ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Federalismo pragmatico federalismo ideale: riflessioni a partire dalla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950
di Pier Virgilio Dastoli
Il presidente del Consiglio Mario Draghi, nel proporre al Parlamento europeo il 3 maggio la sua visione del futuro dell’Europa (This is Europe), ha messo l’accento sul federalismo pragmatico e sul federalismo ideale (ma non ideologico) che appartengono il primo all’obiettivo dell’integrazione graduale concepita da Jean Monnet secondo il metodo cosiddetto funzionalista e il secondo all’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa concepiti dai confinati antifascisti a Ventotene nel Manifesto scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi con il contributo intellettuale di Eugenio Colorni.
I due obiettivi furono al centro delle riflessioni nella resistenza europeista – che si svolsero essenzialmente in Italia, in Svizzera e in Francia ancor prima della fine della Seconda guerra mondiale – sui metodi d’azione che avrebbero dovuto essere adottati per garantire la pace e la democrazia sul continente sapendo che in ogni caso la costruzione di un sistema federale sarebbe dovuta passare dal superamento delle sovranità assolute e dalla fine della divisione dell’Europa in Stati-nazione.
Secondo il federalismo ideale la via da percorrere doveva passare da una mobilitazione popolare – che secondo Altiero Spinelli doveva avere caratteristiche rivoluzionarie e sfociare in un processo democratico costituente – mentre secondo il federalismo pragmatico bisognava avviare un’opera di convinzione dei governi attraverso delle realizzazioni concrete capaci di creare fra gli Stati una solidarietà di fatto.
Il passaggio dal federalismo ideale agli Stati Uniti d’Europa sarebbe stato possibile, dopo la sconfitta del nazifascismo, se le forze politiche democratiche - tornate al potere negli Stati conquistati militarmente dalle armate del Terzo Reich o dove il potere era stato conquistato dal mostro del dispotismo – avessero deciso di non percorrere la via tradizionale della restaurazione delle identità nazionali e della indipendenza dei loro cittadini ma se si fossero unite sul continente ad Est e ad Ovest per creare una nuova forma di potere democratico transnazionale coerente con l’universalismo del popolarismo cristiano, dell’internazionalismo socialista e del cosmopolitismo liberale.
Questo passaggio sarebbe stato possibile se i “corpi intermedi” ed in particolare i rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori avessero partecipato attivamente al moto nato dalla resistenza al nazifascismo che aveva individuato nello scontro fra sovranità assolute e nella divisione dell’Europa in Stati-nazione le cause delle due guerre mondiali insieme al disfacimento del ruolo dell’Europa nel mondo.
Così non è stato, l’Europa è stata divisa dopo Jalta fra l’imperialismo sovietico e l’egemonia statunitense nel quadro della convivenza della rivalità sistemica delle due nuove grandi potenze e la sconfitta del federalismo ideale ha lasciato il campo al federalismo pragmatico che, secondo i suoi sostenitori, si sarebbe realizzato fondandosi sul consenso dei governi e su atti concreti ma graduali.
Nasce da questa concezione pragmatica la Dichiarazione letta il 9 maggio 1950 dal ministro degli esteri francese Robert Schuman ma scritta quasi integralmente da Jean Monnet e rivolta prioritariamente alla Repubblica Federale Tedesca di Konrad Adenauer affinché “il loro lavoro pacifico” profittasse “a tutti gli Europei dell’Est e dell’Ovest senza distinzioni e a tutti i territori, in particolare dell’Africa, che attendono dal Vecchio Continente il loro sviluppo e la loro prosperità” come ebbe a dire Robert Schuman nel presentare la Dichiarazione.
Secondo Jean Monnet quest’atto ardito avrebbe dovuto rappresentare “la prima tappa della Federazione europea…indispensabile alla preservazione della pace”.
In effetti la costruzione graduale dell’integrazione comunitaria – nata due anni dopo la Dichiarazione con il Trattato della CECA e sviluppatasi negli anni successivi con il Mercato Comune del 1957 del Trattato di Roma e con l’Unione europea del 1993 del Trattato di Maastricht – ha garantito la pace per tutti i paesi che vi hanno aderito anche se non è stata capace di evitare le guerre nei Balcani all’inizio degli anni ’90 ed ora l’aggressione della Russia all’Ucraina oltre che le guerre non lontane dall’Europa come in Siria e nello Yemen.
Grazie all’estensione dei mercati per oltre vent’anni il livello di vita degli Europei nell’area comunitaria si è elevato con una prosperità diffusa e sono state progressivamente realizzate delle politiche nei settori dell’economia reale necessarie per garantire il funzionamento di uno spazio comune senza frontiere.
All’interno di un sistema sui generis in cui il diritto comunitario non è né diritto internazionale né diritto federale, sono stati innestati nel tempo degli elementi di carattere federale come il ruolo preminente della Corte di Giustizia, l’elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo dal 1979 e l’estensione graduale dei suoi poteri legislativi e di bilancio, la moneta unica e la BCE, la Carta dei diritti fondamentali che prevale sui trattati e la creazione – seppure per ora temporanea – di debito pubblico europeo.
Ciononostante il sistema europeo è bel lungi dall’aver realizzato la Federazione europea di cui parla la Dichiarazione Schuman del 1950 ed anzi il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009, ha rafforzato la dimensione confederale del sistema europeo attraverso l’egemonia sistemica del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo e il terremoto provocato dalla guerra in Ucraina potrebbe rappresentare – se l’Unione europea non troverà la strada per una sua autonomia strategica – un Requiem per l’Europa come ha scritto Paolo Rumiz su La Repubblica.
Fallito il tentativo di realizzare la Federazione europea attraverso l’illusorio piano inclinato del federalismo pragmatico, le sfide del ventunesimo secolo mettono di nuovo al centro dell’azione europea il federalismo ideale (ma non ideologico) che richiede inevitabilmente un percorso costituzionale e la responsabilità (accountability) del Parlamento europeo.
A monte ci dovrà essere questa assunzione di responsabilità della Assemblea europea cogliendo l’innovazione della consapevolezza (empowerment) delle cittadine e dei cittadini europei che è emersa embrionalmente nella dimensione della democrazia partecipativa durante i lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa.
A valle e sulla base del lavoro costituzionale della Assemblea europea, dovranno essere chiariti i confini politici della Federazione a cui potranno aderire i paesi che ne accetteranno gli elementi essenziali del superamento della sovranità assoluta degli Stati-nazione, il primato del diritto dell’Unione e il ruolo preminente della Corte di Giustizia, la moneta unica e la difesa comune, un governo federale con poteri limitati ma reali responsabile davanti al Parlamento europeo.
L’accettazione di questi elementi essenziali potrebbe avvenire attraverso un referendum pan-europeo e gli Stati che non li accetteranno potrebbero entrare in una più ampia Confederazione e in un sistema di accordi di associazione con la Federazione in attesa di una loro futura adesione al sistema federale.
In tema di diritto verità giustizia nell’opera di Leonardo Sciascia*
di Antonio Ruggeri
Un fatto è un sacco vuoto.
Bisogna metterci l’uomo,
la persona, il personaggio perché stia su
(Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino 1971)
“Tutto ha inizio sempre da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi, sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono la vita dei popoli, eccetera”.
A scrivere non è Sciascia – come pure si potrebbe pensare – ma Eduardo, l’immenso, inarrivabile Eduardo che confessava come nasceva in lui il germe delle sue “commedie” – come egli stesso le definiva – che però, al tempo stesso, erano anche tragedie con al centro della scena – è ancora Eduardo a parlare – “una folla di diseredati, di ignoranti, di vittime e di aguzzini, di ladri, prostitute, imbroglioni, di creature eroiche e esseri brutali, di angeli creduti diavoli e diavoli creduti angeli”[1]. Ciascuno di essi – per dirla con G. Büchner – è “un abisso, a uno gira la testa se ci guarda dentro”; un abisso la cui profondità – ha opportunamente precisato C.P. Baudelaire – “nessuno ha mai misurato”.
Le parole scritte da Eduardo su di sé mi sono rimaste scolpite nella mente sin da quando le ho lette, ormai quasi cinquant’anni addietro, per la prima volta; e non le ho più dimenticate. Mi sono subito tornate alla memoria non appena avuto in mano il libro che ora si presenta: “un libro prezioso su libri preziosi”, secondo l’efficace giudizio datone da un accreditato studioso[2]. Come per le opere di Eduardo, anche per quelle di Sciascia, non appena iniziata la lettura, non sono riuscito a distaccarmene se non dopo aver raggiunto la fine: inchiodato agli scritti ed ammaliato dalla bellezza della prosa, scarna e colorita allo stesso tempo; e, per queste opere come per quelle, ad ondate mi torna la voglia di riprenderle in mano e rimirarle, ogni volta da una prospettiva diversa, cogliendo sempre spunti dapprima non notati, dai quali hanno quindi origine ed alimento riflessioni nuove, al centro delle quali v’è una umanità dolente, composta perlopiù da persone umili, emarginate, sconfitte, stritolate da meccanismi infernali, efficienti ed inesorabili.
La giustizia è punto di riferimento costante delle pensose e disincantate pagine dello scrittore di Racalmuto come pure del teatro di Eduardo[3]. Folgorante per quest’ultimo è un episodio, dallo stesso raccontato nella introduzione-confessione della raccolta sopra cit., che lo vide giovanissimo varcare per la prima volta la soglia di un tribunale (verosimilmente di Napoli) ed assistere alla celebrazione di un processo a carico di alcuni ragazzi accusati di furto, uno dei quali in un impeto incontenibile di rabbia si ferì alla fronte con le catene ai polsi per essere obbligato a restare pur essendo già stato condannato. Un’esperienza “tremenda” per il giovane Eduardo, come lo stesso la definì, che lo segnò profondamente.
Non avrei saputo trovare titolo migliore di quello dato da Cavallaro e Conti alla loro raccolta[4], col riferimento ai tre termini prescelti e messi in una non casuale – a me pare – consecuzione sistematica: diritto verità giustizia. Termini non separati neppure da una virgola, proprio perché inseparabili, in quanto ciascuno concettualmente ed operativamente inautonomo rispetto agli altri[5].
Il diritto sta in testa perché è in esso che gli altri hanno la loro fonte: la ragion d’essere del primo è, infatti, nella ricerca della verità e, di riflesso, nel raggiungimento e nella somministrazione della giustizia. Il diritto è il mezzo, la verità e la giustizia sono il fine.
Attorno a questi termini ruotano tutti gli scritti qui riuniti, l’ultimo dei quali è di P. Squillacioti, curatore delle opere di Sciascia per Adelphi, seguiti da un’appendice dello stesso Sciascia su La dolorosa necessità del giudicare, nella quale è un’affermazione a tutta prima stupefacente, vale a dire che “la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare”, dal momento che quest’ultimo è “una dolorosa necessità … un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio” (153)[6].
Una buona parte degli scritti si deve alla penna di siciliani, magistrati (come i curatori) e docenti universitari che – come rileva D. Galliani[7] – “hanno più somiglianze che differenze, … l’attenzione alle giuste parole e l’arrovellarsi con estremo puntiglio”[8]. Considero questa scelta non casuale e felice allo stesso tempo. È come per Camilleri: chi più o meglio di un siciliano può coglierne certe sfumature e coloriture del linguaggio? O, appunto, come per Eduardo: certi ammiccamenti, sguardi parlanti anche se non accompagnati da parole, anzi ancora più eloquenti di queste ultime, ebbene chi, più e meglio di un napoletano, può intenderne il profondo, indescrivibile significato?
I personaggi di Sciascia, anche quando sono calati in un contesto affollato di persone (ed anzi, ancora più in siffatte circostanze), sono sempre, naturalmente e tragicamente, soli, maledettamente soli: con se stessi, persino all’interno della loro famiglia[9]. E così è anche – non casualmente – per quelli di Eduardo[10].
