ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La giustizia penale di fronte alla guerra
di Ezechia Paolo Reale
Sommario: 1. Introduzione - 2. La competenza della Corte Penale Internazionale, in generale - 3. La competenza della Corte Penale Internazionale, la situazione in Ucraina - 4. Il ruolo delle giurisdizioni nazionali - 5. La natura complementare della giurisdizione della Corte Penale Internazionale rispetto alle giurisdizioni nazionali - 6. Conclusioni.
1. Introduzione
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia pone profondi problemi etici, sociali, economici e diplomatici ma ha anche uno specifico aspetto che in questi giorni di grande preoccupazione è stato poco approfondito.
Esiste, oltre la responsabilità dello Stato aggressore di fronte alla comunità internazionale degli altri Stati anche una responsabilità penale personale degli autori dei crimini contro la pace, dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del crimine di genocidio ?
La risposta è, sotto più profili, positiva e la capacità deterrente della sanzione penale a carico dei singoli responsabili di tali crimini internazionali non dovrebbe essere sottovalutata nello strumentario politico e diplomatico della gestione del conflitto.
2. La competenza della Corte Penale Internazionale, in generale
In generale, i soggetti responsabili dei crimini internazionali sopra menzionati possono essere chiamati a rispondere delle loro azioni avanti la Corte Penale Internazionale, organo giudiziario indipendente, complementare alle giurisdizioni nazionali, istituito con un trattato internazionale, noto come Statuto di Roma, entrato in vigore il 1/7/2002.
La giurisdizione della Corte Penale Internazionale, oltre che su impulso diretto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, può, però, ordinariamente essere esercitata solo se il responsabile del crimine o il territorio nel quale tale crimine è stato commesso appartiene a uno Stato Parte dello Statuto di Roma, ad uno Stato cioè che attraverso la ratifica o l’adesione al trattato internazionale istitutivo della Corte faccia parte di quel sistema convenzionale, ovvero a uno Stato che, pur non avendo ratificato lo Statuto di Roma, abbia dichiarato di accettare la giurisdizione della Corte su alcuni specifici crimini. Per il solo crimine di aggressione vige una regola diversa e più rigida dato che la Corte può esercitare la sua giurisdizione su tale crimine solo quando siano Stati Parte dello Statuto sia lo Stato del quale l’autore del crimine ha la nazionalità, sia lo Stato nel quale il crimine è stato commesso e solo per gli eventi successivi al 17/7/2018, data di entrata in vigore dell’emendamento allo Statuto, adottato a Kampala, che ha definito nel dettaglio i contorni del “crimine supremo contro la pace” e ha delineato le condizioni per l’esercizio della giurisdizione della Corte nei confronti degli autori delle condotte incriminate, emendamento che l’Italia ha ratificato il 10/11/2021, depositando poi il 26/1/2022 il relativo strumento di ratifica.
3. La competenza della Corte Penale Internazionale, la situazione in Ucraina
Detto questo in linea generale, con particolare riferimento all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia va evidenziato che né lo Stato invaso né lo Stato invasore hanno mai ratificato lo Statuto di Roma.
Ne deriva, con certezza, l’impossibilità che i responsabili del crimine di aggressione possano essere tratti a giudizio avanti la Corte Penale Internazionale.
Per quanto riguarda, invece, i crimini di guerra, che riguardano le modalità illecite di conduzione delle operazioni belliche, ad esempio l’attacco a civili non armati o il bombardamento di ospedali, scuole, chiese o obiettivi civili in genere, l’Ucraina aveva già accettato la giurisdizione della Corte Penale Internazionale.
Infatti, sia per i crimini contro l’umanità in relazione alle proteste di Piazza Indipendenza a Kiev represse con violenza dal precedente governo alla fine del 2013 e nei primi mesi del 2014, sia in relazione ai crimini di guerra correlati al tentativo di annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e al contemporaneo e prolungato scontro armato tra governo e forze separatiste nella parte orientale del proprio territorio, l’Ucraina aveva regolarmente depositato due distinte dichiarazioni di accettazione della giurisdizione della Corte.
Sulla base di tale espressione di volontà dello Stato nel cui territorio si erano verificati i fatti il Pubblico Ministero presso la Corte Penale Internazionale aveva iniziato un’investigazione preliminare, tesa a verificare se vi fossero le condizioni per aprire una vera e propria indagine formale in relazione a uno o più crimini di competenza della Corte commessi in tali circostanze. Tale indagine preliminare era terminata nel dicembre del 2020 e gli atti raccolti erano in fase di valutazione nel momento in cui la Russia ha dato inizio all’invasione armata anche di altra parte del territorio ucraino.
Tale nuova circostanza ha accelerato le decisioni del Pubblico Ministero che, mentre non sembra abbia trovato elementi sufficienti per procedere in relazione ai fatti di Piazza Indipendenza, ha preannunciato di voler dare inizio all’indagine formale non solo in relazione ai crimini di guerra e contro l’umanità ipotizzabili per i fatti di Crimea e dell’Est Ucraina, e già dettagliati all’esito dell’investigazione preliminare, ma anche per quelli relativi all’ulteriore attacco armato sferrato dalla Russia nei confronti dell’Ucraina in questi giorni.
Per poter, quindi, dare inizio alla vera e propria fase delle indagini formali il Pubblico Ministero ha quindi richiesto alla Camera Preliminare della Corte la prevista autorizzazione per agire ex officio.
La Presidenza della Corte ha designato per l’esame della richiesta la II Camera Preliminare della Corte, presieduta dal giudice italiano Rosario Aitala, ma la necessità di tale decisione è stata superata dal deposito da parte di 40 Stati Parte, tra i quali l’Italia, di una formale segnalazione alla Corte nella quale è stata manifestata la volontà di tali Stati che la situazione in Ucraina sia sottoposta a investigazione da parte del Procuratore della Corte.
Tale deposito ha consentito, quindi, al Procuratore, in base alle regole dello Statuto di Roma, di aprire un’indagine formale sulla situazione in Ucraina senza necessità di munirsi dell’autorizzazione della Camera Preliminare.
Questa la situazione attuale sul fronte della Corte Penale Internazionale, con l’unica incognita della possibilità che nei procedimenti che seguiranno possa essere contestata la validità dell’accettazione della giurisdizione della Corte da parte dell’Ucraina anche per fatti molto successivi al 2014 e in porzioni di territorio diverse da quelle oggetto di tale dichiarazione. Vero, però, che a fugare tale perplessità basterebbe una nuova dichiarazione di accettazione della giurisdizione con specifico riferimento ai fatti accaduti in questi giorni, mentre per eventuali fatti futuri sarebbe preferibile che intervenisse la ratifica dello Statuto da parte dell’Ucraina.
4. Il ruolo delle giurisdizioni nazionali
Il ruolo della giustizia penale di fronte alla guerra, però, non si ferma alle porte della Corte Penale Internazionale, avendo anche le giurisdizioni nazionali un ruolo significativo da poter giocare.
E non solo, e ovviamente, la giurisdizione nazionale ucraina, sede naturale dei procedimenti per fatti accaduti nel proprio territorio, ma anche tutte le diverse giurisdizioni nazionali, in particolare quelle degli Stati Parte dello Statuto di Roma.
Per il crimine di aggressione e per quei crimini di guerra che per motivi vari, a partire dai limiti della competenza della Corte ai soli reati che assumono particolare gravità, non potranno essere perseguiti dalla Corte Penale Internazionale, potrà, infatti, essere esercitata direttamente dai singoli Stati la propria giurisdizione extraterritoriale, che in relazione ai crimini internazionali è più corretto definire giurisdizione universale, che consente di processare e punire, a determinate condizioni, anche gli stranieri che commettono all’estero gravi crimini in danno di vittime non italiane. Una giurisdizione, quindi, che si esercita anche se non è presente nessuno dei criteri di collegamento con il crimine che tradizionalmente fondano il potere giurisdizionale penale dello Stato (territorio ove è commesso il fatto, nazionalità dell’autore, nazionalità della vittima).
Non sarebbe, d’altronde per lo Stato italiano, una particolare novità dato che la giurisdizione universale è già stata utilizzata per processare e punire autori stranieri di crimini efferati commessi fuori dal territorio nazionale in danno di vittime straniere, come ad esempio a Milano nel 2017 per il processo ad un torturatore di migranti libico per fatti avvenuti in Libia in danno di vittime provenienti da vari paesi africani; o a Siracusa, nei primi anni del secolo, per il processo al responsabile libanese del naufragio della “nave fantasma”, avvenuto in acque internazionali, nel quale persero la vita oltre 250 migranti indiani, pakistani e cingalesi.
L’Italia, infatti, riconosce e regola la propria giurisdizione extraterritoriale sui crimini più gravi prevedendo all’articolo 7 del suo codice penale la punizione anche dello straniero che commette in territorio estero ogni reato per il quale le convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana e stabilendo al suo articolo 8 che, su richiesta del Ministro della Giustizia, sia punito secondo la legge italiana anche lo straniero che commette all’estero un delitto politico, cioè ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato o che, pur essendo un delitto comune, sia determinato, in tutto o in parte, da motivi politici.
L’articolo 10 dello stesso codice penale, infine, consente, sempre a richiesta del Ministro della Giustizia, e purché il responsabile si trovi nel territorio nazionale, la punizione dei delitti commessi fuori dal territorio nazionale dallo straniero in danno di altro straniero o di uno Stato estero.
5. La natura complementare della giurisdizione della Corte Penale Internazionale rispetto alle giurisdizioni nazionali
Né tali azioni giudiziarie sarebbero in contrasto con lo spirito dello Statuto di Roma che, al contrario, sollecita in prima battuta le giurisdizioni nazionali ad intervenire per porre termine all’impunità degli autori di crimini così gravi, riservandosi di procedere solo in caso di inerzia o malfunzionamento dei sistemi giuridici nazionali.
Non a caso nel Preambolo dello Statuto di Roma è riconosciuto che “crimini di tale gravità, che minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo non devono restare impuniti” e “la loro effettiva repressione deve essere assicurata attraverso l’adozione di idonee misure a livello nazionale ed il rafforzamento della cooperazione internazionale” ponendo “termine all’impunità degli autori di tali crimini e contribuendo in tal modo alla prevenzione di nuovi crimini”, tanto che “è dovere di ogni Stato esercitare la propria giurisdizione penale sui responsabili di crimini internazionali”.
E anche il Parlamento Europeo nella sua Risoluzione del 4/7/2017 sulla “lotta contro le violazioni dei diritti umani nel contesto dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità compreso il genocidio“, al paragrafo 52 “chiede agli Stati membri di applicare il principio di giurisdizione universale per la lotta all’impunità e ne ricorda l’importanza per l’efficacia e il corretto funzionamento del sistema di giustizia penale internazionale” e “di perseguire i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità nelle loro giurisdizioni nazionali anche quando essi siano stati commessi in paesi terzi o da cittadini di paesi terzi”.
6. Conclusioni
La giustizia penale nazionale e internazionale, quindi, può e deve giocare un ruolo decisivo nel processo di pace da tutti auspicato. Alla violenza deve certo essere opposta adeguata resistenza, ma se la volontà bellica vuole essere definitivamente superata non c’è altra strada che quella di perseguire la giustizia, senza la quale la guerra potrà momentaneamente essere sopita ma mai superata nell’animo di chi aspetta o teme vendetta. È il monito di Papa Giovanni Paolo II che dovrebbe ora guidare le azioni di tutti gli attori impegnati nello scenario bellico e diplomatico: “se cerchi la pace, lotta per la giustizia”.
La poca attenzione sinora dedicata al ruolo della giustizia penale nei processi di pace non è, quindi, un segnale positivo, ma il tempo per la sua rivalutazione non è certo terminato.
