ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Luigi Salvato
1. Caro Luigi, secondo Te, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
«Diritto e dovere sono come il retto e il verso di una medaglia. [...]. Nella storia del pensiero morale e giuridico questa medaglia è stata guardata più dal lato dei doveri che da quello dei diritti», almeno fino a quando è maturata la transizione dal codice dei doveri al codice dei diritti, «dalla priorità dei doveri alla priorità dei diritti». Queste considerazioni di Norberto Bobbio sintetizzano icasticamente la relazione tra diritto e dovere, la complessità delle questioni alla stessa sottese, la preminenza del primo nella «età dei diritti», emergendo tuttavia nell’attuale fase storica l’opportunità di una riflessione sull’equilibrio tra gli stessi.
L’affermazione della priorità dei diritti rispetto ai doveri è stata imposta dall’esigenza di rovesciare il rapporto tra governanti e governati, di riguardarlo dalla parte del popolo, non del principe. L’enunciazione di ciascun diritto ha rappresentato «l’antitesi di un abuso di potere che si voleva combattere»», necessaria per garantire e realizzare «nuove libertà contro vecchi poteri», per affermare «che l'uomo ha dei diritti preesistenti alla istituzione dello Stato» (Norberto Bobbio).
A questa concezione si è accompagnato il convincimento che obiettivo dello sviluppo economico-sociale è l’espansione delle libertà reali di cui godono gli esseri umani. Risultata vincente l’idea liberale, avremmo dovuto addirittura considerare «la possibilità che la stessa storia sia finita» (Francis Fukuyama). La storia, come sappiamo, non è finita (lo ha ammesso in questi giorni lo stesso Fukuyama nel commentare la crisi tra Russia ed Ucraina); non ha, non può avere, una fine.
L’età dei diritti è permeata da una concezione individualistica che connota anche la società, ma è dubbio che si tratti di un esito necessitato ed ineluttabile. È noto il dibattito in ordine alla relazione tra diritto e dovere, riassumibile (con sintesi estrema, con le semplificazioni e gli errori in questa insiti) nella contrapposizione tra le concezioni secondo cui «il diritto dell'uno esiste solo presupponendo il dovere dell'altro» e quella che ritiene quest’ultima insufficiente a rendere conto del modo in cui l’ordinamento considera gli individui.
Senza sottovalutare la complessità della questione, può ritenersi che la concezione individualistica sia viziata per difetto. Non coglie infatti che il diritto, la libertà, in quanto riconosciuti all’interno della società, che costituisce «un insieme in cui le varie componenti sono interdipendenti», sono legati da una stretta relazione ai doveri inerenti all’appartenenza alla società. Quando, ancora Norberto Bobbio, sottolinea che «l'enorme importanza del tema dei diritti dell'uomo dipende dal fatto che è strettamente connesso con i due problemi fondamentali del nostro tempo, la democrazia e la pace», fa emergere chiara l’impossibilità di scindere i diritti dai doveri. La considerazione dei soli diritti non basta per fondare l’etica pubblica; di ciò era convinto Giuseppe Mazzini, che osservava (nei Doveri dell’uomo): «Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l'armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione».
La crisi della società e le grandi tragedie del secolo scorso – della guerra, dei lager nazisti, delle stragi etniche, continuate anche dopo il ‘900 – hanno rafforzato la primaria esigenza di custodire la dignità dell’uomo ed i diritti fondamentali, non adeguatamente soddisfatta dagli sviluppi successivi alla loro proclamazione.
La storia ci ha consegnato una società (non soltanto quella del nostro Paese) troppo intrisa della convinzione che l’uomo sia pressoché esclusivamente soggetto di bisogni e che la sua esistenza abbia per fine il benessere individuale; quindi, una società permeata da una concezione che rischia di trasformare i cittadini in monadi isolate, disposti a sacrificare, sull’altare dell’interesse personale, legami umani e vincoli sociali, di renderli meri consumatori, spesso dimentichi che «la libertà non è mai un soffice cuscino sul quale ci si possa adagiare o dare a un godimento passivo; è sempre una sfida all’attività».
Quando l’apatia prende il posto della partecipazione attiva alla comunità, è alto il rischio di cadere «in una sorta di autoritarismo involontario. I cittadini dormono e i governanti fanno quel che vogliono» (Ralf Dahrendorf). Proprio perché l’importanza dei diritti e delle libertà è indiscussa, gli individui hanno oggi «fondato motivo per chiedersi che cosa dovrebbero fare per aiutarsi reciprocamente a tutelare o a promuovere le rispettive libertà»; per riflettere sul fatto che anche coloro i quali non sono responsabili della loro violazione, «ma che si trovano nella condizione di dare un contributo, hanno ragione per interrogarsi su ciò che dovrebbero fare». Riconoscere i diritti umani, le libertà individuali, significa «comprendere che, se una persona si trova in una posizione da cui può intervenire in modo efficace per scongiurare la violazione di un certo diritto, essa ha una buona ragione per procedere in tal senso» (Amartya Sen). Il cittadino deve essere attivo; dal cittadino va pretesa un’azione positiva, che rinviene fondamento nei doveri inerenti all’essere parte della società (più in generale, all’appartenenza all’umanità).
L’età dei diritti è stata saldamente fondata sull’esigenza di rovesciare il rapporto governanti-governati e, tuttavia, per garantirne l’attuazione, occorre altresì arginare una concezione esclusivamente individualistica con essa in antitesi; quindi, si ripropone il tradizionale interrogativo: che fare?
Individuare la soluzione è difficile; non spetta a me neppure accennarvi (non ne ho la forza e la capacità), ma sono convinto che passi anche attraverso la rivalutazione dei doveri, ricordando che Norberto Bobbio, alcuni anni dopo avere indicato nell’età dei diritti il «signum prognosticum del progresso morale dell’umanità», scrisse: «se avessi ancora qualche anno di vita, che non avrò, sarei tentato di scrivere “L’età dei doveri”».
La riflessione di Giuseppe Mazzini sui doveri resta dunque centrale, anche se deve essere attualizzata, occorrendo cogliere «il suo sentimento etico della vita come missione al servizio di grandi ideali» (sono le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in occasione dell’incontro con una delegazione del Consiglio regionale della Toscana ed una rappresentanza di studenti toscani per presentare la pubblicazione su Giuseppe Mazzini "i doveri dell'uomo", 1° dicembre 2005) e la valorizzazione che egli ne fa per ripensare la complessità dell’ordinamento e ricomporre l’unione tra diritti, libertà e responsabilità, in vista della piena realizzazione di quei mirabili equilibri consegnatici dai Costituenti, nelle istituzioni democratiche e nella coscienza dei cittadini.
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
Per le considerazioni svolte nel rispondere alla prima domanda, sono attuali gli interrogativi con cui Giuseppe Mazzini (nell’introduzione ai Doveri dell’uomo), si chiedeva: se «l’idea dei diritti inerenti alla natura umana è oggimai generalmente accettata: accettata a parole e ipocritamente anche da chi cerca nel fatto, eluderla. Perché dunque la condizione del popolo non ha migliorato?»; «dove i diritti vengono a contrasto con quelli d’un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualche cosa superiore a tutti i diritti?».
Mazzini dà risposta a detti interrogativi individuando nei doveri lo strumento di equilibrio, elaborando una strategia cui è sotteso il convincimento che l’esclusiva rivendicazione dei diritti rischia di sostituire ai passati sistemi oppressivi altri nuovi, non meno oppressivi, basati sulla forza, che oggi appare essere soprattutto quella economica. In lui era radicato il timore che l’enfatizzazione dei diritti potesse tramutarsi in retorica, timore amplificato (per alcuni, significativi, aspetti) dalla globalizzazione, se lasciamo che questa sia dominata da una logica eminentemente mercantile. Ed in tale logica può scivolare, nonostante le migliori intenzioni possibili, anche la libertà che, quando assoluta, esclusiva e senza limiti, finisce con dare «un valore economico ad ogni bene della vita» (Cesare Salvi), innescando una spirale inflattiva che rischia di condurre ad un’incongruente normativizzazione dei desideri.
I rischi insiti in una valutazione atomistica dei diritti sono stati colti dalla Corte costituzionale, affermando: «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (tra le più recenti, sentenza n. 33 del 2021). Si impone dunque una «valutazione sistemica», imprescindibile per evitare che un diritto possa pregiudicare gli altri (per tutte, sentenza n. 25 del 2019). Il rischio di un tale esito è insito nell’apprezzamento atomistico che istituzionalmente spetta ad una Corte esclusivamente dei diritti, quale la Corte EDU, benché appaia dubbio che anche per questa sia davvero l’unico praticabile e necessitato. L’immanenza di detto rischio spiega e giustifica il successo della tecnica del bilanciamento, assurta ad una sorta di novella pietra filosofale in grado di garantire gli equilibri richiesti dallo Stato costituzionale, pur con le note difficoltà ed incertezze insite nella stessa.
Anche Mazzini era attento a detto equilibrio, da lui ricercato volgendo lo sguardo ai doveri, ma non verso i governanti, bensì verso la verità ed il bene comune. Egli avverte infatti gli «operai Italiani, fratelli miei», che «la conoscenza […] dei diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole» e appunto per questo precisa: «non chiedo che rinunziate a questi diritti: dico soltanto che non sono se non una conseguenza dei doveri adempiti». In tal modo egli pone in luce l’insufficienza (oggi profetica) di un’attenzione focalizzata pressoché esclusivamente sui «miglioramenti materiali» ed elabora la teoria della «solidarietà dei doveri».
È dunque identificabile un profilo comune ed uno di diversità con l’attuale tecnica del bilanciamento. Nell’operazione di bilanciamento rinvenibile nella teorica mazziniana l’accento tonico ricade sui doveri; in quella della Corte costituzionale verte essenzialmente sui «valori», essendo altresì note le posizioni di chi, autorevolmente, ritiene che «[i]l bilanciamento è sempre tra i diritti fondamentali» (Gaetano Silvestri). Nondimeno, in coerenza con l’espressa previsione nella Carta fondamentale non soltanto dei diritti, ma anche dei doveri e con la considerazione che «tutti gli esseri umani […] sono egualmente dotati di dignità e di diritti “inalienabili”, cioè indisponibili, oltre che gravati di doveri sociali» (Valerio Onida), dalla giurisprudenza costituzionale emergono precisi segnali (che ragioni di spazio impongono di enunciare in modo assiomatico) nel senso della necessità del confronto (e bilanciamento) dei diritti anche con i doveri.
Può convenirsi con l’affermazione secondo cui non è pensabile che «l’interesse collettivo possa travolgere la sfera della tutela soggettiva» (Beniamino Caravita di Torritto), ma ciò non impedisce che occorra adeguatamente considerare l’esigenza di valorizzare nell’operazione di bilanciamento i doveri. E questi sono, nella dimensione costituzionale, ma già nel pensiero di Mazzini, quelli che si hanno nei confronti della società, prima ancora dell’umanità. Se così è, occorre chiedersi – lo dico problematicamente, per dare corpo ad un interrogativo – se non occorra più attentamente valorizzarli nell’operare il richiamato bilanciamento, per realizzare un ragionevole equilibrio negli ambiti (esemplificativamente, con riguardo ad alcuni di più stringente attualità) della tutela della salute (dando quindi il giusto rilievo al dovere di concorrere alla salute pubblica), del diritto penitenziario (interrogandosi sulla possibilità di ritenere che i doveri verso la società giustifichino la pretesa di una positiva dimostrazione della recisione dei legami con il mondo della criminalità e l’impossibilità del loro ripristino), del diritto alla privacy (che oggi richiede, come accenno di seguito, l’attenzione soprattutto ai doveri che gravano coloro che acquisiscono, specie per ragioni economiche, una massa smisurata di informazioni).