La famiglia, per il siciliano come pure per il napoletano (e il meridionale in genere), prende il posto dello Stato, che è lontano, assente e non di rado avversario, armato del suo apparato di leggi e di organi vessatorio nei riguardi del singolo. Tra Stato e mafia non c’è talora distinzione alcuna, perché la seconda non è esterna e nemica del primo bensì dentro di esso[11]. Con lucida, spietata consapevolezza, Sciascia mette a nudo e disvela una verità che è già nei Vangeli[12], rilevando che “tutto quello che vogliamo combattere fuori di noi è dentro di noi; e dentro di noi bisogna prima cercarlo e poi combatterlo”[13]. Proprio per ciò, è impresa improba sradicare la mafia una volta per tutte, dal momento che – è da temere –, al pari del peccato, essa accompagnerà e segnerà a fondo la storia di ciascun essere umano e dell’intera umanità fino alla fine del mondo. Perché la mafia, oltre (e prima ancora) che essere un’organizzazione o – romaniamente – un ordinamento giuridico, è un abito mentale e, allo stesso tempo, un fenomeno ormai profondamente radicato e diffuso nel corpo sociale, dunque endemico, come il covid-19 che da anni ormai ci affligge ed inquieta. La guerra combattuta dallo Stato contro di essa appare perciò essere senza fine, pur rinnovandosi nei mezzi e nelle manifestazioni, malgrado il nobile sacrificio di quanti si sono esposti in prima linea per essa, anche a costo della loro stessa vita: sempre a testa alta e schiena diritta, come i giudici R. Livatino, la cui memoria mi è particolarmente cara, G. Falcone, P. Borsellino e tanti, tanti altri prima e dopo di loro.
Forse, questo rassegnato giudizio è frutto della mia “sicilianità”[14], del disincanto con cui chi ha la mia età vede le cose del mondo, con un mix di realismo e pessimismo, con un sentimento altalenante che conosce, sì, anche punte di ardimentoso ottimismo alimentate dal cuore e però inframezzate a foschi e soffocanti pensieri di una ragione indomita e crudele.
Lo sconsolato giudizio che Sciascia mette in bocca a Diego La Matina, facendogli dire che “dunque Dio è ingiusto”[15], è rivelatore dell’intera Weltanschauung dello scrittore siciliano: se “Dio è ingiusto”, il mondo è sbagliato, irrecuperabile e, perciò, lo è la società nella quale ogni individuo recita, come a teatro, la propria parte, spesso improvvisando le battute, e tuttavia pur sempre consapevole che le cose cambiano col tempo solo in apparenza, allo scopo – come diceva il Principe Salina ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – di far restare tutto come prima.
Il siciliano è un solitario per vocazione, pur avvertendo – ed è una contraddizione apparente – un disperato bisogno di stare sempre con altri; il mondo non cambia perché la sua è una battaglia sovente condotta con metodi donchisciotteschi, indirizzata verso bersagli sbagliati, ombre e non corpi reali. Afflitto da pregiudizi ancestrali, piace a me dire: autentici crampi mentali, di cui non sa o non vuole liberarsi, è fatalmente condannato ad essere un perdente, anche (e, forse, soprattutto) quando cerca giustizia o si rivolge, per averla, a coloro che sono istituzionalmente deputati a somministrarla. Aspetta che le cose cambino dall’alto, come nelle antiche tragedie, per effetto della discesa dal cielo di un deus ex machina, il solo in grado di mettere ogni cosa al giusto posto dopo che gli uomini le hanno confusamente mescolate e non sanno più rimetterle in ordine. Non ha ancora maturato dentro di sé la consapevolezza che il mutamento non può venire dall’alto se prima non muove dal basso, dal corpo sociale e, prima ancora – come si diceva –, dal di dentro di ciascuno dei suoi componenti e da tutti assieme.
Come giustamente segnala N. Lipari[16], v’è in Sciascia “un continuo stimolo alla responsabilità personale, all’impossibilità di delegare ad altri, pur nei condizionamenti imposti dalla storia, la ricerca della verità e quindi l’attuazione della giustizia”.
In questa lotta impari dell’individuo contro il “sistema”, lo sconfitto, pur sapendo di essere tale, tiene ugualmente alla salvaguardia della propria dignità, dimostrando così di essere uomo di “tenace concetto”[17], che può essere libero unicamente se riesce ad esserlo da se stesso[18]; e in ciò vedo in Sciascia e nei suoi personaggi un’idea di dignità e di diritto fondamentale in genere connotata e nella sua essenza pervasa da una componente deontica indisponibile, quale a mia opinione risulta in modo fermo e chiaro rimarcata nella Carta costituzionale[19].
Lo sconfitto, infatti, è per vocazione giusto, col fatto stesso di ricercare la giustizia e, dunque, di mettere in moto la macchina preposta per la sua amministrazione. Nell’orizzonte culturale dello scrittore siciliano, non conta però tanto l’esattezza del giudizio (e, dunque, il raggiungimento della verità) quanto – come fa notare G. Mammone[20] – “il fatto che il giudizio, corretto o sbagliato, abbia avuto luogo … In altre parole, non è il giudice che tramite il processo tutela l’individuo per evitargli l’ingiusta condanna, ma è l’individuo che – innocente o colpevole, non importa – sottoponendosi al processo legittima il giudice ed i suoi apparati, comunque egli decida, anche (e soprattutto) se incorra in errore sulla colpevolezza”. L’individuo, poi, reagisce, quando e come può, alle ingiustizie che ha davanti agli occhi e che spesso patisce, magari abbandonandosi a scatti di collera o ad apprezzamenti frutto di non distaccato giudizio, come quello del cap. Bellodi a difesa dello stato d’eccezione.
Dunque, al fondo, la fiducia nello Stato non viene del tutto meno, tant’è che sovente l’individuo ricorre ai suoi organi per avere giustizia, andando tuttavia incontro a cocenti delusioni, che lo obbligano a fare i conti con una realtà discosta dal verum jus e, anzi, ad esso frontalmente, irriducibilmente ostile.
La giustizia, nel contesto culturale in cui l’amara riflessione di Sciascia si situa, richiudendosi ed imprigionandosi però in se stessa, appare essere più forte della verità, “che si può solo immaginare, ma non raggiungere, in quanto perennemente appannata da verità costruite e manipolate”[21].
Cambiano gli scenari, nel passaggio da uno scritto all’altro, ma ricorrente è l’“atmosfera di ovatta silenziante”[22], dominata sovente da figure femminili che nel regno domestico giocavano (e giocano…) un ruolo di prima grandezza, seppur in apparenza sottomesse al dominus, in un ambiente sociale ancora fortemente segnato da una strutturale diseguaglianza dei sessi. I dialoghi fra gli attori sulla scena assai di frequente non sono – come dire? – realmente comunicativi, appesantiti e deviati dal loro solco da “reciproche chiusure mentali” e “ostilità incrociate”[23].
Malgrado la cappa soffocante che, al pari dell’aria afosa di piena estate, opprime i siciliani, obbligati a vivere in un contesto segnato da atavici preconcetti ma del quale non saprebbero fare a meno, come i pesci fuori dell’acqua, e malgrado le ripetute, inesorabili sconfitte, i personaggi di Sciascia caparbiamente perseguono la verità e la giustizia assieme, non l’una disgiunta dall’altra bensì l’una all’altra inscindibilmente legate e – come si diceva poc’anzi – facendole entrambe poggiare sul diritto quale strumento privilegiato al servizio dell’uomo, dei suoi più avvertiti bisogni, della sua dignità appunto.
Per questo, il messaggio dell’uomo di Racalmuto resta, al fondo, venato da ottimismo, al di là e contro ogni apparenza, pur nelle interne lacerazioni e vere e proprie contraddizioni che affliggono l’autore, i suoi personaggi, il contesto sociale in cui vivono. In tutta la sua opera – segnalano opportunamente i curatori[24] – “l’anelito per la giustizia” si pone quale “l’autentico pendant delle innumerevoli ‘ingiustizie’” sparse qua e là nelle pagine che ci ha lasciato.
Il lascito morale di maggior pregio che è da esse pervenuto a noi e che – si può esserne certi – seguiterà a trasmettersi anche dopo di noi sta non già nell’idea del (non) possibile raggiungimento della meta – verità e giustizia assieme, veicolate dal diritto – bensì nel fatto in sé, eticamente significante, del cammino verso di essa, nella tensione morale che lo anima e sorregge, non facendo mai venir meno la speranza di poter giungere fino in fondo.
Il potere, da chiunque sia esercitato, è, sì, sopraffazione dei deboli da parte dei forti, che lo detengono stabilmente e se ne avvalgono sovente per fini inconfessabili, devianti dal diritto, dalle sue leggi, dai principi o valori cui esse s’ispirano. Ciò nondimeno, è intimamente avvertito e caparbiamente coltivato dai personaggi sciasciani il bisogno di non deviare dalla retta via della ricerca ansiosa, appassionata e allo stesso tempo sofferta, della verità e della giustizia, costi quel che costi; di farlo dunque – come efficacemente rileva G. Luccioli[25] – “con una tensione morale e secondo un percorso che esige il pagamento di un prezzo alto in termini di isolamento e di solitudine, e tuttavia indispensabile per disvelare le false apparenze che spesso nascondono la realtà dei fatti”.
Sciascia come Eduardo – per tornare, per l’ultima volta, ad un accostamento già fatto – volgono costantemente il loro sguardo amorevole e compassionevole, autenticamente solidale, verso l’uomo, le sue debolezze come pure le sue virtù, incoraggiandolo sempre a non piegarsi ed a non gettare la spugna, malgrado si senta stordito ed incerto sulle gambe come un pugile che sta per essere sconfitto sul ring. E rivolgono un fermo monito a chi invece, per sua fortuna o per merito, non è stato sconfitto nella vita (o, comunque, è stato segnato meno di altri) a mostrarsi tollerante verso le debolezze degli umili e degli oppressi e, allo stesso tempo, ad impegnarsi senza risparmio di forze – ciascuno secondo le proprie capacità ed inclinazioni, il giudice come pure lo studioso (e pur se rosi dal dubbio[26]) – per dare voce ai diritti degli ultimi, ormai afoni ed incapaci di far sentire la propria.
Gli autori di questa encomiabile raccolta lo hanno fatto: per quel che vale il mio giudizio, egregiamente.
* Presentazione di Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L. Cavallaro e R.G. Conti, Cacucci, Bari 2021. Lo scritto è stato illustrato in occasione di un incontro dedicato all’opera ora richiamata, svoltosi a Palermo il 7 maggio 2022. Avverto che, in mancanza di diversa indicazione, da quest’opera sono tratti i riferimenti degli scritti di seguito richiamati.
[1] I riferimenti sono tratti dalla Nota introduttiva de I capolavori di Eduardo, I, Einaudi, Torino 1973, VII s.
[2] A. Pugiotto, Legge e letteratura, l’abbraccio sotto il segno di Sciascia, in Il Riformista, 4 novembre 2021, 9.
[3] Su La giustizia secondo Leonardo Sciascia v. il confronto svoltosi tra A. Rapomi Colombo, L. Carassai, P. Astorina, G. Fiandaca, F. Izzo, teletrasmesso da Radio radicale il 7 aprile 2018 (e disponibile anche on line); v., inoltre, ex plurimis, U. Apice, La collusione dei poteri nel Contesto di Leonardo Sciascia, in Il Quotidiano Giuridico, 10 gennaio 2020; A. Centonze, La giustizia e la ricerca della verità giudiziaria secondo Leonardo Sciascia, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 29 febbraio 2020, e, nella stessa Rivista, A. Apollonio, Il magistrato di Sciascia: eroe e anti-eroe tra “verità” e “giustizia”, 8 gennaio 2021, e G. Tona, Sciascia, i giudici e il danno da eccessiva professionalità, 11 dicembre 2021; A. Mittone, Sciascia e la giustizia, in Doppio zero (www.doppiozero.com), 12 aprile 2021. Infine, E. Amodio - E.M. Catalano, La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale, Sellerio, Palermo 2022.
