ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Alla ricerca di un accesso effettivo e proporzionato alla risorsa giurisdizionale: la brutta pagina della stretta legislativa alla c.d. impugnativa degli estratti di ruolo
di Alberto Marcheselli
1. Oggetto di queste brevi riflessioni è la recente novella in materia di impugnabilità degli estratti di ruolo e impugnabilità c.d. diretta dei ruoli e delle cartelle asseritamente non validamente notificate.
L’esclusione della impugnabilità dell’estratto di ruolo è invero assai poco problematica. L'oggetto della disposizione è chiaro: disciplina gli atti impugnabili davanti al giudice tributario, escludendo dal novero l'estratto di ruolo.
Il contenuto della disciplina è altrettanto chiaro e in piena continuità con la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno riconosciuto che l'estratto di ruolo è un'attestazione da cui risultano dei provvedimenti, ma non è un provvedimento in sé, e quindi non è impugnabile.
Norma chiara, non innovativa e certamente non foriera di problemi di diritto intertemporale: tale regime era già proprio del diritto vigente.
2. I problemi sono altri e derivano dal fatto che dall'estratto di ruolo - in quanto attestazione -risultano altri provvedimenti: in particolare, ad esempio, una iscrizione a ruolo e, eventualmente, cartelle di pagamento, o altri atti del procedimento impositivo.
Il problema, allora, non è se sia impugnabile l’estratto di ruolo ma:
1) se la conoscenza derivante dall'accesso all'estratto di ruolo consenta l'impugnazione di atti precedenti ignorati, senza dover attendere, ai sensi dell’art. 19, comma 3 d. lgs. 546/1992, la notificazione di atti successivi eventuali, come ad esempio il pignoramento;
2) se la acquisita conoscenza dell’estratto di ruolo consenta la rimozione di iscrizioni pregiudizievoli, indipendentemente dall’esistenza di altri atti precedenti non conosciuti, per esempio la cancellazione dal ruolo di pretese cadute in prescrizione.
La novella, nella sua seconda parte, si occupa di questo e in particolare di quanto sub 1) (lasciando invece scoperto il non lieve problema della tutela delle situazioni sub 2) ed ha sicuramente una portata innovativa alla luce della giurisprudenza pregressa delle sezioni unite della Corte di Cassazione, in particolare della sentenza 19704 del 2005.
A mente di essa, attendere la notifica di un atto successivo non è l'unica via per ottenere tutela in caso di omessa notifica dell'atto precedente. In tale caso è possibile infatti - deve essere possibile, dice la Corte di Cassazione, in base a una interpretazione costituzionalmente orientata - impugnare anche se l'atto precedente di cui si contesta la notifica viene ad essere conosciuto per esempio attraverso l'estratto di ruolo. Le Sezioni Unite riconoscono che questa ammissione della tutela è una tutela efficiente e costituzionalmente dovuta, perché adeguata sia alla tutela delle ragioni del singolo, sia perché realizza anche il principio di buon andamento della pubblica amministrazione: può impedire l'avanzamento di un procedimento illegittimo, che poi andrebbe incontro ad un'eventuale annullamento, con dispersione anche della risorsa amministrativa.
Si tratta, insomma, di un uso proporzionato e buono della risorsa giurisdizionale.
Questa giurisprudenza è, inoltre, sistematicamente coerente con quella, parallela, che consente l'impugnazione dei cosiddetti avvisi bonari: anche in quel caso si tratta della possibilità di ottenere tutela anticipatamente, in modo efficace e produttivo, evitando l'emissione di provvedimenti che potrebbero comunque essere annullati.
Profilo non univoco, invece, era semmai se questa impugnazione facoltativa dovesse esercitarsi entro un termine. In senso positivo, ad esempio, la sentenza 23076 del 2019.
In ogni caso era tendenzialmente acquisito che la impugnazione degli atti conosciuti per il tramite dell'estratto di ruolo (e non dell'estratto di ruolo) fosse consentita e fosse facoltativa.
3. La novella, quindi, nella parte in cui limita la possibilità di impugnare gli atti conosciuti attraverso l'estratto di ruolo è sicuramente innovativa.
Essa fa riferimento all'impugnazione diretta che tutti interpretano - più propriamente - come impugnazione immediata, cioè autonoma e non associata all'impugnazione di un atto successivo. In sostanza, l'impugnazione diretta sarebbe un'impugnazione diversa da quella prevista dall'articolo 19 comma 3 del decreto sul contenzioso: è possibile impugnare senza attendere che sia notificato l'atto successivo.
La norma fa, poi, un riferimento alla dimostrazione di un interesse qualificato. Anche quanto a questo aspetto, si tratta di una terminologia abbastanza inusuale - e forse impropria: nel processo non si danno dimostrazioni ma si forniscono prove, si formulano allegazioni e si prospettano argomentazioni.
4. Esaurita questa premessa si affrontano innanzitutto tre problemi: il primo problema è se questa impugnazione, alla luce della nuova disciplina, rimanga tuttora una impugnazione facoltativa; il secondo problema è se, per questa impugnazione facoltativa, sia previsto un termine di esercizio; il terzo problema è se questa impugnazione, o meglio se questa nuova disciplina, sia applicabile anche i processi in corso.
Per quanto riguarda il primo problema, l'alternativa, se ben si intende, è tra ritenere che gli atti conosciuti di cui la nuova disciplina si occupa siano impugnabili facoltativamente oppure ci sia un onere di impugnarli a pena di decadenza.
Per una tesi, l'impugnazione non sarebbe più facoltativa ma il contribuente ne sarebbe onerato, se vuole contestare l’atto di cui è così venuto a conoscenza.
Se non ci si inganna, ciò significa che, sussistendo l'onere di impugnarlo, l'atto, se non impugnato in questa sede, non sarebbe più contestabile.
A questa soluzione possono opporsi alcune obiezioni.
La prima è che la norma, in effetti, non lo dice affatto. La disposizione si limita ad affermare che quegli atti sono suscettibili di impugnazione diretta solo se c’è un interesse qualificato. Non che quegli atti sono suscettibili solo di impugnazione immediata. Ergo, l'impugnazione autonoma anticipata è ancora ammissibile, ma in ipotesi più restrittive rispetto all'apertura che era stata effettuata dalle Sezioni Unite. Ciò non pare voglia significare che ora è possibile solo l'impugnazione anticipata, ma solo che l'impugnazione anticipata resta possibile in ipotesi più ristrette.
Per usare una metafora …autostradale, pare che la novella equivalga a una disciplina innovativa del regime del traffico. Premesso che, per andare da Genova a Roma, si può passare da La Spezia o da Voghera e Piacenza, l'intervento legislativo equivale a una prescrizione che stabilisca che, visto che le autostrade liguri sono i condizioni tragiche, è consentito passarci soltanto per ragioni di stretta necessità. Ma una disposizione che dicesse che per La Spezia si passa solo per ragioni necessità non vuol dire che… si sia obbligati a passare dalla Spezia. Soltanto che, se si vuol passare dalle 5 Terre, bisogna dimostrare di avere una ragione speciale.
5. E non basta, non solo questa ipotesi pare fuori dall’area semantica e logica della disposizione, ma pare crei non pochi problemi applicativi.
Facciamo qualche esempio.
Se Tizio acquisisce l'estratto di ruolo e ha l'onere di impugnare l’atto sottostante, la prima domanda è: l'ha sempre questo onere, anche se non ha l'interesse qualificato? Se rispondiamo di si, dalla richiesta dell'estratto di ruolo fatta in assenza dei particolari casi di interesse qualificato scatterebbe una specie di roulette russa. Se si sceglie di non impugnare perché non sussiste l’interesse, scatterebbe il rischio di perdere il diritto di impugnare l'atto (che, magari, era ingiusto): sussisteva l'onere di impugnarlo e non lo si è adempiuto. Se, invece, l’impugnazione interviene, si deve sperare che sopravvenga l'interesse, sennò si va incontro a una pronuncia di inammissibilità. E, di nuovo, non è che si consolida il provvedimento?
Se così fosse, si avrebbe una sorta di sanzione per la curiosità: la richiesta dell’estratto di ruolo troppo presto comporterebbe delle potenziali conseguenze sfavorevoli.
Ovviamente, la soluzione potrebbe essere anche diversa: che l’onere scatti solo se sussisteva l'interesse qualificato. Ma ciò crea una situazione alquanto arzigogolata: se si impugna successivamente si potrebbe veder opposta una eccezione così fondata: a) è intervenuta decadenza perché era stato chiesto un estratto di ruolo quando b) sussisteva l’interesse qualificato. Cioè, a ritroso, bisognerebbe accertare se e quale estratto di ruolo era stato rilasciato, e che interessi sussistevano allora: un accertamento di difficile gestione. Non solo una interpretazione forzata, ma anche una soluzione molto complessa da gestire anche in giudizio.
E non basta: si supponga che Tizio impugni l’atto sotteso all’estratto di ruolo e sia titolare dell’interesse qualificato previsto la legge, ma che questo interesse venga meno, durante il processo, perché, per esempio, nel frattempo vengono risolte le pendenze con l'amministrazione. Ne dovrebbe conseguire che, venuto meno l’interesse, non si avrebbe più diritto ad ottenere una decisione (viene meno una condizione dell’azione). Ma anche qui sorge l’interrogativo: dato che il provvedimento poteva essere impugnato – a pena di decadenza - solo nella sede anticipata, esso dopo non è più impugnabile? Cioè, il venir meno e dell'interesse priva definitivamente del diritto di impugnare il provvedimento (che magari era ingiusto)? Oppure, se viene meno l'interesse, si riespande la possibilità di impugnare successivamente?
Appare evidente che la seconda è la conclusione equa.
Tra l’altro, questo problema la nuova disciplina lo determina sempre… se anche non sussiste l’onere di avanzare la impugnativa facoltativa ma essa viene proposta, cosa succede se viene meno l’interesse? Viene meno il diritto alla decisione. Ma non è più consentito impugnare, né facoltativamente, né insieme agli atti successivi?
La soluzione non può essere questa.
Ma, allora e addirittura, la regola nata per diminuire i processi li raddoppierebbe!
6. In realtà, a risolvere la questione dovrebbe bastare la logica giuridica.
La logica giuridica ci dice che questo intervento normativo intende limitare le impugnazioni anticipate: affermare che ora si tratterebbe delle uniche forme di impugnazione consentite non è affatto implicato nell'obiettivo di limitare le impugnazioni anticipate, ma è una cosa completamente diversa. Il legislatore ha limitato le impugnazioni facoltative, non ha abolito le impugnazioni facoltative.
Tra l'altro, se fossero abolite, per coerenza sistematica dovrebbe essere non più possibile avanzare nessuna impugnazione facoltativa, quindi neppure avverso gli avvisi bonari e simili.
Nuovamente, si tratta di una deriva concettuale scivolosa e contraddittoria rispetto alle finalità, atteso che, tra l’altro, incentiverebbe il contenzioso: nel dubbio indurrebbe a impugnare qualsiasi atto, anche la comunicazione più informale, nel timore di incorrere in (inesistenti) decadenze.
7. Il secondo problema è se ci sia un termine di decadenza per l'impugnazione.
Ovviamente sì, cioè esso deve sussistere, se la si ritiene oggetto di onere, è invece incerto se la si ritenga facoltativa.
Per vero, in questo secondo caso potrebbero non sussistere ragioni sistematiche per ritenere, in radice, che il termine vi debba essere.
E comunque il problema, forse, non dovrebbe essere drammatizzato.
Il termine perentorio serve a dare certezza, ma l'esigenza di certezza scatta se dall'altro lato vi è un provvedimento idoneo a diventare definitivo. Esiste una simmetria: l'ente procedente ha fatto tutto quello che serve per rendere la pretesa definitiva e il contribuente può contestarla, ma entro un termine di decadenza, oltre il quale il provvedimento è definitivamente consolidato.
Quando, in ipotesi, l'atto non sia notificato, o meglio si contesti che non sia stato notificato, pare mancare il presupposto per la necessità della decorrenza di un termine di decadenza.
