ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Processo mediatico e presunzione di innocenza” è il titolo del secondo convegno organizzato dalla Rivista. Il primo convegno, dal titolo “Migliorare il Csm nella cornice costituzionale”, si è tenuto nell’ottobre del 2019.
Il convegno “Processo mediatico e presunzione di innocenza” si terrà a Roma il 1°aprile 2022 presso la Sala del Primaticcio della sede della società Dante Alighieri in Piazza di Firenze n. 27 e tutti i lettori della rivista sono invitati a partecipare (seguiranno indicazioni per la partecipazione da remoto - per informazioni redazione@giustiziainsieme.it).
Giustizia e comunicazione, un binomio centrale nel dibattito che anima Giustizia Insieme, al quale è già stata dedicata un’apposita rubrica ove sono pubblicati saggi di autori d’eccellenza - giustizia e comunicazione.
Si tratta di un binomio che può essere analizzato sotto un’innumerevole quantità di punti di vista in ragione delle possibili sfaccettature del diritto all’informazione, da un lato, e del diritto alla riservatezza, dall’altro. Assumono particolare interesse questioni quali: la rappresentazione della magistratura nella comunicazione di massa, rappresentazione destinata a cambiare di segno a seconda del gradimento popolare della decisione nonché per gli eccessi di protagonismo di questo o quel magistrato; la questione del diritto di critica e del rispetto della decisione; del rischio dell’ingerenza della comunicazione di massa sulla decisione del giudice; il complesso e multiforme articolarsi del diritto all’informazione e la naturale riservatezza delle situazioni coinvolte nel conflitto che il giudice è chiamato a risolvere; la spettacolarizzazione della giustizia che culmina con il processo mediatico che scalza l’unico vero e giusto processo.
Quali sono i limiti della comunicazione? Qual è il limite entro il quale lo sviluppo argomentativo in cui si articola la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali assume i toni della superfluità lesiva? Chi deve farsi paladino del rispetto dei confini?
Aspetto essenziale è, senz’altro, la modalità della comunicazione È imprescindibile la verità del dato oggetto dell’informazione e l’obiettività descrittiva. Eppure la veridicità e l’obiettività espositiva sono spesso tenute in second’ordine, tanto che si registra, sempre più massiccia, l’illustrazione morbosa di una “verità” soggettiva che è quella, di volta in volta, voluta dal comunicatore per compiacere il lettore nella prospettiva pirandelliana di verità molteplice, o utile a chi comunica e di soddisfazione per chi legge. Ma il fatto di cronaca non è un romanzo, i protagonisti della vicenda non sono personaggi della fantasia bensì sono donne e uomini che esistono nella loro fisicità, emotività e nel loro fascio di relazioni interpersonali. La correttezza della comunicazione dipende dall’etica soggettiva, e purtroppo, spesso la provenienza “ufficiale” della notizia non implementa la correttezza dell’informazione.
La suggestione pone a repentaglio la terzietà del giudice, oltre che l’immagine della giurisdizione.
Tra le molteplici possibili riflessioni in tema di Giustizia e comunicazione, in un’ottica di bilanciamento dei diritti coinvolti nel declinarsi della comunicazione di fatti sub judice, abbiamo scelto tre temi che saranno oggetto di altrettante sessioni del convegno, nella forma del dialogo in linea con la tradizione delle Interviste di Giustizia Insieme.
I discussant delle tre sessioni, in ciascuna delle quali sarà presente anche un giornalista, saranno Giuseppe Amara, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Modena, Donatella Palumbo, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Benevento, e Maria Cristina Amoroso, magistrato addetto all’Ufficio del massimario e del ruolo della corte di cassazione.
La prima sessione dal titolo “La rappresentazione del magistrato nell’immaginario collettivo” sarà incentrata sul magistrato, giudice e pubblico ministero, nella proiezione della sua figura in ambito sociale e quale risolutore dei conflitti. La rappresentazione collettiva del magistrato muta in maniera sinodale in ragione dell’apprezzamento della funzione giurisdizionale, ma muta pure in ragione della rappresentazione del singolo magistrato, ove questi - nel bene o nel male - balzi agli onori della cronaca. Interverranno nel corso della prima sessione Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, e Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e consigliere di Cassazione.
La seconda sessione intitolata “La presunzione di innocenza, sostanza e forma” è un tema quanto mai attuale in ragione dell’entrata in vigore il 14 dicembre del d.lgs. n. 188 del 2021, di adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza indispensabile e improcrastinabile per orientare una comunicazione che sia rispettosa della presunzione di innocenza e del diritto alla riservatezza. Si tratta di un intervento normativo che, seppur diretto alle sole autorità pubbliche, dovrebbe impegnare non solo polizia giudiziaria, pubblici ministeri e giudici ma anche i giornalisti affinché la comunicazione della giustizia si faccia carico, nel bilanciamento dei diritti coinvolti, della tutela dell’intimità delle posizioni coinvolte. La presunzione di innocenza nella comunicazione dei fatti di cronaca dovrebbe costituire, pertanto, la linea da seguire non solo per i giornalisti ma anche per i magistrati affinché sappiano individuare, nel costrutto motivazionale dei provvedimenti giurisdizionali, ciò che è lesivo della reputazione e dell’intimità individuale e, al tempo stesso, inutile e superfluo. Come ha scritto Federica Resta su questa Rivista in un articolo pubblicato il 14 dicembre dal titolo Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza: “Naturalmente, non saranno solo le norme a poter garantire un equilibrio, democraticamente sostenibile, tra diritto di (e all’) informazione, dignità dei soggetti coinvolti nel processo, presunzione d’innocenza ed esigenze di accertamento dei reati. Molto dipenderà da come, magistratura e organi di informazione, interpreteranno il loro ruolo” (sul medesimo tema Recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: è davvero la fine dei processi mediatici? di Valentina Angela Stella, Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188 di Armando Spataro).
Interverranno alla seconda sessione Valentina Stella, giornalista del Dubbio News e del Riformista, l’On. Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario di Stato alla Giustizia e avvocato, e Raffaele Cantone, Procuratore della Repubblica di Perugia.
La terza sessione è intitolata “Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo”. Quest’ultima sessione affronterà il tema della suggestione della comunicazione di massa sull’esercizio del potere giurisdizionale. Il processo mediatico non solo condanna il presunto innocente con decisione inappellabile ma, nel dipanarsi del suo spettacolo, pone a repentaglio e stravolge l’ordinario svolgersi delle dinamiche processuali. Gli effetti emozionali inconsci della comunicazione di massa possono astrattamente influenzare le decisioni in tema di misure cautelari, di affermazione della responsabilità, di determinazione della pena ma anche le decisioni in tema di conflitti, rimessi alla tutela giurisdizionale, che coinvolgono diritti della persona. La domanda è allora: se questi sono i danni (violazione del principio di non colpevolezza) e questi sono i rischi (messa in pericolo del giusto processo), qual è la giustificazione del processo mediatico e quali sono i rimedi ? Interverranno alla terza sessione Rosaria Capacchione, giornalista, Marco Dell’Utri, consigliere della Corte di cassazione, e Alessandra Camassa, Presidente del Tribunale di Marsala.
Sono previsti interventi programmati nel corso del dibattito.
Introdurranno e chiuderanno i lavori i direttori scientifici della Rivista Roberto Conti e Paola Filippi.
Secondo convegno organizzato da Giustizia Insieme
Roma, Piazza di Firenze 27, Società Dante Alighieri,Sala del Primaticcio
Venerdì 1 aprile 2022 ore 14:30/20:00
Processo mediatico e presunzione di innocenza
Ore 14:30 Saluti del Segretario Generale della società Dante Alighieri Prof. Alessandro Masi
Introduzione ai lavori: Roberto Conti e Paola Filippi - Direttori scientifici di Giustizia Insieme
Ore 15:00 prima sessione - Il giudice nell’immaginario collettivo -
Giovanni Bianconi e Giuseppe Santalucia - discussant - Giuseppe Amara
Ore 15:50 seconda sessione - La presunzione di innocenza, sostanza e forma -
Valentina Stella, Francesco Paolo Sisto e Raffaele Cantone - discussant - Donatella Palumbo
Dibattito
17:00 coffee
17:10 terza sessione - Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo -
Rosaria Capacchione, Alessandra Camassa e Marco Dell’Utri - discussant - Maria Cristina Amoroso
18:20 Interventi programmati
Hanno confermato finora Giuseppe Cascini, Luigi Salvato, Ernesto Aghina, Fabio Francario, Edmondo Bruti Liberati, Riccardo Ionta, Andrea Apollonio e Marcello Basilico
20:00 chiusura dei lavori
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA:
Giuseppe Amara, Cristina Amoroso, Donatella Palumbo, Donatella Salari
Cell. 3396381906, 3397265027, 3382139878
Segretaria di redazione: Ilaria Buonaguro Mail:
Per informazioni:
È prevista la partecipazione sia in presenza che da remoto. Per la partecipazione da remoto occorre iscriversi collegandosi al seguente link: https://us02web.zoom.us/webinar/register/WN_rKG2BmQiRfGERPqItpfUmQ. Dopo l’iscrizione sarà trasmessa una e-mail di conferma con le informazioni per entrare nel webinar.