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Te la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
Ai piani sui quali si svolgono e trovano attuazione i diritti ed i doveri si è accennato nella risposta alla domanda che precede; in quella alla prima domanda si è fatto riferimento alla relazione tra gli stessi. Colgo dunque in questa domanda soprattutto il tema dell’effettività dei diritti, inscindibilmente legata alla loro tutela; al riguardo basta ricordare la nota affermazione secondo cui «non è utile proclamare diritti se non c’è chi è in grado di difenderli» (Thomas Hobbes) della quale (come accenno nella risposta alla sesta domanda) è possibile rinvenire un riferimento nel pensiero di Mazzini, allorché pone in luce l’essenzialità della giurisdizione ai fini della tutela delle libertà.
La questione della tutela dei diritti si è complicata a seguito della globalizzazione e del mutamento della concezione della sovranità dello Stato seguita alla trasformazione del diritto internazionale (divenuto anche il diritto degli individui) ed alla realizzazione dell’ordinamento multilivello. Queste trasformazioni hanno condotto all’istituzione di corti internazionali, cui gli individui possono rivolgersi per conseguire forme di tutela dei loro diritti fondamentali (Alessandro Pizzorusso), risultando in tal modo garantita l’effettività dei diritti anche mediante l’accesso diretto del singolo alle stesse.
In Mazzini, per ragioni intuitive e per quanto si dirà nel rispondere alla settima domanda, è arduo trovare un accenno espresso alla possibilità di ricorrere, per la tutela delle libertà, a tribunali diversi da quelli dello Stato di appartenenza. La domanda fa tuttavia trasparire la questione, sopra accennata, del rischio della saturazione degli ordinamenti giuridici (con continue richieste di tutela iperindividualistiche) e del riconoscimento di nuovi diritti che, siccome non fondati su istanze stabili e universali, potrebbero risultare irragionevoli, refrattari a qualunque bilanciamento e frutto, come detto, di una logica mercantile che può condurre alla accennata «normativizzazione dei desideri».
Le questioni in campo sono quelle complesse, ampiamente indagate, che richiedono di stabilire: come distinguere tra pretese fondate e meri desideri; a chi spetti il riconoscimento dei diritti; dell’equilibrio tra potere legislativo e giudiziario, per evitare di «consegnare i diritti fondamentali alla mercé del consenso» e di alimentare la cd. juristocracy, termine utilizzato «per sottolineare la tendenza un po’ aristocratica di individuare nelle aule giudiziarie le sedi più appropriate per le decisioni sui diritti fondamentali» (tendenza di cui ha dato conto Marta Cartabia), con il rischio (paventato da Francesco Gazzoni) di soluzioni «arbitrarie», appunto per questo, scarsamente tolleranti.
A tali questioni può essere data risposta (almeno in parte) mediante un’accorta valutazione dei doveri, ricostruendo la trama che li lega ai diritti.
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una
componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Te questa prospettiva si ritrova nell’art.2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a Tuo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
La risposta a questa domanda – in particolare, al secondo dei due, densi, quesiti nei quali si articola – potrebbe essere affidata alle parole del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: «è importante che soprattutto i giovani riscoprano il pensiero di Mazzini, leggano e studino le sue opere perché esse ci aiutano a comprendere il significato autentico dei valori posti a fondamento della nostra Costituzione repubblicana».
Quando Mazzini scrive: «l’origine dei vostri Doveri sta in Dio. La definizione dei vostri Doveri sta nella sua Legge», svolge una considerazione che, depurata del profilo religioso del suo pensiero, pone in luce una fonte trascendente dei doveri ed una finalità degli stessi che ne evita la valenza di strumento oppressivo e li rende anzi argine contro lo svuotamento del contenuto dei diritti ed una deriva marcatamente individualistica che può metterli in crisi.
I doveri, come declinati da Mazzini, danno contenuto alla cittadinanza quale «conquista quotidiana che richiede un dare e un avere […] adesione consapevole a una comunità intessuta di affetti, e non solo di interessi […] compartecipazione emotiva e simbolica, il cui collante primario è la solidarietà dei doveri, su rinnovate basi culturali e politiche» (Edoardo Crisafulli). I richiami alla coscienza come ad «un lume che le rompa d’intorno la tenebra, d’una norma che ne verifichi e diriga gli istinti» fissano quale finalità dell’agire il conseguimento di un alto interesse generale, che è quello della Umanità. Egli indica infatti «il nostro primo dovere» nel «concorrere a che l’Umanità salga prontamente quel grado di miglioramento e di educazione, al quale Dio e i tempi l’hanno preparata».
Il riferimento ad un’entità sovrannaturale è frutto della concezione religiosa che impronta il suo pensiero. Nondimeno, è possibile offrirne una lettura laica ed attuale, soprattutto perché Mazzini osserva che la Legge deve essere «scoperta» «linea per linea»; ciò è possibile «quanto più s’accumula l’esperienza educatrice delle generazioni, quanto più cresce in ampiezza e in intensità l’associazione fra le razze, fra i popoli, fra gli individui», nel convincimento che «i primi doveri […] sono verso l’Umanità».
I doveri, nella ricostruzione di Mazzini, sono finalizzati ad evitare che ogni uomo, concentrato esclusivamente nel soddisfacimento dei propri desideri e nella tutela dei propri diritti, possa diventare «quasi estraneo al destino di tutti gli altri». Permettono quindi di scongiurare il rischio – posto in luce anche da altri pensatori e che oggi appare particolarmente forte – del rifluire dell’uomo in una dimensione in cui «i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso» (Alexis De Tocqueville).
In definitiva, i doveri, nel pensiero mazziniano, costituiscono strumenti necessari a proiettare l’uomo «in una dimensione comunitaria che lo costringe a fare i conti con l’alterità e con interessi sovrastanti la propria egoistica ed edonistica individualità» (Paolo Grossi).
I richiami alla circostanza che «i più importanti doveri sono positivi» («Non basta il non fare: bisogna fare», «Non basta il non nuocere: bisogna giovare ai vostri fratelli») radicano la c.d. «solidarietà dei doveri» e l’etica della responsabilità, stella polare che deve guidare il cammino dei cittadini.
Per queste considerazioni traspare il legame del pensiero di Mazzini con alcuni dei valori consacrati nella Costituzione, specie laddove questa contiene precisi richiami ai doveri, tema che non ha attirato lo stesso interesse dei diritti, anche per l’asimmetria che ha caratterizzato l’età dei diritti.
L’art. 2 Cost. recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E’ chiaro e preciso il richiamo ai doveri, giustificato, nel corso dei lavori della Costituente, con la considerazione che «poiché l'uomo è “animale sociale” e non può essere giuridicamente considerato se non in quanto tale, ai diritti naturali fanno riscontro, nell'articolo, i correlativi doveri, senza il rispetto dei quali non è possibile l'umana convivenza; e anche questi doveri non sono soltanto quelli specificati nei successivi articoli della Costituzione; sono doveri naturali, al pari dei diritti (rispetto della vita altrui, della libertà di movimento altrui, dell'onore altrui, ecc., ecc.)». Emerge evidente la relazione con il pensiero di Mazzini, frutto della concezione dell’uomo quale «animale sociale», perciò necessariamente calato in una dimensione collettiva e cooperativistica e, appunto per questo, espressamente richiamato dal Presidente della Commissione dei settantacinque (Meuccio Ruini), il quale mise in luce tale matrice ed il legame tra diritti e doveri. Legame che «certo non si traduce in una corrispondenza biunivoca tra situazioni giuridiche soggettive attive e passive», ma «è più complesso e trova ragion d’essere nella funzionalità dei doveri costituzionali alla sopravvivenza di un ordinamento orientato all’affermazione e al mantenimento delle condizioni di sviluppo della persona umana, della quale i diritti di libertà risultano indefettibili declinazioni» (Alessandro Morelli).
Il dovere di solidarietà sociale era dunque immanente al pensiero mazziniano; basta considerare, per avere riguardo a profili, per così dire, concreti, la proposta che egli avanzò di una riforma tributaria ispirata alla tassazione del superfluo, tramite l’intervento legislativo dello Stato, in grado di assicurare «ricompense» proporzionate al lavoro e di garantire l’occupazione anche con una politica di lavori pubblici. È sufficiente tale accenno per evidenziare alcune ragioni di attualità della sua concezione della società. In una fase storica in cui sembra ineluttabile il primato del mercato (perché locus naturalis, mentre è un locus artificialis, Natalino Irti) ed il c.d. «orientamento naturalistico dell’economia», quindi una concezione dalla quale traspare «il volto più sincero dell’economicismo [che] è nell’anti-politica e nell’anti-ideologia» (Natalino Irti), occorre riflettere sulla attualità di una frase di Luigi Einaudi, ricordata dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro («l’economia è ancella della politica»), per garantire che i diritti non siano ridotti a mera proclamazione.
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo Te oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
Dopo gli eventi storici del febbraio 1834, Mazzini impresse un carattere marcatamente religioso al suo pensiero politico, giungendo a ritenere sterile e dannosa una politica non intimamente connessa ad un principio religioso. La religione in Mazzini, ha scritto Maurizio Viroli, non costituisce però «un sistema di dogmi o di verità scritte in questo o quel libro sacro bensì un principio che spinge gli uomini a trovare nuove forme politiche e sociali, il concetto che innalza l’individuo, lo purifica dell’egoismo e lo rende capace di agire nella storia per realizzare un fine morale». Dunque, il «Dio che Mazzini addita al popolo quale ente supremo che orienta le sorti del mondo è “un termine […] a cui può aderire qualunque coscienza di credente”»; è «un principio di giustizia (o di amore) che guida la storia», nel rifiuto dell’immutabilità del dogma, di una religione cristallizzata in una rivelazione fissata per l’eternità e della «pretesa della gerarchia ecclesiastica della interpretazione della rivelazione divina» (Massimo Scioscioli).
Si tratta di conclusioni che emergono chiare quando Mazzini scrive: «noi vogliamo Associazione: come ottenerla sicura se non da fratelli che credano negli stessi principi regolatori, che s’uniscano nella stessa fede, che giurino nello stesso nome?», rimarcando che «vogliano formare Nazione: come riescervi, se non credendo in uno scopo comune, in un dovere comune?» e sottolineando di credere «nell’Umanità sola interprete della legge di Dio sulla terra».
Il riferimento è dunque ad un principio di giustizia, che può essere depurato dal richiamo ad un determinato credo. Tanto, soprattutto laddove egli, attribuendo il compito di individuarlo all’intera Umanità piuttosto che alle gerarchie clericali, permette di fare riferimento ad una religione civile, anziché ad un dato credo. Lo status di cittadino non è poi correlato ad una determinata religione, tenuto conto della declinazione da lui offerta delle libertà. Tra queste include infatti la «libertà di credenza religiosa», sottolineando: «Nessuno ha diritto […] di legislazione esclusiva sulle vostre opinioni religiose; nessuno fuorché la grande pacifica voce dell’Umanità ha diritto di frapporsi fra Dio e la vostra coscienza».