Non solo, anche ammettendo che il termine vi sia, verrebbe da domandarsi: se non interviene impugnazione ma poi viene ottenuto un altro estratto di ruolo, quale è la ragione per cui non dovrebbe aprirsi la finestra per impugnare, se la prima impugnazione, facoltativa, non è avvenuta?
L’obiezione è: con la conoscenza si deve consumare la facoltà di impugnazione anticipata.
Ma si potrebbe anche ragionare diversamente, senza perdere di alcuna coerenza sistematica: il fine da realizzare è evitare impugnazioni pretestuose e che si sprechi risorsa giurisdizionale, cioè si instaurino cause pretestuose o si moltiplichi la tutela. È allora facile osservare che, fino a quando non c’è stata impugnazione, non c’è, per definizione, stata alcuna impugnazione pretestuosa o una doppia tutela.
Insomma, escludere un termine pare soluzione a) coerente con la giurisprudenza delle Sezioni Unite e b) coerente con la ratio di sistema.
Non solo, la previsione di un termine riporta alle aporìe di cui sopra. Da quando decorre il termine? Dall'estratto di ruolo? Ma potrebbe non sussistere l’interesse! Dal sorgere dell'interesse? Ma non è elemento semplice da accertare, specie ai fini della decorrenza di un termine (che dovrebbe essere una questione di pronta soluzione).
Pare che non dovrebbero essere confuse le istanze di una pubblica amministrazione non perfettamente efficiente (che porta a mal sopportare le richieste di accesso agli atti e, quindi, a trovare meccanismi per scoraggiarle) con le finalità di giustizia, che coincidono con lo scoraggiare (non la conoscenza degli atti ma) l'impugnazione pretestuosa o duplicazioni di tutela, perché la giustizia è una risorsa scarsa che va usata con raziocinio.
8. Il terzo problema da risolvere è, poi, quello dell'efficacia nel tempo della nuova disciplina.
La finalità della norma non è risolutiva: essa è deflazionare il processo tributario, ma indubbiamente deflaziona il processo tributario anche ritenere che la restrizione si applichi solo per il futuro. Deflaziona di meno, ma deflaziona.
È quindi necessario ricorrere ad altri argomenti: l'oggetto della disciplina e la sua natura.
Quanto all'oggetto va detto quanto segue.
Se la norma disciplinasse l'atto impugnabile, essa varrebbe solo per il futuro, idem se disciplinasse il ricorso, il suo contenuto, la sua presentazione. Taluno opina che siano disciplinati gli effetti del ricorso e gli effetti del ricorso non potrebbero cambiare dopo che il ricorso è stato presentato, quindi la disciplina non potrebbe applicarsi ai processi già instaurati. Per vero, ciò appare dubbio. In effetti, la disciplina sembra regolare il diritto di avere una decisione. Esso presuppone il ricorso, ma non è affatto detto che sia garantito per il solo fatto di presentare ricorso e dalla situazione di fatto e di diritto a quel momento esistente (basti pensare alla cessazione della materia del contendere).
Se la nuova disciplina concernesse la decisione, si applicherebbe, invece, sicuramente anche i procedimenti in corso.
Se invece riguardasse un atto processuale, essa si applicherebbe agli atti processuali ancora da compiere.
Non pare che la nuova disciplina disciplini alcunché di tutto ciò: non il ricorso, non la presentazione, non la decisione, non atti processuali.
Neppure i motivi, come pure autorevolmente sostenuto, atteso che i motivi sono le ragioni di illegittimità e infondatezza dell’atto impugnato, mentre qui si tratta del perché si impugna in un senso diverso da quale difetto si fa valere: per evitare quale lesione. Altrimenti, sarebbe un motivo (di impugnazione di una sentenza) anche la soccombenza, quando è evidente che potrebbe essere sbagliata una sentenza che mi dà ragione (e quindi esserci motivi, ma non l’interesse) ovvero esserci l’interesse (perché soccombenti) ma la sentenza essere perfetta (e quindi mancare lo spazio per motivi fondati).
Appare chiaro che si tratta di una disciplina dell’interesse ad agire.
Per altro verso, il problema sarebbe meno complesso se l'oggetto della disciplina fossero non atti, ma la interpretazione delle norme e la sua natura fosse interpretativa. Se infatti la norma fosse interpretativa essa si applicherebbe anche ai fatti precedenti e il problema si ridurrebbe a verificare se si tratti di una interpretazione costituzionalmente legittima, in quanto non sorprendente. La disposizione, però, non si presenta come interpretativa, ma appare palesemente innovativa, in quanto volta a modificare l’assetto del diritto vigente.
Se, allora, essa è una nuova disciplina dell'interesse ad agire, poiché l'interesse ad agire è una condizione dell'azione che deve sussistere fino al momento della decisione, essa è suscettibile di applicazione anche ai processi in corso: se è una regola di economia della risorsa giurisdizionale, essa si dovrebbe applicare processi in corso: consente di non disperdere energie processuali, decisionali, motivazionali per fattispecie non valutate più come meritevoli.
9. Tanto premesso, però, ci sono almeno due ulteriori considerazioni da fare.
La prima si appunta sul fatto che va valutato se sia differente l’ipotesi in cui sia iniziato un processo utile perché sussisteva l'interesse, che poi diventi inutile perché l’interesse viene meno (in questo caso è pacifico che non ci sono ostacoli concettuali a fermare il processo), rispetto alla ipotesi in cui, senza che cambi la situazione di fatto che rappresenta l'interesse, cambi la regola sulla soglia di interesse da ritenere meritevole. Per ricorrere nuovamente a una metafora banale, si tratta dell’equivalente, per esempio, a una modifica in itinere delle regole per la partecipazione a una gara olimpica. Si ipotizzi che in origine, per qualificarsi alla gara di salto in alto, fosse richiesto un salto di 2 m, e poi sia elevato a 2,20 m. La questione equivale a domandarsi se chi fosse qualificato e sia sul punto di partecipare alla gara possa esserne escluso. A rigore, se si tratta di disciplinare l’uso proporzionato della risorsa, la regola può cambiare anche durante l'uso della risorsa e fino a che non è esaurito. L’applicazione della nuova regola fa comunque risparmiare risorse. Nel processo risparmia, quantomeno, motivazione.
Secondo una diversa impostazione, che venga meno l'interesse ad agire in fatto sarebbe una cosa: il processo è diventato inutile, mentre, se cambia la valutazione dell'interesse ad agire, sussisterebbe una limitazione del diritto di azione, che non potrebbe colpire i processi in corso. Non sarebbe una variazione dell'interesse ad agire ma una limitazione del diritto di azione: chi assume questa posizione assume che l'interesse continui ad esserci ma, da un certo punto in poi, non gli corrisponderebbe più la possibilità di agire.
La questione diviene sottile e dubbia: un tale tipo di norma fa venir meno l’interesse o limita le possibilità di tutelare l’interesse? A questa seconda tesi può, in effetti, obiettarsi che l'interesse ad agire è sempre una nozione e fattispecie giuridica: ha una componente fattuale e una componente di qualificazione. Non è un fatto mero, quindi, perché sussiste interesse ad agire solo se l'ordinamento lo riconosce: quindi, se viene meno perché viene valutato diversamente, viene comunque meno la fattispecie rilevante. Per la diversa opinione, invece, modificare la soglia rilevante, in assenza di mutamenti dello stato di fatto, sarebbe operazione sul diritto di azione, che non potrebbe restringersi a processo in corso.
Incidentalmente, può rilevarsi che è abbastanza anomalo che sia legislatore a operare questa valutazione, atteso che di norma essa è affidata al saggio apprezzamento del giudice.
10. Giunti fin qui, la questione resta molto sottile e aperta.
Forse, tuttavia, i criteri fin qui individuati non sono decisivi o potrebbero risultare assorbiti da ulteriori considerazioni.
In effetti, si tratta di un intervento normativo che, non solo non è né dichiaratamente né sostanzialmente interpretativo, ma è – addirittura – una radicale inversione rispetto alla giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione. Non vi era un ragionevole dubbio interpretativo e si tratta di un radicale sovvertimento delle regole della partita. Si potrebbe pertanto ipotizzare che la partita deve avere delle regole stabilite fino, che le regole del gioco non possano cambiare a partita in corso. Per ricorrere all’ennesima metafora, questa fattispecie pare equivalere a quella in cui, dopo un incontro di calcio finito uno a zero, le squadre siano informate del fatto che per ottenere la vittoria è necessario uno scarto di due reti. Non si tratta di una situazione equivalente a una revisione al VAR delle immagini, per affermare che il goal era in fuorigioco, oppure che un tiro dell'avversario aveva superato la linea di porta e, quindi, in realtà la partita è finita in pareggio. In tali ultimi casi non cambiano le regole, mentre nel primo, e nel caso della riforma dell’interesse, esse cambiano. Esse cambiano in modo del tutto sorprendente e irrimediabile.
E ciò non basta, c’è anche un terzo fattore, cioè ragionevolezza e proporzionalità. Non solo si tratta di una modifica sorprendente, ma di una modifica di dubbia razionalità, sotto molteplici profili. Innanzitutto, rispetto alle premesse sistematiche e logiche.
La dichiarata ratio dell’intervento riformatore è l’eccesso di impugnazioni pretestuose e riferite a crediti antichi, prescritti, insuscettibili di esecuzione.
È fin troppo facile rilevare due cose.
La prima è che, se il problema sono le impugnazioni pretestuose, la soluzione è scoraggiarle o contrastarle, non limitare le possibilità di tutela di chi non abusa della risorsa giurisdizionale. Gli strumenti esistono (una condanna alle spese, eventualmente per lite temeraria) o sono facilmente realizzabili. Ad esempio, perché non ritenere onerato chi eccepisce un vizio di notifica dal compito di fare un accesso agli atti per ottenere informazioni sulle notifiche intervenute? Se gli viene fornita copia di una notifica valida la lite può essere temeraria, in caso di evidenza. Se non ottiene alcuna informazione non può essere ritenuta pretestuosa la lite. Se no, la riforma apparirebbe tragicamente equivalente a stabilire, rilevato che i pronto soccorso sono affollati di persone che si fingono invalide per non lavorare, che al pronto soccorso si possano presentare soltanto le persone colpite da infarto ma non le vittime degli incidenti stradali. L’abnormità della scelta è manifesta.
La seconda evidente illogicità è che l'altra giustificazione sistematica della novella legislativa riposa sul fatto che i ruoli, non essendo aggiornati, recano molti titoli prescritti e insuscettibili di esecuzione, di tal che l’impugnazione per difetto di notifica dell’atto impositivo sarebbe sostanzialmente inutile. Ora, a tacere del fatto che la permanenza di un debito inesistente nel ruolo è in se un elemento lesivo degli interessi del debitore, per il quale, tra l’altro, risulta tutt’ora difficile trovare un rimedio e una giurisdizione, sta il fatto che l’intervento normativo difetta ancora una volta macroscopicamente di proporzionalità. Se la causa è il mancato aggiornamento dei ruoli ciò si corregge obbligando alla tenuta in ordine dei medesimi, non limitando le possibilità di azione di coloro che (anche del disordine dei ruoli) sono vittime. È sufficiente por mente al fatto che iscritti a ruolo non sono soltanto evasori e delinquenti ma anche - non importa quanti - contribuenti onesti che non hanno ricevuto la valida notifica di un provvedimento errato (o comunque non sono più debitori). Ebbene, non pare assolutamente né proporzionato né equo far attendere a costoro un eventuale pignoramento (o continuare a subire gli effetti di una iscrizione non più corrispondente a un titolo esistente) solo perché altri impugnano pretestuosamente (o perché gli enti non aggiornano periodicamente i ruoli).
In definitiva, la novella legislativa difetta gravemente di logica sistematica e di proporzionalità, tanto da essere di assai dubbia costituzionalità, per cui la più robusta ragione per risolvere il problema del l'efficacia intertemporale è che si tratta di limitare la applicazione di una normativa che, già solo per questi motivi, oltre che per quelli relativi alla irragionevole selezione degli interessi che attribuiscono il diritto alla tutela, appare contraria alla Costituzione.
