ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il dissesto finanziario degli enti locali tra tutela dei creditori, “diritto a un tribunale” e tutela della finanza pubblica (nota a Cons. Stato, Adunanza Plenaria n. 1/2022)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Il “diritto della crisi pubblica” e la dinamica dei dissesti - 2. Le criticità del dissesto e la rimeditazione ex art. 99, c. 3, c.p.a. - 3. Aspetti ricostruttivi sul dissesto - 3.1. Prima fase: il dissesto gestito dall’ente stesso. Il dissesto come procedura interna di risanamento - 3.2. Seconda fase: la netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente. Il dissesto come procedura concorsuale atipica - 3.3. Terza fase: il suo perfezionamento - 3.4. Quarta fase: l’incertezza: l’abbandono della disciplina, il venir meno della garanzia dello Stato e la sua ripresa - 3.5. Quinta fase: nuovi strumenti e i vincoli di finanza pubblica dopo la l. cost. n. 1/2012. Il dissesto guidato. Il c.d. predissesto o la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale - 4. L’antitesi Stato-mercato e i contro-limiti nella Plenaria n.1/2022.
1. Il “diritto della crisi pubblica” e la dinamica dei dissesti
Da un recente studio della Camera dei deputati[i] emerge che i comuni che hanno fatto ricorso alla procedura dal 1989 al 2019 sono 607, circa l’8% sul totale dei comuni italiani. Nell’arco del trentennio 45 comuni sono ricorsi per due volte alla procedura del dissesto. La distribuzione dei dissesti presenta una forte caratterizzazione geografica: l’82,4 % delle procedure di dissesto (537) riguarda comuni del Sud Italia, l’11,2 per cento comuni del Centro Italia e appena il 6,4 per cento comuni del Nord.
Il Rapporto Ca’ Foscari sui comuni 2020[ii], con un’analisi accurata di raccolta di dati e documentazione, evidenzia come la dinamica dei dissesti, in pratica azzerata tra il 1996 e il 2007, ha ripreso la crescita a partire dal 2008, con la grande crisi finanziaria: i comuni in dissesto che hanno deliberato la procedura tra il 2015 e il 2019 sono 147.
Evidenzia poi la Corte dei Conti in una sua recente relazione come i dissesti attivi, deliberati tra il 2016 e il 2020, sono 154 con una significativa concentrazione territoriale in Calabria (42 casi), Campania (35 casi) e Sicilia (40 casi). Nel complesso la popolazione dei Comuni in dissesto ammonta a 2.261.765 abitanti. I centri maggiori in dissesto sono: Catania, il più grande comune italiano in dissesto dal 2018 (311 mila abitanti), Terni (111 mila), Caserta (75 mila), Casoria (74 mila), Cosenza (66 mila), Benevento (59 mila), Marano di Napoli (59 mila) e Ardea (49 mila)[iii].
La correlazione tra crisi finanziaria e diritto in generale è oramai una costante e sta portando verso una riconfigurazione di alcune branche del diritto[iv]. Essa è in grado di provocare effetti modificativi sul diritto in generale e nello specifico su quello pubblico (ci si riferisce per gli aspetti considerati al diritto costituzionale e al diritto amministrativo e per quelli trattati al diritto finanziario e contabile, e al diritto dell’economia[v]).
La gestione della crisi e dell’insolvenza s’inserisce in un processo per materie che riguarda materie riferite ai sistemi di finanziamento e di contabilità, alla governance, ai sistemi di pagamento, alla disciplina del rapporto di lavoro, alle regole del mercato e della concorrenza, alla disciplina dei contratti pubblici, alle politiche di finanziamento fino ad arrivare agli aspetti patologici che incidono sull’operatività e sull’esistenza del soggetto stesso[vi].
In tale contesto si colloca l’istituto del dissesto degli enti locali che è uno strumento di risanamento. Di recente è stata definito dalla Corte dei conti come un microcosmo normativo[vii]. Il dissesto è quella fase patologica e irreversibile della vita finanziaria dell’ente territoriale che si verifica quando l’ente non è più in grado di assolvere le funzioni ed i servizi indispensabili ovvero quando esistono nei confronti dell’ente locale crediti liquidi, certi ed esigibili di terzi cui non si può trovare valida copertura finanziaria, a norma di legge, con mezzi di finanziamento autonomi dell’ente senza compromettere lo svolgimento delle funzioni e dei servizi indispensabili.
È un microcosmo perché racchiude le disposizioni che regolano, nel dettaglio, l’intera attività dell’organo straordinario di liquidazione ed al quale va riconosciuto un proprio statuto informato al principio della par condicio creditorum e alla tutela della concorsualità, da presidiarsi proprio da detto organo quale “dominus esclusivo della peculiare procedura finalizzata al risanamento dell’ente”, il quale nel tempo ha assunto una propria specificità, connotandosi sempre più quale organo sostitutivo di quelli ordinari dell’ente, titolare di elevati poteri organizzatori[viii].
2. Le criticità del dissesto e la rimeditazione ex art. 99, c. 3, c.p.a.
La disciplina giuridica sul dissesto può considerarsi un caso di “stortura” e “incertezza” giuridica che è culminata a seguito dell’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001 e della conseguente infinita attesa di attuazione del c.d. federalismo fiscale.
Per molto tempo, infatti, è mancata una visione unitaria e coordinata tra l’indebitamento e il risanamento dell’ente locale che sono da annoverarsi tra gli aspetti fondamentali dell’esistenza amministrativa e finanziaria degli stessi.
Mancava altresì una altrettanto unitaria e coordinata visione tra la qualifica odierna dell’amministrazione pubblica intesa come operatore del mercato (che regola le attività economiche) e come operatore nel mercato (che svolge attività di tipo economico in alternativa o in concorrenza con i soggetti privati, ma soprattutto oggi si pone come un consumatore ottimale che necessita di approvvigionamento, di fornitura di beni e servizi, di opera di beni) e tra la qualifica classica dell’amministrazione come operatore giuridico il cui agire deve essere improntato alla cura dell’interesse collettivo, inteso quale interesse alieno, e al rispetto, sul piano finanziario-contabile, delle garanzie obiettive della collettività alla destinazione del danaro pubblico al fine pubblico e alla correttezza dei criteri di gestione[ix].
La disciplina sul dissesto è una materia relativamente nuova che nel corso dei decenni ha subito importanti interventi non solo dal legislatore, costituzionale e ordinario, ma anche dalla stessa Corte costituzionale, dalla Cedu, dall’Adunanza Plenaria e dal giudice amministrativo in generale nonché dalla Corte dei conti.
La disciplina sul dissesto ha spesso rappresentato terreno di confronto su una serie di questioni che vanno da quelle di natura finanziaria (chi paga?), a quelle costituzionali (di chi è la competenza legislativa?[x] quali limiti ha lo Stato nel garantire i debiti degli enti locali?), fino a alle questioni obbligazionarie (come sono soddisfatti i creditori?) e a quelle procedurali (a chi spetta la gestione della crisi?).
Il recente dibattito si è concentrato sulla questione della soddisfazione dei creditori tra sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo e dell’Adunanza plenaria e così la conformità della normativa sul dissesto con la Convenzione Edu e la Costituzione.
La sezione V del Consiglio di Stato, con ordinanza 21 aprile 2021, n. 3211, ha chiesto che l’Adunanza plenaria rimediti la questione già affrontata con la sentenza n. 15 del 5 agosto 2020[xi] e di considerare i principi non affrontati nella precedente pronuncia n. 15/2020 e, in particolare, quelli emersi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Quest’ultima già nella sentenza n. 43780/2004 del 24 settembre 2013, De Luca c/o Italia ha affermato che l’avvio della procedura di dissesto finanziario a carico di un ente locale e la nomina di un organo straordinario liquidatore, nonché il successivo d.l. n. 80/2004 che impediva i pagamenti delle somme dovute fino al riequilibrio del bilancio dell’ente, non giustificano il mancato pagamento dei debiti accertati in sede giudiziaria, poiché lesive dei principi in materia di protezione della proprietà e di accesso alla giustizia riconosciuti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo[xii].
La pronuncia della Corte aveva come presupposto una situazione di ritardo nella soddisfazione delle pretese e che di fatto assumeva le connotazioni di una espropriazione violando i principi della tutela della proprietà, dell’accesso alla giustizia e della ragionevole proporzione tra i rimedi messi a disposizione. Infatti, secondo la Corte, lo stato di dissesto di un comune dichiarato nel 1993, a fronte del riconoscimento di un credito con sentenza del 2003, ancora paralizzato al momento della pronuncia del 2013, aveva virtualmente privato il ricorrente del suo diritto di accesso a un tribunale per un periodo eccessivamente lungo, con il conseguente venire meno del ragionevole rapporto di proporzionalità che deve esistere tra i mezzi impiegati e lo scopo prefisso.
Il principio espresso dalla Plenaria n. 15/2020 consisteva invece nel sostenere che sono attratti nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, e non rientrano quindi nella gestione ordinaria, non solo le poste passive pecuniarie già contabilizzate alla data della dichiarazione di dissesto, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della competenza amministrativa, ma anche tutte le svariate obbligazioni che, pur se sorte in seguito, costituiscano comunque la conseguenza diretta e immediata di atti e fatti di gestione pregressi alla dichiarazione di dissesto[xiii].
La differenza non è di poco conto in quanto ove i crediti rientrino nella massa liquidatoria si applica il principio della concorsualità, della par condicio creditorum con probabilità di riduzione dell’importo e la regola del blocco delle esecuzioni, nell’altra ipotesi invece l’obbligazione rientra nella gestione ordinaria con pieno riconoscimento della pretesa.
Sulla posizione della Plenaria n. 15/2020 è stata chiesta una rimeditazione, ai sensi dell’art. 99, c. 3, c.p.a., e in particolare sull’interpretazione del combinato disposto dell’art. 252 c. 4, d.lgs. 267/2000, nonché dell’art. 5 c. 2 del d.l. 80/2004 convertito nella l. n. 140/2004 in un’ottica costituzionalmente orientata e anche conforme ai principi dettati dalla Cedu[xiv].
Nel caso di specie, il Comune resistente aveva dichiarato il dissesto in data 19 giugno 2017 e il decreto ingiuntivo era stato emanato dopo tale dichiarazione, pur riferendosi a fatti che precedevano lo stato di dissesto, con la conseguenza che la pretesa dei creditori non avrebbe potuto trovare accoglimento, alla luce di quanto affermato dalla Plenaria n. 15/2020.
I creditori dopo aver ottenuto l’ingiunzione di pagamento attivavano la richiesta di adempimento con giudizio di ottemperanza avanti al Tar Lazio. Quest’ultimo aveva dichiarato il ricorso inammissibile considerato che il Comune aveva dichiarato lo stato di dissesto finanziario e che, ai sensi dell’art. 248, c. 2 TUEL dalla data della predetta dichiarazione e sino all’approvazione del rendiconto di gestione da parte dell’organo straordinario di liquidazione, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’ente per i debiti che rientrano nella competenza del predetto organo straordinario (cfr. in ultimo Tar Lazio, II bis, n.1768 del 2019)[xv].
L’analisi storica dell’istituto del dissesto ci permette comprendere meglio la fattispecie in quanto l’impostazione e il modello funzionale del dissesto basato sulla separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, dopo un percorso importante, e come lo ribadisce la stessa Plenaria n. 1, ha assunto una fisionomia analoga al fallimento privatistico, il quale, come è noto, non è sottoposto a termini finali certi senza che, per questo, si sia dubitato della sua legittimità costituzionale, trattandosi peraltro di un istituto diffuso a livello comunitario.
3. Aspetti ricostruttivi sul dissesto
3.1. Prima fase: il dissesto gestito dall’ente stesso. Il dissesto come procedura interna di risanamento.
Il testo unico della legge comunale e provinciale, il R.d. n.383/1934, ha ignorato del tutto l’argomento, a lungo trascurato anche dopo l’instaurazione dell’ordinamento repubblicano. Dapprima la giustificazione si poteva rinvenire nel modello statocentrico dove i comuni e province erano considerati organi di amministrazione indiretta dello Stato, a base territoriale, che perseguivano interessi coincidenti con quelli statali e quindi da assoggettare a un penetrante controllo, di legittimità e di merito, in ossequio al principio dell’unitarietà dell’azione amministrativa.
A seguito della riforma tributaria degli anni Settanta del Secolo scorso fu instaurato un sistema caratterizzato dall’accentramento delle entrate, lasciando in vita solo pochi tributi locali, e dal decentramento della spesa[xvi]. La trasformazione della finanza locale in finanza pressoché interamente derivata, cioè composta prevalentemente da trasferimenti statali, e in minor misura anche regionali, ha comportato una certa propensione degli enti locali, in specie del Comune, a spendere risorse che più non erano onerati a procacciarsi: in ogni caso il rifinanziamento dello Stato, attraverso il Ministero dell’Interno, sarebbe sempre intervenuto a risolvere le situazioni finanziariamente più delicate[xvii].
Nel corso degli anni il comportamento scarsamente responsabile delle amministrazioni locali si è tradotto soprattutto nell’assumere in pianta stabile spese eccedenti: ne è un esempio lampante l’ampliamento spesso irragionevole delle piante organiche, con conseguente abnorme incidenza delle spese di personale sulle spese correnti (talvolta oltre il 60%).
Il fenomeno del dissesto incominciava, dunque, ad assumere proporzioni preoccupanti e sembrò evidente l’insufficienza, almeno nel lungo periodo, del ricorso all’aiuto statale: fin dalla fine degli anni Settanta del Secolo si pose l’esigenza di correggere e di regolamentare appropriatamente la gestione finanziaria degli enti locali.
Il d.P.R. n. 421/1979 ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio: ma tale obbligo, anziché sortire una maggiore oculatezza e responsabilizzazione nei comportamenti finanziari locali, venne fin da subito facilmente eluso. Infatti, il pareggio di bilancio magicamente si materializzava attraverso una sovrastima delle entrate ed una sottostima delle spese e poco importava che, dato il carattere meramente formale di questo pareggio, i fondi prima o poi, durante la gestione, si esaurivano, costringendo le amministrazioni all’indebitamento per far fronte ai sempre più numerosi debiti fuori bilancio.
Il grave fenomeno dei debiti fuori bilancio fu rappresentato per la prima volta dal d.l. n.318/1986, convertito in l. n. 488/1986, il cui art. 1 bis, rubricato “Controllo di gestione” ammoniva gli enti locali al rispetto degli equilibri di bilancio ed al pareggio di bilancio.
Il suddetto articolo 1 bis non riuscì a contrastare con efficacia le più gravi forme di indebitamento spesso derivanti da attività anche formalmente illegittime. Il legislatore statale decise di dettare le prime sostanziali norme in materia, quelle contenute negli artticoli 23, 24 e 25 del d.l. n. 66/1989 convertito nella l. n.144/1989[xviii].
L’art. 25 l. n. 144/1989 introduceva, per la prima volta, il concetto di dissesto per quegli enti locali che non erano in grado di sanare la propria situazione debitoria. Esso affidava la gestione del risanamento allo stesso ente locale che aveva dichiarato lo stato di dissesto[xix]. In questa prima versione dell’istituto del risanamento, l’ente dissestato adottava, a mezzo dei propri organi istituzionali, un unico strumento denominato piano di risanamento finanziario, e destinato sia a regolare i rapporti pregressi che a gettare le basi per una futura corretta conduzione finanziaria.
La normativa sul dissesto prevedeva un intervento eccezionale dello Stato, nel caso in cui gli enti non potessero far fronte ai debiti con l’autofinanziamento, ma chiedeva all’ente locale di contribuire al risanamento attraverso l’adozione di provvedimenti del pari eccezionali. Lo Stato infatti consentiva all’ente dissestato di contrarre con la Cassa depositi e prestiti un mutuo per il finanziamento dell’indebitamento pregresso[xx] il cui onere era a totale carico dello Stato stesso. Lo Stato assicurava l’adeguamento dei contributi correnti alla media pro-capite della fascia demografica di appartenenza, nel caso degli enti sottodotati, nonché il rimborso degli oneri del personale posto in mobilità e la conservazione per sempre dei relativi fondi.
In un primo momento alcuni enti dichiararono il dissesto con una certa leggerezza, allettati dal rilevante contributo statale, e convinti che non fossero poi così stringenti i provvedimenti da adottare. In effetti così non era. Nonostante questi innegabili vantaggi i provvedimenti da adottare in materia di personale e di tributi locali erano ritenuti così pesanti che gli enti arrivavano alla dichiarazione di dissesto solo quando, a seguito delle azioni esecutive dei creditori, non era più possibile pagare gli stipendi al personale dipendente.
3.2. Seconda fase: la netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente. Il dissesto come procedura concorsuale atipica
Con l’art. 21, d.l. n. 8/93, conv. in l. n. 68/93, si è proceduto alla separazione delle competenze tra la gestione della situazione pregressa affidata ad un Organo straordinario di liquidazione e la gestione ordinaria che l’ente locale doveva impostare in modo innovativo, redigendo un’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.
Con il d.l. n. 8/93, si passa quindi ad una netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente. In tal modo l’amministrazione locale deve esclusivamente occuparsi del bilancio risanato dal quale iniziare una nuova vita in modo da non ricadere nel disavanzo.
Lo scopo della normativa sul dissesto è liberare gli enti locali dall’indebitamento pregresso e assicurare condizioni di stabile riequilibrio della gestione finanziaria[xxi]. Originariamente la disciplina del risanamento degli enti locali dissestati mostrava una maggiore attenzione agli interessi degli enti ponendo in secondo piano le ragioni dei creditori. In tempi più recenti, anche a seguito di pronunce della Consulta[xxii], il legislatore ha mostrato maggiore attenzione al bilanciamento degli opposti interessi del risanamento dell’ente locale e della piena tutela della posizione dei creditori evidenziando la par condicio creditorum.
In particolare, spicca l’accostamento, sul piano della struttura della procedura, alle procedure concorsuali applicabili al settore delle imprese.
Il fallimento si propone di soddisfare i creditori del debitore insolvente, applicando nella maniera più ampia possibile il principio della par condicio creditorum e destinando la totalità dell’attivo alla totalità dei creditori: la sorte dell’impresa fallita è la sua cancellazione dal mondo giuridico[xxiii].
La normativa in materia di risanamento, invece, se, da un lato, mira a quantificare i debiti esistenti alla data della deliberazione di dissesto, a reperire la massa attiva ed a distribuirla ai creditori - in ciò si ravvisa, dunque, una chiara analogia con le procedure concorsuali - dall’altro, si propone uno scopo ulteriore, e decisamente qualificante, che è la correzione dei guasti della precedente gestione finanziaria, al fine di rimettere l’ente in grado di funzionare senza squilibri e di svolgere i compiti per i quali esso è costituito[xxiv].
La somiglianza della procedure con quella del fallimento privatistico si rinveniva nel fatto che il contributo dello Stato per il pagamento dell’indebitamento pregresso veniva quantificato in rapporto alla popolazione dell’ente dissestato, ma, sempre in rapporto a tale popolazione, e così veniva fissato un importo massimo accordabile.
3.3. Terza fase: il suo perfezionamento
Con il d.P.R. n. 378/93 è stato approvato il regolamento recante norme sul risanamento degli enti locali, la cui disciplina oggi può ritenersi in gran parte superata dalle disposizioni dettate dal d.lgs. n. 77/1995, ed ora dal t.u. ord. enti locali[xxv].
Poi con il d.lgs. n. 336/1996 seguirono ulteriori modifiche, che hanno previsto una esaustiva definizione di dissesto finanziario.
Infatti, fino a quel momento non poche incertezze ruotavano attorno alla definizione stessa del dissesto. Lo stato di dissesto, secondo la normativa richiamata, consiste nella situazione in cui l’ente non può garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero quando esistono nei confronti dell’ente crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa far validamente fronte[xxvi]. Si esclude qualsiasi discrezionalità per quanto riguarda la declaratoria di dissesto dell’ente, il quale, in presenza di dati obiettivi, è “obbligato” a dichiararla.
L’ intera disciplina del risanamento finanziario, infine, è confluita nel t.u. ord. enti locali (il d.lgs. n. 267/00).
Sono poi intervenute, in materia procedurale il d.l. n. 13/02, conv. in l. n. 75/02 e il d.l. n. 50/03 conv. in l. n. 116/03 che hanno aggiunto nuove disposizioni al presente t.u. ord. enti locali (artt. 268 bis e 268 ter). Infine, entrambi gli articoli citati sono stati ulteriormente modificati ed integrati dal d.l. n. 44/05 conv. in l. n. 88/05.
3.4. Quarta fase: l’incertezza: l’abbandono della disciplina, il venir meno della garanzia dello Stato e la sua ripresa
L’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ha innescato una serie di sconvolgimenti nell’istituto del dissesto finanziario. In attesa dell’ attuazione Titolo V della parte II Cost. Si è proceduto, in un primo momento all’abrogazione delle disposizioni del titolo VIII della parte II t.u. ord. enti locali ed in particolare la soppressione della contribuzione statale sul relativo onere di ammortamento.
La l.f. per il 2003 (art. 31, comma 15, l. n. 289/02), a seguito delle modificazioni apportate al Titolo V della parte II Cost. ed in attesa della fissazione dei nuovi principi generali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, in un primo momento, ha disposto l’abrogazione delle disposizioni del titolo VIII della parte II t.u. ord. enti locali che disciplinano l’assunzione di mutui per il risanamento degli enti locali dissestati, nonché la contribuzione statale sul relativo onere di ammortamento.
Successivamente, con la l. f. per il 2004 (art. 4, comma 208, l. n. 350/03) si è sostituita l’abrogazione con la non applicazione di detta normativa e si è eliminata la previsione che le disposizioni continuassero ad applicarsi per i dissesti deliberati antecedentemente alla riforma costituzionale.
Sorsero non pochi dubbi sulla capacità degli enti dissestati di poter trovare le risorse per risanarsi, ma è pur vero che il pregresso sistema, probabilmente, deresponsabilizzava in maniera eccessiva gli enti stessi[xxvii]. La disciplina, necessariamente condizionata dal divieto della garanzia statale sull’indebitamento degli enti locali introdotto dall’art. 119, ult. c. Cost, consente l’assunzione di oneri da parte dello Stato non inferiori a quelli che assicurino l’erogazione di livelli essenziali di prestazioni a favore dei cittadini degli enti in dissesto, ferma l’opportunità di procedure di controllo, monitoraggio e segnalazione che evidenzino anticipatamente situazioni di difficoltà finanziaria[xxviii].