Per questi profili, il suo pensiero conserva elementi di modernità e costituisce ancora un valido insegnamento. La sua concezione permette infatti di definirlo apostolo di una religione laica, ispirata all’etica della responsabilità, soprattutto quando ammonisce che non v'è «patria senza un diritto uniforme» e non v'è patria «dove l'uniformità di quel diritto è violata dall'esistenza di caste, di privilegi, d'ineguaglianze», finalizzando i doveri e l’impegno di ciascuno per il conseguimento di uno scopo di coesione sociale, al fine di garantire il rispetto dei diritti di tutti.
Qui si esauriscono tuttavia gli elementi di modernità del pensiero di Mazzini e la possibilità di rinvenire un collegamento con i valori costituzionali, specie quello di solidarietà.
È difficile negare che il fortissimo sentimento religioso che permea la sua visione è, in larga misura, dissonante rispetto al carattere laico del nostro ordinamento costituzionale. Il distacco si rivela forte quando egli pone in guardia i lettori da quanti affermano che «la politica è una cosa, la religione un’altra. Non le confondete», ammonendoli: «Di quei che così vi parlano […] non amano Dio», per aggiungere, qualche pagina dopo, «possono dirvi cosa che non sia di Dio? Nulla è di Cesare, se non in quanto è conforme alla legge divina. Cesare, ossia il potere temporale, il governo civile non è che il mandatario, l’esecutore, quanto le sue forze e i tempi concedono, del disegno di Dio: dove tradisce il mandato è vostro, non diremo diritto, ma dovere, mutarlo».
Emblematica in tal senso è, infine, l’affermazione «Dio v’ha dato la vita; Dio v’ha dunque dato la legge. Dio è l’unico Legislatore della Razza umana. La sua legge è l’unica alla quale voi dobbiate ubbidire». Si tratta di considerazioni marcatamente orientate che connotano la sua teoria di un «fortissimo contenuto religioso che ne costituiva l’originalità ma, in qualche misura, anche il limite e, per l’identità da lui postulata tra religione e politica, rischiava di farne qualcosa di simile a una teocrazia» (Giuseppe Monsagrati), al punto che Karl Marx si spinse a definirlo «il nuovo Maometto».
Salve le pur importanti considerazioni iniziali, in relazione al profilo in esame appare complicato negare il distacco dell’idea di Mazzini della nostra Costituzione, benché l’osservanza dei valori fondamentali (di matrice e contenuto diverso) costituisca la fonte ed il limite che tutti (anche il legislatore, nello Stato costituzionale) sono tenuti ad osservare e dei quali va pretesa l’osservanza, ma nel nostro ordinamento con modalità ed azioni ovviamente diverse da quelle da lui prefigurate.
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Te, come può concretizzarsi questa riflessione?
Nella frase riportata nella domanda si annida l’attualità più profonda del suo pensiero, la concezione della c.d. solidarietà dei doveri e della stretta relazione che li avvince ai diritti, delle quali si è detto in precedenza. Alle considerazioni già svolte va aggiunto che nella premessa dell’Atto di fratellanza della Giovine Europa (1834) egli esplicita il convincimento secondo cui «ad ogni uomo, e ad ogni popolo spetta una missione particolare, la quale, mentre costituisce la individualità di quell’uomo, o di quel popolo, concorre necessariamente al compimento della missione generale dell’umanità». La sottolineatura della finalità dell’adempimento dei doveri può essere letta come un preciso richiamo alla necessità di una cittadinanza attiva, cui ho accennato.
La cittadinanza è una conquista quotidiana, che richiede un dare e un avere; è una adesione consapevole a una comunità intessuta di valori, non solo di interessi; è una compartecipazione emotiva e simbolica, il cui collante è anche la solidarietà dei doveri.
Conservano perdurante attualità non poche esortazioni mazziniane, quali: «avete il dovere d'educarvi per quanto è in voi, e diritto a che la società alla quale appartenete non v'impedisca nella vostra opera educatrice, v'aiuti in essa e vi supplisca quando i mezzi d'educazione vi manchino. La vostra libertà, i vostri diritti, la vostra emancipazione da condizioni sociali ingiuste, la missione che ciascun di voi deve compiere qui sulla terra, dipendono dal grado di educazione che vi è dato raggiungere»; «senza educazione voi non potete scegliere giustamente fra il bene e il male; non potete acquistar coscienza dei vostri diritti; non potete ottenere quella partecipazione nella vita politica senza la quale non riuscirete ad emanciparvi; non potete definire a voi stessi la vostra missione. L'educazione è il pane delle anime vostre».
I richiami non implicano, peraltro, un preciso legame sinallagmatico tra i diritti ed i doveri. La sua concezione è, inoltre, incentrata nell’enfatizzare quello dell’educazione, della conoscenza quale fattore imprescindibile di un giusto progresso, all’interno di una precisa gradazione dei doveri.
I «primi doveri», egli scrive, «sono verso l’Umanità» - che specifica essere «un corpo solo» - in quanto «siete uomini: cioè creature ragionevoli, socievoli, e capaci, per mezzo unicamente dell’associazione, d’un progresso a cui nessuno può assegnar limiti». Mazzini si rivela dunque predicatore di un civismo di sicura attualità, come lo è la sottolineatura che «la legge deve esprimere l’aspirazione generale, promuovere l’utile di tutti».
Moderna ed attuale, per alcuni profili, è altresì la concezione della legge. Nell’affermazione che «il semplice voto d’una maggioranza non costituisce sovranità se avversi evidentemente alle norme morali supreme, o chiuda deliberatamente la via al Progresso futuro» sono rinvenibili le radici del costituzionalismo moderno, quale ordinamento capace di porre al riparo le minoranze dallo strapotere delle maggioranze parlamentari, che condussero alle immani tragedie della prima parte del secolo scorso.
La declinazione delle libertà (della libertà personale, di locomozione, di credenza religiosa, «d’opinioni su tutte cose», «d’esprimere colla stampa o in ogni altro modo pacifico il vostro pensiero», di «libertà d’associazione per poterlo fecondare col contatto nel pensiero altrui», di «libertà di traffico»), dell’essere il lavoro «sacro: nessuno ha diritto di vietarlo», riassume ed anticipa le istanze che costituiscono il nucleo essenziale dei diritti di libertà, quali consacrate nella Costituzione.
Si tratta, peraltro, di una declinazione che non si esaurisce in mera proclamazione. Ad essa si accompagna infatti la precisa indicazione dei diritti che scaturiscono dalle libertà e dei rimedi imprescindibili per garantirne l’effettività.
Egli sottolinea: «nessuno ha diritto, in nome della Società, d’imprigionarvi o sottomettervi a restrizioni o invigilamento, senza dirvi il perché, senza dirvelo col minore indugio possibile, senza condurvi sollecitamente davanti al potere giudiziario del paese»; «Nessuno ha diritto di persecuzione, d’intolleranza, di legislazione esclusiva sulle vostre opinioni religiose»; «La stampa dev’essere illimitatamente libera: i diritti dell’intelletto sono inviolabili, ed ogni censura preventiva è tirannide; la Società può, come tutte le altre colpe, punire soltanto le colpe di stampa, la predicazione del delitto, l’insegnamento dichiaratamente immorale: la punizione in virtù d’un giudizio solenne è conseguenza della responsabilità umana, mentre ogni intervento anteriore è negazione della libertà».
Mi è sembrato opportuno riportare tali affermazioni, perché anticipano e riassumono il nucleo fondamentale delle garanzie costituzionali, individuando nella giurisdizione l’essenziale fattore di garanzia e tutela, sino ad anticipare, per alcuni profili, i principi del giusto processo. Di sicura attualità è altresì il riferimento al contenuto della libertà di stampa e di opinione, ma anche ai doveri alle stesse correlati, che inducono ad una riflessione con riguardo al nuovo fenomeno dei social network ed al diritto alla privacy che, per essere tutelato, richiede un rafforzamento dei doveri di non intrusione e di rispetto delle sfere soggettive individuali (specie da parte dei soggetti titolari di un potere economico immane, gestori dei cc.dd. Big data).
La relazione tra diritto e dovere di libertà («voi avete dunque diritto alla Libertà e dovere di conquistarla») è, infine, preciso sprone verso la cittadinanza attiva, che fonda il «dovere di educazione», quale libertà che permette di ripigliare i diritti. L’evocazione del dovere come legge di vita civile non comporta una rinuncia ai diritti, ma è ammonimento ad essere cittadini attivi, per non divenire meri consumatori.
In definitiva, la declinazione dei doveri operata da Mazzini, ponendo al centro il dovere di amare l’umanità, di superare gli interessi particolari, personali, nell’interesse generale e, quindi, di servire il bene comune costituisce presidio che concorre a difendere «la dignità della natura umana […] violata dalla menzogna e dalla tirannide». Ed il suo ammonimento deve costituire un imperativo non soltanto per i cittadini, quali persone fisiche, ma per tutti i soggetti dell’ordinamento, anche per le organizzazioni collettive – in special modo lucrative – in quanto non possono pretendere di instaurare un nuovo ordine basato solo sul profitto.
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritieni dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
La domanda evoca in me ricordi dell’infanzia e mi sollecita una risposta da dare con il cuore piuttosto che con la ragione. Ho frequentato le scuole elementari nei primi, lontanissimi, anni sessanta del secolo scorso, in cui il c.d. ‘sussidiario elementare’, nella parte dedicata alla storia, prestava rilevante attenzione al Risorgimento, celebrato ogni anno in un’apposita giornata (nella quale apponevamo sul grembiulino una coccarda tricolore). Una delle figure centrali era infatti quella di Giuseppe Mazzini; fu così che in me si radicò il convincimento, essenzialmente emotivo, che quel signore barbuto raffigurato nel mio libro era appunto uno dei Padri dell’Italia.
Al di là dei ricordi della memoria, è certo che la Patria è centrale nella concezione di Mazzini. Si tratta tuttavia di una concezione ben lontana da quella (distorta) che impronta i movimenti che enfatizzano antistoriche (ovviamente, esecrabili) divisioni tra gli Stati, separati da rigidi, invalicabili, confini al cui interno ciascuno è sovrano e non dovrebbe rendere conto a nessun altro. Soltanto un misunderstanding può far rinvenire nel suo pensiero gli elementi dei più rozzi nazionalismi del secolo scorso (e di quello attuale), frutto invece di una manipolazione che fece «del mazzinianesimo ciò che non era mai stato: il viatico a una politica di potenza e di affermazione della nazionalità italiana nello scontro con le altre nazioni d’Europa» (Giuseppe Monsagrati).
