalle note vicende e che induce chi non è stato nominato a ritenere che ciò derivi da chissà quali cause occulte. Poi, certo, le motivazioni dei provvedimenti risentono della pesantezza degli atti e dei procedimenti e del troppo elevato tasso di burocraticità; ma, onestamente, i vizi di motivazione, a leggere moltissime decisioni dei giudici amministrativi, alla fine sono diverse valutazioni di merito che il giudice ammnistrativo esprime rispetto alla scelta del CSM, perché sappiamo tutti che il sindacato di “ragionevolezza” – a differenza di quello di legittimità – spesso finisce con l’entrare nel merito delle scelte contestate, attività che ritengo lesiva delle prerogative costituzionali del CSM.
Al di là di questo, occorre affrontare il problema a livello ordinamentale e forse costituzionale; mi pare evidente che la giustizia amministrativa debba esercitare la sua imprescindibile funzione di controllo di legalità, ma non può trasformarsi in un “altro” CSM. Rendendo più trasparenti e meno burocratiche le scelte del CSM, mi auguro comunque che cali il tasso dei ricorsi contro i suoi provvedimenti e che i magistrati imparino ad accettare serenamente le decisioni del loro organo di autogoverno; anche qui prima o poi è necessario affrontare meglio la questione del trattamento dei provvedimenti del CSM, organo di rilevanza costituzionale e strumento di realizzazione del principio costituzionale di autonomia della magistratura ; ci sono molte idee condivisibili in campo (tra cui quella di un’Alta Corte), ma necessitano di scelte meditate e non affrettate e questo mi fa pensare che se ne parlerà molto più in là nel tempo.
Giuseppe Cascini Negli ultimi 10 anni, e con una media più o meno costante per ogni anno, solo il 6% delle delibere di nomina è stato annullato dal giudice amministrativo. Sul piano dei numeri, dunque, non si può dire che vi sia una effettiva criticità.
Di regola l’intervento del giudice amministrativo è giustificato da carenze motivazionali, che possono essere sintomo di errori di valutazione – che quindi impongono una revisione della decisione da parte del Consiglio – ovvero possono derivare dalla difficoltà di esporre compiutamente in sede di motivazione tutti gli aspetti rilevanti, o ritenuti tali dal giudice, sul piano comparativo, difficoltà che può essere fronteggiata con una nuova e più approfondita motivazione.
In alcuni casi, però, si deve registrare una certa espansione del giudice amministrativo nell’ambito delle valutazioni discrezionali di merito operate dall’organo consiliare, in ciò favorito, per quello che dicevo prima, dalla tecnica di formulazione del TU sulla dirigenza e anche, forse, da un certo clima generale sul Consiglio e sulle sue decisioni in materia.
In verità, tutte le sentenze ribadiscono sempre, in premessa, l’intangibilità della sfera di discrezionalità dell’organo consiliare, ma poi nei fatti traspare sempre più spesso una tendenza del giudice amministrativo a sovrapporre le proprie valutazioni discrezionali a quelle dell’organo consiliare.
Ad esempio nella valutazione comparativa tra esperienze direttive e semidirettive il giudice amministrativo tende ad affermare la quasi obbligatoria prevalenza delle prime sulle seconde, sulla base di un dato esclusivamente formale, che sembra rispondere ad una cultura della carriera improntata ad una visione gerarchica e verticistica, che secondo me non dovrebbe appartenere al modello ordinamentale della magistratura ordinaria.
Loredana Micciché Come detto, il numero delle nomine non incide sull’approfondimento della valutazione, ma certamente incide sulla qualità delle motivazioni delle delibere, che richiedono sempre più completezza e precisione. Va evidenziato infatti che, con la modifica del Testo Unico della Dirigenza nel 2015, al fine di rendere più certi i criteri per l’accesso agli incarichi direttivi, si sono introdotti plurimi “indicatori” dell’attitudine direttiva che hanno inevitabilmente ridotto la discrezionalità del CSM ed hanno quindi reso più vulnerabili le decisioni adottate. Il basso numero di annullamenti negli anni pregressi dipende non tanto da un “buon” esercizio della discrezionalità, ma dal fatto che le precedenti circolari consentivano uno spazio valutativo amplissimo. Va anche aggiunto che il giudice amministrativo è intervenuto nel tempo su questioni controverse – quali, ad esempio, la automatica prevalenza dell’incarico direttivo sull’incarico semidirettivo e il valore delle dimensioni degli uffici e i contenuti dell’incarico – determinando fisiologicamente la caducazione di alcune decisioni ma formando nel contempo principi giurisprudenziali che dovrebbero rendere più certi i criteri valutativi per il futuro. Sotto il profilo delle possibili soluzioni al problema, si potrebbero rendere ancora più stringenti gli indicatori specifici, prevedendo, ad esempio, che l’accesso ai direttivi di secondo grado implichi il necessario pregresso svolgimento delle funzioni di secondo grado o di legittimità, elemento al momento non previsto. Occorre però contemporaneamente aggiungere l’unico criterio di indiscutibile certezza, ossia l’introduzione della c.d. fascia di anzianità riferita almeno all’arco di due valutazioni di professionalità.
Secondo convegno organizzato da Giustizia Insieme
Roma, Piazza di Firenze 27, Società Dante Alighieri,Sala del Primaticcio
Venerdì 1 aprile 2022 ore 14:30/20:00
Processo mediatico e presunzione di innocenza
Ore 14:30 Saluti del Segretario Generale della società Dante Alighieri Prof. Alessandro Masi
Saluti del Procuratore Generale della Suprema Corte di Cassazione Giovanni Salvi
Introduzione ai lavori: Roberto Conti e Paola Filippi - Direttori scientifici di Giustizia Insieme
Ore 15:00 prima sessione - Il giudice nell’immaginario collettivo -
Giovanni Bianconi e Giuseppe Santalucia - discussant - Giuseppe Amara
Ore 15:50 seconda sessione - La presunzione di innocenza, sostanza e forma -
Valentina Stella, Francesco Paolo Sisto e Raffaele Cantone - discussant - Donatella Palumbo
Dibattito
17:00 coffee
17:10 terza sessione - Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo -
Rosaria Capacchione, Alessandra Camassa e Marco Dell’Utri - discussant - Maria Cristina Amoroso
18:20 Interventi programmati
Hanno confermato finora Giuseppe Cascini, Luigi Salvato, Ernesto Aghina, Fabio Francario, Edmondo Bruti Liberati, Riccardo Ionta, Andrea Apollonio e Marcello Basilico
20:00 chiusura dei lavori
Processo mediatico e presunzione di innocenza
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA:
Giuseppe Amara, Cristina Amoroso, Donatella Palumbo, Donatella Salari
Cell. 3396381906, 3397265027, 3382139878
Segretaria di redazione: Ilaria Buonaguro Mail:
Per informazioni:
È prevista la partecipazione sia in presenza che da remoto. Per la partecipazione da remoto occorre iscriversi collegandosi al seguente link: https://us02web.zoom.us/webinar/register/WN_rKG2BmQiRfGERPqItpfUmQ. Dopo l’iscrizione sarà trasmessa una e-mail di conferma con le informazioni per entrare nel webinar.