Pasolini, l’invasore e la resistenza
di Pierpaolo Gori
La feroce invasione di un grande Stato nel cuore dell’Europa ripropone immagini di guerra urbana, il terrore di esposizione a disastri nucleari, le centinaia di migliaia di sfollati in fuga dall’intervento armato, secondo schemi che ci riportano ai momenti più bui del secolo breve[1]. Al proposito è lucida - ma rigettata dalla trionfante società dei consumi - la riflessione sulla resistenza di Pier Paolo Pasolini, racchiusa nella sua unica tragedia, I turcs tal Friùl. Composta in una Casarsa occupata dai nazisti, usa la lingua del cuore, un idioma non ancora abusato dalla propaganda nazionalista che spinge a diffidare delle grandi lingue letterarie del mondo[2]. Il suo stile è arcaico, quasi greco, e modernissimo ad un tempo, perché, sotto il velo del teatro e della narrazione apparentemente remota, nel profondo ci parla dell’armonia sconvolta e del nostro stare insieme oggi.
Il manoscritto del maggio 1944 è stato lasciato in un cassetto da Pier Paolo per tutta la sua vita, sebbene egli lo considerasse quanto di meglio esistente nella sua produzione giovanile[3]. È la conferma che si tratta di un’opera intima, composta in primo luogo a fini liberatori ed espiatori di quella sofferenza interna che nei grandi spiriti proietta all’esterno una straordinaria creatività. Quasi per pudore, la tragedia è stata pubblicata postuma ad oltre trent’anni dalla sua scrittura.
Un cenno al contenuto. In un paese lassù ad est, non lontano dalla piana della Richinvelda (in antico, reiche Felde), si può ancora a stento leggere un’iscrizione, salvata da una chiesetta scomparsa. È posta su un lacerto di marmo e racchiude in lingua volgare italiana una semplice dedica di un piccolo oratorio alla Madonna delle Grazie, per aver risparmiato nel 1499 Casarsa dalle orde dei turchi. Di fronte all’avanzare inesorabile delle cavallerie e colonne turchesche e, con essi, dei saccheggi e delle distruzione sistematiche dei paesi della pianura, solo quel borgo sarebbe passato indenne, perché improvvisamente avvolto da una fitta coltre di basse nubi, sulle umide sponde del Tagliamento, paese di temporali e di primule[4]. Il fatto storico, la leggenda e la devozione popolare hanno ispirato il componimento di Pier Paolo, il quale immagina il dramma della indifesa comunità contadina che rischia di essere cancellata dai turchi. Così nella famiglia Colùs, la madre Lùssia e i suoi due figli, Meni e Pauli, devono decidere come reagire di fronte al disastro che incombe sul paese e che sembra inarrestabile.
È una condizione sovrapponibile a quella in cui si trovano, 450 anni dopo, nel maggio 1944, Susanna Pasolini e i due figli Pier Paolo e Guido. Da oltre sei mesi l’intero Friuli Venezia Giulia è invaso dai tedeschi e sottoposto al diretto controllo del Terzo Reich, sottratto persino alla Repubblica Sociale Italiana, e inserito entro una neo-costituita zona di operazioni militari denominata Adriatisches Küstenland.
All’inizio del dramma si delinea il significato della scelta del fratello minore di Pier Paolo, Guido (nel poema chiaramente Meni Colùs ne è l’alter ego) di non restare a morire nel villaggio come agnello sacrificale (“Murì e basta: ma no coma agnèi…”)[5]. Il giovane, con altri uomini, decide così di lasciare Casarsa per unirsi alla resistenza partigiana con la brigata Osoppo e combattere, pur senza esperienza né mezzi, per la liberazione dai nazisti. Guido adotterà il nome di battaglia “Ermes” e sarà assassinato nel febbraio 1945, quasi alla fine del secondo conflitto mondiale in un momento storico decisivo per l’Italia, da altri partigiani vicino a Cividale del Friuli nei fatti legati all’eccidio di Porzùs.
Quella di Meni/Guido è una scelta sofferta, per l’attaccamento profondo alla vita del giovane, appena diciottenne, che sceglie di andare a combattere contro l’invasore sì, ma soffre nel vedere in lacrime la povera madre Lùssia, dalle minuscole spalle nel suo grembiule consunto, che nasconde appena il piccolo, minuto grembo in cui si era un giorno sentito protetto (“jot là se spalutis, puora mari, tal grumal fruvàt. E jo ch’i soi stat drenti di che grin, Signòur, di chel grin pìciul, pìciul. E par chistu adès i patìs; i soi tant tacàt a chista vita; i ài tanta pòura di murì”)[6].
È una scelta ideale e coraggiosa che si confronta con quella di segno opposto compiuta da Pauli. Sullo sfondo, un pathos scandito dall’epica solenne dei cori: da un lato, delle donne vestite di nero, custodi di una società contadina antica e, dall’altro, dei turchi invasori, dèi della guerra, lucenti sotto la luna nella loro terribile crudeltà e logica di dominio dell’uomo sull’uomo.
Pauli Colùs (in cui si scorge Pier Paolo) rifiuta di retribuire la morte con la morte, facendo un atto di fede in favore della pace, ritenuta la via da perseguire ad ogni costo, anche del sacrificio se questa è la volontà di Dio (“Ma se la voluntat dal Signòur a è che murini dùcius, l’unica maniera a è di murì cu ‘l nomp so tal còur”)[7]. Resta così a lavorare e pregare al suo posto, vicino a Lùssia, come farà nella realtà Susanna, la madre che non si allontanerà mai da Pier Paolo neppure nei momenti più duri che seguiranno il primo processo quando, espulso dal PCI per indegnità e sospeso dall’insegnamento, dovrà rifugiarsi a Roma.
Pauli non aderisce individualmente a quella piccola schiera di sognatori che difendono la vita perché certe forze legano tutti gli esseri umani, vittime e invasori. Egli prende una decisione non meno coraggiosa di quella del fratello che imbraccia la resistenza armata organizzata. La sua resistenza all’avanzata di un potente esercito di migliaia di cavalieri e centinaia di fanti (“Deis mil ciavài, sincsènt a piè”)[8] è egualmente radicale perché irreversibile. L’opzione è sorretta dall’indomito linguaggio del proprio comportamento unito a quello della comunità, ed è pericoloso perché non è quiescente bensì irriducibilmente alternativo all’invasore. Questi è solo apparentemente invitto: non potrà eradicare una tenace reazione collettiva fondata su valori culturali profondi a lui antitetici e, perciò, destinata nel tempo a prevalere sulla recisa violenza, sulla morte che come un mare circonda il villaggio (“Vuèi a è la muart ch’a ni speta cà intor”)[9].
La decisione è coerente con il rifiuto del linguaggio stesso della morte, ed è la scelta di Pier Paolo fatta per sempre a favore della vita, di andare avanti sempre e comunque, con passo leggero, quali che siano le difficoltà da superare, verso quel rinnovamento che solo i giovani possono dare (“E jo i ciaminarai lizèir, zint avant, sielzìnt par simpri / la vita, la zoventùt”)[10].
E’ questa radicalità uno dei caratteri della costante “inattualità” e del fascino immenso che esercita Pasolini: in vita, figura di intellettuale indipendente e perciò non organico al partito comunista nel momento della massima ”egemonia culturale”. Poi, dopo la morte, è divenuto un “alieno” per la società dei consumi, ormai intrisa di post storicismo materialista che divora ogni cosa, anche le vite delle persone ritenute fungibili, assemblabili, omologabili.
I Turcs tal Friùl sono soprattutto una riflessione sulla giustizia e sul diritto. Una δίκη (dìke), innanzitutto, nel significato che Eschilo affida a questo termine, di legge che gli dèi applicano sul mondo, giustizia divina che nulla ha a che spartire con il benessere materiale dell’uomo, in fondo nemmeno agognato (“Crist, pietàt dal nustri paìs. No par fani pì siors di chel ch’i sin”)[11]. L’uomo anela ad altro, alla vita, al rinnovamento.
La giustizia è invano cercata sulla terra, come conferma l’ἐπιτάφιον (epitàfion), l’elogio funebre scritto da Pier Paolo e letto il 21 giugno 1945 nel cimitero di Casarsa, mentre viene tumulato il corpo del fratello Guido. L’epitaffio si conclude con le acute parole “alla società non chiediamo lacrime, chiediamo giustizia”[12], mai veramente raccolte da chi poteva agire.
Ridotti erano gli spazi lasciati dalla guerra fredda, in particolare sul sanguinoso crinale orientale, “limes” anche linguistico e culturale per eccellenza tra anima latina, slava e germanica, tra occidente e socialismo reale. Ancora più sottili erano le crepe che potevano aprirsi sul muro della verità ufficiale del PCI, non disposta ad accettare alcuna responsabilità per aver favorito nel 1945 l’estensione con la violenza del comunismo di Tito/nazionalismo jugoslavo a porzioni di Friuli Venezia Giulia. Non vi era sufficiente luogo per chiaroscuri, per distinzioni, per posizioni individuali e accertamenti, passi così necessari per permettere il nascere e fluire del misero processo degli uomini, pallida ombra di δίκη.
Pare che Christa Wolf si sia ispirata anche a Pasolini per la sua Medea[13], eroina non violenta, donna “maga” che, secondo il mito pre-euripideo, non è autrice bensì subisce l’assassinio dei propri figli per lapidazione. Omicidi sono i Corinzi infuriati contro la madre, additata da un’informazione manipolata come responsabile della peste che infuria.
In realtà, Medea deve morire perché ha compreso l’orribile segreto di morte e di violenza su cui è fondato l’ordinamento giuridico della regalità di Corinto. La straniera, con la sua irriducibile diversità, non può essere assimilata dal Sistema e potrebbe rivelarne all’esterno l’oscenità (ob scaenam - fuori dai riflettori).
Secondo una saggezza antica la morte rivela chi si è stati davvero in vita (θάνατος βίοu κατηγορία - zànatos bìu categorìa): Lùssia Colùs/Susanna Pasolini, come la Medea di Christa Wolf, minuta nel suo fisico asciutto eppure sorretta da uno spirito d’acciaio, è la testimone di una civiltà millenaria persa per sempre. La madre avrà l’amaro destino di sopravvivere ai suoi figli, entrambi prematuramente scomparsi nonostante le scelte di vita opposte compiute. Prima Meni Colùs/Guido, portatole via a un passo dalla fine della guerra, e poi nel 1975 anche Pauli Colùs/Pier Paolo, assassinato in circostanze mai interamente chiarite. La loro sepoltura non potrà arrestare il segreto rivelato, a chi sa ascoltare.
[1] E. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century (1914-1991), Abacus, London, 1994.
[2] Emblematica la poetica concretista di Schweigen (silenzio) in cui solo l’assenza della parola tradita può restituire l’autentico significato, E. Gomringer, Worte sind schatten. Die Konstellationen 1951-1968, Rowohlt Verlag, Reinbek Bei Hamburg, 1969.
[3] Lettera di P.P.Pasolini a G. D’Aronco del 29 novembre 1945.
[4] N. Naldini, introduzione a P.P.Pasolini (a cura di N. Naldini), Un paese di temporali e primule, Guanda, Milano, 2015.
[5] P.P.Pasolini, Turcs tal Friùl, 1976, Doretti, Udine, 1976, p.22.
[6] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, p. 15.
[7] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, 26.
[8] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, 21.
[9] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, 7.
[10] Sono gli ultimi versi di P.P.Pasolini, La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975.
[11] Si tratta dei versi iniziali della tragedia, P.P.Pasolini, Turcs, cit. in nota 5, p.7.
[12] Elogio funebre completo in E. Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005,105 e ss.
[13] C. Wolf, Medea. Stimmen, traduzione italiana Medea. Voci, Roma, edizioni e/o, 2005.