La Grande Sezione della Corte di giustizia elabora (finalmente) un test unico per il ne bis in idem[1]
di Marco Cappai e Giuseppe Colangelo
Sommario: Premessa - 1. L’acquis Schengen - 2. Lo statuto speciale del diritto antitrust e la (prima) occasione persa per giungere a un’unificazione del test sull’idem - 3. Ne bis in idem 2.0: l’arresto A & B c. Norvegia e la giurisprudenza Menci - 4. La (seconda) occasione persa dal diritto antitrust per giungere a un’unificazione del test sull’idem - 5. I rinvii pregiudiziali bPost e Nordzucker - 6. Le pronunce della Grande Sezione: l’unificazione del test sull’idem - Conclusioni.
Premessa
Il divieto di bis in idem (o double jeopardy) di diritto europeo – introdotto dall’art. 54 della Convenzione di Schengen (CAAS)[2] con l’intento di creare un’area di libertà, sicurezza e giustizia[3] – è oggi codificato all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFEU), che, con il Trattato di Lisbona, assume portata vincolante per l’Unione e per gli Stati membri[4]. Il campo di applicazione territoriale della garanzia è più ampio rispetto alla protezione accordata dall’art. 4, Protocollo 7 Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), caratterizzata da una portata interna allo Stato firmatario. Mentre la Convenzione richiede che la violazione si radichi all’interno della medesima giurisdizione (nel senso che i due procedimenti giudiziari e/o amministrativi devono essere avviati, avverso lo stesso soggetto, dallo stesso Stato), il ne bis in idem europeo vincola le istituzioni e gli organi euro-unitari, unitamente agli Stati membri e le relative articolazioni, nella misura in cui questi diano attuazione, anche in diversi territori, al diritto dell’Unione[5].
Secondo la dottrina internazionalista, l’esperienza europea costituisce il primo caso di applicazione transnazionale del principio in parola.
I diritti codificati nella Carta devono essere interpretati in modo conforme ai corrispondenti diritti enucleati dalla Convenzione[6].
Uno dei contributi maggiori forniti dalla la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) alla costruzione del ne bis in idem europeo è quello dell’estensione della garanzia penalistica in parola anche alle sanzioni amministrative di natura “sostanzialmente penale”[7], tra le quali sono pacificamente annoverabili, ad esempio, le ammende antitrust[8].
1. L’acquis Schengen
Nonostante la dichiarata convergenza d’intenti e di scopo, il dialogo tra la Corte di giustizia (CGUE) e la Corte EDU si è sovente caratterizzato per un approccio autonomo del Giudice di Lussemburgo (c.d. Charter-centrism).
In tale contesto, tradendo in qualche modo il ruolo di institutional empowerment che tipicamente le appartiene in sede pregiudiziale, la Corte ha graduato l’intensità della garanzia di ne bis in idem in funzione della policy area volta per volta interessata, dando a lungo vita a un mosaico frammentario di tutele, non esente da critiche. Da un lato, nella materia penale in senso classico[9] la CGUE ha applicato l’art. 54 CAAS accogliendo una nozione materialistica del concetto di idem, da intendersi quale idem factum. Essa ha in particolare statuito che “l’unico criterio pertinente ai fini dell’applicazione dell’art. 54 della CAAS è quello dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro”[10]. Nel corso degli anni, in forza dell’art. 50 CDFUE tale approccio è stato esteso – si dirà – anche alle sanzioni amministrative di carattere punitivo irrogate, ad esempio, a seguito della violazione di oneri dichiarativi in materia di imposta a valore aggiunto o di inosservanza degli obblighi di trasparenza vigenti nei mercati finanziari.
2. Lo statuto speciale del diritto antitrust e la (prima) occasione persa per giungere a un’unificazione del test sull’idem
Dall’altro lato, in materia antitrust si è affermato un orientamento più stringente, che declinava la nozione di idem secondo il criterio dell’idem crimen. Segnatamente, si è a lungo affermato che l’applicazione del principio del ne bis in idem in ambito concorrenziale “è soggetta ad una triplice condizione di identità dei fatti, di unità del contravventore e di unità dell’interesse giuridico tutelato. Tale principio vieta quindi di sanzionare lo stesso soggetto più di una volta per un medesimo comportamento illecito, al fine di tutelare lo stesso bene giuridico”[11]. In tale contesto, si riteneva che il diritto europeo e nazionale della concorrenza proteggessero differenti interessi giuridici. Si tratta di una lettura che può apparire a prima vista singolare, dato che in tale area l’Unione ha sempre detenuto, sin dal Trattato di Roma, una competenza esclusiva per la tutela della concorrenza[12] e considerato che, proprio con riferimento a questa materia, la Corte ha riconosciuto il principio del ne bis in idem per la prima volta (ancorché in una versione depotenziata)[13], persino prima della ratifica della Convenzione di Schengen.
In realtà, nella fase embrionale del processo d’integrazione europea vi erano ragioni che potevano supportare, almeno in parte, un simile approccio bipartito: nell’area Schengen, l’esigenza di creare un’area di libertà, sicurezza e giustiziaimponeva agli Stati contraenti di riporre mutua fiducia nei rispettivi sistemi di giustizia penale[14] e al contempo induceva a promuovere la libertà di circolazione degli individui[15]; nella seconda policy area, la mera preordinazione del diritto europeo della concorrenza “primitivo” a eliminare gli ostacoli alla creazione di un mercato interno[16]lasciava agli ordinamenti nazionali la facoltà di dettare discipline più severe (paradigmatico il caso tedesco).
Nel corso del tempo, però, sono venute a modificarsi alcune importanti condizioni di contesto. All’indomani della modernizzazione del diritto della concorrenza[17] i sistemi nazionali di antitrust enforcement sono stati fortemente ravvicinati e armonizzati, a livello sia sostanziale che procedurale, con la creazione dell’European Competition Network (ECN). Ma soprattutto, nel 2009 è entrato in vigore il Trattato di Lisbona, che – come anticipato – attribuisce valore vincolante alla Carta.
Pur essendo maturi i tempi per un revirement, la Corte di giustizia ha confermato il proprio orientamento sul ne bis in idem anche nello scenario così ridisegnato. Tanto sul rilievo che il Regolamento 1/2003, avendo optato per l’applicazione parallela e contestuale degli artt. 101 e 102 TFUE e del pertinente diritto naturale – purché il secondo non pregiudichi l’effet utile del primo – avrebbe consentito di mantenere in vita la tesi della duplicità di interessi giuridici protetti (c.d. doppia barriera)[18].
3. Ne bis in idem 2.0: l’arresto A & B c. Norvegia e la giurisprudenza Menci
Il camouflaged overruling della Corte EDU nel caso A & B v. Norvegia ha riacceso il dibattito[19]. Discostandosi da quanto statuito nel caso Grande Stevens c. Italia[20], in tale sede la Grande Camera di Strasburgo ha aperto le porte al doppio binario sanzionatorio (nella specie, penale e amministrativo) per lo stesso fatto avverso il medesimo soggetto. Come noto, pur mantenendo una nozione materialistica di idem – centrata, dopo alcune incertezze iniziali[21], sul concetto di “identical facts or facts which are substantially the same”[22] – nel leading case del 2016 la Corte di Strasburgo ha allentato quella di bis, ammettendo doppi binari sanzionatori, purché idonei ad assicurare una sufficientemente stretta connessione, nella sostanza e nel tempo, tra i due piani di intervento repressivo[23].
Alla base del revirement troviamo una forte azione di pressione degli Stati firmatari, desiderosi di riappropriarsi del proprio ius puniendi, prerogativa tipica della sovranità.
Il controcanto della Corte di giustizia al “nuovo corso” del ne bis in idem ha seguito una traiettoria teorica diversa, ma, per le medesime pressioni di cui sopra, è giunto ad approdi sostanzialmente similari negli effetti[24].
In primo luogo, la Corte ha chiarito che l’avvio o la prosecuzione di un procedimento (amministrativo o penale) dopo che sia intervenuta una decisione definitiva per lo stesso fatto avverso il medesimo soggetto costituisce sempre, in linea di principio, una violazione del divieto di bis in idem. In ciò la posizione di Lussemburgo si differenzia da quella di Strasburgo, che – data anche l’impossibilità di derogare ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione[25] –interviene a monte del problema, escludendo l’integrazione della condizione del bis in presenza di alcuni presupposti (come visto, “close connection in substance and time” dei due procedimenti amministrativi o giudiziari).
In secondo luogo, la CGUE ha chiarito che, al ricorrere di determinate condizioni, la Carta può tollerare delle compressioni (purché prevedibili, ragionevoli e proporzionate) dei diritti riconosciuti. Il viatico argomentativo passa per la limitation of rights clause, in virtù della quale “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”[26]. Su tali basi, la CGUE ha statuito che il ne bis in idem europeo non è di per sé ostativo a un doppio binario, alla triplice condizione che: i) ciò sia previsto dalla legge ed essa persegua obiettivi di interesse generale che giustificano la duplicazione procedimentale/sanzionatoria; ii) la legge assicuri meccanismi di coordinamento tali da ridurre entro quanto strettamente necessario lo “svantaggio marginale” di un procedimento/sanzione aggiuntivo; iii) la legge preveda meccanismi tali da assicurare che il trattamento sanzionatorio complessivo sia comunque proporzionato alla gravità dell’offesa.
4. La (seconda) occasione persa dal diritto antitrust per giungere a un’unificazione del test sull’idem
L’apertura di una simile clausola di flessibilità avrebbe potuto favorire un intervento, legislativo e/o giurisprudenziale, teso a superare l’(oramai ingiustificato) approccio differenziato al ne bis in idem in materia antitrust. E infatti, in forza della giurisprudenza Menci non vi era più necessità di negare, in radice, un problema di bis in idem a fronte di duplici repressioni del diritto antitrust, in quanto l’avvio di procedimenti paralleli sulla medesima infrazione anticoncorrenziale avrebbe potuto aver luogo, nel rinnovato contesto, in presenza di adeguati meccanismi, previsti per legge, di raccordo verticale (tra Commissione europea e autorità della concorrenza nazionali) o orizzontale (tra autorità nazionali).
Tuttavia, così non è stato.
Nel potenziare i poteri delle autorità nazionali competenti (ANC) e il livello di integrazione amministrativa tra le stesse e la Commissione europea, la Direttiva ECN+[27] non ha introdotto meccanismi di case allocation, lasciando dunque che la divisione del lavoro tra enforcer continuasse a esser regolata dagli esistenti strumenti di soft law[28]. Tuttavia, questi ultimi non impegnano le Amministrazioni nei confronti del cittadino, come recentemente confermato dall’ordinanza resa dal Tribunale UE sul caso Amazon buy-box[29]. Dal suo canto, nel caso Slovak Telekom la Corte di giustizia ha ribadito, ancora una volta, il test tripartito sull’idem (identità di persona, condotta e interesse), confermando dunque la rilevanza, in materia antitrust, del criterio dell’interesse giuridico protetto[30].
È interessante notare che sia Aalborg Portland[31] che Toshiba[32] e Slovak[33], pur avendo elaborato il test tripartito, in concreto non lo hanno dovuto applicare, in quanto le vicende conosciute concernevano sempre fatti che, secondo la stessa Corte, erano similari ma non identici, sicché la prima sotto-condizione (“identità dei fatti”) non poteva dirsi soddisfatta.
5. I rinvii pregiudiziali bPost e Nordzucker
Con una coppia di rinvii pregiudiziali la questione è stata sottoposta all’attenzione della Grande Sezione.
Nel primo caso (bpost) l’autorità postale belga ha irrogato una sanzione contro l’impresa incaricata del pubblico servizio. Tale decisione è stata in seguito annullata con sentenza definitiva. La medesima condotta veniva quindi sanzionata anche dall’autorità antitrust del medesimo Stato (che tuttavia teneva conto dell’intervento del Regolatore ai fini della quantificazione dell’ammenda). Si tratta di un caso di estrema attualità perché, a differenza dei precedenti, concerne l’overlap tra antitrust e regolazione, fattispecie certo non di scuola e destinata anzi a verificarsi sempre più frequentemente con l’approvazione del Digital Markets Act[34], che persegue finalità pro-concorrenziali chiaramente sovrapponibili alla normativa, europea e nazionale, antitrust[35].