Primato del diritto dell’Unione europea e disapplicazione. Un confronto fra Corte costituzionale, Corte di Cassazione e Corte di giustizia in materia di sicurezza sociale
di Bruno Nascimbene e Ilaria Anrò*
Sommario: 1. Le pronunce della Corte costituzionale. Premessa – 2. La “massima espansione” delle garanzie, nel rispetto del primato del diritto dell’Unione europea, quale chiave di lettura delle pronunce della Consulta – 3. Il principio della parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi – 4. La sentenza 67/2022: tra primato e obbligo di disapplicazione – 5. La scelta della Corte di Cassazione, il ricorso alla Consulta. Critica – 6. Le pronunce della Consulta. La prospettiva della “massima espansione” delle tutele e quella del primato.
1. Le pronunce della Corte costituzionale. Premessa
A pochi giorni di distanza, l’una dall’altra, la Corte costituzionale si è pronunciata con due sentenze, la n. 54 del 4 marzo 2022 e la n. 67 dell’11 marzo 2022 (medesimo redattore) a seguito di un rinvio pregiudiziale richiesto, nel primo caso, dalla stessa Consulta[1]; nel secondo caso dalla Corte di Cassazione, che aveva proceduto in tal senso prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale[2].
La materia riguarda la previdenza sociale e il divieto di discriminazione, sia fra stranieri beneficiari di un determinato trattamento in virtù di direttive dell’Unione europea (2003/109 sui soggiornanti di lungo periodo e 2011/98 sui soggiornanti titolari di un permesso unico di lavoro) nonché dell’art. 34 Carta dei diritti fondamentali (sulla sicurezza sociale e assistenza sociale), sia fra stranieri tutelati dal diritto UE -da un lato- e cittadini italiani -dall’altro lato-. Oggetto del contendere erano: a) l’assegno di natalità o bonus bebè e l’assegno di maternità (sentenza n. 54) riconosciuti nel diritto nazionale soltanto agli stranieri lungosoggiornanti (e non anche a quelli muniti di diverso titolo di soggiorno), creando dunque una discriminazione fra stranieri, pur essendo provvidenze o prestazioni previdenziali che attengono ad un settore, quello della sicurezza sociale, in cui è garantito il diritto alla parità di trattamento (a favore, dunque, di tutti i cittadini di Paesi terzi che risiedono e lavorano legalmente in uno Stato membro); b) l’assegno per il nucleo familiare (“ANF”, oggetto della sentenza n. 67) riconosciuto nel diritto nazionale ai cittadini italiani, indipendentemente dal fatto che i familiari abbiano la residenza in Italia, requisito invece richiesto per i familiari degli stranieri (salva l’ipotesi eccezionale che sussista la condizione di reciprocità o sia in vigore una convenzione internazionale con il Paese di origine di questi ultimi).
Nel secondo caso di scrutinio costituzionale la disparità oggetto di esame era, come si è detto, fra stranieri, cittadini di Paesi terzi, e italiani (diversamente dal primo caso ove la discriminazione dedotta era fra stranieri inter se ). La provvidenza in questione aveva natura previdenziale ma anche di sostegno a chi versava in situazione di bisogno. Il giudice a quo, ampiamente censurato (come si dirà oltre) dalla Corte costituzionale, aveva ritenuto rilevanti solo le direttive prima ricordate, non già l’art. 34 Carta, come ben avrebbe potuto, e come la stessa Corte costituzionale tende a sottolineare (ragionevolmente in senso critico) quando precisa (punto 1.2.1. del «Considerato in diritto») che «né l’una né l’altra ordinanza evocano la violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e in particolare l’art. 34». Norma, quest’ultima, che è stata invece ritenuta di assoluto rilievo nella vicenda bonus bebè e assegno di maternità.
2. La “massima espansione” delle garanzie, nel rispetto del primato del diritto dell’Unione europea, quale chiave di lettura delle pronunce della Consulta
Entrambe le sentenze sono espressione di una stretta cooperazione non solo fra giudici, nazionale – particolarmente qualificato quale è la Corte costituzionale – ed europeo, secondo la logica e la ratio del rinvio pregiudiziale, ma anche fra istituzioni. La sentenza n. 67, d’altra parte, richiama la n. 54 quando ricorda che nell’interpretazione di una direttiva si deve salvaguardare l’effetto utile e, con riguardo al suo recepimento, che la relativa “fase” deve essere «fruttuosa e trasparente», lo stesso legislatore dell’Unione esigendo che sia «contraddistinta dall’impegno degli Stati membri a una costante interlocuzione della Commissione»[3].
La sentenza n. 54, a più riprese, sottolinea la necessità di uno spirito di leale collaborazione fra Corti, affinché la tutela giurisdizionale sia effettiva, specie quando vi sia una connessione inscindibile fra i principi e i diritti evocati dal giudice a quo e quelli riconosciuti dalla Carta: “arricchiti”, questi ultimi, dal diritto secondario rappresentato dalle direttive, «tra loro complementari e armonici», perché i principi costituzionali e le garanzie sancite dalla Carta si integrano vicendevolmente, conseguendo un «arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali”[4].
La Corte, che nella sentenza n. 54 dà ampio spazio e rilevanza all’art. 34 della Carta, ben più di quanto l’abbia fatto la Corte di giustizia[5], che si limita ad affermare che la direttiva (2011/98, art. 12, cui rinvia il regol. n. 883/2004 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale) «dà espressione concreta al diritto di accesso alle prestazioni di scurezza sociale di cui all’articolo 34, paragrafi 1 e 2 della Carta» ovvero «concretizza un diritto fondamentale previsto dalla Carta»[6], dimostra come il rapporto fra fonti e Corti sia «di mutua implicazione e feconda integrazione»[7]. L’art. 34 afferma, d’altra parte, che i diritti tutelati lo sono non solo sulla base del diritto dell’Unione, ma anche delle «legislazioni e prassi nazionali», e dunque anche delle garanzie previste dalle Costituzioni. Ritiene, dunque, la Corte che la feconda integrazione si realizzi nell’ «assicurare una tutela sistemica, e non frazionata, dei diritti presidiati dalla Costituzione, anche in sinergia con la Carta di Nizza, e di valutare il bilanciamento attuato dal legislatore, in una prospettiva di massima espansione delle garanzie»[8].
La “massima espansione” delle garanzie può dunque, a ragione, ritenersi come la chiave di lettura delle due sentenze, ricordando al giudice nazionale di merito, ma soprattutto di legittimità che l’interpretazione del diritto nazionale deve essere sempre condotta in armonia con quello europeo, con la Carta in particolare, anche quando una sua disposizione è “concretizzata” dal diritto europeo secondario: con la conseguenza che le eventuali restrizioni imposte dalle norme nazionali vanno dichiarate illegittime o disapplicate dal giudice nazionale.