Giuseppe Mazzini è stato sicuramente uno dei Padri dell’unità d’Italia, ma egli vedeva in tale unità il passaggio fondamentale verso la realizzazione dell’unità europea attraverso l’affratellamento di tutti i popoli europei nel segno della democrazia. Ancora una volta, è sufficiente ricordare le parole di due Presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi (lo «onoriamo come uno tra i Padri più nobili e lungimiranti della nostra Patria, l'Italia repubblicana, una, indivisibile e democratica», ma anche «dell’Europa unita») e Antonio Segni (il quale, nel discorso di insediamento, in un tempo vicino alla nascita della Comunità europea, ricordò: «Questa unità fondamentale dell’Europa fu intuizione ed aspirazione di uno dei più grandi spiriti del nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini»).
La Patria, per Mazzini, costituiva dunque strumento per l’integrazione dei popoli e per la difesa dei diritti inviolabili dell’uomo. Al centro della sua costruzione vi è infatti essenzialmente la «associazione», da lui additata quale «dovere e diritto per voi» e che, in alcuni passaggi, si distacca altresì dalla nozione di Patria nazionale.
Egli, infatti, scrisse: «Taluni a limitarne il diritto fra i cittadini, vi diranno che l’associazione è lo Stato, la Nazione: che voi ne siete e dovete esserne tutti membri; e che quindi ogni associazione parziale tra voi è o avversa allo Stato o superflua. Ma lo Stato, la Nazione non rappresentano se non l’associazione dei cittadini in quelle cose, in quelle tendenze che sono comuni a tutti gli uomini che ne sono parte».
Si tratta di considerazioni che pongono al centro della sua visione «l’associazione», quale «metodo dell’avvenire». Sottolineando che questa deve essere «progressiva», «non contraria alle verità conquistate per sempre dal consenso universale dell’Umanità», «pacifica», «deve rispettare in altrui i diritti che sgorgano dalle condizioni essenziali dell’umana natura», egli ne delinea i caratteri che, in larga misura, sono quelli che connotano le moderne organizzazioni di cooperazione tra gli Stati.
Una dimensione sovranazionale del suo progetto ed il carattere aperto dell’associazione sono altresì precisamente fissati quando scrive (nell’Atto di fratellanza della Giovine Europa) che «La riunione delle Congreghe Nazionali, o dei delegati d’ogni Congrega costituirà la Congrega della Giovine Europa. Gli individui che compongono le tre associazioni sono fratelli. Ognuno di essi adempirà coll’altro ai doveri di fratellanza» (punto 5), sottolineando che «Qualunque popolo vorrà partecipare ai diritti ed ai doveri della fratellanza stabilita fra i tre popoli collegati in quest’atto, aderirà formalmente all’atto medesimo, firmandolo per mezzo della propria Congrega Nazionale» (punto 8).
L’universalità della sua visione è stata puntualmente rimarcata, ricordando che nei suoi scritti politici e nelle sue lettere «è impossibile trovare quei giudizi sprezzanti per i popoli non europei o quelle giustificazioni dei massacri compiuti da talune potenze europee». Al riguardo, è stato ricordato che il Pandit Nehru, nel 1933, dal carcere additò alla figlia Giuseppe Mazzini quale esempio da seguire (Massimo Scioscioli), che pone in luce un’anticipazione dei tempi addirittura straordinaria, se si pensa che le sue riflessioni erano svolte in un tempo dominato dalle politiche colonialiste degli Stati europei. La sua esortazione, ricordata dal Presidente Ciampi, «ad essere apostoli della Fratellanza delle Nazioni e dell'unità del genere umano» («In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo combatte pel diritto, pel giusto, pel vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall'errore, dall'ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, SIETE TUTTI FRATELLI») è di sicura attualità in questi giorni in cui sull’Europa soffiano nuovamente tragici venti di guerra.
Il valore e la grandezza dell’insegnamento europeo di Giuseppe Mazzini non stanno, tuttavia, nella concezione, sostanzialmente vaga, della sua Europa, e neppure nella convinzione (che non ebbe) di una unità sovranazionale, benché avesse sottolineato che cercava di «verificare non una Europa, ma gli Stati Uniti d’Europa». L’europeismo di Mazzini, è stato convincentemente osservato, derivava dal profondo concetto dell’unità della cultura europea, «nello spirito, nell’anima morale di tutta la sua attività, interamente volta a mostrare – e a vivere una tale convinzione – che la democrazia, la libertà, la difesa della dignità dell’uomo sono solidali a livello europeo, o sono destinate a perire» (Andrea Chiti-Batelli), nell’intuizione (puntualmente segnalata da Pasquale Costanzo) della necessità di «equilibrare le differenze che separano un mercato da un altro». Per questa concezione, «non c’è contraddizione alcuna fra amore della propria città e regione, amor di patria, amore d’Europa» (sono parole del Presidente Ciampi nel Messaggio di fine anno agli italiani del 31 dicembre 2000), se solo si considera che lo stesso motto dell’Unione europea («Uniti nella diversità»), secondo la spiegazione ufficiale offerta nel sito web della stessa, «sta ad indicare come, attraverso l'UE, gli europei siano riusciti ad operare insieme a favore della pace e della prosperità, mantenendo al tempo stesso la ricchezza delle diverse culture, tradizioni e lingue del continente».
8. L’opera mazziniana si conclude con questa frase: L’emancipazione della donna dovrebb’essere continuamente accoppiata per voi coll’emancipazione dell’operaio e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale. Quali reazioni Ti suscita questa affermazione, da giurista e da magistrato?
I Doveri dell’uomo sono espressamente dedicati agli operai italiani ed il pensiero politico di Mazzini è strettamente connesso con l’interesse per la questione sociale. Egli tentò infatti di coinvolgere l’intero popolo in un’iniziativa rivoluzionaria volta ad un «miglioramento delle classi più numerose e più povere», spronandolo all’azione e chiarendo i diritti e i vantaggi che avrebbe potuto trarre dal nuovo assetto sociale, nel convincimento che i cittadini potevano essere chiamati a sacrificare la vita e la quiete soltanto «proponendo loro uno scopo di perfezionamento collettivo, di miglioramento morale e materiale comune a tutti, di educazione fraterna senza eccezione».
Giuseppe Mazzini si batté per l’aumento dei salari e per la riduzione della giornata lavorativa; auspicò forme speciali di credito per gli operai, per agevolare l’accesso alla proprietà dei mezzi di produzione; la sola forma di proprietà da lui accettata fu quella proveniente dal lavoro, che doveva deve essere resa accessibile al maggior numero di cittadini: «Non bisogna abolire la proprietà, perché oggi è di pochi; bisogna aprire la via perché i molti possano acquistarla» (così scrive nei Doveri dell’uomo).
Per Mazzini, la soluzione più efficace alla questione operaia poteva derivare soltanto dal fermento rinnovatore rappresentato dall’associazione e dalla sua definizione in senso cooperativistico; appunto per questo, assunse grande rilievo l’impegno politico verso le «classi operose», che avrebbe dovuto tradursi in uno sforzo organizzativo per la creazione di società di mutuo soccorso e per la loro politicizzazione in senso democratico.
Il programma operaio di Mazzini restava, comunque, essenzialmente focalizzato su «una progressiva elevazione morale e culturale della classe operaia» (Nello Rosselli), in coerenza con il suo complessivo pensiero, scarsamente attento agli aspetti economici (particolarmente polemica la considerazione di Giuseppe Garibaldi secondo cui Mazzini non aveva esperienza delle reali condizioni del popolo, non avendolo mai conosciuto da vicino) e che fu alla base delle aspre, note, polemiche con Marx e Bakunin.
È dunque sufficiente ricordare che alcuni hanno ritenuto che le sue considerazioni sulla questione sociale ed operaia prefiguravano in realtà un mero «libro dei sogni» (Enrico Galavotti); altri hanno invece rinvenuto nel suo pensiero le radici del «modello forse impropriamente definito “socialdemocratico”» che, con diverse varianti, ha guidato lo sviluppo delle economie dei paesi europei (Massimo Scioscioli), emergendo, in ogni caso, l’attualità di una perdurante riflessione sul suo pensiero.
I Doveri dell’uomo, espressamente dedicati, come detto, agli operai, hanno altresì quale destinatario la donna e si inquadrano, storicamente, in un’epoca in cui vedevano la luce i primi giornali a questa dedicati. La concezione della Repubblica di Mazzini è focalizzata sull’idea di uno Stato non più basato sui privilegi di nascita, di censo, di sesso, il cui principio cardine è il suffragio universale, esteso perciò anche alla donna.
Già solo tale notazione vale ad evidenziare la modernità di Mazzini anche in relazione alla situazione della donna, soprattutto se si tiene conto di quella esistente al suo tempo.
Accanto a tale sicura modernità si accompagnano però considerazioni chiaramente datate, soprattutto con riguardo alla famiglia, in relazione alla quale (nel capitolo dedicato ai doveri verso la stessa) egli ripropone una risalente (all’epoca, radicata e tradizionale) visione che vede la donna essenzialmente quale «Angelo della Famiglia» e che, in nuce, contiene il germe di una concezione oppressiva, fortunatamente superata dall’evoluzione successiva, a tutti nota alla quale non è dunque necessario accennare.
Non poche sono tuttavia le riflessioni – alcune di sicura attualità ed ancora oggi condivisibili – con le quali sottolinea l’esigenza di realizzare un’eguaglianza effettiva di genere. Anziché attardarsi nell’esegesi del suo pensiero, è sufficiente ricordare che egli scrive: «Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione»; «cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con una educazione disuguale e una perenne oppressione di leggi quell’apparente [l’enfasi è di Mazzini] inferiorità intellettuale dalla quale oggi argomentano per mantenere l’oppressione». «Non esiste disuguaglianza fra l’uno e l’altra»; «abbiatela eguale nella vostra vita civile e politica».
La profonda religiosità di cui è intriso non gli impedì, inoltre, di scrivere: «La Bibbia mosaica ha detto: Dio creò l’uomo e dall’uomo la donna; ma la vostra Bibbia, la Bibbia dell’avvenire dirà: Dio creò l’Umanità manifestata nella donna e nell’uomo».
Si tratta infatti di considerazioni univocamente espressive del convincimento più profondo dell’eguaglianza di genere, la cui realizzazione esige che si dia corso al dovere di tutti di praticarla.
9. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a Tuo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
La domanda è assai interessante, ma con sincerità devo dire che è arduo rinvenire un collegamento con il pensiero di Mazzini e, quindi, suggerisce riflessioni sul significato della riforma costituzionale, che è opportuno restino riservate ai costituzionalisti coinvolti in questa iniziativa – in particolare, ad Antonio Ruggeri ed Alessandro Morelli –, i quali, diversamente da me (sicuramente più di me), hanno titoli e sapienza per svolgerle. Dunque, ritengo senz’altro più proficuo ed utile (per me e per tutti i lettori), leggere le loro considerazioni.
Ucraina 24-02-2022, “Il nemico è la nostra domanda a cui è stata data una forma” di Tommaso Manzon
Queste brevi riflessioni su quanto sta accadendo al momento in Ucraina vogliono essere fatte secondo lo spirito di una celebre citazione di Hegel: “la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero”. Qualunque altra cosa quest’ affermazione significhi, essa indica che il pensare è prima di tutto un pensiero del presente, un meditare con intensità su ciò che accade; qualunque altra cosa la filosofia possa essere è sicuramente almeno questa cosa qui, poiché ogni pensare è fatto qui e ora, in un presente e sul presente. Questo significa che se fatta bene, la filosofia ci consente di comprendere con maggiore chiarezza il nostro tempo ed è così in grado di equipaggiarci meglio per poterlo navigare. Quindi seguire l’indicazione di Hegel non significa fare della filosofia un passatempo che si nutre della notizia del giorno. Piuttosto, significa pensare sul nostro tempo come parte del nostro continuo tentativo di orientarci al suo interno.