Il secondo caso concerne un’intesa restrittiva della concorrenza indagata, a seguito di domanda di clemenza, sia dall’autorità nazionale austriaca che da quella tedesca, in entrambi i casi per violazione dell’art. 101 TFUE in combinazione con le norme nazionali di riferimento.
Sull’assunto che, ad oggi, non sussistono valide ragioni per graduare l’intensità della garanzia fondamentale del ne bis in idem a seconda della policy area interessata, nelle sue conclusioni l’A.G. Bobek ha proposto di adottare un testunificato, assumendo come modello il test tripartito elaborato in materia antitrust, che, superando definitivamente la giurisprudenza Menci, sarebbe dunque dovuto diventare il parametro interpretativo esclusivo dell’art. 50 CDFUE[36].
Condividendo l’assunto di partenza dell’Avvocato generale, chi scrive ne ha tratto conclusioni opposte, proponendo di elevare la giurisprudenza Menci a test unico per il ne bis in idem, e accantonando, invece, la versione alternativa sviluppatasi in materia antitrust[37]. Ciò sul duplice presupposto che la soluzione tratteggiata dalla Grande Sezione nelle tre decisioni gemelle del 2018 apparisse più rigorosa (in quanto non nega, a priori, l’esistenza di un’ipotesi di double jeopardy) e che un simile revirement non avrebbe necessariamente pregiudicato l’effettività del diritto europeo (giacché procedimenti paralleli sarebbero stati comunque ammessi, qualora il Legislatore, europeo e nazionale, fosse riuscito a soddisfare le condizioni per azionare la limitation of rights clause).
6. Le pronunce della Grande Sezione: l’unificazione del test sull’idem
Con le sentenze in commento, la Grande Sezione ha seguito questa seconda strada.
In via preliminare, la CGUE è finalmente giunta ad ammettere che “la portata della tutela conferita [dall’art. 50 CDFUE] non può, salvo disposizione contraria del diritto dell’Unione, variare da un settore di quest’ultimo a un altro”. Una volta compiuta questa fondamentale operazione di reductio ad unum, la Corte non ha avuto motivo di abbandonare il criterio “dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro che hanno condotto all’assoluzione o alla condanna definitiva dell’interessato”, che, di qui in avanti, dovrà dunque trovare applicazione anche nei casi in cui viene in rilievo il diritto della concorrenza (da solo o in combinazione con la regolazione di settore)[38].
Coerentemente con la giurisprudenza Menci, la Corte ha tuttavia ricordato che la regola può conoscere eccezioni, se sono rispettati i presupposti fissati dall’articolo 52(1) CDFUE. In forza di tale previsione, eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Carta devono: i) essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà; ii) essere necessarie e rispondere effettivamente a “finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione” (o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui); iii) rispettare il principio di proporzionalità[39].
Conclusioni
L’arresto della Grande Sezione ha l’indubbio merito di sgomberare il campo dall’equivoco teorico che ha a lungo investito la nozione di idem, declinata per circa due decadi in modo differente a seconda dell’area del diritto europeo interessata (idem crimen, nel diritto della concorrenza; idem factum, in tutti gli altri settori). Si auspica che questa (lungamente attesa) opera di razionalizzazione possa favorire l’emersione di un acquis giurisprudenziale maggiormente coerente e completo. Grazie a queste pronunce, infatti, le esperienze maturate ciascun settore del diritto europeo potranno contribuire allo sviluppo di una matrice condivisa del principio di ne bis in idem.
Sbaglierebbe, tuttavia, l’interprete a pensare che bPost e Nordzucker risolvano ogni problema. Una serie di questioni restano, infatti, aperte.
In primo luogo, l’esperienza pratica insegna che, a fronte di condotte anticoncorrenziali con oggetto o effetto transnazionale, la condizione dell’identità del fatto materiale non è stata sin qui mai ritenuta soddisfatta dalla Corte di giustizia. E le decisioni in commento ne spiegano perfettamente la ragione: “il principio del ne bis in idem non trova applicazione quando i fatti di cui trattasi non sono identici, bensì soltanto analoghi”[40].
In secondo luogo, in questo stadio ancora acerbo dell’elaborazione giurisprudenziale sui criteri Menci le condizioni che permettono di azionare la limitation of rights clause appaiono declinate, nel concreto, in modo piuttosto (e, forse, eccessivamente) blando e generico.
E infatti, dopo aver depurato il test sull’identità del fatto del criterio dell’interesse giuridico protetto, la Corte lo ha recuperato per valutare una delle condizioni di esenzione, ossia quella della rispondenza del secondo procedimento o della seconda sanzione a “un obiettivo di interesse generale”. Ebbene, secondo la Grande Sezione sussiste un obiettivo di interesse generale quando “le due normative di cui trattasi […] perseguono obiettivi legittimi distinti”[41]. Ad esempio, in bPost il primo intervento repressivo era funzionale ad accompagnare il graduale processo di liberalizzazione del settore postale, mentre il secondo era preordinato a tutelare le dinamiche competitive, sicché, secondo la Corte (che lascia tuttavia al giudice del rinvio ogni valutazione in merito), in un caso come quello in esame il requisito dell’obiettivo di interesse generale risulterebbe soddisfatto[42]. Analogo ragionamento viene svolto in punto di proporzionalità: la duplicazione degli interventi in tanto è proporzionata, in quanto questi perseguano “obiettivi di interesse generale distinti”, sì da porsi in rapporto di complementarietà[43]. Tale linea di ragionamento rischia di riportare l’interprete al punto di partenza, in quanto – ammoniva anche l’A.G. Bobek[44] – un legislatore ben potrebbe affermare di voler salvaguardare interessi giuridici diversi da quelli in concreto protetti, laddove questi ultimi già ricevano protezione in altri corpi normativi. Il caso del Digital Markets Act e del diritto europeo e nazionale della concorrenza ci pare, al riguardo, piuttosto illustrativo: ancorché tra le finalità del DMA vi sia, al pari del diritto antitrust, quella di garantire mercati digitali contendibili, l’art. 1(6) del regolamento lascia impregiudicata l’applicazione degli articoli 101 e 102 TFUE, nonché delle norme antitrust nazionali, sul presupposto che non sussista identità di scopo tra tali plessi disciplinari. Va però detto, al riguardo, che l’approccio seguito dalla Corte nel caso Nordzucker sembra denotare la crescente volontà di cogliere l’essenza dei fenomeni giuridici analizzati, andando oltre le etichette utilizzate dai legislatori[45].
Per altro profilo, nel guidare il giudice del rinvio nella verifica del requisito della “necessarietà” della duplicazione procedimentale/sanzionatoria, la Corte ha richiamato il criterio della sufficiente connessione sostanziale e temporale elaborato dalla Corte di Strasburgo in A & B c. Norvegia. In tale contesto, essa ha precisato che la mera “esistenza di una disposizione di diritto nazionale [o europeo] che preved[a …] la cooperazione e lo scambio di informazioni tra le autorità interessate [potrebbe costituire] un quadro pertinente per assicurare il coordinamento”[46]. Si tratta di un requisito non particolarmente difficile da integrare: ad esempio – per rimanere sul medesimo esempio – il Digital Markets Act prevede meccanismi di dialogo che, in astratto, paiono in linea con tale criterio. Donde l’esigenza, imprescindibile, di compiere una verifica ex post circa l’effettività del suddetto coordinamento, che non dovrà esser solo previsto sulla carta, ma anche garantito in concreto[47].
Alla luce di quanto precede, è dunque agevole riscontrare che l’effettiva salvaguardia del diritto di ne bis in idem passa per la il modo in cui la Corte e i giudici nazionali daranno esplicitazione ai singoli aspetti scriminanti che condizionano l’applicabilità della limitation of rights clause. Esiste insomma il rischio che, a fronte di atteggiamenti eccessivamente laschi, l’eccezione al diritto di ne bis in idem divenga regola, di modo da vanificare, a livello pratico, l’apprezzabile sforzo teorico compiuto dalla Grande Sezione.
Ma questo è un problema successivo. Intanto, è fuor di dubbio che la rotta sia stata corretta.
[1] Il contributo è frutto della riflessione congiunta degli autori. Tuttavia, la Premessa e i §§ 1-4 sono specificamente riferibili a Marco Cappai; i §§ 5-6 a Giuseppe Colangelo; le Conclusioni a entrambi.
[2] La Convenzione è nata nel perimetro del Terzo Pilastro (titolo VI del Trattato sull’Unione europea, relativo alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), caratterizzato da un approccio intergovernativo, ed è stata successivamente “comunitarizzata” con il Protocollo (n. 2) al Trattato di Amsterdam sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea.
[3] Correnti artt. 3(2) TUE e 67 TFUE.
[4] art. 6(1) TUE.
[5] Art. 51 CDFUE.
[6] Artt. 52(3) CDFUE e 6(1) TUE.
[7] Corte EDU, Grande Camera, 23 novembre 1976, Engel c. Paesi Bassi, ric. nn. 5100/71, 5101/71, 5102/71, 5354/72, 5370/72, §§ 82-83. I criteri Engel sono stati direttamente applicati dal Giudice di Lussemburgo per la prima volta in CGEU, Grande Sezione, 5 giugno 2012, Lukasz Marcin Bonda, C-489/10, §§ 37 ss.
[8] Corte EDU, 3 dicembre 2002, Lilly v. France (dec.), ric. n. 53892/00; A. Menarini Diagnostics S.R.L. c. Italia, ric. n. 43509/08, 27 settembre 2011; 23 ottobre 2018, Produkcija Plus Storitveno podjetje d.o.o. c. Slovenia, ric. n. 47072/15.
[9] Secondo la presa di posizione dell’A.G. del 2 maggio 2014 sul caso C‑129/14 PPU, Zoran Spasic, § 41 e nt. 30, si intende per “«classico» il diritto penale repressivo, il quale esprime una severa condanna sociale o morale dell’atto in questione ed è qualificato come tale dal diritto applicabile”.
[10] CGUE, Sez. II, 9 marzo 2006, Van Esbroek, C-436/04, § 36. Nel caso di specie, l’interessato era stato condannato in Norvegia il 2 ottobre 2000 per importazione illegale di sostanze vietate e, in Belgio, il 19 marzo 2003 per esportazione illegale dei medesimi prodotti.
[11] CGUE, Sez. V, 7 gennaio 2004, Aalborg Portland, C-204/00 P e a., § 338.
[12] Oggi, art. 3(1)(b) TFUE.
[13] Muovendo da esigenze di “natural justice”, si richiedeva alle autorità che sanzionassero o perseguissero, nei confronti del medesimo soggetto, la stessa condotta, la prima volta in forza del diritto europeo e la seconda in base al diritto nazionale (o viceversa), di giungere a un trattamento sanzionatorio complessivamente proporzionato (c.d. accounting principle): cfr. CGUE, 14 dicembre 1972, C-7/72, Boehringer.
[14] CGUE, 11 febbraio 2003, C‑187/01 e C‑385/01, Gözütok e Brügge, § 33.
[15] CGUE, Sez. V, 10 marzo 2005, C‑469/03, Miraglia, § 32.
[16] Attuali artt. 3(3) TUE e 26 TFUE.
[17] Reg. (CE) n. 1/2003.
[18] CGUE, Grande Sezione, 14 febbraio 2012, C-17/10, Toshiba, §§ 81-83 e 97.
[19] Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, ricc. nn. 24130/11 e 29758/11.
[20] Corte EDU, Sez. II, 4 marzo 2014, ricc. nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10.
[21] Corte EDU, 30 luglio 1998, Oliveira c. Svizzera, ric. n. 25711/94, § 26 ha abbandonato la nozione di “same conducts”, inizialmente abbracciata in Gradinger c. Austria (28 settembre 1995, ric n. 15963/90, § 55), in favore di quella di “same offence”.
[22] Corte EDU, Grande Camera, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin c. Russia, ric. n. 14939/03, § 82.
[23] Corte EDU, GC, A. & B. cit., §§ 123-130.