3. Il principio della parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi
Un principio che emerge con evidenza dalle pronunce in commento, e che forse è stato finora non (o non abbastanza) considerato, è il principio della parità di trattamento, a determinate condizioni, dei cittadini dei Paesi terzi. Il principio è ricavabile dagli articoli 3 e 31 Cost., dalla Carta e dal diritto derivato: la ratio è comune, essendo comunque vietate le discriminazioni arbitrarie e irragionevoli. Lo scopo, dichiarato, è «promuovere una più ampia ed efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi»[9], la Corte costituzionale ricordando le finalità della direttiva 2011/98, anche in relazione alla sentenza della Corte di giustizia che si propone una integrazione più incisiva a favore di quegli stranieri che contribuiscono all’economia dell’Unione con il lavoro e il versamento di imposte[10].
Per quanto l’attuazione delle finalità ricordate sia di competenza degli Stati membri, e si debba tener conto della loro discrezionalità, specie quando si tratti di individuare, o meglio limitare i beneficiari delle prestazioni sociali in considerazione delle risorse di bilancio disponibili, il canone della ragionevolezza di eventuali limiti si impone[11]. A maggior ragione, si ritiene, quando gli obblighi discendono dal diritto dell’Unione e dal principio del primato, chiaramente affermato nella sentenza n. 67, di cui si dirà poco oltre[12].
La parità di trattamento, alle condizioni previste dalle norme di diritto UE, è un principio cui il legislatore, l’amministrazione, il giudice nazionale devono conformarsi e le eventuali deroghe devono essere interpretate restrittivamente, come d’altra parte insegna la giurisprudenza della Corte di giustizia[13].
4. La sentenza 67/2022: tra primato e obbligo di disapplicazione
Con particolare riferimento all’applicazione del principio di parità di trattamento fra cittadini dei Paesi terzi e cittadini italiani (nel caso dell’ANF), la Consulta, come si è detto, si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale sottopostele dalla Corte di Cassazione mediante due ordinanze (iscritte ai nn. 110 e 111 dell’8 aprile 2021). La risposta della Corte costituzionale, molto attesa, resa a pochi giorni di distanza dalla pronuncia sul bonus bebè e assegno di maternità, costituisce una nuova occasione di riflessione circa i rapporti tra le fonti e le Corti e la centralità del primato del diritto dell’Unione europea nel sistema di “tutela integrata”[14].
I giudizi a quo prendono le mosse, rispettivamente, dal ricorso di un cittadino pakistano (R.M.), titolare di permesso di lungo soggiorno, che chiedeva l’accertamento del carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’assegno per il nucleo familiare nel periodo compreso tra settembre 2011 e aprile 2014, durante il quale i suoi familiari erano ritornati nel Paese di origine, e dal ricorso di un cittadino srilankese (S. B.G.), titolare di permesso unico di soggiorno e di lavoro, che a sua volta chiedeva l’accertamento del carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’assegno del nucleo familiare per i periodi gennaio-giugno 2014 e giugno-luglio 2016, durante i quali i suoi familiari erano rientrati nel Paese d’origine, con conseguente condanna dell’INPS e del datore di lavoro al pagamento delle relative somme. In entrambi i casi, i giudici di secondo grado avevano accolto le domande dei ricorrenti (nel caso di R.M. confermando il primo grado) e l’INPS ricorreva in Cassazione.
Emergeva, dunque, avanti alla Corte di Cassazione il contrasto dell’art. 2, comma 6-bis, della legge n. 153/19881, istitutiva dell’ANF con il diritto dell’Unione europea. Ai sensi di tale norma, il coniuge del cittadino straniero, nonché i figli ed equiparati, che non abbiano la residenza in Italia, non vengono considerati parte del nucleo familiare quale definito all’art. 2, comma 6, della stessa legge (a meno che, come si è accennato, lo Stato di appartenenza dello straniero riservi un trattamento di reciprocità ai cittadini italiani ovvero sia stata stipulata una convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia). Tale norma si pone in contrasto con l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, che impone agli Stati membri di riconoscere al soggiornante di lungo periodo il medesimo trattamento previsto dalla disciplina nazionale per i cittadini, quanto alle prestazioni sociali, all’assistenza sociale e alla protezione sociale, e l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, il quale prevede che i lavoratori di Paesi terzi di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, quanto ai settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004.
Stante il contrasto tra la normativa italiana e le citate disposizioni delle direttive, e l’impossibilità di risolverlo per il tramite dell’interpretazione conforme, per stessa ammissione della Corte di Cassazione, quest’ultima si rivolgeva in prima battuta alla Corte di giustizia per ottenere chiarimenti circa la corretta interpretazione delle direttive. La Corte di giustizia (con la già ricordata pronuncia del 25 novembre 2020)[15] dichiarava che l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione come l’art. 2, comma 6-bis, della legge n. 153 del 1988, secondo il quale non fanno parte del nucleo familiare di cui a tale legge il coniuge, nonché i figli ed equiparati di cittadino di Paese terzo che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica italiana, salvo reciprocità o convenzione internazionale, posto che essa non si è avvalsa della deroga consentita dall’art. 11, paragrafo 2, della medesima direttiva (non essendo stata espressa una tale intenzione in sede di recepimento della direttiva 2003/109/CE nel diritto nazionale).
Nello stesso senso, con la sentenza “gemella” pronunciata lo stesso giorno[16], la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE deve essere interpretato nel senso che esso impone agli Stati membri di riconoscere ai cittadini di paesi terzi titolari di permesso unico le prestazioni di sicurezza sociale, tra cui rientra l’assegno per il nucleo familiare, alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro, stante il principio di non discriminazione.
Il giudizio avanti alla Corte di Cassazione avrebbe potuto (rectius, dovuto) “fermarsi qui”: ottenuta l’interpretazione della Corte di giustizia circa il perimetro del principio di non discriminazione e considerato l’acclarato contrasto con la normativa nazionale, la Corte di Cassazione avrebbe dovuto disapplicare quest’ultima a favore della normativa comunitaria, secondo gli insegnamenti di Simmenthal.[17] Secondo la Cassazione, tuttavia, non era possibile procedere in questo senso, in quanto non vi sarebbe stata una disciplina self executing direttamente applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio principale, e questo in quanto «il diritto dell’Unione […] non disciplina direttamente la materia dei trattamenti di famiglia»[18].
5. La scelta della Corte di Cassazione, il ricorso alla Consulta. Critica
La Corte di Cassazione ha, quindi, ritenuto di sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 2, c. 6° bis del decreto-legge n. 69 del 13 marzo 1988, unicamente con riferimento alle norme delle direttive citate, per il tramite degli articoli 11 e 117 Cost.
Giova sottolineare che nel caso di specie non si verte in un’ipotesi di doppia pregiudizialità: come ricordato, nel sollevare la questione di legittimità costituzionale in via incidentale, la Cassazione ha unicamente richiamato i parametri comunitari, senza invocare una contemporanea violazione di norme costituzionali (diverse dagli artt. 11 e 117), come ben avrebbe potuto fare (e forse ciò avrebbe portato alla dichiarazione – quanto meno - di ammissibilità della questione sottoposta), invocando l’art. 3 della Costituzione[19].
Inoltre (già si è detto) non è stata nemmeno invocata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, come parametro di legittimità della norma censurata. Osserva, appunto, la stessa Corte costituzionale che entrambe le ordinanze non «evocano la violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e in particolare l’art. 34»[20].