Le cause di incompatibilità a presidio dell’imparzialità del giudice amministrativo (nota a Cons. St., sez. V, 6 aprile 2021, n. 2759)
di Vinicio Brigante
Sommario: 1. La vicenda processuale. Rapporti di parentela, persistenza e decadenza dei profili di incompatibilità. - 2. Il Consiglio di Stato 2759/2021. A presidio dell’imparzialità della giustizia amministrativa. - 3. L’immutabile attualità dei profili di incompatibilità. Brevi note conclusive su obblighi motivazionali (ingiustificatamente) differenziati.
1. La vicenda processuale. Rapporti di parentela, persistenza e decadenza delle cause di incompatibilità
La sentenza in commento si pone quale occasione di riflessione sul regime delle cause di incompatibilità poste a presidio dell’imparzialità[i] del giudice amministrativo[ii], tema che non smarrisce ma accresce il suo fascino con l’evolversi del sistema di giustizia amministrativa[iii].
La compiuta strutturazione del processo amministrativo operata dal codice del processo amministrativo e l’attenuazione della distinzione tra giurisdizione ordinaria e amministrativa rafforzano l’esigenza di assicurare il rispetto del principio del giusto processo[iv] e sottolineano, come strutturale e coerente corollario, la necessità di garantire e preservare il ‘giudice giusto’.
Nel caso del giudice amministrativo, il profilo si rivela particolarmente problematico se solo si considera che è comune l’osservazione per cui l’indipedenza della giurisdizione intesa in termini di principio fondante, di cui all’art. 104 Cost., deve essere graduata, poiché il modello elaborato dalla Costituente prevede un’indipendenza ‘forte’ per la magistratura ordinaria, e una ‘sufficiente’ per le altre magistrature[v] (amplius, v. infra par. § 3).
Preliminarmente, si rende necessaria la ricostruzione storico-processuale della vicenda, al fine di poter apprezzare le specifiche caratteristiche del caso e, in che modo e con che intensità le stesse incidano sulla fondatezza dell’emergere di cause di incompatibilità del giudice amministrativo.
La vicenda dedotta in giudizio ha ad oggetto un profilo di incompatibilità legato alla sussistenza della relazione familiare di un magistrato - nelle more della sua partecipazione, come istante, a diversi interpelli, tra cui quello a presidente di un ufficio giudiziario mono sezionale - con la figlia, avvocato nello stesso foro in cui è sito l’ufficio giudiziario, titolare di diverse cause pendenti dinanzi all’unica sezione del T.A.R. per la quale è presentata la domanda.
Il magistrato in questione ha partecipato agli interpelli per il conferimento degli incarichi di presidente del T.A.R. Marche, ufficio mono sezionale - circostanza che ha un suo autonomo rilievo operativo rispetto ai profili di incompatibilità, come intuibile - e di presidente della Terza sezione del T.A.R. Lazio, esprimendo preferenza per la prima soluzione di interpello.
La competente Commissione consiliare, dopo aver respinto la proposta del relatore di accertare la causa di incompatibilità[vi], connessa alla circostanza che la figlia dell’appellante svolgesse la professione di avvocato nel foro di pertinenza del T.A.R. Marche - con nove liti pendenti dinanzi allo stesso plesso giurisdizionale - ha proposto in ogni caso al Plenum la nomina, che lo stesso Plenum, tuttavia, respingeva.
In primo grado, si deduceva l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per travisamento dei fatti e vizio della motivazione, poiché, in precedenza, rispetto ad altre vicende, il C.G.P.A. aveva escluso la persistenza dell’incompatibilità, allorquando emergesse in maniera chiara l’impegno a rimuovere la causa di incompatibilità, quindi, nel caso di specie, in presenza dell’impegno della figlia ad astenersi da ogni attività dinanzi al T.A.R. Marche- impegno che era stato formalizzato e reso conoscibile dalla stessa figlia - si sarebbe dovuti giungere alla medesima soluzione. Come si vedrà, la peculiarità ambientale della vicenda non consentiva di percorrere tale strada interpretativa.
Il T.A.R. ha accolto il ricorso, con relativo annullamento, per difetto di motivazione e di istruttoria, del decreto di nomina. Per il giudice di prime cure, il C.G.P.A. ha esaminato il profilo di incompatibilità ambientale, ma con evidenti lacune istruttorie; nello specifico, ha omesso di considerare l’impegno della figlia del ricorrente a non esercitare, in alcuna forma, attività legale o di consulenza, rispetto a liti pendenti dinanzi all’ufficio giudiziario di interesse per la vicenda, ossia il T.A.R. Marche.
Per il giudice di prime cure, il C.G.P.A., a fronte di un impegno di astensione come quello palesato, avrebbe dovuto ritenere rimossa la causa di incompatibilità, fermo restando che qualora lo stesso C.G.P.A. ravvisi la reviviscenza dello stato di incompatibilità, è tenuto ad accertarlo con adeguata istruttoria e a legittimarne la relativa persistenza con specifica motivazione.
Si deve osservare che l’incompatibilità di sede per i rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione legale rinviene il proprio fondamento, in termini di razionalità della previsione, nel carattere di indipendenza[vii] della giurisdizione, che non tollera neppure ‘apparenze di condizionamenti’, poiché si pone quale presidio di carattere preventivo, diretto a preservare il profilo dell’imparzialità in tutti i suoi aspetti, anche solo potenziali.
Inoltre, la circolare adottata dal C.G.P.A. il 12 ottobre 2006 sul tema si propone di operare un bilanciamento tra interessi confliggenti, con una graduazione che si basa su diversi parametri e fattori, tra cui la dimensione dell’ufficio e del foro locale, la funzione esercitata dal magistrato e il settore d’esercizio dell’avvocato; per il T.A.R. emerge il regime di incompatibilità più severo e serrato proprio per i dirigenti degli uffici giudiziari - posizione per la quale è presentato interpello - ma, per mitigare ciò, si impone la necessità di adeguare e graduare tale regime alle dinamiche proprie e peculiari della giurisdizione amministrativa, specie per ciò che riguarda gli uffici mono sezionali.
Il giudice di prime cure ha pertanto escluso che il regime giuridico così delineato si presenti in termini assolutamente ostativi rispetto al conferimento dell’incarico direttivo, poiché si rende necessario indagare concretamente lo stato concreto delle dinamiche relazionali e proprio il C.G.P.A. è obbligato a esprimere, dopo adeguata e motivata istruttoria, la sussistenza nel tempo delle cause di incompatibilità.
Per tale ragione, il T.A.R. ha ritenuto che il C.G.P.A. abbia esaminato il profilo dell’incompatibilità ambientale rispetto alla procedura generata dall’istanza per l’interpello, senza istruire adeguatamente la vicenda e, nello specifico, senza considerare adeguatamente l’impegno del familiare che esercita la professione forense di non esercitare attività di consulenza legale, anche stragiudiziale, così da rifuggire anche dalle apparenze di condizionamenti cui si è fatto cenno.
Rispetto a tale impegno, radicale poiché comprende anche la rinuncia alle cause pendenti, l’incompatibilità non può essere rilevata, se non in casi specifici e eccezionali e, in ogni caso, dopo adeguata istruttoria e motivazione.
Tale dichiarazione di volontà e di intenti da parte del parente del magistrato, anche qualora si tratti di uffici mono sezionali, impone che il C.G.P.A. lo consideri alla stregua della rimozione dello stato di incompatibilità ambientale. La persistenza di un pericolo per l’imparzialità dell’ufficio giudiziario deve essere - a giudizio del T.A.R. - in ogni caso, adeguatamente oggetto di istruttoria e deve essere specificatamente e dettagliatamente motivato, al fine di palesare l’iter logico motivazionale del bilanciamento in concreto operato[viii].
2. Il Consiglio di Stato 2759/2021. A presidio dell’imparzialità della giustizia amministrativa
L’appello presentato avverso la sentenza di primo grado, oltre a porre una interessante questione circa i c.d. effetti demolitori ‘domino’ con conseguente e necessaria distinzione tra conseguenzialità organizzativa e diacronica, si basa sull’asserita erronea e falsa applicazione, da parte del giudice di prime cure, dell’art. 18, 3° e 4° comma, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, che avrebbe portato ad attribuire un’impropria efficacia ‘scriminante generalizzata’ rispetto al tema dell’incompatibilità parentale, basandosi sulla semplice dichiarazione di astensione rilasciata dal familiare che svolge la professione forense, inoltre in forma individuale.
Proprio questa dichiarazione di impegno comporta l’emergere di una presunzione di compatibilità, che onera, in ogni caso, il C.G.P.A. ad operare un supplemento istruttorio, volto a escludere la persistenza di cause contrarie; si tratta, a ben vedere, di una presunzione che richiede un’istruttoria, non solo supplementare, ma autonoma, che, come tale, non solleva il C.G.P.A. dall’accertamento concreto della vicenda.
La sentenza di primo grado avrebbe, in altri termini, svalutato la portata incondizionata dell’art. 18 citato, rispetto alle ipotesi di applicazione della norma agli uffici mono sezionali e ai ruoli direttivi.
Per il Consiglio di Stato, l’appello è fondato, poiché la dichiarazione di impegno del familiare atipica ed espressa in forma privata, a rinunciare formalmente al mandato in tutti i giudizi pendenti e a non assumere futuri incarichi, anche stragiudiziali, per tutto il lasso di tempo in cui il genitore rimanga in carica nel ruolo di presidente dell’ufficio giudiziario comporta una semplice presunzione di superamento dell’incompatibilità, ma non il superamento in sé, subordinato ad adeguata istruttoria che deve essere condotto dal C.G.P.A., al fine di dimostrare concretamente la sussistenza di profili di incompatibilità ambientale.