[4] Di quest’ultimo, v., inoltre, l’ampia illustrazione delle ragioni che lo hanno portato a dare alla luce, in collaborazione con L. Cavallaro, l’opera che ora si presenta: v., dunque, di R. Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, Cacucci, 2021, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 2 settembre 2021. Non mi permetto di far luogo ad alcuna chiosa alle esaurienti spiegazioni addotte da uno dei curatori dell’opera qui presentata; mi limito solo a far richiamo di una indicazione di un’autorevole dottrina, secondo cui il risveglio dell’attenzione per l’opera di Sciascia, segnatamente da parte dei giuristi, può essere visto come il “sintomo di un bisogno di fare autocoscienza, di un’esigenza di autoanalisi e riflessione sollecitati dalla accresciuta consapevolezza della condizione di crisi in cui non da ora versa il pianeta-giustizia” [G. Fiandaca, Leggere Sciascia in procura. Un atto di autocoscienza per la giustizia in crisi, in Il Foglio (www.ilfoglio.it), 6 novembre 2021].
[5] Lo spiega con esemplare chiarezza lo stesso R. Conti, nello scritto da ultimo cit., § 3: “l’assenza della virgola non è frutto di disattenzione ma, al contrario, ricerca di un’unità di senso tra i valori che tali espressioni incarnano”.
[6] Ferma opportunamente l’attenzione su questo passo, rivelatore della personalità di S., T. Groppi, Di fronte al potere. Considerazioni sul volume “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, a cura di Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, Cacucci Editore, Bari, 2021, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 8 gennaio 2022. Quanto, poi al rapporto tra il giudice e il contesto sociale in cui esercita il munus affidatogli, giova non scordare ciò che lo stesso Sciascia ha al riguardo rimarcato, in un passo tratto da A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989, 80, opportunamente evidenziato anche da G. Fiandaca, Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare, nella stessa Rivista, 16 febbraio 2022: “quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur sempre rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia – che non può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”.
[7] Il tenace concetto per tenere alta la dignità dell’uomo. Su “Morte dell’inquisitore”, 47 ss. (e 48, per il riferimento testuale).
[8] Diverso è, nondimeno, l’angolo prospettico dal quale la realtà è osservata o – se si preferisce altrimenti dire – l’animus che ispira la osservazione stessa. Fanno tuttavia eccezione i magistrati che sono anche autori di scritti scientifici. Non saprei, ad ogni buon conto, dire se indossino questa seconda loro veste sopra la prima ovvero al posto di questa, diversamente dagli studiosi che non hanno familiarità con la pratica giuridica e le sue esigenze. Svolgimenti sul punto, qui non specificamente interessante, in altri luoghi.
[9] La “naturale e tragica solitudine del siciliano” è efficacemente resa, con magistrali pennellate linguistiche, da N. Irti, “Il giorno della civetta” e il destino della legge, 17 ss. e 21, per il riferimento testuale.
[10] Forse, la più emblematica rappresentazione di questo stato d’animo, peraltro sovente in modo esplicito e con sconsolata amarezza dichiarato, è in Sabato, domenica e lunedì.
[11] Ancora N. Irti, cit., 17.
[12] “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo” (Mc, 7, 1-8, 14-15, 21-23).
[13] Il riferimento è in N. Lipari, Diritto e letteratura in “Todo modo”, 98.
[14] … o – per dirla con lo stesso L. Sciascia – “sicilitudine” (Sicilia e sicilitudine, ora richiamato anche da R. Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, cit.).
[15] Il riferimento è in D. Galliani, cit., 62.
[16] N. Lipari, cit., 103. Rimarca il punto anche T. Groppi, nello scritto sopra cit.
[17] V., nuovamente, D. Galliani, cit., spec. 64.
[18] Ancora N. Lipari, cit., 106.
[19] Ho ripetutamente insistito sul punto, a mio giudizio di cruciale rilievo: di recente, ad es., nel mio Il referendum sull’art. 579 c.p.: inammissibile e, allo stesso tempo, dagli effetti incostituzionali, in AA.VV., La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p., a cura di G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 1/2022, 194 ss.
[20] Giustizia e individuo da Kafka a “Il contesto”, 85 s.
[21] G. Luccioli, Il sopravvento della superstizione sulla verità e sulla giustizia: “La strega e il capitano”, 125.
[22] … secondo l’efficace descrizione datane da M. Serio, Luoghi, ragione giuridica, sentimento e impegno didattico: la società siciliana di “A ciascuno il suo”, 65 ss. (e 66, per il riferimento testuale).
[23] Ancora M. Serio, cit., 67.
[24] Introduzione, 12.
[25] … nello scritto sopra già richiamato, 127.
[26] … che poi – come si sa – è la cifra identificante, la più genuinamente espressiva sia dell’attività del giudicare che della ricerca scientifica, per loro statuto non inquinate da preorientamento alcuno. Ancora G. Luccioli, op. et loc. ult. cit., lucidamente avverte del significato del dubbio “come abito mentale del giudice … atteggiamento dello spirito che attraverso il rifiuto di facili certezze tende a sottoporre le emergenze del processo allo spietato controllo della logica, vivendo in modo incessante l’inquietudine della ricerca”. Un “abito mentale” ed una “inquietudine” che – posso testimoniare per il mio personale vissuto – sono propri, pur nella diversità dei ruoli e delle responsabilità, altresì degli studiosi.
Direttivi e semidirettivi, nomine e conferme. La parola al Consiglio giudiziario
Intervista di Federica Salvatore e Riccardo Ionta a Riccardo Ferrante, Cataldo Intrieri e Giuseppe Sepe
Un professore universitario, un avvocato e un magistrato a confronto sulle rispettive esperienze e visioni relative agli incarichi dirigenziali in magistratura e al ruolo del Consiglio giudiziario. È un sommarsi di letture differenti, dove le voci laiche fanno da contrappunto ai toni del togato.
Le sembra che i Consigli giudiziari, dovendo valutare gli aspiranti a incarichi direttivi e semidirettivi, diano conto a sufficienza nei pareri di avere verificato specificamente i loro atti organizzativi del quadriennio precedente, l’esito di questi e le valutazioni di professionalità che i candidati hanno espresso per i magistrati del loro ufficio?
Ferrante In quanto componente laico non ho modo di esprimermi su questo punto con riferimento specifico all’attività del CG di cui faccio parte. Non so quanto la “cultura della valutazione” si sia poi virtuosamente concretizzata. Detto in soldoni, e per il caso specifico, quanti magistrati hanno subito effettivamente una valutazione di professionalità negativa? Sul piano generale, per converso, credo sia un tema assai delicato per tutti i rami della PA e non solo. La “valutazione” è diventata una sorta di totem contemporaneo col che spesso si agisce non tanto per svolgere le proprie funzioni secondo scienza e coscienza, ma per ottenere una valutazione positiva, rimodellando strumentalmente l’esercizio della propria funzione. Questo si traduce nei fatti in una procedimentalizzazione estrema, nella ossessione di avere le carte in ordine al di là dei reali profili di merito. Tornando ai magistrati, la delicatezza del loro compito istituzionale è tale che questo tema diventa appunto un problema di difficilissima risoluzione, come anche il dibattito di queste ultime settimane ci conferma.
Intrieri Premetto doverosamente che io non ho nessuna esperienza interna da far valere sicché il mio è il parere o meglio l’impressione di un semplice fruitore di ciò che i CG producono. L’impressione generale è che non vi siano mai nell’ambiente della magistratura critiche e censure ufficiali a condotte e comportamenti inadeguati. Non di rado si segnalano alle proprie associazioni o all’ordine comportamenti censurabili di magistrati. A mia memoria non ricordo alcun riscontro ufficiale a tali denunce, Difficile pensare che vi siano nelle valutazioni dei capi degli uffici giudiziari giudizi realmente adeguati al valore dei collaboratori. Ciò che sta emergendo dalle Procure di Milano e Roma, vedasi il processo perugino a Luca Palamara e Stefano Fava, fa emergere situazioni di grave dissidio interno di cui non vi è traccia ufficiale oltre ciò che le inchieste hanno appurato.
Sepe Ho partecipato al Consiglio Giudiziario nel quadriennio 2016-2020 nel distretto di Napoli, che gestisce circa 1000 magistrati. A mio avviso il CG è certamente in grado di valutare tutto ciò che è agli atti del fascicolo di ciascun aspirante. Il punto è allora se le fonti valutative, che ruotano principalmente attorno al rapporto del dirigente – non di rado “appiattito” sull’autorelazione – sia sufficiente a svolgere una valutazione seria e attenta delle capacità organizzative del candidato. Certamente è possibile enucleare una serie di indicatori rivelatori delle attitudini organizzative dell’aspirante e fornire, così, un giudizio individuale motivato. In molti casi, tuttavia, si valutano domande presentate da magistrati anche esperti, ma pressoché privi di precedenti esperienze organizzative in senso stretto sicché le attitudini organizzative si traggono dal positivo esercizio della giurisdizione e dalla proficua gestione del proprio ruolo: desunta dalle statistiche comparate, dalla trattazione di processi di particolare complessità, dallo svolgimento di funzioni di presidenza dei collegi, ecc. Si tenga conto che il parere del CG non è comparativo ma individuale, giacché la comparazione avviene innanzi al Csm. Ne segue che la valutazione del CG si svolge senza particolari “tensioni” perché manca il momento del “confronto” tra i vari curricula.
Si discute del ruolo marginale attualmente assegnato nell’ambito dei Consigli giudiziari ai componenti non togati. Le risulta che a oggi i Consigli dell’ordine forniscano un apporto effettivo in ordine alle segnalazioni riguardanti i dirigenti degli uffici?
Ferrante Non mi è capitato di verificare particolari prese di posizione dei Consigli dell’ordine del nostro Distretto. D’altra parte, devo dare atto che, per lo meno a quanto ho potuto verificare personalmente, non si sono mai verificate durante il mio mandato – e fino ad ora – situazioni di particolare criticità da richiedere prese di posizione formali. Qualora vi siano problemi di portata generale, in un’ottica di “vigilanza” sull’andamento degli uffici, la tendenza credo sia rivolgersi direttamente al Ministero competente, alzando il livello politico dell’istanza o forse non riconoscendo particolare competenze/autorità al CG.
Intrieri L’impressione è che la scelta dei membri non togati sia su base meramente fiduciaria dei COA: ho proposto vere e proprie candidature con valutazioni comparate ed ufficiali. Il meccanismo attuale di designazione non serve a nulla.
Sepe Durante l’intero quadriennio della consiliatura partenopea 2016-2020 non ricordo di alcuna segnalazione pervenuta dal Consiglio dell’ordine degli avvocati riguardante magistrati del distretto. Allo stato, quindi, il ruolo dell’avvocatura nella valutazione dei dirigenti (in sede di nomina così come di conferma) è alquanto marginale mentre sarebbe auspicabile un maggiore più incisivo contributo nell’evidenziare e porre in luce eventuali criticità, ove esistenti.
Da sempre si dibatte sull’ampliamento delle fonti di conoscenza e lo stesso progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario prevede la partecipazione attiva dei componenti laici alle sedute sulle valutazioni di professionalità. In quale direzione il loro apporto può essere utile?
Ferrante Naturalmente la mia risposta potrebbe essere condizionata dal fatto di essere un componente laico, ma non lo sono in quota avvocati, bensì in quota docenti universitari; dunque, in una posizione di terzietà che forse può consentire un approccio più sereno al tema. Ritengo che soprattutto in questa fase storica tutte le realtà istituzionali vadano aperte e rese trasparenti, e che anche la magistratura debba fare la propria parte. Lo dico anche come consiglio spassionato, pensando alle reazioni dell’opinione pubblica ai fatti che hanno coinvolto l’organo di governo autonomo. Lascerei perdere la retorica delle garanzie costituzionali, pure sacrosante, che tutelano lo svolgimento delle funzioni di magistrato, e che possono suonare come autodifesa corporativa. Alcuni hanno parlato di possibili ritorsioni degli avvocati su qualche magistrato “sgradito” sotto valutazione; l’argomento è assai debole, perché controvertibile, in quanto ragionando su questa linea si potrebbe pensare per converso ad atteggiamenti compiacenti, certo non meno temibili.