La strada scelta dalla Corte di Cassazione nel porre la questione di legittimità alla Corte costituzionale, quindi, non è quella tracciata dal (fin troppo) famoso obiter dictum della pronuncia 269/2017, ovvero l’ipotesi in cui una norma nazionale appaia confliggente con le norme poste a tutela dei diritti fondamentali nella Costituzione e allo stesso tempo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ma quella “tradizionale” di Granital[21], percorribile quando il conflitto con la norma italiana si verifichi con una norma comunitaria sprovvista di effetto diretto. Come sopra ricordato, tale scelta è determinata dalla considerazione della mancanza di una disciplina di diritto UE applicabile in luogo di quella nazionale disapplicata, poiché, a detta della Cassazione, la materia dei trattamenti di famiglia non è di competenza dell’Unione.
La Corte costituzionale censura (senza mezzi termini) questa scelta, dichiarando le questioni inammissibili per carenza di rilevanza[22].
L’assunto della Cassazione secondo il quale, con riferimento alla prestazione sociale in oggetto, il diritto europeo non detta una disciplina in sé compiuta, da applicare in luogo di quella dichiarata incompatibile viene considerato dalla Corte costituzionale privo di fondamento. Per dimostrare tale tesi, la Consulta analizza i presupposti e le ragioni della scelta della Cassazione di rivolgersi in prima battuta alla Corte di giustizia tramite il rinvio pregiudiziale, «canale di raccordo fra giudici nazionali e Corte di giustizia per risolvere eventuali incertezze interpretative». Esso, invero, «concorre ad assicurare e rafforzare il primato del diritto dell’Unione»[23] evidenziando la contraddizione insita nella scelta di proseguire successivamente con l’incidente di legittimità costituzionale. La Corte, dopo aver ricordato gli obblighi per il giudice nazionale discendenti da Simmenthal, evidenzia la funzione del rinvio pregiudiziale come cruciale al «fine di garantire piena efficacia al diritto dell’Unione e assicurare l’effetto utile dell’art. 267 TFUE, cui si salda il potere di “disapplicare” la contraria disposizione nazionale»; sottolinea inoltre come la Corte di giustizia abbia precisato che «la mancata disapplicazione di una disposizione nazionale ritenuta in contrasto con il diritto europeo viola “i principi di uguaglianza tra gli Stati membri e di leale cooperazione tra l’Unione e gli Stati membri, riconosciuti dall’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE, con l’articolo 267 TFUE, nonché […] il principio del primato del diritto dell’Unione” (sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21, RS, punto 88)»[24].
La Corte costituzionale riporta quindi, al centro, il primato del diritto dell’Unione, richiamando una sentenza significativa della Corte di giustizia, ove la stessa aveva censurato (proprio pochi giorni prima della Consulta) la normativa nazionale rumena che impediva ai giudici nazionali di esaminare la conformità, al diritto dell’Unione, di una normativa nazionale dichiarata conforme alla Costituzione da una sentenza della Corte costituzionale, sottolineando come il principio del primato e l’art. 4, parr. 2 (il cui cuore è rappresentato dal richiamo all’identità nazionale) e 3 TUE costituiscano «l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti e obblighi»[25].
Da tale premessa, consegue la conclusione secondo cui «il sindacato accentrato di costituzionalità, configurato dall’art. 134 Cost., non è alternativo a un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo (sentenza n. 269 del 2017, punti 5.2 e 5.3 del Considerato; sentenza[26] n. 117 del 2019, punto 2 del Considerato), ma con esso confluisce nella costruzione di tutele sempre più integrate» fortemente sottolineata dalla Corte costituzionale e riportata con toni quasi “didascalici”[27]. Pare significativo il richiamo alla sentenza 269/2017, come precisata dalla successiva ordinanza 117/2019, il quale ha tracciato una nuova possibilità di rinvio alla Corte costituzionale in caso di contrasto della norma nazionale con la Costituzione e la Carta «fermo restando “che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria” (sentenza n. 20 del 2019, punto 2.3. del Considerato in diritto), anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando, altresì, il loro dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta (sentenza n. 63 del 2019, punto 4.3. del Considerato in diritto)»[28].
La Corte costituzionale afferma quindi che «ponendosi nella prospettiva del primato» occorre concludere che alle norme delle direttive invocate «deve riconoscersi effetto diretto nella parte in cui prescrivono l’obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui costoro soggiornano»[29]. Tali norme, infatti, esprimono un obbligo di parità di trattamento a favore dello straniero dal carattere chiaro, preciso e incondizionato. Dunque, il giudizio della Consulta è chiaro: la Corte di Cassazione avrebbe dovuto disapplicare[30]. Come già evidenziato da altri, la Cassazione ha erroneamente “sovrapposto” la disciplina degli assegni familiari (pacificamente di competenza nazionale) con l’obbligo della parità di trattamento, di matrice comunitaria[31].
Tale conclusione, secondo la Consulta, non può essere “ribaltata” neppure dal secondo argomento della Cassazione, secondo cui le invocate norme comunitarie avrebbero lasciato un significativo margine di apprezzamento, incompatibile con le caratteristiche dell’effetto diretto. Il compito della rimozione degli effetti discriminatori, infatti, compete, secondo la Corte, al giudice ricordando in proposito una sentenza della Corte di giustizia, Stollwitzer, secondo cui l’eliminazione della discriminazione deve essere assicurata mediante il riconoscimento ai soggetti discriminati dei vantaggi concessi alle persone della categoria privilegiata[32]. Il richiamo operato dalla Cassazione alla sentenza della Consulta 227/2010 in materia di mandato d’arresto europeo è ritenuto “non pertinente”, in quanto il sistema previsto dalle direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE non può essere assimilato a quello del mandato d’arresto europeo, poiché in relazione alla prestazione sociale in questione, detti strumenti consentono agli Stati membri di limitare tale parità di trattamento, solo esprimendo chiaramente l’intenzione di volersi avvalere della facoltà di deroga, cosa che non è avvenuta (come chiaramente sottolineato dalla Corte di giustizia) nella materia in esame[33].
6. Le pronunce della Consulta. La prospettiva della “massima espansione” delle tutele e quella del primato
La pronuncia 67/2022 pare lineare e rigorosa nell’applicazione dei principi di Simmenthal e di Granital, nonché nell’affermazione del primato del diritto dell’Unione europea. In tempi in cui l’autorità delle sentenze della Corte di giustizia e lo stesso primato del diritto dell’Unione europea sono revocati in dubbio dalle più alte giurisdizioni degli Stati europei[34], la riaffermazione dei principi del primato, dell’uguaglianza tra Stati e della leale collaborazione costituisce un importante passo verso un dialogo costruttivo. Siamo all’opposto del richiamo al predominio assiologico della Costituzione (seppur invocato con riferimento alla CEDU[35]) e al riaccentramento del ruolo della Consulta operato dalla sentenza 269/2017.