La disposizione in tema di incompatibilità di sede, quindi di carattere territoriale, rispetto ai rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione forense, ha carattere generale e provvede ad indicare i criteri di verifica della ricorrenza delle cause, che tengono in considerazione, tra gli altri, la dimensione dell’ufficio giudiziario - con riguardo ai profili di organizzazione tabellare - la materia trattata dal magistrato e dall’avvocato con cui sussiste il rapporto di parentela e la funzione specialistica dell’ufficio giudiziario.
A corredo di tali criteri, il C.G.P.A, come osservato, rimette la scelta discrezionale all’organo di autogoverno[ix], rispetto a dimensioni di ufficio e foro locale, alle funzioni direttive del magistrato e altri fattori utili alla valutazione.
Le regole più rigorose in tema di incompatibilità, tuttavia, fissate dalla norma - art. 18 cit., 3° comma - ricorrono rispetto agli uffici giudiziari mono sezionali - la cui ratio è evidente, poiché non vi sarebbero opportunità di sostituzione a seguito di astensione[x] - che comporta una riduzione del margine di valutazione discrezionale in capo all’organo di autogoverno, poiché si palesa la presunzione iuris et de jure dell’incompatibilità in tali uffici giudiziari.
Inoltre, il 4° comma dello stesso art. 18 citato comporta la presunzione della sussistenza della situazione di incompatibilità per i magistrati preposti a incarichi direttivi dell’ufficio giudiziario.
Entrambe le situazioni ricorrono nella ipotesi in esame.
Il combinato disposto delle due disposizioni nega, a priori, il carattere di idoneità della soluzione prospettata dal T.A.R., ossia valorizzare l’impegno personale del parente che svolge la professione forense a rinunciare ai carichi pendenti e futuri, anche relativi all’attività stragiudiziale. Tale impegno non è adeguato a rimuovere lo stato di incompatibilità previsto dalle disposizioni, non solo a tutela imparzialità in quanto tale, ma anche rispetto alla ‘semplice apparenza dell’imparzialità e della terzietà del magistrato’.
Emerge un’anticipazione della soglia della tutela, diretta non solo a rimuovere strutturalmente la causa di incompatibilità, ma anche a evitare che permangano dubbi, anche solo apparenti o percepiti, sull’imparzialità dell’ufficio giudiziario. È valorizzato e perseguito il più persistente grado di fiducia che deve intercorrere tra cittadini e potere giudiziario, peraltro rispetto a ipotesi nelle quali i profili che minano l’imparzialità sono percepiti come insuperabili.
Si tratta, in altri termini, di garantire e preservare il necessario rapporto di affidamento che sussiste tra cittadini e plesso giurisdizionale, esigenza che emerge anche dall’analisi di disposizioni sovranazionali, rispetto all’elemento distintivo del c.d. diritto al giudice (art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 6 CEDU)[xi].
Si osserva l’esistenza di un regime di incompatibilità assoluto, legato alle circostanze menzionate dai commi 3° e 4° dell’art. 18, e, come tale, si palesa una preclusione rispetto a eventuali prove contrarie, poiché è un regime che opera per categorie e non sulla base dell’istruttoria, che non può sovvertire tale assetto.
Tale circostanza è assorbente ai fini del decidere, ma appare opportuno svolgere qualche breve riflessione rispetto agli altri motivi di appello, diretti a contestare la configurabilità dei difetti di motivazione e istruttoria della delibera del C.G.P.A.
Il diniego di proposta di nomina è motivato, pur nella forma sintetica che caratterizza strutturalmente le delibere collegiali, poiché sia l’ufficio mono sezionale del T.A.R. Marche, sia il relativo foro, sono di contenute dimensioni e, pertanto, l’incompatibilità è, come notato, anche rispetto all’affidamento ingenerato nei cittadini, tendenzialmente insuperabile.
Un ufficio così piccolo - e un corrispondente foro analogamente piccolo nelle dimensioni - palesa una situazione nella quale la decisione del Plenum non richiede l’assolvimento di un onere motivazionale specifico e dettagliato, poiché non vi è un margine di scelta, di esercizio di ponderazione, da richiedere tale sforzo motivazionale.
Per tali ragioni, il Consiglio di Stato accoglie l’appello delle amministrazioni e riforma la sentenza di primo grado, affermando, in concreto, la sussistenza e la non superabilità delle cause di incompatibilità.
3. L’immutabile attualità dei profili di incompatibilità. Brevi note conclusive su obblighi motivazionali (ingiustificatamente) differenziati
La decisione in commento si lascia apprezzare per diversi aspetti, specie rispetto alla vicenda concretamente dedotta in giudizio, ma si rendono necessarie sintetiche notazioni su alcuni profili critici emersi e, di fatto, irrisolti nella loro complessiva portata problematica.
Le disposizioni a presidio dell’imparzialità della giurisdizione nel suo complesso sono deputate a una funzione ineludibile, ossia salvaguardare il grado di fiducia che intercorre tra cittadini e uno dei tre poteri dello Stato moderno. Si tratta di disposizioni, che hanno ovviamente mutato veste, adattandosi ai tempi, ma che mirano in ogni caso a preservare il tratto che connota la legittimazione del giudice rispetto alle parti in causa, l’equidistanza dagli interessi dedotti in giudizio.
Il tema deve essere calato nel contesto della giustizia amministrativa, in base al relativo, ma sempre discusso[xii], carattere di specialità, come noto, non ritenuto unanimemente necessario e vantaggioso[xiii].
L’elemento maggiormente critico, meritevole pertanto di apposita analisi, riguarda il tema della motivazione e le difformità degli obblighi relativi che incombono, con diverso grado precettivo, su giurisdizione ordinaria[xiv] e amministrativa, rispetto alle cause di incompatibilità, poiché emerge un evidente divario che persiste tra concezioni garantiste e riduzioniste della motivazione[xv].
Rispetto alla vicenda in commento, si osserva una ipotesi di declino di decisione motivata[xvi], poiché le disposizioni concernenti i profili di incompatibilità assorbirebbero in sé la scelta amministrativa e renderebbero superflua una motivazione dettagliata. Su tale profilo occorre svolgere almeno una breve considerazione.
La motivazione, come noto, rappresenta elemento posto a presidio della legittimazione del potere, ma pare che, rispetto a ragioni pratiche di un peculiare modo di interpretare il buon andamento e il principio di efficienza - per quanto di interesse, rispetto alle vicende processuali - anche degli organi di autogoverno della giustizia, la stessa debba avere carattere regressivo.
Corredare con apposita e adeguata motivazione il provvedimento con il quale si attesta l’esistenza o meno delle cause di incompatibilità poste a presidio della legittimazione del potere giudiziario sarebbe auspicabile, in primo luogo, per garantire la certezza nel tempo del provvedimento, e per consentire di valutare, in un secondo momento, la attualità o la necessità di sottoporlo a riesame. Solo un’adeguata motivazione può palesare i singoli elementi di fatto della circostanza concreta, a tutela non solo del destinatario, ma del valore che il provvedimento intende perseguire, l’imparzialità degli uffici giudiziari per quanto di interesse.
In secondo luogo, intuitivamente, la motivazione veicola l’attività amministrativa e consente di attivare un sindacato reale sull’attività svolta[xvii].
Da questo punto di vista non si apprezzano ragioni sufficienti a giustificare tale scollamento tra la motivazione dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa e quello preposto al medesimo ruolo per la giustizia ordinaria, posto che il valore presidiato dal provvedimento è il medesimo[xviii]. Ci si deve, pertanto e in termini preliminari, chiarire rispetto al connotato stesso di specialità del diritto amministrativo e della giurisdizione a presidio della relativa azione; se tale carattere viene meno, devono scongiurarsi deroghe e regimi giuridici differenziati.
Si deve garantire che “la giurisdizione si esplichi con serenità e senza condizionamenti da invincibili pregiudizi[xix]”, ma si deve assicurare, analogamente, che tale obiettivo sia oggetto di adeguata motivazione, per evitare di incorrere in disposizioni che si tramutino in insuperabili petizioni di principio.
L’amministrazione e la giustizia amministrativa moderna dovrebbero tollerare di mal grado tutte le ipotesi di svilimento della motivazione, poiché allo stesso potrebbe associarsi un pericolo che andrebbe in ogni caso a detrimento dell’amministrato[xx].
Il tema è troppo ampio e articolato e richiede analisi accurate che si premurino di analizzare il tema in un contesto di contemporaneità e di consapevole complessità.
La motivazione diretta a palesare la persistenza o il venir meno delle cause di incompatibilità concorre a legittimare la decisione degli organi di autogoverno delle diverse giurisdizioni e si pone, in via mediata, a presidio dello stesso canone di imparzialità, stretto, a sua volta, tra esigenze di legalità e di giustizia sostanziale[xxi].
L’imparzialità non dovrebbe ammettere graduazioni, poiché si pone a presidio dell’ultimo baluardo di tutela avverso il potere pubblico; l’attività giurisdizionale, solo qualora sia scevra da qualsiasi tipo di condizionamento, anche solo apparente e potenziale, può garantire un sindacato deputato alla tutela dell’obiettività dell’attività amministrativa e, di conseguenza, come effetto indiretto, alla difesa degli amministrati.