Se c’è un concetto piuttosto chiaro circa la “valutazione” è che debba essere fatta da soggetti terzi, il più possibile lontani dal valutando. Che proprio in quell’occasione, dal CG siano allontanati i laici – appunto perché “estranei” – è una illogicità evidente, e non credo proprio possa essere giustificata rivendicando i valori dell’indipendenza e dell’autogoverno, che non devono apparire sinonimi di autoreferenzialità.
Intrieri L’avvocato esprime un punto di vista personale ma utilissimo: egli è in grado di valutare autorevolezza, preparazione ed equilibrio del magistrato con cui si misura. Ed anche la capacità produttiva. Comprendo i dubbi, ma la partecipazione attiva degli avvocati alle valutazioni è indispensabile. Dire che vi è il pericolo di commistioni e conflitti di interesse non può costituire uno sbarramento. Come ogni ambiente anche quello della giustizia ne presenta diversi. E’ il criterio generale che deve prevalere.
Sepe Il tema è molto discusso e vi sono sensibilità diverse nella magistratura associata. La componente laica è integrata nei Consigli giudiziari secondo le proporzioni stabilite dalla legge di modo che la sua partecipazione al circuito decisionale sulla professionalità dei magistrati non dovrebbe, in linea di principio, destare perplessità trattandosi di soggetti, particolarmente qualificati, in grado di esprimere un’opinione informata, desunta dalle fonti di conoscenza tipizzate dalla vigente circolare del Consiglio Superiore. Tuttavia il fatto che gli avvocati che compongono i Consigli giudiziari continuino a esercitare la professione negli uffici in cui prestano servizio i soggetti da valutare è discutibile, poiché ne può risultare un certo rischio di condizionamento dei magistrati in verifica (così come può esservi il rischio opposto, perché l’avvocato a sua volta “lavora” con i magistrati e tenderà ad evitare rapporti conflittuali).
In concreto, l’emendamento governativo alla delega al Governo per la riforma dell’O.G. aggiunge la possibilità, per la componente degli avvocati, di esprimere un voto unitario in sede di deliberazione sulla valutazione di professionalità dei magistrati, nel caso in cui il consiglio dell’ordine abbia effettuato segnalazioni sui magistrati in verifica, ai sensi del comma 1, lett. a, della Delega al Governo per la riforma ordinamentale della magistratura. Si tratta, dunque, di una innovazione che avrà, a mio avviso, una limitata incidenza posto che, ad oggi, scarsi sono i casi di segnalazione dei COA.
Frequentemente i provvedimenti organizzativi dei dirigenti degli uffici ritenuti dai Consigli giudiziari non corretti, anziché annullati, vengono, anche più volte, rinviati a loro per consentire le modifiche dei punti in cui si riscontrano carenze. Questa prassi consente alla fine del quadriennio una corretta valutazione dell’attività compiuta dal dirigente? In che misura tale interlocuzione risulta dal fascicolo personale del dirigente?
Ferrante Non posso rispondere per i motivi sopra esposti. Credo comunque lo dovrebbero essere senza dubbio. Il tema dell’organizzazione giudiziaria è spinosissimo, e con ciò quello della formazione dei magistrati alla dirigenza, come ho potuto verificare nel mio mandato nel Direttivo della SSM. Il magistrato non può essere per natura omnisciente; la dirigenza di un ufficio giudiziario non corrisponde pienamente alla categoria della “organizzazione aziendale”, ma ci va vicino e bisogna rassegnarsi. E con ciò rassegnarsi a essere formati, e a fare proprie le competenze relative. Questo avviene nella maggioranza dei casi? Non ci giurerei. Gli atti che passano dal CG sono in effetti un’ottima cartina tornasole; basta farne uso.
Sepe Ritengo che il dialogo tra CG e dirigente dell’ufficio costituisca espressione di un principio di leale collaborazione istituzionale nel cd. “circuito” dell’autogoverno sicché, ferma restando la discrezionalità sulle scelte organizzative che spetta interamente al dirigente dell’ufficio, è corretto che vi sia una continua e feconda interlocuzione con il CG sulle questioni più tecniche (es: interpretazione delle circolari), onde assicurare uniformità nell’applicazione delle circolari all’interno del distretto, evitando pareri contrari e le successive “non approvazioni”. Il rischio che la circolarità tra provvedimenti del dirigente e valutazione del CG possa incidere sulla corretta valutazione dell’attività del dirigente è, a mio modo di vedere, limitato».
Tra i compiti dei Consigli giudiziari vi sono anche funzioni di vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari del distretto. Tali compiti vengono realmente svolti dai CG e con quale frequenza, per quanto le consta? In che modo viene dato seguito alle eventuali segnalazioni provenienti dai magistrati dell’ufficio? I dati raccolti in queste procedure vengono inseriti nelle periodiche valutazioni di professionalità?
Ferrante Ripeto che il mio ruolo di componente laico mi impedisce di sapere come si formi in concreto il fascicolo personale e come incidano i vari fattori in gioco sulle valutazioni di professionalità. Detto questo, il CG svolge la verifica minuta delle singole pratiche che gli vengono via via sottoposte (per lo più di natura tabellare), e per quello che ho potuto verificare, con grande serietà. Vi è certamente una necessitata polverizzazione del lavoro. Una valutazione d’assieme, dunque la “vigilanza” in senso proprio, richiederebbe un impegno analitico molto attento, lavorando sullo storico per una corretta valutazione prospettica, con un investimento di tempo nei fatti arduo o che comunque richiederebbe una determinazione esplicita da parte del CG. Non posso dare testimonianza di disfunzioni sull’andamento di qualche ufficio del Distretto che abbiano stimolato una segnalazione al Ministero della Giustizia (salvo un problema circa l’applicazione della normativa di tutela per l’emergenza Covid-19); voglio credere che se nei fatti si fossero verificate, il CG di cui faccio parte avrebbe avuto modo comunque di prenderne atto, quantomeno nei casi eclatanti, e di agire di conseguenza.
Intrieri A queste ultime due domande non so rispondere: non sono mai stato chiamato a ricoprire l’alto incarico dal mio COA.
Sepe Nei distretti di maggiori dimensioni le attività di vigilanza sono svolte da un’apposita commissione istituita in seno al CG (Commissione di Vigilanza). Questa Commissione ha il compito di monitorare l’andamento dell’attività giudiziaria nei vari uffici del distretto, accertare l’esistenza di criticità o disfunzioni, ascoltare, in apposite riunioni, i dirigenti e i magistrati degli uffici, proporre rimedi, soluzioni organizzative, possibilmente concordate con la dirigenza, ai problemi più urgenti; infine segnalare l’esistenza di disfunzioni al Ministro. La Commissione ha dunque un positivo ruolo di analisi, consultazione e di proposta, di rimedi organizzativi atti a rimuovere eventuali criticità. Dopo le modifiche apportate nel 2007 il CG non ha più compiti di vigilanza sul “comportamento dei magistrati” in servizio presso gli uffici né di segnalazione di eventuali fatti suscettibili di rilevanza disciplinare: la norma attributiva di tale competenza, ossia l’art. 15, lett. c), della legge 25/2006, venne abrogata ad opera della legge 111/2007. Quindi non vi è modo che le verifiche disposte in sede di vigilanza transitino nelle valutazioni di professionalità.
L’effettività del principio di parità di genere nell’accesso alle cariche elettive nei piccoli comuni (nota a Corte cost., 25 gennaio 2022, n. 62)
di Silia Gardini
Sommario: 1. Il punto di partenza: la legislazione vigente in materia di parità di genere per le elezioni negli enti comunali – 2. Il caso: l’evidenza del vulnus di tutela e la rimessione della questione alla Corte costituzionale – 3. La decisione: la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale – 4. Concludendo.
1. Il punto di partenza: la legislazione vigente in materia di parità di genere per le elezioni negli enti comunali
In materia di cariche elettive, all’indomani dell’importante evoluzione costituzionale del principio di equilibrio di genere attuata con la Legge costituzionale[1] n. 1 del 2003, il compito che il legislatore si vedeva assegnato era quello – non semplice – di ricucire un quadro regolamentativo estremamente frammentato, individuando regole e principi che potessero delineare una normativa valida e coerente con tale principio, anche a livello locale. Dal canto suo, la corposa giurisprudenza costituzionale formatasi negli anni precedenti lasciava in “eredità” almeno tre importanti direttive di principio: l’illegittimità delle misure volte ad alterare direttamente la parità di chances fra i candidati ai fini dell’elezione, l’ammissibilità delle disposizioni volte a vincolare i partiti nella presentazione delle liste (ossia in un momento in cui la competizione elettorale non fosse stata ancora avviata), al fine di garantire la presenza di entrambi i generi nelle liste e l’ammissibilità del ricorso alla regola della doppia preferenza elettorale declinata al genere[2].
L’adeguamento della legislazione elettorale alle nuove esigenze di tutela è avvenuto con la legge 23 novembre 2012, n. 215, che ha introdotto nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) specifiche misure positive finalizzate a ristabilire una equilibrata presenza di genere negli organismi politici elettivi dei comuni[3].
Le norme introdotte dalla legge n. 215/2012 incidono direttamente sulla composizione delle liste elettorali, prevedendo altresì un regime sanzionatorio in caso di violazione delle relative prescrizioni. Le regole non sono, però, omogenee, poiché si differenziano sulla base di scaglioni demografici. Vengono, così, individuate tre soglie di pervasività della disciplina, parametrate alla popolazione comunale: superiore ai 15.000 abitanti, compresa tra i 5.000 ed i 15.000 abitanti ovvero inferiore ai 5.000 abitanti (c.d. piccoli comuni).
Per tutti i comuni con più di 5.000 abitanti la regola è che le liste elettorali debbano essere predisposte in modo tale che «nessuno dei due sessi» possa «essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati»[4]. A tale previsione si affianca il meccanismo della doppia preferenza di genere, che offre all’elettore la possibilità di esprimere due preferenze a candidati di sesso differente, secondo il sistema ampiamente scrutinato e legittimato dalla Corte costituzionale[5].
Sul versante sanzionatorio, nel caso in cui uno dei due generi sia rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, nei comuni con più di 15.000 abitanti la Commissione elettorale è incaricata dell’estromissione dalla lista dei soggetti appartenenti al sesso sovrarappresentato, partendo dall’ultimo in elenco. La lista non rispettosa della quota di genere non viene, dunque, considerata ipso facto inammissibile: essa può essere ricusata soltanto laddove, dopo le cancellazioni, contenga un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge. Nei comuni di medie dimensioni, con popolazione compresa fra i 5.000 ed i 15.000 abitanti, la portata precettiva della misura si alleggerisce notevolmente. L’opera di cancellazione della Commissione elettorale non può, infatti, mai produrre la riduzione dei candidati ad un numero inferiore al minimo prescritto dalla legge per la composizione delle liste. A tale numero minimo l’azione della Commissione elettorale deve, dunque, sempre arrestarsi e l’impossibilità numerica di rispettare la quota non comporterà la decadenza della lista, ma soltanto la riduzione dello squilibrio di genere.
Ancor meno incisiva è la normativa prevista per i comuni con meno di 5.000 abitanti (che in Italia rappresentano circa il 70% del totale[6]), laddove il legislatore si è “accontentato” di prescrivere – alla luce del principio maturato dalla Consulta[7] con la sentenza n. 49/2003 – esclusivamente l’obbligatoria presenza di entrambi i sessi nelle liste.
La ratio della riduzione della soglia di tutela potrebbe, in tal contesto, essere rinvenuta nella necessità di non paralizzare – in ambiti territoriali particolarmente ristretti – l’azione dei partiti nella formazione delle liste. Il bilanciamento del principio di parità di genere con i principi della partecipazione democratica e del pieno collegamento dei rappresentanti politici con il territorio viene, dunque, tradotto in un meccanismo di connotato da una maggiore flessibilità, espressione di equilibrio tra la presenza di entrambi i sessi nelle liste elettorali e la maggiore rappresentatività possibile dei territori. Senonché, l’assenza di una esplicita sanzione per la violazione della seppur minima garanzia paritaria prevista della norma ha prodotto effetti estremamente iniqui sul piano pratico, determinando la diffusissima disapplicazione dei relativi precetti.