La scelta della Corte di Cassazione di sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale dopo il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia era stata fortemente (e a buon diritto) criticata[36]. Era stata altresì messa in luce la necessità di una cautela nel giudizio in considerazione del carattere politico che accompagna i conflitti tra norme statali e sovranazionali in materia di sicurezza sociale, ricordando come altri avessero interpretato dette ordinanze come espressione di un “contromovimento” della Cassazione rispetto all’integrazione europea attraverso il diritto[37]. È stato anche osservato che la scelta della Corte di Cassazione di non menzionare la Carta tra i parametri di legittimità costituzionale e quindi di sottrarre il caso alla traiettoria tracciata dalla sentenza 269/2017, ove fosse frutto dello scenario prefiguratosi dalla stessa Cassazione, si sarebbe tradotta in un «esito […] chiaramente suicida»[38].
La pronuncia della Consulta risponde, per così dire, alle critiche e perplessità ricordate, affermando chiaramente che la centralità del primato del diritto dell’Unione europea e il ruolo di “architrave” del rinvio pregiudiziale non possono che condurre alla conclusione secondo la quale in presenza di un divieto di discriminazione chiaro, preciso e incondizionato del diritto dell’Unione europea non si può che disapplicare la normativa nazionale contrastante: questo è già più che sufficiente per assicurare l’effettività dei diritti in questione.
Resta, sullo sfondo, una domanda: il giudizio della Consulta sarebbe stato diverso se la Cassazione avesse invocato tra i parametri di legittimità della normativa italiana la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, nello specifico, l’art. 34? E’ difficile dare una risposta a tale interrogativo. Occorre, però, constatare che, in assenza del richiamo di un parametro costituzionale (diverso dagli artt. 11 e 117) non si sarebbe comunque creata una situazione di “doppia pregiudizialità” e, dunque, non si sarebbe aperta la via tracciata dalla sentenza 269/2017, ma si sarebbe verificata quanto meno una situazione di rilevanza dei diritti fondamentali e della Carta.
Diversa è la situazione che si è presentata nella vicenda conclusasi con la sentenza 54/2022. In questo caso, infatti, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la normativa italiana fosse al tempo stesso contrastante con i parametri costituzionali (artt. 3 e 31 Cost.) e con la Carta (artt. 20,21,24,33 e 34), per il tramite dell’art. 117 Cost.[39]. Presupposto diverso, dunque, e la stessa Corte costituzionale, con l’ordinanza 182/2020, ha d’altra parte ritenuto di sottoporre in via prioritaria la questione interpretativa alla Corte di giustizia per il tramite dell’art. 267 TFUE. In questo caso, l’ordinanza della Corte costituzionale appariva forse “sbilanciata” verso l’art. 34 della Carta, focalizzando l’attenzione su detta norma, piuttosto che sul diritto derivato rilevante (trascurando, peraltro, le altre norme della Carta indicate tra i parametri di legittimità costituzionale). La Corte costituzionale sottolineava la «connessione inscindibile tra i principi e i diritti costituzionali […] e quelli riconosciuti dalla Carta», come già si è accennato «arricchiti dal diritto secondario», fondando su questa connessione il compito della Consulta di salvaguardarli «in una prospettiva di massima espansione»[40].
La Corte di giustizia ha ritenuto invece di procedere in senso diametralmente opposto, privilegiando l’interpretazione del diritto derivato, forse perché già sufficientemente chiaro, preciso e incondizionato e quindi suscettibile di applicazione nei giudizi interni[41]. In particolare, sarebbe stata auspicabile una disamina circa l’effetto diretto dell’art. 34, di per sé piuttosto articolata, contenendo al tempo stesso principi (al par. 1) e diritti (al par. 2), sebbene tale questione non fosse stata sottoposta all’esame della Corte di giustizia.
Confrontando la sentenza 54/2022 con la 67/2022 appare chiara la diversa prospettiva: nella prima, la Consulta si pone nella prospettiva di “massimizzazione delle tutele” imposta dalla connessione inscindibile tra i principi e diritti della Carta e quelli della Costituzione. Resta aperta tuttavia la domanda sui confini di questa «connessione inscindibile»[42].
Nella seconda la prospettiva è quella del primato: in presenza di parametri chiari, precisi e incondizionati e dell’autorità della pronuncia della Corte di giustizia, la strada non può che essere quella della non applicazione della norma nazionale contrastante. Tale prospettiva, però, non si pone in contrasto con la prima, in quanto, nel caso di specie, la “massimizzazione delle tutele” poteva dirsi raggiunta, senza la necessità di un giudizio di illegittimità costituzionale con effetti erga omnes. Le due prospettive non si pongono quindi come alternative ma entrambe concorrono alla garanzia dell’effettività dei diritti, nell’ottica della collaborazione e del dialogo tra le Corti.
Sembra infine utile osservare che una pronuncia erga omnes nel caso della sentenza 67/2020 nemmeno sarebbe stata necessaria in un’ottica di tutela che andasse al di là del singolo giudizio, in quanto la disciplina dell’ANF è stata nel frattempo modificata (con il d.lgs. 230 del 29 dicembre 2021, relativo all’istituzione dell’assegno unico e universale per i figli a carico, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della legge 1° aprile 2021, n. 46): la Corte ha, infatti, correttamente ritenuto che le nuove norme «non incidono sui giudizi a quibus concernenti fattispecie che si sono perfezionate nel vigore della disciplina anteriore»[43].
In conclusione, le sentenze in esame ci pongono, una volta di più, di fronte a ormai sofisticate architetture giurisdizionali e a complessi intrecci del dialogo fra Corti. Ciò che conta, comunque, è l’effettività dei diritti in questione, garantita con forza dalla Consulta, protagonista del sistema di tutela integrata. L’auspicio è che la guida offerta dalla Corte di giustizia e dalla Consulta porti alla rimozione di tutte le discriminazioni che, ancora, esistono nel nostro ordinamento in materia di sicurezza sociale[44].
* I paragrafi 1-3 sono di Bruno Nascimbene, professore emerito di diritto dell’Unione europea; i paragrafi 4-6 sono di Ilaria Anrò, professore associato di diritto dell’Unione europea
[1] Ordinanza n. 182 del 30 luglio 2020; la Corte di giustizia si è pronunciata il 2 settembre 2021, causa C-350/20, O.D. e a. c. INPS, ECLI:EU:C:2021:659. Per un commento all’ordinanza (si è trattato del quinto rinvio pregiudiziale effettuato dalla Corte costituzionale) cfr. S. Giubboni, L’accesso all’assistenza sociale degli stranieri alla luce (fioca) dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (a margine di un recente rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale), in Giurisprudenza costituzionale, 2020, p. 1982 ss.; N. Lazzerini, Dual Preliminarity Within the Scope of the EU Charter of Fundamental Rights in light of Order 182/2020 of the Italian Constitutional Court, in European Papers, 25 novembre 2020, p. 1463 ss.; D. Gallo, A. Nato, L’accesso agli assegni di natalità e maternità per i cittadini di Paesi Terzi titolari di permesso unico nell’ordinanza n. 182/2020 della Corte Costituzionale, in Eurojus, 19 novembre 2020; C. Corsi, La parità di trattamento dello straniero nell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale: tra disapplicazione e giudizio di costituzionalità, in questa Rivista, 8 gennaio 2021; per un commento alla sentenza D. Gallo, Assegni di natalità e maternità nella recente sentenza della Corte di giustizia: riflessioni “a caldo”, in Eurojus, 9 settembre 2021; per alcune interessanti valutazioni cfr. anche C. Saraceno, Diritti negati: supplenza dei giudici nell’inerzia del Parlamento?, in questa Rivista, 7 febbraio 2022.