[i] Sul tema, insuperata è l’analisi di A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia non amministrativa (Sonntagsgedanken), Milano, 2005, 73 ss.; M. Mazzamuto, Per una doverosità costituzionale del diritto amministrativo e del suo giudice naturale, in Dir. proc. amm., 2010, 143 ss.
[ii] Si v. M. Protto, Le garanzie di indipendenza ed imparzialità del giudice nel processo amministrativo, in G. Piperata, A, Sandulli (a cura di), Le garanzie delle giurisdizioni: indipendenza e imparzialità dei giudici, Napoli, 2012, 95 ss., 98.
[iii] In chiave diacronica su tale evoluzione, cfr. F. Francario, Riflessioni a margine del sistema di giustizia amministrativa di Umberto Borsi, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, IV, Padova, 2007, 167 ss., 170.
[iv] M. Chiaviario, Giusto processo ad vocem, in Enc. giur., XVII, Roma, 2001, 3 ss.
[v] G. Verde, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del Costituente, in Dir. proc. amm., 2003, 343, 346; di recente, A. Police, Lezioni sul processo amministrativo, Napoli, 2021, 7 ss.
[vi] Le cause di incompatibilità di cui all’art. 18, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, ‘Ordinamento giudiziario’, sono applicabili, in via estensiva, anche ai magistrati amministrativi, in virtù dell’art. 28, l. 27 aprile 1982, n. 186, ‘Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali’, rubricato ‘Incompatibilità di funzioni’, che stabilisce che “Ai magistrati amministrativi si applicano, anche per quanto riguarda l’esercizio di compiti diversi da quelli istituzionali e l'accettazione di incarichi di qualsiasi specie, le cause di incompatibilità e di ineleggibilità previste per i magistrati”; sul tema, di recente, in termini generali, P. Tanda, Profili istituzionali, processuali e comparatistici dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice amministrativo, in Giur. it., 2020, 697 ss.
[vii] Sul profilo della razionalità del requisito in esame nell’ambito delle disposizioni costituzionali, cfr. A. Travi, Rileggendo Orsi Battaglini. Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia ‘non amministrativa’, in Dir. pubbl., 2006, 91 ss., 93., l’A., rispetto alla nota opera di Orsi Battaglini, conferma la necessità di perseguire la tesi, invero radicale ma condivisibile, per la quale la specialità del giudice amministrativo non sia foriera di deroghe di nessun genere che possano minare i principi generali posti a presidio del potere giurisdizionale.
[viii] La soluzione sarebbe coerente con il tema della distribuzione ‘a sorte’ dei fascicoli, come osservato da B. Tonoletti, Il giudice naturale e l’organizzazione della giustizia amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2013, 375 ss., mentre, come nel caso di specie, perde efficacia rispetto agli uffici mono sezionali.
[ix] Cfr., sul punto, F. Francario, Autogoverno della magistratura e tutela giurisdizionale. Brevi cenni sui profili problematici della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati, in questa Rivista, 2018, il quale osserva una disarmonia tra giustizia amministrativa e ordinaria che incide sui principi informatori del sistema complessivamente considerato.
[x] Si v. N. Pignatelli, Profili costituzionali dell’astensione e della ricusazione del giudice amministrativo, in Quad. cost., 2013, 635.
[xi] Diffusamente, B. Randazzo, Giudici comuni e Corte europea dei diritti, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2002, 1303 ss., 1310 (spec. par. § 1.4).
[xii] Ex multis, G. Berti, La giustizia nell’amministrazione pubblica, in Studi economico-giuridici (Vol. LIX), In memoria di Franco Ledda, I, Torino, 2004, 119, “l’amministrazione non è un ordinamento speciale, secondo le antiche ed ora ripudiate visioni della dottrina, ma l’altra faccia dell’ordinamento generale fondato sui diritti. La giustizia amministrativa si ripresenta dunque come struttura giustiziale appropriata al versante giuridico della responsabilità nell’ambito del generale ordinamento costituzionale”.
[xiii] Emblematicamente, S. Satta, Giurisdizione. Nozioni generali ad vocem, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 226, la giustizia amministrativa svela il suo carattere di specialità - e le relative deviazioni rispetto al modello del processo civile - solo per la presenza della pubblica amministrazione; M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2013, 102.
[xiv] Si v. la Circolare del CSM, n. P-12940, 25 maggio 2007, modificata con delibere del 1° aprile 2009 e 9 aprile 2014; si v., con riferimento al tema dell’autovincolo, M.R. Spasiano, Nomina dei componenti togati del Comitato Direttivo della Scuola superiore della magistratura: è l’auto-vincolo a imporre il procedimento selettivo a carattere comparativo, in questa Rivista, 2021, il quale analizza anche il tema del sindacato del g.a. sugli atti del CSM; si v., rispetto al controverso tema della individuazione della apposita giurisdizione, E. Zampetti, Postilla a Il controverso requisito della permanenza in servizio del consigliere C.S.M. la decisione spetta al giudice ordinario, in questa Rivista, 2021, il quale analizza la portata discrezionale delle delibere del CSM. In tema v. anche Il Consiglio di Stato (e la) nomina (del) Presidente e (del) Presidente aggiunto della Corte di Cassazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 14 01 2022 nn. 267 e 268), in questa Rivista, 15 gennaio 2022.
[xv] Si v. G. Tropea, Conferimento di incarichi del CSM e giudice amministrativo: il lungo addio all’ineffettività della tutela (Nota a Cons. St., sez. V, 15 luglio 2020, n. 4584), in questa Rivista, 2020, sul tema, controverso, del conferimento degli incarichi direttivi o semidirettivi; rispetto a una delle conseguenze plausibili in tema di incompatibilità, ossia il trasferimento, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 5 agosto 2021, n. 9277, l’amministrazione gode di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione delle ragioni di opportunità che giustificano i trasferimenti per incompatibilità ambientale, i quali, proprio per questa ragione, non necessitano nemmeno di una particolare motivazione; ne consegue che il giudice chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti che dispongono questa misura deve limitarsi al riscontro dell'effettiva sussistenza della situazione di incompatibilità venutasi a creare ad avviso dell'amministrazione (e costituente presupposto del provvedimento) nonché della proporzionalità del rimedio adottato per rimuoverla. Infatti, in tali tipi di controversie il sindacato del giudice amministrativo deve limitarsi ad una valutazione di legittimità ab extrinseco, non essendo ammissibile una valutazione sull'opportunità delle scelte dell'amministrazione.
[xvi] Si riprende il titolo dell’analisi svolta da M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Dir. proc. amm., 2017, 896, che osserva che si tratta di “un processo generale, in quanto riguarda sia gli atti amministrativi vincolati, sia gli atti amministrativi discrezionali (e in quest’ultimo caso risulta maggiormente criticabile); un processo complesso, in quanto investe la mai risolta dialettica tra legislazione, amministrazione pubblica e giurisprudenza; un processo articolato, in quanto assume manifestazioni concrete diverse, che spaziano da un particolare modo d’intendere la motivazione per relationem al reputato grado di sufficienza della stessa, dall’inquadramento del difetto di motivazione tra i vizi formali all’ammissibilità dell’integrazione della motivazione nel corso del processo; un processo inedito, in quanto va tenuto distinto dalla c.d. dequotazione della motivazione del provvedimento”.
[xvii] R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativoIIed, Torino, 2017, 269 ss.
[xviii] Sul tema, per apprezzare le ragioni di fondo, si condivide l’analisi di L. Ferrara, Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni. Annotazioni brevi, in Dir. pubbl., 2014, 561 ss.
[xix] M. Chiaviario, Giusto processo, cit., 8.
[xx] Particolarmente puntuali, come sempre, sono le parole di G. Berti, Le trasformazioni della giustizia amministrativa, ora anche in Scritti scelti, Napoli, 2018, 577 ss., 583, la giustizia amministrativa è una faccia necessaria dell’esserci e dell’agire secondo una visione altamente sociale dell’uomo e della collettività.
[xxi] Cfr. F. Pinto, Il giudice amministrativo di fronte ai diritti fondamentali tra legalità e giustizia, in Amministrativamente, 2019, “nel chiuso della camera di consiglio, sollecitato da istanze che, sempre più, cercano di trascinare nelle aule giudiziarie conflitti, che forse andrebbero risolti altrove, il giudice appare oggi sempre più tentato dall’assumere il ruolo di chi fa giustizia, di chi risponde, cioè, a bisogni sostanziali, sentendo di incarnare - e forse è - l’espressione di un potere legittimato direttamente dalla legge”; G. De Giorgi Cezzi, Interessi sostanziali, parti e giudice amministrativo, in Dir. amm., 2013, 401 ss., 422, “ruolo attivo del giudice e centralità del contraddittorio vanno dunque nella stessa direzione e rispondono a un’esigenza logico-pratica del processo che utilizza la dialettica processuale come metodologia della rilevanza e teoria della confutazione secondo il punto di vista di un giudice imparziale”.