Basti pensare che, tra i piccoli comuni che sono stati chiamati alle urne nell’ultima tornata elettorale del 2021, solo uno su due ha garantito una adeguata presenza di entrambi i sessi nelle liste, mentre in ben 79 comuni la presenza maschile è stata superiore all’80% del totale dei candidati[8]. Il dato è chiaro: nei contesti territoriali di modeste dimensioni, che pure rappresentano centri propulsivi di assoluta importanza nella vita del Paese, la tutela della parità di genere ed i precetti dell’art. 51 Cost. risultano ampiamente disattesi.
2. Il caso: l’evidenza del vulnus di tutela e la rimessione della questione alla Corte costituzionale
La vicenda esaminata trae origine dalla competizione elettorale svoltasi nel 2020 in un piccolo comune campano, nel corso della quale una lista composta esclusivamente da candidati di sesso maschile aveva ottenuto tre seggi in Consiglio comunale. I primi due candidati non eletti avevano, dunque, adito il T.A.R. Campania, lamentando l’alterazione del risultato elettorale dovuto alla mancata ricusazione della lista che – in spregio a quanto previsto dall’art. 71, comma 3-bis del T.U.E.L. – aveva presentato candidature monogenere.
Il Giudice amministrativo di primo grado, però, pur rilevando che la l. n. 215/2012, nel modificare il D.lgs. 267/2000 ed il d.P.r. n. 570/1960, ha previsto un controllo e un diretto intervento delle commissioni elettorali circondariali al fine di garantire la rappresentanza di entrambi i sessi nelle liste dei candidati, evidenziava che – con specifico riguardo ai comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti – la stessa legge non ha disposto alcuna misura sanzionatoria (tantomeno quella della ricusazione) a carico di chi non rispetti tali prescrizioni. Pertanto, escludendo la possibilità di ricorrere ad un’interpretazione analogica della disposizione riferita ai comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti, il T.A.R. Campania concludeva per il rigetto del ricorso.
In sede di appello – ribadita l’impossibilità di attuare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, pure ricorrendo all’analogia iuris – la Terza Sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 4294 del 4 giugno 2021, ha ritenuto sussistenti i presupposti per sollevare una questione di legittimità costituzionale. Nello specifico, i Giudici di Palazzo Spada hanno sottoposto all’esame della Consulta la tenuta costituzionale dell’art. 71 comma 3-bis del d. Lgs. n. 267/2000 «nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti», e dell’art. 30, lett. d) bis ed e) del d.P.R. n. 570/60, «nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista”, le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai comuni con meno di 5.000 abitanti», per contrasto con gli artt. 51, 3 e 117 comma 1 della Costituzione (quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU ed all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla CEDU).
Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, l’ordinanza di rimessione ha valorizzato la «natura immediatamente precettiva e non meramente programmatica»[9] dell’art. 51 Cost. e, parallelamente, il fondamentale dovere della Repubblica – che da esso discende – di adottare adeguate misure promozionali ai fini della tutela di quel «patrimonio umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere»[10]. Secondo il ragionamento del Giudice amministrativo, considerando obiettivo primario della legge proprio quello di garantire la parità di genere attraverso interventi di riequilibrio, la circostanza che nella maggior parte dei Comuni italiani tali interventi siano di fatto paralizzati dall’assenza di un meccanismo sanzionatorio, finisce per svuotare lo stesso principio di parità di genere della sua effettività e determina, di conseguenza, un preoccupante vulnus di tutela.
In relazione alla violazione dell’art. 3 della Costituzione, il Consiglio di Stato ha, poi, rilevato l’iniquità del regime di differenziazione parametrato alle dimensioni degli enti comunali. Da tale meccanismo discenderebbe, infatti, una discriminazione a valenza bidirezionale idonea, da una parte, ad alterare l’equilibrio tra generi nei piccoli comuni e, dall’altro, a privilegiare i soggetti di genere femminile residenti in comuni con più di 5.000 abitanti, rispetto a quelli residenti nei comuni di piccole dimensioni. La diversità di trattamento riservata ai comuni minori non sarebbe, peraltro, giustificabile dalla presunta difficoltà di individuare donne candidate in contesti abitativi di piccole dimensioni, considerato che non vi è un obbligo di candidare persone residenti nello stesso comune e che, in ogni caso, eventuali difficoltà derivanti dalla carenza demografica prescinderebbero dal genere dei candidati.
Interessante il richiamo, operato in chiusura, a quella giurisprudenza amministrativa[11] che ha considerato la corretta attuazione del principio di equilibrio di genere alla stregua di un parametro di legittimità sostanziale e di garanzia di “funzionalità” degli apparati amministrativi, al fine del miglior perseguimento degli obiettivi di efficienza, imparzialità e buon andamento dell’azione pubblica. Vista da tale prospettiva, la composizione principalmente monogenere degli organi politici assume un’ulteriore connotazione negativa, poiché, al di là della lesione di diritti costituzionalmente garantiti, determina una vera e propria patologia del sistema democratico. L’aporia rappresentativa influisce direttamente sulla qualità del dialogo istituzionale: lo impoverisce drasticamente, limita la visuale e l’incisività delle azioni politiche che da esso derivano e causa, in sostanza, uno scollamento tra vita politica e società civile, producendo il doppio deficit di rappresentanza e di funzionalità.
3. La decisione: la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale
La Corte costituzionale ha ritenuto di trattare congiuntamente le censure sollevate dall’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, considerandole sostanzialmente convergenti nella sostenuta violazione dell’obbligo costituzionale di promozione della parità di genere nell’accesso alle cariche elettive e nella conseguente irragionevolezza e sproporzione delle scelte operate a tal fine dalla legislazione vigente. Ha, invece, considerato assorbito il riferimento all’art. 117, in relazione all’art. 14 ed all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 12 della CEDU.
L’argomentazione del Giudice costituzionale si è assestata sostanzialmente sull’iter valutativo già condotto dal Consiglio di Stato. Così, premesso il riconoscimento dell’ampia discrezionalità di cui il legislatore gode in campo elettorale (che pienamente giustifica, tra le altre cose, la graduazione delle misure in ragione delle dimensioni degli enti comunali)[12], la Consulta ha spiegato come, nella materia in esame, il dettato legislativo debba essere sempre coerente con l’obbligo costituzionale di «promuove[re] attraverso appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», così come prescritto dall’art. 51 Cost. Di conseguenza, una disciplina elettorale che ometta di contemplare adeguate misure di promozione o che le escluda per determinate categorie di enti, non potrebbe che essere ritenuta costituzionalmente illegittima.
Invero – come già rilevato (e come pure la Corte costituzionale ha evidenziato nel ricostruire la disciplina vigente) – l’art. 71 comma 3-bis del d. Lgs. n. 267/2000, con riferimento ai piccoli comuni, contempla una basica prescrizione attuativa del principio di parità di genere. La norma prescrive, infatti, l’obbligatoria presenza di entrambi i sessi nelle liste elettorali, realizzando quella «misura minima di non discriminazione» cristallizzata dalla nota pronuncia del 2003 resa dalla stessa Consulta con riferimento alla legge elettorale valdostana[13].
Tale disposizione, essendo sprovvista di qualsivoglia rimedio per i casi di violazione dell’obbligo che da essa discende, risulta però totalmente carente di effettività. Tamquam non esset, alla stregua di un fenomeno di normativa rinnegante[14], che si manifesta nello scostamento tra il principio affermato in sede normativa e la sua stessa tangibilità[15]: le regole, seppur formalmente sancite, vengono “rinnegate” in sede applicativa dai soggetti che dovrebbero attuarle, senza che l’ordinamento preveda a tal guisa alcun rimedio.
Il vulnus di tutela è, dunque, evidente e, ad avviso della Corte, la violazione del dettato costituzionale non può essere compensata neppure facendo leva sul bilanciamento tra il principio di equilibrio di genere ed altri principi costituzionalmente rilevanti, in particolare quello di rappresentatività. Un’apposita difesa in tal senso era stata, peraltro, prospettata dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui – benché la normativa vigente non limiti la candidatura ai soli soggetti residenti nel territorio comunale nel quale si svolge la competizione elettorale – la possibile carenza di candidati nelle comunità di piccole dimensioni potrebbe determinare, in presenza di vincoli numerici, la formazione di liste elettorali distanti dall’ente amministrato. Pur considerando tale profilo, la Corte costituzionale ha, tuttavia, ribadito che la soluzione adottata dal legislatore si dimostra manifestamente irragionevole, poiché – oltre a sacrificare oltre il dovuto il principio di parità di genere – determina un’eccessiva ed ingiustificata disparità di trattamento, tanto tra i diversi enti comunali, quanto tra gli aspiranti candidati nei rispettivi comuni.
In conclusione, ferma restando la possibilità per il legislatore di individuare – nell’ambito della propria discrezionalità – una nuova soluzione rispettosa dei principi costituzionali, la Corte ha ritenuto necessario disporre, in tutti i casi di mancato rispetto dell’art. 71-bis, comma 3 del T.U.E.L., l’estensione della sanzione dell’esclusione della lista (già prevista per i comuni di più ampie dimensioni) alla disciplina elettorale dei piccoli comuni.
4. Concludendo
La vicenda esaminata consente di effettuare alcune riflessioni sul modo di attuazione del principio di equilibrio di genere nel nostro ordinamento.
Una premessa è, però, a tal fine necessaria. La costituzionalizzazione della tutela positiva della parità di genere[16], in particolare nell’ambito della rappresentanza politica, ha avviato un complesso processo di sedimentazione normativa e giurisprudenziale che ha condotto alla reinterpretazione – in virtù del rinnovamento profondo dei termini di bilanciamento – degli stessi principi costituzionali che informano la soggettività politica dei cittadini. Alla luce di tali principi, deve essere dunque ben chiaro che tutelare la parità di genere non vuol dire promuovere l’inclusione condizionata in determinati settori di soggetti “deboli”: l’essere donna (o uomo) non è condizione di appartenenza ad una categoria, non è accostabile a gruppi predeterminati o, peggio, minoritari[17], ma rappresenta un fattore irriducibile della stessa persona umana. Il principio di parità tra i sessi si configura, dunque, come irrinunciabile elemento costitutivo di qualsivoglia sistema statale costruito sui principi di libertà ed uguaglianza e proteso al buon funzionamento delle sue istituzioni[18].
Partendo da tali presupposti, in dottrina è stato elaborato il concetto di “democrazia paritaria”, proprio al fine di valorizzare il pieno sviluppo dei diritti e dei doveri connessi alla cittadinanza per entrambi i generi e superare la logica della tutela paternalista di individui deboli per definizione. Obiettivo primario, in tale ottica, è l’affermazione concreta di una nuova eguaglianza formale – intesa come assenza di discriminazioni – che miri a riequilibrare le condizioni di partenza, influendo tanto sulla vita pubblica, quanto sulla sfera privata di tutti i cittadini[19]. Tale nozione è stata fatta propria anche da parte della giurisprudenza amministrativa, secondo cui «(l)a portata della disposizione di cui all’art. 51 Cost., immediatamente e concretamente applicabile nei rapporti intersoggettivi, determina (...) un particolare modo di essere e di agire in capo a qualsiasi soggetto pubblico (...): quello ovverossia di provvedere, quale che sia l’oggetto dei singoli interventi, sulla base dei canoni della c.d. democrazia paritaria»[20].