[2] Corte giust., 25 novembre 2020, causa C-302/19, INPS c. WS, ECLI:EU:C:2020:957 e C-303/19, INPS c. VR, ECLI:EU:C:2020:958.
[3] Cfr. Corte cost. 67/2022, punto 14 del «Considerato in diritto».
[4] Cfr. Corte cost. 54/2022, punti 7, 9, 10 del «Considerato in diritto», richiamando l’ordinanza n. 182.
[5] Come già sottolineato in B. Nascimbene, CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: portata, rispettivi ambiti applicativi e (possibili) sovrapposizioni, in questa Rivista, 16 dicembre 2021.
[6] Cfr. sentenza 2 settembre 2021, causa C-350/20 cit., punti 46 e 47.
[7] Corte cost. 54/2022, punto 10 del «Considerato in diritto», richiamando la propria ordinanza n. 182/2020.
[8] Ibidem, punto 10 del «Considerato in diritto».
[9] Ibidem, punto 13 del «Considerato in diritto».
[10] Cfr. sentenza 25 novembre 2020, causa C-302/19 cit. Sulla finalità ricordata, di carattere generale, ove assume rilievo la residenza, ovvero l’inserimento dello straniero nella comunità nazionale, e non la sua cittadinanza, cfr. B. Nascimbene, Le droit de la nationalité et le droit des organisations d’intégration régionales, vers de nouveaux statuts de résidents?, in Recueil des cours de l’Académie de droit international, 2014, spec. p. 321. Per alcuni rilievi sullo status dei cittadini dei Paesi terzi, anche con riferimento alle sentenze della Corte di giustizia in causa C-303/19 e in causa C-350/20 citt., A. Di Stasi, La prevista riforma della direttiva sul soggiornante di lungo periodo: limiti applicativi e sviluppi giurisprudenziali, in I. Caracciolo, G. Cellamare, A. Di Stasi, P. Gargiulo (a cura di), Migrazioni internazionali, Napoli, 2022, spec. pp. 451, 454 ss.
[11] Corte cost. 54/2022, punto 13.1. del «Considerato in diritto» con alcuni richiami.
[12] Corte cost. 67/2022, punti 10, 11 e 12 del «Considerato in diritto».
[13] Cfr., per un riferimento al principio, la sentenza causa C-303/19 cit., punto 34, e sulle possibilità, eccezionali, di deroga, punto 23, con richiamo delle sentenze del 24 aprile 2012, causa C-571/10, Kamberaj, EU:C:2012:233, punti 86-87; 21 giugno 2017, C-449/16, Martinez Silva, EU:C:2017:485, punto 29; un riferimento è in Corte cost., 67/2022, punto 8.1. del «Considerato in diritto».
[14] Questa espressione assume oggi una pregnanza particolare. La giurisprudenza della Corte costituzionale ha tradizionalmente riconosciuto che «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sentenza n. 85 del 2013). Oggi l’integrazione dei diritti della Costituzione si intreccia con le altre fonti rilevanti sovranazionali, in primis la Carta e la CEDU, secondo il canone della massimizzazione delle tutele. Sul punto cfr. R. Conti, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sovranazionali, in Questione Giustizia, 2016, p. 89 ss.
[15] Causa C-303/19 cit.
[16] Causa C-302/19 cit.
[17]Sentenza della Corte di giustizia, 9 marzo 1978, causa 106/77, EU:C:1978:99.
[18] Cfr. Corte cost., 67/2022, punto 2.5 del «Ritenuto in fatto».
[19] Come già osservato (correttamente) da S. Giubboni, N. Lazzerini, L’assistenza sociale degli stranieri e gli strani dubbi della Cassazione, in Questione Giustizia, 6 maggio 2021. Cfr. pure C. Colosimo, Stranieri dei Paesi terzi e assegno per il nucleo familiare: parità di trattamento e integrazione nel dialogo tra le Corti, in questa Rivista, 29 gennaio 2021.
[20] Cfr. Corte cost., 67/2022, punto 1.2.1. del «Considerato in diritto».
[21] Sentenza della Corte cost. 8.6.1984, n. 170.
[22] Cfr. Corte cost., 67/2022, punto 10 del «Considerato in diritto». Sembra utile ricordare che nel giudizio avanti alla Corte costituzionale era stata depositata dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione un’opinione scritta quale amicus curiae, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, dunque sfruttando questa opportunità per schierarsi a fianco dei cittadini stranieri e chiedere la dichiarazione di inammissibilità per difetto di rilevanza.
[23] Ibidem, punto 10.2.
[24] Ibidem, punto 10.2.
[25] Ibidem, punto 11. La sentenza della Corte di giustizia, RS, è in EU:C:2022:99; per un richiamo al primato, più recentemente, Corte di giustizia, 22 marzo 2022, causa C-508/19, M.F., EU:C:2022:201, punto 74.
[26] Così nel testo, ma il riferimento è senz’altro all’ordinanza 117/2019.
[27] Ibidem, punto 11. Sottolinea (condivisibilmente) l’opportunità di sostituire il temine «attuazione» con «applicazione» A. Ruggeri, Alla Cassazione restìa a far luogo all’applicazione diretta del diritto eurounitario la Consulta replica alimentando il fecondo “dialogo” tra le Corti (a prima lettura della sent. n. 67/2022), in Consulta Online, 14 marzo 2022.
[28] Corte cost., ordinanza 117/2019, punto 2 del «Considerato in diritto».
[29] Corte cost., 67/2022, punto 12 del «Considerato in diritto».
[30] Ibidem, punto 12.2 del «Considerato in diritto».
[31] Cfr. F. Rizzi, Ancora sulla doppia pregiudizialità. I diritti dimenticati nel dialogo tra le Corti, tra resistenze e deresponsabilizzazioni nell’attuazione del diritto dell’Unione, in Questione Giustizia, 8 gennaio 2021, spec. p.9.
[32] Sentenza della Corte di giustizia, 14 marzo 2018, causa C-482/16, Stollwitzer, EU:C:2018:180, spec. punto 130.
[33] Cfr. la sentenza della Corte cost. 24 giugno 2010, n. 227.
