ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Linguaggio e lessico nella giurisdizione: le ragioni di un rinnovamento culturale.
Intervento alla tavola rotonda del convegno di Area dell’8 giugno 2022
di Maria Acierno
È opportuno prendere l’avvio per qualsiasi riflessione sul tema oggetto della tavola rotonda, considerando l’obbligo costituzionale di motivazione previsto per tutti i provvedimenti giurisdizionali (art. 111, c.6 Cost.).
Quale è il contenuto dell’obbligo e come è stato interpretato nel tempo?
Il contenuto si deve leggere alla luce della legittimazione e giustificazione costituzionale dell’indipendenza della magistratura italiana: le decisioni devono essere sottoposte al controllo ed alla verifica democratica di chi ne legittima la forza e efficacia cogente (il popolo italiano in nome del quale sono emanate ancorché non solo ad esso dirette).
In primo luogo, le motivazioni devono essere effettive, non formali, od apparenti, non devono limitarsi a formule di stile ma esplicitare le ragioni della decisione in relazione al caso concreto e solo quelle. “Solo quelle” sta ad indicare la necessità di una stretta consequenzialità senza interferenze con principi o regole non finalizzate alla decisione (i cd. obiter dicta) o contenenti digressioni che invece di inquadrare il focus e le alternative della decisione, costituiscono mero sfoggio di conoscenza giuridica e non rispecchiano fedelmente, nelle decisioni a carattere collegiale, il processo decisionale.
Le motivazioni devono essere chiare perché possano essere sottoposte al controllo ed alla verifica di chi legittima la forza cogente delle decisioni.
Questo è l’attributo di più complesso inveramento. Le ragioni problematiche sono molteplici.
Da un lato, la maggiore facilità di formulazione di un linguaggio burocratico, che semplifica l’esposizione attraverso formule di sintesi convenzionalmente decifrabili soltanto dal contesto di riferimento e produce separatezza e diffidenza generali per la oggettiva difficoltà di comprensione generale; dall’altro, il crescente e inarrestabile, oltre che fortemente antiilluminista, tecnicismo del lessico legislativo, sempre più settoriale e casistico e sempre meno “riformista” o quanto meno “ordinante” e dipanato per principi.
Inoltre, una parte rilevante dei provvedimenti giudiziari, specie civili – ma, per l’incidenza crescente delle leggi penali speciali, il discorso vale anche per quelli penali - è impegnata a definire il quadro normativo applicabile, data la frequenza delle modifiche legislative in molti settori, sia in relazione all’ambito contenutistico che al segmento temporale di vigenza dell’una o l’altra norma.
Infine, ma questa è la parte più “nobile”, che impone una sfida ed un impegno collettivo, l’attributo della chiarezza trova ostacolo nella complessità extragiuridica di molti dei temi affrontati dalla giurisdizione, molto frequentemente caratterizzati dalla necessità di definizioni e giudizi di carattere scientifico. A scopo meramente esemplificativo si pensi al quadro innovativo determinato dalle biotecnologie. Che cosa è la p.m.a., vale a dire la “procreazione medicalmente assistita”; quali sono le forme di p.m.a; quali quelle che non contrastano con i nostri principi di ordine pubblico e/o con quelli di diritto positivo; come si realizza il processo generativo; quali indicazioni predittive può fornire in più rispetto a quello biologico cd. naturale; quali indicazioni possono essere tratte da tracce di materiale genetico. Senza queste nozioni non può essere affrontato il complesso paradigma normativo che regola l’accesso alla procreazione assistita, fissa l’assunzione irrevocabile della responsabilità procreativa e genitoriale, definisce gli status filiali.
Tali ostacoli alla chiarezza, solo sommariamente indicati, devono essere superati.
In questo consiste l’assunzione di responsabilità professionale e deontologica che ci viene dalla nostra fortunata collocazione costituzionale.
Funzionali alla chiarezza sono senz’altro la concisione e la capacità di sintesi. Questa condivisibile affermazione tuttavia necessita di qualche precisazione.
L’attenzione e la conseguente comprensione di un’argomentazione sono favorite dalla sua esposizione sintetica. Ciò richiede uno sforzo ulteriore: dipanare tutti i passaggi logici che conducono ad una decisione fa parte integrante del processo decisionale; aiuta la trasparenza della decisione (specie se collegiale) anche in chiave dialettica ma la giustificazione delle ragioni delle decisioni richiede una consequenzialità sintetica, limitata ai passaggi essenziali che è molto difficile, in mancanza di una formazione adeguata da realizzare nel percorso universitario e durante il percorso professionale post concorso.
Nello stesso tempo, la motivazione deve restituire esclusivamente le ragioni della decisione così come logicamente espresse nella camera di consiglio.
Anche questo rilevante aspetto del self restraint costituisce parte integrante dell’assunzione di responsabilità costituzionale che il ruolo impone.
Soprattutto l’organo della nomofilachia deve sottrarsi alla tentazione di affermare principi estranei alle rationes decidendi quand’anche riferibili all’area giuridica di riferimento.
Pur se sostenuti da una finalità di maggiore chiarificazione dei principi che regolano un settore anche in funzione di sostegno di future decisioni, tali interventi costituiscono una grave patologia non solo della motivazione ma anche della decisione dal momento che introducono nel sistema del precedente principi che creano disordine, disorientamento; forzature interpretative che allontanano dall’esercizio della funzione nomofilattica la quale deve rimanere strettamente consequenziale all’affermazione dei principi costituenti il fondamento della decisione.
Ma se si parla di sintesi si deve evitare un fraintendimento: la chiarezza, la concisione e la sintesi, qualità complesse che si acquistano con la pratica, l’esperienza, la formazione (quella post concorso è molto ampia, articolata ed efficace) vengono qui poste in luce in funzione dell’obbligo costituzionale di motivazione (ed anche in funzione di una corretta comunicazione e diffusione della decisione) e non come strumenti volti esclusivamente ad un incremento dell’efficienza del prodotto finale (provvedimento) e, dunque, in esclusiva chiave d’incremento della produttività.
Il legislatore processuale, costantemente impegnato in riforme a costo zero, è sembrato rincorrere, attraverso i richiami alla concisione ed alla “succinta” esposizione (così adoperando un lessico arcaico per richiedere un adeguamento della motivazione all’attualità) l’obiettivo di scrivere meno per produrre di più.
Questa finalità è fuori dalla funzione costituzionale della motivazione e dalle esigenze di chiarezza e sintesi che impone. Anzi, si può verosimilmente ritenere che l’esigenza di una sempre maggiore produttività scoraggi la chiarezza e appiattisca il linguaggio verso quelle formule convenzionali linguistiche che producono semplificazioni soltanto nel contesto di riferimento e non inducono ad un miglioramento ed adeguamento effettivo del linguaggio giudiziario, ma piuttosto spingono verso una sorta di pigra coazione a ripetere arcaismi e formule poco comprensibili.
Formule ripetitive che si collocano, cioè, fuori dal rinnovamento culturale del linguaggio, che costituisce, come sollecita proprio questa tavola rotonda, un’urgenza per la giurisdizione.
Il richiamo legislativo svolge, tuttavia, una funzione virtuosa, nel limitato senso di imporre il criterio dell’adeguatezza e della stretta continenza della motivazione alla natura e complessità della decisione.
Il fenomeno del narcisismo espositivo è in calo ma ancora non può dirsi superato interamente. Il rigoroso assolvimento dell’obbligo costituzionale della motivazione non significa impegno uguale per qualsiasi tipologia di decisione.
Ove la decisione s’inserisca in un contenzioso seriale è sufficiente il richiamo per relationem a principi consolidati. Si tratta di un obbligo che cresce in relazione alla natura della decisione, sia con riferimento alla capacità proiettiva della decisione stessa che con riferimento ai rilievi dei diritti delle parti.
Fuori dell’intentio legislativa derivante dalle norme processuali che si sono avvicendate anche in modo caotico nell’ultimo decennio deve tuttavia rilevarsi un progressivo impegno virtuoso della formazione della Scuola della Magistratura e delle fonti provenienti dai testi normativi autoorganizzativi degli uffici ed anche dal Codice etico dell’Associazione Nazionale Magistrati.
Il richiamo più rilevante è quello contenuto nel Documento di Organizzazione di cui si è dotata la Corte di Cassazione.
Il Primo Presidente ha sottolineato espressamente la necessità e l’obbligo di essere chiari e sintetici e, tema che verrà affrontato nella seconda parte di questo breve discorso, di abbandonare valutazioni “pregiudiziali” che provengano da modelli culturali e valoriali soggettivamente introiettati ma non corrispondenti a quelli che si rispecchiano nel quadro multilivello costituzionale.