Se si assume il concetto di democrazia paritaria come punto di partenza, l’analisi della questione del riequilibrio di genere nelle assemblee elettive (e degli strumenti normativi a tale scopo previsti dall’ordinamento) cambia radicalmente prospettiva. Essa non può, infatti, arrestarsi ad un mero dato statistico, ma deve calarsi nel merito della qualità della democrazia rappresentativa, alla luce delle istanze emergenti dal contesto sociale. Così, quella strana vocazione a considerare la parità di genere come una questione formale, un tecnicismo volto ad inserire forzatamente soggetti di genere femminile nella sfera pubblica perde di significato, poiché è la tendenza sociale all’assenza sostanziale di una parte dei cittadini dalle istituzioni a costituire il vero problema. Le stesse misure poste a sostegno della rappresentanza femminile mostrano, infatti, tutta la loro inadeguatezza ed ineffettività proprio quando – come nel caso in esame – non sono accompagnate dalla reale consapevolezza, sul piano culturale, del valore della diversità di genere o, peggio, quando si assestano sulla asettica necessità di una presenza che non sia non realmente partecipativa.
Appare, allora, evidente che – al di là della fondamentale affermazione del principio costituzionale sancito dall’art. 51 Cost. – l’effettività di quelle misure che il legislatore deve porre a presidio della bilanciata presenza dei sessi nell’accesso alle cariche elettive non può prescindere dalla realizzazione di un processo culturale di autoriforma delle forze politiche[21] che preveda, innanzitutto, l’impiego di reali criteri di selezione delle candidature, idonei a garantire non soltanto la quantità, ma soprattutto la qualità della rappresentanza politica per entrambi i generi[22] ed a realizzare quel passaggio – doveroso – da una politica della presenza ad una politica delle idee.
[1] Com’è noto, la Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12 giugno 2003, ha modificato l’articolo 51 della Costituzione, inserendo – accanto alla previsione secondo cui «[t]utti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», il dovere della Repubblica di «promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità fra uomini e donne». L’intervento della legge costituzionale ha, dunque, previsto il dovere giuridico in capo allo Stato ed alle Regioni di legiferare in attuazione della novellata norma costituzionale.
[2] Cfr., le importantissime sentenze della Consulta n. 49/2003 e n. 4/2010, entrambe in www.cortecostituzionale.it. In particolare, con riferimento alla c.d. doppia preferenza di genere – introdotta dalla legge elettorale campana – la Corte ha considerato determinante la circostanza che all’elettore sia consentito di non avvalersi della seconda preferenza e che solo quest’ultima sia travolta da invalidità nel caso in cui non sia rispettata l’alternanza di genere: i votanti, infatti, potrebbero ben disattendere il fine perseguito dal legislatore, semplicemente votando per un unico candidato. Peraltro, proprio nel sindacare la legittimità di tale meccanismo, la Consulta ha fornito un’interpretazione ancor più pregnante del principio di parità di genere, calandolo in una dimensione ultra-individuale, fatta di connotazioni più strettamente sociali ed accogliendo pienamente la tesi secondo cui, nella sua nuova veste, l’art. 51 Cost. giustificherebbe l’adozione di misure direttamente attuative del principio di uguaglianza sostanziale.
[3] La legge n. 215/2012 si è occupata anche della individuazione dei principi fondamentali a cui il legislatore regionale deve far riferimento nella predisposizione della propria normativa elettorale. Rilevanti sono, poi, le norme volte a consolidare la parità di genere nelle giunte e, più in generale, in tutti gli organi collegiali non elettivi degli enti locali. Non vengono, invece, disciplinate le elezioni dei consigli provinciali, successivamente regolamentate dalla legge 7 aprile 2014, n. 56, c.d. Legge Delrio. Per una più approfondita analisi di questi ed altri profili, sia consentito rinviare a S. Gardini, Equilibri di genere negli organi di rappresentanza politica, in Diritto e processo amministrativo, 1/2017.
[4] Con arrotondamento all’unità superiore per il genere meno rappresentato, anche in caso di cifra decimale inferiore a 0,5. È questa la c.d. “quota di lista”. Cfr., art. 71, comma 3-bis T.U.E.L.
[5] Cfr., supra, nota 2.
[6] Su un totale di 7904 Comuni italiani (dati Istat al 20 febbraio 2021), circa 5.500 (secondo il rapporto ANCI “Atlante dei piccoli comuni” del 5 luglio 2019) sono formati da meno di 5.000 abitanti. La popolazione residente in questi enti è pari a quasi dieci milioni di abitanti.
[7] Il giudizio riguardava la norma secondo cui le liste elettorali per l’elezione del Consiglio regionale della Valle d’Aosta dovessero comprendere, a pena di invalidità, candidati di entrambi i sessi. Secondo la Corte, tale norma «non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva» e «può senz’altro ritenersi una legittima espressione sul piano legislativo dell’intento di realizzare la finalità (…) di equilibrio della rappresentanza» (cfr., Corte costituzionale, sent. 10.02.2003, n. 49, in www.cortecostituzionale.it). La pronuncia ha segnato uno dei passaggi fondamentali nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di parità di genere. Per un approfondimento dottrinale, si vedano: L. Carlassare, La parità di accesso alle cariche elettive nella sentenza n. 49: la fine di un equivoco, in Giur. Cost., n.1/2003, 364 ss.; A. Deffenu, Parità dei sessi in politica e controllo della Corte: un revirement circondato da limiti e precauzioni, in Le Regioni, n.5/2003, 918-928; S. Mabellini, Equilibrio dei sessi e rappresentanza politica: un revirement della Corte, in Giur cost., n.1/2003, 372 ss.
[8] I dati sono estrapolati dalle informazioni rese note dal Ministero dell’Interno e consultabili all’indirizzo web www.interno.gov.it/it/speciali/elezioni-2021.
[9] Cfr., punto 15 dell’Ordinanza di rimessione. Il discusso discrimen tra norme programmatiche, applicabili solo dopo un apposito intervento del legislatore e norme precettive, immediatamente cogenti – a ben vedere – può essere fortemente ridimensionato sul piano degli effetti. Come ha rilevato la stessa Corte costituzionale, infatti, «il concetto di norma programmatica non è un indice negativo di qualificazione della disposizione» (cfr., Corte cost., sent. n. 81/2012) ed il proprium delle norme programmatiche non si rinviene tout court nell’assenza di precettività, ma si manifesta nella speciale natura del precetto che esse esprimono, volto alla determinazione di un principio dell’ordinamento, utilizzabile tanto per il superamento delle lacune e delle aporie della legge, quanto in sede di interpretazione sistematica. In dottrina, sulla normatività delle disposizioni costituzionali anche cd. programmatiche, resta insuperato l’insegnamento di V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano 1952. Ritiene che in capo ai principi positivizzati in Costituzione debba essere riconosciuta una funzione suppletiva, integrativa e correttiva delle regole G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006, 114 ss., mentre secondo l’autorevole ricostruzione di G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 158 ss., la funzione meramente accessoria dei principi costituzionali rispetto alle regole legislative è frutto di un vero e proprio pregiudizio positivistico, per il quale «alla fine, le vere norme siano le regole, mentre i principi siano un sovrappiù, qualcosa di cui si sente la necessità solo come “valvole di sicurezza” dell’ordinamento».
[10] Cfr. Cons. di Stato, Sez. I, 4 giugno 2014, parere n. 1801, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] Cfr., in particolare, T.A.R. Lazio, 25 luglio 2011, n. 6673, in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] In essa si esprime, infatti, al massimo della sua pervasività la politicità della scelta legislativa, che risulta pertanto censurabile solo quando risulti manifestamente irragionevole. Cfr., Corte cost., sent. nn. 35/2017, 1/2014 e 242/2012, tutte in www.cortecostituzionale.it.
[13] Cfr., nota 7.
[14] Il concetto di “normativa rinnegante” fu elaborato, com’è noto, da I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sospettare e punire: l’Inquisizione come modello di violenza legale, I ed., Milano, 1979. L’A. identificò con tale locuzione la tecnica di redazione normativa tipica dei regimi nei quali il potere pone in essere regole formali che consentano di agire legibus solutus sul piano sostanziale.
[15] Parla di “diritti dimezzati” sotto il profilo dell’effettività S. Gambino, Sui limiti della democrazia paritaria in Italia, in Verso una democrazia paritaria. Modelli e percorsi per la piena partecipazione delle donne alla vita politica e istituzionale, a cura di A. Falcone, Milano, 2011, 10.
[16] Il principio de quo ha una piena autonomia, anche sul fronte costituzionale. Esso trae origine, storicamente e concettualmente, dal principio di uguaglianza sostanziale, ma non può essere considerato come un mero corollario dell’art. 3, comma 2 della Costituzione. Cfr., A. Deffenu, Il principio di pari opportunità di genere nelle istituzioni politiche, Torino, 2012, 11.
[17] Cfr. M. Barbera, L’eccezione e la regola, ovvero l’eguaglianza come apologia dello status quo, in Donne in quota. È giusto riservare posti alle donne nel lavoro e nella politica?, a cura di B. Beccalli, Milano, 1999, 115: «le donne non sono una minoranza ma una maggioranza» e «(...) l’essere donna non costituisce la categoria di un gruppo di interesse fra gli altri, ma di un modo di essere della persona umana».
[18] Cfr. G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà e uguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, passim.
[19] Per un’analisi approfondita del concetto di “democrazia paritaria” e delle sue possibili implicazioni sul sistema costituzionale, si rinvia alla riflessione di M. D’Amico, Il difficile cammino della democrazia paritaria, Torino, 2011, passim, nonché agli acuti inquadramenti di G. Brunelli, Donne e politica, Bologna, 2006, 21 ss. La complessa tematica della cittadinanza e la sua più specifica ed incompiuta declinazione “al femminile” non può, in tale sede, essere oggetto di approfondimento. Si rinvia, dunque, alla riflessione di A. E. Galeotti, Cittadinanza e differenza di genere, in Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, a cura di G. Bonacchi e A. Groppi, Roma-Bari, 1993, 190 ss. Sul punto, si veda anche A. Sabbatini, Donne e welfare. Una cittadinanza incompiuta, in La Rivista delle politiche sociali, 2/2009, 7-15.
[20] In tali termini: T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, n. 622/2010; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, n. 14310/2010, in www.giustizia-amministrativa.it.
[21] Vero è che negli statuti di ogni partito politico – in linea con quanto stabilito dal decreto-legge sull’abolizione del finanziamento pubblico diretto ai partiti (D.l. 28 dicembre 2013, n. 149, convertito dalla l. n. 13/2014) – sono presenti previsioni dedicate al rispetto della parità di genere. La presenza maschile risulta, però, ancora irriducibilmente dominante. La stessa Legge individua un meccanismo sanzionatorio soltanto in relazione alle elezioni politiche nazionali. Infatti, nel caso in cui, nel numero complessivo dei candidati presentati da un partito per ciascuna elezione della Camera, del Senato e del Parlamento europeo, uno dei due sessi sia rappresentato in misura inferiore al 40%, è prevista la riduzione delle risorse spettanti allo stesso partito a titolo di “due per mille”. In particolare, la misura della riduzione è pari allo 0,5% per ogni punto percentuale al di sotto del 40%, fino al limite massimo complessivo del 10%.
[22] Cfr., P. Scarlatti, La declinazione del principio di parità di genere nel sistema elettorale politico nazionale alla luce della legge 3 novembre 2017, n. 165, in Nomos, 2/2018.
“Braccialetto elettronico” e protezione vittima di violenza di genere
di Maria Monteleone
Il carattere emblematico della vicenda giudiziaria, oggetto delle Ordinanze del Gip, consente alcune riflessioni sulla protezione della vittima di violenza di genere e domestica, tema centrale nell’azione di contrasto, soprattutto nella fase cautelare del procedimento penale.
Il caso all’attenzione degli inquirenti presenta, infatti, i tratti tipici di molti casi di “ordinaria violenza domestica”: una donna che subisce dal convivente abituali aggressioni fisiche, morali e psicologiche; bambini che vi assistono, restandone essi stessi vittime; un uomo, disoccupato, con precedenti penali, assuntore di alcol e stupefacenti, che si difende sostenendo che è “geloso…che vuole bene alla donna”!