[24] CGUE, Grande Sezione, 20 marzo 2018, Menci, C-524/15; Garlsson, C-537/16; Di Puma - Zecca, C-596/16 e C-597/16.
[25] Art. 15(2) CEDU.
[26] Art. 52(1) CDFUE.
[27] Direttiva 2019/1/UE.
[28] Comunicazione della Commissione sulla cooperazione nell’ambito della rete delle autorità garanti della concorrenza (2004/C 101/03).
[29] Tribunale UE, Sez. I, ord. n. 14 ottobre 2021, Amazon.com e al. c. Commissione, T-19/21.
[30] CGUE, Sez. VIII, 25 febbraio 2021, C-857/19, § 43.
[31] CGUE, V, C-204/00 P cit., § 340.
[32] CGUE, GS, C-17/10 cit., §§ 98-99.
[33] CGUE, VIII, C-857/19 cit., § 45.
[34] https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20220315IPR25504/deal-on-digital-markets-act-ensuring-fair-competition-and-more-choice-for-users.
[35] M. Cappai - G. Colangelo, Taming digital gatekeepers: the more regulatory approach to antitrust law, in Computer Law & Security Review, n. 41/2021, 105559.
[36] Conclusioni del 2 settembre 2021 in C‑117/20 (bPost) e in C-151/20 (Nordzucker).
[37] M. Cappai - G. Colangelo, A Unified Test for the European Ne Bis in Idem Principle: The Case Study of Digital Markets Regulation, SSRN working paper (27 ottobre 2021), https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3951088.
[38] CGUE, Grande Sezione, 22 marzo 2022, bPost, C‑117/20, §§ 33-35 e Nordzucker, C‑151/20, §§ 38-40.
[39] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 41; Nordzucker, C‑151/20 cit., § 50.
[40] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 36.
[41] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 44.
[42] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 47.
[43] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 49.
[44] Conclusioni in bPost, C‑117/20 cit., §§ 131 e 139.
[45] Sfatando la superstizione della “doppia barriera”, la Grande Sezione ha infatti ritenuto che “nell’ipotesi in cui due autorità nazionali garanti della concorrenza perseguissero e sanzionassero gli stessi fatti al fine di garantire il rispetto del divieto di intese in applicazione dell’articolo 101 TFUE e delle corrispondenti disposizioni del loro rispettivo diritto nazionale, tali due autorità perseguirebbero lo stesso obiettivo di interesse generale”, sicché un cumulo dei procedimenti e delle sanzioni non potrebbe in ogni caso essere giustificato (CGUE, GS, Nordzucker, C‑151/20 cit., §§ 56-57). Non è tuttavia detto che in futuro la Corte perverrà alla medesima conclusione a fronte di duplicazioni procedimentali/sanzionatorie per abuso di posizione dominante, in quanto, ai sensi dell’art. 3(2) Reg. (CE) n. 1/2003, con riferimento alle condotte unilaterali il diritto nazionale può andare oltre l’art. 102 TFUE, potendosene dunque differenziare in taluni aspetti. In simili circostanze, la Corte potrebbe dunque considerare che l’art. 102 TFUE e il diritto nazionale volto a colpire condotte anticoncorrenziali unilaterali, nonostante la parziale coincidenza di scopo, perseguono finalità distinte.
[46] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 55.
[47] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 52.
Fra Confederazione continentale e Federazione europea: il futuro delle relazioni fra mondo slavo e Unione europea dopo la guerra in Ucraina
di Pier Virgilio Dastoli
Nella storia più recente dell’umanità ci sono stati alcuni leader che, pur essendo costretti a cedere al dominio della forza, hanno contribuito a cambiare il corso degli avvenimenti non solo per il loro paese ma per un insieme più vasto di popoli e di stati.
Fra questi leader c’è stato certamente Michail Gorbačëv che divenne segretario del PCUS dal 1985 e presidente del Soviet Supremo dal maggio 1989 e cioè cinque mesi prima della caduta del Muro di Berlino e della fine della “guerra fredda”.
In occasione delle annuali commemorazioni del 9 novembre 1989 pochi ricordano il ruolo determinante di Michail Gorbačëv nell’impedire che Berlino diventasse una nuova Budapest (1956) o una nuova Praga (1968) e che la fine della guerra fredda avrebbe potuto rappresentare il primo passo verso la costituzione della “casa comune europea” di cui parlò lo stesso Gorbačëv nel 1989 davanti al Consiglio d’Europa.
Così non è stato perché i leader europei non furono capaci di costruire al posto della cortina di ferro un solido sistema integrato per la sicurezza e la pace in Europa nel quadro della “confederazione” proposta a Praga da François Mitterrand nel 1989, che avrebbe dovuto unire le tre culture continentali: il mondo slavo, il mondo greco-romano e il mondo anglo-sassone e al cui interno avrebbe dovuto essere preservato il modello sovranazionale delle comunità europee in una prospettiva federale.
È stato così che dal dissolvimento dell’Unione sovietica è nata la Federazione russa governata dopo Michail Gorbačëv dall’autocrate Boris Eltsin e poi dal nuovo zar Vladimir Putin, che la prima vittima di questa situazione è stato il popolo russo e che i paesi dell’Europa centrale liberati dall’imperialismo sovietico hanno sviluppato nel tempo la convinzione che l’adesione alla NATO e all’Unione europea sarebbe stata lo strumento per garantire la loro sovranità nazionale.
Nonostante questa convinzione, la dissoluzione dell’Unione sovietica e la conquista o riconquista della democrazia e della libertà in Europa centrale hanno determinato il fatto storico e culturale, oltre che politico ed economico, della ricomposizione della frattura fra una buona parte del mondo slavo (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Bulgaria, Slovenia, Lituania e Lettonia, Croazia) ed i mondi anglo-sassone e greco-romano con l’adesione di questi paesi all’Unione europea a cui dovrebbe seguire il futuro ingresso degli altri Stati che appartenevano alla Federazione jugoslava (Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina e Macedonia del Nord).
Contrariamente alla Cina popolare, che rappresenta per l’Unione europea un “rivale sistemico”, il mondo slavo, il mondo greco-romano e il mondo anglo-sassone appartengono tutti e tre alla storia europea o per essere più precisi alla storia indoeuropea frutto di identità culturali multietniche e multireligiose che affondano le loro radici nei secoli anche se fra i tre mondi ci sono state fratture che sono state cause di guerre secolari, che hanno portato alla creazione – dopo la pace di Vestfalia nel 1648 e dal Portogallo al Mar Nero - dell’invenzione europea degli Stati-nazione con l’eccezione dell’impero austro-ungarico fino al 1918 e della “grande Russia” divenuta nel 1917 l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e poi l’impero sovietico e che hanno comportato la soppressione di una parte delle identità delle nazioni slave.
Vale la pena di ricordare che, fra gli obiettivi dell’integrazione europea il primo è stato la promozione della pace, consacrato all’inizio dell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea. Non a caso, nell’ottobre 2012 è stato conferito all’Unione europea il Premio Nobel per la Pace, così riconoscendo il contributo dell’Unione alla pace ed alla riconciliazione fra i popoli, grazie al quale gran parte del continente è stato trasformato da un teatro di guerre a un’area di pace. Ma tale risultato, da tutelare e preservare quotidianamente, è considerato storico alla luce del passato del nostro Continente, diviso in due principali fasi.
Nella prima, alle radici filosofiche elleniche, che influenzano tutto l’Occidente, fanno seguito la pax e il diritto romano che uniscono gli antenati di tanti fra gli attuali popoli europei, plasmandone le coscienze giuridiche. Il cristianesimo poi, che condivide radici storiche con l’ebraismo, diffonde fra gli europei e fra tante genti che arrivano sul nostro continente le medesime norme morali riconoscendo ai sovrani l’autorità civile di tradurle in leggi, insieme agli istituti romanistici. La lingua latina, con quella greca (lingua franca la prima e koiné dialektos la seconda) – senza dimenticare il protoslavo che deriva dal protoindoeuropeo, l’antenato comune di tutte le lingue indoeuropee - permette, per secoli, la comunicazione a livello delle élites politiche e intellettuali; nutrite anche dagli innesti culturali arabo-berberi e dalle loro conoscenze, specie matematiche, geometriche e mediche. Per queste ragioni l’Europa medievale, nonostante le difficoltà di comunicazione e le costanti guerre intestine, viene ricordata come un universo culturale alquanto omogeneo.
Nella seconda le rotture religiose fra le componenti cattolica, protestante e ortodossa insieme a quelle politiche, i terribili e lunghi conflitti feriscono quest’unità europea e favoriscono l’affermarsi delle nazioni, con le loro lingue, il loro credo, le loro ambizioni e aspre rivalità. Le nuove unità statali rivendicano un principio di legittimità autonomo, dando vita a nuove forme di governo e di autorità in Europa che si combattono per il predominio, durante secoli di conflitti ovunque nel mondo dove si contendono i domini coloniali. Le potenze dell’Europa divisa, alternando le alleanze e guerreggiando, puntano a conquistare il primato ciascuna per sé.
In quei tempi, l’idea dell’unificazione europea - con rare eccezioni di qualche filosofo o pensatore illuminato - era appannaggio di chi intendeva imporre la sua egemonia o il suo imperialismo sugli altri, sconfiggendoli e conquistandone i territori. Il culmine di questa disastrosa deriva plurisecolare degli Stati nazione sono state le due guerre del ventesimo secolo, definite “mondiali” per la dimensione devastatrice.
Eppure, gli stessi fermenti e le tragedie che ci hanno diviso e contrapposto hanno finito, a ben vedere, per creare un ulteriore legame perché hanno coinvolto tutte le popolazioni europee, per decine e decine di generazioni, nel medesimo turbinio. Così è stato durante la Seconda Guerra Mondiale con la resistenza combattente sotto diverse bandiere nazionali ma con unico spirito e un unico obiettivo. Ecco perché la ricerca della pace rappresenta il primo elemento distintivo dell’identità europea.
Come è avvenuto nel 1950 quando la Germania (occidentale) e la Francia hanno cancellato secoli di rivalità dopo la dissoluzione del Terzo Reich per avviare con l’integrazione comunitaria un processo di unificazione fondato sulla via della pace rivolgendosi agli altri paesi dell’Europa democratica e occidentale, così la sconfitta della Russia di Vladimir Putin - e dei suoi complici in Bielorussia, in Cecenia, in Kazakistan, in Crimea ma anche in Armenia - dopo l’invasione dell’Ucraina dovrà aprire la strada ad una Conferenza sulla pace e sulla sicurezza nel continente europeo sul modello degli accordi di Helsinki del 1975 (Helsinki-2) ricomponendo la frattura fra tutto il mondo slavo con i mondi greco-romano e anglo-sassone - così come la ripresa e l’approfondimento del dialogo interreligioso fra le religioni monoteiste e fra esse e la cultura umanista - nel quadro della Confederazione auspicata da François Mitterrand a Praga nel 1989 al cui interno dovrà essere rafforzata - attraverso un processo costituente - l’unità politica fra i paesi ed i popoli pronti a rinunciare ad illusorie sovranità assolute per condividere un progetto secondo un modello federale fondato sul rispetto dello stato di diritto.
Questo processo parallelo di cooperazione sul continente europeo dovrà essere rafforzato dal ritorno alle dimensioni transnazionali del popolarismo cristiano, dell’internazionalismo socialista e del cosmopolitismo liberale a cui si è aggiunto negli ultimi quarant’anni il movimento ambientalista all’interno di uno spazio pubblico che garantisca il libero confronto fra la democrazia rappresentativa, la democrazia partecipativa e la democrazia di prossimità.
Iniziativa con Salvatore Borsellino all’IC “Vittorio Alfieri” di Crotone per il progetto “I colori della legalità”
Nella mattinata del 7 aprile, si è svolta presso l’IC “Vittorio Alfieri” di Crotone un’iniziativa, inserita nel progetto “I Colori della legalità”, afferente all’Educazione civica; la presenza dell’ing. Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo Borsellino, ha sostanziato e arricchito con un’altissima testimonianza umana e civile i contenuti del percorso didattico sviluppato dalle classi III sez. D e B.