Osservazioni essenziali sulla dichiarata inammissibilità della proposta referendaria in materia di responsabilità civile dei magistrati (Corte costituzionale n.49/2022)
di Mario Serio
Sommario: 1. Il tema generale e transnazionale della responsabilità giudiziale ed il propellente alla sua formulazione - 2. La via referendaria già battuta in materia di responsabilità giudiziale - 3. I termini del quesito referendario - 4. La diffusa risposta negativa sull’ammissibilità del quesito da parte della Corte Costituzionale - 5. Concise considerazioni conclusive e prospettiche: la lezione inglese.
1. Il tema generale e transnazionale della responsabilità giudiziale ed il propellente alla sua formulazione
Parlare di responsabilità per l'esercizio di funzioni giudiziarie è terreno per sua natura ricco di risposte possibilmente antitetiche, divise come possono essere tra la propensione al principio di sostanziale immunità proprio di ordinamenti molto evoluti come quello inglese[1] e la speculare, pervicace ricerca di ragioni e condizioni per l'affermazione della responsabilità stessa.
La comparazione con il diritto inglese[2], che solo sommariamente questa sede consente di svolgere, immette l'osservatore in un duplice circuito di pensiero che, in linea astratta, ben potrebbe essere applicata all'ordinamento italiano (ed in parte, come l'indagine successiva sulla giurisprudenza costituzionale renderà evidente, è stata recepita). Il primo lato, che ha determinato il definitivo affrancamento del common law inglese dalle suggestioni tendenti ad ipostatizzare l'erroneità della decisione giudiziale nella persona di chi l'ha pronunciata decretandone una colpa fonte di responsabilità, va individuato nella liberatoria distinzione tra rimedio risarcitorio anticamente esperibile nei confronti del giudice errante - nel tempo abbandonato in conformità alla nuova ed adesiva coscienza sociale - e rimedio impugnatorio, a buona ragione elevato al livello della piena satisfatttività per la parte che dell'errore aveva patito le conseguenze pregiudizievoli. L'altro aspetto riguarda la ariosa esposizione della base in senso continentale “costituzionale” dell'immunità giudiziale compiuta dalla House of Lords in una pronuncia del 1975[3]. Essa prende corpo in rapporto alla posizione ordinamentale del Giudice, qualificato come “il depositario di una posizione soggettiva di natura pubblicistica diretta ad assicurare che l'amministrazione della giustizia non venga impedita dagli attacchi collaterali delle parti deluse[4]”. E con questa posizione, ancora perfettamente resistente ad onta del tempo trascorso perché espressiva del senso democratico attribuito in quell'ordinamento all'opera di amministrazione della giustizia, si avvera in forma stentorea la felice scissione tra la persona del giudice ed i suoi atti, rendendo indipendenti il destino dell'uno da quello degli altri.
Se, in linea generale e con il conforto dell'esperienza del common law inglese quale si è andata dispiegando in forma liberale dopo l'oscuro periodo della Star Chamber[5], appare ragionevole e storicamente accettato - e di recente costituzionalmente elevato al rango dei principii costituzionali grazie al Constitutional Reform Act del 2005[6] - attribuire all'atteggiamento immunitario il benefico scopo di non compromettere con indebite pressioni psicologiche l'attività di giudizio esercitata “intra vires” (escludendo dall'area di protezione quella posta in essere all'esterno di qualsiasi potere attributivo della competenza decisoria), non omogenea ed univoca si rivela la ricognizione dei moventi a predicare l'opposto regime, come dimostrano vicende periodicamente imposte all'attenzione del mondo del diritto in Italia. Ed infatti, tali moventi solo occasionalmente si radicano in riflessioni dallo spiccato significato giuridico, tra le quali potrebbe in via di ipotesi annoverarsi la domanda sulla congruità del trattamento differenziale riservato a magistrati e ad altri funzionari dello stato o di enti pubblici a mente dell'art. 28 Cost. o sulla razionalità della richiesta, “de iure condito” (legge 117/1988 con le successive modificazioni apportate dalla legge 18/2015) di un elemento soggettivo restrittivamente qualificato per l'affermazione della responsabilità dei primi rispetto a quella degli altri. Si tratta, al contrario, di interrogativi ricalcati su un'analisi non affetta da pregiudizi estranei al dominio delle analisi di natura concettuale ma piegata all'obiettivo dell'appiattimento su un'unica, unitaria ed indifferenziata base giustificativa della responsabilità di tutte le persone operanti nell'ambito dell'impiego pubblico. Nel tempo questo desiderio di omogeneità di regime normativo nei confronti di condotte produttive di un danno ingiusto a terzi (è sempre il paradigma della responsabilità aquiliana nella cornice degli artt. 2043 ss. cod. civ. quello in cui si inscrivono i tentativi al riguardo) si è espanso nel senso di racchiudere nel proprio perimetro di osservazione anche i casi di responsabilità di esercenti attività libero-professionali (medici, avvocati, etc.) e ponendo tali attività come parametro di riferimento di una sostanzialmente ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla categoria giudiziale che sfuggirebbe alla regola riassunta nella plebea espressione “chi sbaglia paga”. A misura che talune di queste prese di posizione popolari e di non scarso successo hanno preso piede, addirittura soppiantando quelle, maggiormente competitive, espresse in punto di razionalità del sistema, è nei relativi propugnatori arieggiata come soluzione riconformatrice del sistema quella dell'abrogazione delle norme limitative della responsabilità giudiziale.
2. La via referendaria già battuta in materia di responsabilità giudiziale
La sentenza n. 49 del 2 marzo 2022 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile - per ragioni che si andranno qui man mano esponendo - la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione di alcune norme della legge 13 aprile 1988 n. 117 sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati offre un'utile rassegna delle questioni già sottoposte, in sede di esame della legittimità costituzionale del corpo normativo in questione o dell'ammissibilità di referendum abrogativi di parti di esso, alla cognizione della Corte stessa.
Il richiamo a tali precedenti ha costituito nell'occasione più recente il binario lungo il quale è scorso il convoglio che raccoglieva i principii fondamentali in materia di scopo della legge 117 del 1988 e di criteri cui necessariamente devono uniformarsi i quesiti referendari con propositi abrogativi.
Per quanto di utilità per il presente saggio si possono evocare i passaggi che seguono.
Il punto di diramazione dell'impostazione adottata dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza può con sufficiente certezza ravvisarsi nel motivato richiamo alla propria giurisprudenza, ed in particolare alla sentenza 38 del 2000 con la quale, nel dichiarare inammissibile altro quesito referendario sempre vertente su disposizioni della legge 117 del 1988 e tendente all'introduzione attraverso il voto popolare della responsabilità civile diretta dei magistrati, la Corte negò che “l'introduzione dell'azione diretta nei confronti del magistrato, accanto alla perdurante possibilità di proporre l'azione contro lo Stato, possa realizzarsi grazie a meccanismi di riespansione o autointegrazione dell'ordinamento attivati dall'eventuale abrogazione popolare”. Dell'importanza di questa statuizione, e della sua potenziale (poi effettivamente tradottasi in atto) decisività nella fattispecie si è resa conto la difesa dei proponenti il referendum odierno che, per sottrarsi alla precedente censura di difetto di chiarezza del precedente quesito, ha precisato che il successivo è ben in grado di esibire il proprio intento teleologico, consistente, appunto, nel raggiungimento del fine della previsione della responsabilità civile diretta degli appartenenti all'ordine giudiziario: si vedrà oltre che anche questa volta l'obiettivo è stato mancato.
Ulteriori fondamenti di un discorso di continuità vanno agevolmente colti nella citazione di quelle sentenze costituzionali (5 del 2015, 25 del 2011, 40 del 2000, 30 e 34 del 1997) le quali hanno concordemente sottolineato come la previsione normativa, attuata con la più volte menzionata legge 117 del 1988, di un'unica tipologia di azione diretta (quella verso lo Stato) preclude la possibilità che solo attraverso la via referendaria (e non quella legislativa) si introduca una seconda categoria di azioni risarcitorie, quelle dirette contro il magistrato. A questo ostacolo i proponenti hanno opposto -senza, tuttavia, cogliere nel segno, come apparirà chiaro più avanti - la tesi secondo cui “l'eliminazione dell'espressione “contro lo Stato” possa sprigionare un autonomo contenuto normativo, facendo riespandere la disciplina generale che prevede la coesistenza della disciplina dello stato e quella diretta del magistrato, discendente proprio dai citati art. 28 Cost. e D.P.R. n. 3 del 1957”: con ciò evidentemente riferendosi all'ipotesi di carattere eccezionale di responsabilità diretta del magistrato derivante dalla accertata commissione di un illecito penale ai sensi dell'art.13 della legge 117 del 1988.
La Corte si è mostrata particolarmente attenta, poi, in aderenza ai propri costanti orientamenti alle possibili, negative ricadute sull'ammissibilità dei quesiti referendari in generale della manipolazione della struttura linguistica dell'abroganda disposizione: esito da evitare in relazione al rischio che da essa possa prender vita un assetto normativo sostanzialmente nuovo ed idoneo a stravolgere la funzione propria del referendum abrogativo (sentenze 10 del 2020, 46 del 2003, 50 e 38 del 2000, 26 del 1997).
In questa illustrazione preliminare al merito della sentenza di cui ci si occupa vanno ricordati i due seguenti, ulteriori dati, l'uno di carattere giurisprudenziale, l'altro di profilo normativo.
Partendo da quest'ultimo la Corte Costituzionale ha opportunamente ripercorso le tappe evolutive verso l'odierno regime in materia di responsabilità giudiziale, rammentando come il vigente assetto legislativo prenda le mosse dalle previsioni degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. le quali, bensì consentivano l'esercizio dell'azione diretta in ipotesi estreme nei confronti del magistrato, subordinandola, tuttavia, all'autorizzazione del Ministro della giustizia, per poi evolversi, a seguito della loro abrogazione con il referendum popolare del 1987, nella legge 117 del 1988 che preserva lo statuto costituzionale della magistratura attraverso l'introduzione di condizioni e limiti alla responsabilità civile dei magistrati e la previsione di un'azione di rivalsa dello Stato direttamente chiamato in causa e soccombente nei confronti del magistrato responsabile. Il sistema si è poi completato con la legge 18 del 2015 che ha ampliato le ipotesi di responsabilità civile del magistrato ed eliminato il filtro della previa dichiarazione di ammissibilità dell'azione ed ha configurato l'azione di rivalsa da parte dello Stato soccombente nel giudizio contro lo stesso direttamente proposto nei confronti del magistrato che abbia cagionato un danno ingiusto con dolo o negligenza inescusabile.
Venendo al riferimento effettuato nella sentenza 49 /2022 al proprio precedente più remoto tendente al coordinamento sistematico delle disposizioni, di rango costituzionale ed ordinario, aventi ad oggetto la responsabilità giudiziale la Corte Costituzionale si sofferma sulla propria, antecedente sentenza 2 del 1968 con cui, pur riconoscendo che la norma dell'art. 28 citato concerna anche i magistrati[7] si ammette che leggi ordinarie disciplinino variamente la responsabilità per categorie e situazioni, alla sola condizione che essa non sia sostanzialmente denegata, come avrebbe aggiunto la sentenza 385 del 1996.