I problemi maggiori di separatezza delle ragioni della decisione rispetto al personale corredo etico-valoriale ed ideologico riguardano i cd. temi sensibili (giudizi su inizio e fine vita; scelte personali e relazionali non corrispondenti al paradigma eterosessuale etc.) per i giudizi civili e i procedimenti che riguardano il diritto di soggiorno dei cittadini stranieri e per i giudizi penali i reati che colpiscono in via generale un genere od un gruppo.
In questi ambiti, come è stato efficacemente sottolineato, l’empatia emotiva può sostituire quella cognitiva, che invece dovrebbe costituire l’humus che sorregge le decisioni, specie in quei settori ove la conoscenza delle radici geo e socio politiche delle domande di tutela (si pensi alla protezione internazionale) sono così rilevanti da essere legislativamente codificate o la conoscenza e la precisa definizione tecnico scientifica delle situazioni alle quali deve darsi una regolazione giuridica ed un regolamento d’interessi (per semplificare inizio e fine vita, p.m.a., status, etc) costituiscono il fondamento ineludibile dell’indagine da compiere ai fini della decisione.
La sottovalutazione dell’impatto dell’empatia emotiva sia sul percorso argomentativo, quanto, purtroppo, sulla decisione può determinare conseguenze lesive della dignità personale di individui e gruppi collegati, per esempio, per appartenenza ad un genere.
In relazione a quest’ultimo profilo deve segnalarsi, non senza rammarico, la necessità dell’intervento della Corte Europea dei diritti umani, sul linguaggio contenuto in una sentenza penale e rammentare che il codice etico dei magistrati modificato nel 2010, prevede all’'articolo 12, terzo comma: «Nelle motivazioni dei provvedimenti e nella conduzione dell'udienza [il giudice] esamina i fatti e gli argomenti prospettati dalle parti, evita di pronunciarsi su fatti o persone estranei all'oggetto della causa, di emettere giudizi o valutazioni sulla capacità professionale di altri magistrati o dei difensori, ovvero – quando non siano indispensabili ai fini della decisione – sui soggetti coinvolti nel processo.»
Afferma espressamente la Corte EDU, (caso J.L. c. Italia n. 5671/16), che gli obblighi positivi di proteggere le presunte vittime di violenza di genere impongono anche il dovere di proteggere l'immagine, la dignità e la vita privata di queste ultime, anche attraverso la non divulgazione di informazioni e dati personali senza alcun rapporto con i fatti.
Questo obbligo è, peraltro, inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale (paragrafi 57 e 62 supra) nonché da vari testi internazionali (paragrafi 65, 68 e 69 supra).
La Corte precisa in modo forte come non veda in che modo la condizione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, i suoi orientamenti sessuali o ancora le sue scelte di abbigliamento nonché l'oggetto delle sue attività artistiche e culturali possano essere pertinenti per la valutazione della credibilità dell'interessata e della responsabilità penale degli imputati. Pertanto, non si può ritenere che le suddette violazioni della vita privata e dell'immagine della ricorrente fossero giustificate dalla necessità di garantire i diritti della difesa degli imputati.
Infine ritiene che il linguaggio e gli argomenti utilizzati veicolino i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente.
Un esempio, citato dalla stessa Corte EDU, di condizionamento del giudice da parte del proprio bagaglio culturale o sub culturale è l’aver rafforzato il giudizio negativo di credibilità della parte offesa per l'atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso.
La crescente incisività dell’intervento giurisdizionale in situazioni drammatiche, conflittuali o, come nell’esempio CEDU, di primaria rilevanza penale che coinvolgono individui, relazioni, e la loro autodeterminazione, fanno comprendere quanto sia necessaria una costante vigilanza sul linguaggio giudiziario e sulla consapevolezza del limite da non oltrepassare costituito dal giudizio soggettivo pregiuridico su alcune scelte od azioni della vita che tuttavia interferiscono con i diritti fondamentali della persona e con la sua dignità.
Proprio in questi ambiti, più vicini alla vita quotidiana di tutti e, in quanto tali, più esposti allo scivolamento “conformistico” dell’approccio emotivo, si può tendere ad adottare un linguaggio meno tecnico e sorvegliato, per una malintesa preconoscenza ed empatia.
Il sistema giudiziario, ha, tuttavia, notevoli anticorpi, costituiti non solo dal meccanismo impugnatorio ancorché non diretto a censurare specificamente la motivazione ma la decisione, ma anche dalla formazione costante che accompagna l’intero percorso della magistratura ordinaria. Inoltre per le decisioni collegiali, un forte contributo può provenire dalla rigorosa ed attenta lettura del testo da parte del presidente, accompagnato, ove necessario, dal riesame collegiale del testo. Infine, ove i confini del rispetto della dignità personale possano essere realmente travalicati, non può escludersi il controllo e l’intervento disciplinare nella consapevolezza, tuttavia, che il percorso da compiere è tracciato dalla crescita professionale, deontologica e culturale.
Le proroghe ex lege delle concessioni “balneari” alla Corte di Giustizia: andata e ritorno di un istituto controverso (nota a T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, ordinanza 11 maggio 2022, n. 743)
di Matteo Timo
Sommario: 1. Premessa: il quadro delle concessioni balneari dopo le sentenze “gemelle” del 2021 - 2. I quesiti pregiudiziali sollevati dal TAR Puglia: un nuovo contrasto giurisprudenziale? - 3. La controversa applicabilità della normativa eurounitaria alle concessioni balneari: parziale adesione dell’ordinanza di rinvio alla Plenaria - 4. (Segue) L’incerto rapporto fra diritto nazionale e diritto dell’Unione: in particolare, la “direttiva servizi” recepita, ma self-executing - 5. Cenni finali all’ordinanza di rinvio pregiudiziale e osservazioni conclusive.
1. Premessa: il quadro delle concessioni balneari dopo le sentenze “gemelle” del 2021
Con l’ordinanza in rassegna[1] – emessa nel corso di un giudizio scaturito da un ricorso dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) ai sensi dell’art. 21-bis della legge n. 287/1990[2] – il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione di Lecce, a pochi mesi di distanza dalle pronunce “gemelle” dell’Adunanza Plenaria[3], ha operato un rinvio ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (di seguito anche “TFUE”), sottoponendo alla Corte di Giustizia dell’Unione europea nove quesiti pregiudiziali concernenti le concessioni demaniali marittime, lacustri e fluviali, ad uso turistico e ricreativo, cosiddette “concessioni balneari”.
Si tratta della seconda volta che i giudici amministravi interrogano la Corte di Giustizia in merito alla conformità al diritto eurounitario del meccanismo delle proroghe legali delle concessioni in essere, con particolare riferimento alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi di cui all’art. 49 TFUE e all’art. 12 della c.d. “direttiva servizi” o “direttiva Bolkestein”[4]. Come noto[5], infatti, la Corte si era pronunciata – con la sentenza Promoimpresa del 2016[6]– nel senso che le menzionate disposizioni unionali ostano a qualsiasi tipologia di rinnovo automatico dei titoli concessori in assenza di procedura selettiva del concessionario, allorché ricorrano, a seconda dei casi[7], o un interesse transfrontaliero certo o si tratti dell’affidamento di una risorsa naturale scarsa.
La scelta operata dal T.A.R. Lecce – unitamente alla procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana nel 2020 – consente di corroborare quanto si ebbe modo di scrivere qualche mese prima della notifica della lettera di messa in mora, nella misura in cui «il protrarsi della mancata armonizzazione e l’assenza di una normativa puntuale sulle concessioni balneari potrebbe esporre lo Stato italiano ad una nuova procedura d’infrazione, ovvero determinare un ulteriore rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia […]»[8].
Occorre, ad ogni modo, dare atto di quanto il quadro normativo e giurisprudenziale che contorna il rinvio de quo appaia profondamente mutato da quello che mosse il T.A.R. Lombardia, nel 2014, e il T.A.R. Sardegna, nel 2015, ad adire la Corte di Giustizia[9].