Attualmente l’intervento sussidiario dello Stato è previsto sotto varie forme.
L’art. 15-bis, l. n. 160/2016 di modifica dell’art. 256, c. 12, TUEL. prevede che in caso di massa attiva incapiente, tale da compromettere il risanamento dell’ente il Ministro dell’interno può stabilire misure straordinarie per il pagamento integrale della massa passiva della liquidazione, anche in deroga alle norme vigenti, in questo caso senza tuttavia oneri a carico dello Stato.
L’articolo 53, c. 1, d.l. n. 104/20 ha istituito un fondo, con una dotazione di 100 milioni di euro per il 2020 e 50 milioni per il 2021 e il 2022, finalizzato a favorire il risanamento finanziario dei comuni che presentano un deficit strutturale, non derivante da patologie organizzative, bensì dalle caratteristiche socio economiche della collettività e del territorio, in attuazione della sentenza n. 115/2020 della Corte costituzionale che ha voluto affermare il profilo dell’equità intergenerazionale. La sentenza stabilisce, in un obiter dictum, che le misure statali di risanamento finanziario in favore degli enti territoriali possono giustificarsi in presenza di deficit strutturale, imputabile alle caratteristiche socio-economiche della collettività e del territorio, e non a patologie organizzative, come nel caso di inefficienze amministrative legate alla riscossione dei tributi.
Con D.M. 11 novembre 2020 sono state ripartite risorse del fondo (200 milioni di euro nel triennio 2020-2022) .
La legge di bilancio 2021 n. 178/2020, art. 1 c. 775-777, ha incrementato la dotazione del fondo per il sostegno ai comuni in deficit strutturale.
Il d.l. n. 34/2019, art. 38, c. 1-septies, ha previsto l’istituzione di un fondo per il concorso al pagamento del debito dei comuni capoluogo delle città metropolitane[xxix].
3.5. Quinta fase: nuovi strumenti e i vincoli di finanza pubblica dopo la l. cost. n. 1/2012. Il dissesto guidato. Il c.d. predissesto o la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale.
L’ulteriore evoluzione è rappresentata dalla costruzione di un sistema di contenimento della crisi in base al principio della proporzionalità, della precauzione e della gradazione degli strumenti di risoluzione delle crisi al fine di ampliare le possibilità per gli enti locali di correggere gli squilibri finanziari ed evitare le conseguenze negative del dissesto che è l’ultima ratio.
In tale ottica sono stati introdotti il dissesto guidato e il predissesto.
Il dissesto guidato è stato introdotto dall’art. 6, c. 2, d.Lgs. 6 settembre 2011, n. 149 nel quale assumono un ruolo centrale le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Tale procedura è finalizzata a prevenire situazioni di squilibrio finanziario e a fare più facilmente emergere i casi di dissesto finanziario. In particolare, la norma prevede che qualora dalle pronunce delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti emergano comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria, violazioni degli obiettivi della finanza pubblica allargata e irregolarità contabili o squilibri strutturali del bilancio dell’ente locale in grado di provocarne il dissesto finanziario, la Corte dei conti assegna all’ente un termine ai fini dell’adozione delle misure correttive necessarie.
Qualora l’ente non provveda, entro il termine assegnato dalla Corte dei Conti, ad adottare le
misure (o comunque le misure adottate non siano ritenute soddisfacenti), la Corte trasmette gli atti al Prefetto (e alla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica), il quale, accertato (entro trenta giorni) il perdurante inadempimento dell’ente locale e la sussistenza delle condizioni di grave squilibrio, assegna al Consiglio un termine non superiore a venti giorni per la deliberazione del dissesto. In caso di inerzia del Consiglio, il Prefetto nomina un commissario per la deliberazione dello stato di dissesto, dando così corso alla procedura di scioglimento del consiglio dell’ente ai sensi dell’art. 141 TUEL.
Gli articoli 243-bis e seguenti del TUEL, inseriti dal d.l. n. 174 del 2012, invece, hanno introdotto la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (c.d. predissesto) degli enti locali che versano in una situazione di squilibrio strutturale del bilancio, in grado di provocarne il dissesto finanziario, allo scopo di evitare, a tali enti, la dichiarazione di dissesto.
La condizione giuridico finanziaria è rappresentata dalla condizione di squilibrio rilevante il si individua nell’incapacità dell’ente di adempiere alle proprie obbligazioni esigibili a causa della mancanza di risorse effettive a copertura delle spese e, solitamente, della correlata mancanza o grave carenza di liquidità disponibile; tale squilibrio è "strutturale" quando il deficit – da disavanzo di amministrazione o da debiti fuori bilancio – esorbita le ordinarie capacità di bilancio e di ripristino degli equilibri e richiede mezzi ulteriori, extra ordinem (in termini di fonti di finanziamento, dilazione passività, ecc.).
La peculiarità dell’istituto del cd. predissesto risiede nel fatto che la procedura è avviata autonomamente dell’ente, con l’obiettivo di valorizzare la responsabilità degli organi ordinari nell’assunzione delle iniziative per il risanamento.
La disciplina del predissesto, ha subito numerose integrazioni e modifiche normative, principalmente volte a consentire agli enti locali, la facoltà di riformulazione e/o rimodulazione dei piani di riequilibrio, per lo più legate all’esigenza di coordinamento tra i contenuti del piano di riequilibrio e gli eventuali effetti peggiorativi derivanti dall’adozione degli adempimenti previsti per il passaggio al sistema di contabilità armonizzata, introdotta dal d.Lgs. n. 118/2011.
Specifiche disposizioni sono state adottate, inoltre, a seguito della crisi connessa all’emergenza epidemiologica da Covid-19.
Sul punto era intervenuta la Corte costituzionale con sent. 14 febbraio 2019, n. 18 censurando l’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015 sost. dall’art. 1, c. 434, l. n. 232/2016 in quanto l’ammortamento sulle anticipazioni di liquidità che consentono agli enti locali in predissesto di finanziare il disavanzo di parte corrente, spalmato su un arco temporale di trent’anni, viola il principio dell’equilibrio dinamico del bilancio al quale tutte le pubbliche amministrazioni sono costituzionalmente soggette, e si pone in contrasto con il principio di responsabilità politica degli amministratori locali di fronte ai propri elettori e contraddicono elementari principi di equità tra le generazioni presenti e future.
Sentenza importante anche per aver riconosciuto la legittimazione delle Sezioni regionali ad adire il Giudice delle leggi nell’ambito del controllo di legittimità-regolarità sui bilanci degli enti territoriali e, in particolar modo, nell’esercizio dei poteri di vigilanza sull’adozione e sull’attuazione delle misure di riequilibrio finanziario.
4. L’antitesi Stato-mercato e i contro-limiti nella Plenaria n.1/2022
La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1/2022 si innesta in questa trama ed è chiamata a rimeditare la posizione assunta nella precedente n. 15/2020 sul rapporto tra la procedura di liquidazione straordinaria e sulla collocazione dei crediti nella procedura di dissesto.
La Plenaria ha comunque confermato la precedente posizione assumendo una posizione di tutela dei conti pubblici senza però pregiudicare la posizione dei creditori privati e le loro pretese.
La trama è data dalla collocazione del dissesto finanziario all’interno dell’antitesi Stato-mercato.
La motivazione della Plenaria a mio avviso è chiara e logica, quasi non necessaria se non per il fatto di essere messa di fronte alla pronuncia della Cedu n. 43780/2004 del 24.9.2013 (De Luca c/o Italia, orientamento che secondo la Plenaria non risulta completamente consolidato a livello di Corte dei diritti dell’uomo).
La Cedu giustamente afferma che un credito certo, liquido ed esigibile, com’è quello derivante da una sentenza passata in giudicato, è un bene e pertanto il mancato pagamento di quel credito reca offesa al diritto al rispetto dei beni del creditore e che la mancanza di risorse di un comune non può giustificare la mancata soddisfazione di un credito certo, liquido ed esigibile derivante da una sentenza passata in giudicato; pertanto, trattandosi di una collettività locale, cioè di un organo dello stato, è quest’ultimo che risulta obbligato a pagare”.
E più incisivamente ribadisce che ne consegue l’obbligo per lo Stato di appartenenza di pagare le somme dovute dagli enti locali nei termini e secondo le modalità prescritte dalla convenzione.
Tuttavia sulla scorta di questa sentenza si vorrebbe applicare senza riserve un tale assunto imputando all’apparato pubblico (ente locale e in ultima istanza allo Stato) l’obbligo di pagare in ogni caso e non solo nelle ipotesi emerse in quella situazione concreta descritta dalla sentenza Cedu n. 43780/2004 (v. sopra) che era di sostanziale espropriazione del credito per effetto dell’eccessiva durata della procedura.
Non si vede la ragione per la quale lo Stato dovrebbe in ogni caso pagare considerate le previsioni degli artt. 81, 97 e 119 Cost. sull’indebitamento e sulle garanzie statali.
La costruzione del sistema del dissesto caratterizzato dalla separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, attesta una fisionomia analoga al fallimento privatistico, il quale blocca le azioni esecutive, instaura una procedura liquidatoria competitiva a garanzia della par condicio creditorum e non è sottoposto a termini finali certi senza che, per questo, si sia dubitato della sua legittimità costituzionale, trattandosi peraltro di un istituto diffuso a livello eurocomunitario.
Inoltre nel caso del dissesto, a differenza dalla posizione storica ante riforma del Titolo V della Costituzione e della l. cost. n. 1/2012, è comunque previsto un intervento, sia pure non illimitato, dello Stato, con funzione tipica di “pagatore di ultima istanza” all’interno del sistema di finanza pubblica che da esso promana.
Nota, infatti, la Plenaria che a ciò si contrappone un regime dei debiti commerciali dell’ente locale proprio delle transazioni tra imprese, in cui non sono ordinariamente previsti interventi di sostegno pubblico contro l’insolvenza.
La questione, come è stato notato[xxx], è forse un’altra e riguarda essenzialmente il rapporto delle norme interne con quelle euro-unitarie e internazionali, potendosi ravvisare sul punto e sulla teoria dei contro-limiti una differenza di vedute tra le recenti posizioni della Corte di giustizia UE e del Consiglio di Stato.
In effetti la Corte di giustizia UE, Grande sezione, 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad Italia s.p.a. ha ritenuto, in via generale, che tutte le norme di diritto interno, anche costituzionali, non possono pregiudicare l’unità e l’efficacia del diritto dell’Unione e gli effetti di tale principio si impongono a tutti gli organi di uno Stato membro, senza che le disposizioni interne relative alla ripartizione delle competenze giurisdizionali possano opporvisi[xxxi].
Invece la Plenaria n. 1/2022 assume la posizione secondo la quale ove si ravvisi un contrasto della legge nazionale con i parametri della CEDU, la soluzione non può essere l’applicazione diretta della stessa e l’unica strada consentita all’interprete è rimettere la questione alla Corte costituzionale perché valuti la costituzionalità della legge alla luce del parametro interposto descritto dall’art. 117, comma 1, Cost.[xxxii].
Talché le norme internazionali – che assumono nel giudizio di costituzionalità la consistenza di parametro interposto ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. – prima di poter essere applicate dal giudice nazionale quale fonte del diritto, devono essere valutate come conformi alle disposizioni della Costituzione e non solo ai principi costituzionali fondamentali[xxxiii].
Per quanto riguarda l’aspetto sostanziale sulla compatibilità della disciplina la Plenaria riconosce che le caratteristiche del procedimento di dissesto siano espressive di un equilibrato e razionale bilanciamento, a livello normativo, con la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale, e, dall’altro lato, di tutelare i creditori.
L’equilibrio così delineato sul piano della vigente normativa, secondo la Plenaria, rende evidente e manifesto che la disciplina sullo stato di dissesto non può ritenersi contrario ad alcun parametro costituzionale, né in via diretta né attraverso il meccanismo della norma interposta ex art. 117, comma 1, Cost.
[i] Camera dei deputati, Servizio studi, XVIII legislatura, Dissesto e procedura di riequilibrio finanziario degli enti locali, 10 febbraio 2022, in https://temi.camera.it/leg18/temi/dissesto-e-predissesto-finanziario-degli-enti-locali.html.
[ii] Rapporto Ca’ Foscari sui comuni 2020, in http://www.cafoscari.eu/studi/public/elen_info.php.
[iii] Corte dei Conti, Relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali, 2021
[iv] F. Merusi, Il sogno di Diocleziano. Ruolo del diritto pubblico nelle crisi economiche, in Riv. Trim. dir. Economia, 1, 2013, 3.
[v] F. Fracchia, Il diritto dell’economia alla ricerca di uno spazio nell’era della globalizzazione, in Dir. dell’economia, 25, n. 77, 11-37.
[vi] Sul modello del processo per materie si rinvia a S. Cassese, La nuova architettura finanziaria europea, in Giorn. dir. amm., 2014, 1, 79. Sia consentito per la crisi e fallibilità delle società pubbliche il mio Le società partecipate tra crisi e insolvenza, in DeS, 2, 2015, 317-365.
[vii] Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, 20 luglio 2020, n. 12/2020/QMIG, in https://www.corteconti.it/Download?id=8732180d-477b-4d7c-8631-1e89d4ae48d1.
[viii] G. Vinciguerra, Riconoscimento dei debiti fuori bilancio nei Comuni in dissesto: il parere della Corte dei conti (deliberazione Sezione Autonomie n. 12/2020), in lentepubblica.it.
[ix] F.G. Scoca, in Diritto Amministrativo, Bologna, 2005, a cura di Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi Monaco, Scoca, p. 291 – 299.Sia ancora consentito il rinvio al mio La dinamica relazionale tra collettività e attività finanziaria, in DeS, 2, 2021, pp. 181-222
[x] Come esempio il caso della l.r. della Sardegna n. 13/05, integrata dalla l.r. n. 8/06, ha introdotto l’art. 5bis rubricato “Competenze della Regione” il quale ha stabilito che le funzioni attribuite alle prefetture dal d.lgs. 267/00 sono esercitate dalla Regione Sardegna, salvi alcuni casi.
[xi] La questione oggetto di deferimento ruotava intorno all’interpretazione da riconoscere all’espressione “atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”, contenuta nell’art. 252 TUEL, ovvero al significato da attribuire alla clausola normativa di tipo interpretativo del predetto disposto del TUEL, aggiunta dal citato decreto legge del 2004, l’Adunanza afferma di ritenere che “rientrino nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, non solo le poste passive pecuniarie già contabilizzate alla data della dichiarazione di dissesto, bensì anche tutte le svariate obbligazioni che, pur se stricto jure sorte in seguito, costituiscano comunque la conseguenza diretta ed immediata di «atti e fatti di gestione» pregressi alla dichiarazione di dissesto”.
[xii] L. Mercati, Il dissesto degli enti locali dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, in Giur. it., 2014, 373.
[xiii] Con l’ordinanza 20 marzo 2020, n. 1994, la IV Sezione del Consiglio di Stato, trattando di una vicenda di acquisizione sanante che obbligava un ente locale al pagamento dell’indennizzo e del risarcimento ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, ha rimesso all’Adunanza plenaria la questione della corretta interpretazione delle parole fatti ed atti di gestione di cui all’art. 252, c. 4, TUEL, al fine di individuare la competenza o meno dell’organo straordinario di liquidazione sulle poste passive di bilancio. Il principio affermato è il seguente: la disciplina normativa sul dissesto, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, può produrre effetti positivi soltanto se tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’ente possono essere attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento (giurisdizionale o, come nel caso di specie, amministrativo) sia successivo.
[xiv] News US, 3 settembre 2020, n. 92 in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[xv] Nel caso di specie, il Tribunale di Viterbo aveva emesso un decreto ingiuntivo nei confronti del Comune per il pagamento in favore degli avvocati delle loro parcelle. Il suddetto decreto, non opposto e dichiarato esecutivo, veniva corredato di formula esecutiva, con successiva notifica. A fronte dell’inerzia del Comune, gli interessati avevano proposto al TAR Lazio ricorso per l’ottemperanza, ex artt.112 e ss. c.p.a., con richiesta di nomina di un commissario ad acta in caso di persistente inadempimento. Con sentenza 26 luglio 2019, n. 10043, appellata, il TAR rilevava che il Comune, con delibera c.c. n.10 del 19 giugno 2017 aveva dichiarato lo stato di dissesto finanziario; ai sensi dell’art.248, comma 2, d.lgs. n. 267-2000. Pertanto, trattandosi di provvedimento giurisdizionale intervenuto dopo la dichiarazione dello stato di dissesto, ma relativo a fatti precedenti a detta dichiarazione, i relativi crediti dei privati che avevano agito in sede monitoria dovevano necessariamente essere ascritti alla gestione liquidatoria. Con la conseguenza che, dalla data della predetta dichiarazione e sino all’approvazione del rendiconto di gestione da parte dell’organo straordinario di liquidazione, non potevano essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’Ente per i debiti che rientrano nella competenza del predetto organo straordinario, in relazione al principio della par condicio dei creditori, e che la tutela della concorsualità comportava l’inibitoria anche del ricorso di ottemperanza, in quanto misura coattiva di soddisfacimento individuale del creditore.
[xvi] A. Brancasi, L’ordinamento contabile, Torino, 2005, p. 29.
[xvii] Sul dissesto in generale si veda A. R. De Dominicis, Dissesto degli enti locali, Milano, 2000. Per un’analisi approfondita l’ottimo lavoro di e.k. Danielli e M.G. Pitallis, Il dissesto finanziario alla luce del nuovo assetto normativo, Ministero dell’interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, Roma, 2006. Per la ricostruzione storica dell’istituto si consulti: E. Spicaglia, Il dissesto finanziario degli enti locali, in http://finanzalocale.interno.it/pub/dissesto/ildissestofinanziario.html, 2001 e R. nevola, Il dissesto e il risanamento degli enti locali, in www.dirittoitalia.it, 2, 3, 2001.
[xviii] La ricostruzione storica è bene illustrata da E. Spicaglia, Il dissesto finanziario degli enti locali, in http://finanzalocale.interno.it/pub/dissesto/ildissestofinanziario.html, 2001.
[xix] “Le amministrazioni provinciali ed i Comuni che si trovano in condizioni tali da non poter garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi primari sono tenuti ad approvare con deliberazione dei rispettivi consigli, il piano di risanamento finanziario per provvedere alla copertura delle passività già esistenti e per assicurare in via permanente condizioni di equilibrio della gestione”.
[xx] Per indebitamento pregresso si intende il disavanzo di amministrazione da conto consuntivo dell’ultimo esercizio precedente il dissesto ed i debiti fuori bilancio riconoscibili, in quanto rispondenti ai fini istituzionali dell’ente locale.
[xxi] De Dominicis, op. cit., 17
[xxii] Corte cost. 155/94, 242/94 e 149/94, nonché Circ. Min. Interno 26 gennaio 1999, n. 7/99.
[xxiii] Sulle distinzioni tra procedura fallimentare e quella sul dissesto si veda V. Caputi Jambrenghi, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, a cura di Losurdo, Sabatelli, Virgintino, 2003, 37.
[xxiv] Cfr. E. Spicaglia, Il dissesto finanziario degli enti locali, in http://finanzalocale.interno.it/pub/dissesto/ildissestofinanziario.html, 2001
[xxv] v. Circ. Min. Interno, 20 settembre 1993, n. 1
[xxvi] L’impossibilità di garantire le funzioni e i servizi indispensabili e di onorare i debiti rappresentano indici di insolvenza autonomi che, sotto un profilo temporale, si manifestano distintamente.
[xxvii] D.m. Interno, 7 giugno 2004, n. 3323; Corte conti, n. 10/04, La gestione finanziaria degli enti locali esercizi 2002-2003
[xxviii] Corte conti, Sez. aut., n. 10/04.
[xxix] Camera dei deputati, Servizio studi, XVIII legislatura, Dissesto e procedura di riequilibrio finanziario degli enti locali, 10 febbraio 2022, in https://temi.camera.it/leg18/temi/dissesto-e-predissesto-finanziario-degli-enti-locali.html.
[xxx] Cfr. News US, n. 10 del 18 gennaio 2022, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxxi] Cfr. il dibattito su Questa Rivista La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i "seguiti" a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 -causa C-497/20, Randstad Italia? Interviste di R. Conti a Fabio Francario, Giancarlo Montedoro, Paolo Biavati, Renato Rordorf ed Enzo Cannizzaro, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/2146-la-corte-di-giustizia-risponde-alle-s-u-sull-eccesso-di-potere-giurisdizionale-quali-saranno-i-seguiti-a-corte-giust-g-s-21-dicembre-2021-causa-c-497-20-randstad-italia-3-paolo-biavati; nonché gli Atti del convegno Il caso Randstad Italia spa: questione di giurisdizione o di giustizia?, in https://www.giustiziainsieme.it/en/diritto-e-processo-amministrativo/2190-il-caso-randstad-questione-di-giurisdizione-o-di-giustizia e ancora: F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020; M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione europea: la parola alla Corte di Giustizia, in questa Rivista, 11 dicembre 2020; B. Nascimbene e P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 24 novembre 2020; M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte dicassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 29 novembre 2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista, 7 ottobre 2020; R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista, 4 marzo 2021; R. Pappalardo, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2327), in questa Rivista, 6 aprile 2021.
[xxxii] Prevede la AP: Pertanto, l’art. 117, comma 1, Cost. condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le cui norme (come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo) costituiscono fonte integratrice del parametro di costituzionalità introdotto dal citato comma 1 dell’art. 117 Cost. e la cui violazione da parte di una legge statale o regionale comporta l’illegittimità costituzionale della stessa, a meno che la norma della Convenzione non risulti a sua volta – a giudizio della Corte - in contrasto con una norma costituzionale (si tratta dell’operatività dei cc.dd. contro-limiti, soggetti a loro volta condizioni chiarite in dottrina come in giurisprudenza, che ne danno una lettura in senso “costruttivo” e non limitativo del diritto convenzionale).