3. I termini del quesito referendario
Tra gli altri quesiti referendari in materia di giustizia[8] quello che spiegabilmente suscitava maggior allarme per quanto di attinenza al mantenimento dell'impianto costituzionale che descrive e tutela la figura dell'appartenente (Giudice e Pubblico Ministero) all'ordine giudiziario, tratteggiandone lo statuto, era certamente la proposta di abrogazione[9] di varie disposizioni della legge 117 del 1988 che limitano allo Stato la legittimazione passiva nei giudizi promossi a seguito di atti o fatti riconducibili al magistrato ravvivati dal necessario sostrato soggettivo e produttivi di danno ingiusto. Il dichiarato fine perseguito dai proponenti era quello di dar vita ad un regime di responsabilità civile capace di concepire la possibilità che la persona lesa nella propria posizione soggettiva per effetto di atti compiuti nell'esercizio di funzioni giudiziarie agisca direttamente contro il magistrato autore degli stessi. La comune matrice del quesito referendario, formulato da alcune Regioni ad omogenea maggioranza politica (Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte) era data dalla tensione all'abolizione della norma speciale in virtù della quale l'azione di responsabilità giudiziale tipica va, salvo l'ipotesi eccezionale di fatti penalmente rilevanti di cui con sentenza definitiva il magistrato sia stato giudicato colpevole, promossa esclusivamente contro lo Stato, pur con la menzionata possibilità della rivalsa (punto 2.2. della sentenza). Nell'illustrare le ragioni a sostegno dell'ammissibilità del quesito i proponenti ne hanno sottolineato la chiarezza e coerenza, desumibile anche dal citato fine cui è diretto, positivamente apprezzabile anche alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale che, in tema di responsabilità civile dei magistrati, ha riconosciuto al legislatore la possibilità di “scelte plurime, anche se non illimitate” nonché “una valutazione discrezionale” (sentenze 26 del 1987 e 38 del 2000 ), nella logica del contemperamento delle contrapposte esigenze del soggetto ingiustamente danneggiato ad ottenere ristoro per i pregiudizio subìto e di quella della preservazione dell'indipendenza della magistratura (considerazioni che escluderebbero l'eventualità che in materia sia presente una disciplina costituzionalmente vincolata: punto 2.1 della sentenza).
4. La diffusa risposta negativa sull’ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale
Si è già fatto cenno nei paragrafi precedenti ad alcuni dei tratti fondativi della sentenza per quanto afferisce al contesto storico-normativo della vicenda dedotta con il quesito e ad alcuni basilari principii destinati ad ispirare il compito valutativo della Corte Costituzionale in frangenti simili.
Conviene adesso concentrarsi su quegli aspetti della pronuncia che, con rigoroso criterio logico, hanno assunto ad oggetto del giudizio il puntuale raffronto tra il modo di formulazione e l'obiettivo propostosi dal quesito e le regole proprie della fase di ammissibilità del referendum, tratte anche dalla necessaria previsione dello scenario normativo che si verrebbe a configurare nell'ipotesi di ammissione e celebrazione del referendum, con voto popolare di approvazione della proposta abrogativa.
La prima cura della sentenza è stata dedicata alla individuazione e successiva qualificazione, refluente sul giudizio di ammissibilità, della tecnica del “ritaglio” adottata nella prospettiva di abrogare alcune espressioni lessicali ricorrenti nelle numerose norme della legge 117 del 1988 oggetto del quesito al fine di consentire in definitiva che il magistrato possa essere citato direttamente nel giudizio civile risarcitorio da parte del danneggiato, così superando la vigente normativa che prevede forme di responsabilità del magistrato solo in sede di rivalsa da parte dello Stato, ove quest'ultimo sia stato condannato al risarcimento, mentre in caso di reato la responsabilità del magistrato non consegue ad un'azione intentata nei suoi confronti innanzi al giudice civile, se non per effetto di una previa condanna penale (punto 3 della sentenza).
In primo luogo, proprio alla stregua di quest'attività interpretativa, in ottica teleologico-effettuale, del quesito la Corte ne ha dichiarato l'inammissibilità, denunciandone un carattere manipolativo e creativo, e non meramente abrogativo. Per spiegare questo delicatissimo e dirimente punto di vista la Corte si immerge nella storia normativa[10], di cui si è prima fornita una sintesi, che ha attraversato[11] il tormentato istituto della responsabilità giudiziale che ha trovato il proprio (sarebbe azzardato qualsiasi pronostico di definitività) approdo nella legge 18 del 2015,di cui si sottolinea la (indiretta, in verità) genesi nella nota sentenza della grande sezione della CGUE 13 giugno 2006 in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa[12]. Al riguardo, la completezza espositiva suggerisce di ridimensionare in queste pagine la pretesa necessarietà della portata causale della giurisprudenza comunitaria rispetto all'emanazione della legge[13]: a questa conclusione si perviene pianamente considerando quanto affermato da Cass. 20 ottobre 2016 n. 21246 che ha risolutamente negato che la disciplina della legge 117/1988 fosse incompatibile con l'ordinamento comunitario qualora la condotta contestata al magistrato non implichi l'applicazione, diretta o indiretta, del diritto dell'Unione.
Tornando alla censura di manipolatività e creatività rivolta dalla Corte Costituzionale al quesito referendario va lodata la conseguenzialità logica del ragionamento svolto. Esso muove dalla prefigurazione dello scenario in senso ampio normativo (o forse sarebbe più esatto dire dal vuoto o dall'aporia) che si presenterebbe agli occhi dell'interprete nel caso di introduzione, a cagione dell'ammissione e dell'approvazione con voto popolare del quesito, dell'azione civile diretta nei confronti del magistrato “senza alcun filtro” e cioè come semplice effetto meccanico dell'impiego “della cosiddetta tecnica del ritaglio” (punto 6 della sentenza). E' immediata la percezione, come acutamente osserva la Corte, che la conseguenza pratica sarebbe quella di creare un nuovo regolamento normativo del tutto indipendente da una deliberazione parlamentare, peraltro privo dei necessari requisiti di determinatezza (tempi, modi, condizioni, limiti) relativi alla concreta conformazione dell'azione diretta. In sostanza, ben può dirsi che si sarebbe dato vita ad un'“invenzione” legislativa effettuata al di fuori del canale parlamentare ed attraverso un'indebita usurpazione, nell'improprio teatro del referendum abrogativo, del potere legislativo ad opera del corpo elettorale. Di pari evidenza sarebbe l'assoluta insufficienza a riempire di compiuto e consentito spazio il vuoto lasciato dall'eventuale esito referendario, a colmare il quale non potrebbe di certo giovare il residuo impianto della legge 117 del 1988, nata ed elaborata con il contrario presupposto della tipicità della sola azione diretta nei confronti dello Stato e con la solo residuale previsione dell'azione di rivalsa nei confronti del magistrato (assoggettabile all'azione diretta, come già ribadito, nel solo caso di commissione di un illecito penale accertato nella competente ed irretrattabile sede). In sostanza, è facile osservare che al “ritaglio” tentato attraverso il quesito conseguirebbe un'autentica eterogenesi dei fini della residua legislazione, distolta dal suo coerente alveo originario e distorta verso fini logicamente inconciliabili, se non antitetici, rispetto ad esso. Assolutamente opportuna si rivela, da questo punto di vista, l'affermazione racchiusa a metà del punto 8 allorché si legge che “la responsabilità civile del magistrato, in quanto necessariamente subordinata alla introduzione legislativa di condizioni e limiti del tutto peculiari, non si presta alla piana applicazione della normativa comune vigente in tema di responsabilità dei funzionari dello Stato; sottraendosi, in caso di abrogazione referendaria, alla potenziale riespansione dei principi ai quali tale ultima normativa si conforma (già la sentenza n.468 del 1990 aveva sottolineato la coessenzialità di tali condizioni e limiti alla eventuale introduzione di un'azione diretta)”.
Conviene soffermarsi su questa affermazione di principio prima di guardarne le conseguenze dalla Corte Costituzionale tratte in punto di ammissibilità del quesito referendario.
Tirando le somme dalla proposizione prima riportata si deduce la intatta solidità dell'architettura concepita sul tema da Corte Costituzionale n.2 del 1968 (Sandulli Presidente, Branca redattore), articolata in una coppia di considerazioni: la peculiarità, di origine costituzionale, dell'istituto della responsabilità giudiziale; l'ineludibile esigenza che attorno al tema si crei un'armoniosa rete di coordinate disposizioni legislative rivolte allo scopo di individuare condizioni e limiti alla previsione di un'azione di responsabilità diretta nei confronti del magistrato.
Su queste inoppugnabili basi, al tempo stesso obbedienti alla logica argomentativa e fedeli alla costruzione costituzionale della Magistratura (art. 101 ss.), la sentenza 49/2022 definisce il quadro degli effetti dell'eventuale abrogazione delle norme citate nel quesito referendario, dichiarando il fallimento del relativo scopo in quanto inadatto a concepire con sufficiente adeguatezza “una seconda e differente forma processuale di responsabilità del magistrato” da accostare a quella unica (dello Stato in via diretta) voluta dal legislatore del 1988.
Tutti gli ulteriori argomenti adibiti dalla Corte Costituzionale a suffragio della irrimediabile distanza del quesito dal corteo di inveterati principii alla cui stregua valutarne l'ammissibilità sviluppano il tema dell'inefficacia della proposta abrogativa rispetto al fine perseguito di introduzione di una forma diretta di responsabilità giudiziale, di cui mancherebbero sia gli elementi strutturali sia i mezzi di coordinamento letterale, logico e sistematico con la coesistente responsabilità dello Stato (si veda in particolare il punto 9.3): analoghe critiche erano state indirizzate ad altra, precedente proposta abrogativa attraverso referendum dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza 34 del 1997.
Proprio l'ineliminabile convivenza tra due forme di responsabilità (quella previgente dello Stato e quella di ipotetica nuova introduzione referendaria) gioca nel senso di appannare la possibilità di una scelta chiara e certa da parte dell'elettore che fosse chiamato ad esprimersi sul quesito (cui deve essere riconosciuta la facoltà di una scelta chiara nell'esercizio del suo potere sovrano di voto: Corte Costituzionale 39 del 1997) lasciandolo del tutto privo di razionali punti di riferimento circa il rapporto tra la responsabilità civile dello Stato e quella diretta del magistrato, in particolare rimanendo tutt'altro che sciolto il dubbio circa la natura solidale o sussidiaria della prima rispetto alla seconda, così incorrendo in un ulteriore profilo di oscurità già segnalato in occasione simile dalla sentenza costituzionale n. 26 del 1987 (punto 10.2).
Il serrato discorso condotto dalla sentenza ha condotto, pertanto, alla dichiarazione di inammissibilità sotto varii e concorrenti profili del quesito referendario: ma non è detto che questa pronuncia ne inibisca la futura riproposizione non sembrando cessati i profondi, reconditi moventi ispiratori ai quali si è alluso nella parte iniziale
5. Concise considerazioni conclusive e prospettiche. La lezione inglese
L'elevato indice di frequenza della proposizione di quesiti referendari in materia di responsabilità civile dei magistrati con riguardo all'esercizio delle proprie funzioni e la focosissima vivacità del dibattito politico, non di rado tracimante nella frontale e sfrontata sfiducia nei confronti dell'intero ordine giudiziario, rappresentano sintomi non trascurabili e da non trascurare nel più vasto ambito della riconsiderazione in chiave critico-propositiva dell'odierna concezione dell'attività giurisdizionale e dei concreti modi di inverarla da parte dei singoli magistrati.
Sarebbe completamente estraneo ad uno studio, come il presente, dedicato al ragionato esame di un'importante e simbolicamente preziosissima pronuncia della Corte Costituzionale indugiare sulle molteplici spigolature che la complessa questione implica: in misura maggiore sconsiglia una simile distrazione intellettuale la spesso provocatoriamente ricercata ed amplificata natura politica (non sempre pensata in senso nobile) della genesi e delle possibili soluzioni di essa.
Ma un auspicio si può formulare, incoraggiato anche dalle lucide ed emotivamente distaccate ragioni addotte dalla Corte Costituzionale per dichiarare inammissibile il referendum di cui qui si è scritto.