[34] Si pensi alla pronuncia della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio 2020 relativa al Programma di acquisto del settore pubblico (PSPP) della Banca centrale europea, in cui lo dichiarava ultra vires, perché esulava dall'ambito delle proprie competenze, considerando altresì ultra vires una sentenza della Corte di giustizia (11 dicembre 2018, causa C-493/17, Weiss e a., EU:C:2018:1000) senza deferire la questione alla Corte di giustizia. Più recentemente, si pensi alle pronunce della Corte costituzionale polacca che hanno sancito il contrasto della stessa Costituzione polacca con il diritto dell’Unione (Sentenza K 3/21, 7 ottobre 2021) e negato l’autorità delle pronunce della Corte di giustizia con riferimento alle misure cautelari dalla stessa adottate (Sentenza P 7/20). Su queste pronunce cfr. fra gli altri D.-U. Galetta, J. Ziller, Karlsruhe über alles? Riflessioni a margine di una pronunzia «assolutamente non comprensibile» e «arbitraria» (commento a BVerfG 05.05.2020, 2 BvR 859/15, Weiss, in Riv. it. dir. pub.com., 2020, p. 301 ss.; A. Circolo, Ultra vires e Rule of Law: a proposito della recente sentenza del Tribunale costituzionale polacco sul regime disciplinare dei giudici, in BlogDue, 2021; G. Di Federico, Il Tribunale costituzionale polacco si pronuncia sul primato (della Costituzione polacca): et nunc quo vadis?, ibidem, 2021; L. Pace, La sentenza della Corte costituzionale polacca del 7 ottobre 2021: tra natura giuridica dell’Unione, l’illegittimità del sindacato ultra vires e l’attesa della soluzione della “crisi” tra Bruxelles e Berlino, ibidem, 2021.
[35] Cfr. Corte cost., 49/2015.
[36] Cfr. S. Giubboni, N. Lazzerini, L’assistenza sociale cit..
[37] Cfr. L. Cavallaro (peraltro componente del collegio della Cassazione che ha pronunciato le ordinanze), Il dialogo tra Corti e le prestazioni di sicurezza sociale, in questa Rivista, 20 luglio 2021.
[38]Cfr. A. Ruggeri, Alla Cassazione restìa cit.
[39] Cfr. F. Rizzi, Ancora sulla doppia pregiudizialità cit.
[40] Cfr. Corte cost., ord. 182/2020.
[41] Cfr. D. Gallo, Assegni di natalità cit.
[42]Cfr. sul punto l’analisi di N. Lazzerini, Dual Preliminarity cit., p. 1470 ss.
[43] Sentenza, punto 5.3.1. del “Considerato in diritto”.
[44] Con riferimento alla disciplina del nuovo assegno unico, la nuova misura di assistenza alla famiglia denominata “assegno unico universale per i figli a carico” ha unificato e sostituito quasi tutte le precedenti misure a favore della famiglia. Molti sono, tuttavia, i permessi di soggiorno che restano esclusi dall'accesso alla nuova misura, come rilevato, fra l’altro, dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione che auspica nuovi interventi legislativi (cfr. www.asgi.it/notizie/assegno-unico-universale-modificare-le-norme-che-escludono-migliaia-di-stranieri/).
Non è facile parlare di Dino Petralia
di Leonardo Agueci
Devo riconoscere che scrivere di Dino Petralia si è rivelato molto più complicato di quanto avessi immaginato, nel momento in cui ho (incautamente) accettato di farlo.
E non tanto perché su Dino manchino le cose da dire. Tutt’altro! Quello che è riuscito a realizzare come magistrato potrebbe costituire materia per intere pubblicazioni, giuridiche e non..!
Nei miei ricordi, però, all’immagine (oggettiva) del collega esemplare, si sovrappone costantemente, fino a confondersi, quella (del tutto personale) del compagno di tante battaglie, dell’amico generoso e sincero, del vicino di stanza su cui sai sempre di potere fare affidamento, senza timore di ambiguità o malintesi.
E allora provo a mettere ordine.
La storia professionale del dott. Bernardo (Dino) Petralia, entrato in magistratura nel 1980, si è articolata attraverso le tappe che seguono:
- Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani fino al 1985;
- Giudice del Tribunale di Sciacca fino al 1990;
- Giudice del Tribunale di Marsala fino al 1996;
- Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca fino al 2006;
- Componente del Consiglio Superiore della Magistratura nel quadriennio 2006-2010;
- Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala fino al settembre 2013;
- Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Palermo fino al luglio 2017;
- Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria fino al maggio 2020;
- Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia fino al 1 marzo 2022, data del suo collocamento a riposo.
Il suo curriculum fa venire i brividi, non solo per la pluralità e importanza degli incarichi ricoperti, ma soprattutto per la vastità, rilevanza, originalità, efficacia e qualità straordinarie delle iniziative avviate e portate a compimento; per l’indiscusso senso di giustizia e di indipendenza che le hanno sempre accompagnate; per il carisma e l’autorevolezza riconosciute e consolidate nel tempo; per il valore altissimo del servizio prestato alle Istituzioni.
Ha svolto funzioni giudiziarie requirenti e giudicanti; penali e civili; semidirettive e direttive; di primo e di secondo grado; in uffici grandi, medi e minuscoli; ha poi fatto parte dell’organo di autogoverno della magistratura e, da ultimo, ha ricoperto un incarico amministrativo di elevatissima responsabilità.
Esperienze molteplici, come può vedersi, ma in ciascuna di esse ha lasciato quello che per lui è diventato il vero tratto distintivo, ossia il qualificato apporto di efficienza, originalità e rinnovamento, che si è sempre più intensificato man mano che sono cresciute le sue competenze.
Il suo metodo costante di lavoro - sia da magistrato “semplice”, che da dirigente d’ufficio - si è basato sul preliminare studio approfondito del contenuto delle norme sostanziali, procedurali ed amministrative – soprattutto quelle più recenti e di maggior carattere riformatore - e quindi, in sede di applicazione pratica, sul più ampio sfruttamento delle loro potenzialità, anche attraverso soluzioni del tutto inedite, in modo da ottenere risultati significativi, innovativi e talvolta davvero rivoluzionari.
Per ricordare solo alcune delle iniziative adottate quale Procuratore della Repubblica di Sciacca e, più avanti, quale Procuratore della Repubblica Aggiunto di Palermo, si possono citare l’incisiva applicazione delle norme sulle confische antimafia nella fase del procedimento di esecuzione (art. 12 sexies del D.L. n.306/92); la costituzione di un permanente raccordo operativo tra i diversi titolari dell’azione di prevenzione; la semplificazione dei procedimenti a tutela delle vittime di estorsione e usura, previsti dalla L. 23.2.1999 n.44; l’elaborazione di condivisi criteri interpretativi del paradigma relativo alla “particolare tenuità del fatto”, introdotto quale causa di non punibilità dall’art. 131 bis del Codice Penale e, nel campo civile, i criteri di sollecita definizione, da parte del P.M., dei procedimenti di negoziazione assistita in materia coniugale, previsti dall’art. 6 del D.L. 12.9.2014 n. 132.
Ed ancora, quale Procuratore Generale di Reggio Calabria, si è fatto promotore della innovativa costituzione di un bollettino informativo permanente sulle principali pronunzie giudiziarie in materia di “ndrangheta”, denominato “Progetto S.a.Ndra”.
Un altro interesse che ha sempre coltivato è stato costituito dalla sistematica ricerca di dialogo e collaborazione con organismi ed istituzioni esterne rispetto al mondo della Giustizia - come Università, Ordini professionali ed Enti locali – sia per finalità di arricchimento culturale e professionale, sia per concordare prassi ed usufruire di risorse utili al concreto esercizio della giurisdizione.