Il rinvio pregiudiziale resta, comunque, uno strumento utile a meglio definire la complessa attuazione della direttiva servizi nell’ordinamento italiano, anche se, con precipuo riferimento ai contenuti di quello operato dall’ordinanza in commento, esso non sembra abbia colto appieno l’occasione per sollevare talune altre questioni d’interesse: quali l’effettiva portata del legittimo affidamento in capo ai concessionari uscenti; le modalità di accertamento del carattere “scarso” della risorsa oggetto di concessione; la sorte del provvedimento amministrativo inoppugnabile, ma divenuto “illegittimo” per disapplicazione della normativa interna contrastante con quella unionale; la legittimità e i limiti dei cosiddetti “effetti verticali invertiti” che possono scaturire da un’applicazione della direttiva Bolkestein da parte delle amministrazioni locali nei confronti dei concessionari decaduti; il valore da riconoscere al decreto legislativo di recepimento[10] della direttiva servizi in Italia; nonché, sempre che il rinvio pregiudiziale sia la sede opportuna, tutte le problematiche e le perplessità che sono state evidenziate da attenta dottrina in merito alle pronunce n. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, tra le quali, non da ultima, la possibilità che dalla disapplicazione della proroga legale consegua una responsabilità penale, come peraltro confermato da una controversa – e successiva alla Plenaria – sentenza della Corte di Cassazione[11].
Segnatamente, le considerazioni che muovono nel senso sopra delineato si radicano nella circostanza per cui il rinvio pregiudiziale, a sommesso avviso dello scrivente, sembrerebbe in qualche misura esortare la Corte di Giustizia a “correggere il tiro” dell’Adunanza plenaria in punto di disapplicazione della normativa sulla proroga legale, tanto che i quesiti formulati si concentrano eminentemente sulla possibilità di riconoscere alla direttiva Bolkestein effetti diretti, esponendo alla Corte – nel solco di una consolidata giurisprudenza della Sezione Lecce[12] – le ragioni per le quali siffatta direttiva non godrebbe d’immediata applicazione nell’ordinamento italiano.
Invero, l’ordinanza rilancia la tesi dell’assenza di effetti diretti in capo alla direttiva Bolkestein e al suo art. 12 in particolare. Già all’epoca del primo rinvio si riscontravano opinioni divergenti sulla natura della direttiva n. 2006/123/CE: oggi la tematica dovrà essere affrontata dalla Corte di Giustizia anche alla luce della giurisprudenza, successiva al 2016, che – in un modo o nell’altro[13] – ha ritenuto che la direttiva servizi sia pienamente idonea ad applicarsi alle concessioni balneari.
Occorre, infatti, rammentare che sembrerebbero militare nel senso della disapplicazione delle proroghe ex lege non solo la lettura della sentenza Promoimpresa[14] e la successiva maggioritaria giurisprudenza amministrativa[15], ma anche la seconda procedura d’infrazione promossa dalla Commissione europea[16], il recente arresto della Plenaria[17] – recepito da alcune Sezioni semplici del Consiglio di Stato[18] e dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana[19] –, la stessa Corte di Cassazione nella sentenza prima citata.
Ad ogni buon conto, la giurisprudenza costituzionale[20], nel riconnettere la potestà legislativa a quella riservata allo Stato in materia di tutela della concorrenza ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., ha sollecitato un intervento del legislatore nel rispetto del diritto eurounitario e dell’evidenza pubblica: potrebbe, in tal senso, avvalorarsi la tesi del T.A.R. Puglia della necessità di uno specifico recepimento della direttiva nel settore de quo.
Tuttavia, la stessa Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto tra poteri dello Stato promosso da una minoranza parlamentare avverso le pronunce della Plenaria[21] e, dall’altro lato, il legislatore che, nei primi mesi del 2022[22], sembra sia riuscito a superare la cronica incapacità di regolare le concessioni balneari in punto di tutela della concorrenza, rendendo così prematuro un rinvio alla Corte di Giustizia, sebbene l’attuale crisi di governo non lasci ben sperare in una celere evoluzione legislativa.
Tutto ciò premesso, nel presente lavoro si focalizzerà l’attenzione su talune delle tematiche che sono state oggetto di rinvio pregiudiziale, consci, tuttavia, delle molteplici complessità ermeneutiche, di carattere sostanziale e processuale, che sono emerse dalle sentenze della Plenaria[23]: ne consegue che oggetto d’interesse delle pagine seguenti sarà l’idoneità o meno del diritto eurounitario – e, in particolare, della direttiva servizi – a regolare il settore delle concessioni balneari.
Al fine di perseguire il suddetto obiettivo, occorre, su un più piano generale, sin da ora osservare come l’oggetto del rinvio pregiudiziale inerisca al rapporto intercorrente fra ordinamento sovranazionale (Unione europea) e ordinamenti nazionali (quelli degli Stati membri), ancorché il T.A.R. Puglia sembri omette di sussumere compiutamente la normativa sulle proroghe legali entro l’interpretazione fornita dalla pronuncia Promoimpresa – anche in prospettiva delle osservazioni esposte dalla Commissione europea[24] – e trascuri un richiamo alla giurisprudenza Granital[25]della Corte costituzionale, quantunque esso avrebbe potuto meglio definire il “coordinamento” fra fonti nazionali e dell’Unione europea.
Quanto scritto potrebbe avere una qualche utilità anche in termini di eventuale irrilevanza (se non di irricevibilità[26]) del rinvio pregiudiziale, soprattutto qualora si tenga a mente che, in controversia analoga, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio[27] è pervenuto a conclusioni opposte, nell’affermare che le decisioni «cui è giunta la Plenaria inducono il Tribunale a ritenere non sussistenti i presupposti per la rimessione alla Corte di Giustizia delle questioni pregiudiziali prospettate dal Sindacato Italiano Balneari […] al pari delle questioni di legittimità costituzionale ivi dedotte da ritenersi non rilevanti ai fini della decisione del presente giudizio, proprio in ragione del citato orientamento dell’Adunanza Plenaria»[28].
2. I quesiti pregiudiziali sollevati dal TAR Puglia: un nuovo contrasto giurisprudenziale?
Come già osservato, l’ordinanza de qua solleva nove quesiti pregiudiziali fra loro concatenati, fondati sull’asserita mancanza di effetti diretti in capo alla direttiva servizi e volti ad interrogare la Corte di Giustizia in merito alle possibili ricadute scaturenti da un eventuale riconoscimento della natura self-executing in capo alla medesima direttiva.
Prima di procedere ad una succinta disamina dei quesiti, appare corretto proporre due considerazioni di carattere generale.
In primo luogo – ma si tratta, invero, di una perplessità scaturente anche dalla lettura delle stesse pronunce della Plenaria[29] –, l’ordinanza omette di prendere in esame la possibilità che la direttiva servizi sia una direttiva recepita, ancorché in modo parzialmente errato e, pertanto, non necessitante di un complesso esame sulla sussistenza dei requisiti per l’“auto-esecutività”, quanto dell’elisione delle disposizioni con essa confliggenti e, in particolar modo, quelle sulle proroghe legali. In particolare, nel ragionamento della Plenaria – e ciò appare quantomeno singolare – manca un qualsivoglia richiamo al d.lgs. n. 59/2010, di recepimento della direttiva Bolkestein[30], sicché il massimo organo della giustizia amministrativa muove direttamente alla ricostruzione della natura self-executing.
Similmente alla Plenaria, nella motivazione dell’ordinanza in commento il Collegio afferma che «a seguito della legge di delega n. 88/2009 (art. 41), è intervenuto il decreto legislativo 26.3.2010 n. 59, di formale recepimento della direttiva 2006/123»[31], senza però sviluppare ulteriormente il rilievo. In merito questo aspetto, sebbene si possa richiamare quanto osservato da una voce della dottrina circa l’irrilevanza del d.lgs. n. 59/2010[32], non sembra rispondere a criteri di logicità e, forsanche, di economicità che il giudice nazionale interroghi la Corte di Giustizia circa l’effetto diretto di una direttiva, allorché questa sia stata formalmente recepita e senza motivare in ordine all’inidoneità della normativa nazionale di recepimento a soddisfare gli obiettivi posti dalla direttiva medesima.
In secondo luogo, dalla lettura dell’ordinanza di rinvio non sempre è chiaro comprendere il legame tra le fonti dell’Unione europea e quelle dell’ordinamento nazionale: il Collegio afferma che il diritto derivato si pone in “stretto”[33] rapporto gerarchico con la Costituzione e con le fonti primarie. Simile ricostruzione del T.A.R. Puglia appare alquanto insolita, in assenza di un collegamento con la giurisprudenza costituzionale, la quale sembrerebbe ritenere che la risoluzione delle antinomie fra diritto interno e diritto eurounitario si fondi, in generale, sul criterio di competenza e non su quello gerarchico.
Ciò premesso, i quesiti possono essere riassunti come segue.
Innanzitutto[34], il Collegio interroga la Corte sull’effettiva validità della direttiva servizi, la quale sarebbe una direttiva di “armonizzazione”, adottata in violazione dell’art. 115 TFUE[35], vale a dire in assenza del prescritto requisito dell’unanimità.