Esso suona nel senso che accostarsi al tema della responsabilità giudiziale postula che un fondamentale presupposto venga accettato e collocato al centro della riflessione, al pari di quanto la ricca esperienza giuridica inglese insegna: la necessaria separazione concettuale e pratica da operare in sede processuale tra la persona e l'atto del magistrato. Cumulare o rendere indifferenziati i due aspetti conduce all'ineluttabile risultato di velare ogni indagine, lasciando che essa presti il fianco al fondato timore alla tentazione - intollerabile quando si discute attorno a valori costituzionali - della faziosità intellettuale. Il prezzo sarebbe troppo alto da pagare e la collettività che non può che guardare con quotidiana speranza alle vicende che si svolgono nel campo dell'amministrazione della giustizia non meriterebbe di vederselo addebitato. Esporre il provvedimento giudiziale che si assume iniquo o errato ad un ulteriore grado di giudizio e non l'autore a conseguenze processuali dirette (dal discorso esula, ovviamente, il problema delle ricadute in termini di considerazione professionale del magistrato) ed eccedenti lo scopo e l'esito del nuovo giudizio è la lezione che continua ad impartirci il common law inglese.
Bene ed utilmente si possono assumere come guida illuminante le parole di Lord Hailsham (al secolo Quintin Mc Garel Hogg, 1907-2001), illuminato giurista, giudice della Appellate Division della House of Lords e Lord cancelliere in governi conservatori, di tale risoluto carattere da esser temuto – secondo i suoi biografi – perfino da Margaret Thatcher, pronunciate nel corso di una lezione tenuta il 17 ottobre 1977 alla New Brunswick Law School[14]. Egli affermò[15] che l'indipendenza giudiziale è un grande bastione contro una concezione assolutistica della democrazia e rappresenta uno dei principii fondativi della libertà e della democrazia inglesi. Egli, pur non escludendo la legittimità della sottoposizione a critiche dell'operato dei giudici (cui saggiamente suggeriva di non cedere mai alla tentazione di rispondervi), concludeva nell'esemplare senso che al risultato dell'efficacia dell'azione giudiziale dovesse, comunque, tendersi senza alcun sacrificio della essenziale libertà di giudizio, fino a raggiungere anche le vette della creatività, in modo da difendere i diritti individuali contro i soprusi della burocrazia e della politica[16].
È insopprimibile il desiderio che parole e concetti così nobili possano risuonare sempre in ogni aula (parlamentare, giudiziaria) nella quale si dibatta del senso e dei limiti dell'attività giudiziale.
[1] Può essere utile il rinvio a Serio, Responsabilità o immunità giudiziale: studio comparatistico su un'apparente alternativa, in Il giusto processo civile, 2017, pagg. 333 ss., nonché, al sempre mio, Riflessioni sulla responsabilità giudiziale in diritto comparato, in Europa e diritto privato, 1998, pag. 1149 ss.
[2] Per il raffronto con altri ordinamenti si può rinviare a Bairati, La responsabilità per fatto del giudice in Italia, Francia e Spagna, fra discipline nazionali e modello europeo, Napoli 2013.
[3] Avenson v Casson Beckman Rutley &Co. ( 1975 ) 3 WLR 823.
[4] “He is merely the repository of a public right which is designed to ensure that the administration of justice will be untrammelled by the collateral attacks of disappointed litigants”.
[5] Serio, Responsabilità o immunità, cit. pag. 337.
[6] Criscuoli-Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese, II edizione, Milano, 2021, pag. 381 ss.
[7] Si ritenne, infatti, che andasse esclusa sia la legittimità di una negazione totale della responsabilità giudiziale sia la ragionevolezza di una siffatta ipotetica negazione e in sé, con riguardo anche al principio di eguaglianza, ed in rapporto al criterio di imputabilità per gli atti ed i provvedimenti posti in essere dai pubblici dipendenti ai sensi del testo unico n. 3 del 1957: v. sul punto, Serio, Riflessioni, cit., pag. 367 ss.
[8] Su cui si è soffermato criticamente Giovanni Verde nel suo Referendum: quesiti di difficile comprensione. Davvero utili ?, in Guida al diritto n.8 del 5 marzo 2022.
[9] La cui denominazione è stata integrativamente rivisitata dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione nei seguenti termini: “Responsabilità civile diretta dei magistrati: abrogazione di norme processuali in tema di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio di funzioni giudiziarie”.
[10] Già in passato si è autorevolmente segnalata la doverosità di un soddisfacente e chiarificatore intervento legislativo: Bartole, Della responsabilità civile del giudice e di quella ( per inadempienza ) del legislatore ordinario, in Giur.it., 1976, I, 1135 ss.
[11] Anche per effetto dell'esame del tema generale da parte della restrittiva giurisprudenza di legittimità: da Cass.1722/1960 a Cass.1879/1982 secondo cui - in difformità da Cass.1916/1979 - nel precedente sistema descritto dalle norme processualcivilistiche “non sussiste coincidenza tra la responsabilità del funzionario e quella dello Stato per il quale egli agisce”: orientamento subito dopo seguito dal Tribunale di Roma con sentenza 29 settembre 1982 in Resp. civ. e prev. 1983, 222 con nota redazionale.
[12] È ben verificabile l'impatto inziale della riforma del 2015 in alcune pronunce della Cassazione nelle quali si sottolinea che la responsabilità del magistrato si configura come caratterizzata da un elemento soggettivo costituito da un'attività interpretativa abnorme, scorretta e tale da sconfinare nel libero arbitrio: Cass.7 aprile 2016 n. 6791 in Resp. civ. e prev., 2016, 1585 con nota di Giorgetti, Le fantasiosi interpretazioni dei giudici di merito vanno sanzionate.
[13] Sulla quale si vedano i primi commenti di Rosano, Rimaneggiamenti della legge sulla responsabilità civile dei magistrati: nuove questioni di legittimità costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 2016, 920 ss. e Cortese - Penasa, Brevi note introduttive alla riforma della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati, in Resp .civ. e prev., 2015, 1026 ss.
[14] E pubblicate sotto il titolo Democracy and judicial independence, in U.N.B. Journal 1977, 7 ss.
[15] Si veda il mio Responsabilità o immunità giudiziale, citato, pag. 355.
[16] Op. ult. cit., pag. 17.
Interdittiva antimafia tra norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie (Nota a Consiglio di Stato, sez. III del 25 ottobre 2021, n. 7165)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini*
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 2. Sulla legittimità costituzionale, euro unitaria ed internazionale delle norme in materia di interdittiva antimafia - 3. La necessità di riforma: uno sguardo al D.L. 6 novembre 2021, n. 152.
1. Premessa: la vicenda contenziosa
L’interdittiva antimafia è manifestazione tangibile della volontà di recidere il rapporto tra organizzazioni criminali e cosa pubblica [1]. In tale complesso sistema va segnalata la sentenza del Consiglio di Stato, sez. III del 25 ottobre 2021, n. 7165.
I Giudici di Palazzo Spada hanno reso la sentenza in commento sulla riforma della pronuncia del Tar Latina, sez. I, n. 303/2020 che aveva rigettato il ricorso proposto dalla società ora appellante.
Quest’ultima aveva presentato domanda per il rilascio dell’autorizzazione a svolgere l’attività di facchinaggio all’interno del MOF (Mercato Ortofrutticolo di Fondi) nonché della possibilità di accedere al Mercato per i propri soci e dipendenti, depositando la documentazione richiesta e fornendo i dati necessari.
La MOF, al fine di tutelare la libertà delle attività commerciali all’interno del Mercato (oggetto di vari episodi di infiltrazione criminale), sottoscriveva protocollo di legalità con la Prefettura di Latina e, dunque, faceva richiesta di informazione antimafia alla Banca Dati Nazionale Antimafia; nelle more dell’esito, rilasciava in favore della società appellante l’autorizzazione richiesta per l’anno in corso.
La Prefettura, alla luce del protocollo di legalità, comunicava alla MOF di aver emesso provvedimento interdittivo antimafia nei confronti della detta società; tuttavia a tale informazione non seguiva alcun provvedimento da parte della MOF in quanto la società appellante non aveva presentato domanda di autorizzazione nei termini prescritti per l’anno d’interesse e, pertanto, non avrebbe comunque potuto operare all’interno del Centro Agroalimentare, in quanto non autorizzata.
La società presentava ricorso innanzi al TAR per il Lazio, sede di Latina, chiedendo l’annullamento, previa tutela cautelare, dell’informativa antimafia interdittiva, del protocollo di legalità per il Mercato Ortofrutticolo di Fondi, della segnalazione all’Autorità Anticorruzione e della stessa annotazione nel Casellario Informatico dei contratti pubblici.
Il TAR accoglieva la domanda di tutela cautelare, con ordinanza che, appellata dal Ministero dell’interno, veniva poi annullata dal Consiglio di Stato. Successivamente, la società presentava ricorso per motivi aggiunti, eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario. Ricorso principale e motivi aggiunti venivano poi entrambi rigettati.
La sentenza di merito veniva appellata sollevando anche alcune questioni di legittimità costituzionale nei confronti degli artt. 84, 85, 89 bis, 91 co.6 e 94 del D.Lgs. 159/2011 per violazione dei principi di uguaglianza, di solidarietà e di sussidiarietà, ex articoli 2, 3, 4, 22 e 118, ult. co. della Costituzione, e lamentando inter alia la violazione degli artt. 1 e 2 c.c., dell'art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, degli artt. 6 e 13 della CEDU.
Nel merito, chiedeva al Consiglio di Stato, accertata e dichiarata l'illegittimità della sentenza del TAR Lazio, nonché degli atti impugnati, di accogliere l’appello e, per l’effetto, i ricorsi introduttivo e per motivi aggiunti di primo grado ed annullare i provvedimenti con questi impugnati.
Il Consiglio di Stato, nel vagliare i motivi addotti dalla società appellante ed alla luce delle ampie deduzioni dell’appellato Ministero dell’interno circa le infiltrazioni mafiose in atto, riteneva l’appello non fondato al pari delle questioni di legittimità costituzionale e di legittimità sotto il profilo euro unitario ed internazionale pattizio e pertanto, definitivamente pronunciandosi, respingeva l’appello.
2. Sulla legittimità costituzionale, euro unitaria ed internazionale delle norme in materia di interdittiva antimafia
Preliminarmente la pronuncia in commento, richiamando consolidata giurisprudenza, rappresenta come l’interdittiva antimafia costituisca "una misura volta alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione" [2]. Il provvedimento prefettizio ha, dunque, il precipuo fine di prevenire possibili infiltrazioni mafiose nell’economia che inevitabilmente andrebbero a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica Amministrazione costituendo al contempo un presidio dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, previsti dall'art. 97 Cost. [3]. Dunque, le misure interdittive antimafia sono inserite a sistema per la tutela sia dello svolgimento di una effettiva concorrenza tra le imprese sia di un apprezzabile utilizzo delle risorse pubbliche [4].
Chiarita la condivisibile ratio ispiratrice dei provvedimenti interdittivi prefettizi, la complessa sentenza in commento si palesa di grande interesse nella parte in cui tratta le questioni di legittimità costituzionale sollevate avverso le disposizioni dettate dal libro II del D.Lgs. 159/2011 ed in particolare, avverso gli artt. 84, 85, 89 bis, 91 co.6 e 94 del D.Lgs. nonché dei diritti fondamentali previsti dalla carta CEDU e dai protocolli addizionali [5].
Il Collegio, ritenendo tali censure infondate, precisava che secondo la normativa nazionale le misure interdittive antimafia si concretizzano, non nell’intervento su di “uno status generale di capacità giuridica” bensì, nella previsione di “limiti e divieti temporanei e specifici di contrattazione con la pubblica amministrazione e di esercizio di attività economiche sottoposte a vaglio autorizzativo a tutela di interessi pubblici generali” nonché a tutela della stessa possibilità di un loro libero esercizio da parte di tutti i competitoreconomici, nel rispetto dei principi di libertà d’iniziativa economica privata e di concorrenza sanciti dall’art. 41 della Costituzione e dal Trattato UE [6].