Vulnerabilità delle donne vittima di tratta: la Cassazione riconosce lo status di rifugiato in virtù dell’appartenenza ad un gruppo sociale discriminato
di Domenico Gaspare Carbonari
Con la sentenza n. 676/2022, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla rilevanza e sulle conseguenze del fenomeno della tratta di esseri umani, evidenziandone, in particolare, la complessità e il carattere sistematico fondato sull’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità. Ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, nella specie dello status di rifugiato, è opportuno accertare, da un lato, la riconducibilità del caso concreto ad un contesto di tratta di esseri umani e, dall’altro, la ricorrenza di un rischio attuale di ulteriori atti lesivi o persecutori, sotto diverse modalità e contenuti, anche prescindendo dall’accertamento penale.
Sommario: 1. La vicenda decisa dalla Corte. – 2. L’evoluzione normativa e giuridica sul tema della tratta di esseri umani. – 3. Riconoscimento della protezione internazionale e accertamento penale: due percorsi alternativi. – 3.1. Status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria: diverse intensità di tutela. – 4. I cc.dd. indicatori di tratta e atti persecutori: l’appartenenza ad un gruppo sociale quale condizione di vulnerabilità – 4.1. La vittima di tratta assurge alla qualifica di rifugiato: dichiarazioni del richiedente, onere probatorio e iura novit curia. – 5. Conclusioni
1. La vicenda decisa dalla Corte
Con la sentenza n. 676/2022[1] la Cassazione Civile sezione I si è pronunciata sulla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, con riguardo alla richiesta presentata da una donna vittima di tratta a scopo di meretricio.
Nella specie la ricorrente, di origine nigeriana, deduceva dinanzi alla Commissione territoriale competente e al Tribunale una serie di circostanze, tra cui l’essere stata obbligata a prostituirsi in Libia, indicative dell’inserimento della stessa in una rete criminale dedita allo sfruttamento sessuale. La domanda veniva, tuttavia, rigettata e la ricorrente proponeva appello, anch’esso respinto sulla scorta delle seguenti argomentazioni: la non credibilità del racconto, l’insussistenza del rischio di violenza indiscriminata ex art. 14, lett. c), D.lgs. 251/2007, e la non ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.
Con ricorso per Cassazione, la donna rilevava la violazione o falsa applicazione degli artt. 3 D.lgs. 251/2007 e 8 D.lgs. 25/2008, i quali impongono al giudice, rispettivamente, di provvedere all’esame individuale dei fatti o delle circostanze poste a fondamento della richiesta di protezione internazionale e, in particolare, per il riconoscimento dello status di rifugiato (art. 8), dovendo valorizzare “le informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine” o nei Paesi di transito. Lamentava, inoltre, la violazione di ulteriori norme del D.lgs. 251/2007 e 4 e 5 CEDU per il mancato riconoscimento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, laddove il giudice di secondo grado aveva ritenuto i fatti allegati dalla donna non annoverabili nel concetto di azione persecutoria per assenza delle condizioni normativamente richieste.
2. L’evoluzione normativa e giuridica sul tema della tratta di esseri umani
Prima di esaminare le questioni giuridiche connesse al riconoscimento della protezione internazionale, è opportuno soffermarsi sul fenomeno della tratta di esseri umani e, in particolare, sulle implicazioni di ordine giuridico e sociale derivanti da tale “moderna forma di schiavitù” fondata sullo sfruttamento sessuale o lavorativo o sul prelievo e traffico di organi.
A fronte della complessità del sistema criminale, l’ordinamento giuridico italiano ha apprestato un’articolata disciplina penalistica[2] e civilistica, deputata alla prevenzione, alla repressione e alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive delle vittime, anche in termini di protezione internazionale o umanitaria[3].
La suddetta complessità deriva da due fattori, rispettivamente, uno spaziale-temporale e uno sociologico.
Il primo è rappresentato dall’articolata gestione operativa ed economico-finanziaria della tratta, espressione di un sistema criminale transnazionale frutto delle interazioni tra diversi gruppi criminali internazionali con ramificazioni in altri Paesi, tali da costituire in genere un vero e proprio network criminale[4]. Il fattore di tipo sociologico, invece, attiene alla relazione trilaterale tra le figure del trafficante, dello sfruttatore e della vittima, anche perché, proprio con specifico riferimento a quest’ultima figura, l’esperienza giudiziaria ha dimostrato che talvolta una originaria vittima può diventare a sua volta trafficante o sfruttatore e, viceversa, un soggetto sfruttatore (anche inconsapevolmente) può divenire a sua volta vittima.
Questi dati sono il risultato di una stratificazione delle conoscenze acquisite nel tempo, tenuto conto anche della stretta connessione intercorrente tra il fenomeno in oggetto e le dinamiche migratorie: non a caso, infatti, la diffusione dei casi di tratta di esseri umani è direttamente proporzionale all’incremento del numero degli individui che, per vari fattori e condizioni, decidono di migrare verso l’Europa. Conseguenza di questa rapida evoluzione è stata la difficoltà di delineare una nozione unitaria e completa di tratta e di vittima di tratta, assistendo, di volta in volta, al susseguirsi di interventi legislativi nazionali e sovranazionali, quest’ultimi di tipo c.d. soft law, più completi e puntuali[5].
Il sistema della prevenzione, repressione e tutela si è articolato in diverse fasi sin dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e dalla successiva Convezione EDU, quest’ultima sottoposta a successivi aggiornamenti ed ampliamenti per il tramite dei Protocolli addizionali[6]. Nel tempo, a fronte del dilagare del fenomeno, anche gli ordinamenti nazionali si sono dotati di ulteriori strumenti normativi, anche attraverso la implementazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata del 2000 e della Convezione di Varsavia del Consiglio d’Europa del 2005, nelle quali la tratta viene definita, sotto il profilo assiologico, quale “violazione dei diritti umani e un’offesa alla dignità e all’integrità dell’essere umano”.
Sotto il profilo oggettivo, e in particolare ai fini della repressione penale, viene adottata una nozione di tratta di esseri umani ampia e sistematica, che tiene conto delle forme e delle modalità per mezzo delle quali, in concreto, si perviene alla violazione dei diritti umani, tra cui l’impiego della violenza, della minaccia o dell’inganno per ottenere la prestazione di servizi o altre attività a scopo di sfruttamento[7].
Dal percorso normativo sopra succintamente descritto emerge l’attenzione del legislatore, sia nazionale che europeo, agli elementi del consenso della vittima, dell’abuso di potere e dell’approfittamento della posizione di vulnerabilità. A quest’ultimo l’art. 600 c.p. e la Direttiva europea 2011/36/CE attribuiscono un significato pregnante, perché, secondo le comuni regole di esperienza, i trafficanti si servono proprio della condizione di chi «non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima». Non è un caso, infatti, che l’elemento del consenso alla violazione è ritenuto irrilevante, dovendo le autorità e il giudice necessariamente tenere conto della etero-induzione della decisione causata sia da fattori interni, quali l’età e la maturità psicofisica, sia esterni come le circostanze nelle quali si è materialmente realizzato il fatto lesivo (ad esempio, l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico dedito, per tradizione, a questo tipo di attività[8]).
3. Riconoscimento della protezione internazionale e accertamento penale: due percorsi alternativi
I suddetti momenti evolutivi hanno consentito di delineare un sistema multi-livello di tutela che, per quanto attiene all’ordinamento italiano, si articola lungo due direttrici autonome ma parallele: da un lato, quella civilistica fondata sulla prevenzione di ulteriori violazioni e sulla riparazione dei danni arrecati alle vittime di tratta; dall’altro, quella penalistica relativa alla repressione delle relative condotte criminose.
L’autonomia tra i due piani assume rilievo ai fini dell’analisi dell’istituto della protezione internazionale, ex art. 2, lettera a), d.lgs. n. 251/2007, consistente nel riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.
La protezione internazionale è un istituto che ha matrice internazionale e costituzionale (ex art. 10 Cost.), assurgendo a categoria generale cui ricondurre tutte le fattispecie astratte fondate sul riconoscimento di una tutela allo straniero vittima di atti di persecuzione o violenza.
La legislazione nazionale, oltre a disciplinare le fattispecie applicative dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, individua anche i presupposti e le regole di valutazione e di esame delle richieste di protezione e degli elementi dedotti dal richiedente (rispettivamente artt. 3 D.lgs. n. 251/2007 e 8 D.lgs. n. 25/2008).
Invero, ai sensi dell’art. 6, comma 2, D.lgs. n. 251/2007 il contenuto giuridico della protezione “è effettiva e non temporanea e consiste nell'adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l'altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave, e nell'accesso da parte del richiedente a tali misure”. Le misure adottate, quindi, sono ispirate ai principi dell’equivalenza e dell’effettività delle tutele, anche se la legge impone alle autorità amministrative e al giudice civile di operare una valutazione dei fatti e delle circostanze su base individuale. Non può trascurarsi, inoltre, il riferimento alle violazioni subite dalla vittima, di cui all’art. 3, comma 4, il quale pone in sede giudiziale la dimostrazione che “il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni [che] costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi”.