In seconda battuta, l’ordinanza sviluppa una serie di quesiti concernenti l’effetto diretto[36]: se la direttiva Bolkestein presenti i requisiti di sufficiente dettaglio e di assenza di discrezionalità imprescindibili affinché la medesima sia considerata auto-esecutiva; se, nel caso di assenza di effetto diretto, possa darsi applicazione alle disposizioni nazionali contrastanti, salve le sanzioni per inadempimento a carico dello Stato italiano; se – ma il quesito appare, in certa misura, tautologico –, riconosciuta la natura self-executing la direttiva servizi, essa sia direttamente applicabile, ovvero si limiti a creare un obbligo in capo alla Stato membro; se la qualificazione di una direttiva come avente effetto diretto spetti solo al giudice nazionale o anche al funzionario della pubblica amministrazione; se ritenuta la direttiva n. 2006/123/CE self-executing, l’applicazione del suo articolo 12 esiga il carattere dell’interesse transfrontaliero certo di cui all’art. 49 TFUE[37].
Inoltre, il T.A.R. chiede se spetti al giudice nazionale statuire sulla «sussistenza, in via generale ed astratta, del requisito dell’interesse transfrontaliero certo riferito tout-court all’intero territorio nazionale» e sulla «sussistenza, in via generale ed astratta, del requisito della limitatezza delle risorse e delle concessioni disponibili riferito tout-court all’intero territorio nazionale»[38].
Infine, «qualora in astratto ritenuta la direttiva 2006/123 self-executing, se tale immediata applicabilità possa ritenersi sussistere anche in concreto in un contesto normativo – come quello italiano – nel quale vige l’art. 49 Codice della Navigazione […] e se tale conseguenza della ritenuta natura self-executing o immediata applicabilità della direttiva in questione […] risulti compatibile con la tutela di diritti fondamentali, come il diritto di proprietà, riconosciuti come meritevoli di tutela privilegiata nell’Ordinamento dell’U.E. e nella Carta dei Diritti Fondamentali»[39].
Dei summenzionati quesiti, il settimo e l’ottavo, concernenti l’accertamento dell’interesse transfrontaliero e la scarsità della risorsa concessa, appaiono di particolare rilievo, allorché pongono dubbi sulla corretta interpretazione dell’art. 12 della direttiva servizi e dell’art. 49 TFUE. Elementi questi che, in effetti, non sembrano essere stati considerati in misura sufficiente dalla Plenaria, giacché quest’ultima ha operato una valutazione valevole per l’intero territorio nazionale. Dalla sentenza Promoimpresa, per il vero, sembra scaturire la necessità di un accertamento case by case, in prospettiva delle peculiarità dei singoli territori interessati dal fenomeno concessorio, nonché del fatto che le concessioni sono rilasciate a livello comunale. Dall’ordinanza pare, dunque, emergere un netto contrasto con l’interpretazione della Plenaria, se non altro per i quesiti in parola.
All’opposto, in merito ai quesiti vertenti sull’interesse transfrontaliero certo in quanto tale, essi appaiono di secondo piano, poiché la giurisprudenza della Corte di Giustizia è consolidata nello statuire che il diritto dei Trattati trova immediata applicazione solo ove non vi siano disposizioni di diritto derivato impiegabili. A maggior ragione che, nel caso di specie, è lo stesso T.A.R. Puglia a riconoscere, in aderenza alla Plenaria, che «sulla base di quanto statuito sul punto dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Sent. A.P. 17 e18 del 2021), ritiene il Collegio l’applicabilità dell’articolo 12 della direttiva in questione alle concessioni demaniali marittime, oggetto del ricorso principale». Ne deriva, di conseguenza, che, se sulla riconducibilità dell’art. 12 direttiva servizi alle concessioni balneari non è fatta questione, allora l’art. 49 TFUE esce di scena e i quesiti sul suo portato assumono un taglio prettamente teorico.
Invero, anche il quesito sulla scarsità della risorsa potrebbe affievolirsi. Se non pare esservi dubbio che, ad un rigoroso esame della sentenza Promoimpresa, dovrebbero essere il giudice nazionale e, a monte, l’amministrazione a compiere, nelle singole ipotesi, una disamina circa il carattere “scarso” della risorsa naturale oggetto di concessione, è parimenti vero che il litorale, per quanto vasto possa essere, è sempre contenuto entro limiti spaziali che impediscono il rilascio di titoli non contingentati.
Tutto quanto osservato senza tenere in conto che la fragilità del bene de quo, unitamente alla molteplicità di interessi pubblici sensibili di cui è investito e alla natura di bene demaniale, rendono quanto mai opportuno giungere alla conclusione che il litorale sia sempre una risorsa scarsa, nonché meritevole di una rigorosa attività amministrativa di selezione del concessionario, ogniqualvolta, per l’appunto, tale bene sia sottratto all’uso comune[40].
Per un altro verso, infine, è da notarsi come il contrasto giurisprudenziale in merito all’auto-esecutività della direttiva servizi forse potrebbe riconsiderarsi. Dal tenore letterale del rinvio[41], il contrasto si riduce alla menzione di una sentenza del Consiglio di Stato (Sez. VI, 27 dicembre 2012, n. 6682) senza, di converso, alcun richiamo ai numerosi arresti[42], anche recenti[43], di senso opposto.
Invero, chi scrive, con specifico riferimento alla medesima sentenza del 2012, aveva osservato che «in un primo momento, tanto il Consiglio di Stato, quanto la Corte costituzionale avevano espresso l’opinione che il sistema delle proroghe legali fosse giustificato dalla transitorietà che avrebbe dovuto connotarlo, mettendo, per un verso, il legislatore nella condizione di disporre del tempo opportuno per riordinare la materia e, per un altro verso, ponendo i concessionari al riparo da un’improvvisa interruzione del rapporto»[44] e che «è, infatti, all’indomani della sentenza n. 458/2016, che si assiste ad un tendenziale mutamento nella giurisprudenza, tanto che i Tribunali amministrativi e il Consiglio di Stato si sono prevalentemente uniformati all’interpretazione pregiudiziale»[45].
A completamento delle considerazioni già svolte, nei paragrafi seguenti si tratteranno unitamente le questioni della validità e, soprattutto, degli effetti della direttiva Bolkestein in ordine alle concessioni balneari.
3. La controversa applicabilità della normativa eurounitaria alle concessioni balneari: parziale adesione dell’ordinanza di rinvio alla Plenaria
Una prima circostanza che appare di importanza basilare è quella, già rilevata, per cui l’ordinanza ammette «l’applicabilità dell’articolo 12 della direttiva in questione alle concessioni demaniali marittime, oggetto del ricorso principale»[46].
Il dato appare significativo nella duplice misura in cui, innanzitutto, sembrerebbe che, allo stato, la giurisprudenza amministrativa sia unanime nel riconoscere che le concessioni balneari rientrino nel portato oggettivo della direttiva Bolkestein; il che varrebbe altresì ad attenuare fortemente il contrasto fra l’interpretazione nomofilattica della Plenaria del 2021 e l’ordinanza in commento, spostando il core del rinvio pregiudiziale sull’effettività della direttiva e sul contrasto con la normativa nazionale. In secondo luogo, l’aver riconosciuto, già in sede di ordinanza di rinvio, che l’art. 12 in parola regola la materia vale, quantomeno, ad assopire le questioni relative all’art. 49 TFUE.
Dal portato motivazionale del rinvio, oggetto di quesito rivolto alla Corte di Giustizia non è se le concessioni balneari soggiacciano o meno alla direttiva servizi e al principio di concorrenza, piuttosto “quando” e “fino a che punto” la normativa europea possa scardinare l’impianto regolatorio italiano.
Il sopraggiungere di un regime pienamente concorrenziale è ventilato dalla stessa Sezione di Lecce, basti notare che essa si spinge sino al punto di affermare che la direttiva dovrebbe ritenersi priva di effetti diretti, salvo una responsabilità dello Stato italiano per mancato recepimento.
Se, pertanto, il rinvio verte eminentemente sull’applicabilità dell’art. 12 direttiva Bolkestein, occorre, innanzitutto, attribuire a quello stesso articolo l’interpretazione che del medesimo ha dato la Corte di Giustizia nel 2016, allorché è pervenuta alla statuizione di diritto per cui l’articolo 12 «deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati»[47].
Se le cose dovessero stare nel modo che si è descritto, è da ritenere che talune questioni oggetto del rinvio siano state in parte esaurite dalla Plenaria[48] e dalla richiamata giurisprudenza nazionale nel senso della disapplicazione: senza che ciò, ovviamente, impedisca un ulteriore chiarimento pregiudiziale della Corte di Giustizia.