[xxxiii] Cfr. News US, n. 10 del 18 gennaio 2022, in www.giustizia-amministrativa.it. Sul punto la AP n.1/2022: Le norme convenzionali, interposte tra la Costituzione e la legge ordinaria alla stregua di fonti intermedie tra leggi ordinarie e precetti costituzionali, sono dunque idonee a fungere sia da parametro di costituzionalità ex art. 117 Cost., sia (esse stesse) da oggetto del giudizio di costituzionalità; le disposizioni della CEDU (e quelle della Carta sociale europea), rimanendo pur sempre a un livello sub-costituzionale, non si sottraggono al controllo di costituzionalità, essendo evidente, sul piano logico e sistematico, che la Costituzione non può essere integrata da fonti che ne violino i valori precettivi: la costituzionalità delle norme internazionali è, quindi, una precondizione ineludibile per il funzionamento del meccanismo di interposizione plasmato dall’articolo 117 citato. Al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, tenendo peraltro sempre conto degli interessi costituzionalmente protetti in altri articoli della Costituzione.
La difficile convivenza tra creature umane e non umane. Il caso dell’orso M57 e la motivazione dei provvedimenti contingibili e urgenti (Nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 3 novembre 2021, n. 7366)
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato – 2. Orientamenti in materia del CdS e precedenti della Sezione Terza: la sentenza n. 571/2021 – 3. La soluzione della Sezione Terza: la sentenza n. 7366/2021 – 4. L’esercizio del potere contingibile e urgente – 5. Il rischio di abuso degli strumenti del c.d. diritto amministrativo dell’emergenza: tensione con il principio di legalità.
1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato
Con la sentenza n. 7366 del 2021, la Terza Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata in ordine al ricorso agli strumenti del c.d. diritto amministrativo dell’emergenza e, più segnatamente, in tema di motivazione e vizi dell’atto. In particolare, ha affrontato la questione dell’esercizio del potere contingibile e urgente in capo al Presidente della Provincia e del relativo sindacato giurisdizionale affermando l’illegittimità dell’ordinanza che ha disposto la captivazione permanente dell’orso M57, adottata in assenza del preventivo necessario parere dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) richiesto allo scopo di consentire una valutazione in merito al regime più adeguato e maggiormente conforme ai parametri normativi in relazione alle esigenze di tutela sia dell’animale che della collettività.
La vicenda contenziosa – sulla falsa riga di altre similari portate all’attenzione dello stesso Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento – trae origine dai ricorsi (nn. 152 e 153/2020) presentati davanti al Tar Trento dall’Ente Nazionale Protezione Animali E.N.P.A. Onlus (di seguito “E.N.P.A.”) e dall’Organizzazione Internazionale Protezione Animali Oipa Italia Odv (di seguito “OIPA”) per l’annullamento del provvedimento, ovvero dell’ordine, comunque impartito dal Presidente della Provincia Autonoma di Trento con cui è stata disposta la cattura per la captivazione permanente dell’esemplare di orso denominato M57, ai sensi degli articoli 52 d.P.R. n. 670/1972 e 18 legge regionale n. 1/1993[1].
Con sentenza n. 55/2021, il Tar Trento rigettava i ricorsi proposti, tra gli altri, da E.N.P.A. e OIPA, ritenendo che il provvedimento di cattura per la captivazione permanente presso la struttura denominata Casteller dell’orso M57 fosse esente dai vizi prospettati con i ricorsi di primo grado.
Contestualmente, nel giudizio di primo grado veniva resa ordinanza cautelare, anch’essa appellata (da E.N.P.A. e OIPA) e riformata dalla successiva ordinanza cautelare n. 329/2021 del Consiglio di Stato.
Avverso la sentenza ricorrevano E.N.P.A. e OIPA deducendo sotto diversi profili, come già in primo grado, il difetto di motivazione e di istruttoria da cui sarebbe stato viziato il provvedimento impugnato dinanzi al giudice di prime cure e l’insussistenza, nel caso di specie, dei presupposti per la cattura e captivazione permanente.
In particolare, le appellanti sostenevano che il giudice di prime cure non avesse adeguatamente motivato la propria decisione, appiattendosi sulle difese dell’Amministrazione, la quale assumeva la decisione di addivenire alla captivazione permanente dell’esemplare M57 in radicale difetto di presupposto e senza aver dapprima dimostrato la non praticabilità di altre alternative, pur espressamente previste dal PACOBACE[2]. Veniva fatto riferimento alle circostanze di fatto che avevano condotto alla cattura dell’animale ed in particolare al difetto di istruttoria riguardo al presupposto principale, vale a dire l’elemento dell’aggressione che l’orso avrebbe posto in essere, senza essere provocato[3], nonché il conseguente difetto di motivazione sul punto. Dalle risultanze procedimentali non figurava originariamente una diretta escussione del soggetto aggredito ed anzi, le uniche dichiarazioni raccolte contenevano una serie di elementi tali da far dubitare della ricostruzione fattuale accolta dal giudice di prime cure.
Si costituivano in giudizio il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (ora Ministero della Transizione Ecologica[4]) e la Provincia Autonoma di Trento, che proponeva appello incidentale, pur impugnando curiosamente una statuizione del tutto favorevole, al solo fine di contestare il percorso motivazionale della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che l’esercizio del potere in deroga all’iter ordinario, attribuito dall’art. 52 comma 2 d.P.R. n. 670/1972, presupponesse il duplice requisito dell’aggressione da parte dell’orso senza essere provocato e del suo mancato allontanamento successivo all’aggressione medesima.
2. Orientamenti in materia del CdS e precedenti della Sezione Terza: la sentenza n. 571/2021
La questione, non nuova al Consiglio di Stato[5], è stata affrontata più volte, da ultimo con una esaustiva pronuncia[6], cui la stessa sentenza in commento rimanda.
Svariate volte il Collegio richiama, anche nell’ottica dell’esigenza di sinteticità ex art. 3 comma 2 d. lgs. 104/2004, la ricostruzione operata in precedenza nella sentenza n. 571/2021, sebbene quest’ultima fosse giunta a conseguenze del tutto opposte al caso in esame affermando la legittimità, in quanto giustificato dal pericolo per l’incolumità di persone, animali e cose, dell’utilizzo, da parte del Presidente della Provincia di Trento, dei poteri di urgenza ex artt. 52 comma 2, d.P.R. n. 670/1972 e 18 comma 2, legge regionale n. 1/1993.
I giudici della Terza Sezione ravvisavano come non potesse ritenersi che la normativa statale applicativa dei principi sovranazionali in materia di tutela delle specie protette (ursus arctos e canis lupus) escludesse l’applicazione di poteri straordinari che eludano autorizzazioni e pareri degli organi competenti. In altri termini, una volta ammessa dall’art. 1 legge provinciale Trento n. 9/2018 – a determinate condizioni e secondo un procedimento che vede il coinvolgimento di alcune autorità – la possibilità di catturare o, in casi ancor più eccezionali, sopprimere l’orso per prevenire danni gravi[7], non può allora escludersi il ricorso al potere d’urgenza, attraverso l’ordinanza contingibile e urgente, nel caso di un pericolo tale da non consentire il ricorso alla disciplina ordinaria.
Condizione per il prelievo, la cattura e l’uccisione dell’orso o del lupo è, però, che non esista altra soluzione valida e che non si pregiudichi il mantenimento in uno stato di conservazione soddisfacente della popolazione della specie interessata nella sua area di ripartizione naturale[8]. E, in ragione della natura emergenziale del provvedimento, volto a prevenire gravi pericoli che minaccino l’incolumità dei cittadini, implicito è che ogni determinazione amministrativa da assumere in tale materia richieda a monte il rigoroso svolgimento di una compiuta e mirata istruttoria volta a riscontrare l’effettiva sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza cui si correla una situazione di effettivo e concreto pericolo per l’integrità dei beni tutelati. Imprescindibile è allora un’indagine che dia adeguatamente conto della situazione fattuale tale da dimostrare l’impossibilità di fronteggiare l’urgenza con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva.
Nel caso di specie il Collegio aveva ritenuto soddisfatti tutti i requisiti di cui sopra e, per l’effetto, sussistenti i presupposti per l’esercizio del potere contingibile e urgente. L’eccezionalità dello strumento utilizzato – in luogo dello strumento normativo ordinario che impone il preventivo parere favorevole del Ministero dell’Ambiente – lungi dal poter essere adoperato in via generale, è giustificata dal fatto che nel caso di specie lo stesso Ispra non aveva negato la “problematicità” dell’esemplare né la possibilità, tra le altre, della soluzione della cattura ed in aggiunta nessun atto era stato adottato al riguardo a livello ministeriale, sopraggiungendo ormai la stagione estiva nella quale maggiore si fa il rischio di “incontri indesiderati”.
Quanto poi al piano della discrezionalità e del relativo sindacato del giudice, la Terza Sezione ha chiarito che la valutazione in ordine alla pericolosità degli episodi di cui si era reso protagonista il plantigrado ha carattere prettamente discrezionale; ne consegue che il sindacato giurisdizionale trova applicazione solo relativamente ai casi di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti[9], mentre al sindacato del giudice amministrativo deve rimanere estraneo l’accertamento della gravità degli episodi posti a base delle ordinanze[10].
3. La soluzione della Sezione Terza: la sentenza n. 7366/2021
La Sezione Terza, pronunciatasi il 3 novembre 2021 con sentenza n. 7366, dichiarata l’inammissibilità dell’appello incidentale[11], ha poi esaustivamente, salvo il rimando al proprio precedente sopra menzionato, esaminato i motivi dell’appello principale, ravvisandone la fondatezza.
Sotto un primo profilo, le appellanti lamentavano l’error in iudicando, il difetto di istruttoria e motivazione sotto plurimi profili, nonché la violazione di diverse disposizioni di legge, comprese la mancata acquisizione del parere dell’Ispra e la violazione del PACOBACE del luglio 2015.
Il Collegio riconosceva il difetto di istruttoria viziante il provvedimento impugnato e riguardante proprio il principale elemento dell’aggressione da parte del plantigrado, e ne deduceva il conseguente difetto di motivazione.
Dalle risultanze procedimentali, infatti, afferma la Terza Sezione, non emergeva vi fosse stata una diretta escussione del soggetto aggredito, risultando invece solo le dichiarazioni rese da un altro soggetto – peraltro in contrasto con quanto accertato dalla sentenza di primo grado e con quanto dichiarato solo successivamente dal soggetto aggredito – e non potendosi ritenere completa un’istruttoria che prescindeva in un primo momento da dichiarazioni[12] che, si legge nella sentenza del Tar Trento, sarebbero poi state formalizzate solo in data successiva.
Sotto questo profilo, la pronuncia del Consiglio di Stato affronta il cruciale aspetto della piattaforma istruttoria che deve sorreggere la decisione del giudice amministrativo e, prima ancora, l’esercizio del potere. Afferma il Collegio che “la piattaforma istruttoria su cui poggia il provvedimento impugnato in primo grado è, alla stregua del principio tempus regit actum, quella che ha cristallizzato lo stato di fatto al momento della sua adozione (e che ha dunque giustificato l’esercizio del potere)”[13]. Ne consegue che la successiva escussione del teste principale non può sorreggere ex postuna fase decisionale carente in punto di attenta ricognizione dei presupposti fattuali legittimanti l’esercizio del potere.
In quest’ottica, fuorviante è l’affermazione, ripetuta dai giudici amministrativi trentini, dei limiti del sindacato giurisdizionale dei provvedimenti normativi in materia, in quanto disvela, invece, un errore prospettico risultante dalla sovrapposizione di due piani diversi, sia dal punto di vista concettuale, che delle censure di cui sono stati oggetto: quello della sussistenza dei presupposti per l’adozione dei provvedimenti da una parte; quello dell’ampiezza del potere discrezionale dell’amministrazione nell’adozione degli stessi (una volta accertata la sussistenza dei relativi presupposti) dall’altra.
Sotto il profilo logico e cronologico, non si può prescindere allora dal previo accertamento del dato fattuale. Ed è evidente che la qualificazione giuridica del fatto accertato, successiva all’accertamento che ne è propedeutico, nonché condizionante poi il successivo esercizio del potere, presuppone una corretta ricostruzione delle risultanze probatorie acquisite al procedimento, la cui coerenza e completezza può senz’altro costituire oggetto di sindacato giurisdizionale, perlomeno sotto il profilo – rilevante nel caso in esame – dell’applicazione dei canoni dell’inferenza logica. Diverso è invece il piano del sindacato giurisdizionale sull’esercizio del potere discrezionale.
Nel caso di specie, i dati istruttori acquisiti prima dell’adozione del provvedimento impugnato in primo grado evidenziavano notevoli deficit sul piano istruttorio e motivazionale tali da integrare un vizio invalidante autosufficiente a determinare la caducazione del provvedimento, che viene infatti annullato in sede di appello. Invero, laddove il provvedimento amministrativo sia censurato relativamente alla discrasia tra l’istruttoria procedimentale e la decisione provvedimentale – nel senso che una cattiva istruttoria ha viziato l’adozione del provvedimento, reso in assenza dei presupposti richiesti – ciò “è condizione necessaria e sufficiente per disporne l’annullamento nella sede giurisdizionale in cui tale contrasto sia dedotto; potendo al più l’amministrazione, in sede di riedizione del potere, una volta assegnato – in virtù dell’effetto conformativo del giudicato – l’esatto significato al compendio istruttorio acquisito agli atti, valutare la sussistenza dei presupposti per l’adozione di eventuali, ulteriori tipologie provvedimentali”[14].
La Terza Sezione ha allora riformato la sentenza gravata e annullato il provvedimento impugnato ritenendo la carenza sul piano istruttorio e motivazionale un vizio da solo idoneo a caducare il provvedimento. Tale motivo è stato ritenuto assorbente di altri comunque fondati, come l’assenza del parere dell’Ispra, ulteriore elemento a conferma del deficit istruttorio che affligge il provvedimento impugnato.
4. L’esercizio del potere contingibile e urgente
Fulcro della questione affrontata dal Consiglio di Stato è il potere di ordinanza contingibile e urgente di cui all’art. 52 comma 2 del d. P.R. 670/1972. La già citata sentenza n. 571/2021 fornisce un esaustivo inquadramento normativo della disciplina avente ad oggetto l’esercizio del potere da parte del Presidente della Provincia, su cui è opportuno soffermarsi.
Il potere di ordinanza extra ordinem, che ha come caratteristica quella di essere prevista dal legislatore solo riguardo all’attribuzione del potere, restando libera[15] nei contenuti – potendo anche derogare alle norme vigenti, purchè venga comunque garantito il rispetto dei principi generali dell’ordinamento – non comporta, laddove usato nella sua declinazione derogatoria, una vera e propria abrogazione, ma solo una deroga temporanea alle fonti primarie in ossequio all’implicito principio della limitatezza dello spatium temporis della loro applicazione.
Le fonti del diritto emergenziale, infatti, “non si limitano a sospendere per un periodo di tempo determinato l’efficacia di una o più norme anteriori, ma – per quel periodo di tempo – disciplinano certe fattispecie in modo diverso da quelle; eppure non producono i medesimi effetti della deroga in senso proprio, che, caratterizzata dalla definitività, non è altro che una forma di abrogazione parziale”[16].
La Costituzione non detta una disciplina esplicita sul punto[17], non prevedendo un diritto speciale dell’emergenza; prevede, tuttavia dei controlimiti, emergenti in primis dall’art. 2 quanto alla dignità umana, imponendo che ogni sacrificio sia proporzionato alla necessità e urgenza.
Dunque, necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità. Questi i criteri volti ad assicurare una tutela sistemica della carta costituzionale.
Le ordinanze libere sono provvedimenti irrinunciabili in uno stato di diritto, in quanto devolvono taluni aspetti che il legislatore non può toccare in profondità al giudizio discrezionale della p.a.; la loro impossibilità nell’essere definite a monte in tutti i loro aspetti è strutturale, in quanto regolano situazioni emergenziali eccezionali, per definizione non predeterminabili. Sono ammesse in quanto riguardanti settori in cui il principio di legalità, nella sua astrattezza e generalità, non può predeterminare gli infiniti casi in cui la p.a. deve intervenire con urgenza; ma non per questo si può prescindere dal rispetto del principio generale.
Per quanto attiene all’esercizio del potere di ordinanza contingibile e urgente nello specifico ambito ambientale, dal quadro normativo a livello sovranazionale emerge come possano essere autorizzate delle deroghe ai divieti di uccisione delle specie protette, qualora queste siano necessarie al fine della salvaguardia di altri interessi, e che il loro bilanciamento compete alle autorità nazionali, nel rispetto delle condizioni e dei limiti derivanti dai vincoli europei e internazionali.
La direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992 all’art. 16 prevede, infatti, che: “a condizione che non esista un’altra soluzione valida e che la deroga non pregiudichi il mantenimento, in uno stato di conservazione soddisfacente, delle popolazioni della specie interessata nella sua area di ripartizione naturale, gli Stati membri possono derogare alle disposizioni previste dagli articoli 12, 13, 14 e 15, lettere a) e b): a) per proteggere la fauna e la flora selvatiche e conservare gli habitat naturali; b) per prevenire gravi danni, segnatamente alle colture, all’allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico e alle acque e ad altre forme di proprietà; c) nell’interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, e motivi tali da comportare conseguenze positive di primaria importanza per l’ambiente”. Inoltre, la Convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa, adottata a Berna il 19 settembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 5 agosto 1981, n. 503, all’art. 6 prescrive che ogni parte contraente adotterà leggi e regolamenti per la salvaguardia delle specie di fauna selvatica specificamente elencate nell’allegato II, per le quali è vietata ogni forma di cattura e uccisione intenzionale.
Tra le specie protette rientrano gli orsi (e il lupo). Degli esemplari di tali specie il successivo art. 9 della Convenzione di Berna consente l’abbattimento “per prevenire importanti danni a colture, bestiame, zone boschive, riserve di pesca, acque e altre forme di proprietà”, nonché “nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica […]”.
Nell’ordinamento interno, anche prima dell’adozione della “Direttiva habitat” 92/43/CEE e del suo regolamento di attuazione[18], era stata introdotta la disciplina di tutela delle specie protette e del prelievo venatorio con la l. 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), che all’art. 1 annovera la fauna selvatica nel patrimonio indisponibile dello Stato e, all’art. 2, per alcune specie, tra le quali l’orso e il lupo, prevede un particolare regime di protezione, anche sotto il profilo sanzionatorio.
Ma, nella prospettiva di un bilanciamento della protezione di tali specie con le esigenze di tutela del suolo, del patrimonio zootecnico e delle produzioni agricole, l’art. 19 della stessa l. 157/1992 demanda proprio alle Regioni il controllo della fauna selvatica, ivi comprese le specie dell’orso e del lupo (anche nelle zone vietate alla caccia), da esercitare selettivamente, mediante l’utilizzo di metodi ecologici e su parere dell’ex Istituto nazionale per la fauna selvatica (Infs), poi confluito nell’Ispra, fino a consentire l’abbattimento di tale fauna quando i metodi ecologici si rivelino inefficaci.
Le attività poste in essere nell’ambito dei piani di abbattimento regionali costituiscono legittimo esercizio di un potere previsto dalla stessa l. 157/1992 e non possono, pertanto, integrare la condotta sanzionata dal successivo art. 30, rientrando nella cornice autorizzatoria del citato art. 19.
Alla descritta disciplina statale di tutela delle specie protette si sovrappone il regolamento attuativo della “Direttiva habitat”, di cui al d.P.R. n. 357/1997; tale normativa prevede una protezione rigorosa anche per l’orso e il lupo e attribuisce il potere di autorizzare la deroga al divieto di cattura o uccisione delle specie protette al solo Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentiti per quanto di competenza il Ministro per le politiche agricole e l’Ispra “a condizione che non esista un’altra soluzione valida e che la deroga non pregiudichi il mantenimento, in uno stato di conservazione soddisfacente, delle popolazioni della specie interessata nella sua area di distribuzione naturale […]”[19].
Lo stesso d.P.R., all’art. 1, comma 4, attribuisce alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano la competenza a dare attuazione agli obiettivi del regolamento, “nel rispetto di quanto previsto dai rispettivi statuti e dalle relative norme di attuazione”.
Va anche rilevato che il comma 1 dell’articolo unico, l. prov. 11 luglio 2018, n. 9 ha attribuito al Presidente della Provincia di Trento (e di quella di Bolzano) la competenza ad autorizzare il prelievo, la cattura e l’uccisione dell’orso (e del lupo), purché ciò avvenga a specifiche condizioni, ovvero al dichiarato fine di dare attuazione alla normativa comunitaria in materia di conservazione degli habitat naturali e seminaturali e per proteggere la fauna e la flora selvatiche caratteristiche dell’alpicoltura e conservare i relativi habitat naturali, prevenire danni gravi, specificatamente alle colture, all’allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico, alle acque ed alla proprietà, nell’interesse della sanità e della sicurezza pubblica. In tali casi, il Presidente della Provincia di Trento può autorizzare la cattura e l’uccisione dei soli esemplari delle specie protette (ursus arctos e canis lupus), previo parere dell’Ispra e sempre che non sussistano altre soluzioni valide e non venga messa a rischio la conservazione della specie.
Dunque, la disciplina sopra menzionata, autorizza una serie di azioni, la cui intensità è graduata dalla già menzionata tabella PACOBACE, in ragione dell’accertamento di taluni presupposti fattuali che giustificano la cattura di esemplari protetti.
Fondamentale, come chiarito dal Consiglio di Stato, è distinguere i limiti del sindacato giurisdizionale in relazione ai diversi aspetti della sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere e dell’ampiezza del potere discrezionale della p.a. (una volta però che sia stata accertata la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere stesso).
Nel caso in esame, invece, il primo giudice ha ritenuto di supplire alla carenza del provvedimento amministrativo, contenente una giustificazione fattuale dei poteri esercitati contrastante con la base istruttoria acquisita al relativo procedimento, proponendo una giustificazione diversa, ma comunque equipollente sul piano degli effetti, di modo da affermarne comunque la non annullabilità. Tuttavia, se il giudice può discostarsi dal nomen iuris offerto dall’amministrazione, qualificando diversamente il fatto sul piano giuridico, non può però superare la censura del difetto di istruttoria, ritenendo che i presupposti fattuali siano comunque idonei a supportare un provvedimento amministrativo diverso, anche sul piano motivazionale, da quello in concreto adottato.