Stiamo quindi sul fatto presente che ci s’impone di dover pensare: la Russia ha dichiarato guerra all’Ucraina. Vorrei cominciare citando una tra le tante voci ufficiali che oggi si sono espresse, Larysa Gerasko, ambasciatrice ucraina in Irlanda, la quale durante un’intervista ha espresso la sua incredulità per il fatto che un’invasione come questa possa accadere ancora oggi nel XXI secolo. Di fronte a queste parole bisogna farsi una domanda: il nostro tempo è veramente così diverso dal passato? Per quanto mi riguarda non riesco a trovare nessun motivo a favore di una risposta positiva. Eppure, si sentono abbondare affermazioni basate su una mentalità di questo tipo. “Ma come, ancora la guerra?” si chiede un intero coro di voci, come se questa fosse ormai una cosa relegata ai libri di storia come le locomotive a vapore. Mi sembra che questa visione delle cose non faccia i conti con un fatto, ossia che la differenza tra pace e guerra è essenzialmente una questione di gradi. In altri termini, dovremmo pensare alla pace non come una condizione assolutamente diversa dalla guerra, ma semplicemente come all’assenza di conflitto. Questo significa che per quanto un periodo di pace possa protrarsi nel tempo gli elementi della guerra sono sempre presenti in potenza: è sufficiente che le componenti sociali in pace tra loro si agitino al punto di causare un conflitto; dove ci sono delle persone è in linea di principio possibile che quelle persone a un certo punto litighino.
Ci tengo a sottolineare che non scrivo queste cose per fare sfoggio di un vano cinismo da quattro soldi; che nell’universo imperversi una “guerra intestina” (Dionigi l’Areopagita) e che pertanto il potenziale di un maggior conflitto tra gli esseri umani sia sempre in linea di principio a disposizione, è un fatto basilare dell’esistenza che colora la vita di un tono tragico. Questo non è qualcosa di cui gioire in alcun modo, e che discutere con un disincanto vissuto è solo indice di superficialità intellettuale. Se mi concentro su quest’aspetto della condizione umana è perché ritengo che molti di noi, incluse diverse voci pubbliche, sembrano essersene dimenticati. Quindi “sì, ancora la guerra” bisogna purtroppo rispondere al coro dei perplessi, degli scandalizzati, dei sorpresi e degli sconsolati. Una guerra che, anche se restringiamo il campo alla nostra area geografica, non ci ha mai abbandonato completamente. Del resto, per citare fatti noti a tutti, l’Ucraina è in uno stato di conflitto sin dal 2014 e se risaliamo più indietro troviamo le crisi balcaniche. Poi abbiamo effettivamente un lungo iato fino all’ultimo conflitto mondiale, ma anche questo giudizio si potrebbe complicare se allargassimo la visuale a fenomeni di conflitto sociale che non chiamiamo guerra ma che ne riportano alcuni tratti distintivi (per esempio, pensiamo al terrorismo).
Certo la guerra tra Russia ed Ucraina è per noi diversa da altri eventi analoghi perché ci riguarda più da vicino. Non tanto da un punto di vista geografico, in fondo l’Ucraina è più distante dall’Italia del Kosovo e della Libia, ma perché ci sentiamo chiamati in causa come cittadini europei e come parte di uno stato membro della NATO. Del resto, è stato detto esplicitamente da entrambe le parti: quello che è in discussione in questo scontro va ben oltre le mire della Russia sul suo vicino occidentale e ha a che fare con assetti di potere continentali e intercontinentali. Inoltre, la Russia è la Russia, un colosso sotto tutti i punti di vista, una “nazione apocalittica” (Jacob Taubes) che rievoca memorie culturali vicine e distanti. Questa volta quindi siamo inevitabilmente chiamati in causa nel nostro modo di vivere, nel nostro assetto politico ed ideologico in un grado che probabilmente non si verificava sin dalle grandi crisi della Guerra Fredda. Vedremo in che modo nei prossimi giorni si svilupperà il coinvolgimento del nostro paese in queste vicende ma è un fatto che noi come Italia e come Unione Europea ci siamo – già da tempo – schierati. Ma chi o cosa ci chiama in causa? La risposta è evidente da sé, perché in una guerra ciò che ti chiama in causa è il nemico. In questo caso il nemico è la Russia come nazione che assume per noi soprattutto il volto del suo leader, Vladimir Putin. Sebbene sia chiaro che non si può risolvere un intero popolo e le sue azioni in quelle del suo esponente più noto, rimane il fatto che il suo è lo sguardo che ci si rivolge attraverso le trasmissioni televisive e in rete, e sono soprattutto i suoi comunicati che ci comunicano le intenzioni ufficiali della nazione a noi nemica.
Putin ci chiama in causa in un modo molto specifico che, al netto della propaganda, bisogna cercare di ascoltare con attenzione. Carl Schmitt, essendo appena sopravvissuto ai processi di Norimberga, ebbe modo di scrivere che “Il nemico è la nostra domanda a cui è stata data una forma”. Ebbene, quale domanda, quali domande prendono forma in Vladimir Putin? In un articolo molto discusso pubblicato il 12 luglio del 2021, Putin affermava che il popolo russo ed ucraino erano in realtà due parti di un singolo intero, diviso nel corso di una storia politica avversa. Lasciando da parte l’ovvia funzionalità di una tale ricostruzione al fine di giustificare quanto è avvenuto in seguito, vorrei concentrarmi su di una frase tratta da quel testo. In esso infatti troviamo una citazione di Oleg il Profeta, membro della dinastia dei rurikidi, Principe di Kiev tra l’VIII e il IX secolo DC e fondatore del regno dei Rus di Kiev. Disse Oleg in riferimento alla sua capitale: “che [Kiev] sia la madre di tutte le città russe”. Nello stesso testo, Putin ricorda anche il battesimo del principe Vladimir avvenuto nel 988 nel Chersoneso. Primo principe di Kiev e di Novgorod ad abbracciare la fede cristiana, discendente di Oleg e antenato degli Zar, Vladimir contestualmente al suo battesimo sposò Anna, figlia dell’imperatore bizantino Basilio II. Di ritorno a Kiev fece piazza pulita dei monumenti pagani e condusse il suo popolo nel Dnepr per un battesimo di massa. Questa è la storia di cui Putin afferma di essere erede e che intende affermare con le sue azioni.
Ovviamente, non è tutto così semplice. In primo luogo, le cose da un punto di vista storico sono più complicate di come Putin ce le vuole propagandare; in secondo luogo, sappiamo bene che a motivi di ordine ideale si uniscono sempre altri elementi dettati dal calcolo strategico, economico o dal semplice timore di avere gli eserciti Nato alle porte. Tolto però tutto ciò, le vicende riportate qui sopra ci danno il quadro di riferimento all’interno del quale Putin e la cultura che egli rappresenta vede le proprie azioni e concepisce la propria missione. Sicuramente quest’impostazione non rappresenta tutta la cultura russa, né l’unico modo di declinare la storia di questo paese; ma per ora la cultura di Putin è chiaramente l’opzione egemone in Russia ed è quella che detta il corso degli eventi. Ed è comunque innegabile, al netto di tutto, che esiste un filo che parte dai re di Roma, passa per Costantino il Grande e Giustiniano, si mischia con un altro filo che si muove da Oleg e dalla dinastia dei rurikidi e che arriva oggi a Vladimir Putin – passando per i Romanov e l’URSS. Il punto di arrivo è la già plurisecolare idea di Mosca come terza Roma, e della Russia come baluardo della civiltà cristiana in lotta contro la degenerazione dei paesi occidentali con cui pure condivide un’affinità culturale di fondo. Putin questo lo ha visto fin da ragazzo nella sua San Pietroburgo: città che sintetizza in versione ciclopica l’architettura olandese e veneta insieme a motivi imperiali romani; città che venne costruita ad occidente come una nuova capitale in un luogo dove prima non vi era nulla – e con un grande costo di vite umane – per volontà di uno Zar modernizzatore e filo-occidentale che però fu nemico e invasore dei suoi vicini ad ovest; città sui quali elementi architettonici esteri troneggia la più grande chiesa dell’ortodossia che, con la sua russissima pianta quadrata, è dedicata a Sant’Isacco, protettore dei Romanov.
Non più tardi dell’ora di pranzo di oggi (24/02/2022) ho ascoltato un frammento di un intervento del nostro primo ministro e poi di Putin stesso. La cosa che mi ha colpito è che per un Mario Draghi che batte su come la Russia abbia infranto le regole internazionali, vi sia un Putin che dichiara di agire secondo le regole stabilite dalle Nazioni Unite e dal diritto russo; non solo, la motivazione dietro l’invasione sarebbe quella di “smilitarizzare e de-nazificare” l’Ucraina. Ora, credo che si possa affermare con certezza che Putin non creda veramente alle sue parole quando parla di un’aggressione Ucraina sulle repubbliche separatiste, o quando dipinge questo paese come un covo di neonazisti. Se però ancora una volta cerchiamo di aggirare la propaganda e affianchiamo queste parole a quelle di Draghi (e di Biden, e degli altri leader europei) recuperando quanto detto sulla storia russa, allora appare chiaramente qual è la domanda che il nemico Putin fa prendere forma di fronte a noi. Perché il nemico Putin non solo afferma che quello che egli sta facendo si può comprendere come l’atto più recente di una missione storica e in definitiva sacra; egli afferma anche che le regole e l’etica sono dalla sua parte e che noi non solo siamo nel torto, ma che non siamo mai riusciti ad emergere dagli errori del passato (punto espresso attraverso il travestimento del fantomatico neonazismo degli ucraini). Io credo che Putin abbia torto su ognuno di questi punti; credo però anche che non ci troviamo di fronte né ad un folle (cosa che è stata detta, ma che è irresponsabile dire), né di fronte a un individuo puramente cinico e calcolatore; credo che ciascuno di questi punti evochi un problema serio, una domanda che va discussa.
La linea che emerge da Roma e che arriva a Putin non è sola ma corre in parallelo ad altre linee, una delle quali porta a noi e all’attuale assetto sociale delle nazioni dell’Unione Europea e dei paesi all’interno della sua area d’influenza; la domanda che emerge con Putin è se noi siamo in grado di fare fronte a questa sfida storica, di dimostrare che la storia che ha condotto fino a noi è meglio situata nel mondo della sua e che ha veramente il giusto dalla sua parte. Non possiamo rispondere affermativamente a questa domanda con troppa fretta; dobbiamo resistere al riflesso di scattare con un altisonante “sì!” solo perché a scuola ci hanno spiegato che l’arco del progresso storico porta a noi e che prima o poi tutti finiranno per assomigliarci. Questa è la stessa forma di favola che ci fa stupire che la Russia nel XXI secolo possa ancora spedire i propri carri armati in Ucraina. Questa è una domanda a cui potremo rispondere affermativamente solo sulla base di quello che succederà nei prossimi giorni e se saremo o meno capaci di attraversare questo conflitto con saggezza.