La lettura combinata di queste due disposizioni induce a riflettere sul possibile nesso tra l’oggetto del giudizio ai fini della protezione internazionale e l’eventuale accertamento in sede penale del reato di tratta di essere umani. Se, sovente, la vittima collabora con le Autorità dopo essere stata individuata quale persona offesa in sede penale, tuttavia, accade anche il contrario, ossia che la vittima medesima richieda tutela in presenza della sola violazione reiterata dei diritti umani. Ciò accade, principalmente, nelle ipotesi in cui dalle indagini di polizia non sono emersi elementi sintomatici di tratta o quando le vittime non hanno denunciato i propri trafficanti o, ancora, quando dall’ingresso nel territorio italiano al momento della presentazione della domanda di protezione è trascorso un certo lasso temporale, nel quale la vittima è magari riuscita ad affrancarsi dal controllo degli schiavisti.
Va osservato, in premessa, che sarebbe erroneo subordinare il riconoscimento della protezione internazionale all’identificazione del richiedente quale vittima di tratta in sede penale: in violazione dei principi dell’equivalenza e dell’effettività della tutela, verrebbe negata tutela ad un soggetto che per altra via, quella della protezione internazionale, riuscisse a dimostrare di aver subito delle violazioni dei propri diritti.
Milita in tal senso un triplice ordine di argomentazioni: la prima, di ordine ontologico si sostanzia nella natura della situazione giuridica soggettiva, di rilievo costituzionale, di cui è portatore lo straniero che ha subito la suddetta violazione. Ed infatti, posto che il richiedente la protezione internazionale lamenta la lesione di diritti costituzionalmente rilevanti, quali la vita, l’integrità psico-fisica, la libertà personale, l’ordinamento italiano è chiamato ad apprestare, anche a prescindere da un procedimento o processo penale, la tutela necessaria per inibire o ristorare i pregiudizi subiti[9]. Ciò in considerazione anche della ritrosia che, sovente, manifestano le vittime di tratta nel denunziare i fatti di reato subiti o nell’agevolare la individuazione dei trafficanti per il timore di subire ritorsioni alla propria persona o ai familiari nei Paesi di origine.
Il secondo argomento è di ordine letterale, consistente nella mancata previsione legislativa di un nesso di collegamento logico-giuridico tra la disciplina civilistica e quella penalistica[10]: infatti, pur se le risultanze di un procedimento o processo penale non figurano necessariamente tra gli elementi che l’autorità amministrativa e il giudice devono possedere ai fini dell’esame (art. 3 D.lgs. n. 251/2007), tuttavia, ove ricorrenti, potranno essere poste a fondamento dell’accoglimento della richiesta.
Connesso è il terzo argomento di ordine sistematico per il quale, ove il legislatore avesse voluto creare un legame necessario tra i due tipi di accertamento, lo avrebbe espressamente previsto come è avvenuto all’art. 18 del T.U. Immigrazione.
La Corte di Cassazione è pervenuta alla medesima conclusione, ribadendo che ai fini della protezione internazionale non è indispensabile la verifica della sussistenza di un reato perseguibile ai sensi dell’art. 600 ss. c.p., quanto la verifica in concreto degli elementi sintomatici della tratta e dei rischi ad essa connessi[11]. Invero, il riconoscimento della protezione internazionale si fonda, oggi, anche sull’impiego dei c.d. indici di tratta, i quali non necessariamente coincidono con le risultanze di un procedimento o processo penale[12].
3.1. Status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria: diverse intensità di tutela
Come anticipato, la tratta viene annoverata tra le fattispecie lesive dei diritti umani fondamentali, in particolare della libertà personale, dell’integrità psicofisica e della dignità umana, quale conseguenza della natura asimmetrica delle relazioni tra le vittime e gli schiavisti. Ed infatti, premessa «la complessità […] con cui si articolano le relazioni asimmetriche di sfruttamento di esseri umani», non solo non può vincolarsi il riconoscimento della protezione internazionale all’accertamento penale, ma si impone di non frapporre ulteriori limiti normativi ed interpretativi alla tutela richiesta.
La giurisprudenza di legittimità traccia la linea di confine tra i rimedi dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, da un lato, e della protezione umanitaria dall’altro (artt. 5, comma 6, e 18, D.lgs. n. 286/1998)[13]. Premesso che l’art. 2 D.lgs. n. 251/2007 indica il beneficiario della protezione internazionale nel cittadino straniero cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria; in particolare, si definisce “rifugiato” lo straniero che chiede tutela al ricorrere del timore fondato di essere perseguitato, ex art. 7 D.lgs. n. 251/2007, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore non vuole farvi ritorno.
La protezione sussidiaria, invece, ha natura residuale e concerne il caso dello straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno, da individuarsi, ex art. 14: nella condanna a morte o nell'esecuzione della pena di morte; nella tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, nella minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Diverso regime è previsto per la protezione umanitaria, la quale non attribuisce uno status ed è una misura residuale[14] mirata ad apprestare tutela ai soggetti che versano in una condizione di vulnerabilità, assurgendo a presupposto del rimedio i gravi motivi umanitari[15]. Il rimedio è disciplinato dall’art. 5, comma 6, T.U. Immigrazione, in materia di permesso di soggiorno, la cui lettura va combinata con l’art. 19 e con il principio per il quale il richiedente allontanato o respinto quando ricorre il rischio di persecuzioni o torture (c.d. principio del non-refoulement).
4. I c.d. indicatori di tratta e atti persecutori: l’appartenenza ad un gruppo sociale quale condizione di vulnerabilità
Preso atto delle differenze ontologiche e strutturali tra i diversi strumenti previsti, i giudici di legittimità optano, in via principale, per il riconoscimento dello status di rifugiato alla vittima di tratta, ammettendo in via residuale la possibilità di ricorrere alla protezione umanitaria.
In tal senso, la Corte si attesta lungo due direttrici: da un lato, invoca il c.d. processo di specificazione dei diritti umani nell’età moderna, valorizzando la progressiva evoluzione dei diritti fondamentali dell’uomo e l’affermazione di un sistema multilivello di tutela[16]. L’attenzione dell’interprete si rivolge, infatti, alla collettivizzazione dei diritti, nel senso di una titolarità posta in capo a gruppi sociali in condizione di particolare fragilità e vulnerabilità, tra questi si colloca anche il gruppo “donne” e il relativo sistema di tutela incentrato sulla ampia nozione di “violenza di genere”[17]. Quest’ultima viene intesa «violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere, comprese le violenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica»; nozione che non può non essere integrata dalle aggressioni che le donne subiscono nell’ambito del fenomeno della tratta di essere umani, specie se a scopo di meretricio.
Dall’altro lato, invece, sussume le modalità operative della tratta e le relative violazioni nell’ambito dei requisiti di cui agli artt. 7, 8 e 14 D.lgs. n. 251/2007. Invero, accerta la ricorrenza di un fatto lesivo e di un rischio concreto ed attuale ai fini dell’adozione delle misure necessarie per impedire atti persecutori o danni gravi. Viceversa, difettando un rischio concreto ed attuale – rileva la Corte - si prospetta solo una generica esigenza di riparazione dei danni già subiti, funzione questa che esula dall’ambito della protezione internazionale. Ed infatti, non è sufficiente un rischio generico, posto che le persecuzioni richieste dalla legge devono assurgere, ex art. 3, comma 4, a “serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio di subire danni gravi”.
Orbene, la riconduzione ad un gruppo sociale o etnico vulnerabile, da un lato, e l’accertamento di un rischio concreto ed attuale di persecuzione o di danno, dall’altro, impongono al giudice di merito una valutazione congiunta dei fatti e degli elementi dedotti dalla richiedente, in quanto gravata dall’onere di allegazione c.d. semplificato.
In alcuni casi, tuttavia, la vittima non è in grado di fornire elementi circostanziati oppure, a causa di un processo di vittimizzazione secondaria in atto, non riesce a collaborare con le autorità amministrative e giudiziarie.
Si pone, allora, la questione della corretta e celere identificazione della vittima di tratta[18], gli interpreti interrogandosi sulla tipologia di meccanismi cui far ricorso. Oltre alle fonti e ai documenti normativi e internazionali, specie di soft law, si fa ricorso ai c.d. indicatori di tratta, definiti dalla giurisprudenza di legittimità quali «elementi e circostanze sintomatiche di una determinata situazione e condizione della persona» e che assurgono, specie sotto il profilo probatorio, ad informazioni di carattere generale fornite da organismi nazionali ed internazionali (c.d. procedura di referral).
Tali indicatori, il cui impiego è congiunto all’accertamento circa il rischio di ulteriori atti persecutori, sono strumenti funzionali alla qualificazione giuridica di determinati fatti in termini di tratta di esseri umani: il giudice viene messo nelle condizioni di ricostruire la vicenda personale della vittima, senza tuttavia sostituirsi ad essa. Ed infatti, come sostenuto anche dalla dottrina, gli indici di tratta assurgono ad elementi sintomatici dedotti dall’evoluzione del fenomeno, con particolare riguardo «alle modalità di sfruttamento, [a]l tipo di sfruttamento, [al]le nazionalità dei/delle richiedenti asilo potenzialmente coinvolti/e nella tratta di esseri umani»[19].
La duttilità di tale strumento ha fatto di sì che di esso si facesse frequente impiego in materia di protezione internazionale, consentendo il riconoscimento dello status di rifugiato anche a soggetti vittime di violenza di genere, tanto nell’ambito di contesti familiari quanto criminali.