Ebbene, nel caso di specie, veniva superata la censura del difetto di istruttoria proprio riguardo a provvedimenti, quali le ordinanze extra ordinem, atipici nel contenuto, ma che, a maggior ragione, devono essere adeguatamente sorretti su un piano motivazionale[20]. Tanto più se aventi ad oggetto atti di disposizione di specie protette, la cui esperibilità deve necessariamente essere il frutto di un bilanciamento volto ad incidere il meno possibile sull’equilibrio della fauna e flora selvatica.
Condizione per il prelievo, la cattura o l’uccisione dell’orso (e del lupo) è, dunque, che non esista un’altra soluzione valida – e questo non poteva che emergere da un’adeguata fase istruttoria e conseguente giustificazione sul piano motivazionale, assenti nel caso di specie – e che non si pregiudichi il mantenimento in uno stato di conservazione soddisfacente della popolazione della specie interessata nella sua area di ripartizione naturale. Inoltre, anche laddove la captivazione permanente risulti l’unica soluzione possibile, in ogni caso il Presidente della Provincia non può essere esonerato dall’assicurare all’esemplare posto in captivazione un habitat il più possibile vicino a quello naturale, per non costringere tale esemplare a vivere in uno stato di abbrutimento che, oltre a sostanziarsi in forme di maltrattamento, finisce per rendere ancora più aggressivo il plantigrado[21]. Dunque c’è sì un’attenzione alle condizioni dell’orso, ma anche questa attenzione è strumentale ad un tornaconto umano, vale a dire evitare il rischio di rendere l’orso eccessivamente pericoloso ed aggressivo.
Proprio quest’ultimo aspetto stimola un’ulteriore riflessione in tema di rapporto tra natura e diritto[22] e, in particolare, sulla tradizionale costruzione del diritto in chiave fortemente antropocentrica[23], che si sostanzia in una visione estrattiva[24] e per l’effetto inevitabilmente anche distruttiva dell’uomo che, di fatto, assume un ruolo totalmente egemone determinando, con il proprio intervento, un dominio incontrollato e dalle conseguenze infauste sulla natura.
5. Il rischio di abuso degli strumenti del c.d. diritto amministrativo dell’emergenza: tensione con il principio di legalità
Una volta affrontata la disciplina del potere di ordinanza contingibile e urgente, è opportuno muovere qualche osservazione sul rischio, già paventato, del suo abuso e conseguente frizione con il centrale principio di legalità.
Una delle censure mosse dalle appellanti, nonché già evidenziate dal Consiglio di Stato con la citata ordinanza cautelare n. 329/2021, aveva ad oggetto la mancanza del parere Ispra. A tal proposito è interessante la conclusione della sentenza gravata che, in argomento, ha ritenuto non condivisibile neppure l’ulteriore rilievo formulato dal Consiglio di Stato con l’ordinanza cautelare n. 329 del 2021, secondo il quale il provvedimento impugnato sarebbe comunque illegittimo in quanto adottato in assenza della necessaria valutazione dell’Ispra; e ciò in ragione di una lettura del potere contingibile e urgente che appare poco rispettosa del principio di legalità.
Il Tar Trento ha, infatti, concluso nel senso che “avendo il Presidente della Provincia agito nell’esercizio del potere in deroga attribuitogli dall’art. 52 comma 2 del d.P.R. n. 670/1972, non possano essere accolte né la censura incentrata sulla mancata acquisizione del parere preventivo dell’Ispra, né tantomeno la censura incentrata sul fatto che il presidente della provincia non abbia provveduto ad informare immediatamente l’Ispra e il Ministero dell’Ambiente del provvedimento adottato”. D’altronde, già la difesa della Provincia aveva affermato la non necessarietà del parere Ispra sul presupposto della natura extra ordinem del potere esercitato, in ragione del fatto che l’ordinanza contingibile e urgente sarebbe “destinata a disciplinare transitoriamente situazioni non tipizzabili per le quali il legislatore non può configurare ‘a monte’ poteri di intervento tipici”[25].
Ebbene, tale lettura non sembra valorizzare a sufficienza l’importanza che il principio di legalità deve incarnare nell’ordinamento.
La Terza Sezione, in maniera categorica ha infatti ribadito, mediante il richiamo a quanto affermato dalla Corte Costituzionale già con sentenza n. 127/1995, la sussistenza di una relazione tra proporzionalità e tipicità, nel senso che l’assenza di tipicità deve essere compensata e bilanciata dal rapporto di proporzionalità esistente fra intensità dell’esigenza emergenziale e il contenuto dispositivo della misura provvedimentale. Il potere straordinario, infatti, proprio in quanto potere amministrativo, deve soggiacere ai limiti di questo, tra cui il principio di proporzionalità.
D’altronde, si registrerebbe altrimenti una frizione anche con il principio di legalità, configurando la possibilità del rischio di abuso degli strumenti del diritto amministrativo dell’emergenza; la straordinarietà, infatti, può predicarsi al più per provvedimenti ad effetto transitorio, laddove la captivazione permanente – nel caso di specie disposta in deroga ai necessari adempimenti procedimentali – è una misura logicamente incompatibile con un orizzonte temporalmente limitato.
A fronte, dunque, dell’esercizio del potere contingibile e urgente, che si pone al limite del principio di legalità per sua stessa natura[26], il rispetto del principio medesimo si garantisce anche mediante una stringente istruttoria in punto di fatto, nonché valorizzando la motivazione (e la sua non integrabilità postuma), la cui mancanza, per l’appunto, è il fulcro dell’argomentazione delle ricorrenti[27].
[1] L’articolo 52 d.P.R. n. 670/1972, in particolare, al secondo comma prevede che il Presidente della Provincia “adotta i provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di sicurezza e di igiene pubblica nell'interesse delle popolazioni di due o più comuni”.
L’art. 18 legge regionale n. 1/1993, invece, disciplina i provvedimenti contingibili e urgenti del sindaco, prevedendo che “il sindaco adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, i provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minaccino l'incolumità dei cittadini; per l'esecuzione dei relativi ordini, può richiedere al questore, ove occorra, l'assistenza della forza pubblica”.
[2] Piano d’Azione interregionale per la conservazione dell’Orso bruno sulle Alpi centro-orientali (denominato PACOBACE), adottato dalle Amministrazioni territoriali coinvolte e approvato con Decreto direttoriale n. 1810 del 5 novembre 2008. Rappresenta il documento di riferimento per la gestione dell’Orso bruno (ursus arctos) per le Regioni e le Province autonome delle Alpi centro-orientali, costituendo il primo esempio in Italia di Piano d’Azione concertato e formalmente approvato dagli Enti territoriali coinvolti.
Alla luce del notevole incremento demografico della popolazione dell’orso, con conseguente aumento delle situazioni problematiche, le amministrazioni hanno concordato con l’allora Ministero dell’Ambiente e Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) una modifica del capitolo 3 del Piano d’Azione, che definisce l’“orso problematico” in maniera più precisa, prevedendo, nell'ambito della definizione del grado di problematicità dei possibili comportamenti di un orso e relative azioni possibili (Tabella 3.1), una serie di azioni particolarmente problematiche, per le quali può essere consentita l'attivazione di azioni energiche, comprese la cattura per captivazione permanente e l'abbattimento. Ferme restando tutte le azioni di dissuasione che dovranno essere poste in essere secondo la normativa vigente, viene mantenuta invariata l’obbligatorietà della richiesta di autorizzazione al Ministero per ogni intervento di rimozione.
Tale modifica, formalmente approvata dalle Amministrazioni coinvolte, è stata resa esecutiva con Decreto Direttoriale Prot. 0015137 PNM del 30 luglio 2015.
[3] Comportamento questo collocato al punto 18 della Tabella 3.1, con conseguente previsione delle c.d. azioni di controllo energiche, integranti gli interventi di: cattura con rilascio allo scopo di spostamento e/o radiomarcaggio; cattura per captivazione permanente; abbattimento.
[4] Si leggano i futuri riferimenti al Ministero dell’Ambiente in ragione della sua denominazione all’epoca dei fatti.
[5] Per alcuni precedenti contributi pubblicati sul tema si rinvia a D. Russo, La (difficile?) convivenza dell’uomo con l’orso. Osservazioni sull’ordinanza del T.A.R. Trento, Sez. Un. 31 luglio 2020, in Diritto e giurisprudenza agraraia alimentare e dell’ambiente, 2020, 5; Id. Sicurezza pubblica e benessere animale. Osservazioni sull’ordinanza del Consiglio di Stato n. 7065/2020, in Diritto e giurisprudenza agraraia alimentare e dell’ambiente, 2021, 1.
Osservazioni sull’ordinanza del Consiglio di Stato n. 7065/2020, ivi, 2021,
[6] Consiglio di Stato, Sezione Terza, 19 gennaio 2021, n. 571.
[7] Specificatamente alle colture, all’allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico e ad altre forme di proprietà, per garantire l’interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica (Corte Cost. 27 settembre 2019, n. 215).
[8] Cons. Stato, Sez. Terza, n. 571/2021 p. 13.
[9] Si tratta infatti di una valutazione espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza consolidata e costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati.
[10] Aspetto, quest’ultimo, che riveste un’importanza cruciale nella motivazione della pronuncia in esame.
[11] La pronuncia di inammissibilità dell’appello incidentale, proposto dalla Provincia, si giustifica in ragione del difetto del requisito della soccombenza. La Provincia di Trento, infatti, contestava la sentenza nella parte in cui l’esercizio del potere di ordinanza veniva subordinato ad un quid pluris rispetto all’atto di aggredire senza essere provocato – atto in ogni caso ritenuto sussistente nel caso di specie – ammettendo così di impugnare una “statuizione, pur favorevole alle ragioni della Provincia nella parte in cui afferma il legittimo ricorso al potere di ordinanza”. Veniva, dunque, contestato il percorso motivatorio del Tribunale, pur difettando nel caso di specie l’imprescindibile requisito della soccombenza. Sul punto, si legga, ex multis, Consiglio di Stato, Sez. Terza, n. 2827/2016: “l’appello incidentale può essere validamente rivolto avverso un capo di decisione rispetto al quale sia configurabile una soccombenza, mentre non può in alcun modo essere proposto nei confronti di una locuzione della motivazione che non si è, tuttavia, tradotta in una decisione sfavorevole per la parte che la contesta con l’impugnazione incidentale, non essendo configurabile, in tale ultima fattispecie, alcun interesse processualmente rilevante alla sua correzione nel giudizio di secondo grado”.
[12] Quali quelle del soggetto aggredito, formalizzate solo in data 4 settembre 2020 e contrastanti con quanto dichiarato invece, nell’immediatezza del fatto, da altro soggetto presente al momento dell’aggressione.
[13] Cons. Stato, Sez. Terza, n. 7366/2021, p. 7.
[14] Cons. Stato, ibidem, p. 9.
[15] Per questa ragione anche dette “ordinanze libere”.
[16] Sul punto, per una trattazione tuttavia incentrata sul potere contingibile e urgente in relazione all’emergenza pandemica, P. Sorrentino, Emergenza, salus publica e Costituzione, in G. Chiesi-M. Santise, Diritto e Covid-19, Giappichelli, Torino, 2020, p. 439.
[17] Diversamente dalle Costituzioni francese, spagnola e ungherese, quella italiana si limita a prevedere la decretazione d’urgenza (decreti legge, art. 77 Cost.), lo Stato di guerra (art. 78) ed il potere sostitutivo dello Stato ai sensi dell’art. 120 comma 2 Cost.
[18] D.P.R. n. 357 del 1997.
[19] Art 11 comma 1, d.P.R. n. 357/1997.
[20] In più, si legge nella sentenza in commento, che il parere Ispra – dalla cui acquisizione il Presidente della Provincia e lo stesso tar Trento avevano ritenuto di poter prescindere – ha natura assolutamente necessaria e infungibile, anche alla luce del bilanciamento tra diversi interessi in gioco.
[21] Così affermato da Cons. Stato, Sez. Terza, n. 571/2021.
[22] Si legga al riguardo P.L. Portaluri, Lupus lupo non homo. Diritto umano per l’ethos degli “animali”?, in Il diritto dell’economia, anno 4 n. 97 (3 2018), pp. 658-774 per il tema dell’estensione della soggettività giuridica, e della relativa azionabilità dei diritti, alle creature non umane. Il contributo, oltre a ricostruire il tema dal punto di vista diacronico e su diversi piani di complessità, offre un’interessante riflessione (mediante il richiamo a P. Singer, Animal liberation, 1975, ed. it. Liberazione Animale, Milano, 2003) sull’intrinseco legame tra specismo, razzismo e sessismo, imponendo così una considerazione sull’imprescindibilità di un approccio intersezionale per il perseguimento di un’uguaglianza effettiva.
Si legga anche G. Demuro, I diritti della Natura, in Federalismi.it, editoriale, 23 febbraio 2022.
[23] Sul punto si richiama ancora, per un’esaustiva trattazione in chiave critica, P.L. Portaluri, Lupus lupo non homo., op. cit. e P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, capitolo sesto per una proposta di superamento radicale del diritto soggettivo tradizionale mediante un’apertura alla “nuova situazione spiccatamente transizionale dei diritti trans-soggettivi”, i quali “né si terminano in un oggetto, né si esauriscono in un soggetto, piuttosto li attraversano per propagarsi altrove, senza mai soffermarsi su un titolare. Sono diritti senza padrone”( P. Femia, Transsubjektive (Gegen)Rechte, oder die Notwendigkeit die Wolken in einen Sack zu fangen, in A. Fischer- Lescano, H. Franzki, J. Horst (per cura di), Gegenrechte. Rechte jenseits des Subjekts, Tübingen, Mohr Siebeck, 2018, p. 351).
[24] Cfr. F. Capra, U. Mattei, Ecologia del diritto. Scienza politica, beni comuni, Sansepolcro, 2017.
[25] Come si legge a p. 7 della memoria di replica della Provincia Autonoma di Trento.
[26] Nonché con i principi di tipicità e nominatività. Tale potere si concreta, come detto, infatti, in provvedimenti, quali le ordinanze extra ordinem, previste dal legislatore quanto all’attribuzione del potere, e dunque nominate, ma libere nei contenuti e comunque subordinate al rispetto dei principi generali dell’ordinamento.
[27] Detto altrimenti, il potere di ordinanza “presuppone situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere accertata attraverso un’adeguata istruttoria e suffragata da congrua motivazione, poiché solo in ragione di tali situazioni si può giustificare la deviazione dal principio di legalità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla normativa vigente, stante la configurazione residuale, a chiusura del sistema, di tali tipologie di provvedimenti” (T.A.R. Trento 16 aprile 2021, n. 56, Camera di consiglio del 25 marzo 2021).
La dirigenza giudiziaria tra realtà e futuro. 1. La “carriera” in magistratura. Problemi aperti, soluzioni apparenti e soluzioni possibili
di Edmondo Bruti Liberati
Sommario: 1. L’abbattimento della carriera. - 2. Il “sistema tabellare”. - 3. Il Csm e le “promozioni” dei magistrati. - 4. Le “non soluzioni” dei problemi. - 5. Alcune “modeste proposte”. - 6. La ineludibile discrezionalità del Csm. - 7. Ultimo.
1. L’abbattimento della carriera
La disposizione dell’art. 107, co. 3, Cost. “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” delinea un modello antitetico rispetto a quello dell’ordinamento Grandi, sostanzialmente ricalcato sulla organizzazione giudiziaria napoleonica. Le resistenze all’attuazione della radicale riforma imposta dalla Costituzione sono fortissime.
Il sistema di carriera allora in vigore prevede che dopo il superamento del concorso e pochi mesi di tirocinio sul campo, la prima destinazione degli uditori sia decisa dal Ministero non sulla base di criteri prefissati, ma secondo le "esigenze di servizio", concetto alquanto permeabile alle pressioni clientelari. I due anni successivi sono una sorta di periodo di prova, destinato a concludersi con un nuovo esame per la nomina ad aggiunto giudiziario anch'esso con impostazione sostanzialmente teorica. Per prepararsi bene alla prova scritta è utile riuscire a farsi assegnare ad una grande sede, magari ad una sezione civile del tribunale, o in alternativa, ad una sede o funzione con scarso carico di lavoro, ove poter continuare a coltivare gli studi. Di qui la fuga dalle sedi difficili e dagli uffici di prima linea ed in generale dal settore penale.
Le successive nomine-promozioni a magistrato di Tribunale e a consigliere di Appello sono conferite, all’esito di un concorso per titoli, da una commissione giudicatrice composta esclusivamente da alti magistrati; sono decisivi l’esame dei provvedimenti giudiziari redatti ed i pareri dei capi. Può capitare di essere stati assegnati ad un ufficio o funzione in cui si sia avuta l’occasione di trattare casi involgenti delicate questioni di diritto e quindi di avere scritto dotte sentenze o brillanti requisitorie. Ma può anche capitare di essere stati assegnati a sedi difficili o periferiche, nelle quali non vi è occasione e tempo per scrivere “trattatelli giuridici”. Il potere di conformazione della gerarchia interna non trova contrappesi e d’altronde, non vigendo alcuna regola per la assegnazione degli affari, ai giudici troppo zelanti può essere sottratto ogni caso di rilievo.
Poiché lo stipendio è collegato alle funzioni effettivamente svolte, la regola aurea è quella di non porsi in contrasto con la gerarchia e di non attardarsi in uffici o funzioni di “prima linea” poco indicati per la redazione di provvedimenti brillanti, di non esplorare soluzioni giuridiche innovative e, men che meno, promuovere indagini scomode per esponenti del potere politico o economico.
Nessuno allora parla di "politicizzazione" della magistratura: il sistema di carriera è decisivo nell’assicurare una sintonia con il potere. In un’incisiva rievocazione del clima di quegli anni è stato scritto:
“influiva su tale sintonia il fatto che ogni magistrato in qualche modo dipendesse dal potere esecutivo quanto a carriera; i selettori erano alti magistrati col piede nella sfera ministeriale; tale struttura a piramide orientava il codice genetico; l' imprinting escludeva scelte, gesti, gusti ripugnanti alla biensèance filogovernativa; ed essendo una sciagura l'essere discriminati, come in ogni carriera burocratica, regnava l’impulso mimetico" [1].
Nell’arco di un decennio, tra il 1963 ed il 1973, il sistema di carriera è radicalmente modificato realizzandosi il distacco della categoria (grado) dalla funzione, con un sistema di progressione cosiddetta a ruoli aperti, che consente di conseguire la categoria e lo stipendio della funzione superiore pur continuando a svolgere le funzioni svolte in precedenza[2].
Il vecchio modello di carriera cade per la sua irrazionalità interna e senza l’affanno dell’avanzamento verso le funzioni “superiori” di appello e cassazione, magistrati con esperienza assicurano delicatissime funzioni di “prima linea” nelle preture, nelle procure e nei tribunali, come giudici e giudici istruttori.
Questa magistratura “senza carriera” affronterà le grandi riforme degli anni ’70 e poi criminalità organizzata, mafia, terrorismo e corruzione.
2. Il “sistema tabellare”
Nonostante la diversa opinione della Cassazione e le oscillazioni della Corte Costituzionale, il Csm, già a partire dalla fine degli anni '60, si era indirizzato verso una attuazione rigorosa del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, co. 1, Cost.), riferendolo non solo all’organo giudiziario, ma anche alle persone fisiche dei giudici. La questione era stata posta sin dal 1963 da Gaetano Foschini con il celebre articolo Giudici in nome del popolo, non già commissari del capo della corte:
Impedire che un dato processo possa essere giudicato dal Tribunale di Catania invece che da quello di Ragusa non vale niente, se non resta impedito anche che si costituisca il tribunale di Ragusa applicando ad esso i giudici del tribunale di Catania[3].
Il Csm rivendica il suo sindacato sui provvedimenti di applicazione e supplenza e costruisce progressivamente il “sistema tabellare” con le circolari per la formazione delle tabelle di composizione degli uffici giudiziari ed i criteri di assegnazione degli affari. Tali circolari rappresentano uno dei più rilevanti esempi dell’attività “paranormativa” del Consiglio.
Per la prima volta in un testo di legge viene prevista la precostituzione del giudice, non solo come ufficio, ma anche come persona fisica, con un esplicito riferimento alla formazione delle tabelle da parte del Csm, con l’art. 25 della legge 6 agosto 1982 n. 532 istitutiva del Tribunale della libertà poi Tribunale del riesame
Il Parlamento dà riconoscimento al sistema tabellare: in questa materia si è istituito tra Csm e Parlamento un “circolo virtuoso”[4]. Ma prima ancora ha operato in modo “virtuoso” l’influenza delle “correnti” dell’Anm sul Csm. La limitazione del potere arbitrario dei capi degli uffici che nasce come richiesta “corporativa”, che peraltro si fonda sul principio dell’indipendenza interna, approda a rendere effettiva la garanzia del giudice naturale.
3. Il Csm e le “promozioni” dei magistrati
Tra le attribuzioni del Csm definite all’art. 105 della Costituzione vi sono le “promozioni” dei magistrati. Il costituente, ricorrendo alla locuzione “promozioni”, risente certamente del tradizionale assetto gerarchico che connotava la magistratura, ma chiaro è il riferimento ai dirigenti degli uffici, la cui nomina si vuole sottratta ad ogni ingerenza politica.
Una volta portata a conclusione la piena attuazione della indipendenza interna prescritta dall’art. 107, co. 3, con l’abbattimento della carriera e soprattutto con la piena attuazione del sistema tabellare, il ruolo dei dirigenti degli uffici giudiziari potrebbe sembrare destinato se non a scomparire almeno a divenire marginale. E di conseguenza drasticamente ridimensionato il ruolo di un Csm che selezionasse i dirigenti degli uffici secondo un rigido criterio di anzianità.
Sappiamo che non è andata così. La piena attuazione della indipendenza interna con il sistema tabellare è arrivata a compimento solo alla metà degli anni Ottanta del Novecento e l’influenza dei dirigenti sul merito dei provvedimenti dei giudici “in sottordine” ha continuato a lungo a pesare.