Ad ogni buon conto, una scrupolosa disamina dell’ordinanza esige che essa sia letta sulla scorta di alcuni punti fermi enucleati dalle Istituzioni europee, appunto in forza della rilevanza dell’art. 12 direttiva Bolkestein: in primis, dalla Corte di Giustizia, ma anche dalla Commissione europea.
Cominciando proprio dalla Commissione – sebbene sia chiaro che le interpretazioni formulate da quest’ultima non abbiano la stessa autorevolezza e incisività di quelle della Corte di Giustizia – appare evidente, al fine delle questioni de quibus, la rilevanza degli approfondimenti di cui alla lettera di messa in mora del 2020.
Sinteticamente, la Commissione osserva[49] che, qualora sia identificabile una disposizione di diritto derivato, essa prevale nell’applicazione concreta sul diritto dei Trattati, tanto che, nel caso di specie, l’esistere stesso dell’art. 12 della direttiva servizi confina l’art. 49 TFUE a disposizione di secondario interesse. La Commissione europea appura, inoltre, che «il capo III della direttiva sui servizi (quindi anche l’articolo 12 della medesima direttiva) si applica anche a situazioni puramente nazionali», con la conseguenza che un acclaramento dell’interesse transfrontaliero certo diviene irrilevante. Infine, la lettera di messa in mora precisa quanto si è già avuto la possibilità di osservare[50] in altre sedi, nel senso della necessità di un esame case by case e a livello territoriale dell’eventuale legittimo affidamento e della potenziale scarsità della risorsa, sebbene la Commissione giunga alla conclusione per cui «la legislazione nazionale in questione inevitabilmente riguard[a] concessioni aventi ad oggetto risorse che devono essere considerate scarse in base ai criteri stabiliti dall’articolo 12 della DS e specificati nella sentenza della CGUE»[51].
I rilievi della Commissione europea fanno da contraltare alle statuizioni della pronuncia Promoimpresa e di altra giurisprudenza della Corte di Giustizia. In tal senso, il giudice eurounitario, ha avuto modo nel 2018 di puntualizzare che «per quanto riguarda il contesto in cui si inserisce il capo III della direttiva 2006/123, l’articolo 2, paragrafo 1, di quest’ultima dispone, in termini generali, senza operare distinzioni tra le attività di servizio comprendenti un elemento di carattere estero e le attività di servizio prive di qualsiasi elemento di tal genere, che la direttiva in esame si applica ai “servizi forniti da prestatori stabiliti in uno Stato membro”»[52].
Dal canto suo, inoltre, la sentenza Promoimpresa aveva già assodato che «le questioni pregiudiziali, nella misura in cui vertono sull’interpretazione del diritto primario, si pongono solo nel caso in cui l’articolo 12 della direttiva 2006/123 non sia applicabile ai procedimenti principali, circostanza che spetta ai giudici del rinvio stabilire»[53], che «il fatto che le concessioni di cui ai procedimenti principali siano rilasciate a livello non nazionale bensì comunale deve, in particolare, essere preso in considerazione al fine di determinare se tali aree che possono essere oggetto di uno sfruttamento economico siano in numero limitato»[54] e che una «giustificazione fondata sul principio della tutela del legittimo affidamento richiede una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. Una siffatta giustificazione non può pertanto essere invocata validamente a sostegno di una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione»[55].
Punti fermi dell’interpretazione tanto della Corte quanto della Commissione, dunque, sono: la preminenza dell’art. 12 della direttiva Bolkestein sull’art. 49 TFUE; la sua applicabilità anche a operatori meramente nazionali; la necessaria valutazione case by case dell’eventuale legittimo affidamento; l’accertamento a livello locale e nei singoli casi della scarsità della risorsa, peraltro con una forte presunzione che il litorale sia di per se stesso un bene scarso.
4. (Segue) L’incerto rapporto fra diritto nazionale e diritto dell’Unione: in particolare, la “direttiva servizi” recepita, ma self-executing
Dalla lettura dei passaggi riportati, tanto della Commissione europea, quanto soprattutto della Corte di Giustizia, deriva con chiarezza come parte dei quesiti pregiudiziali sollevati dal T.A.R. Puglia ponga interessanti questioni relativamente al rapporto fra ordinamenti degli Stati membri e Unione europea, collocandosi nel solco di un lungo dibattito scientifico e giurisprudenziale.
Segnatamente, è possibile osservare, in primo luogo, che ogni questione relativa all’art. 49 o all’interesse transfrontaliero certo sia d’interesse secondario, posto che la giurisprudenza nazionale – ivi compresa la stessa ordinanza di rinvio – ha riscontrato l’applicabilità di una disposizione di diritto derivato. Peraltro, come sopra osservato, la Corte di Giustizia ha chiarito che la direttiva servizi rileva anche nel caso di attività prive di «carattere estero»[56].
In secondo luogo, l’asserita invalidità – per violazione dell’art. 115 TFUE – della direttiva servizi in quanto direttiva di “armonizzazione” e non di “liberalizzazione” appare infondata, posto che tale presunzione troverebbe, nella ricostruzione del T.A.R., fondamento nel fatto che la pronuncia Promoimpresa avrebbe usato la locuzione “armonizzare” in riferimento alla direttiva n. 2006/123/CE.
Con maggior precisione, si è indotti a ritenere privo di fondamento questo specifico quesito per taluni motivi: non pare sufficiente a supportare l’invalidità una frase estrapolata da una sentenza della Corte di Giustizia che si stava pronunciando su altri temi[57]; la questione appare del tutto peculiare e insolita, in un contesto di generale riconoscimento – anche da parte del legislatore italiano che l’ha ritualmente recepita – di validità alla direttiva Bolkestein; attenta dottrina ha da tempo chiarito la forte impronta liberalizzante e semplificante della direttiva in parola[58]; dirimente sarebbe poi il dato che la direttiva servizi è stata approvata sulla scorta dell’allora vigente art. 251 del Trattato istitutivo della Comunità europea (cd. “procedura di codecisione”), il quale, a quanto consta, non richiede l’unanimità, e non, come invece sostiene la Sezione di Lecce, sull’art. 115 TFUE, entrato in vigore successivamente.
Per il vero, è da ritenersi che la questione sulla validità e, soprattutto, sull’efficacia della direttiva servizi sia stata semplicemente non sviluppata per intero dall’ordinanza di rinvio, in prospettiva della duplice constatazione per cui, la Sezione rinviante, da un lato, omette il richiamo alla nutrita giurisprudenza costituzionale in merito ai rapporti fra diritto nazionale e diritto dell’Unione e, dall’altro lato, non approfondisce il nesso sussistente fra legislazione interna e direttiva servizi.
È emblematico di quanto appena riportato come dalla lettura dell’ordinanza di rinvio risalti più volte il richiamo alla sola gerarchia[59] quale criterio di risoluzione delle antinomie fra regole eurounitarie e quelle dello Stato membro, senza che sia fatta menzione della giurisprudenza Granital della Corte costituzionale[60], la quale ha da tempo chiarito come ordinamento dell’Unione europea e ordinamento italiano siano autonomi – sebbene fortemente integrati – e governati, di base, dal principio di competenza[61], da cui deriva non l’annullamento[62], bensì la disapplicazione della fonte interna discordante con quella dell’Unione europea e, semmai, un ricorso alla questione di legittimità costituzionale per eliminare quelle disposizioni interne contrastanti con direttive non recepite o non correttamente recepite[63]. Sul punto, a quanto consta, non risultano orientamenti giurisprudenziali tali da scardinare[64] l’assetto dei rapporti tra fonti stabilito dalla sentenza del 1984.
Nondimeno, il T.A.R. Lecce, come si è accennato, non s’interroga sul portato del d.lgs. n. 59/2010 di recepimento in Italia della direttiva serviti. Un richiamo al decreto, il cui esame è stato totalmente omesso anche dalle sentenze “gemelle” della Plenaria[65], viene solo abbozzato dall’ordinanza nel momento in cui il Collegio ricorda che lo Stato italiano ha “formalmente recepito” la direttiva servizi, salvo non farne più alcuna menzione nel prosieguo delle motivazioni del rinvio.
Il rilievo è peculiare: il silenzio sul punto della Plenaria e del T.A.R. appare anomalo qualora si ricordi che il legislatore delegato ha letteralmente trasposto l’art. 12 della direttiva servizi nell’art. 16 del D.Lgs. n. 59/2010. Anomalo per il fatto che, con un articolato sforzo interpretativo – la Plenaria al fine di riconoscere l’effetto diretto, il T.A.R. Puglia al fine opposto – i giudici amministrativi italiani disconoscono l’operato del legislatore, anche quando questi si è mosso nel senso del recepimento.