Da giudice del Tribunale di Marsala è riuscito perfino a definire un’intesa con lo Stato Maggiore dell’Aeronautica, ottenendo l’autorizzazione ad utilizzare in sicurezza i locali di una base militare vicina al Palazzo di Giustizia, per una lunga e impegnativa camera di consiglio.
Questo tipo di attività non ha minimamente condizionato la sua produzione giudiziaria, che si è invece collocata sempre su un piano di altissimo livello, sia quantitativo che di qualità: non si contano le pubblicazioni dei suoi provvedimenti su riviste specializzate in materia civile e penale, così come gli elogi ricevuti per l’azzeramento di pendenze arretrate e, più in generale, per l’alta resa di giustizia degli uffici da lui diretti.
Molto intenso è stato anche il suo impegno, da giudicante e da requirente, nei procedimenti a carico dei principali esponenti di temibili cosche mafiose e dei loro fiancheggiatori, in quelli per misure di prevenzione antimafia, oltre che nella scrupolosa gestione di numerosi collaboratori di giustizia e delle relative richieste di programmi di protezione, anche con carattere d’urgenza.
Il dialogo, il rispetto reciproco e lo spirito di collaborazione sono stati il fondamento del suo rapporto con avvocati ed operatori di giustizia, facendogli ottenere da tutti indiscussa stima e considerazione.
Per i magistrati, Dino Petralia ha rappresentato da sempre un riferimento sicuro, una guida scrupolosa, un trascinatore appassionato; da dirigente d’ufficio e coordinatore di gruppi di lavoro ha tenuto molto a favorire lo scambio di opinioni ed alimentare lo spirito di squadra, ma ha inderogabilmente preteso rigore e massimo impegno; lavorare al suo fianco è stata, per testimonianza unanime, un’esperienza ineguagliabile di arricchimento professionale e gratificazione personale.
L’esemplarità del suo comportamento, da magistrato e da dirigente di Procura, gli ha portato – già nel 2006 - grande rispetto e popolarità tra i colleghi ed ha costituito il presupposto per la sua elezione al Consiglio Superiore della Magistratura, dopo essersi presentato come interprete convincente dei valori di dedizione professionale, di garanzia dei diritti individuali, di efficacia della loro tutela giudiziaria, di tassativa incompatibilità dei magistrati rispetto a qualsiasi centro di potere, interno o esterno.
Quale componente del CSM si è a lungo occupato dell’organizzazione degli uffici giudiziari, facendosi carico della elaborazione delle direttive più importanti in tale materia, ma ha anche avuto parte fondamentale in molte delle più significative determinazioni adottate del Consiglio a tutela dell’indipendenza di singoli magistrati o del corretto funzionamento di interi uffici, specie in relazione a vicende controverse e spinose, oggetto di forti pressioni da parte dell’opinione pubblica.
Ho voluto fin qui dare una sommaria e parziale descrizione delle esperienze affrontate da Dino Petralia nei suoi anni da magistrato, dei risultati che ha conseguito, dei riconoscimenti che gli sono stati attribuiti, del suo straordinario valore di uomo delle Istituzioni.
Ma il ritratto di Dino, almeno per me, rimane incompleto senza i ricordi comuni e le manifestazioni di vera amicizia che li hanno accompagnati, a testimonianza delle sue rare qualità umane.
Il primo incontro con lui risale al 1985, in occasione di un incontro tra magistrati tenuto a Trapani a circa un mese di distanza dal terribile attentato di Pizzolungo, che costò la vita ad una madre di famiglia ed ai suoi due figli piccoli, investiti per pura fatalità dall’esplosione di una autobomba destinata a colpire il sostituto procuratore Carlo Palermo, miracolosamente rimasto illeso.
A quell’epoca la Procura di Trapani era impegnata in prima linea nella forte azione di contrasto alla potente criminalità mafiosa insediata in quel territorio (allora non c’erano ancora le DDA) e si trovava di conseguenza esposta a sanguinose e incombenti ritorsioni: l’attentato di Pizzolungo seguiva difatti l’uccisione del sostituto procuratore Giacomo Ciaccio Montalto, avvenuta nel 1983, ed avrebbe preceduto di pochi anni quella del giudice Alberto Giacomelli, caduto nel 1988; a ciò si aggiungevano vicende molto gravi, interne agli uffici giudiziari trapanesi, che avevano portato all’arresto di un sostituto e all’allontanamento del Procuratore della Repubblica.
In contrapposizione – però - al permanente clima di tensione che per effetto di tali vicende avvolgeva quegli uffici, destava forte ammirazione la lucida determinazione e l’apparente serenità con cui Dino (allora poco più che trentenne), insieme ad altri magistrati ugualmente molto giovani, si mostrava in grado di tenere testa ai pericoli concreti e attuali gravanti su di loro e di affrontare con sicurezza le enormi difficoltà che, in quel contesto, quotidianamente si presentavano.
Negli anni successivi, soprattutto dopo il 1992, il nostro rapporto si è sempre più rafforzato, evolvendosi rapidamente dalla dimensione di stima e collaborazione tra colleghi a quella di autentica amicizia, che tale si è mantenuta nel tempo, consolidandosi specialmente durante il periodo, tra il 2013 e il 2017, nel quale abbiamo fatto parte dello stesso ufficio.
La nostra intesa si è basato certamente sulla forte condivisione di valori e sulla comunanza di idee, specialmente in materia di azione giudiziaria, ma ancora di più sulla collaborazione leale, sul sostegno quotidiano e sul confronto sincero anche nelle (rare) occasioni di disaccordo; lavorando vicino a lui ne ho ininterrottamente apprezzarne la costante onestà intellettuale, la rigorosa coerenza morale e la sconfinata generosità, della quale ho ricevuto svariate prove, sia nell’ambito dei rapporti d’ufficio che di quelli personali.
Dino è persona elegante, dinamica e gentile; lucida nelle sue valutazioni e piena di interessi culturali ed artistici, che ama comunicare agli altri senza spocchia ma cercandone piuttosto la condivisione; manifesta attenzione e rispetto verso i suoi interlocutori, guadagnandone agevolmente la fiducia.
Negli uffici giudiziari dai quali è passato, ha sempre lasciato una generale e incondizionata scia di stima, apprezzamento e spesso di affetto.
I colleghi che ha avuto a fianco e, ancora di più, quelli più giovani, che ha formato con i suoi insegnamenti ed il suo esempio, non hanno quasi mai interrotto i loro rapporti con lui ed hanno al contrario continuato a considerarlo, anche a distanza di anni, come sicuro punto di riferimento e fonte preziosa di consigli, non solo di natura professionale.
Se si considera, in definitiva, che una grande aspirazione dei magistrati in pensione rimane quella di riuscire a lasciare, presso i colleghi chiamati a sostituirli, almeno qualche traccia della propria personalità e delle esperienze vissute, si può davvero comprendere lo straordinario valore dell’imponente patrimonio morale e professionale affidato da Dino Petralia, con il suo pensionamento, a diverse generazioni di colleghi, che l’abbiano personalmente conosciuto o meno!!
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