Per altro verso per gli uffici di Procura la disposizione dell’art. 107, co. 4, Cost. (“Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”) ha precluso la operatività di una rigida applicazione del sistema tabellare e ha consentito il permanere di un assetto, che pur non potendosi definire propriamente gerarchico, ha attribuito al procuratore rilevanti poteri direttivi e organizzativi.
La nomina degli incarichi direttivi (e semidirettivi), lo sappiamo, è stata e continua ad essere una delle attribuzioni più rilevanti, nel bene e nel male, del Csm e dunque tra le più controverse. Attribuzione rilevante nel male perché oggetto, non da oggi, di scontri di potere, di pratiche di scambio e di posizioni settarie delle componenti togate non meno che delle laiche. Ma attribuzione sempre più rilevante nel bene negli ultimi decenni, quando la crisi di efficienza del sistema giudiziario, ha posto in primo piano il ruolo di “servizio” del dirigente nella assunzione delle scelte organizzative. Questione ulteriormente accentuata per i problemi di gestione delle risorse poste a disposizione del sistema giustizia dal PNRR.
Le criticità dell’organizzazione giudiziaria e l’inadeguatezza del servizio giustizia sono sotto gli oggi di tutti. Peraltro si riconosce che negli anni più recenti vi sono stati notevoli miglioramenti, anche se con forti difformità[5]. “Se l’iniziativa virtuosa di alcuni uffici è dipesa dall’impulso dato dai presidenti di Tribunale e dai procuratori della Repubblica, il più significativo laboratorio di innovazione organizzativa attivo nel settore giustizia in Europa si è trovato in Italia a partire dal 2007, quando l’Unione Europea finanzia con il Fondo Sociale Europeo il programma Diffusione delle best practices negli uffici giudiziari”[6]. Al programma Best Practices hanno partecipato attivamente molti uffici giudiziari grandi e piccoli e il Csm ha svolto un ruolo significativo di propulsione, raccolta di esperienze locali e iniziative di coordinamento.
È diffusa l’opinione che le inefficienze del sistema giustizia, in particolare nel civile, penalizzino e ostacolino lo sviluppo del tessuto imprenditoriale e produttivo del Paese: vedi lo studio “Efficienza della giustizia e lotta alla corruzione quali elementi per la competitività del Sistema Paese. Analisi dello status quo e proposte di intervento” curato dal Gruppo di Lavoro The European House – Ambrosetti presentato al Forum del settembre 2020. È significativo peraltro che nel segnalare le criticità il Rapporto dia atto, in più passaggi e con accenti di apprezzamento, delle iniziative poste in essere dal Csm e tuttora in evoluzione.
Il sistema tabellare, precludendo ogni arbitrio del dirigente nella scelta del giudice cui affidare un caso specifico, ha assicurato l’effettivo operare della garanzia del giudice naturale precostituito, ma non ha affatto sminuito il ruolo del dirigente. La predisposizione del progetto tabellare è un momento rilevantissimo nella assunzione di responsabilità sulla organizzazione dell’ufficio, in relazione alla concreta disponibilità delle risorse di personale di magistratura, personale amministrativo, strutture logistiche e tecnologiche. In questa prima fase è essenziale che il dirigente del Tribunale coinvolga i magistrati dell’ufficio, si confronti con il dirigente amministrativo, nonché con il procuratore e l’avvocatura. Il controllo/approvazione da parte del circuito del governo autonomo, Consigli giudiziari e Csm, è momento di garanzia, ma non deve trasformarsi, come talora accade, in occhiuto burocratico esame che può avere il risultato di deprimere l’assunzione di responsabilità da parte del dirigente.
Finalmente con il disegno di legge A.C. 2681 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario anche nella procedura di approvazione del Progetto organizzativo delle procure è coinvolto il circuito del governo autonomo. Ma la peculiarità dell’ufficio di procura sottolinea ulteriormente la assunzione di responsabilità del Procuratore. L’ufficio del pm è composto da magistrati indipendenti, ma è organizzato su una struttura in qualche modo gerarchica. Se poi con termini più moderni invece che di gerarchia si parla di governance, di cui il Procuratore è responsabile, il problema rimane. Il singolo pm agisce necessariamente con una forte impronta personale, ma è inserito in una struttura organizzativa.
Il modello rigidamente gerarchico è in crisi in ogni organizzazione complessa, tanto meno può reggere a fronte delle garanzie di indipendenza dei singoli magistrati di una Procura. Rischia di essere sostituito da un modello paternalistico “siamo una famiglia”, che nella pratica vive su una massiccia dose di ipocrisia, ma l’ufficio di procura non si può reggere sull’allegra anarchia o su un modello assembleare.
4. Le “non soluzioni” dei problemi
Le critiche alla gestione da parte del Csm delle nomine agli incarichi direttivi hanno visto la proposta di soluzioni “radicali”.
La più drastica sarebbe il ritorno ad una ingerenza, più o meno accentuata, dell’esecutivo. Nessuno osa proporlo apertamente ma vale la pena di rammentare che questa è stata ed è tuttora in diversi paesi la alternativa alla attribuzione di queste nomine ad organismi del tipo Csm. La torsione autoritaria che ha contraddistinto in Europa paesi come la Polonia e l’Ungheria si è puntualmente tradotta in un ridimensionamento delle attribuzioni degli organismi del tipo Consigli Superiori o Consigli di Giustizia in favore dell’esecutivo. Di fronte a posizioni liquidatorie non è vano riproporre per il Csm quanto disse Winston Churchill nel discorso alla Camera dei Comuni, novembre 1947: “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.
Tra le “non soluzioni” ricorre il mito del criterio dell’anzianità. Declinato in modo rigido esclude ogni discrezionale del Csm e dunque ogni possibile critica ed assicura che non si prenda in alcuna considerazione la questione della organizzazione degli uffici, essendo evidente che l’anzianità di per sé nulla dice sulle capacità organizzative dei candidati. Declinato in modo temperato come “anzianità senza demerito” o “anzianità a parità delle altre condizioni” questo criterio lascia aperti tutti i problemi sull’esercizio del potere discrezione del Csm, non essendovi una unità di misura univoca per il “demerito” o per la situazione di “parità delle altre condizioni”. Ed infatti nei periodi nei quali circolari e prassi sembravano privilegiare in modo netto il criterio dell’anzianità, il Csm, e ancora una volta sia nel bene che nel male, se ne è di volta discostato con tutte le conseguenti polemiche. Una esperienza da non dimenticare è quella del Csm eletto nel 1972; grazie al sistema maggioritario il gruppo di Magistratura Indipendente, con un efficace sistema di alleanze e di concentrazione dei voti, riesce ad assicurare al suo schieramento tutti i seggi con circa il 40% dei voti. Non vi sono studi statistici accurati sulla “politica delle nomine” di quel Csm, ma secondo una valutazione diffusa capitò che, vigendo il criterio dell’anzianità, il residuo margine di discrezionalità nella valutazione del “demerito” e della “parità delle altre condizioni”, abbia determinato che la scelta finale del Csm sia caduta nella maggioranza dei casi su magistrati vicini alle posizioni del gruppo di MI.
Una, più raffinata, ma pur sempre “non soluzione” è stata di recente avanzata da Luigi Ferrajoli.
“È il problema della carriera che va risolto alla radice, eliminando o quanto meno riducendo i presupposti e le ragioni del carrierismo. Dobbiamo infatti riconoscere che la carriera è incompatibile con l’indipendenza interna dei magistrati e perciò della giurisdizione”[7].
Nella linea del contrasto a “carriere e carrierismi”, Ferrajoli avanza diverse radicali indicazioni: “La regola deontologica, per così dire di stile, dovrebbe consistere nel rifiuto della carriera. […] Le riforme, a loro volta, dovrebbero consistere nella soppressione dei presupposti delle carriere”; ma poi, più pragmaticamente, finisce per indicare come rimedi la “effettiva temporaneità degli uffici dirigenti” e per “riabilitare […] il vecchio principio dell’anzianità, ovviamente salvo che il più anziano abbia chiaramente demeritato”. Ed infine, poiché occorre pur misurarsi con il tema della gestione organizzativa degli uffici giudiziari, Ferrajoli conclude: “Si potrebbe poi affiancare, ai capi degli uffici direttori amministrativi competenti all’organizzazione degli uffici, come avviene nelle università e negli ospedali, ovviamente senza alcun potere sulla giurisdizione”. Si arriva così all’ idea di solito nobilitata con l’espressione Court Manager.
Quarta “non soluzione”: l’idea del Court Manager. Ancora da ultimo è stata rilanciata la introduzione negli uffici giudiziari di figure «simili ai court manager, soggetti titolari del caseflow management - cioè, della gestione dei procedimenti e del loro flusso - negli uffici giudiziari statunitensi». Così la proposta del “Comitato programma per l'Italia", presentato su Il Sole 24 Ore il 16 giugno 2021 da Carlo Cottarelli e Alessandro De Nicola.
Sul tema si esprime anche The European House Ambrosetti “Ridisegnare l’Italia. Proposte di Governance per cambiare il Paese - Forum 2021 di Ambrosetti Club 30 marzo 2021” (p. 195) presentato all’ultimo Forum di Cernobbio.
“Introduzione della figura del Court Manager – da selezionare tra manager privati o magistrati che scelgono di dedicarsi esclusivamente ad una carriera gestionale-ammnistrativa – a cui affidare l’amministrazione e l’organizzazione gestionale dell’ufficio giudiziario secondo logiche di coerenza tra obbiettivi e risorse assegnate”.
Il “trapianto” di modelli in contesti diversi per lo più ha dato risultati controproducenti. Ma qui si tocca il nucleo della funzione del magistrato dirigente, giudice o pm. Per i Tribunali la «gestione dei procedimenti e del loro flusso» deve muoversi nel delicato equilibrio tra produttività e celerità da un lato e dall’altro nel rispetto delle garanzie dei giudicabili, prima tra tutte quella del «giudice naturale precostituito» (art.25 Cost.) attraverso il sistema delle «tabelle di composizione degli uffici». “Chi si occupa di cosa?”, nella tradizione, lo decideva il presidente del Tribunale a suo arbitrio; peggio ancora attribuire oggi questo ruolo a un Court Manager. Per la Procura l’attività di indagine è inestricabilmente connessa e condizionante dalle scelte procedurali e gestionali del singolo magistrato nel quadro stabilito dal Procuratore nel Progetto organizzativo.
Piuttosto che pensare a un Court Manager (selezionato da chi?) occorre un forte impegno del Ministero per la formazione e riqualificazione del personale amministrativo, per recuperare il disastro di venti anni di mancato turn over. La Scuola Superiore della magistratura oltre a proseguire nei corsi di gestione degli uffici per gli aspiranti dirigenti deve già nel tirocinio iniziale proporre questa tematica ai neomagistrati.
Quinta “non soluzione” il ritorno al voto segreto in plenum. Le ragioni pro o contro il voto segreto sono note. Vale qui la pena di ricordare che il voto palese fu introdotto con modifica del regolamento interno del Csm alla metà degli anni Ottanta, sulla constatazione che il voto segreto in diverse occasioni, piuttosto che operare a favore della piena libertà del singolo consigliere, si era prestato a logiche di accordi senza alcuna assunzione di responsabilità. Aveva giocato la recente esperienza della controversa nomina del Procurare della Repubblica di Roma, avvenuta con risicata maggioranza: a stare alle dichiarazioni pubbliche rese da numerosi consiglieri quella maggioranza non sarebbe stata raggiunta.
5. Alcune “modeste proposte”
Abbassare la febbre non cura la malattia, ma aiuta. Tre possibili interventi.
Primo. Negli emendamenti recentemente depositati dal Governo al disegno di legge A.C. 2681 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario all’art 1, comma 1, la lettera a), dopo la parola “semidirettivi” sono aggiunte le seguenti “di rivedere il numero degli incarichi semidirettivi”. Se, come pare di comprendere, la revisione operasse nel senso della riduzione la proposta sarebbe pienamente condivisibile. Leggiamo talora in un articolo su rivista accanto al nome del magistrato la qualifica “presidente titolare di sezione…”. Una dizione che ai profani occorre spiegare perché è il risultato del nonsense della esistenza (in particolare in Appello e in Cassazione) di presidenti di sezione che non presiedono nessuna sezione, perché vi sono più presidenti che sezioni. La riduzione dovrebbe operare anche nelle Procure per i procuratori aggiunti, oggi decisamente pletorici.
Secondo. Quanto ai direttivi l’effetto di riduzione sarebbe la conseguenza di una riforma tanto necessaria ed urgente, quanto ignorata: superare i limiti della benemerita quanto incompiuta “riforma Severino”. È la cosiddetta regola del 3: immutate le Corti di Appello, mantenere tutti i Tribunali capoluogo di provincia, almeno tre tribunali per ogni Distretto. Per le Corti di Appello il principio dovrebbe essere quello di una per regione. Ma la Sicilia ne ha quattro: Palermo, Caltanissetta, Messina e Catania; la Puglia ne ha, di fatto, tre: Bari, Lecce e Taranto. Se due Corti sono sufficienti per macroregioni come Lombardia e Campania altrettante dovrebbero bastarne per Sicilia e Puglia. E’ stato insensato mantenere un Tribunale in ogni capoluogo di provincia, tanto sono diversificate le situazioni. Per la revisione non si partirebbe da zero. Vi è la proposta della Commissione Vietti del 2016 e il ministero della Giustizia dispone di tutti i dati aggiornati necessari. Vi è almeno una ventina di piccoli, troppo piccoli, tribunali in Italia che per loro ridotte dimensioni non sono in grado di garantire efficienza, ed entrano in crisi quando sopravvengono emergenze. L'occasione è unica: fondi europei da utilizzare nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza Pnrr, concorsi per nuovi magistrati, assunzione di personale amministrativo e ufficio per il processo. Bruxelles vigilerà giustamente su come saranno gestiti i fondi europei. In mancanza di un incisivo e preventivo intervento sulla revisione della geografia giudiziaria sarà inevitabile un rilevante spreco di risorse. Ma il tema è tabu. Anzi le cronache riferiscono di diversi convegni nel centro-sud ove avvocatura e amministrazioni locali invocano la riapertura di mini tribunali soppressi (o “provvisoriamente” mantenuti come in Abruzzo a seguito del sisma). Tra accorpamenti di Tribunali e di Corti di Appello si arriverebbe alla soppressione di una cinquantina di posti direttivi, tra giudicanti e requirenti.
Terzo. Porre dei limiti al “cumulo” di incarichi. Negli emendamenti recentemente depositati dal Governo al disegno di legge A.C. 2681 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario il nuovo art. 2 co. 1 lett. i) prevede:
stabilire che il magistrato titolare di funzioni direttive o semidirettive, anche quando non chiede la conferma, non può partecipare a concorsi per il conferimento di un ulteriore incarico direttivo o semidirettivo prima di sei anni dall’assunzione delle predette funzioni, fermo restando quanto previsto dagli articoli 45, comma 1, e 46, comma 1, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, in caso di valutazione negativa.
Su altro piano un quarto intervento.
Abbandoniamo la “americanata” del Court Manager e investiamo sul nostro personale amministrativo. Anzitutto nuovi concorsi per colmare i vistosi vuoti di organico provocati dalla dissennata pluriennale politica di blocco del turn over. Cogliere l’occasione per il reclutamento di profili professionali più adeguati alle nuove esigenze richieste dalle innovazioni organizzative nel frattempo intervenute. Infine sperimentare corsi comuni di formazione per dirigenti magistrati e dirigenti amministrativi.
6. La ineludibile discrezionalità del Csm
L’attuazione pratica del sistema di valutazione dei magistrati è oggetto di, non del tutto ingiustificate, critiche. Attualmente sono previsti tre tipi di valutazione: negativo, non positivo e positivo. La Commissione Luciani prevede che il giudizio positivo sia ulteriormente articolato in “discreto, buono o ottimo con riferimento alle capacità di organizzazione del proprio lavoro”.
Si stabilisce una graduatoria più dettagliata, che peraltro non esprime un valore in assoluto, ma si riferisce esclusivamente alle capacità organizzative. E’ vero che le valutazioni “negative” e “non positive” costituiscono una percentuale ridottissima. A dispetto dei toni polemici con i quali spesso sono citati questi dati, si deve ricordare che è del tutto fisiologico che i casi di magistrati da “espellere” siano limitati, come risulta anche dalle statistiche di altri paesi europei. Semmai si dovrebbe ammettere una maggiore possibilità di ricorrere alla valutazione “non positiva”, la quale, senza l’attuale automatismo della decadenza dall’ordine giudiziario in caso di reiterazione, potrebbe valere come robusto stimolo a correggere insufficienze.
L’idea sottesa alle posizioni liquidatorie dell’attuale sistema di valutazioni sembra essere quella di stabilire tra i magistrati una graduatoria di merito assoluto. Una tale graduatoria è impraticabile, tanto diverse sono le funzioni e le specializzazioni in magistratura; si dimentica poi che l’obbiettivo da perseguire non può essere quello di selezionare un gruppetto di magistrati eccellenti, da assegnare magari agli uffici più importanti, ma quello di assicurare comunque un livello medio diffuso di adeguata professionalità, sempre in aggiornamento. L’obbiettivo condivisibile dell’emendamento proposto è quello di arricchire gli elementi di valutazione presenti nel fascicolo personale per l’eventuale futuro conferimento di funzioni direttive o semidirettive.
Se compito difficile è quello della valutazione della professionale di tutti i magistrati, ben più arduo quello di individuare “l’uomo giusto al posto giusto”, si diceva ieri e oggi “la persona giusta al posto giusto” per un incarico direttivo. Per quanto, meritoriamente, si indichino le qualità richieste: capacità organizzativa, preparazione giuridica, esperienza, capacità di interrelazione etc, rimane il fatto che non vi sono unità di misura per valutare ciascuna di queste qualità e la sintesi complessiva e men che meno per rapportarle alla specificità del singolo incarico direttivo da coprire.
Sono ovvietà, ma normalmente eluse, perché costringono a misurarsi con l’ineluttabile rilevante tasso di discrezionalità nella scelta del dirigente di un ufficio giudiziario, a chiunque questa scelta sia alla fine attribuita: esecutivo, Csm o giudice amministrativo.
Tralasciando qui i due termini estremi, fissiamo l’attenzione su un organismo come il Csm a composizione mista di laici e togati.
Tralasciamo le patologie degli accordi di scambio che investono una pluralità di posti, logica che può essere contrastata solo da un impegno etico, dal recupero di credibilità della giustizia, il “voltare pagina” richiesto dal Presidente Mattarella già il 21 giugno 2019, valorizzando tutte le potenzialità del modello voluto dalla Costituzione.
Tralasciamo ancora il caso, non infrequente peraltro, in cui per quel posto vi sia una candidatura che spicca nettamente sulle altre e che raccoglie la unanimità dei consensi.
Nella maggioranza dei casi, o comunque molto frequentemente, vi possono essere due, tre quattro persone “abbastanza giuste” per quel posto. Il Csm è composto da donne e uomini, togati e laici, che è da supporre abbiano delle loro idee sui temi di giustizia in generale e sulla organizzazione giudiziaria. La prassi costante ha condotto il Parlamento, nella nomina dei laici, ad assicurare il pluralismo delle posizioni politico/culturali. Qualunque sia il sistema elettorale dei togati anche i consiglieri hanno posizioni politico culturali sui temi di giustizia.
L’idea che vi siano unità di misura incontrovertibili per pesare le qualità che condurranno alla ineluttabile indicazione per uno ed un solo candidato a quel posto è all’evidenza fuori della realtà. La linea di individuare parametri, indicatori etc è animata da buone intenzioni, ma quando viene spinta troppo oltre (come si è verificato) dimostra la permanente validità del detto sul modo migliore per lastricare la via per l’inferno.
Le donne e gli uomini, laici e togati, che compongono il Csm “a parità di condizioni” (con tutti i limiti che abbiamo indicato per questo riferimento) del tutto legittimamente si orienteranno nel voto per “la persona giusta al posto giusto” sulla base di valutazioni discrezionali. Meglio per quel posto privilegiare le capacità organizzative o la competenza giuridica, meglio per quel posto di procuratore un candidato esperto particolarmente in criminalità organizzata piuttosto che in reati societari? E infine, sempre “a parità di condizioni”, non potrò legittimamente preferire quel candidato che è più vicino alle mie idee sul ruolo del giudice e della giurisdizione? Ed ancora, sempre “a parità di condizioni” potrò legittimamente preferire un candidato vicino alle mie idee tradizionaliste in materia di giustizia ovvero, per essere “imparziale”, dovrei votare per il candidato piuttosto innovatore e progressista, il più lontano dalle mie idee?
Problemi aperti, questioni delicate. Il peggio è far finta che non esistano.
Ed ancora. La procedura per la nomina dei direttivi è articolata tra la fase iniziale della proposta della Commissione Direttivi e il voto finale del plenum. Dobbiamo immaginare che la maggioranza dei consiglieri, quelli che non fanno parte della Commissione, ma il cui voto sarà decisivo in plenum, arrivino alla delibera finale del tutto vergini e lì per la prima volta apprendano del dibattito che si è svolto in commissione e delle motivazioni che sorreggono eventuali alternative proposte? Si deve nominare il Presidente della Cassazione, il Procuratore della Repubblica di Palermo, il Presidente del Tribunale di Milano o anche il Presidente del Tribunale della piccola città nella quale io togato ho prestato servizio o io laico esercito come avvocato o insegno alla locale Università ed io togato o laico, che non faccio parte della Commissione, per essere “imparziale” mi disinteresso totalmente della questione prima del plenum. Nel mentre magari la stampa dà ampiamento conto del profilo dei candidati. Tutto ciò non solo è fuori della realtà, ma è irragionevole. Deprechiamo giustamente accordi sotterranei e logiche deteriori di scambio. Il Csm è un organo collegiale che non ha e non deve avere una maggioranza stabile precostituita. La maggioranza pur necessaria per la decisione finale in plenum non può che formarsi attraverso la convergenza di posizioni diverse e, auspicabilmente, dopo un previo confronto e scambio di opinioni e di valutazioni, che abbia consentito una presa di posizione più consapevole sulle proposte della Commissione.