Ne, parimenti, dall’esame delle motivazioni della Plenaria e dell’ordinanza di rinvio è dato comprendere quale sia la ragione per cui, in ordine all’art. 12, sia necessario interrogarsi sull’effetto diretto, mentre una disamina dell’art. 16 possa essere omessa, anche, eventualmente, nel senso di promuovere una questione di legittimità costituzionale delle norme con esso contrastanti, sulla scorta dell’insegnamento delle citate sentenze Grantital e Fratelli Costanzo.
Considerazione quest’ultima che sembra trovare conforto nella più recente giurisprudenza Popławski[66], ove la Corte di Giustizia – nel ribadire il principio del primato, la disapplicazione in caso di fonti aventi effetto diretto e l’interpretazione conforme anche in caso di fonti prive di effetto diretto – chiarisce che «un giudice di uno Staro membro non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del suo diritto nazionale contraria» a una direttiva[67]. Sembrerebbe, dunque, che nel caso in cui ci sia una normativa di recepimento il giudice nazionale debba tenerne conto: tanto che, proprio in riferimento alla direttiva servizi, la successiva pronuncia Thelen Technopark Berlin GmbH ha pienamente ribadito quanto enunciato nella sentenza Popławski II, precisando tuttavia che «un giudice nazionale non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del suo diritto nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione, qualora quest’ultima disposizione sia priva di efficacia diretta (sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, C-573/17, EU:C:2019:530, punto 68), ferma restando tuttavia la possibilità, per tale giudice, nonché per qualsiasi autorità amministrativa nazionale competente, di disapplicare, sulla base del diritto interno, qualsiasi disposizione del diritto nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione priva di tale efficacia»[68].
Invero, una spiegazione per il mancato esame del decreto italiano di recepimento parrebbe emergere da quell’etichetta di “formale” che il T.A.R. appunta sul D.Lgs. n. 59/2010. Se fossero davvero così – ma la convergenza della Plenaria e del T.A.R. lasciano presumere proprio questo – il ragionamento potrebbe destare alcune perplessità e condurre la giurisprudenza nazionale su una pericolosa china; quella di non attribuire il dovuto riguardo alla normativa di recepimento, senza peraltro siano chiarite le ragioni di siffatto indirizzo.
Dalla disamina dell’ordinanza e delle sentenze gemelle del 2021 – nonché, a quanto è dato sapere dalla dottrina – non emerge alcun motivo per cui, disapplicata la proroga legale, non possa trovare applicazione l’art. 16 del D.Lgs. n. 59/2010. Si tratterebbe, infatti, di dare prevalenza alla normativa interna conforme al diritto eurounitario su quella con il medesimo non concordante. Inoltre, l’operazione garantirebbe una certa quale “economia interpretativa”, evitando lunghe digressioni sull’effetto diretto (e sulle sue conseguenze sui rapporti e sui provvedimenti).
Pertanto, alla luce delle considerazioni svolte sulla validità e sull’efficacia della direttiva servizi, è, quantomai, di elevato interesse scientifico, economico e sociale che il T.A.R. Puglia abbia riproposto la questione alla Corte di Giustizia, nella misura in cui sembra che non si sia ancora addivenuti ad un definitivo consolidamento fra fonti interne e fonti dell’Unione.
Infatti, parte dei quesiti è munita di sicura portata interpretativa: in particolar modo quelli, già esaminati, che concernono l’accertamento della scarsità della risorsa, nonché di conseguenza il possibile legittimo affidamento ingeneratosi nel concessionario uscente. Infatti, tali interrogativi, come si è visto, si pongono in diretta consecuzione della sentenza Promoimpresa, nel senso di una verifica da operarsi nel singolo caso, a livello territoriale e in assenza di automatismi di qualsivoglia genere. Essi, inoltre, pongono le basi per un dialogo con l’Adunanza plenaria e con la Cassazione penale. Ne consegue che, al netto delle considerazioni che sono state esposte in proposito nelle pagine precedenti, sul punto non è irrilevante un chiarimento della Corte di Giustizia, quantomeno al fine di appurare se le valutazioni generalizzate effettuate dalla Plenaria rispondano a quanto richiesto al giudice nazionale dalla pronuncia Promoimpresa.
5. Cenni finali all’ordinanza di rinvio pregiudiziale e osservazioni conclusive
A conclusione della presente nota è possibile tratteggiare un bilancio delle argomentazioni elaborate dal T.A.R. Puglia, Sezione di Lecce, e, innanzitutto, osservare come esso proponga alla Corte di Giustizia la tesi dell’insussistenza dell’effetto diretto in disaccordo, sul punto, con le pronunce nomofilattiche.
Posto che non è in alcun modo precluso al giudice amministrativo sollevare questioni pregiudiziali anche in materie sondate in precedenza dall’Adunanza Plenaria, nel caso di specie appare si stia assistendo al proiettarsi a livello eurounitario di un contrasto giurisprudenziale prettamente interno al giudice amministrativo e, in larghissima misura, dovuto all’inerzia del legislatore statale a riordinare la materia.
Sembra, dunque, che il peculiare approccio alla regolazione delle concessioni balneari del legislatore italiano contribuisca ad assommare incertezza all’incertezza. Non a caso, mentre il legislatore fatica a riformare le concessioni a scopo turistico e ricreativo in aderenza alla direttiva servizi (rectius al d.lgs. n. 59/2010), anche l’Adunanza Plenaria, chiamata a dirimere l’annosa questione, avvalora interpretazioni sostanziali e processuali da più voci ritenute di dubbio portato[69] – sebbene sia stata notata un’analogia con l’operato del Conseil d’État[70] – e, da ultimo, il T.A.R. Puglia propone la tesi della legittimità delle proroghe legali, quantomeno sino ad un recepimento (si direbbe a questo punto “sostanziale”) della direttiva Bolkestein. Rilevante è, dunque, che la Corte di Giustizia sia stata invocata al fine di dirimere questi dubbi.
Infatti, vi è da chiedersi, in un contesto tanto variegato, quali conclusioni possano trarsi o, per meglio dire, quali conclusioni “debbano” trarsi se non altro a favore del consociato, dell’operatore economico e della stessa pubblica amministrazione che quelle regole sulle concessioni balneari devono applicare, esponendosi all’incertezza e, malauguratamente, alla responsabilità in sede penale[71].
Una prima osservazione milita nel senso di ritenere che la Plenaria non abbia sfruttato appieno l’occasione fornitale dal decreto presidenziale di rimessione: essa avrebbe potuto evitare operazioni d’ingegneria giuridica – che tante perplessità hanno suscitato nella dottrina[72] – e forse meglio avrebbe fatto ad usufruire direttamente del rimedio ex art. 267 TFUE rimettendo alla Corte di Giustizia le questioni più spinose: il merito sarebbe stato quello di avere un’interpretazione pregiudiziale immediatamente trasposta in una sentenza dell’Adunanza plenaria.
Una seconda osservazione, dalla quale deriva un forte temperamento della questione, risiede nella constatazione per cui nella prima metà del 2022 già tre Sezioni del Consiglio di Stato[73] – in qualche maniera, seppure imperfetta, affiancate dalla Cassazione penale – si sono adeguate alla Plenaria, il T.A.R. Lazio[74] ha escluso un rinvio pregiudiziale sulla stessa materia e la Corte costituzionale[75] ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso per conflitto di poteri promosso avverso le sentenze gemelle. Rilievi tutti che, pur lasciando piena autonomia all’esame in sede pregiudiziale, non potranno non essere tenuti in adeguata considerazione da parte della Corte di Giustizia.
Una terza considerazione concerne, invece, i limiti dei quesiti sollevati dal Tribunale amministrativo giacché essi, concentrandosi in larghissima misura sulla possibile inefficacia della direttiva servizi, non si pongono il problema che la Corte di Giustizia sposi la tesi opposta, lasciando aperti taluni interrogativi che l’ordinanza avrebbe potuto sottoporre alla Corte medesima e che avrebbero garantito una migliore attuazione della direttiva.