Pertanto, il giudice adito, richiamando un Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato riconduce ad una incapacità di agire temporanea l’effetto dell’interdittiva, essendo previste, a suo avviso, adeguate misure per poter ristabilire le condizioni di affidabile partecipazione della società all’economia, nella sua espressione più libera e incondizionata da possibili infiltrazioni.
In realtà, lo studio della casistica degli ultimi anni ci mostra come tali misure non siano affatto temporanee in quanto revocate esclusivamente nel caso in cui affiorino nuovi elementi pro imprenditore, determinando inevitabilmente un illegittimo rovesciamento dell’onus probandi e causando conseguentemente un’inerzia procedimentale ingiustificata.
Inoltre, i giudici di Palazzo Spada ritengono che le misure interdittive, estranee al sistema sanzionatorio penale in ragione del loro carattere cautelare ed anticipatorio, sono sottoposte ai principi di legalità e del giusto procedimento ammnistrativo, secondo criteri di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità [7].
Invero, a parere di chi scrive, la misura interdittiva spiega i propri effetti in modo molto più incisivo per il destinatario rispetto a qualunque misura cautelare personale cui un soggetto possa essere attinto e da ciò si palesa la necessità di ancorare le garanzie che devono seguire e presupporre tali provvedimenti [8]. La portata di tali provvedimenti si comprende estendendo l’angolo di osservazione e interpretando gli effetti devastanti che produce nei confronti di soggetti terzi ovvero soggetti che lavorano presso l’impresa attinta dall’interdittiva che vedono limitato un proprio diritto fondamentale.
Ancora bisogna ricordare che la normativa antimafia non prevede una partecipazione necessaria del soggetto in fase procedimentale andando ad inficiare probabilmente la garanzia di una piena istruttoria assicurata solo da un effettivo contraddittorio delle parti [9].
Il Collegio, poi, richiama la Corte Costituzionale (n. 57 del 2020) che già respingeva i dedotti dubbi di incostituzionalità, affermando che: “...queste complesse valutazioni che – come si è rilevato - sono, sì, discrezionali, ma dalla forte componente tecnica, sono soggette ad un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo. Di fatto è questa la portata delle numerose sentenze amministrative che si sono occupate dell’istituto. Esse non si limitano ad un controllo “estrinseco” e, pur dando il giusto rilievo alla motivazione, procedono ad un esame sostanziale degli elementi raccolti dal prefetto, verificandone la consistenza e la coerenza.”
Tuttavia, è discutibile sostenere che il Prefetto svolga attività di discrezionalità tecnica nell’emissione di un provvedimento interdittivo poiché esso si traduce in una valutazione di elementi di fatto, sovente di natura indiziaria e acquisiti a valle di un’attività istruttoria svolta talvolta rivalutando elementi già valutati in sede penale e da cui trae elementi che portano ad una decisione opposta in sede amministrativa.
È poco sostenibile, dunque, che la valutazione di fatti possa essere ricondotta nella discrezionalità tecnica e d’altro lato, appare ancor meno adeguata la limitazione che consegue a livello giurisdizionale poiché il giudice viene privato degli strumenti istruttori che permetterebbero di “investigare in autonomia” i fatti presupposti risalendo alla concreta portata [10].
Pertanto, è inevitabile rilevare come alla discrezionalità della Pubblica amministrazione nella materia in commento non segua una piena capacità istruttoria del giudice amministrativo realizzando sovente una ingiustificata compressione del diritto di difesa dell’operatore economico attinto dalla misura interdittiva.
Il collegio, allo stesso modo, ritiene infondate le violazioni sindacabili innanzi alla CEDU chiarendo che “in considerazione della natura non repressiva ma preventiva, e della varietà di comportamenti con cui le mafie ricercano attrattive occasioni di infiltrazione in società e relativi settori economici, il Consiglio di Stato ha ripetutamente – con la conferma della Corte Costituzionale adita in sede incidentale – affermato che la “tipizzazione giurisprudenziale”, in costante evoluzione, effettuata dal Supremo organo di giustizia amministrativa costituisce “parametro sufficientemente adeguato a evitare ogni pericolo di discrezionali se non arbitrarie azioni, nella vaghezza dei loro presupposti, da parte della autorità prefettizia nel definire i comportamenti sintomatici della infiltrazione mafiosa”. Sulla scorta di ciò, il Collegio adito esclude la pretesa irragionevole limitazione degli strumenti di tutela giurisdizionale dell’impresa sottoposta ad interdittiva antimafia in violazione delle norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie richiamate a tal fine.
E ciò dimostra che anche la discrezionalità ha un limite e che sarebbe finalmente opportuno introdurre in via legislativa una fase di partecipazione del destinatario dell’interdittiva affinché possa dimostrare le sue ragioni sin dalla sede procedimentale.
3. La necessità di riforma: uno sguardo al D.L. 6 novembre 2021, n. 152
A valle dell’orientamento giurisprudenziale e delle opposte posizioni della dottrina è evidente come la materia meriti una rimeditazione da parte del legislatore. Chi scrive, da tempo, sostiene che già in sede procedimentale la disciplina vada ripensata, estendendo garanzie e tutele al futuro destinatario del provvedimento interdittivo. Ciò che si richiede è un ancoraggio della disciplina ai principi dell’agire amministrativo.
L’esigenza della partecipazione effettiva mediante un contraddittorio procedimentale è stata finalmente colta con il D.L. 6 novembre 2021, n. 152 – G.U. 6 novembre 2021, n. 265 che all’art. 48 rubricato “Contraddittorio nel procedimento di rilascio dell'interdittiva antimafia” prevedendo che: “Il prefetto, nel caso in cui, sulla base degli esiti delle verifiche disposte ai sensi del comma 2, ritenga sussistenti i presupposti per l'adozione dell'informazione antimafia interdittiva ovvero per procedere all'applicazione delle misure di cui all'articolo 94-bis, e non ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimento, ne dà tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa. Con tale comunicazione è assegnato un termine non superiore a venti giorni per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere l'audizione, da effettuare secondo le modalità previste dall'articolo 93, commi 7, 8 e 9. In ogni caso, non possono formare oggetto della comunicazione di cui al presente comma elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l'esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose. La predetta comunicazione sospende, con decorrenza dalla relativa data di invio, il termine di cui all'articolo 92, comma 2. (…)”
Assistiamo ad una presa di posizione fortemente auspicata. È pur vero però che ciò non può soddisfare pienamente chi desidera un sistema giusto e lontano dallo Stato della Paura. Negli ultimi anni, si è abusato di uno strumento che per sua natura sacrifica (talvolta in modo sproporzionato) diritti fondamentali del destinatario.
Solo la proporzione è condizione di civiltà dell’azione amministrativa e pertanto bisogna allontanare ogni possibile ipotesi di riconduzione ad un sistema sciolto e fluido, seppur necessario al contrasto di organizzazioni mafiose che per natura sono mutevoli [11].
*Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire il primo paragrafo a Renato Rolli e i restanti a Martina Maggiolini
[1] Si consenta il rinvio a R. Rolli M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), in questa Rivista, 2020
[2] Cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016 n. 1743
[3] Si consenta il rinvio a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in questa Rivista, 3 luglio 2020
[4] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 31 dicembre 2014 n. 6465
[5] Si consenta in rinvio a R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e questioni di legittimità costituzionale (nota a ord.za TAR - Reggio Calabria, 11 dicembre 2020, n. 732), in questa Rivista, 2021
[6] V. SALAMONE, La documentazione antimafia nella normativa e nella giurisprudenza, Napoli, 2019
[7] v. F. FRACCHIA - M. OCCHIENA, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico”, il diritto dell’economia, 2019
[8] Cfr. A. Longo, La Corte costituzionale e le informative antimafia. Minime riflessioni a partire dalla sentenza n. 57 del 2020, Nomos, 2020
[9] Cfr. M. Mazzamuto, Interdittive prefettizie: rapporti tra privati, contagi e giusto procedimento, in Giurisprudenza italiana, 2020
[10] v. F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in www.giustamm.it, 6, 2018
[11] Cfr. Cons. St. 5 settembre 2019, n. 6105
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Renato Rordorf
1. Caro Renato, secondo Te, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
Confesso che in passato mi era capitato solo saltuariamente di imbattermi in citazioni tratte dal libro di Mazzini Dei doveri dell’uomo[1]¸ che però non avevo mai letto integralmente. L’iniziativa di Giustizia insieme mi ha spinto ora a farlo e ne sono davvero grato, perché è stata una lettura che non esiterei a definire appassionante. Le idee di Mazzini, ovviamente, si possono condividere o meno, e certamente oggi appaiono sotto molti aspetti alquanto invecchiate; ma quello che non si può non ammirare è la straordinaria passione, la forza morale, la sincerità ed il rigore che traspaiono dalle pagine di questo piccolo libro, tanto più ove si rifletta a come la vita stessa di Mazzini sia stata sino alla fine coerente con i principi che egli professava e quale prezzo egli abbia pagato per restarvi fedele.
Già solo per lo straordinario impegno civile di cui esse recano testimonianza credo che le pagine mazziniane meritino tuttora di essere lette e che si debba perciò rispondere positivamente alla domanda se vi sia ancora bisogno di riflettere sul tema dei doveri dell’uomo che vi è trattato. In una società oggi tendenzialmente apatica ed assai poco propensa ad impegnarsi per un qualche ideale, quelle pagine, anche laddove se ne dissenta, possono avere una benefica funzione di stimolo. D’altronde si tratta di un tema che investe, nella sua apparente semplicità ma nella sua reale complessità, il modo stesso degli uomini di stare in società: è quindi un tema che non esiterei a definire insito nel concetto di società civile e che perciò è attuale in ogni tempo.
Se poi guardiamo, in particolare, al tempo nostro, quello in cui ora viviamo, l’esigenza di riflettere sui doveri dell’uomo (e sulla loro inscindibile connessione con i diritti) mi pare ancor più evidente. Basterebbe a dimostrarlo la discussione che nel mondo intero ha suscitato la necessità di rendere doverosi determinati comportamenti per attenuare i rischi e gli effetti della pandemia da Covid-19 ed il loro non sempre facile contemperamento con i diritti di libertà di ciascuno. E’ poi appena il caso di aggiungere che il drammatico affacciarsi del pauroso spettro della guerra nel cuore stesso dell’Europa pone inevitabilmente milioni di persone di fronte a drammatici dilemmi morali, che naturalmente evocano il tema dei doveri verso la propria comunità di appartenenza e verso l’umanità intera. Proprio ciò su cui anche Mazzini, al tempo suo, si interrogava.
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
Vi sono sparse un po’ in tutto lo scritto mazziniano espressioni che rivelano un’austera concezione della vita in cui la rivendicazione dei diritti ad opera dei singoli individui, alla ricerca del loro benessere materiale, è vista come manifestazione di egoismo e nuoce al progresso dell’umanità, mentre invece è l’ottemperanza ai doveri imposti da Dio che affratella gli uomini e costituisce la loro vera missione sulla terra.