Il giudice ha ritenuto l’allontanamento dalla casa familiare, con contestuale divieto di avvicinamento alla vittima, ai sensi dell’art. 282-bis c.p.p., misura idonea a contrastarne la pericolosità, prevedendo – provvidenzialmente - la sorveglianza ed il monitoraggio con il c.d. “braccialetto elettronico”.
Nel volgere di poco tempo, tuttavia, il giudizio sulla pericolosità sociale dell’indagato si è rivelato inadeguato, tanto che, a seguito della violazione delle indicate prescrizioni, è stato tratto nuovamente in arresto nella flagranza del delitto di maltrattamenti in danno della convivente, e raggiunto dalla più grave misura della custodia cautelare in carcere.
Lo svolgimento dei fatti, come rappresentati negli stessi provvedimenti del giudice, evidenziano una “escalation” di violenza tipica di queste forme criminali, ed è ragionevole valutare che, nel caso, l’imposizione del c.d. “braccialetto elettronico”, abbia verosimilmente scongiurato il rischio di un nuovo femminicidio.
Il dispositivo di sorveglianza e controllo imposto all’indagato, cui il giudice ha fatto ricorso quale “modalità nuova di applicazione di misure cautelari preesistenti”[1], previsto dall’art. 275-bis c.p.p., ha fatto ingresso nel nostro sistema processuale oltre 20 anni orsono (D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla Legge 19 gennaio 2001, n. 4), allo scopo dichiarato di ridurre il numero delle persone detenute in carcere, tanto che ne era originariamente prevista l’applicazione soltanto per gli arresti domiciliari e per la “detenzione domiciliare” (art. 47-ter, comma 4-bis, L. 354/75 sull’Ordinamento Penitenziario)[2].
Per le peculiarità tecniche che lo contrassegnano, si è rivelato nel tempo mezzo determinante nel contrasto al “rischio di letalità”, cui sono esposte molte donne vittime di violenza di genere e domestica.
Ed infatti, sebbene, tra problematiche interpretative e non risolte difficoltà operative, abbia a lungo tradito le aspettative che aveva suscitato, nel 2013 la sua applicabilità è stata estesa (ad opera della L. 15 ottobre 2013, n. 119, emanata in esecuzione della Convenzione di Istanbul)[3], dapprima alla misura cautelare dell’allontanamento dall’abitazione familiare (art. 282-bis c.p.p.) e successivamente - con la legge n. 69/2019 - al “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” (art. 282-ter c.p.p.).
La nuova, prospettata, opportunità di utilizzo di questo dispositivo di monitoraggio e sorveglianza dell’indagato - particolarmente ampia se si ha riguardo al numero dei reati previsti nel comma 6 dell’art. 282-bis c.p.p. - riveste specifico rilievo nei casi in cui ricorra la pregnante necessità di proteggere una persona offesa “preventivamente individuata”, come tale “candidata” ad essere nuovamente vittima dello stesso indagato.
Questi i motivi per cui anche la stessa potenziale vittima è richiesta di prestare la propria collaborazione, dotandosi di un dispositivo che monitora il rispetto del divieto di avvicinamento entro un raggio spaziale delineato, allertando le forze dell’ordine e la stessa vittima, nel caso di violazione[4].
La descritta modalità di controllo, non è, in effetti, applicata quanto sarebbe opportuno, anche rispetto alle sue odierne potenzialità, come confermano i dati disponibili, secondo i quali, attualmente, i dispositivi elettronici attivi sono complessivamente 4.595, e quelli c.d. anti-stalking, che consentono di monitorare il rispetto delle distanze dalla potenziale vittima, sono 850[5].
Eppure, come conferma anche il caso in esame, l’impiego di detto dispositivo merita di essere riconsiderato, e ciò nonostante il perdurare di alcune problematiche operative, connesse – essenzialmente - ai tempi ed alle formalità necessari per la sua attivazione[6].
Se è pur vero che, nell’adozione di una misura cautelare, il giudice deve ispirarsi al principio del minimo sacrificio per la libertà personale dell’autore del delitto, tuttavia, quando procede per delitti caratterizzati dall’abitualità e dalla ripetitività delle condotte (il che si verifica quasi esclusivamente nei delitti di violenza di genere e domestica), esso è chiamato a valutare la natura ed il grado delle esigenze cautelari, procedendo ad una scelta "individualizzata, attribuendo rilievo specifico anche alla relazione “personale” tra l’autore e la sua vittima, “come tale spesso candidandosi ad essere nuovamente vittima dello stesso autore del reato per cui si procede”[7].
In queste ipotesi, il ricorso alle modalità di controllo mediante mezzi elettronici, può risultare fondamentale per la tutela e la protezione della stessa vittima.
Riguardo all’operatività della disposizione che le prevede – l’art. 275-bis c.p.p. – i giudici delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[8] hanno ritenuto che, a seguito della modifica legislativa di tale norma, ad opera della L. n. 10/2014[9], sono stati ribaltati i termini della valutazione del giudice in ordine all’applicazione di questa speciale forma di controllo: “Mentre prima della novella l’operatività dei meccanismi di cui all’art. 275-bis era subordinata alla circostanza che il giudice li ritenesse “necessari”, nella nuova formulazione della norma, essi devono essere sempre ordinati a meno che si ritengano non necessari, in relazione al grado ed alla natura delle esigenze da soddisfare …..”, tanto da auspicare che i giudici si impegnino in un “adeguato sforzo motivazionale … avendo “l'obbligo di spiegare le ragioni per le quali intendano ricorrere alla misura tradizionale piuttosto che a quella elettronicamente monitorata”.
Il monito assume un rilievo del tutto particolare, laddove il giudice ritenga di applicare una delle misure cautelari previste dagli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p. le quali, in ragione del richiamo in esse contenuto alle modalità di controllo previste dall’art. 275-bis, si deve ritenere che impongano sempre l’applicazione della misura, a meno che il giudice ritenga "non necessario il monitoraggio elettronico del sottoposto, ma in tale caso è necessario un rafforzato obbligo motivazionale in relazione al grado ed alla natura delle esigenze da soddisfare nell'ipotesi specifica”[10].
Proprio la richiamata valutazione (e la conseguente esplicitazione nelle motivazioni) costituisce elemento cruciale nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica, e postula un’adeguata specializzazione nei giudici, condizione necessaria che garantisce anche conoscenze dei principi sovranazionali, da tenere sempre presenti nelle valutazioni da operare, anche in sede cautelare.
Centrale, al riguardo, è la Direttiva 2012/29/UE sulle “Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”, che riconosce a tutte le vittime il “diritto alla protezione” e, pur facendo salvi i diritti della difesa, “richiede agli Stati membri di assicurare che sussistano misure per proteggere la vittima e i suoi familiari da vittimizzazione secondaria e ripetuta, intimidazioni e ritorsioni, compreso il rischio di danni emotivi o psicologici…”.
In questo contesto, secondo i giudici di legittimità[11] “La lettura delle norme interne alla luce delle indicazioni fornite dalla Direttiva è un obbligo che incombe sul giudice nazionale dato che le direttive, anche dopo la loro attuazione, costituiscono atti normativi di indirizzo che orientano l’interpretazione delle norme interne. Spetta al giudice nazionale dare alla legge adottata per l’attuazione della direttiva, in tutti i casi in cui il diritto nazionale gli attribuisce un margine discrezionale, una interpretazione ed una applicazione conformi alle esigenze dell’unione”.
Ma vi è un’ulteriore riflessione che merita svolgimento, ed attiene alla protezione delle vittime di violenza di genere e domestica che scaturisce dai principi previsti dalla Convenzione di Istanbul[12]. Dopo aver affermato - art. 2 - che le Parti “presteranno particolare attenzione alla protezione delle donne vittime di violenza di genere”, la Convenzione precisa, al successivo art. 18, che bisogna “proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza”; circa lo svolgimento dell’azione giudiziaria, non solo richiede espressamente una cooperazione “tra le autorità giudiziarie ed i pubblici ministeri”, ma sottolinea, anche, che le misure devono “essere basate su una comprensione della violenza di genere, e concentrarsi sulla sicurezza della vittima”.
Il legislatore convenzionale richiede, altresì (artt. 50 e seg. ), che “le autorità incaricate dell’applicazione della legge affrontino in modo tempestivo e appropriato tutte le forme di violenza”, che offrano “una protezione adeguata e immediata alle vittime ….” che siano valutati “il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno”.
Tutto questo richiede, come accennato, un giudice specializzato[13] capace, quindi, di procedere tempestivamente ad una corretta valutazione di tutti gli elementi del caso concreto, in grado di effettuare valutazioni e giudizi prognostici complessi, sin dall’acquisizione della “notitia criminis”, di individuare gli indici di rischio cui può essere esposta la persona offesa - a volte anche nella sua stessa inconsapevolezza -, e di applicare misure cautelari adeguate a fermare l’aggressore, garantendo la sicurezza personale della sua vittima[14].
Giudici “formati” nella rilevazione del rischio di letalità - cui sia eventualmente esposta la vittima - i quali, nell’individuazione della misura cautelare idonea, in relazione alle “esigenze cautelari” di cui all’art. 274 c.p.p., procedano nella prospettiva concreta indicata dai Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’uomo con la sentenza Talpis[15], nel cui testo si legge che “in materia di violenza domestica, il compito di uno Stato non si esaurisca nella mera adozione di disposizioni di legge che tutelino i soggetti maggiormente vulnerabili, ma si estenda ad assicurare che la protezione di tali soggetti sia effettiva”, e che “l'inerzia delle autorità nell'applicare tali disposizioni di legge si risolve in una vanificazione degli strumenti di tutela in esse previsti”.
Nell’esposizione delle problematiche tipiche della fase cautelare del procedimento penale, occorre considerare che il legislatore italiano, nel dare attuazione alle norme convenzionali e alla citata Direttiva europea, a decorrere dal 2009,[16] è intervenuto con modifiche legislative riguardanti il ruolo ed il contributo che la persona offesa può prestare per favorire la sua stessa protezione, attraverso il rafforzamento degli obblighi informativi per la vittima, ma anche prevedendo che essa possa fornire un suo contributo nello stesso procedimento cautelare.
Tra le più significative disposizioni, l’art. 282-quater c.p.p., che rende obbligatoria la comunicazione anche alla persona offesa dei provvedimenti applicativi della misure cautelari di cui agli artt. 282-bis e 282-ter, e l’art. 90-ter c.p.p., introdotto dal D.Lgs. n. 212/2015, che amplia gli obblighi di comunicazione con riguardo all’evasione e alla scarcerazione del violento.
Ruolo centrale è stato assegnato alle disposizioni dell’art. 299, comma 2-bis, c.p.p., che, attraverso ripetuti interventi normativi (a decorre da quelli introdotti con la legge n.119/2013, di esecuzione e ratifica della Convenzione di Istanbul), mirano ad assicurare una effettiva possibilità di partecipazione della vittima all’incidente cautelare.
Il percorso ha avuto un significativo potenziamento con la recente legge n. 69 del 2019, che ha rafforzato gli obblighi informativi anche nei confronti del difensore della vittima - “ove nominato” – con riguardo sia all’applicazione delle indicate misure cautelari (art. 282-quater c.p.p.), sia ai casi di evasione o scarcerazione dell’autore di violenza (art. 90-ter c.p.p.), ovvero all’ipotesi di revoca o sostituzione delle misure cautelari (art. 299 c.p.p.).
Trattasi di obblighi informativi dei quali non va sottovalutata la rilevanza, perché assolvono ad una funzione fondamentale, essendo “volti ad assicurare alla persona offesa, attraverso la presentazione di memorie ex art. 121 cod. proc. pen., uno strumento per offrire ulteriori elementi di conoscenza che, presumibilmente, possono essere desunti solo da un rapporto diretto tra vittima e aggressore”[17].
Pertanto, come rilevato in altra pronuncia dai giudici di legittimità[18], il diritto di ricevere le notifiche di cui all’art. 299, comma 3, c.p.p. nei casi di delitti commessi con violenza alla persona, è fondato sul rischio di “recidiva personale” per la vittima.