Nel frattempo, che Dio protegga il popolo ucraino e che ci dia presto una pace duratura.
Referendum e art. 274, comma 1, lett. c, c.p.p.: meglio un intervento del Parlamento
di Giorgio Spangher
Se c’è una parte della Costituzione che è in qualche modo datata è sicuramente – seppure parzialmente – quella dove sono regolati i diritti e doveri dei cittadini, ed in questo contesto, quella dei rapporti civili, che risentono profondamente dell’impianto ordinamentale e di quello processuale dell’epoca in cui fu redatta.
Soffermandosi sul tema della libertà personale, in relazione alla specificità del tema qui affrontato il riferimento va ad alcuni profili dell’art. 13 Cost.
In primo luogo, lo stesso riferimento alla libertà appare riduttivo dovendosi ormai fare il più ampio riferimento “alle libertà” in quanto capaci di coprire più ampi spazi rispetto a quella più strettamente personale.
In secondo luogo, va evidenziato il superato riferimento all’autorità giudiziaria quale soggetto garante della libertà e legittimato alla riduzione della libertà. Invero, il riferimento era riconducibile alla struttura ordinamentale, che accumunava giudici e pubblici ministeri, capaci di funzioni spesso fungibili, oggi largamente superate nel nuovo modello processuale che vede una titolare dell’iniziativa tesa alla restrizione delle libertà, l’altra titolare del potere decisorio.
Nel contesto del modello processuale del 1930 e di quello costituzionale del 1948, la restrizione della libertà prima della condanna prevedeva, come risulta dal comma quinto dell’art. 13 Cost., la carcerazione preventiva di cui il legislatore doveva fissare solo i termini di durata massima. Era evidente, in un sistema inquisitorio nel quale, dopo l’archiviazione, già iniziava il processo (morte del reo; art. 150 c.p. e morte dell’indagato/imputato: art. 69 c.p.p.) che potesse esserci l’anticipazione della restrizione (preventiva) della libertà con la misura del carcere (unica misura prevista). Il provvedimento era obbligatorio o facoltativo (a discrezionalità vincolata) disposto – come detto – dal p.m. e dal giudice istruttore, in presenza di sufficienti indizi di colpevolezza.
Addirittura anticipata rispetto alla riforma processuale (l. n. 330 del 1988), la disciplina della libertà personale prima della condanna nel nuovo processo risulta modificata radicalmente e subisce progressivamente assestamenti in senso garantista che ne modificano gli assetti: essendo peraltro questi elementi noti, non richiedono particolari notazioni ed approfondimenti.
Il riferimento si indirizza alle correzioni delle distorsioni del c.d. rito ambrosiano, all’anticipazione ed estensione delle garanzie difensive, alla rimodulazione dei presupposti delle esigenze cautelari, al rafforzamento della disciplina del riesame, attuate progressivamente con le ll. n. 332 del 1995 e n. 47 del 2015.
Nel nuovo modello trovano così collocazione le esigenze cautelari, superando quel “vuoto dei fini”, dell’art. 13 Cost., giustificato dalla funzione anticipatrice della condanna, cui si è fatto cenno. Con la l. n. 517 del 1955 per la cattura facoltativa si faceva riferimento alle qualità morali della persona e alle circostanze del fatto.
Si recupera a tal fine quanto la Corte costituzionale ebbe a sottolineare in alcune pronunce così da divenire oggetto delle modifiche di cui all’art. 254, comma 2, introdotto dalla l. n. 532 del 1982, con l’art. 4.
Va sottolineato, del resto, che per effetto della direttiva n. 59 della l. delega, in qualche modo, le misure cautelari si sarebbero dovute applicare dopo l’esercizio dell’azione penale, il che giustifica gli originali riferimenti dell’art. 274 c.p.p. (sintomatico il riferimento non chiaro al pericolo di fuga dell’”imputato”: dalla pena, dalla prova o dal processo).
Ricalibrata la lett. a dell’art. 274 c.p.p., con il rafforzamento (attualità e concretezza, nonché con l’esclusione di implicazioni della mancata collaborazione, con tempi determinati della durata della misura), anche dell’invalidità motivazionale, già presente nell’ordinanza ex art. 292 c.p.p., la dottrina (almeno una parte di essa) non ha mancato di evidenziare la precarietà di quanto previsto dalla lett. c dell’art. 274 c.p.p., sotto il profilo della presunzione di innocenza.
Invero, la condizione di un soggetto gravemente indiziato di delitto si sostanzia a fini cautelari nel pericolo attuale e concreto di reiterazione di “delitti” (la lett. c contiene l’unico riferimento del codice alle parole “criminalità organizzata”).
Il dato risulta deducibile dalle specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla pericolosità del soggetto desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti, senza che i citati elementi possano essere desunti esclusivamente dalla gravità del titolo del reato per cui si procede. L’inserimento di quest’ultima precisazione (l. n. 47 del 2015, pure alla lett. b dell’art. 274 c.p.p.) è stato previsto anche in considerazione del fatto che questo si innesta nella ricostruzione che ne prospetta il pubblico ministero, seppur con il controllo del giudice, peraltro sulla base del solo materiale d’accusa, spesso frutto della informativa di p.g.
L’elemento della criticità, nella prospettiva indicata, è quello relativo all’ampia categoria dei “reati della stessa specie”.
Anche se i presupposti soggettivi e fattuali del pericolo, pur discutibili, sono precisati, anche se le situazioni di esclusione sono delineate, anche se l’ambito della quantità e qualità delle misure da applicare sono definite (in coerenza con il sistema ex art. 280 c.p.p., pur con l’eccentricità dell’unica presenza espressa del finanziamento illecito ai partiti politici), resta una certa fluidità del concetto di reato della stessa specie, definito dalla giurisprudenza non solo in termini di offensività al medesimo bene giuridico, ma anche di identità della natura in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive ma soprattutto resta la sua estraneità alla dimensione endoprocessuale del pericolo sotteso alla cautela, in favore di una valutazione prospettica di possibili comportamenti tesi alla protezione (anticipata) della collettività rispetto ad una premessa (ancora da verificare) di una prognosi non certa. Sotto questo profilo, si giustifica la riferita tensione con l’art. 27, comma 2, Cost. senza considerare ulteriormente che l’art. 5, comma 1, lett. c della Cedu fissa in termini più stringenti (motivi fondati per ritenere necessario di impedirgli di commettere un reato) il presupposto di operatività della cautela.
Alle Sezioni Unite la motivazione delle cartelle di pagamento. Verso un obbligo di motivazione differenziato?
di Christian Califano*
Sommario: 1. Il caso in oggetto. - 2. I precedenti della Corte di Cassazione. - 3. L’ordinanza interolocutoria e la necessità di differenziare l’obbligo di motivazione delle cartelle. - 4. Osservazioni conclusive.
1. Il caso in oggetto
La questione oggetto dell’ordinanza interlocutoria di rimessione n. 31960 del 5 novembre 2021 attiene all’obbligo di motivazione della cartella di pagamento, ai sensi dell'art. 7, L. n. 212 del 2000, relativamente agli interessi richiesti per ritardato pagamento di tributi.
Nel caso sottoposto al vaglio della Corte, la cartella non avrebbe recato indicazioni sufficienti (ovvero giorni, tassi d'interesse, imponibile, aliquote, ecc.) al fine di verificare la correttezza delle somme iscritte a ruolo, riportando, invece, l’importo totale degli interessi applicati e non anche un prospetto che chiarisse modalità e criteri seguiti nella loro determinazione.
Il Giudice del merito sul punto aveva affermato che, corrispondendo le somme riportate in cartella a quelle indicate nel prodromico avviso di liquidazione, maggiorate solo degli interessi dovuti per legge al tasso legale, la cartella di pagamento era da considerarsi pienamente legittima, attesa la circostanza che la liquidazione degli accessori risultava agevolmente verificabile dal contribuente, nel corretto presupposto secondo cui, essendo la misura degli interessi applicati predeterminata dalla legge, la quantificazione si risolveva, nel caso di specie, “in una operazione matematica, di natura tipicamente riscossiva”. Veniva altresì posto alla base della decisione della CTR che la cartella di pagamento riversata in atti e riproduttiva del ruolo di riscossione, richiamava l’avviso di liquidazione prodromico che, a sua volta esplicitava le ragioni della pretesa (nel caso di specie “revoca benefici fiscali ex L. n. 604/1954”) e “l’indicazione dell’atto notarile presentato alla registrazione”), in tal modo rendendone conoscibili i presupposti di fatto e di diritto.
Le ulteriori indicazioni contenute nella cartella e relativi al computo di mora, spese di notifica e aggio di riscossione, completavano, secondo il Giudice di merito, il “quadro motivazionale”, posta l’incontestabilità, per effetto della definitività di giudicato del prodromico avviso di liquidazione.
2. I precedenti della Corte di Cassazione
Con tale decisione, il giudice di appello si è conformato a quell’indirizzo espresso dalla S.C. in tema di riscossione delle imposte sul reddito, secondo cui “la cartella di pagamento deve ritenersi congruamente motivata, quanto al calcolo degli interessi, mediante il richiamo alla dichiarazione dalla quale deriva il debito di imposta ed al conseguente periodo di competenza, essendo il criterio di liquidazione degli stessi predeterminato ex /ege e risolvendosi, pertanto, la relativa applicazione in un'operazione matematica (Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8508; Cass., Sez. V, 8 marzo 2019, n. 6812; Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236).
La Cassazione aveva già ritenuto, infatti, che “il richiamo (contenuto nella cartella) all’atto impositivo divenuto definitivo svolge la stessa funzione della "dichiarazione" quanto alla "condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale", anche ai fini del controllo (meramente aritmetico) della esattezza delle somme richieste (come nel caso) per "interessi.., per ritardato o omesso pagamento" sulle imposte indicate in detto atto impositivo” (Cass., Sez. V, 15 aprile 2011, n. 8613). Il tasso inoltre, viene determinato ex lege sulla base del’'ultimo decreto pubblicato, che resta efficace fino alla deliberazione del nuovo provvedimento (Cass., Sez. V, 6 agosto 2020, n. 16778), “così consentendo in ogni caso al contribuente di controllare quale sia il tasso di interesse applicato”. (Cass. n. 9764/2021).
Dall’analisi della legislazione vigente si trae, secondo il Giudice di legittimità, che il tasso annuo degli interessi è noto e conoscibile perché determinato con provvedimento generale, e che i limiti temporali di riferimento (dies a quo e dies ad quem), necessari per il calcolo, sono anch’essi determinati in elementi ben individuati; viene dunque ribadito il principio, con riferimento all’obbligo di motivazione previsto per la cartella di pagamento dagli articoli 12 e 25 del DPR 602/1973, secondo cui nell’ipotesi “in cui vengano richiesti gli interessi e le sovrattasse per ritardato o omesso pagamento il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l'effetto che l'onere di motivazione può considerarsi in questi casi assolto dall'Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima”. (Cass. n. 8613/2011).
In tema di riscossione delle imposte sul reddito, la Corte ha altresì espresso il principio per cui qualora “vengano richiesti interessi e sovrattasse per ritardato od omesso pagamento, il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l'effetto che l'onere di motivazione può considerarsi assolto dall'Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima”. (Cass. 26671/2009).