Una contrapposizione tra diritti e doveri posta in termini così netti e radicali mi pare abbia perso molta della sua attualità: non giova e rischia di apparire alquanto forzata. Ogni diritto di cui taluno possa vantarsi titolare implica la pretesa di un altrui comportamento, attivo o omissivo, e pertanto si colloca sempre in un contesto di relazione con chi ha il dovere di rispettare l’altrui diritto. Non inganni la tradizionale distinzione tra diritti relativi e diritti assoluti, perché pure questi ultimi assumono rilievo solo quando vengano fatti valere nei confronti di qualcuno, anche se questo qualcuno potrebbe esser chiunque. Neppure il carattere universale dei diritti fondamentali dell’umanità, che non sono un astratto enunciato ma si sostanziano di volta in volta nella pretesa di ben specifici comportamenti e di ben precise forme di tutela, fa venir meno il loro legame con corrispondenti doveri: doveri che fanno capo anche ai governanti e comunque a tutti coloro che quei diritti sono tenuti a rispettare o cui spetta il compito di darvi effettiva attuazione. Diritti e doveri si pongono, quindi, necessariamente in un rapporto di complementarietà e costituiscono la trama giuridica di ogni consesso sociale. Al “diritto di avere diritti” (per riprendere qui la nota espressione di Rodotà), corrisponde specularmente il dovere di avere doveri, che rende ciascuno di noi responsabile versi gli altri dei propri comportamenti.
Ciò, peraltro, non esclude che in tale contesto, nel quale si rispecchia la complessità di qualsiasi forma di vita in comune, possa porsi anche la necessità di operare una qualche forma di bilanciamento, non soltanto tra diritti reciprocamente incompatibili e perciò confliggenti (come talvolta abbiamo visto accadere, ad esempio, nel contrasto tra diritto al lavoro e diritto alla salute ed alla tutela ambientale in presenza di impianti industriali inquinanti), ma anche tra diritti e doveri: si pensi all’obiezione di coscienza, invocando la quale taluno chieda di sottrarsi a determinati obblighi inerenti al suo stato professionale. Non credo esista per questo tipo di operazioni una bilancia universale, utilizzabile nel medesimo modo in ogni tempo ed in ogni luogo, perché il peso delle diverse esigenze in conflitto dipende anche dal contesto storico-sociale in cui ciascuna situazione si colloca. E se può certo predicarsi la primazia del valore della dignità umana, non è detto che sia sempre facile stabilire se o fino a qual punto in determinate circostanze quel valore sia davvero in gioco. Ma quel che vorrei qui soprattutto sottolineare è che anche la dignità non è qualcosa che appartenga unicamente all’individuo isolatamente inteso: la dignità dell’essere umano dipende anche dal suo sentirsi, per l’appunto, “umano”, cioè partecipe del destino comune dell’umanità e perciò solidale con essa (e qui mi pare davvero che le parole di Mazzini siano ancora attuali, ma ci tornerò). La dignità umana non si esaurisce nella rivendicazione di un diritto individuale, ma si manifesta anche nella capacità di assumere responsabilità verso gli altri. Indubbiamente ogni persona è titolare di una serie di diritti, che preservano la sua dignità e che possono essere concettualmente isolati, ma nella sua vita reale quella persona è inserita in una rete di rapporti nella quale vengono in evidenza le interrelazioni tra ciò che essa può o deve fare e ciò che deve attendersi che gli altri facciano per non spezzarli; rapporti se si prescindesse dai quali anche l’enunciazione della dignità dell’individuo rischierebbe di risolversi in mera retorica.
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Te la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
No, non credo che quella di Mazzini sia una domanda retorica. Più che volta a risolvere un ipotetico contrasto tra diritti e doveri mi pare, però, che essa riproponga per certi versi l’antico dramma di Antigone: il contrasto tra un diritto avvertito dal singolo (o da un gruppo di persone) come inestirpabilmente radicato nella natura umana ed il diritto positivo di uno Stato sovrano. Tema antichissimo, dunque, ma che ovviamente, nel pensiero di Mazzini, si colora con la tinta delle vicende storiche di cui egli stesso era stato ed ancora auspicava di poter essere protagonista: la realizzazione dell’Italia unita in forma repubblicana e la sua liberazione da regimi che egli considerava tutti variamente tirannici. Mazzini rivendica ripetutamente il diritto-dovere di ribellarsi alla legge ingiusta, in nome di una superiore legge dettata da Dio, che egli vede rispecchiata nella coscienza individuale e che dovrebbe incontrare progressivamente il consenso dell’umanità intera (o almeno della parte di essa sufficientemente educata ed istruita): è quello il tribunale al quale Mazzini immagina di dover ricorrere.
In questi termini il suo pensiero può effettivamente apparire superato, ma ciò non toglie l’attualità della domanda che egli si è posta, la quale suona quasi profetica se si pensa al lungo e difficile cammino che l’umanità ha dovuto percorrere per realizzare, a circa un secolo di distanza, quelle forme di giurisdizione sovranazionale volte alla tutela dei diritti fondamentali alle quali anche gli Stati (per la verità non tutti, e non senza riserve e resistenze) sono assoggettati. Ed è oggi anche a quelle giurisdizioni sovranazionali, in un dialogo costruttivo con gli organi di giustizia dei singoli Stati, che compete il compito di coniugare il piano della tutela dei diritti umani (individuali e collettivi) con quello dei doveri gravanti sui partecipanti al consesso sociale.
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Te questa prospettiva si ritrova nell’art.2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a Tuo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
Mi sembra che la componente deontica dei diritti fondamentali, ed in particolare della dignità, confermi quanto poc’anzi dicevo: che, cioè, la dignità umana non si esaurisce nell’astratta titolarità di un diritto o di un insieme di diritti dell’individuo ma implica un modo di stare in società e, quindi, anche la responsabile assunzione di doveri verso gli altri; ed il suo fare “sistema” comporta quella necessità di bilanciamento tra diritti e doveri cui sopra accennavo.
La particolare enfasi di Mazzini nel sottolineare l’importanza dei doveri, in qualche modo contrapponendoli ad una visione individualistica dei diritti, credo sia dovuta, per un verso, all’afflato religioso che permea il suo pensiero (forse non privo di influenze gianseniste derivanti dall’educazione materna) e, per altro verso, dall’impulso all’azione da cui quel pensiero è sempre costantemente animato. Per Mazzini i doveri discendono dal comandamento divino. Egli lo dice in modo assai perentorio: “L’origine dei vostri doveri sta in Dio”[2] e, commentando il precetto evangelico del dare a Cesare quel che è di Cesare, Mazzini non esita ad affermare che “Nulla è di Cesare se non in quanto conforme alla Legge Divina”[3]. Ma, poiché è Dio ad aver dato a ciascun popolo la propria patria, è dovere degli italiani battersi per l’unità nazionale. Tale concezione del dovere, nella visione mazziniana, è l’unica capace di saldare i legami sociali, e non soltanto prevale su qualsiasi pretesa di laicità dello Stato ma si contrappone esplicitamente tanto agli ideali liberali quanto a quelli del socialismo o del comunismo allora ancora agli albori.
Mi sembra chiaro che un’impostazione di tal genere difficilmente sarebbe accettabile al giorno d’oggi, in una società permeata di laicismo e che, dopo il tragico ventennio fascista, è assai restia a santificare la Patria. Ciò nondimeno, pur senza indulgere in anacronismi, nelle pagine mazziniane si possono tuttora cogliere spunti di notevole attualità. Mi pare di poterli scorgere, in particolare, nella sua critica al liberismo che, esaltando sopra ogni cosa la concorrenza, ponendo perciò gli uomini in perenne competizione tra loro e “dimenticando interamente la missione educatrice della società”, conduce “alla ineguaglianza ed all’oppressione dei più”; ed altrettanto attuale è l’osservazione secondo cui, ove riuscisse ad affermarsi, il comunismo condannerebbe “a pietrificarsi la società togliendole ogni moto e ogni facoltà di progresso”; donde la conclusione che di queste due ideologie la prima “ci ha dato tutti i mali dell’anarchia” e la seconda “ci darebbe l’immobilità e tutti i mali della tirannide”[4].
La Carta costituzionale, come è ben noto, ha realizzato una sintesi – direi una felice sintesi – tra culture politiche e filosofiche diverse, conciliando per quanto possibile gli ideali liberali con quelli del cristianesimo sociale e del marxismo. Anche il mazzinianesino, pur se espressione di un pensiero minoritario rispetto a quello che si esprimeva nei grandi partiti di massa, ha avuto il suo ruolo, come appare evidente a chiunque rilegga la straordinaria (ed ancora per molti aspetti modernissima) Costituzione della Repubblica Romana del 1849, di cui proprio Mazzini fu il principale ispiratore, la quale anticipa in diversi punti i contenuti della nostra Carta costituzionale. Non mi sembra perciò arbitrario ritrovare l’afflato mazziniano, tra l’altro, proprio nella formulazione dell’art. 2 della Costituzione, che affianca i diritti inviolabili della persona umana, come singolo e nelle formazioni sociali, ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Nella solidarietà si rispecchiano i molteplici legami esistenti tra i partecipanti ad un medesimo consesso sociale che, nel pensiero mazziniano, è prima di tutti quello nazionale, ma non inteso in contrapposizione con nazioni o etnie diverse, bensì destinato ad un’armonica convivenza con gli altri popoli nel comune sforzo di realizzare il Progresso dell’intera Umanità (parole tutte che Mazzini scrive sempre con iniziali maiuscole), da lui concepito quasi in chiave messianica. Oggi ci esprimeremmo con toni diversi, forse meno enfatici e profetici di quelli adoperati da Mazzini nel lontano 1860; ma non credo sia inattuale sostenere che la solidarietà evocata dal testo costituzionale implichi, al tempo stesso, tanto il riconoscimento delle radici identitarie su cui poggia la costruzione dello Stato nazionale quanto il sentirsi partecipi di un destino che accumuna tutto il genere umano. E chissà che anche Mazzini non avesse in mente quel bacio rivolto al mondo intero nell’Ode alla Gioia di Schiller (Diesen Kuß der ganzen Welt!), musicata da Beethoven, che tuttora non cessa di commuoverci e che, non casualmente, risuonò in piazza a Berlino all’indomani della caduta di quel muro che era divenuto simbolo di divisione tra gli uomini.
Ma la solidarietà resterebbe parola vuota, un’empatia fine a se stessa, se non la si intendesse anche come dovere di adoperarsi per favorire l’armonia tra i consociati e sforzarsi di migliorare lo stato della società in cui si vive. E’ quel medesimo dovere che, nei rapporti giuridici tra privati (ma anche tra privati e pubblica amministrazione), si traduce nell’obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza, e che non si esaurisce nell’astenersi dal danneggiare illecitamente gli altri ma impone di farsi carico anche dell’altrui interesse e di proteggerlo almeno fin quando non pregiudichi ingiustificatamente il proprio. Il che, a ben guardare, non mi pare sia poi tanto distante dall’idea di dovere che Mazzini pone a fondamento del vivere in società, quando afferma che “Non basta il non nuocere: bisogna giovare ai vostri fratelli”[5].