Va rilevato, inoltre, che la funzione ulteriore degli indicatori di tratta, sotto il profilo probatorio, è quella di superare la eventuale contraddittorietà e scarsa credibilità delle dichiarazioni della vittima, in quanto le stesse possono essere sintomatiche di uno stato di soggezione o timore. Questa modalità di accertamento viene osservato anche nel caso in cui la richiedente neghi la propria condizione o ometta di fornire elementi utili all’accertamento, dovendo il giudice ugualmente seguire la procedura di referral ed adottare tutte le misure che si rendono necessarie.
Ciò premesso, gli artt. 3, 7 e 8 D.lgs. n. 251/2007 e 8 D.lgs. n. 25/2008 impongono al giudice una valutazione su base individuale delle circostanze fattuali dedotte dalla richiedente, in particolare degli atti di persecuzione, i quali devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali.
Tali violazioni assumono diverse forme, tra le quali spiccano anche gli “atti specificamente diretti contro un genere sessuale” che, per la relativa natura sistematica, sono riconducibili ai motivi di appartenenza ad un particolare gruppo sociale.
Orbene, se la tratta a scopo di meretricio è finalizzata allo sfruttamento della donna, posta in essere per il tramite di condotte che vanno dal reclutamento forzato alla riduzione in schiavitù, passando dalla negazione della libertà personale, allora non può negarsi che tali condotte assurgono a violazioni dei diritti umani fondamentali di un gruppo sociale particolarmente vulnerabile, ossia il genere femminile. La vulnerabilità deriva, infatti, non solo dalla sistematicità e dalla asimmetria delle relazioni tra vittime e schiavisti, ma anche dall’approfittamento di una «particolare condizione di debolezza in cui si trovano le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere» (art. 8, lettera d), D.lgs. 251/2007); situazione di debolezza alimentata anche dagli effetti della discriminazione cui possono essere soggette le donne che hanno esercitato l’attività di meretricio.
È evidente come il mancato riconoscimento della protezione internazionale esporrebbe la richiedente ad una palese violazione dei diritti umani fondamentali per il rischio concreto e attuale di esposizione ad atti persecutori, nonché per il pericolo di re-trafficking.
La Corte, infatti, opina per il riconoscimento dello status di rifugiato che meglio si attaglia alla condizione di vulnerabilità[20] e all’esigenza di evitare ulteriori pregiudizi alla vita, alla libertà e alla dignità della richiedente.
4.1. La vittima di tratta assurge alla qualifica di rifugiato: dichiarazioni del richiedente, onere probatorio e iura novit curia
Qualificata la vittima di tratta come rifugiato, ed integrata la condizione di vulnerabilità con l’appartenenza al genere femminile, è necessario soffermarsi sugli aspetti processuali, in particolare sulla valutazione delle dichiarazioni della richiedente e sul dovere di collaborazione del giudice.
Con riguardo alla valutazione delle domande di protezione internazionale, trova applicazione l’art. 3 D.lgs. 251/2007 nella parte in cui pone sulla richiedente l’onere di allegare “tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda” in modo tempestivo e diligente, senza, tuttavia, richiedere la qualificazione dei fatti. Delle dichiarazioni della vittima è opportuno valutare sia la coerenza interna, in base alle informazioni fornite (art. 3, comma 1, D.lgs. n. 251/2007), sia la credibilità estrinseca in virtù di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d'origine al momento della decisione giudiziaria, della dichiarazione e della documentazione presentate, della situazione individuale e delle circostanze personali della richiedente, con particolare attenzione alla condizione sociale, al sesso e all'età.
A tale attività di qualificazione è tenuto il giudice in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, dovendo egli «analizzare i fatti allegati e compararli con tutte le in formazioni disponibili al fine di inquadrarli giuridicamente in modo corretto».
I limiti intrinseci ed estrinseci di questo dovere collaborativo vengono esplicitati in relazione alla natura transnazionale della tratta di esseri umani, al punto da indurre la Corte a sostenere che il giudicante non deve limitarsi alle sole informazioni provenienti dal Paese di origine, ma deve rivolgersi anche a quelle fornite dai Paesi di transito e alle «informazioni sulla struttura del fenomeno, pertinenti ed adeguate ad una corretta ricostruzione dei fatti».
Il fondamento giuridico di tale dovere di collaborazione ufficiosa deve rinvenirsi nel principio iura novit curia, il quale impone al giudice, anche in presenza di dichiarazioni contraddittorie o poco chiare e/o credibili, di operare l’accertamento dei requisiti e di avvalersi delle fonti normative nazionali ed internazionali e degli studi elaborati dalle Agenzie per i diritti umani (come, ad esempio, le Linee guida dell’UNHCR).
Con riguardo ai limiti estrinseci del suddetto dovere, invece, è opportuno osservare che l’intervento del giudice è condizionato dal grado di collaborazione della richiedente: se il narrato è viziato da numerose deficienze probatorie, il giudicante non può supplirvi attraverso l’esercizio dei poteri ufficiosi, essendo rimesso alla richiedente l’onere di indicare i fatti costitutivi per l’individualizzazione del rischio.
Tuttavia, il giudice interviene per contestualizzare i fatti di tratta nel giudizio, nel quale spesso non sono sufficienti le dichiarazioni della richiedente ma è necessario anche il rinvio a fonti esterne, idonee a fornire una spiegazione logica al narrato che appare, prima facie, contraddittorio o poco credibile. Non a caso, infatti, vengono valutate sia le implicazioni di ordine giuridico, sociale ed economico della tratta, sia le condizioni personali della richiedente, anche in applicazione del canone dell’id quod plerumque accidit e delle massime di esperienza[21].
5. Conclusioni
Alla luce del bene giuridico tutelato e della natura preventiva del rimedio, può concludersi che la protezione internazionale è un istituto duttile ed adattabile alle diverse situazioni che si pongono all’interprete. Tali connotati fanno sì che, nell’applicazione della suddetta disciplina, si possa tenere conto di nuove esigenze ed istanze di tutela, riconducibili ai requisiti previsti dalla legge in virtù di una corretta attività ermeneutica.
L’interprete non tralascia l’analisi delle condizioni personali della richiedente, perché costituisce indice di tratta anche l’assenza di capacità di autodeterminazione a causa della condizione di vulnerabilità che la riguarda. I fatti lesivi della vittima assurgono, infatti, a presupposti oggettivi del rimedio quando integrano gli estremi della «grave deprivazione dei diritti della persona afferenti la sfera della dignità personale e dell’autodeterminazione nelle scelte che incidono in modo primario nello sviluppo della personalità individuale».
La capacità di adattamento dell’istituto si riscontra, in particolare, con riferimento alle ipotesi di aggressioni originariamente non considerate dal legislatore, quali quelle ai danni di soggetti omosessuali perseguitati per il proprio orientamento sessuale, i quali accedono alla tutela per soddisfare il proprio diritto a socializzare conformemente alle proprie preferenze e a frequentare un gruppo sociale omosessuale[22]. Rileva, altresì, nell’impiego di una nozione di vulnerabilità flessibile e non rigida e predeterminata, che tiene conto delle condizioni specifiche della vittima[23].
Va osservato, tuttavia, che l’esigenza di calibrare la tutela in questione ha posto ulteriori interrogativi, tra questi se l’allegazione dei fatti costitutivi della domanda debba essere effettuata dalla sola vittima o se sia sufficiente la deduzione del solo difensore, anche se in discordanza con le dichiarazioni della vittima; se, sotto il profilo temporale, il giudice debba tenere in considerazione l’evenienza che la vittima di tratta rappresenti per la prima volta la sua situazione in sede di audizione giudiziale. Ancora, con riferimento al giudizio di credibilità della richiedente, ci si chiede se il giudice, in caso di dichiarazioni inverosimili, incoerenti o contraddittorie, debba dare prevalenza agli indici di tratta e non all’atteggiamento non collaborativo della richiedente; oppure, se la valutazione di credibilità possa essere effettuata solo in modo intrinseco o anche estrinseco, in considerazione del contesto sociale e culturale in cui i fatti si sarebbero verificati[24].
[1] Cass. Civile, Sezione I, del 04.11.2021, n. 676.
[2] Per un approfondimento della disciplina penalistica del delitto di tratta di esseri umani, con particolare riferimento alla differenza tra smuggling e trafficking, V. Militello, La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica della distinzione con il traffico di migranti, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1/2018, pp. 86 ss.; F. Urban, La legislazione penale italiana quale modello di attuazione della normativa sovranazionale e internazionale anti-smuggling e anti-trafficking, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 1/2018, pp. 121 ss.
[3] Per un approfondimento degli strumenti di tutela cfrr. https://temi.camera.it/leg17/post/la_tratta_di_esseri_umani__quadro_normativo_e_statistiche.html?tema=temi/tutela_delle_vittime_dei_reati.
[4] In tal senso, A. Annoni, Gli obblighi internazionali in materia di tratta degli esseri umani, contributo in S. Forlati (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013, pp.1 e ss.
[5] Cosciente di questo percorso, la stessa Corte di Cassazione sostiene che le prime fonti di diritto internazionale hanno dettato una nozione di tratta fondata «sull’osservazione di un fenomeno proprio di alcune epoche storiche, - alcune non troppo remote -, in cui l’acquisto o la cessione di esseri umani era una pratica legale, o comunque tollerata dall’ordinamento».