Ad un orientamento più rigoroso in tema di motivazione della cartella, invece, la Corte giunge nei casi in cui mediante la stessa venga anche “richiesto per la prima volta il pagamento di crediti diversi da quelli oggetto dell’atto impositivo oggetto del giudizio, come quelli afferenti gli interessi per i quali deve essere indicato, pertanto, il criterio di calcolo seguito” (Cass. n. 21851/2018, n. 28276/2013). In tali ipotesi altre pronunce hanno ribadito che il richiamo ad un giudicato menzionato in cartella o all’atto impositivo su cui la stessa è intervenuta, risulta idoneo ad assolvere l’onere motivazionale “solo limitatamente alla parte relativa al credito erariale, “ma non anche alle altre ulteriori voci di credito che non sono state in precedenza richieste”; in questo senso, la quantificazione degli interessi, deve invece essere “motivata in ordine al criterio utilizzato per la quantificazione degli interessi richiesti per la prima volta con tale atto, dal momento che il contribuente dev'essere messo in grado di verificare la correttezza del calcolo degli interessi medesimi” (cfr. Cass., ord., 22 giugno 2017, n. 15554; Cass. 21 marzo 2012, n. 4516; Cass. 9 aprile 2009, n. 8651; Cass. n. 21851/2018).
Nello stesso senso si è espressa recentemente la S.C. (Cass. n. 15554/2017, Cass. n. 17767/2018 e, da ultimo, Cass. n. 5416/2021), relativamente al principio secondo cui la semplice pubblicazione dei tassi d’interesse non sempre consente al contribuente di comprendere i diversi metodi di calcolo applicati negli anni relativamente al periodo considerato; la stessa ratio decidendi, secondo cui il computo degli interessi non è sempre conprensibile in ragione del lungo periodo considerato, trova precedenti anche più risalenti (Cass. n. 8611/2009).
3. L’ordinanza interolocutoria e la necessità di differenziare l’obbligo di motivazione delle cartelle
Il punto di rilevo sistematico contenuto nell’ordinanza parte dalla considerazione che l’obbligo di motivazione va rapportato e differenziato a seconda del contenuto prescritto per ciascun tipo di atto impositivo. E’ in questa prospettiva ed in relazione all’esigenza di “rendere effettiva ed incisiva la funzione nomofilattica della Corte”, rispetto a questione variamente risolta dalla Sezione V, in quanto “destinata a riproporsi in numerose controversie”, che la Cassazione motiva l’ordinanza interlocutoria.
Partendo dal profilo riguardante il perimetro dell’obbligo di motivazione e volendo valorizzare quell’orientamento secondo cui la necessità di un’adeguata motivazione deve sempre sussistere in relazione ai presupposti ed alle finalità dell’atto con cui si fa valere una pretesa impositiva, devono valere per la cartella le medesime considerazioni già svolte dall’indirizzo più “garantista” della S.C., soprattutto se i presupposti in tema di “quantum” della pretesa non sono direttamente ricavabili dall’atto impositivo, come nel caso del calcolo degli interessi. In tale ipotesi, il ruolo in essa incartato deve contenere una congrua, sufficiente e comprensibile motivazione[1].
L’art. 17 dello Statuto del contribuente specifica che le prescrizioni contenute nel precedente art. 7 in punto di obbligo di motivazione si applicano anche nei confronti degli enti e dei soggetti riscossori che esercitano l’attività di accertamento, liquidazione e riscossione di tributi di qualunque natura[2].
Rimane a questo punto da definire in quali termini occorre ottemperare all’obbligo di motivazione della cartella, considerando che, come è stato già evidenziato in alcune pronunce della Cassazione riportate nell’ordinanaza interlocutoria, le norme sulla riscossione prevedono, in mancanza di un precedente atto di accertamento, la motivazione del ruolo[3] e, quindi, della cartella, che lo contiene e che gli assicura rilevanza esterna.
Il dibattito, in quest’ottica, muove dalla distinzione tra cartelle meramente riproduttive di un atto precedente e ruoli che, invece, sono connotati da un contenuto “impositivo” (quali, ad esempio, quelle formate a seguito al controllo formale della dichiarazione), ravvisandosi per la prima categoria la necessarietà e sufficienza dell’atto a monte da cui trae origine l’iscrizione a ruolo, e, per la seconda tipologia, l’esigenza che siano esplicitate le ragioni dell’iscrizione al fine di consentire al contribuente l’esercizio di un controllo sulla causale della pretesa impositiva[4].
Anche quella parte della dottrina per cui l’esigenza di motivazione risulta più avvertita, accentua il profilo della necessità che siano evidenziate e motivate le ragioni che hanno fondato l’iscrizione a ruolo[5], incentrando l’attenzione sull’atto impositivo piuttosto che sul mezzo medinate il quale viene notificato. La posizione in passato espressa dalle Sezioni Unite della Cassazione si era attestata nell’affermare che una motivazione idonea della cartella doveva sussistere solo nelle ipotesi in cui essa costituisca il primo ed unico atto con il quale il contribuente viene a conoscenza della pretesa impositiva[6].
Sul punto vale la pena di evidenziare che, mentre in passato la cartella di pagamento era un atto proprio dell’Agente della riscossione, il quale si limitava a recepire il ruolo emesso dall’Ente impositore che aveva svolto i controlli, oggi queste funzioni riscossive sono svolte direttamente dall’Agenzia delle Entrate Riscossione; pertanto, identificandosi oggi nello stesso soggetto ente accertatore e riscossore, con gli stessi ampi poteri, è superato il limite secondo cui Equitalia non poteva in alcun modo svolgere attività accertativa sulla base del principio, normativamente cristallizzato, dell’immutabilità del ruolo[7] che le veniva trasmesso dall’Agenzia delle Entrate.
Il punto in questione attiene al fatto che, normativamente, l’obbligo di motivazione è previsto per il ruolo, nei termini e con le modalità anzidette; Agenzia delle Entrate - Riscossione non è più, rispetto a quanto avveniva prima, soggetto estraneo alla conoscenza dei presupposti di fatto e delle ragioni di diritto che hanno originato la pretesa impositiva in base alle risultanze emerse dall’istruttoria.
Se da un lato, infatti, la motivazione del ruolo indicato nella cartella assolve alla funzione di correlare l’accertamento effettuato dall’Ufficio alla pretesa contenuta nell’atto impositivo, dall’altro rimane fermo che oggi l’Agenzia esegue anche la fase esattiva. In altri termini, il riconoscimento dei poteri finalizzati alla realizzazione effettiva del soddisfacimento della concreta pretesa impositiva in capo allo stesso ente che ha il potere di indagare sui fondamenti dell’atto impositivo, che, nel nostro caso è il ruolo, obbliga oggi la stessa Agenzia a dimostrarne, attraverso la motivazione, i presupposti.
L’atto che deve contenere la giustificazione della pretesa tributaria non è, infatti e con tutta evidenza, la cartella di pagamento, ma il ruolo[8] e ciò in coerenza con le disposizioni di legge che prevedono per la notifica dei ruoli, ai sensi del D.P.R. 602/1973.
In ogni caso, la necessità di rendere più comprensibile la cartella, fornendo al contribuente tutti gli elementi necessari a evidenziare i motivi che hanno determinato l’iscrizione a ruolo, impone l’indicazione degli elementi sulla base dei quali è stata disposta l’iscrizione a ruolo[9]. Le successive modifiche al modello di cartella di pagamento, inoltre, richiamano l’art. 3 della legge 241/1990 solo in relazione al comma 4, ossia con riferimento ai termini ed alle modalità attraverso cui è possibile ricorrere all’Autorità giurisdizionale.
Il presupposto secondo cui la formazione del ruolo si fonda sulle risultanze dell’istruttoria si riflette sul contenuto della motivazione dell’atto, nel senso che essa si colloca nell’ambito della funzione che assume il ruolo nella riscossione, a seconda che quest’ultimo sia meramente riproduttivo del titolo che fonda la pretesa o che rappresenti l’atto in cui si possa compendiare un’attività impositiva. Quando, infatti, il ruolo è usato solo per riscuotere un credito relativo ad una pretesa determinata con un precedente atto non è richiesta la motivazione, bensì la sola indicazione del predetto atto[10], sufficiente a giustificare e legittimare la riscossione. Nel caso in cui, invece, manchi un atto impositivo presupposto integrante il titolo di iscrizione, occorre una vera e propria motivazione[11].
4. Osservazioni conclusive
Le considerazioni che precedono si innestano, sebbene tangenzialmente, sull’ampio dibattito sorto a seguito dell’introduzione, ad opera del D.l. 146/2021, del comma 4 bis in seno all’art 12, DPR 602/1973[12], a mente del quale l’estratto di ruolo non è atto autonomamante impugnabile e il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio.
Sul punto le Sezioni Unite, peraltro, saranno chiamate, sulla base di un’altra e più recente ordinanza interlocutoria (n. 4526 dell’11 febbraio 2022), anche a pronunciarsi proprio in riferimento all’art. 12, DPR 602/1973, così come modificato dal D.l. 146/2021. Il delicato tema della tutela anticipata si inserisce, dunque, nel più ampio tema relativo all’effettività della tutela di tipo cautelare nel processo tributario.
Il riconoscimento normativo secondo il quale l’estratto di ruolo non può esssere impugnato, lo distingue nettamente dal ruolo (cfr. Cass. 19704/2015), che è strutturalmente finalizzato a consentire l’avvio della fase e esecutiva e deve quindi, per ciò stesso, evidenziare e rendere comprensibile al contribuente quali siano, anche sotto il profilo del quantum, i fondamenti della pretesa e i termini in cui essa è stata calcolata, soprattutto laddove, come nel caso degli interessi, tale computo non è (e non può essere) contenuto e rinvenibile nell’atto determinativo del tributo.
È, infatti, solo nella cartella di pagamento che gli interessi vengono quantificati: se il contribuente deve essere messo in grado di verificare la correttezza di calcolo degli interessi medesimi richiesti per la prima volta solo con tale atto, allora è necessaria la motivazione in ordine (e limitatamente) al criterio utilizzato.
* Professore Associato di Diritto Tributario presso l’Università Politecnica delle Marche – Ancona
[1] Sia qui consentito il richiamo a C. CALIFANO, La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012, 331 ss.
[2] Sul tema dell’estensione dell’obbligo di motivazione anche agli atti della riscossione, sin da epoca più risalente c’è stata una certa identità di vedute in dottrina:. cfr. A. VOGLINO, Lineamenti definitivi dell’obbligo di motivazione, degli atti tributari, in Boll. Trib., 2001, 11; L. FERLAZZO NATOLI – G. INGRAO, La motivazione della cartella di pagamento: elementi essenziali, in Riv. Dir. Trib, II, 2005, 542 ss.
[3] Art. 12, comma 3, D.P.R. 602/1973: “nel ruolo devono essere indicati […] il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione anche sintetica della pretesa; in difetto di tali condizioni non può farsi luogo all’iscrizione”.
[4] Per tutti, F. TESAURO, Istituzioni di Diritto tributario, Torino, 2019, 247 ss.; Cfr. sul punto Cass., Sez. Trib., 16712/2011,n. 27140, la quale ha affermato che, nel caso di imposte dichiarate ma non versate, la cartella non deve essere motivata.