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo Te oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
Ho già accennato al fondamento religioso (ma non certo confessionale) che ispira tutto il pensiero di Mazzini ed al carattere sacrale da lui attribuito ai doveri dell’uomo. È chiaro che, in società fortemente laiche quali sono attualmente le nostre, almeno nel cosiddetto mondo occidentale, una simile impostazione ha ben poca presa. Vi sono pagine mazziniane che oggi davvero ci sembrano assai lontane, quali ad esempio quelle nelle quali egli evoca il “Dio lo vuole” delle Crociate per farne il grido nazionale del popolo italiano in cerca di unità[6]. Vorrei però sottolineare che, pur non senza forse qualche contraddizione, al pensiero di Mazzini era completamente estranea qualsiasi forma di fondamentalismo. Egli è chiarissimo nell’affermare che “Nessuno ha diritto di persecuzione, d’intolleranza, di legislazione esclusiva sulle vostre opinioni religiose: nessuno, fuorché la grande pacifica voce dell’Umanità, ha il diritto di frapporsi tra Dio e la vostra coscienza”[7]. Direi che la sua è un’impostazione schiettamente giusnaturalistica, ed è proprio a quest’impostazione che si collega la primazia dell’imperativo morale in nome del quale Mazzini considera doveroso ribellarsi alla legge degli uomini, se essa appare ingiusta dinanzi al tribunale della propria coscienza e nel confronto con quella legge del Progresso dell’Umanità di cui gli sembra di scorgere l’impronta nel corso della storia: il “disegno provvidenziale che governa il mondo e che è via via rivelato dalle ispirazioni del Genio virtuoso e dalle tendenze dell’Umanità nelle epoche diverse della sua vita”[8]. Parole che forse al nostro orecchio di uomini del ventunesimo secolo appaiono arcaiche, un po’ sopra le righe, se non proprio del tutto stonate, perché ci sentiamo probabilmente più vicini al pessimismo leopardiano che non alla fede nella manzoniana provvidenza o nelle magnifiche sorti e progressive. E, tuttavia, credo che su quelle parole, liberate dalla polvere del tempo e spogliate della loro veste retorica, si debba continuare a riflettere, soprattutto dopo che le drammatiche esperienze dei totalitarismi novecenteschi hanno mostrato come sia pericoloso rompere ogni legame tra il diritto e la morale e quale grande valore possa risiedere nella disobbedienza civile in determinate situazioni storiche, che purtroppo non è escluso possano ripresentarsi nemmeno nell’epoca in cui viviamo, nella quale non mancano nuovi esempi di totalitarismo.
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Te, come può concretizzarsi questa riflessione?
Torno a dire che vi è una necessaria interdipendenza tra diritti e doveri, che concorrono entrambi a formare la trama del tessuto sociale. Ciò non toglie che, a seconda delle circostanze e delle esigenze suggerite dal momento storico, si possa esser portati a porre l’accento più sugli uni o più sugli altri. Nel caso di Mazzini è evidente che la particolare accentuazione dei doveri dell’uomo nasceva anche dalla volontà di esortare alla lotta per realizzare l’unificazione nazionale in forma repubblicana, con tutto l’impegno ed i sacrifici che questo necessariamente comportava.
Mazzini, come ho già ricordato, non nega però affatto l’importanza dei diritti individuali, ai quali anzi riconosce un fondamento giusnaturalistico, soprattutto valorizzandoli come diritti di libertà, e proprio alla libertà dedica pagine molto eloquenti nelle varie declinazioni che essa può assumere – libertà di pensiero, di stampa, di associazione, ecc. – in termini che palesemente richiamano la già citata Costituzione della Repubblica romana del 1849 e che non mancheranno di riecheggiare poi nella vigente Costituzione italiana.
L’aspetto di maggiore interesse del pensiero mazziniano, a questo riguardo, mi sembra però consista nella ripetuta affermazione secondo cui senza libertà non esiste morale, perché non v’è assunzione di responsabilità, ma le libertà di cui ciascuno dispone non sono fine a se stesse, non hanno lo scopo di soddisfare gli interessi materiali dei singoli, ma vanno usate – doverosamente usate – per la realizzazione del bene comune. La libertà, insomma, “non deve mai degenerare in un fatale egoismo”[9]. Sta qui, mi sembra, il nesso indissolubile che Mazzini individua tra diritti (individuali) e doveri (verso la collettività).
Su come si configuri questo nesso si può, ovviamente, discutere assai a lungo, giacché ne sono evidenti le implicazioni ideologiche e politiche. Quel che mi pare però fuor di dubbio è che siamo in presenza di problemi attualissimi, perché, a fronte dell’indubbia esigenza di assicurare una più forte tutela ai diritti fondamentali della persona umana, che si è andata manifestando sin dall’indomani della seconda guerra mondiale, sono a mano a mano emerse preoccupazioni per un uso talvolta strumentale ed eccessivamente aggressivo di quei medesimi diritti, intesi quasi a modo di scudi o di lance in una guerra di tutti contro tutti nella quale solo le istanze del singolo contano davvero ed ognuno ha qualcosa da rivendicare ma nessuno si sente obbligato ad assumere responsabilità verso gli altri. Di certo quel che Mazzini auspicava non era un mondo popolato in prevalenza da consumatori sospettosi e risentiti, bensì una società di cittadini consapevoli del proprio ruolo e partecipi della cosa pubblica.
La contrapposizione tra l‘io ed il noi è tuttora al centro anche del dibattito sociologico: non la si può certo affrontare qui in poche righe, ma credo di poter dire che la riflessione di Mazzini conservi a questo riguardo un notevole margine di attualità proprio nella misura in cui richiama al dovere sociale di non ipostatizzare i diritti dell’individuo ma di calarli nel contesto del vivere in comune. Ed un’eco di questa riflessione mazziniana mi pare d’altronde si possa rintracciare anche nel dovere imposto ad ogni cittadino dal secondo comma dell’art. 4 della Costituzione: “il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società.”
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritieni dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
A queste domande mi pare di avere già in precedenza almeno in parte risposto. Aggiungerei solo che l’esaltazione mazziniana del concetto di patria è ovviamente da collocare in un contesto storico – correva l’anno 1860 – nel quale la lotta per realizzare l’unità nazionale era al suo culmine ed il patriottismo ne era uno dei principali moventi ideali. E’ fatale che oggi le pagine dedicate da Mazzini ai doveri verso la Patria siano lette con occhi diversi, soprattutto dopo che il patriottismo ha costituito uno dei principali strumenti retorici del regime fascista ed in un momento in cui la bandiera dei diversi nazionalismi viene da molte parti agitata in contrapposizione ai valori fondanti dell’Unione europea. Ma, come ho già avuto occasione di sottolineare prima, il concetto mazziniano di patria non implica alcuna chiusura verso l’esterno ma si coniuga, ed è in certo senso subordinato, ad un valore più alto, facente capo all’intera Umanità, che impone a ciascuno di intervenire “ovunque la dignità della natura umana è violata dalla menzogna o dalla tirannide”[10].
E qui di nuovo giova richiamare la Costituzione della Repubblica romana del 1849, che nel quarto dei suoi Principi fondamentali propugnava sì l’italianità, ma dopo avere solennemente affermato che la Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli. Né va dimenticato che già in precedenza Mazzini, dopo la Giovine Italia, aveva dato vita anche alla Giovine Europa, uno dei primi tentativi di fondare un’istituzione sovranazionale tesa all’affermazione di ideali democratici. Troppo poco, ovviamente, per farne un predecessore delle odierne istituzioni europee, ma non è male tenerlo presente per ricordarsi che all’origine di queste non v’è solo un’anima mercantile.
8. L’opera mazziniana si conclude con questa frase: L’emancipazione della donna dovrebb’essere continuamente accoppiata per voi coll’emancipazione dell’operaio e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale. Quali reazioni Ti suscita questa affermazione, da magistrato e da giurista?
Anche qui mi pare che sia necessario scrostare la patina antica che ricopre alcune espressioni mazziniane per farne emergere i contenuti tuttora moderni. La definizione della donna come “Angelo della famiglia” e l’invocarla con i termini di “Madre, sposa, sorella” attribuendole la funzione di “carezza della vita” e “dolcezza consolatrice”[11] mal si conciliano con il pensiero femminista sviluppatosi in epoca successiva. Una volta però riconosciuto che simili espressioni, al pari di quelle dedicate più in generale alla santità della famiglia, sono manifestazioni di una cultura ancora pressocché universalmente diffusa quando Mazzini scriveva quelle pagine, val piuttosto la pena di soffermarsi su altri passaggi che, a quei tempi, dovevano apparire assai meno scontati. Così è, soprattutto, per l’inequivocabile negazione di ogni superiorità dell’uomo nei confronti della donna, che Mazzini non esita a definire un “lungo pregiudizio” alimentato da “una educazione diseguale e una perenne oppressione di leggi”[12]; ed egli è chiarissimo nel predicare la necessità che l’eguaglianza tra l’uomo e la donna, pur nella diversità delle rispettive finzioni, deve sussistere “nella vita civile e politica”, quasi fossero “le due ali dell’anima umana verso l’ideale che dobbiamo raggiungere”[13]. Sarebbe di certo esagerato fare di Mazzini un campione del femminismo, ma è innegabile il suo impegno per l’emancipazione della donna, che non a caso è invocata quasi a mo’ di suggello (accanto a quella dell’operaio) proprio nella conclusione del suo scritto.
9. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a Tuo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
La solidarietà tra le persone umane non è solo, per così dire, orizzontale: non è un legame che si istituisce solamente tra contemporanei. V’è anche una solidarietà verticale, ossia intragenerazionale, che ci rende guardiani e tutori del mondo in cui viviamo, del quale non possiamo disporre a nostro piacimento perché non è opera nostra ma lo abbiamo ereditato dai nostri padri e siamo tenuti a renderlo fruibile per i nostri figli e nipoti.
Già per questo il secondo comma dell’art. 9 della Costituzione impegnava sin dall’origine la Repubblica a tutelare il paesaggio e il patrimonio storico ed artistico della Nazione, ma ciò appare adesso ancor più evidente con l’aggiunta del nuovo terzo comma, che, nel prescrivere la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, fa espresso riferimento proprio all’interesse delle future generazioni. La medesima logica ispira le modifiche recentemente apportate all’art. 41 della Costituzione, che consente di porre limiti all’iniziativa privata non più solo quando questa possa recare danno alla libertà, alla sicurezza ed alla dignità umana, cioè a valori radicati soprattutto nel presente, ma anche se dovesse risultare dannosa per la salute e per l’ambiente. Ed il riferimento all’ambiente, ora ripetuto anche nel comma successivo a proposito delle finalità perseguite dai controlli e dai programmi economici disposti dal legislatore, nuovamente suggerisce una visione di più lungo respiro nella quale anche la tutela delle generazioni avvenire è compresa.
Senza bisogno di sacralizzare la natura e di indulgere in visioni vagamente panteistiche, a me sembra che stia proprio lì – nei doveri che la condizione di esseri mortali ci impone verso i nostri discendenti – il solido fondamento del principio di salvaguardia dell’ambiente e dell’ecosistema che si è inteso introdurre negli artt. 9 e 41 della Costituzione.
La sensibilità ecologica è particolarmente avvertita ai giorni nostri. I movimenti giovanili se ne sono fatti interpreti in diverse parti del mondo e, sia pure con difficoltà e non senza resistenze e contraddizioni, essa si sta diffondendo anche tra i governanti, come in Italia è confermato dal larghissimo consenso parlamentare che le suaccennate modifiche costituzionali hanno riscosso.
Anche a questo proposito, però, mi sembra che il pensiero di Mazzini, pur senza volerlo forzatamente attualizzare, offra delle suggestioni e degli spunti che non vanno trascurati. Mi riferisco, in particolare, alle molte pagine mazziniane in cui è evocata l’idea di un’Umanità in cammino, del lascito delle generazioni precedenti di cui noi fruiamo e dei conseguenti doveri e responsabilità che ci competono verso quella stessa Umanità, quale sarà formata da coloro che ci seguiranno. Parlare di un Mazzini ambientalista sarebbe manifestamente esagerato, ma non è invece fuor di luogo evidenziare che i doveri dell’uomo ai quali egli è così attento sono anche verso le future generazioni.
[1] G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo, Rizzoli, Milano, 2021
[2] Ibidem, pag. 38.
[3] Ibidem, pag. 44.
[4] Ibidem, pagg.50-51.
[5] Ibidem, pag. 51.
[6] Ibidem, pag. 45.
[7] Ibidem, pag. 94.
[8] Ibidem, pag. 99.
[9] Ibidem, pag. 95.
[10] Ibidem, pag. 66.
[11] Ibidem, pag. 75.
[12] Ibidem, pag. 77.
[13] Ibidem, pag. 78.
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