Fra questi rientrano i temi dei cd. “effetti verticali invertiti” e del cd. “rapporto triangolare”, nella misura in cui un eventuale effetto diretto della direttiva Bolkestein si presterebbe ad applicazioni esorbitanti dai comuni “effetti orizzontali”. Come si è avuto modo di precisare in altra sede[76], l’effetto diretto della direttiva servizi potrebbe essere invocato dall’amministrazione nei confronti del concessionario (caso dell’effetto verticale “invertito”), ovvero dall’aspirante affidatario, il quale potrebbe richiedere all’amministrazione di provvedere in merito alla decadenza dei titoli a detrimento dei concessionari in essere (caso del “rapporto triangolare”). Nessuna delle ipotesi menzionate è stata vagliata dalla Plenaria e dal T.A.R. Puglia: permane, ad ogni modo, la possibilità che la Corte faccia uso dei suoi poteri integrativi per esaminare anche queste non secondarie tematiche.
[1] T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, ordinanza 11 maggio 2022, n. 743.
[2] Legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”.
[3] Cons. Stato, Adunanza plenaria, sentenze nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, reperibile in https://eur-lex.europa.eu.
[5] Numerosi sono i contributi di dottrina che si sono interessati al tema. Fra questi, si rammentano G. Bellitti, La direttiva Bolkestein e le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali, in Giorn. dir. amm., 2017, 1, p. 60 ss.; L. Di Giovanni, Le concessioni demaniali marittime e il divieto di proroga ex lege, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2016, 3-4, p. 912 ss.
[6] CGUE, Sez. V, 14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa S.r.l. contro Consorzio dei comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro, in https://eur-lex.europa.eu, nonché in Riv. giur. ed., 2016, 4, p. 385.
[7] Si avrà modo di approfondire questo aspetto nel prosieguo della presente nota.
[8] Il riferimento è, sia concesso, a M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia. Profili procedimentali e contenutistici delle concessioni balneari, Torino, 2020, p. 128.
[9] Ordinanze del T.A.R. Lombardia del 5 marzo 2014 e del T.A.R. Sardegna del 28 gennaio 2015, come riportato in epigrafe dalla sentenza Promoimpresa, cit.
[10] D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59, recante “Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno”.
[11] Sul punto P. Otranto, Illegittima proroga ex lege della concessione balneare e reato di “abusiva occupazione dello spazio demaniale”. Cronaca di un finale annunciato (nota a Cass. pen. 22 aprile 2022 n. 15676), in questa Rivista, 27 aprile 2022.
[12] Si è già avuto modo di osservare in altra sede che «a quanto consta, il Consiglio di Stato ha consolidato il menzionato indirizzo, il T.A.R. Puglia, Lecce – seguito da una parte minoritaria dei Tribunali Amministrativi –, si è fatto promotore di un’interpretazione divergente che, traendo fondamento dalla presunta carenza di effetti diretti scaturenti dalla direttiva servizi, ha escluso la disapplicazione delle disposizioni nazionali» (M. Timo, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, in Riv. giur. ed., 2021, 5, p. 1599): il riferimento è a T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 15 gennaio 2021, n. 73, e a T.A.R. Toscana, 9 novembre 2020, n. 1377, entrambi in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Su questo aspetto si veda oltre al § 4.
[14] CGUE, 14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67/15, cit.
[15] Cfr., infra, al § 2.
[16] Infra, al § 3.
[17] Cons. Stato, Adunanza plenaria, nn. 17 e 18 del 2021, cit.
[18] Cons. Stato, Sez. VII, 17 maggio 2022, n. 3901, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] CGARS, Sez. giuri., 24 gennaio 2022, n. 116, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20] Fra le molte, Corte cost., 9 gennaio 2019, n. 1, in www.cortecostituzionale.it, annotata da P.M. Vipiana, Le concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo fra leggi statali e leggi regionali, in Dir. mar., 2020, 2, p. 440 ss. Cfr. anche A. Lucarelli, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni, in http://dirittifondamentali.it, n. 1/2019. Si veda anche Corte cost., 23 luglio 2020, n. 161, con commento di M. Conticelli, Il regime del demanio marittimo in concessione per finalità turistico-ricreative, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 4, p. 1069 ss.
[21] Si veda il comunicato stampa del 25 maggio 2022, Concessioni balneari: inammissibile il conflitto proposto da sette deputati, in www.cortecostituzionale.it, ove si afferma che «In attesa del deposito della pronuncia, l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte fa sapere che il conflitto è stato ritenuto inammissibile per difetto di legittimazione dei ricorrenti a far valere prerogative non loro, ma della Camera di appartenenza».
[22] Cfr., E. Verdolini, Concessioni balneari: è giunto il tempo per una riforma?, in www.eublog.eu, 18 maggio 2022.
[23] Sul punto si rinvia all’attenta riflessione di F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (recensione al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”), in questa Rivista, 28 gennaio 2022.
[24] Tanto della prima quanto della seconda procedura d’infrazione: osservazioni che, per inciso, sono alla base dell’ormai decennale disputa giuridica sulle concessioni balneari.
[25] Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170, in www.cortecostituzionale.it.
[26] In materia di condizioni di ricevibilità del rinvio pregiudiziale, si rinvia all’attenta ricostruzione di L. Terminiello, Le condizioni oggettive di ricevibilità del rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro - C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, p. 59 ss., in particolare p. 62 e p. 64 ss. (e la giurisprudenza della Corte ivi menzionata) circa la “necessità” dei quesiti e la chiarezza della ricostruzione, da parte del giudice nazionale, delle circostanze fattuali e della regolazione giuridica. A titolo esemplificativo, CGUE, ordinanza 17 luglio 2014, resa nella causa C-107/14, in www.curia.europa.eu, in tema di onere motivazionale relativo alle risultanze che hanno indotto il giudice nazionale a sollevare un nuovo rinvio su materia che era già stata oggetto di uno precedente: benché i quesiti di cui a un rinvio «possano essere più agevolmente soddisfatti quando la domanda di pronuncia pregiudiziale si inserisce in un contesto già ampiamente noto a causa di un precedente rinvio pregiudiziale (v., in tal senso, sentenza Europièces, C‑399/96, EU:C:1998:532, punto 24), spetta tuttavia al giudice del rinvio fornire un minimo di spiegazioni sul quadro in fatto e in diritto, nonché sulle ragioni che l’hanno indotto a sottoporre una nuova questione pregiudiziale».
[27] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 11 maggio 2022, n. 5869, in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] Diversamente, T.A.R. Marche, Sez. I, ordinanza 25 luglio 2022, n. 439, in www.giustizia-amministrativa.it, ha deciso di sospendere il giudizio in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia.
[29] Sia, sul punto, consentito il richiamo a M. Timo, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, cit., p. 1609.
[30] Si richiama, in particolar modo, la ricostruzione di M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, in Diritto e società, 2021, 3, p. 331 ss.
[31] Ordinanza in rassegna, punto II – Il contesto normativo di riferimento.
[32] Il richiamo è a F. Ferraro, Diritto dell’Unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’Adunanza plenaria?, in Diritto e società, cit., p. 368, il quale, in recente e approfondito scritto, ha osservato che «Non vi è dubbio che la previsione contenuta nell’art. 12 della direttiva risulta provvista di efficacia diretta, in quanto chiara, precisa e suscettibile di applicazione immediata, in particolare, nella parte in cui impone l’obbligo negativo di non prorogare le concessioni demaniali. Al contempo, non rileva che il d.lgs. n. 59 del 2010 abbia formalmente recepito la direttiva servizi, atteso che le successive norme di legge hanno disatteso l’obbligo di non prorogare le concessioni imposto da tale atto dell’Unione».
[33] Ordinanza in rassegna, punto IV - Premesse di ordine generale: gerarchia delle fonti e direttive self-executing, nell’affermare che «Nel caso di conflitto tra due norme, una nazionale ed una unionale, se entrambe idonee a disciplinare la medesima fattispecie, l’interprete non può che fare riferimento alla scala di gerarchia delle fonti del diritto nell’ambito dell’ordinamento giuridico così come etero-integrato dalla normativa dell’Unione europea. La scala di gerarchia delle fonti del diritto vede al primo posto la Costituzione e le leggi costituzionali, seguite nell’ordine dalle norme unionali immediatamente efficaci ed applicabili (come i Regolamenti), dalle leggi nazionali ordinarie, dalle Direttive U.E., dai regolamenti nazionali, ecc. Ciò costituisce per l’interprete una assoluta priorità logica per la soluzione della questione proposta. Occorre in particolare stabilire l’esatta collocazione delle direttive (autoesecutive e non) all’interno del sistema di gerarchia delle fonti».
[34] Primo quesito di cui all’ordinanza in rassegna.
[35] Reperibile al seguente link: https://eur-lex.europa.eu.
[36] Quesiti da due a quattro, ordinanza in parola.