[5] Per una ricostruzione completa dei profili del ruolo d’imposta, v. M. BASILAVECCHIA, Ruolo d’imposta, in Enc. Giur., Milano, XLI, 1989, 179 ss. Più di recente A. CARINCI La riscossione a mezzo ruolo nell'attuazione del tributo, 2009, 215 ss.; ID., La concentrazione della riscossione nell'accertamento, Padova, 2011, 45 ss.
[6] Cass., Sez. Un., 14/05/2010, n. 11722.
[7] In relazione all’immutabilità del ruolo ed ai poteri dell’esattore nel previgente sistema si v. l’ampia ricostruzione operata da L. DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 347 ss., ove l’A. affronta approfonditamente la problematica dell’efficacia soggettiva del ruolo.
[8] Lo Statuto del Contribuente, sebbene non indichi il ruolo fra gli atti assoggettati ad obbligo di motivazione, fa tuttavia proprio riferimento al “titolo esecutivo” quando impone di riportare “il riferimento all’eventuale precedente atto ovvero, in mancanza, la motivazione della pretesa tributaria” (Art. 7, comma 3, l. 212/200).
[9] Cfr. D.M. del 28 giugno 1999, così come modificato dal Provvedimento del 22 febbraio 2001 e successive modificazioni.
[10] Non sono mancate in passato tuttavia, orientamenti della Cassazione eccessivamente restrittivi, ove la S.C. ha ritenuto legittima una cartella di pagamento in cui era stata omessa l’indicazione di tutti gli avvisi di accertamento a cui faceva riferimento il credito oggetto di riscossione, ritenendo sufficiente ad identificare la pretesa e a soddisfare l’obbligo di motivazione, l’indicazione dei contenziosi inerenti tutti gli atti impositivi, a cui, peraltro, il contribuente aveva partecipato svolgendo attivamente le sue difese; così Cass., Sez. Trib., 25/5/2012, n. 11466.
[11] Così A. CARINCI, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, cit., 217, il quale afferma che, “si deve dare atto che oggi il ruolo risulta arricchito di un contenuto motivazionale”, con ciò rinviando (nota 194) alle tesi affermate, sulla scorta di Cass., 12/04/2004, n. 15638, da C. CALIFANO, La motivazione della cartella di pagamento non preceduta da avviso di accertamento, Dir. Prat. Trib., 2005, 497.
[12] Su cui da ultimo F. RASI, Il canto di natale del Legislatore: la non impugnabilità dell’estratto di ruolo, in Giustizia Insieme, 3.02.2022.
Recensione a Giuliano Scarselli, In devoto omaggio. Ricordo dei processualisti del passato, Pisa, 2021, pagg. 184
di Bruno Capponi
Giuliano Scarselli è un apprezzato processualcivilista, ma soprattutto un avvocato. Ciò spiega l’immagine di copertina, che vede un difensore in toga (forse lo stesso Scarselli) camminare, da solo e con passo che sembra spedito, in un corridoio deserto del Palazzaccio. Chiunque di noi, recandosi verso una delle rare udienze pubbliche con la toga sulle spalle, ha avvertito il senso di isolamento e di superfluità che comunica attualmente la Corte al difensore, e che quell’immagine di copertina restituisce con l’efficacia fulminante di una tavola di Daumier. Nel risvolto di destra, Scarselli è anzitutto un avvocato (cassazionista dal 1999), e poi professore ordinario di diritto processuale civile a Siena.
Il risvolto di sinistra avverte che abbiamo tra le mani non un «testo giuridico» ma un «libro di lettura», nel quale Scarselli ha raccolto le notizie «che è riuscito a riassumere» su alcuni grandi processualisti del passato (ma anche del presente: l’ultimo omaggio è al suo maestro Andrea Proto Pisani) che evidentemente Scarselli ha scelto, fra tanti altri, per affinità elettiva. Chiarissima nel caso di Andrioli e Proto Pisani perché frutto di esperienza diretta, non meno visibile nel caso di Calamandrei, figura che occupa tre capitoli del libro, di Carnelutti – forse il meno simpatico dei processualisti del passato, anche per quello che ci hanno tramandato le cronache – e poi nel caso dei due grandi che Franco Cipriani aveva chiamato affettuosamente Patres: Mattirolo e Mortara. Il secondo più celebrato anche dai contemporanei (rammentiamo il convegno del maggio 2019 tenutosi in Cassazione su Mortara, un padre del diritto e la bella relazione di Carmelo Sgroi, La «missione» del magistrato nella concezione di Lodovico Mortara, in questa Rivista dal 27 febbraio 2020 e in Riv. dir. proc., 2019, 1172 ss.), il primo sconfitto invece dalla Storia, perché esponente di una scuola e di un metodo che non avrebbero superato la prova “germanista” di Chiovenda. E, certo, nel volume compare (non poteva non comparire) anche il padre per eccellenza della materia (qualcosa anzi di più remoto per Scarselli, posto che Andrioli è stato l’ultimo allievo di Chiovenda e poi il maestro di Proto Pisani): ma con un risalto che certamente non lo pone al vertice della personale classifica dell’A.
Dopo i notissimi studi di Cipriani, molti processualisti si sono ingegnati a ricostruire le vite dei vari colleghi del passato e questi contributi (ricordiamo, tra gli altri, quelli sempre ben documentati di Enzo Vullo, editi sulla Processuale) hanno spesso la caratteristica di presentare al lettore quante più notizie (e addirittura curiosità) si possano rinvenire nelle fonti, che ovviamente non sono soltanto quelle classiche del giurista. Non è questo il metodo adottato da Scarselli, al quale non interessa tanto la completezza dei dati quanto il riscontro tra i valori attuali (o forse più che di valori occorrerebbe parlare di esigenze) e quelli ancora vivi del più o meno recente passato, dei quali i maestri onorati sono stati interpreti: di Mattirolo viene esaltato il «liberalismo processuale» (altri direbbe il garantismo), di Mortara il valore dell’uguaglianza e della modernità, con le battaglie a favore delle donne e delle classi sociali meno abbienti, di Chiovenda i prezzi pagati per il suo essere antifascista, di Carnelutti la sua vasta esperienza di giurista (commercialista, processualista, penalista) ma soprattutto la sua «vita da avvocato», lasciando intendere che proprio l’avvocatura era stata la sua vera maestra di vita (come lo stesso Carnelutti ammetteva nella visione retrospettiva della sua esperienza). Quanto a Calamandrei (fiorentino come Scarselli), basta la nota che si estende da pag. 87 a pag. 89 per dar conto delle affinità che l’A. sente di avere col grande giurista e, direi, umanista e scrittore del passato recente, il cui nome è del resto ben noto anche oltre gli specialistici confini degli addetti ai lavori.
Così, chi si accinge a leggere il libro di Scarselli comprenderà presto di non trovarsi dinanzi a una silloge di voci enciclopediche sulle vite di taluni grandi giuristi del passato (e del presente); si trova piuttosto tra le mani una viva testimonianza che parla dei valori propugnati da quegli illustri giuristi che tuttora riescono utili a noi, anche perché lasciano intravedere il fil rouge che lega l’esperienza del passato a quella presente. Percepisce il lettore che per Scarselli il massimo valore, la massima qualità del giurista è quella di essere una persona libera, che ragiona con la sua testa senza condizionamenti; è quella di avere la stessa indipendenza, assai spesso scomoda e abrasiva, che l’A. ha riscontrato nel suo protomaestro Andrioli (anti-diplomatico per eccellenza) e poi nel suo maestro Proto Pisani.
Il libro di Scarselli, che si legge con grande facilità e immediatezza, induce anche a chiedersi perché – non mi sembra che ciò avvenga in altre discipline – i processualisti del presente mostrino tanto interesse per i colleghi del passato. A una simile domanda non può che darsi una risposta personale, rispetto alla quale il libro di Scarselli costituisce poco più di un’occasione. Provo a dare la mia: negli anni ’90, allorché apparvero i primi scritti di Cipriani (risalgono al 1991 le Storie di processualisti e di oligarchi), ebbi l’impressione di un interesse un poco eccessivo, introspettivo e tutto sommato non troppo producente rispetto alle opere e soprattutto alla vita (comprese le alterne vicende concorsuali, che sono patrimonio di tutte le epoche) dei grandi del passato. Ora capisco, e il libro di Scarselli è certamente tra quelli che mi hanno indotto a cambiare opinione, che attraverso l’esame delle esperienze dei Patres l’obiettivo che si intende perseguire è risalire alle radici essenziali di una materia, i cui valori tuttora faticano a venire recepiti nell’esperienza delle giurisdizioni. Credo che molti giuristi, di varia estrazione, percepiscano il diritto processuale civile come un insieme astruso, stantio e di scarsa utilità, col quale occorre misurarsi soprattutto per fugare il rischio di commettere errori. Al tempo stesso, fin dagli anni ’90 – e quindi in casuale concomitanza con l’inizio delle ricerche di Cipriani – sulle sue povere spalle è stato scaricato tutto il peso delle possibili riforme del nostro asfittico sistema di tutela dei diritti sul presupposto, la cui avventuristica erroneità è oramai a tutti nota, che cambiando qui e là qualche regola del processo quel sistema potesse magicamente rimettersi in moto per raggiungere uno standard “europeo”. Ciò non poteva certo avvenire e puntualmente non è avvenuto, e tale fallimento ha finito per moltiplicare le scarse simpatie per la materia, del resto ostica di per sé, e di tali scarse simpatie è dato oramai di vedere testimonianza non soltanto nel Foro ma addirittura nelle Accademie. Le cattedre sono rimaste poche, i dipartimenti su di esse non investono: altri sono gli insegnamenti di tendenza, sui quali puntare per le speranze dei giovani laureati. Del processo non ne parliamo: il c.d. diritto giudiziario, soprattutto in sede di legittimità, ha spesso fatto strame della legge processuale, sino al punto di affermare – qui e là vediamo ora qualche piccolo ripensamento, ma ci vorrà molto per risalire la china – che la stessa sua violazione è indifferente perché non esiste un diritto astratto al rispetto delle regole del processo e chi ne denunzia le violazioni deve anche dimostrare lo specifico pregiudizio che da quelle violazioni gli sia derivato. Non parliamo poi delle norme “processuali” la cui funzione è quella di respingere i contenziosi o consentirne la definizione con pronunce non di merito: qui la scarsa simpatia non può che essere corrisposta, perché norme di tal fatta finiscono per tradire quello che è il fine ultimo e più nobile del processo civile.
Credo quindi che il libro di Scarselli, nel ricordarci l’opera di grandi processualisti del passato (e del presente), e di ricordarcela sul presupposto «che nel pensiero e nella vita di questi giuristi vi siano non solo alti valori di civiltà, bensì insieme temi e aspirazioni ancora attuali» (così si legge nella bandella sinistra), sia in realtà una difesa dei valori alti e nobili del diritto processuale civile, che sono sempre stati gli stessi ma che da qualche tempo risultano offuscati per responsabilità diffuse, non ultime proprio di quei “processualisti” che hanno voluto indulgere in troppo involuti tecnicismi; valori tuttavia che un giorno, che ci auguriamo non troppo lontano, dovranno pur tornare a risplendere.
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