Dopo i saluti istituzionali da parte della dirigente, prof.ssa Gisella Parise e della referente della commissione di Educazione civica, prof.ssa Giusy Lauro, il prof. Romano Pesavento, promotore dell’evento, ha illustrato gli aspetti fondanti dell’UDA “I colori della legalità”.
Il progetto consiste, in una prima fase, nel presentare agli studenti dell’infanzia, della scuola primaria, della scuola secondaria di primo grado i contenuti della cittadinanza responsabile e della legalità, mediante la conoscenza dei protagonisti della società civile italiana e la riflessione sul loro sacrificio. Comprendere i valori della legalità e della cittadinanza responsabile attraverso lo studio della figura e dell’operato dei protagonisti della legalità costituisce l’obiettivo finale del progetto; nella fase conclusiva, prevista per giorno 23 maggio, Giornata nazionale della legalità, verranno intitolate le aule scolastiche a un protagonista della legalità; inoltre ciascun ambiente scolastico degli studenti verrà impreziosito con i contributi grafici, testuali, poetici realizzati dagli allievi stessi.
Successivamente i referenti dei vari plessi hanno letto i nomi dei protagonisti della legalità assegnati alle varie aule scolastiche.
Gli studenti hanno lavorato con serietà e responsabilità, comprendendo perfettamente l’importanza dei valori rappresentati dalle illustri personalità cui hanno intitolato le loro aule e proponendo una serie di contributi personali veramente di pregio: cartelloni, poesie, power point, l’albero della legalità e un plastico veramente realistico sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Emozionante, drammatico e intenso è stato il contributo dell’ing. Borsellino, il quale, dopo aver ampiamente elogiato l’impegno e la dedizione che hanno manifestato gli studenti nel realizzare tanti elaborati e manufatti tutti dedicati alla commemorazione dei due giudici Falcone e Borsellino, ha raccontato diversi aspetti privati e pubblici del fratello, proprio per spiegare ai giovani quanta determinazione e amore per le istituzioni e la sua gente lo avessero guidato alla ricerca appassionata della verità e condotto anche al sacrificio estremo, considerato un viatico tragico, ma inevitabile in funzione di un riscatto o una reazione civile della nazione intera rispetto allo strapotere della mafia. L’ing. Borsellino ha ricordato la scelta coraggiosa e amorevole della madre di piantare nel luogo in cui era esploso l’ordigno fatale per il giudice e la sua scorta un ulivo proveniente da Betlemme perché un simbolo di pace campeggiasse lì dove la violenza e il crimine contavano erroneamente di spadroneggiare impunemente. Oggi persone di ogni età rendono omaggio a quell’albero e a quanto rappresenta: chi lascia un oggetto personale; chi un pensiero perché la gratitudine e l’amore nei confronti dei servitori veri dello Stato non moriranno mai. Tutte le volte in cui ritorna nella città natale, Palermo, Salvatore Borsellino si reca dal “suo” albero, l’emblema di Paolo, l’emblema della giustizia.
Ha rivolto un appassionato appello ai giovani perché amino la giustizia e perseguano l’onestà; con amarezza ha rievocato gli episodi in cui indifferenza e sospetto erano stati alimentati appositamente per screditare le indagini condotte dal pool. Molti aspetti della società attuale lo impensieriscono e lo turbano, crede ancora nell’affermazione della verità e spera che l’agenda rossa di suo fratello venga ritrovata per far luce su tanti enigmi della storia italiana. Continuerà a dialogare con i giovani perché ha molta fiducia nelle nuove generazioni ed effettivamente, a giudicare dalla commozione e la partecipazione manifestate dagli studenti dell’IC “Vittorio Alfieri”, siamo certi che molti seguiranno le orme della cittadinanza attiva e responsabile.
Machina delinquere non potest*
di Costanza Corridori
Quarta rivoluzione industriale: il dominio della digitalizzazione e dell’automazione. L’intelligenza artificiale entra nelle nostre vite e nei vari ambiti della società: che impatti può avere nel mondo del diritto penale?
Cosa significa intelligenza? Esiste una differenza tra un cervello elettronico e uno umano? Cosa accadrebbe qualora un robot causasse la morte di un individuo? L’algoritmo può commettere illeciti? Chi ne risponderebbe penalmente?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi che tale articolo mira a sottolineare. Nonostante la rapidità del progresso tecnologico ci permetta oggi di affrontare tematiche come le auto a guida autonoma, i robot chirurghi e le chatbot, il diritto (soprattutto in ambito penale) non è ancora riuscito ad adattarsi al cambiamento culturale: non esistono normative idonee a disciplinare la responsabilità penale in caso di reati commessi dall’intelligenza artificiale.
I rischi sono molti, soprattutto per i diritti fondamentali degli esseri umani: per questo, l’articolo mira a fornire un’informazione generale sull’evoluzione storico-tecnologica realizzatasi fino ad oggi in tema di intelligenza artificiale, per poi passare alla trattazione della tesi di Gabriel Hallevy, che ha come obiettivo l’introduzione di una terza categoria giuridica (la personalità elettronica) da affiancare alla persona fisica e giuridica. Infine, si affronterà specificamente il problema della interazione tra l’intelligenza artificiale e il diritto penale, principalmente in tema di responsabilità stradale, di responsabilità medica e di cybercrime “in senso ampio”.
Lo scopo dell’articolo non è quello di fornire una risposta univoca ai quesiti che, inevitabilmente, si pongono in relazione all’intelligenza artificiale. L’obiettivo è far riflettere il lettore e fornire un quadro di analisi chiaro per spingere il giurista verso un futuro non molto lontano in cui esseri umani e tecnologia collaboreranno allo scopo di migliorare la vita degli individui.
Sommario: 1. “Le macchine sono in grado di pensare?” – 2. Tra scienza e dato normativo: la problematica definizione dell’intelligenza artificiale – 3. La personalità elettronica: un terzo genus? – 4. Machina delinquere non potest – 5. I reati “robotici” – 5.1 Le self-driving cars e i reati di omicidio e lesioni stradali – 5.2 L’uso dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario e la responsabilità colposa del medico in caso di errore – 5.3 I cybercrime in senso ampio realizzati attraverso l’intelligenza artificiale – 6. Il diritto penale della società del rischio
1. “Le macchine sono in grado di pensare?”[1]
Si tratta di una delle frasi più celebri di Alan Turing: il padre dell’informatica. Siamo giunti in quella che viene comunemente denominata la quarta rivoluzione industriale, dominata da robot e macchine pensanti. Tali apparecchi informatici ed elettronici ci supportano e aiutano nella quotidianità, dagli assistenti vocali come Alexa o Siri, agli elettrodomestici che comunicano tra di loro, passando per le vetture dotate di guida autonoma.
Se di punto in bianco tutti i sistemi dotati della cosiddetta intelligenza artificiale dovessero sparire, la società rimarrebbe paralizzata. Molte attività, prima tipicamente manuali, sono state ora interamente automatizzate. Le macchine hanno sostituito gli esseri umani nel mondo del lavoro ma, al contempo, la tecnologia ha generato una richiesta continua di personale altamente specializzato che si possa occupare di realizzare ed educare l’algoritmo di machine learning contenuto all’interno di un software di intelligenza artificiale.
2. Tra scienza e dato normativo: la problematica definizione dell’intelligenza artificiale
Di recente capita sempre più spesso di assistere a conferenze di giuristi in cui si sente parlare di algoritmi, di digitalizzazione, di software e di automatizzazione, in cui si tratta di giudici robot, della integrale sostituzione degli avvocati con dei sistemi per il computer, ovvero di cybercrime, di chatbot e di deep-fake. Il mondo dell’informatica sta entrando nelle varie branche del diritto e non solo: in ambito sanitario si possono osservare robot che operano i pazienti sotto la supervisione del chirurgo[2] e algoritmi che possono suggerire al medico la migliore diagnosi e cura per il singolo soggetto. [3]
Sembra la descrizione di un mondo idilliaco in cui macchine intelligenti e esseri umani possono convivere supportandosi a vicenda.
Ma cosa succede se un veicolo autonomo dotato di intelligenza artificiale investe un pedone? Chi risponde se il robot chirurgo sbaglia l’approccio medico? E se una chatbot inizia a diffamare un utente su una piattaforma social?
Non stiamo parlando di film fantascientifici, ma di realtà attuali che presto il legislatore dovrà affrontare al fine di adottare una disciplina di diritto penale che sia idonea a tutelare i vari interessi in gioco.
La prima difficoltà riscontrabile dal legislatore e dai giuristi in generale risulta essere l’assenza di una definizione scientifica universalmente accettata di cosa sia l’intelligenza artificiale che comporta di conseguenza difficoltà di definizione normativa.
La data di nascita (convenzionale) dell’intelligenza artificiale è il 1955 quando il matematico John McCarthy introdusse tale concetto al convegno al Dartmounth College di Hanover, New Hamphsire,[4] e affidandoci alla definizione fornitaci dal matematico statunitense Marvin Minsky, anch’esso presente al convegno: l’intelligenza artificiale è “la scienza di far fare alle macchine cose che richiederebbero intelligenza se fatte dall'uomo.”[5] In realtà, l’evoluzione scientifica iniziò secoli prima, dall’abaco del 400 a.C., e proseguì oltre, fino ad arrivare al robot umanoide che forse verrà lanciato quest’anno da Elon Musk[6].
La straordinarietà dell’intelligenza artificiale è dovuta al fatto che tali sistemi hanno la capacità di interagire con il mondo esterno grazie ad un software basato su un algoritmo di autoapprendimento che trasforma gli input appresi dall’esterno in output permettendo alla macchina di migliorarsi autonomamente imparando dall’esperienza potendosi quindi discostare, in modo non sempre prevedibile, da quanto programmato dal suo creatore. L’oscurità dell’algoritmo gli garantisce la definizione di black box algorithm.
Nel mondo del diritto, queste difficoltà si riflettono a cascata, infatti, ad oggi, l’unica parvenza di testo vincolante risulta essere la Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo del 21 aprile 2021[7] che ha come obiettivo la correttezza, la sicurezza e la trasparenza dell’intelligenza artificiale dividendola in base a due livelli di rischio: intollerabile (e vietato), perché in contrasto con i valori dell’Unione Europea e ad alto rischio, permessa nel rispetto di alcuni requisiti necessari allo scopo di garantire la sicurezza nell’uso. La Proposta, però, inoltre, non tratta di aspetti di diritto penale afferenti all’intelligenza artificiale che ad oggi non viene disciplinata da nessuna norma specifica nonostante la stessa si stia facendo sempre più spazio in ambito processuale e sostanziale. Infatti, in fase di indagini, nelle operazioni polizia predittiva e di intercettazioni, l’intelligenza artificiale ricopre un ruolo di fondamentale ausilio per le operazioni di prevenzione degli illeciti e di raccoglimento delle prove; in fase di giudizio, l’intelligenza artificiale viene utilizzata (soprattutto negli Stati Uniti d’America[8] e in Cina) come sostegno e come sostituto del giudice nelle sue decisioni attraverso l’utilizzo di algoritmi per la valutazione della pericolosità sociale (non ancora ammessi in Italia per i limiti costituzionali dovuti al rischio di oscurità della motivazione e della non trasparenza della decisione); in sede di digitalizzazione della giustizia, l’intelligenza artificiale risulta risolutiva per lo scopo di velocizzare la ricerca di documenti e di facilitare l’accesso alle fonti; infine, in ambito di diritto penale sostanziale, l’intelligenza artificiale può rilevare come strumento, vittima o autore del reato (nel caso in cui venisse accettata la possibilità di riconoscere ai robot la personalità elettronica, di cui tratteremo a breve).
L’evoluzione porta con sé aspetti fortemente positivi ma al contempo, i rischi sono sempre dietro l’angolo. Proprio per questo, parlando di automazione è importante trattare del rapporto tra gli illeciti e l’intelligenza artificiale per comprendere chi debba essere considerato come penalmente responsabile per i reati commessi da tale tecnologia.