7. Ultimo
Smettiamola di piangerci addosso. L’Hotel Champagne esiste e pesa come un macigno da superare, ma il mondo non inizia e non finisce lì. Il Csm nei sessant’anni di vita non sempre ha operato le scelte più adeguate nella nomina dei dirigenti. Ma chi ha vissuto in magistratura l’ultimo mezzo secolo può testimoniare, senza tema di smentite, che il livello medio della dirigenza è cresciuto in una progressione costante e significativa. Molto resta da fare, ma, nonostante tutto, moltissimo è stato fatto.
[1] F. Cordero, I poteri del magistrato, in “L'indice penale”, n. 1, 1986, p.31.
[2] Sulla vicenda della riforma della “carriera” vedi E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Bari-Roma 2918 p. 79 sgg.
[3] G. Foschini, Giudici in nome del popolo, non già commissari del capo della corte, in “Foro Italiano”, 1963, II, c.168 sgg. Sul tema R. Romboli, Il giudice naturale, Giuffrè, Milano 1981.
[4] S. Senese, La prassi applicativa del Csm, in Il principio di precostituzione del giudice, Quaderni del Csm cit.p.240.
[5] Si veda in particolare D. Piana, Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia, Il Mulino, Bologna 2016
[6] D. Piana, Uguale per tutti? cit. , p. 94-95
[7] L. Ferrajoli, Magistratura e democrazia, in Questione giustizia 28 luglio 2021
Il difficile, ma necessario, sforzo per perseguire in concreto il superiore interesse del minore: un’ipotesi di adozione aperta di Ettore Battelli
Sommario: 1. La fattispecie concreta e la decisione - 2. La tutela del minore oltre l’alternativa fra affidamento e adozione legittimante - 3. Le soluzioni sviluppatesi dalla prassi: l’adozione mite… - 4. …e l’adozione aperta.
1. La fattispecie concreta e la decisione
La sentenza n. 1/2022 della Sezione Minorile della Corte d’Appello di Roma rappresenta un’ipotesi emblematica di ricerca ed individuazione della soluzione maggiormente idonea, fra quelle astrattamente contemplate dall’ordinamento, a garantire pienamente tutela al best interest of the child[1].
A fronte di una situazione di partenza caratterizzata da un grave disagio familiare, che malgrado gli aiuti e il sostegno costantemente offerti non ha dato luogo ad alcun apprezzabile miglioramento, finendo per rilevarsi gravemente pregiudizievole per una sana crescita della minore S.C., il Tribunale per i Minorenni di Roma era giunto a dichiararne lo stato di adottabilità e, tra l’altro, a disporne il divieto di contatto con i genitori e con i familiari.
La madre S.B. e la nonna materna S.S. proponevano separatamente appello, chiedendo ciascuna la revoca della dichiarazione di adottabilità e, conseguentemente, che fosse disposto l’affidamento della bambina presso di sé ovvero, in subordine, che si procedesse ad un’adozione mite, ossia all’adozione in casi particolari ex art. 44, L. 184/1983, con mantenimento dei rapporti con la famiglia di origine[2].
La Corte d’Appello, dopo aver preliminarmente disatteso una serie di eccezioni di rito[3], ha condiviso pressoché totalmente le valutazioni compiute dal primo giudice circa l’irrecuperabilità in tempi ragionevoli delle capacità genitoriali (come da ultimo prescritto dall’art. 15, co. 1, lett. c, L. 184/1983, così come modificato dall’art. 100, co. 1, lett. l, d.lgs. 154/2013)[4], alla luce delle reiterate opportunità non sfruttate e del radicale distacco dalla madre indotto nella minore; la pronuncia di primo grado è stata riformata esclusivamente nella parte in cui aveva disposto il divieto di contatto (anche con la nonna materna), disponendo invece che «i servizi territoriali competenti in relazione al luogo di residenza della minore [S.], in collaborazione con la famiglia adottiva, con i tempi e le modalità meglio rispondenti agli interessi della minore, predispongano ed attuino la ripresa degli incontri della minore con la nonna [S.S.], mediante contatti telefonici, via internet e di videochiamata, con la frequenza adeguata al mantenimento del rapporto ed alla risposta di [S.], valutando in seguito e secondo l’interesse della minore la possibilità di effettuare annualmente eventuali incontri in presenza, facendo salva l’esigenza di mantenere riservata l’identità dei genitori adottanti ed il collocamento della minore»[5].
La Corte si mostra espressamente consapevole «dello sforzo aggiuntivo che tale generosa apertura richiede alla coppia adottante», ma aggiunge che «proprio il perseguimento, oltre il proprio, dell’interesse superiore di [S.], che dalla nonna ha ricevuto, nei limiti delle possibilità concrete concesse a questa, affetto e accudimento, è la finalità dell’adozione»[6].
2. La tutela del minore oltre l’alternativa fra affidamento e adozione legittimante
La vicenda giudiziaria, che ha trovato il proprio epilogo definitivo (a meno di un eventuale ricorso per cassazione nei termini di rito) nella sentenza in commento, conferma l’opinione ormai ampiamente condivisa in dottrina secondo cui la L. 184/1983 è stata sì una “buona legge”, che – soprattutto a seguito delle riforme apportate dalla L. 149/2001 – ha posto il nostro ordinamento all’avanguardia nel panorama europeo[7], ma non risulta più pienamente adeguata ad offrire sempre e comunque una risposta soddisfacente, nell’ottica della tutela del best interest of the child[8], a tutte le situazioni di criticità in cui i minori possono venire a trovarsi nel nucleo familiare di origine[9].
Nello specifico, la L. 184/1983 prevede tre diversi percorsi a seconda del grado di criticità della situazione familiare in cui versi il minore. In particolare, se le difficoltà sono abbastanza modeste, e soprattutto se i genitori hanno l’intenzione e la capacità di collaborare, o almeno non si oppongono, è previsto l’intervento diretto dei servizi sociali, al fine di aiutare in vari modi la famiglia intera, a beneficio del minore, affinché́ possa proseguire a vivere presso di essa[10].
Nel caso in cui, invece, le difficoltà siano gravi, ma temporanee, e cioè appaiano superabili in tempi sufficientemente rapidi, è possibile ricorrere allo strumento dell’affidamento familiare (titolo I bis, L. 184/1983). Infine, solo qualora le difficoltà siano molto gravi o si traducano in maltrattamenti rilevanti, o ancora si determini una situazione di abbandono del minore non superabile in tempi sufficientemente rapidi, si potrà procedere alla dichiarazione di adottabilità del bambino e all’affidamento preadottivo[11] (art. 27, L. 184/1983).
L’alternativa “secca” tra affidamento familiare e adozione legittimante[12], a seconda della temporaneità o meno dell’inidoneità dell’ambiente familiare di origine, non ha offerto un’adeguata tutela al diritto del minore a crescere (non semplicemente “in famiglia”, ma) “nella propria famiglia”[13]; talvolta questo diritto può infatti ricevere una declinazione diversa, ma comunque funzionale a garantire pienamente il superiore interesse del minore nella massima misura possibile nel caso concreto: qualora non sia possibile crescere “nella propria famiglia” (perché irreversibilmente inadeguata a svolgere le proprie funzioni educative), dev’essergli riconosciuta la possibilità “con la propria famiglia”, mantenendo una relazione affettiva con tutti o alcuni familiari che rappresentino per lui delle figure significative[14].
A livello legislativo sono stati, insomma, trascurati i pur frequenti casi in cui la famiglia non sia in grado di rispondere alle esigenze educative del minore “in modo parziale ma definitivo”: trattasi del c.d. “semi-abbandono permanente”[15]. In questi casi, l’affidamento familiare “non era abbastanza”, perché si lasciava il minore in una situazione di limbo, senza assicurargli relazioni familiari connotate da quella stabilità necessaria per un sano percorso di vita e di crescita (dando altresì vita al fenomeno degli affidamenti sine die[16], divenendo il periodo massimo di ventiquattro mesi di cui all’art. 4, co. 4, L. 184/1983, com’è stato efficacemente affermato, «più un auspicio del legislatore che una realtà»[17]). Per converso, l’adozione legittimante “era troppo”, perché caratterizzata dalla recisione dei legami con la famiglia di origine, che potevano comportare un ulteriore trauma affettivo per il minore che passava da una situazione di semi-abbandono a una di abbandono (il più delle volte) senza riuscire a comprenderne fino in fondo le ragioni (e finendo, magari, inconsciamente per attribuirne a sé stesso la responsabilità).
3. Le soluzioni elaborata dalla prassi: l’adozione mite…
La giurisprudenza minorile si è fatta carico di offrire una risposta soddisfacente anche alle situazioni di semi-abbandono permanente, sfruttando le potenzialità applicative degli istituti esistenti nell’ordinamento.
In particolare, è stato elaborato – significativa l’esperienza del Tribunale per i Minorenni di Bari – il modello della c.d. “adozione mite”[18], frutto di un’interpretazione estensiva della c.d. adozione in casi particolari (o semplice) disciplinata dall’art. 44, co. 1, lett. d), L. 184/1983, che consente l’adozione «quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo». Secondo tale indirizzo interpretativo, sarebbe possibile fare ricorso all’adozione semplice non solo nei casi di “impossibilità fattuale” di procedere a un’adozione legittimante, ma anche in quelli di “impossibilità giuridica”, ossia quando manchi lo stato giuridico di abbandono e non ricorrano, comunque, le condizioni per la dichiarazione dello stato di adottabilità, o ancora nei casi di minori abbandonati in affidamento familiare da oltre due anni, con conseguente consolidamento affettivo con gli affidatari, e che si trovino nella impossibilità di tornare nella famiglia di origine, per il perdurare della situazione di grave difficoltà e disagio che aveva portato all’affidamento[19].
Malgrado l’istituto non sia stato esente da forti critiche in merito alla sua effettiva idoneità a perseguire il best interest of the child[20], esso risulta sostanzialmente imposto (per lo meno sino a quando, a livello legislativo, non verrà individuata una soluzione parimenti adeguata) alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[21], che in più di un’occasione ha condannato l’Italia per violazione del diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU) allorquando fossero stati interrotti i rapporti fra genitore e figlio, procedendo alla dichiarazione di adottabilità di quest’ultimo, senza aver preventivamente messo in atto adeguate misure volte a favorire il mantenimento dei rapporti medesimi.
In particolare, nella nota pronuncia Zhou c. Italia del 21 gennaio 2014[22] è stato evidenziato «che la necessità fondamentale di preservare per quanto possibile il legame tra la ricorrente – che si trovava peraltro in situazione di vulnerabilità – e il figlio non [era] stata debitamente presa in considerazione. Le autorità non [avevano] messo in atto misure volte a preservare il legame familiare tra la ricorrente e il figlio e di favorirne lo sviluppo. Le autorità giudiziarie si [erano] limitate a prendere in considerazione alcune difficoltà, che avrebbero potuto essere superate per mezzo di un’assistenza sociale mirata. La ricorrente non [aveva] avuto alcuna possibilità di riallacciare dei legami con il figlio: di fatto, i periti non [avevano] valutato le possibilità effettive di un miglioramento delle capacità della ricorrente di occuparsi del figlio, tenuto conto anche del suo stato di salute». La Corte di Strasburgo non ha mancato di far presente che essa fosse «ben consapevole del fatto che il rifiuto da parte dei tribunali di pronunciare un’adozione semplice risulta dall’assenza nella legislazione italiana di disposizioni che permettano di procedere a questo tipo di adozione», ma che ciononostante «alcuni tribunali italiani avevano pronunciato, per mezzo di una interpretazione estensiva dell’articolo 44 d), l’adozione semplice in alcuni casi in cui non vi era abbandono» (§ 60)[23].
Le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale hanno indotto anche la Suprema Corte di Cassazione, dopo un atteggiamento di iniziale chiusura nei confronti dell’adozione mite, a riconoscere piena dignità all’istituto nel nostro ordinamento; in particolare, con due recenti pronunce ha censurato le decisioni delle Corti d’Appello che avevano, in un caso, «omesso di prendere in esame il profilo espressamente affrontato dalla consulenza tecnica d’ufficio, riguardante il rilievo per la costruzione dell’identità delle minori, riguardante la conservazione del “profondo” legame con la madre instaurato e conservato nel tempo»[24], nell’altro, proceduto ad un «approfondimento della peculiare situazione concreta di una madre biologica che non intende abbandonare del tutto la figlia, pur sentendo di non essere ancora pienamente in grado di accudirla, mediante il ricorso ai mezzi istruttori necessari, se del caso anche mediante una consulenza psicologica»[25]
Con quest’ultima pronuncia (richiamata nella sentenza in commento), è stato affermato il principio di diritto secondo cui «l’adozione cd. ‘legittimante’, che determina, oltre all’acquisto dello stato di figlio degli adottanti in capo all’adottato, ai sensi dell’art. 27, comma 1. L. 4 maggio 1983, n. 184, la cessazione di ogni rapporto dell’adottato con la famiglia d’origine, ai sensi del comma 3, coesiste nell’ordinamento con la diversa disciplina dell’‘adozione in casi particolari’, prevista dall’art. 44, L. n. 184 del 1983, che non comporta l’esclusione dei rapporti tra l’adottato e la famiglia d’origine; in applicazione dell’art. 8 CEDU, 30 Cost., 1, L. n. 184 del 1983, e 315 bis c.c., comma 2, nonché delle sentenze in materia della Corte EDU, il giudice chiamato a decidere sullo stato di abbandono del minore, e quindi sulla dichiarazione di adottabilità̀, deve accertare la sussistenza dell’interesse del medesimo a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo l’adozione legittimante una extrema ratio cui può̀ pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse; il modello di adozione in casi particolari, e segnatamente la previsione di cui all’art. 44, lett. d), L. n. 184 del 1983, può, nei singoli casi concreti e previo compimento delle opportune indagini istruttorie, costituire un idoneo strumento giuridico per il ricorso alla cd. ‘adozione mite’, al fine di non recidere del tutto, nell’accertato interesse del minore, il rapporto tra quest’ultimo e la famiglia di origine».
La Sezione Minorile della Corte d’Appello di Roma ha fatto applicazione del più recente orientamento giurisprudenziale di legittimità, giungendo tuttavia, nel caso di specie, ad escludere la sussistenza di quel legame affettivo il cui mantenimento l’adozione mite persegue: dopo aver rilevato – tra l’altro ma emblematicamente – che la bambina «della mamma dice di volerle “ancora” bene ma di “non pensarci più”», ritiene che il richiamato istituto non appare «adeguato alla vicenda di [S.], che al momento della dichiarazione di adottabilità aveva trascorso gran parte della sua vita in un contesto di istituzionalizzazione, nel quale si collocano i suoi ricordi di vita con la madre, e che ha strutturato un modello di attaccamento invertito, nel quale la bambina si è assunta il peso di tutelare la madre dalle conseguenze delle sue azioni impulsive»[26].
4. …e l’adozione aperta
Per offrire la massima tutela possibile al superiore interesse del minore, la Corte romana ritiene di poter applicare – in ciò riformando la sentenza di primo grado, per il resto integralmente confermata – un diverso istituto elaborato nella prassi giurisprudenziale minorile, ossia la c.d. “adozione aperta”[27]: trattasi di una forma peculiare di adozione piena, con caratteri però meno rigorosi, connotata dalla possibilità di mantenimento di rapporti tra il minore e la famiglia d’origine[28]. Tale forma di adozione consentirebbe, da un lato, di applicare in modo evolutivo l’istituto dell’adozione legittimante e, dall’altro, eviterebbe un’applicazione estensiva dell’adozione in casi particolari con il rischio che essa divenga sostitutiva della prima.
Questo modello è frutto di una lettura evolutiva dell’art. 27, ultimo comma, L. 184/1983, volta a ritenere che l’inciso «con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali» debba essere inteso in senso “meramente giuridico”, e non sia pertanto tale da ricomprendere anche relazioni affettive di fatto prive di rilevanza giuridica.
Si tratta di un modello che recepisce ancor più a fondo l’insegnamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale la “cancellazione” della famiglia di origine dalla storia personale del minore può avvenire soltanto in casi effettivamente eccezionali ed estremi, quali quelli a) dei bambini non riconosciuti dalla nascita, b) dei bambini gravemente maltrattati da genitori inguaribilmente violenti e c) dei bambini totalmente trascurati da genitori radicalmente inesistenti sul piano educativo e affettivo[29].
Espressamente affermando di voler aderire a tale lettura ermeneutica, la sentenza in commento ha ritenuto opportuno che venisse conservata la relazione con la nonna materna[30] (nelle modalità individuate nel dispositivo), «che la nipote, anche dopo il significativo tempo trascorso dalla interruzione degli incontri, continua a ricordare e vedere come una figura positiva (“è una persona spettacolare”), e che ha mostrato stabilità caratteriale ed emotiva e senso di responsabilità non da ultimo seguendo, dal marzo 2019, una psicoterapia che la ha aiutata a sostenere adeguatamente il carico emotivo della ricostruzione, e poi interruzione, della relazione con la nipote, nel corso del procedimento»[31].
Era stato molto recentemente osservato che non sembravano «aver avuto un seguito giurisprudenziale i tentativi di configurare un’adozione legittimante aperta al mantenimento dei rapporti affettivi e di fatto con la famiglia biologica esperiti proprio al fine di non disperdere la storia di vita personale e il patrimonio emotivo del minore»[32].
La decisione della Corte d’Appello di Roma parrebbe allora rappresentare un’apprezzabile inversione di tendenza, in attesa di quell’auspicabile «meditato intervento legislativo che aggiorni e incrementi gli strumenti giuridici di protezione, delineandone in modo puntuale le condizioni e gli effetti»[33] e che, in fin dei conti, consenta alla L. 184/1983 di tornare ad essere una “buona legge”, che offra adeguata protezione al superiore interesse del minore.
[1] Da ultimo si vedano gli studi raccolti da M. Bianca (a cura di), The best interest of the child, Roma, 2021; ivi riferimenti bibliografici a tutta la dottrina precedente e ai più rilevanti precedenti giurisprudenziali.
[2] Per un’introduzione generale al tema dell’adozione “mite” si segnala F. Occhiogrosso, Manifesto per una giustizia minorile mite, Milano, 2009.
[3] Fra le quali risulta di particolare interesse quella di mancata audizione della minore, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto che «l’ascolto diretto nella sede giudiziaria, per l’età infantile della bambina ed il contesto di assoluta estraneità rispetto all’interlocutore nel quale esso si realizza, non costituisca un setting propizio alla emersione e rappresentazione delle esigenze di S. nel processo, fine a cui è volto l’ascolto». D’altra parte, ha pure rilevato – mostrando così di non disinteressarsi affatto della prospettiva del minore interessato – che «nel contesto della CTU la minore ha invero potuto esprimere adeguatamente i propri desideri e le proprie aspettative, in particolare nell’incontro con l’ausiliario del Collegio, che ha più facilmente instaurato con lei un rapporto empatico giovandosi della precedente consuetudine della minore con la figura dello “psicologo” […], in un ambiente specificamente attrezzato». Sull’istituto del diritto all’ascolto si vedano F.R. Fantetti, La facoltà dell’ascolto del minore e la Convenzione di Strasburgo, in Fam. pers. succ., 2010, 353 ss., F. Tommaseo, Per una giustizia “a misura del minore”: la Cassazione ancora sull’ascolto del minore, in Fam. dir., 2012, 37 ss., F. Astiggiano, Ascolto del minore (infra)dodicenne nel procedimento di adozione in appello, in Fam. dir., 2012, 888 ss., L.A. Antonucci, R. Cassibba, G. Castoro, La mitezza: saper parlare con un bambino, in Minorigiust., 2015, 166 ss. e, più recentemente, E. Italia (a cura di), L’ascolto del minore, in Fam. dir., 2020, 713 ss.
[4] Cfr. A. Finessi, Adozione legittimante e adozione c.d. mite tra proporzionalità dell’intervento statale e best interests of the child, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 1351, ove vengono altresì richiamate delle perplessità per quest’innovazione legislativa manifestate da una parte autorevole della dottrina.
[5] Così testualmente nel dispositivo.
[6] Così testualmente in motivazione.
[7] Condivisibilmente in tal senso, per tutti: E. Quadri, Verso una riforma dell’adozione?, in GiustiziaCivile.com, Editoriale del 3 ottobre 2016.
[8] Sul quale, ex plurimis, E. Quadri, Una riflessione sull’interesse del minore e la dimensione familiare della sua tutela, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 1330 ss.; S. Sonelli, L’interesse superiore del minore. Ulteriori «tessere» per la ricostruzione di una nozione poliedrica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 1373 ss.; M. Velletti, Interesse del minore e genitorialità, in Libro dell’anno del diritto 2018, Roma, 2018, 3 ss.; G. Corapi, La tutela dell’interesse superiore del minore, in Dir. succ. fam., 2017, 777 ss.; L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., 2016, 86 ss.; E. Lamarque, Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, Milano, 2016.
[9] Sia consentito rinviare, per maggiori approfondimenti, a E. Battelli, L’adozione mite come diritto del minore: tra opportunità e identità, in M. Bianca (a cura di), The best interest of the child, cit., p. 285 ss.; Id., Il diritto del minore alla famiglia tra adottabilità e adozione alla luce della giurisprudenza CEDU, in Dir. fam. pers., 2021, 838 ss., ivi ampia bibliografia.
[10] In tema, la giurisprudenza più recente è oggetto di analisi da parte di C.M. Bianca, Quando possiamo togliere legittimamente un bambino alla sua famiglia?, nota a Cass., 14 febbraio 2018 n. 3594, e Cass., 19 gennaio 2018 n. 1431, in Foro it., 2018, 817 ss.