In altri termini, ricorrendo un rischio “personale”, candidandosi la vittima ad essere nuovamente vittima dello stesso autore del reato per cui si procede, la particolare relazione intercorrente tra autore e vittima, giustifica il sacrificio del diritto dell’indagato ad una rapida definizione dell’incidente cautelare a vantaggio del diritto della persona offesa a fornire il suo contributo alle decisioni in tema di libertà.
In questo ambito normativo e giurisprudenziale, è fondata la considerazione di carattere generale per la quale le persone offese da questa particolare tipologia di reati, hanno assunto un ruolo nuovo e diverso nel processo penale, dovendosi prendere atto che esse non sono presenti per vantare un mero diritto al risarcimento dei danni, quindi pretese di natura economica - che pure sussistono ed hanno spesso un rilievo non secondario -, ma innanzi tutto per essere salvaguardate dal rischio di reiterazione di aggressioni violente ad opera di uno stesso soggetto, ben individuato.
Quanto esposto legittima alcune ulteriori riflessioni sul caso all’attenzione del giudice che ha adottato i provvedimenti esaminati.
Innanzi tutto, il percorso giudiziario, in merito ai tempi di risposta del sistema, non si è rivelato adeguato; una prima denuncia della donna (risalente a diversi mesi prima dell’arresto dell’indagato), non risulta abbia avuto un seguito di rilievo, dopo un primo intervento delle forze di polizia presso l’abitazione del nucleo familiare, su richiesta della donna, atteso che, nella relativa annotazione, si legge che la donna “presentava evidenti escoriazioni ed ematomi sul corpo….riconducibili ad una lite con il compagno alla presenza dei figli”!
È evidente la “confusione”, non certo lessicale, tra “lite” e “violenza”, che non dovrebbe appartenere ad un operatore di polizia giudiziaria “specializzato”, tanto più che era anche emerso come la donna ed i bambini fossero stati costretti più volte ad allontanarsi dall’abitazione per sottrarsi alle aggressioni dell’uomo violento.
È stata pericolosamente ridotta al rango di “lite”, una grave forma di violenza domestica, mettendo sullo stesso piano la vittima e l’aggressore.
In sintesi: una violenza domestica non “letta”, non individuata, malgrado presentasse, fin da subito, i tratti caratteristici di questa forma criminale; l’escalation della violenza, la sua ripetitività, caratterizzata da gravi minacce di morte alla vittima-donna.
L’indagato, a ben considerare, presentava, sin dall’inizio, tutti i caratteri del soggetto affetto da pericolosità “specifica”, come può esserlo chi, alla presenza dei suoi tre bambini, usa sistematicamente violenza nei confronti della loro madre, non lavora, abusa di alcol e di stupefacenti, vive con i proventi del lavoro della convivente, ha precedenti penali e giudiziari e, per di più, si dichiara “geloso”, così rientrando nei parametri del “potenziale femminicida”.
Si consideri – in proposito – il dato statistico. Dall’indagine condotta dalla Commissione di Inchiesta del Senato sul femminicidio[19], l’analisi relativa ai 197 femminicidi commessi in Italia nel 2017/2018, riguardo agli autori dei delitti, ha rivelato che poco meno della metà degli assassini - il 46,4% - non svolgeva alcuna attività di lavoro, mentre il 60% delle donne uccise dall’ex convivente lavorava, il 32,3 % degli uomini aveva precedenti penali o giudiziari, più di un quarto (il 27,1%) era dipendente da alcol, droghe, psicofarmaci o altre sostanze[20].
La fattispecie in esame conferma, lo si ripete, l’esigenza, imprescindibile, di una valutazione di tipo “specialistico” da parte del magistrati, fin dall’immediatezza dell’acquisizione della notizia di reato, affinché la protezione della vittima non sia affidata al caso, alle intuizioni, più o meno fortuite o “felici”, dell’inquirente di turno[21].
Si consideri, anche, che, nel caso, un “ruolo” determinante nelle diverse fasi della vicenda delittuosa è stato svolto da persone “vicine” alla donna, in particolare da compagni di lavoro che avevano assistito a precedenti aggressioni e minacce e, certamente, uno di essi è stato “provvidenziale” nel proteggerla nell’ultima aggressione, quella che ha determinato la carcerazione dell’indagato.
Questa volta, una persona presente ai fatti non è rimasta “indifferente”, probabilmente ha contribuito a salvarle la vita, a conferma che la violenza - anche contro una donna - non deve mai essere considerata un fatto privato.
I rilievi ci fanno riflettere sul diritto alla vita di una persona, tutelato proprio dall’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Italia con L. n. 848/1955; i giudici della Corte Europea, nella citata sentenza Talpis, hanno ritenuto che questo diritto, oggetto di violazione ad opera dell’Italia, non può dipendere da mere coincidenze favorevoli: un giudice che applica correttamente lo strumento di controllo elettronico, una persona vicina alla vittima che non rimane indifferente alla sua aggressione.
Bisogna garantire un sistema, anche normativo, che assicuri -sempre ed in ogni fase del procedimento - la possibilità del concreto ed effettivo esercizio di tutti i diritti riconosciuti alla vittima, il primo dei quali è evidentemente quello alla vita.
Si ritengono, pertanto, maturi i tempi per garantire nel processo penale, a tutte le persone offese da questi delitti, una difesa tecnica, che deve essere obbligatoria ed effettiva, proprio in ragione delle diverse specificità – oggettive e soggettive - ampiamente richiamate, che rendono queste persone in condizione di “particolare vulnerabilità”, soprattutto quelle affettivamente e psicologicamente dipendenti dall’autore dei reati (art. 90-quater c.p.p.).
Difesa tecnica e specializzata, dunque, che assuma, dall’avvio del procedimento, le iniziative necessarie alla tutela della vittima vulnerabile, per la garanzia di una corretta tutela dei suoi diritti, nell’esercizio dei poteri processuali già indicati, nella prospettiva tracciata dall’art. 56 della Convenzione di Istanbul, che richiede “un'adeguata assistenza, in modo che i loro diritti e interessi siano adeguatamente rappresentati e presi in considerazione”.
Ricordando, infine, i moniti dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, contenuti nella sentenza Talpis: “i diritti dell’aggressore non possono prevalere sui diritti alla vita ed alla integrità fisica e psichica delle vittime”, ma anche che gli inquirenti devono procedere con serietà ed attenzione, poiché “la mancanza di diligenza pone inevitabilmente in dubbio la buona fede degli inquirenti agli occhi dei denuncianti, perpetuandone le sofferenze”.
[1] In tal senso Cass. Sez. U, Sentenza n. 20769 del 28/04/2016 Cc. (dep. 19/05/2016) Rv. 266651.
[2] Il comma 4-bis, aggiunto dall'articolo 17, comma 1, del D.L. n. 341/2000, è stato successivamente abrogato dall'articolo 3, comma 1, lettera f), del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 10.
[3] Al riguardo si veda: Cass. Sez. U., Sentenza n. 20769 del 28/04/2016 Cc. (dep. 19/05/2016) Rv. 266651 – 01, nella quale, dopo avere evidenziato la sostanziale disapplicazione della disciplina di questo istituto, il giudice di legittimità ha espressamente auspicato il potenziamento di questa strategia da parte degli organi politici ed amministrativi coinvolti al fine di aumentarne la disponibilità .
[4] Ci si riferisce al superamento delle iniziali riserve di diverse vittime donne a dotarsi del dispositivo in grado di rilevare la presenza dell’aggressore nelle vicinanze, generando, nel caso di violazione, allarme immediato al centro elettro di monitoraggio, strumento che necessariamente costituisce una limitazione della privacy.
[5] I dati sono stati acquisiti presso la competente struttura del Ministero dell’interno. In argomento ulteriori elementi di valutazione sono contenuti nelle risposte a due interpellanze parlamentari, la prima del 13712/2019 (n.2-00599) e la seconda del 15/1/2021 (n.2-01022). In particolare in quest’ultima il Ministero dell’interno ha riferito che al 31/12/2020 i braccialetti attivi erano 4215 .
Non è disponibile il dato sulle misure cautelari previste dagli artt. 282 bis e 282 ter, che sono in esecuzione ad aprile 2022 per i delitti di violenza di genere e domestica. Il dato statistico disponibile è quello pubblicato dal Ministero della Giustizia, secondo il quale nel 2018 sono state adottate complessivamente 86.697 misure cautelari e che gli allontanamenti dall’abitazione familiare –ex art. 282 bis c.p.p.- sono stati 3158.
[6] Ci si riferisce ai tempi di attivazione dei sistemi di monitoraggio previsti che sono: 10 e 4 gg. a seconda delle concrete modalità di comunicazione tra i dispositivi elettronici di sorveglianza ed il centro elettronico di monitoraggio, a seconda che debba avvenire attraverso la rete radiomobile mediante utilizzo della SIM o con linea fissa.
[7] In argomento vedi: Sez. 2, Sentenza n. 17335 del 28/03/2019 Cc. (dep. 19/04/2019) Rv. 276953.
[8] Vedi: Sez. U, Sentenza n. 20769 del 28/04/2016 Cc. (dep. 19/05/2016 ) Rv. 266651.
[9] La legge n. 10/2014, di conversione del D.L. n.146/2013, ha sostituito nel primo periodo del comma 1 dell’art. 275-bis in parola la locuzione “se lo ritiene necessario” con l’espressione “salvo che le ritenga non necessarie”.
[10] C.f.r Cass. Sez. Unite 28/4/2016, n. 20769, cit.
[11] Cass., Sez. 2, Sentenza n. 17335 del 28/03/2019, cit.
[12] Legge 27 giugno 2013, n. 77, Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011. (13G00122) (GU Serie Generale n.152 del 01-07-2013).
[13] Al riguardo si veda la Delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 9 maggio 2018 “sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica”, e la recente Delibera del 08/11/2021 prot. 20227/2021, sui “risultati del monitoraggio sull’applicazione delle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica”.
[14] In questo contesto occorre prendere atto che, a fronte di chiare e specifiche indicazioni della legislazione Convenzionale internazionale, sulla necessità che la materia sia trattata da magistrati specializzati, siamo ben lontani da questo traguardo, come risulta dal “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria” del 17/6/2021 della Commissione Parlamentare di inchiesta del Senato sul femminicidio e dalla citata delibera del CSM dell’8/11/2021 prot. 20227/2021. Se, infatti, il 90 % circa delle procure hanno adottato un sistema organizzativo che prevede la trattazione in via esclusiva della materia da parte di sostituti specializzati, in nessun tribunale del nostro Paese è prevista un’analoga organizzazione per gli uffici del Gip, che tuttavia, nel nostro ordinamento processuale svolge un ruolo fondamentale fino dall’avvio del procedimento penale.
[15] Corte Europea Diritti dell’uomo - Provvedimento del 02/03/2017, Numero del Ricorso: 41237/14. Caso: TALPIS contro ITALIA.
[16] Ci si riferisce al D.L. 23/272009 n.11 convertito nella L. 23/4/2009 n. 38 contenente misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”.
[17] In argomento si vedano: Sez. 2, Sentenza n. 43353 del 14/10/2015 Cc. (dep. 27/10/2015) Rv. 265094 e Sez. 6, Sentenza n. 6717 del 05/02/2015 Cc. (dep. 16/02/2015) Rv. 262272.
[18] Cass. Sez. 2 , Sentenza n. 17335 del 28/03/2019 Cc. (dep. 19/04/2019) Rv. 276953 - 01.
[19] Relazione della Commissione di inchiesta sul femminicidio su: “La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze . Il biennio 2017-2018”.
[20] Una dettagliata ed interessante analisi statistica dei femminicidi avvenuti in Italia nel 2017/2018 si trova nel capitolo II della Relazione della Commissione di inchiesta citata nella nota precedente.
[21] Una dettagliata ed interessante analisi statistica dei femminicidi avvenuti in Italia nel 2017/2018 si trova nel capitolo II della Relazione della Commissione di inchiesta citata nella nota precedente.
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