3. La personalità elettronica: un terzo genus?
Alla base di tale argomento sussiste una semplice e al contempo complessa domanda apparentemente estranea alle questioni giuridiche: cosa significa essere intelligenti? Le macchine possono realmente essere considerate tali? O si tratta di una mera razionalità connotata da un’assenza di libero arbitrio?
Le teorie di Gabriel Hallevy[9], un giurista israeliano, connesse all’ipotesi di istituire una personalità elettronica per i robot da affiancare alle comuni categorie dei soggetti di diritto (persona fisica e giuridica) al fine di affermare la sussistenza di una responsabilità penale in capo ai sistemi di intelligenza artificiale, vengono criticate[10] da questioni fondate essenzialmente sulla impraticabilità dell’analogia tra la mente umana e quella robotica, sul concetto di libero arbitrio e sull’effettiva coscienza e volontà di movimento posseduta da un sistema intelligente.
Secondo Hallevy le azioni poste in essere dall’intelligenza artificiale possono essere paragonate a quelle umane in quanto i robot sono dotati di una fisicità che gli permette di muoversi nello spazio e di modificare l’ambiente circostante e, inoltre, essi sono mossi verso un obiettivo; dunque, i robot sono dotati di autonomia e razionalità che gli consente di rappresentarsi e di volere un determinato risultato, In tal modo si va a riconoscere la soddisfazione dei requisiti oggettivi e soggettivi del reato. Considerando tale teoria positiva, sarebbe così possibile far rispondere direttamente l’intelligenza artificiale dotata di personalità elettronica delle azioni illecite che va a realizzare.
In realtà, per quanto l’algoritmo si basi sul machine learning (che permette al sistema di apprendere dall’ambiente e di modificare il proprio comportamento esteriore), allo stato attuale della tecnica, i robot sono fortemente vincolati all’algoritmo che li domina, non hanno possibilità di decidere in modo pienamente autonomo e cosciente le azioni da intraprendere. Risultano dunque entità determinate, e quindi l’elemento soggettivo riscontrato è solo apparente: comportarsi come un essere umano non significa essere un essere umano.
4. Machina delinquere non potest
Dunque, risulta veritiero il brocardo “machina delinquere non potest” (formulato sulla falsa riga di quello prima applicabile alle società)?[11] Può un sistema intelligente essere considerato responsabile per gli illeciti che realizza?
Ad oggi sembra possibile dare una risposta affermativa al primo quesito: i sistemi intelligenti non sono ancora abbastanza autonomi da poter essere considerati come responsabili delle proprie azioni. Questo non può però affermarsi come certezza per il futuro, infatti, vista la rapidità di evoluzione della tecnologia, non è possibile escludere che in pochi anni l’abilità delle macchine e la loro autonomia superi o equivalga quella dell’essere umano.
Nell’attesa, per i reati commessi dai robot intelligenti, che non possono essere considerati come titolari di diritti e di doveri e che dunque non possono essere soggetti al diritto penale, siamo chiamati a valutare le possibili forme di responsabilità in capo a soggetti umani e quindi in base agli attuali canoni normativi in tema di responsabilità penale: la sussistenza di una posizione di garanzia in capo ad un soggetto specifico, un nesso causale tra l’azione della persona fisica e l’evento realizzato dalla macchina e soprattutto, l’esistenza di un elemento soggettivo, almeno al livello della colpa, al fine di evitare di ricadere in forme di responsabilità oggettiva.
Ipotizzare una responsabilità in capo al programmatore o utilizzatore, se si procede sulla scorta di automatismi, sconta il rischio di violare il principio di personalità e colpevolezza della responsabilità penale, come sancito dall’articolo 27 della Costituzione, ricadendo in inammissibili ipotesi di responsabilità oggettiva che il diritto penale non ammette. Dunque, risulta necessario analizzare le azioni del robot, i cui meccanismi sono spesso oscuri (come una black box), per valutare se le persone fisiche che lavorano e agiscono intorno, tramite e attraverso i sistemi intelligenti, possano nel caso concreto prevedere a priori la realizzazione dell’evento lesivo.
Sarà configurabile, ovviamente, una responsabilità di tipo doloso in capo al soggetto utilizzatore o programmatore che utilizzi o programmi il sistema intelligente allo scopo di commettere illeciti.
Più complesso il tema della responsabilità colposa dell’operatore, in quanto, al fine di evitare di ricadere in forme di responsabilità oggettiva, sarà necessario valutare la sussistenza di un controllo significativo del programmatore sull’operato della macchina. Infatti, in base all’articolo 41 co.2 c.p., l’azione autonoma dell’intelligenza artificiale rientra nel concetto di causa sopravvenuta che rompe il nesso di causalità tra l’azione di programmazione posta in essere dal creatore dell’algoritmo e l’evento lesivo realizzato dal robot. Dunque, la persona fisica risponderà solo se possiede, in concreto, il potere e il dovere di evitare l’evento (articolo 40 cpv. c.p.).
In generale, invece, nel caso di responsabilità colposa del programmatore e del produttore, qualora gli stessi abbiano messo in commercio un robot intelligente consapevoli dei suoi rischi senza fare nulla per impedirli, si applicheranno, non sempre in modo chiaro e lineare, i criteri mutuati dalla responsabilità da prodotto difettoso (Direttiva 85/374/CEE)[12]. Allo stesso modo, non risulta semplice individuare un unico soggetto direttamente responsabile, in quanto, alla realizzazione di ogni singolo sistema intelligente collaboreranno un numero consistente di programmatori, ingegneri, scienziati, produttori e società.
5. I reati “robotici”
Tali disquisizioni possono risultare apparentemente solo teoriche e senza risvolti pratici. Proprio per questo è auspicabile, adesso, entrare nel vivo dei reati e del diritto penale così da comprendere a pieno che impatto l’intelligenza artificiale possa avere nella vita degli esseri umani.
Focalizzando, quindi, la nostra attenzione solo su tre tipologie di reati “robotici” (l’omicidio e le lesioni colpose stradali, la responsabilità medica e i cybercrime in senso ampio) è già possibile astrattamente immaginare le ricadute imponenti che l’intelligenza artificiale può avere sui diritti fondamentali degli individui e sui beni giuridici tutelati dall’ordinamento.
5.1. Le self-driving cars e i reati di omicidio e lesioni stradali
Infatti, con i veicoli autonomi i dubbi relativi alla responsabilità per i danni arrecati da un’autovettura non guidata da un essere umano, risultano notevoli: la possibilità di un controllo ex ante ed uno realizzato dal “guidatore-passeggero” persona fisica, l’ipotesi di realizzazione di un algoritmo del rischio che scelga lui discrezionalmente quale bene giuridico tutelare maggiormente e il tema dell’affidabilità dei sistemi intelligenti (connesso alla fiducia che la collettività può dargli). Difatti le autovetture autonome possono essere suddivise in sei livelli di automazione (da “zero” a “cinque”).[13] Fino al livello “due” non si riscontrano particolari problematiche relative all’individuazione del soggetto responsabile per i reati di cui agli articoli 589 bis e 590 bis c.p. perché non sussiste alcuna sostituzione del guidatore da parte dell’intelligenza artificiale. Ciò perché, finché è presente un guidatore effettivo sul veicolo sarà lui il titolare dell’obbligo di prudenza, di controllo del veicolo e di rispetto del codice della strada e di conseguenza sarà lui a dover essere considerato come penalmente responsabile delle azioni di omicidio o lesioni gravi o gravissime dovute alla violazione del codice della strada. Le problematiche si iniziano a scorgere a partire dal livello “tre”, ossia le vetture semi autonome in cui parte delle attività normalmente poste in essere dal guidatore, vengono delegate all’intelligenza artificiale. In tal caso, il guidatore continua ad essere presente sul veicolo e di conseguenza sarà lui a dover essere considerato come responsabile ma risulta complesso valutare l’effettivo controllo sull’autovettura che il soggetto possa esercitare: si rischia infatti di ricadere in una mera fictio iuris. Al livello “quattro” si può finalmente parlare di self-driving car in quanto il guidatore interviene solo eventualmente in situazioni di rischio, tutto il resto è delegato all’intelligenza artificiale. A tale livello, considerare il guidatore come il soggetto responsabile comporterebbe un passaggio da una condotta attiva (di guida non conforme) a una condotta passiva (di omesso controllo sul veicolo autonomo). Infine, nelle autovetture di livello “cinque”, la figura del guidatore scompare del tutto, trasformandosi in un mero passeggero. Di conseguenza, qualora dovessimo giungere a tale livello di automazione, il legislatore dovrà necessariamente valutare nuove ipotesi di responsabilità o adattare le attuali norme sulla scorta, ad esempio, della responsabilità del produttore in caso di difetto del prodotto.
5.2. L’uso dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario e la responsabilità colposa del medico in caso di errore
Passando all’ambito medico e sanitario, le scoperte tecnologiche permettono ai pazienti di riprendere la mobilità di arti paralizzati[14], di controllare il tremore del Parkinson e di mantenere sotto controllo i parametri vitali del soggetto al fine di somministrargli correttamente i farmaci. Inoltre, gli algoritmi intelligenti supportano il medico nelle sue decisioni e diagnosi. Ma in caso di errore? Le vigenti fattispecie criminose risultano idonee ad affrontare anche tali situazioni?
Infatti, i rischi di bias dovuti a dati discriminatori che si ripercuotono sulla salute dei pazienti sono notevoli e questi possono andare ad influenzare le decisioni del medico ledendo dunque i diritti fondamentali dei soggetti.
In caso di errori sanitari, basandoci sull’articolo 590 sexies c.p., per come interpretato dalla Sentenza della Cassazione Penale a Sezioni Unite n. 8770 del 22 febbraio 2018[15], l’operatore sanitario sarà esonerato da responsabilità nel caso di imperizia lieve in fase esecutiva nonostante il rispetto delle linee guida pubblicate ai sensi di legge e delle buone pratiche clinico assistenziali adeguate al caso concreto. [16]
La domanda da porsi è quindi se esistano linee guida idonee a regolare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario. Purtroppo, ad oggi non sono presenti e infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel giugno del 2021 ha realizzato un report intitolato “Ethics and Governance of Artificial Intelligence for Health” [17] in cui spinge gli Stati ad adottare delle linee guida mirate per tali situazioni andando ad elencare i principi da dover rispettare al fine di tutelare i vari interessi in gioco. All’interno del documento, suddiviso in nove sezioni, viene fornita una definizione, di intelligenza artificiale e di big data sanitari, utile per individuare le principali applicazioni di tale tecnologia in medicina (come la ricerca, la gestione dei sistemi sanitari e il monitoraggio della salute pubblica). Vengono poi trattate le leggi e i principi (tutela dei diritti fondamentali, protezione dei dati personali, norme sull’utilizzo dei dati sanitari), anche di stampo etico, da dover rispettare nell’utilizzo della tecnologia innovativa. Infine, il report fornisce linee guida pratiche che dovrebbero essere seguite da parte di programmatori, ministeri della salute e operatori sanitari.
A seguito di tale analisi, l’OMS, nel rispondere alle domande sulla responsabilità del medico che si sia affidato al suggerimento proposto dal dispositivo intelligente, successivamente tradottosi in un errore, sottolinea le problematiche relative sia all’eccessiva limitazione sia all’eccessiva liberalizzazione dell’utilizzo dei sistemi intelligenti. Infatti, qualora si dovesse penalizzare il medico a causa di un errore dovuto all’essersi affidato al dispositivo intelligente, si limiterebbe fortemente l’evoluzione scientifica e tecnologica in abito sanitario che frenerebbe lo sviluppo di tali tecnologie in campo medico. Al contempo, qualora si giustificasse sempre il medico che pone in essere un’azione lesiva sul paziente, per il solo fatto di essersi affidato all’intelligenza artificiale, si causerebbe un’eccessiva automatizzazione delle scelte mediche.
Sarebbe dunque opportuno realizzare delle linee guida accreditate specifiche per l’intelligenza artificiale per far si che il medico possa affidarsi ad esse potendosi così muovere all’interno di binari stabiliti e certi per non rischiare di ricadere in responsabilità dovendosi affidare a linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali frammentarie e non aggiornate. Allo stato attuale sembra non esserci spazio per un’esenzione della responsabilità dell’operatore sanitario dovuta ad errore del sistema intelligente, in quanto non è possibile imputarla al robot essendo effettivamente un mero strumento nelle mani del medico; salvo, naturalmente, ipotesi di responsabilità da prodotto difettoso nel caso in cui i danni siano dovuti ad un difetto del software.