[11] Il diritto del minore ad una famiglia “sostitutiva” emerge così in caso di inidoneità irreversibile di quella d’origine, non secondo indici meramente presuntivi di detta inidoneità, ma attraverso una lettura complessiva delle circostanze concrete: non deve trattarsi di situazioni dettate da forza maggiore o da mera indigenza, bensì accertate come non temporanee e irrecuperabili, caratterizzate dall’assenza di legami positivi per il minore. Cfr. Cass., 31 marzo 2010 n. 7961, in Giur. it., 2011, 297 ss. In dottrina, per tutti, L. Fadiga, L’adozione legittimante dei minori, in G. Collura, L. Lenti, M. Mantovani (a cura di), Filiazione, in Trattato dir. fam., diretto da P. Zatti, II, Milano, 2002, 625 ss., che ricostruisce lo sviluppo del concetto di abbandono secondo la giurisprudenza. In tema si veda L. Rossi Carleo, L’affidamento e le adozioni, in Trattato Rescigno, 4, III, Torino, 1997, 354 ss.
[12] Sul punto A. Finessi, Adozione legittimante, cit., 1349 s., osserva che «la pluralità di modelli familiari e l’affermazione, anche legislativa, di nuove relazioni affettive non appaiono più conciliabili con il rigido sistema del “doppio binario” che è alla base di tale disciplina, incentrato sulla netta alternativa tra l’adozione piena per tutelare il bambino privo di famiglia – perché orfano, non riconosciuto alla nascita o perché la famiglia, pur presente, è gravemente ed irreversibilmente inidonea ad occuparsi del minore – e l’affidamento, finalizzato a sopperire alla mancanza di un ambiente familiare idoneo per un periodo transitorio, operando come intervento integrativo temporaneo del rapporto familiare in crisi. Una bipartizione che non è (più) in grado di rispondere in modo opportuno e convincente a quelle situazioni in cui il minore è coinvolto in una pluralità di legami affettivi tutti egualmente meritevoli di essere salvaguardati, in quanto solo una loro equilibrata coesistenza consente di tutelare il suo diritto inviolabile alla vita privata e familiare e al conseguente pieno sviluppo della sua personalità».
[13] Per tutti si richiamano le riflessioni di C.M. Bianca, Una nuova pagina della Cassazione sul diritto fondamentale del minore di crescere nella sua famiglia, in commento a Cass., SS.UU., 30 giugno 2016, n. 13435, in Foro It., 2017, 3171 s.
[14] Cfr., ancora, A. Finessi, Adozione legittimante, cit., 1350, che evidenzia come si sia per queste ragioni sviluppata l’esigenza «di sperimentare modelli di adozione diversi da quella legittimante in tutte quelle situazioni – sempre più frequenti nella prassi – in cui l’interruzione definitiva della relazione affettiva con i genitori biologici non appare coerente con l’interesse preminente del minore: ci riferiamo cioè a quelle situazioni in cui, a fronte di una valutazione necessariamente oggettiva del rapporto familiare, all’accertamento di una situazione di inadeguatezza, ancorché parziale, ma comunque irreversibile, della famiglia d’origine, inidonea a garantire una crescita equilibrata ed armonica, si accompagna un legame affettivo con il bambino la cui interruzione sarebbe indubbiamente dannosa per quest’ultimo».
[15] Sul concetto di semiabbandono permanente e, più in particolare, sull’adozione mite cfr.: F. Occhiogrosso, L’adozione mite due anni dopo, in Minorigiust., 2005, 149 ss.; L. Gigante, Le funzioni positive dell’adozione mite, in Minorigiust., 2007, 143 ss.; L. Laera, «Chi ha paura dell’adozione mite?», in Minorigiust., 2007, 151 ss.; Aa.Vv., L’Adozione mite: giudici professionali e giudici onorari a confronto, in Minorigiust., 2009, 112 ss.; S. Caffarena, L’adozione “mite” e il “semiabbandono”: problemi e prospettive, in Fam. dir., 2009, 398 ss. Più recentemente M. Renna, Forme dell’abbandono, adozione e tutela del minore, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 1361 ss., spec. 1370 ss.
[16] Più di recente e con riferimento anche alla riforma della filiazione, si veda T, Montecchiari, Adozione «mite»: una forma diversa di adozione dei minori o un affido senza termine?, in Dir. fam. pers., 2013, 1381 ss.
[17] In questi termini A.C. Moro, Manuale di diritto minorile, 5° ed., Bologna, 2014, 238, il quale segnala che: «Da una ricerca sull’affidamento familiare emerge che la durata media di un affidamento è di quattro anni per l’affidamento eterofamiliare e di cinque anni per l’affidamento ai parenti» (corsivo aggiunto).
[18] Sull’esperienza barese cfr. S. Caffarena, L’adozione «mite» e il «semiabbandono», cit., 393 ss.; M. Fiorini, Corsia preferenziale all’esigenza di garantire la continuità negli affetti, in Fam. dir., 2008, 19 ss.; F. Occhiogrosso, I percorsi comuni alle due adozioni: adozione aperte e conoscenza delle origini, in Minorigiust., 2003, 244 ss.; Id., Circolare del Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari ai servizi territoriali, in Minorigiust., 2003, 278 ss.; Id., L’adozione mite due anni dopo, cit., 149 ss.
[19] E. Battelli, L’adozione in Aa. Vv., I diritti del minore e la tutela giurisdizionale, Rimini, 2015, p. 249 ss.
[20] Per l’esame di tali critiche sia consentito rimandare a E. Battelli, L’adozione mite come diritto del minore, cit., 293 ss.
[21] Che, secondo, J. Long, Il diritto italiano della famiglia e minorile alla prova della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Eur. dir. priv., 2016, 1096 ss., rappresenta oggi la via maestra per l’ingresso dei diritti fondamentali nel diritto familiare e minorile italiano. In tema cfr. G. Ferrando, Genitori e figli nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in Fam. dir., 2009, 1049 ss.; Ead., Matrimonio e famiglia: la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed i suoi riflessi sul diritto interno, in G. Iudica, G. Alpa (a cura di), Costituzione europea e interpretazione della Costituzione italiana, Napoli, 2006, 131 ss.; Ead., Il contributo della Corte europea dei diritti dell’uomo all’evoluzione del diritto di famiglia, in Nuova giur. civ. comm., 2005, 263 ss.; F. Pesce, La tutela dei diritti fondamentali in materia familiare: recenti sviluppi, in Dir. umani e dir. int., 2016, 5 ss.; S. Praduroux, L’attualità del contributo della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nell’evoluzione del diritto privato italiano e francese, in Riv. crit. dir. priv., 2003, 705 ss.; P. Rescigno, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto privato (famiglia, proprietà, lavoro), in Riv. dir. civ., 2002, 325 ss.; F. Uccella, La filiazione nel diritto italiano e internazionale, Padova, 2001; Id., La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo su alcune tematiche del diritto di famiglia e suo rilievo per la disciplina interna, in Giur. it., 1997, 125 ss.
[22] Sulla quale si veda A. Pasqualetto, L’adozione mite al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo tra precedenti giurisprudenziali e prospettive de jure condendo, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 155 ss.; F. Occhiogrosso, Con la sentenza Cedu Zhou contro l’Italia l’adozione mite sbarca in Europa, in Minorigiust., 2014, 268 ss.;
[23] Per maggiore approfondimento sulla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sia consentito il rinvio a E. Battelli, Il diritto del minore alla famiglia tra adottabilità e adozione, cit., 850 ss.
[24] Cass. ord., 13 febbraio 2020, n. 3643, in Fam. dir., 2020, 1063 ss., con nota di A. Thiene, Semiabbandono, adozione mite, identità del minore. I legami familiari narrati con lessico europeo, e in Nuova giur. civ. comm., 2020, 837 ss., con commento di P. Morozzo della Rocca, Abbandono e semiabbandono del minore nel dialogo tra CEDU e corti nazionali.
[25] Cass. ord., 25 gennaio 2021, n. 1476, in Fam. dir., 2021, 586 ss., con nota di F. Zanovello, Semiabbandono e interesse del minore alla conservazione dei legami familiari. La Cassazione ribadisce il ricorso all’adozione “mite”, e in Corr. giur., 2021, 1066 ss., con nota di U. Salanitro, L’adozione mite tra vincoli internazionali e formanti interni.
[26] Così testualmente in motivazione.
[27] Avverte U. Salanitro, L’adozione mite, cit., 1073, nt. 8, che, con il termine “adozione aperta”, parte della dottrina intende invece l’adozione in casi particolari.
[28] Cfr. Trib. min. Bologna, 9 settembre 2000, in Fam. dir., 2001, 79 ss.; Trib. min. Roma ,16 gennaio 1999, in Dir. fam. pers., 2000, 144 ss.; Trib. min. Torino, 12 marzo 2008, in Min. giust., 2008, 335 ss.; App. Roma, 28 maggio 1998, in Dir. fam. pers., 2001, 1463 ss.; Trib. min. Milano, 15 novembre 2004, in Fam. dir., 2005, 653 ss.; Trib. min. Emilia Romagna, 28 novembre 2002, in Min. giust., 2003, 275 ss.
[29] Così testualmente L. Lenti, L’adozione e la Corte europea dei diritti dell’uomo. A proposito di Cass. 20954/2018, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 64.
[30] Per tutti, si richiamano le riflessioni di M. Bianca, Il diritto del minore all’«amore» dei nonni, in Riv. dir. civ., 2006, 155 ss., e in Scritti in onore di C.M. Bianca, Milano, 2006, 117 ss.
[31] Così testualmente in motivazione, cui significativamente si aggiungere che «il CTU, nel suo caso, ha raccomandato il mantenimento della relazione con la nipote, sottolineando che S. “ha e avrà bisogno di un riferimento storico collegato ai primi 8/9 anni della sua vita”». In relazione a quest’ultimo profilo, si rinvia a M.G. Stanzione, Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, Torino, 2015.
[32] A. Thiene, Semiabbandono, cit., 1072.
[33] F. Zanovello, Semiabbandono, cit., 597.
Omaggio a Sergio Chiarloni (in memoriam)
di Carlo Vittorio Giabardo
1. Il 16 gennaio scorso è mancato, all’età di ottantacinque anni, Sergio Chiarloni, Professore Emerito di diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Torino, Maestro della scuola processualcivilistica torinese e uno degli ultimi grandi esponenti di una generazione - certamente destinata a sopravvivere all’oblio – che è stata artefice del prestigio della scienza processualistica italiana, riconosciuta ben oltre i confini nazionali.
Conobbi personalmente Sergio Chiarloni esattamente dieci anni fa, nel 2012, appena laureatomi a Torino con una tesi in diritto processuale civile con Alberto Ronco (che di Sergio Chiarloni è diretto allievo e al quale fu sempre legatissimo), a una delle riunioni della sezione di diritto processuale civile della Rivista Giurisprudenza italiana - alla quale ero stato ammesso a partecipare – e che si tenevano con cadenza mensile nelle stanze dell’allora biblioteca Francesco Ruffini del Dipartimento di Giurisprudenza di Torino; riunioni che Sergio Chiarloni coordinava in quanto condirettore della Rivista, con la Sua naturale autorevolezza e carismatica presenza. Avrebbe continuato a dirigere questi nostri incontri torinesi, anche telematicamente, nell’ultimo periodo pandemico, fino a poco prima della triste scomparsa.
Mi ero avvicinato inizialmente alla Sua opera a partire dagli anni dell’università, nella stesura della tesi di laurea e anche prima. Leggendo i Suoi scritti, l’impressione, fin dall’inizio, fu quella di esser davanti a qualcosa di completamente differente rispetto a ciò che ci si immagina essere la produzione tipica di diritto processuale civile: materia che, a chi, ancora studente, non ne conosca gli infiniti risvolti filosofici, l’immensa ricchezza di prospettive, la magnitudine delle questioni trattate, può apparire - diciamolo pure – estremamente tecnica, poco coinvolgente, occupata solo dal dettaglio pratico. Invece, leggendo Sergio Chiarloni (e specialmente – ricordo con nitidezza, in quei momenti in cui mi affacciavo per le prime volte a questa scienza – un Suo studio sul precedente tra civil law e common law[1]), l’arido tecnicismo lasciava spazio al fiorire dei temi alti; l’angusta questione di dettaglio veniva incasellata in un quadro più generale, di politica del diritto; il risvolto operativo veniva visto nelle sue coordinate ordinamentali; il presente veniva letto come storia[2]. Vi è un ben marcato tratto filosofico negli interessi e nella produzione scientifica di Sergio Chiarloni[3]. «Un filosofo che si trova a fare due conti con il diritto», così lo ha definito con bella espressione Alberto Ronco[4]. È leggendo e ascoltando Sergio Chiarloni che mi resi conto allora che il diritto processuale civile è, innanzitutto, uno sguardo, privilegiato, sull’intero ordinamento, una serratura dalla quale ammirare la totalità dell’esperienza giuridica. Questo perché è indiscussa la centralità del momento dinamico, applicativo, e quindi giurisdizionale, in qualsiasi ricostruzione giusfilosofica. E così molti argomenti tipici della filosofia del diritto, soprattutto di taglio analitico – quali, ad es., la creazione giudiziale del diritto, il vincolo del precedente, il dialogo tra i “formanti” nell’interpretazione della legge – diventavano, negli scritti di Sergio Chiarloni, temi di genuino interesse processualistico, sui quali il cultore del diritto processuale ha non solo qualcosa, ma molto da dire[5]. Furono, per me, letture cruciali. Sentii dalla Sua viva voce affermare, d’altronde, che non era un caso che alcuni tra i più importanti e completi giuristi e teorici del diritto del secolo passato, i quali si erano distinti anche in campi differenti, erano processualcivilisti: Emilio Betti, Francesco Carnelutti, Piero Calamandrei… Questa constatazione mi rimase sempre in mente.
2. Ho in questo momento sotto mano la prima monografia di Sergio Chiarloni, L’impugnazione incidentale nel processo civile. Oggetto e limiti, pubblicata nel 1966, quando Egli aveva 33 anni. Tema senza dubbio fortemente tecnico, arduo, di diritto processuale duro e puro, viene da dire; ma basta scorrere velocemente le note e vediamo comparire, accanto ai grandi nomi classici italiani e tedeschi della nostra materia, quelli, ad es., di Carl G. Hempel (matematico e filosofo della scienza), di John Dewey, di Ludovico Geymonat, del fisico statunitense Percy W. Bridgman (tutti ricordati a proposito della nozione e formazione dei “concetti”), e poi dei filosofi del diritto Philipp Heck, HLA Hart, Lon Fuller, Alf Ross, dello Jhering, del Kantorowicz, degli esponenti del Realismo Giuridico Americano Jerome Frank e Oliver W. Holmes, di Chaim Perelman, e poi ancora di Norberto Bobbio, Ugo Scarpelli, Widar Cesarini Sforza, Giorgio del Vecchio, Giovanni Tarello, e via dicendo. Un armamentario teorico niente affatto ordinario per una monografia, per giunta la prima, di diritto processuale; a dimostrazione di interessi vastissimi, di letture sconfinate e senza barriere e di un uso fecondo e felice della contaminazione tra le aree del sapere umano. Vi è - per me - implicito questo profondo insegnamento nella Sua opera: per maneggiare le categorie del diritto processuale è necessario saper maneggiare quelle della teoria generale del diritto, la quale, a sua volta, altro non è che un’avventura intellettuale tra le molte, e che si avvale, pertanto in gran parte, di metodi e costruzioni comuni ad altre imprese conoscitive umane (la scienza, l’epistemologia, la sociologia, l’economia, la sociologia, la filosofia generale, la filosofia politica).
3. Succede spesso che quando leggiamo sulla carta un certo autore, siamo portati a immaginarci i tratti caratteriali di quella persona dal vivo. Succede che la forma dello scrivere sia espressione di una forma d’essere. Quello di Sergio Chiarloni era uno stile piano, limpido, mai contorto, non artificiale, eppure originale, brillante, vivace, penetrante. Una scrittura fresca, agile, efficacissima nell’uso di espressioni d’immediato impatto, immagini icastiche, che rimanevano in mente («eterogenesi dei fini», «formalismo delle garanzie», «ossimoro occulto», «diritto di mentire», ecc.). Di un periodare lineare, non oscuro, sempre ricercato ma non pedante. Ebbene, così a me sempre apparve la sua figura, negli anni a venire; carismatica e gentile, amichevole e sorridente, dotta, mai infastidita, per nulla autoritaria, non austera, d’una immediata simpatia. Lo caratterizzava un parlare umano, incoraggiante, capace di mettere a proprio agio anche il più intimorito dei collaboratori. Aveva idee incisive, vigorose, e vigorosamente difese, ma mai a tal punto da non riconoscere il buono nelle opinioni contrarie; segno dell’umiltà che caratterizza i grandi. Il giusto attaccamento alle proprie convinzioni non Gli impediva di tornare su di esse, cambiandole e rinnovandole, se del caso, o ribadendole nuovamente, scoprendole più forti. Sorprendeva poi la sua velocità di pensiero, affilato, la sua abilità di andare al cuore concreto delle questioni: un aspetto pragmatico, in mezzo a tanta teoria, che certamente derivava dalla sua lunga frequentazione con le aule di tribunale, come Avvocato e come interlocutore della magistratura italiana (in particolare di Magistratura Democratica). Fu attento non solo – uso Sue parole, fuori dal contesto in cui furono dette – ai “cieli delle astrazioni scientifiche”, ma anche alla “bassa cucina dei formulari”[6]. Il dato pratico, incastonato nella vastità dello sguardo, non veniva mai perso di vista: si pensi all’attenzione cruciale che Egli dava ai problemi organizzativi della giustizia civile e all’ordinamento giudiziario. Il buon senso aveva la priorità sulla logica ferrea, quando questa avrebbe portato a conseguenze irragionevoli. Si definiva, in fin dei conti, un positivista moderato; forse – semplifico – polemizzando e prendendo le distanze, da un lato, tanto con gli sviluppi più radicali di chi è incline a considerare le norme nulla più che un elemento, fra i tanti (di qui, ad es., la Sua più volte esposta critica al pluralismo interpretativo e alla nomofilachia “in senso tendenziale e dialettico”, e la sua difesa, invece, di un recupero di una funzione nomofilattica in senso forte[7]), quanto con la devozione più ottusa della legge e il disconoscimento di ogni forza al diritto vivente, dall’altro.
4. Preparando l’ingresso al dottorato in diritto processuale civile, a Torino, nel 2013, mi ritrovai a dover scegliere il tema da indagare. La scelta cadde sul problema delle misure coercitive. Il legislatore italiano aveva da pochi anni introdotto l’art. 614 bis c.p.c. e i nodi che quell’articolo offriva mi parevano di grande interesse teorico. Mi attraeva soprattutto l’accostamento che spesso veniva, e viene, fatto delle misure coercitive “all’italiana” a quelle appartenenti ad altre famiglie giuridiche (e, in particolare, quelle di common law). Ammesso poi al dottorato, sempre sotto la guida di Alberto Ronco, mi confrontai fin da subito con la lettura della classica monografia di Sergio Chiarloni, Misure coercitive e tutela dei diritti, del 1980 – libro a me carissimo – le cui pagine furono una scoperta di quanta ricchezza ci possa essere nello studio non solo dogmatico, ma anche storico e comparato degli istituti processuali[8]. Di misure coercitive Sergio Chiarloni non smise mai di occuparsi; in quegli anni era nuovamente impegnato in letture critiche di quell’art. 614 bis c.p.c., la cui nuova introduzione tanto discutere aveva provocato nella dottrina italiana[9].
Fu presente il giorno in cui discussi la tesi di dottorato. E ora che quel mio lavoro sulle misure coercitive nel diritto processuale civile comparato sta per vedere la luce, nella Collana da Lui co-diretta per l’editore Giappichelli, Gli devo un riconoscimento fondamentale. La triste notizia della Sua scomparsa è giunta proprio quando le bozze di stampa erano pronte e grande è per me il rammarico che non abbia potuto vedere, proprio alla fine, il prodotto pubblicato. Queste mie paginette vogliono essere un rinnovato ringraziamento.
5. Mi sia consentito soffermarmi sulla monografia di Sergio Chiarloni a cui ho appena fatto riferimento, Misure coercitive e tutela dei diritti, non tanto nel contenuto, quanto nella lezione di metodo che offre, a proposito dell’analisi comparata e anche politica degli istituti processuali.
Va subito detto che non è facile fare diritto processuale civile comparato. Mentre la comparazione giuridica è, da molto tempo, assai viva nel diritto privato, nel diritto processuale civile – materia inevitabilmente legata a doppio filo al proprio ordinamento d’origine, espressione emblematica della sovranità e della statualità – la strada si è storicamente presentata come più difficoltosa, in salita. Certo, i grandi processualisti italiani del passato erano già anche acuti osservatori delle esperienze giuridiche altrui (Chiovenda e Calamandrei, innanzitutto: il primo, serrato interlocutore della processualistica tedesca; il secondo, attento studioso anche delle evoluzioni storiche d’Oltralpe, a partire da quello che è anche un monumentale lavoro di comparazione giuridica, e cioè La Cassazione civile). Ma a parte il fatto che quella “coscienza comparata” e quel “respiro extra-statuale” rimanevano comunque una eccezione nel panorama degli studi processualistici italiani, anche per molti anni a venire, e risentivano, non poche volte, dell’influenza del metodo dogmatico allora in uso; a parte ciò, quasi mai l’oggetto di quel dialogo erano, a quei tempi, i Paesi di common law, considerati troppo distanti e “altri” per esser utilmente studiati. La innovativa monografia di Sergio Chiarloni, invece, si misurava e confrontava direttamente, in moltissime parti, proprio con il diritto inglese (al quale Egli avrebbe poi continuato a rivolgere in seguito acuti studi e ricerche).