[6] La Convenzione, in particolare, pone agli Stati parte l’obbligo di adottare misure atte a garantire il rispetto del divieto di riduzione in schiavitù, servitù e lavori forzati, ex art. 4 CEDU, condotte queste riconducibili all’«obbligo, imposto con mezzi coercitivi, di fornire a taluno un determinano servizio, cui si accompagnano una notevole restrizione della libertà personale e la sottoposizione a forme penetranti di controllo». In tal senso, Corte EDU, 7 gennaio 2010, Rantsev c. Cipro, ricorso n. 25965/04. Per Corte EDU, 7 marzo 2000, Seguin c. Fracia, ricorso n. 42400/98.
[7] Esaustiva è la definizione di cui all’art. 3, lettera a), Protocollo Addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale.
[8] Per una valutazione delle tradizioni culturali di un certo gruppo etnico nell’ambito del giudizio, si richiama D. G. Carbonari, Riduzione in schiavitù e costrizione o induzione al matrimonio: la Cassazione esclude la successione di leggi penali nel tempo, 14 gennaio 2022, in questa rivista.
[9] Corte Cost., 19 giugno 1969, n. 104, e da Corte Cost., 8 giugno 2000, n. 198.
[10] Non rileva neppure il neo introdotto comma 3 bis dell’art. 32 D.lgs. n. 25/2008, il quale prevede un meccanismo di valutazione rimesso all’intervento del Questore nel caso in cui emergano fondati motivi di ritenere che il richiedente sia stato vittima dei delitti di cui agli artt. 600 e 601 c.p.
[11] Conferma la posizione anche Corte EDU, 25 giugno 2020, ric. n. 60561/14.
[12] Diversamente, anche in virtù dell’evoluzione giurisprudenziale e della prassi del settore, si ritiene che i suddetti indicatori possano essere impiegati anche in ambito penale, nella specie quando il giudice è chiamato ad interpretare i fatti a lui sottoposti e a sussumerli in una delle fattispecie penali previste. In tal senso, M. G. Giammarinaro e F. Nicodemi, Aggiornate le linee guida per l‘identificazione delle vittime di tratta, in Rubrica “Diritti senza confini”, 19.05.2021.
[13] Le differenze attengono anche alla durata della misura: lo status di rifugiato ha natura permanente, mentre la protezione sussidiaria ha durata quinquennale ed è rinnovabile. Le suddette misure possono essere revocate al ricorrere di seri motivi. Quanto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, la misura ha durata annuale ed è anch’essa rinnovabile. Diversa è, inoltre, l’autorità che riconosce la tutela.
[14] Ex multis, Cass., Sez. Un., 13 novembre 2019, n. 29459; Cass. Sez. III, 27 luglio 2021, n. 21522. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito, infatti, che «la protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica ("status" di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l'espulsione e debba provvedersi all'accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità».
[15] Nella prassi, si evincono le ipotesi dei minori stranieri non accompagnati o soggetti in fuga da conflitti armati.
[16] Descrivono questa fase della tutela dei diritti umani N. Bobbio, Dalla priorità dei doveri alla priorità dei diritti, in Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, Einaudi, 1999, p. 437. L. Baccelli, Una rivoluzione copernicana: Norberto Bobbio e i diritti, in Jura Gentium - Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, 2009.
[17] Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia con legge 27 giungo 2013, n. 77.
[18] Lo Stato deve assolvere all’obbligo di adottare tutte le misure idonee all’identificazione delle vittima, in conformità alla Direttiva europea 2011/36/CE, art. 11, paragrafo 4.
[19] M. G. Giammarinaro e F. Nicodemi, Aggiornate le linee guida per l‘identificazione delle vittime di tratta, cit. Per un approfondimento del tema, v. la nuova edizione delle Linee Guida del 2020.
[20] Per un approfondimento sulla declinazione della nozione di condizione di vulnerabilità, in dottrina E. Rigo, La vulnerabilità nella pratica del diritto d’asilo: una categoria di genere?, in Etica & Politica / Ethics & Politics, XXI, 2019, 3, pp. 343-360.
[21] Da ultimo, Cass., Sez. I , 10.03.2021, n. 6738 discute di “procedimentalizzazione legale della decisione”, nel senso di richiamare una «valutazione che non affidata alla mera opinione del giudice», esulando, quindi, dalle convinzioni personali fondate solo su canoni di plausibilità/implausibilità o inverosimiglianza. Il ricorso alle fonti esterne al giudizio, proprio perché procedimentalizzato, impone al giudice di dare atto nella motivazione del provvedimento del tipo di autorità o ente da cui promanano le informazioni, della data di pubblicazione e della pertinenza, quest’ultima intesa come idoneità delle fonti a rappresentare l’attualità di un rischio di atti persecutori già subiti o diversi da questi (nello stesso senso anche Cass., Sez. III, 03.02.2021, n. 2466).
[22] Cass., Sez. I, 02.12.2021, n. 38101.
[23] Corte edu, sentenza del 25 giugno 2020, ricorso n. 60561/14. In dottrina, F. Nicodemi, l’identificazione delle vittime di tratta e i confini per il riconoscimento delle diverse forme di persecuzione, in Diritti senza confini, 24.12.2021. In giurisprudenza, Cass., Sez. I, 28 ottobre 2021, n. 30402.
[24] Interrogativi, questi, sollevati da Cass., ord. Sez. I, 30.04.2021, n. 11495.
Ricordo di Liliana Ferraro
di Livia Pomodoro
Con Liliana Ferraro ci lascia un altro grande protagonista di quella irripetibile stagione, il biennio 1991-1993, che qualcuno ha definito del “coraggio di Stato” e che lei aveva contribuito a preparare, al fianco di Giovanni Falcone, proprio curando la logistica di allestimento dell’aula bunker del cosiddetto maxi-processo (475 imputati) a cosa nostra, iniziatosi il 10 febbraio 1986 e terminato con la sentenza finale della Corte di Cassazione, il 30 gennaio 1992.
Ma il profilo istituzionale di Liliana, dopo la laurea in Giurisprudenza a Napoli, si delinea assai presto. Entrata in magistratura nel 1970 e assegnata al Tribunale di Lodi, approda ben presto al Ministero di Grazia e Giustizia (1973): qui segue la riforma dell’ordinamento penitenziario e del codice di procedura penale. Tra il 1974 e il 1980 rivestirà poi l’incarico di responsabile del coordinamento tra il Ministero di Grazia e Giustizia ed il Nucleo Antiterrorismo del Generale Dalla Chiesa. In questa veste cura anche i profili normativi previsti dagli accordi internazionali e le relazioni con il Consiglio d’Europa per la Convenzione per la lotta al terrorismo.
Dal 1980 al 1983 una nuova esperienza: presso la Corte Suprema di Cassazione. E poi di nuovo al Ministero di Grazia e Giustizia: collabora con il pool antimafia di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino al quale fornisce mezzi e strutture per la lotta alla criminalità. È in questa sua nuova veste che sovrintenderà, come sopra ricordato, alla costruzione dell’aula bunker, una futuristica “astronave” blindata in grado di contenere in sicurezza migliaia di persone tra imputati, avvocati, giornalisti da tutto il mondo, il pubblico.
Nel 1991 poi è nominata Vice Direttore Generale del Ministero di Grazia e Giustizia, al fianco di Giovanni Falcone. Con il ministro Claudio Martelli daremo il via ad una stagione di fortissimo impulso, nella legislazione e nella nuova architettura di contrasto al crimine organizzato transnazionale, che neppure la strage di Capaci riuscirà a fermare. Dopo l’assassinio di Falcone, nell’agosto del 1992, Liliana ne prenderà il testimone con la nomina a Direttore Generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Sarà il settembre nero degli arresti di mafia, sarà la cattura di Totò Reina. Quello stesso anno riceverà il premio di “Europeo dell’anno”, per l’attività svolta in Europa.
Nel 1994 sarà, a Napoli, Coordinatore Nazionale per la preparazione e l’organizzazione della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata transnazionale. Dal 1996 al 2003 è Consigliere di Stato. È stata poi socio fondatore e Segretario Generale della Fondazione “Giovanni e Francesca Falcone”. Per molti anni Liliana, nel segno dell’amicizia con Giovanni Falcone e Gianni De Gennaro, ha seguito le attività del Centro Studi Americani, del cui Consiglio di Amministrazione ha fatto parte. E nel 2001 è nominata Assessore alle Politiche per la Sicurezza, alla Polizia Municipale ed Avvocatura del Comune di Roma. Dal 2015 ricopriva il ruolo di Presidente dell’Organismo di Vigilanza della Società Aeroporti di Roma.
Liliana è stata sempre una protagonista anche contro e in mezzo a tanti pericoli e minacce. Da ultimo, nonostante la malattia e le sofferenze che ha patito, non ha mai smentito il suo essere una forte donna dedita al bene comune, con una concezione del suo ruolo istituzionale che è stata e sarà di esempio per le future generazioni.
Se ne va con lei un’amica. Insieme, penso, siamo state capaci di interpretare un percorso di cambiamento negli organismi giudiziari ancora oggi presidio di legalità. Combattenti e combattute abbiamo insieme affermato una prima presenza delle donne nell’universo giudiziario di questa Italia, senza retorica e con l’orgoglio di poter affermare che solo il merito ci avrebbe potuto premiare.
Sono certa che il testimone che Liliana ci ha consegnato ha e avrà un altissimo valore morale e noi lo conserveremo come il suo dono più prezioso.
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