In tali due tipologie di reati (omicidio e lesioni personali stradali e responsabilità medica), il soggetto (guidatore o medico) non agisce con lo scopo di commettere un reato, ma l’evento lesivo si realizza comunque: bisognerà quindi valutare, per il guidatore, l’osservanza delle disposizioni dettate in materia di circolazione stradale, e per il medico, il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche clinico-assistenziale. Solo nel caso in cui tali norme cautelari non vengano rispettate allora potrà essere ipotizzata una responsabilità colposa di tali soggetti.
5.3. I cybercrime in senso ampio realizzati attraverso l’intelligenza artificiale
Da ultimo, il tema dei reati informatici. La diffamazione e le fake-news rischiano di essere automatizzate tramite chatbot intelligenti che comunicano con gli utenti sui social network e imparano dai loro atteggiamenti: come avvenne nel 2016 con la chatbot “Tay – Thinking About You”[18] che attraverso il sistema di machine learning imparò dagli utenti della piattaforma “Twitter” a diffondere messaggi di odio e di discriminazione e per questo nell’arco di pochi giorni fu tolta dal mercato.[19] Inoltre, un fenomeno alquanto preoccupante riguarda il deep-fake, l’abilità di alcuni sistemi intelligenti di realizzare video falsi raffiguranti persone vere: possono consistere in falsi discorsi politici o in falsi video pornografici andando così a “spogliare” virtualmente un soggetto non consenziente. [20] È abbastanza evidente l’impatto che questo potrebbe avere sull’informazione e sulla vita personale delle vittime: una nuova frontiera del revenge porn. Difatti, il deep-fake è considerabile come una dual-use technology, in quanto può essere utilizzato sia per scopi leciti (come la realizzazione di film o videogiochi) che per scopi illeciti potendo rientrare in differenti fattispecie penali. Analizzando, però, attentamente l’articolo 612 ter c.p. punisce la diffusione di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso del soggetto raffigurato, è facile rendersi conto di come la norma non faccia alcun riferimento ai contenuti non reali e dunque, nel rispetto del principio di tassatività della legge penale, le azioni di diffusione di immagini sessualmente esplicite senza il consenso della vittima ma realizzate attraverso la tecnica del deep-fake, nonostante siano comunque fortemente lesive della sfera intima del soggetto offeso, non potrebbero rientrare all’interno di tale fattispecie di reato. [21] Diametralmente opposta è invece la situazione relativa all’articolo 600 quater 1 c.p. che punisce la pornografia virtuale intesa come la realizzazione di video falsi raffiguranti minori andando ad anticipare la tutela della loro libertà sessuale. Infatti, tale fattispecie contempla la tecnica del deep-fake in quanto per video falsi si intendono anche le manipolazioni delle immagini e i fotomontaggi.
Dunque, sarebbe auspicabile un intervento legislativo che possa tutelare maggiormente le vittime di tali azioni lesive commesse con dolo (a differenza della responsabilità medica o per omicidio e lesioni stradali).
6. Il diritto penale della società del rischio
Concludendo, quando si sente parlare di tali sistemi, sembra sempre che riguardino un mondo lontano, futuro e inaccessibile. Invece, non è così. Il futuro è adesso ed è bene che si inizi ad affrontarlo. Il mondo dei reati robotici è già reale. Il diritto (come sempre) arriva in ritardo (e il penale in particolar modo): è normale, esso disciplina le situazioni concrete che di volta in volta si vanno a realizzare e non può ipotizzare situazioni future. Il legislatore rincorre i fenomeni che avvengono nella quotidianità e la funzione stessa del diritto penale impone che sia così, non essendo ammissibile in una democrazia occidentale avanzata l’utilizzo del sistema penale per “correggere” e “indirizzare” le condotte dei consociati verso scopi superindividuali. Il diritto penale, e quello punitivo latamente inteso, deve rimanere l’ultima ratio.
Infatti, per quanto possiamo girare la testa dall’altra parte e non pensare alle conseguenze (positive e negative) dell’evoluzione tecnologica, queste ci coinvolgono da vicino. Ed è necessario effettuare un bilanciamento in modo tale da non frenare lo sviluppo tecnologico e al contempo tutelare i diritti degli individui. Dunque, è prospettabile ipotizzare una legislazione penale basata sul principio della società del rischio.[22] Si tratta di un passaggio da una prospettiva ex post del diritto penale ad una prospettiva ex ante grazie all’individuazione di norme cautelari che devono essere rispettate dagli operatori che risulteranno in tal caso esenti da responsabilità perché si rientrerebbe in un’area di rischio consentito, tutelando così il progresso scientifico e l’essere umano.
*Cfr. in questa Rivista sul medesimo tema Algoritmi e intelligenza artificiale alla ricerca di una definizione: l’esegesi del Consiglio di Stato, alla luce dell’AI Act di Federica Paolucci dell’8 aprile 2022; La tecnologia amica del processo: dall’eredità dell’emergenza pandemica ai sistemi di giustizia predittiva di Roberto Natoli e Pierluigi Vigneri del 16 marzo 2022; e Il draft di regolamento europeo sull’intelligenza artificiale di Antonello Soro del 6 maggio 2021.
[1] A. M. Turing, “Computing Machinery and Intelligence,” Mind 59, no. 236, 1950 (pag. 433–460).
[2] L. Mischitelli, “Così i robot aiutano i chirurghi a operare meglio: progressi e prospettive della tecnologia”, in Agendadigitale.eu, 4 giugno 2021: https://www.agendadigitale.eu/sanita/cosi-i-robot-aiutano-i-chirurghi-a-operare-meglio-progressi-e-prospettive-della-tecnologia/
[3] M. Moruzzi, “Robot sanitari alla sfida autonomia: la svolta «quinta dimensione»”, in Agendadigitale.eu, 21 ottobre 2020: https://www.agendadigitale.eu/sanita/robot-sanitari-alla-sfida-autonomia-la-svolta-quinta-dimensione/
[4]J. McCarthy, M. L. Minsky, N. Rochester e C.E. Shannon, “A proposal for the Dartmouth summer research project on artificial intelligence”, Dartmouth College, Hanover, New Hamphsire, 1955: http://jmc.stanford.edu/articles/dartmouth/dartmouth.pdf .
[5] M.L. Minsky, “Semantic information processing”, Cambridge, 1969.
[6]S. Campanelli, “2022 anno del Tesla Bot, il robot umanoide da lavoro di Elon Musk”, Huffpost, 20/08/2021: https://www.huffingtonpost.it/entry/tesla-bot-il-robot-umanoide-metallico-di-elon-musk_it_611f881ae4b0e8ac791d153d.
[7] Commissione Europea, “Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale (legge sull'intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell'unione”, COM2021/206 final, Bruxelles 21/04/2021: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/txt/?uri=celex:52021pc0206
[8] State v. Loomis, 881 N.W.2d 749 (2016) 754 (USA).
[9] G. Hallevy, “The Criminal Liability of Artificial Intelligence Entities - from Science Fiction to Legal Social Control”, Akron Intellectual Property Journal: Vol. 4: Iss. 2, Article 1: https://ideaexchange.uakron.edu/akronintellectualproperty/vol4/iss2/1
[10] C. Piergallini, “Intelligenza artificiale: da ‘mezzo' ad ‘autore' del reato?” Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 1 dicembre 2020, pag. 1745; Paragrafo 4.1 “Machina artificialis delinquere et puniri potest? Grundlinien di un (improbabile) diritto penale ‘robotico'”.
A. Cappellini, “Machina delinquere non potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale”, in Criminalia: Annuario di scienze penalistiche, Edizioni ETS, 2018, Pisa: https://discrimen.it/wp-content/uploads/Cappellini-Machina-delinquere-non-potest.pdf
M.B. Magro, “Decisione umana e decisione robotica un’ipotesi di responsabilità̀ da procreazione robotica”, in La Legislazione penale, Giustizia Penale e nuove tecnologie, 2020, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino, Torino: http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2020/05/Magro-Giustizia-penale-e-nuove-tecnologie.pdf
[11] A. Cappellini, “Machina delinquere non potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale”, in Criminalia: Annuario di scienze penalistiche, Edizioni ETS, 2018, Pisa: https://discrimen.it/wp-content/uploads/Cappellini-Machina-delinquere-non-potest.pdf
[12]Direttiva 85/374/CEE del Consiglio del 25 luglio 1985 relativa al “Ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi”: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:31985L0374&from=IT
[13] A. Cappellini, “Profili penalistici delle self-driving cars” (pag. 325 – 353) in “Nuove frontiere tecnologiche e sistema penale. Sicurezza informatica, strumenti di repressione e tecniche di prevenzione”, IX Corso di formazione interdottorale di Diritto e Procedura penale “Giuliano Vassalli” per dottorandi e dottori di ricerca. AIDP Gruppo Italiano, Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights – Siracusa, 29 novembre – 1 dicembre 2018. In Diritto penale Contemporaneo, Rivista trimestrale 2/2019. Paragrafo 2 (pag. 327 – 328) “Dalle auto semi-autonome a quelle totalmente self-driving: i “livelli” di automazione”.
I. Salvadori, “Agenti artificiali, opacità tecnologica e distribuzione della responsabilità penale”, Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 1 marzo 2021, pag. 83; Paragrafo 3, “Dall'automazione all'autonomia: classificazione degli agenti artificiali”.
[14] M. B. Magro, “Biorobotica, robotica e diritto penale”, in D. Provolo, S. Riondato, F. Yenisey (a cura di), Genetics, Robotics, Law, Punishment, Padova University Press, 2014, pp. 510 s.
[15] Sentenza della Cassazione Penale, Sezioni Unite, n. 8770 del 22 febbraio 2018: https://www.biodiritto.org/ocmultibinary/download/3259/31842/8/ba374071a4619dfb28edf5d0587fb316/file/cass-pen-sez-un-2018-8770.pdf
[16] F. Cembrani, “Irresponsabilità penale del medico e qualità metodologica del sapere scientifico codificato medical and methodological quality of the scientific code”, Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc.2, 1 aprile 2019.
[17] WHO, World Health Organization, “Ethics and Governance of Artificial Intelligence for Health: WHO Guidance”, Ginevra, 2021: https://www.who.int/publications/i/item/9789240029200
[18] E. Hunt, “Tay, Microsoft's AI chatbot, gets a crash course in racism from Twitter”, The Guardian, 24/03/2016: https://www.theguardian.com/technology/2016/mar/24/tay-microsofts-ai-chatbot-gets-a-crash-course-in-racism-from-twitter
[19]E. Capone, “Le intelligenze artificiali fra razzismo e questione etica”, 06/04/2021, IT Italian.Tech, Parte del gruppo GEDI e la Repubblica: https://www.italian.tech/2021/04/06/news/le-intelligenze-artificiali-fra-razzismo-e-questione-etica-299491573/
[20] F.M.R. Livelli, “Deepfake e revenge porn, combatterli con la cultura digitale: ecco come”, in Network Digital 360 – Cybersecurity 360, 8 febbraio 2021: https://www.cybersecurity360.it/nuove-minacce/deepfake-e-revenge-porn-combatterli-con-la-cultura-digitale-ecco-come/
[21] N. Amore, “La tutela penale della riservatezza sessuale nella società digitale. Contesto e contenuto del nuovo cybercrime disciplinato dall’art. 612 ter c.p.”, in Legislazione penale, 20 gennaio 2020: http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2020/01/N.-Amore-Approfondimenti-1.pdf
[22] S. Arcieri, “Percezione del rischio e attribuzione di responsabilità”, in Diritto Penale e Uomo (DPU) – Criminal Law and Human Condition, Fascicolo 10/2020, 28 ottobre 2020, Milano: https://dirittopenaleuomo.org/wp-content/uploads/2020/10/douglas_DPU.pdf.
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