In particolare, uno degli oggetti d’indagine era l’istituto del contempt of court, visto in veste profondamente critica, nobilmente ideologica e quindi politica. Là Sergio Chiarloni denunciava, nello specifico e tra le molte altre cose, l’uso politico distorto da parte dei giudici in Inghilterra e negli Stati Uniti di quel potentissimo potere coercitivo che agisce sulla persona, spesso impiegato a protezione dell’ordine esistente, a conservazione dello status quo o addirittura in senso apertamente regressivo (per ostacolare, ad es., gli scioperi e le rivendicazioni dei lavoratori)[10]. Vi poteva esser un tal rischio nell’importare forme simili di misure coercitive nell’ordinamento italiano, attraverso un uso ingenuo e inconsapevole dell’argomento comparatistico? Sarebbe poi stato, oltre tutto, giustificato un trapianto che non avesse tenuto conto delle specificità storiche e sociali delle diverse culture? Il diritto comparato assumeva quindi in quell’opera - e più in generale in tutta la Sua produzione - una valenza ben precisa, che voglio qui sottolineare con forza; non semplice studio del diritto straniero – come troppo spesso ancora si concepisce - o delle altrui categorie di pensiero, ma autentica indagine e decodifica delle forze sociali che animano il crearsi e il consolidarsi degli istituti giuridici. Scrive Egli – in Misure coercitive e tutela dei diritti – che il diritto comparato sarebbe una scienza assai illusoria «allorché […] si proceda mettendo a confronto le regole dei diversi ordinamenti prescindendo dal rispettivo retroterra economico, storico e sociale» (enfasi mia) [11]. Per capire il diritto, e il diritto processuale, bisogna uscire dal diritto: un insegnamento metodologico generale che va tenuto in gran conto.
Scorro le pagine della mia copia di Misure coercitive e tutela dei diritti; di nuovo, al fianco delle figure illustri della nostra materia, trovo quelle di filosofi, di filosofi del diritto (molte volte è citata la Dottrina pure del diritto di Kelsen, i lavori di Von Jhering, del Kantorowicz), ma soprattutto le opere di Max Weber (Economia e società), dello storico francese Marc Bloch (La società feudale), del filosofo e critico marxista György Lukács (La distruzione della ragione), utilizzate ampiamente da Sergio Chiarloni per la Sua penetrante ricostruzione del divergente sviluppo storico delle misure coercitive personali in Germania e in Francia, a seconda del mantenimento (nella prima) o della anticipata dissoluzione (nella seconda) delle opprimenti strutture feudali che le avevano originalmente giustificate[12].
6. Società, politica, storia, strutture di produzione, relazione di potere, tecniche processuali, valori. Lo scopo globale di quello studio non era fabbricare una cattedrale, né disegnare figure geometriche, viste kelsenianamente nella loro purezza, né manipolare logicamente, o delimitare, o sistemare concetti, né predisporre schemi astratti, né classificare, ma criticare (nel senso nobile di esercitare il pensiero critico), prender posizione sulla realtà, alla luce dei valori politici di riferimento, considerando pertanto la dimensione fattuale, e cioè i movimenti della realtà storica, la società, le correnti di pensiero, i fini concretamente perseguiti, i risultati d’esperienza ottenuti.
Sergio Chiarloni faceva d’altronde parte di quella nascente generazione di studiosi – attiva a partire dalla fine degli anni Sessanta – che aveva ripudiato il “formalismo concettualista” astratto e che si era rivolta a uno studio autenticamente politico (nel senso etimologico del termine, cioè relativo alle forme dello stare insieme) del diritto processuale civile, visto nel suo significato sociale e valutato in termini di effettività, soprattutto al servizio delle fasce più deboli (ricordiamo, tra gli altri e nella diversità di accenti, Mauro Cappelletti, Vittorio Denti, Nicolò Trocker, Luigi Paolo Comoglio, Andrea Proto Pisani, Michele Taruffo).
Rappresentativo di quel clima, nella produzione scientifica di Sergio Chiarloni, fu il Suo “libretto giallo”, come veniva chiamato (dal colore della copertina e scherzosamente richiamando il “libretto rosso” di Mao) il breve volumetto “Introduzione allo studio del diritto processuale civile” (edito da Giappichelli, nel 1975), frutto anche dell’esperienza, portata avanti insieme (tra altri giovani professori) a Norberto Bobbio e Gastone Cottino, del “Seminario interdisciplinare per lo studio critico del diritto”, tenuto alle Facoltà di Scienze Politiche e di Giurisprudenza di Torino all’inizio degli anni Settanta, in piena epoca di contestazioni e lotte studentesche[13]. Scopo di quelle riflessioni e di quel libretto era svelare, mediante strumenti teorici e un linguaggio in gran parte tratto dal marxismo, le sottaciute connessioni tra sovrastrutture ideologiche, strutture economiche e meccanismi processuali, tra la divisione della società in classi, le differenze di ceto e sistemi di dominio sociale e i concreti modelli di tutela dei diritti e amministrazione della giustizia esistenti in un dato periodo storico.
7. Tanto numerosi sono i temi toccati da Sergio Chiarloni lungo quasi sessant’anni di ricerca che sarebbe impossibile elencarli tutti. Tra i molti, e senza nessuna - neppur minima - pretesa di completezza, tra quelli prediletti: l’appello (oggetto anche di un’indagine monografica dal taglio empirico, con riferimento al diritto del lavoro), il giudice di pace e la magistratura onoraria, l’ordinamento giudiziario, le sentenze della “terza via” e il principio del contraddittorio, la tutela del possesso, le forme alternative di giustizia privata, la nozione costituzionale di “giusto processo”, le tecniche di tutela dei consumatori, la funzione nomofilattica della Corte di cassazione (e, a questo proposito, soprattutto la critica, costante, della garanzia costituzionale del ricorso per cassazione), e via discorrendo.
Ne voglio però isolare uno in particolare, tra i più vicini alla sensibilità di chi scrive, e cioè la ricerca della verità nel processo civile: tema che non è inopportuno definire processualfilosofico, trattato con respiro autenticamente comparato e con attenzione alle implicazioni tra ideologie e concretizzazioni giuridiche. Sergio Chiarloni era uno strenuo difensore dell’importanza della ricerca della verità in un processo civile che voglia definirsi giusto, opponendosi sia alle derive veriphobiche tipiche del postmodernismo sia a certe ricostruzioni radicalmente e del tutto privatistiche (“revisioniste” o “vetero-liberiste”, come definite dal Chiarloni) del fenomeno processuale; verità che, ricostruita comunque in termini probabilistici, non appare peraltro come l’unico fine della giustizia civile, cedendo di fronte al perseguimento di altri valori[14]. Dal punto di vista del diritto comparato, la Sua fu l’unica voce - almeno a mia conoscenza - a sostenere, e con buone e persuasive ragioni, che il processo civile adversary di common law sia non meno inclinato verso la ricerca della verità - come solitamente si argomenta - ma lo sia, al contrario, di più (si pensi alla disciplina della discovery o all’obbligo per le parti di dire la verità negli atti introduttivi del giudizio, sanzionato dal contempt of court). D’altronde Sergio Chiarloni sempre sottolineò, anche a voce, il fastidio nell’affermare che le parti, in Italia, hanno un diritto di mentire; diritto che, non essendo obbligate a dire la verità (almeno secondo certe ricostruzioni), finirebbero pertanto per avere.
8. Nella mia frequentazione della dottrina processualistica e giusfilosofica di lingua spagnola ho appreso di prima mano l’ampia influenza internazionale di Sergio Chiarloni. Egli, dalla Sua Cattedra di Torino, aveva viaggiato moltissimo per le università di tutto il mondo. Era conosciutissimo sia in Spagna (era académico correspondiente della prestigiosa Real Academia de Jurisprudencia y Legislación) sia nel vivace contesto universitario dell’America Latina. Non c’è stato, letteralmente, nessun processualista dell’universo iberoamericano, anche tra i più giovani, a cui io abbia nominato Sergio Chiarloni, che non ne conoscesse la figura. I Suoi rapporti con gli esponenti più autorevoli di questo mondo erano strettissimi; Jordi Nieva-Fenoll (dell’Università di Barcellona), Eduardo Oteiza (dell’Università de La Plata, in Argentina, attuale Presidente dell’International Association of Procedural Law, di cui Sergio Chiarloni era membro e più volte relatore generale e nazionale ai vari Congressi mondiali[15]), Teresa Arruda Alvim Wambier (della Pontificia Università Cattolica di San Paolo), Ada Pellegrini Grinover (dell’Università di San Paolo), Giovanni Priori (della Pontificia Università Cattolica del Perù, il quale – mi raccontò - in occasione di una conferenza di Sergio Chiarloni a Lima, gli fece da interprete), solo per nominarne alcuni, erano Suoi interlocutori e amici[16]. Nei Paesi del continente latinoamericano Egli era di casa e spesso aveva ricambiato l’invito per seminari all’Università di Torino.
La Sua produzione scientifica era stata ampiamente tradotta in lingua spagnola. Innanzitutto la monografia Misure coercitive e tutela dei diritti, con il titolo Medidas coercitivas y tutela de los derechos, dall’editore peruviano Palestra, nel 2005, e così anche la pressoché maggior parte dei Suoi articoli più importanti, apparsi sulle principali riviste, e soprattutto in Brasile e in Perù, nell’allora Revista peruana de derecho procesal, grazie all’opera di Juan Monroy Gálvez (uno dei padri dell’attuale codice di procedura civile peruano) e al figlio di questi, Juan José Monroy Palacios.
È rivelativo poi il fatto che l’ultimo scritto di Sergio Chiarloni – o quello che, a mia conoscenza, lo è - sia apparso inedito in lingua spagnola nel recente volume, curato da Jordi Nieva Fenoll e Renzo Cavani (Pontificia Università Cattolica del Perù), che raccoglie le riflessioni di alcuni tra i più importanti processualcivilisti del panorama internazionale, a commemorazione del centenario de La Cassazione civile del Calamandrei, volume al quale Egli aveva contribuito con un articolo intitolato Nomofilaxis y reforma del juicio de casación (“Nomofilachia e riforma del giudizio di cassazione)[17]. Degno di nota è il fatto che la Sezione del libro - la prima - che ospita il Suo saggio sia intitolata “El diálogo de dos Maestros” (“il dialogo di due Maestri”), laddove l’altro dialogante è il compianto Michele Taruffo: testimonianza della imperitura stima e omaggio che, nella tradizione iberoamericana tutta, si continua a tributare a chi ha contribuito a render grande la tradizione processualistica italiana.
9. L’intesa di Sergio Chiarloni fu strettissima non solo con la dottrina di lingua spagnola. Oltre che in Francia (all’Università Jean-Moulin di Lione), Egli aveva trascorso lunghi periodi di studio in Inghilterra (Londra, Oxford, Cambridge) e negli Stati Uniti (Northwestern, Chicago).
In particolare, nel 1992, durante alcuni mesi in qualità di Visiting Professor (Inns of Court Fellowship) presso l’Institute of Advanced Legal Studies di Londra, Sergio Chiarloni entrò in contatto con Adrian Zuckerman - il celebre processualista di Oxford - che in quei momenti si trovava a tenere il corso di Civil Litigation per un Master dell’University College. Come avvenne quell’incontro lo racconta Zuckerman stesso, in un sentito articolo scritto a chiusura del volume di studi sulle riforme del processo civile al quale noi tutti allievi della scuola torinese avevamo preso parte e che era stato confezionato in sottinteso omaggio a Sergio Chiarloni (quel volume Gli fu consegnato – ricordo - dalle mani di Alberto Ronco, in occasione del Suo compleanno, durante uno dei consueti barbecue che Sergio Chiarloni era solito organizzare in primavera nella Sua casa di campagna fuori Torino)[18].
Ebbene, racconta là Zuckerman che Sergio Chiarloni, incuriosito da come si insegnasse il diritto processuale civile oltremanica, pensò di andare a seguire il corso di persona, mimetizzandosi tra i giovani studenti, senza rivelare la propria identità. L’ignota e insolita presenza per settimane lasciò Zuckerman perplesso. Solo al termine del semestre, Sergio Chiarloni si avvicinò, presentandosi. Da lì, l’amicizia, e Zuckerman venne varie volte a Torino, per tenere incontri e seminari dottorali (spesso in tema di Evidence Law).
L’incontro ebbe una influenza enorme su Zuckerman («this meeting – afferma – marked a turning point in my academic interests and outlook»), tanto da fargli aprire gli occhi – sono parole che lo stesso studioso inglese usa – su un intero nuovo modo di guardare al processo civile («Chiarloni […] had a profound influence on my understanding of procedural systems and opened my eyes to an entirely new world of learning»). Ciò ben si capisce, dato che il diritto processuale civile (anzi, la procedura civile, Civil Procedure) in Inghilterra non ha conosciuto quell’approfondimento teorico che ne ha caratterizzato, invece, lo studio in Germania o Italia. Da quella collaborazione nacque poi, nel 1999, il volume - una raccolta di contributi - sulla crisi della giustizia nel diritto comparato, pubblicato dalla Oxford University Press[19].
10. Vidi Sergio Chiarloni di persona l’ultima volta nell’aprile del 2019 – un anno che, a ripensarci, apparirà lontano per molti, nel tempo e nella memoria - a Torino, al “Circolo dei Lettori”, alla presentazione dell’ultimo libro del filosofo e politico Mario Tronti (già esponente di quel vasto movimento che fu l’operaismo italiano). Non mi aveva stupito incontrarlo lì, per i Suoi interessi, in compagnia della sorella (figura importantissima della germanistica italiana). Parlammo rapidamente di come mi stessi trovando in Spagna - già mi ero trasferito a vivere all’estero da alcuni mesi – e di un libro che avevo appena acquistato in una bancarella lì vicino, che Egli conosceva bene, avendolo anche recensito (La borsa di Miss Flite. Stori e immagini del processo, di Bruno Cavallone[20]). Successivamente, complice la distanza e poi il duro periodo della pandemia, le interazioni sarebbero avvenute per e-mail, mezzo al quale peraltro Sergio Chiarloni fu sempre molto avvezzo (rispondeva in tempi rapidissimi).
Le ultime volte sono spesso così: non sappiamo quasi mai quando sono tali. Ma i Giuristi (la G maiuscola è voluta) - così come gli Artisti, della mano o del pensiero - continuano a vivere anche dopo gli addii: non solo nella mente di coloro che li hanno conosciuti, ma anche in quella di coloro che sapranno ritrovarne lo spirito vivente nelle opere che ci hanno donato.
[1] Mi riferisco a Chiarloni, Un mito rivisitato: note comparative sul precedente giudiziale, in Riv. dir. proc., 2001, 614 ss.
[2] Riprendo qui il titolo di un Suo celebre lavoro; v. Chiarloni, Il presente come storia: dai codici di procedura civile sardi alle recentissime riforme e proposte di riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 447 ss.
[3] Egli, al terzo anno di Giurisprudenza a Torino, chiese inizialmente la tesi di laurea a Norberto Bobbio, del quale aveva frequentato i corsi; poiché il celebre filosofo del diritto ammise, però, di non poterne seguire la carriera, Chiarloni decise di laurearsi in diritto internazionale (con una tesi sulla posizione giuridica dell’individuo nell’ordinamento internazionale), per poi seguire la guida, invece, di Giovanni Conso, che da poco era stato chiamato a tenere, a Torino, oltre all’insegnamento di procedura penale, anche il corso di diritto processuale civile (questo lo raccontava Chiarloni stesso, nell’intervista concessa a Christian Delgado, della Pontificia Universidad Catolica del Perù, apparsa sulla Revista de Proceso, 2013, 455 ss.). Non c’è dubbio che Chiarloni considerasse Conso il Suo maestro; v., a questo proposito, il necrologio scritto sulle pagine della “Trimestrale”, Giovanni Conso, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 1217.
[4] Ronco, Per Sergio Chiarloni, in Judicium, 25 gennaio 2022, https://www.judicium.it/per-sergio-chiarloni/. Ricordano il Maestro torinese anche Capponi, Ricordo di Sergio Chiarloni, in Giustizia Insieme, 17 gennaio 2022, https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2132-ricordo-di-sergio-chiarloni?hitcount=0 e Cottino (Emerito di Diritto Commerciale, collega e amico di Sergio Chiarloni all’Università di Torino), In ricordo del Prof. Chiarloni, in Quotidiano Giuridico, 20 gennaio 2022, https://www.quotidianogiuridico.it/documents/2022/01/20/in-ricordo-del-prof-chiarloni
[5] Si veda, senza pretesa di completezza e in ordine sparso, su questi vari temi, Chiarloni, Efficacia del precedente giudiziario e tipologia dei contrasti di giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ, 1989, 118 ss. (anche in La giurisprudenza per massime e il valore del precedente con particolare riguardo alla responsabilità civile, a cura di Visintini, Padova 1988, 59 ss.); La dottrina fonte de diritto?, ivi, 1993, 439 ss. (anche in Studi in onore di Rodolfo Sacco. La comparazione giuridica alle soglie del 3° millennio, Milano, 1994, Tomo II, 219 ss.); Ruolo della giurisprudenza e attività creativa di nuovo diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 1 ss.; Funzione nomofilattica e valore del precedente, in Aequitas sive Deus. Studi in onore di Rinaldo Bertolino, Torino, 2011, Vol. II, 1263; v. poi sempre Id., Funzione nomofilattica e valore del precedente, in T. Arruda Alvim Wambier (a cura di), Direito Jurisprudencial, São Paulo, 2012, 225 ss.
[6] Chiarloni, Riflessioni minime sull’insegnamento del diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, 547.
[7] Cfr., ex multis, Chiarloni, In difesa della nomofilachia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 123 ss.; Id., Un ossimoro occulto: nomofilachia e garanzia costituzionale dell’accesso in cassazione, in C. Besso, S. Chiarloni (a cura di), Problemi e prospettive delle corti supreme: esperienze a confronto, Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, ESI, 212, 19 ss. (libro pubblicato in occasione dell’incontro, avvenuto presso l’Aula Magna del Rettorato dell’Università di Torino, il 29 aprile 2011).
[8] Chiarloni, Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano (Giuffrè), 1980 (nella Collana “Università di Torino. Memorie dell’Istituto Giuridico”). V. anche Id., Ars distinguendi e tecniche di attuazione dei diritti, in Riv. dir. proc., 1988, 755 ss. (e anche in Mazzamuto (a cura di), Processo e tecniche di attuazione dei diritti, Napoli, 1989, I, 183 ss.).
[9] V. i contributi raccolti nel fascicolo, curato da Chiarloni, dedicato all’art. 614 bis c.p.c. sulle colonne della Giurisprudenza Italiana, e in particolare il Suo L’esecuzione indiretta ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c.; confini e problemi, in Giur. it., 2014, 731 ss. (anche in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, a cura di Sassani, Capponi, Storto, Tiscini, Milano, 2014, Cap. II). V. anche la Sua voce Esecuzione indiretta. Le nuove misure coercitive ai sensi dell’art. 614bis c.p.c., in Il libro dell’anno del Diritto Treccani 2012 (online). Più di recente, Id., Note comparative sull’esecuzione indiretta in Italia e in Brasile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, 585 ss.
[10] Critica esplicitata in più parti del Volume, ma spec. nel Cap. finale, Riflessioni conclusive, e spec. 235 ss. (a proposito del cd. government by injunction).
[11] Misure coercitive, cit., 28.
[12] Mi riferisco al denso Cap. II, L’evoluzione storica, in Misure coercitive e tutela dei diritti, cit., 37 ss., e, più in particolare, la Sez. II, intitolata «Nemo ad factum praecise cogi potest»: storicità di un principio «di natura», 54 ss.
[13] Introduzione allo studio del diritto processuale civile, Giappichelli, 1975. V. anche il lungo Processo civile e società di classi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 733 ss. Per una analisi simile, ma in termini meno radicali, successivamente Chiarloni, La giustizia civile e i suoi paradossi, in Storia d’Italia, Annali, Vol. 14, Legge, diritto, giustizia (a cura di L. Violante), 1998, 406 ss.
[14] Impossibile qui ricostruire l’articolato pensiero; per chi voglia approfondire, v. comunque, Chiarloni, Processo civile e verità, in Questione giustizia, 1987, 504 ss.; Id., Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc., 1986, 819 ss.; Id., La semplificazione dei procedimenti probatori, in Riv. dir. civ., 1989, I, 737 ss.; Id., Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, ivi, 2008, 144; Id., voce “Giusto processo (dir. proc. civ.)”, in Enc. dir., Annali II, I, 2009, 403 ss.; Id., La verità presa sul serio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 695 ss. (scritto a proposito del classico libro di Taruffo, La semplice verità, Roma-Bari, 2009); Id., Riflessioni microcomparative su ideologie processuali e accertamento della verità, in Due iceberg a confronto: le derive di common law e civil law, Quaderni della Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 101 ss., e anche in Studi in onore di Nicola Picardi. Ricordiamo che la monografia di una allieva di Sergio Chiarloni – Giulia Bertolino – verteva proprio su questo tema, a cavallo tra filosofia e diritto processuale; cfr. Id., Giusto processo civile e verità. Contributo allo studio della relazione tra garanzie processuali e accertamento dei fatti nel processo civile, Torino, 2010.
[15] Fu General Reporter al XI World Congress, nel 1999 (a Vienna) e a quello successivo, il XII, nel 2003 (a Città del Messico). Fu National Reporter, invece, al Congresso ancora successivo, il XIII, nel 2007 (a Bahia, in Brasile).
[16] All’indomani della scomparsa, ne hanno ricordato la figura, ad es., l’importante Instituto Brasileiro de direito processual, nelle parole di Hermes Zaneti Jr. (https://direitoprocessual.org.br/noticias-homenagem-ao-professor-professor-sergio-chiarloni-hermes-zaneti-jr.html), e l’Universidad Abierta Interamericana, in Argentina, dove Chiarloni era stato più volte, con Guido Alpa ( https://noticias.uai.edu.ar/facultades/derecho-y-ciencias-pol%C3%ADticas/muri%C3%B3-sergio-chiarloni-padre-de-la-escuela-de-procesalista-de-tur%C3%ADn/).
[17] Tema – come abbiamo detto – classico nella riflessioni di Chiarloni; v.lo in J. Nieva-Fenoll, R. Cavani (a cura di), La casación hoy, cien años después de Calamandrei, Madrid, 2021 (trad. allo spagnolo di César E. Moreno More).
[18] Zuckerman, Sergio Chiarloni - A Formative Encounter, in Trasformazioni e riforme del processo civile. Dalla l. 69/2009 al d.d.l. delega 10 febbraio 2015, a cura di Chiara Besso, Giorgio Frus, Gabriella Rampazzi, Alberto Ronco, Bologna (Zanichelli), 2015, 553 ss.
[19] Civil Justice in Crisis: Comparative Perspectives of Civil Procedure, a cura di A. Zuckerman, S. Chiarloni, P. Gottwald (cons. ed.), Oxford University Press, 1999.
[20] V. la recensione in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 735 ss.
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