[37] Sesto quesito.
[38] Quesiti settimo e ottavo.
[39] Quesito nono, corsivo nel testo dell’ordinanza.
[40] Si vedano, in generale, le considerazioni di V. Caputi Jambrenghi, L’interesse pubblico nelle concessioni demaniali marittime, in D. Granara (a cura di), In litore maris. Poteri e diritti in fronte al mare, Torino, 2019, p. 68 ss.
[41] Testualmente, l’ordinanza di rinvio, afferma che «Sotto il primo profilo deve rilevarsi che, viceversa, nella giurisprudenza nazionale il tema dell’auto-esecutività della direttiva 2006/123 non è mai stato affrontato specificamente, atteso che nelle varie pronunce dei giudici amministrativi nazionali la natura auto-esecutiva o meno della direttiva è stata data per scontata sia in senso affermativo, sia in senso negativo, in assenza comunque di alcuno specifico approfondimento. Ed invero, accanto a pronunce che hanno semplicemente dato per scontata e presupposta la natura auto-esecutiva, ricorrono altre sentenze di segno diametralmente opposto, così ad esempio in Consiglio di Stato sentenza Sez. VI 27.12.2012 n. 6682».
[42] In proposito si vedano la nota successiva, nonché Cons. Stato, Sez. VI, 18 novembre 2019 n. 7874, in Foro it., 2020, III, 82, con nota di richiami a cura di A. Travi.
[43] Oltre alle già richiamate T.A.R. Lazio, Roma, n. 5869/2022; CGARS, n. 116/2022; Cons. Stato, n. 3901/2022; è possibile ricordare la recente pronuncia Cons. Stato, Sez. VII, 18 maggio 2022, n. 3918, in www.giustizia-amministrativa.it, nella parte in cui afferma che «preliminarmente il collegio osserva che l’appellante non può invocare il comma 682 della legge n° 145 del 2018 con riferimento alla proroga ex lege delle concessioni demaniali le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative - compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182,comma 2, D.L. n. 34 del 2020, convertito in L. n. 77 del 2020 - sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. Tali norme, pertanto, devono essere disapplicate sia dai giudici che dalla pubblica amministrazione (così Consiglio di Stato Adunanza Plenaria n° 18 del 9 novembre 2021)».
[44] M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia, cit., p. 177.
[45] Ibidem, p. 179. Le pronunce cui ci si riferisce sono: T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 5 maggio 2017, n. 557, confermata in appello dalla Sezione Quinta del Consiglio di Stato (sentenza n. 2960 del 17 maggio 2018); T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 27 aprile 2017, n. 959 (confermata in appella da Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1219); Cons. Stato, Sez. VI, 13 aprile 2017, n. 1763 (nonché Cons. Stato, Sez. VI, 10 aprile 2017, n. 1659, 1658, 1654, 1653 e 1652,); Cons. Stato, Sez. V, 27 febbraio 2019, n. 1368; Cons. Stato 17 luglio 2020, n. 4610, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[46] Ordinanza in rassegna, cit.
[47] Pronuncia Promoimpresa, cit., § 75.
[48] Per l’esame esaustivo della quale si rinvia al menzionato numero monotematico di Diritto e società, 2021, 3.
[49] In particolare, lettera di messa in mora, cit., p. 8.
[50] Sia concesso, nuovamente, il richiamo a M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia, cit., p. 172 ss.
[51] La lettera di messa in mora integralmente afferma che «A questo proposito la Commissione osserva che la legislazione nazionale oggetto di questa lettera di costituzione in mora è generalmente applicabile a tutte le concessioni balneari in Italia. Questo è particolarmente evidente nelle disposizioni contenute nell’articolo 1, comma 18, del decreto-legge n. 194/2009, nell’articolo 24, comma 3-septies del decreto-legge n. 113/2016 e nelle proroghe di cui all’articolo 1, commi 682 e 683, della legge di bilancio, ulteriormente estese dall’articolo 100 del decreto-legge n. 104/2020 al fine di ricomprendervi, tra l’altro, le concessioni lacuali e fluviali nonché quelle per la nautica da diporto. Queste disposizioni sono di natura generale e assoluta e non tengono conto né delle specificità locali (ad esempio non vi è alcuna disposizione che limiti tali proroghe alle zone in cui le risorse non sono limitate) né di eventuali valutazioni effettuate nel contesto delle attività di mappatura e di revisione svolte a norma dei commi 677 e 678 della legge di bilancio. La Commissione ritiene pertanto che la legislazione nazionale in questione inevitabilmente riguardi concessioni aventi ad oggetto risorse che devono essere considerate scarse in base ai criteri stabiliti dall’articolo 12 della DS e specificati nella sentenza della CGUE» (p. 8).
[52] CGUE 30 gennaio 2018, Visser Vastgoed Beleggingen, cause riunite C-360/15 e C-31/16, § 100, in www.curia.europa.eu. Con maggior precisione ai § 98 e 99, la Corte statuisce che con «la sua quarta questione, alla quale occorre rispondere in secondo luogo, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se le disposizioni del capo III della direttiva 2006/123, relativo alla libertà di stabilimento dei prestatori, si applichino a una situazione i cui elementi rilevanti si collocano tutti all’interno di un solo Stato membro. A tale riguardo, occorre anzitutto rilevare che il tenore letterale di dette disposizioni non enuncia alcuna condizione relativa alla sussistenza di un elemento di carattere estero. In particolare, l’articolo 9, paragrafo 1, l’articolo 14 e l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2006/123, che vertono, rispettivamente, sui regimi di autorizzazione, sui requisiti vietati e sui requisiti da valutare, non fanno riferimento ad alcun aspetto transfrontaliero».
[53] Pronuncia Promoimpresa, cit., § 62.
[54] Pronuncia Promoimpresa, cit., § 43.
[55] Ibidem, § 56.
[56] CGUE, Visser Vastgoed Beleggingen, cit., § 100.
[57] Si tratta appunto della Promoimpresa la quale, a quanto si ha modo di comprendere, non ha preso in specifica considerazione il tema della validità della direttiva servizi.
[58] V. Parisio, Direttiva “Bolkestein”, silenzio-assenso, d.i.a., “liberalizzazioni temperate”, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, A.P. 29 luglio 2011, n. 15, in Foro amm-T.A.R., 2011, 9, p. 2978 ss.
[59] Cfr., in questa nota, al § 2.
[60] In tal senso, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 170 del 1984, ha osservato, in merito ai rapporti fra ordinamento dell’Unione e ordinamento italiano, che «i due sistemi sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato. […] Invero, l’accoglimento di tale principio, come si è costantemente delineato nella giurisprudenza della Corte, presuppone che la fonte comunitaria appartenga ad altro ordinamento, diverso da quello statale. Le norme da essa derivanti vengono, in forza dell’art. 11 Cost., a ricevere diretta applicazione nel territorio italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne: e se così è, esse non possono, a rigor di logica, essere valutate secondo gli schemi predisposti per la soluzione dei conflitti tra le norme del nostro ordinamento. […] l’ordinamento della CEE e quello dello Stato, pur distinti ed autonomi, sono, come esige il Trattato di Roma, necessariamente coordinati; il coordinamento discende, a sua volta, dall’avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari, in conformità dell’art. 11 Cost., le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate» e che «l’effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello, non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale. In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto dall’abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o derogatorio, che investe le norme all’interno dello stesso ordinamento statuale, e ad opera delle sue fonti. Del resto, la norma interna contraria al diritto comunitario non risulta - è stato detto nella sentenza n. 232/75, e va anche qui ribadito - nemmeno affetta da alcuna nullità, che possa essere accertata e dichiarata dal giudice ordinario». Peraltro, il punto risulta approfondito dalla nota sentenza Fratelli Costanzo della Corte di Giustizia (CGCE 22 giugno 1989, C-103/88, in eur-lex.europa.eu), ove si è chiarito che: «nelle sentenze 19 gennaio 1982 (Becker, causa 8/81, Race, pag. 53, in particolare pag. 71) e 26 febbraio 1986 (Marshall, causa 152/84, Race, pag. 737, in particolare pag. 748), la Corte abbia considerato che in tutti i casi in cui alcune disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, sia che questo non abbia recepito tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale sia che l’abbia recepita in modo inadeguato»: nel caso di specie, il recepimento del 2010 è stato corretto, permangono però talune disposizioni interne precedenti e successive contrastanti, le quali sono destinate a prevalere o per la via della disapplicazione o semmai per la via della questione di legittimità, ma non certo a soccombere sulla scorta di un’asserita prevalenza gerarchica delle fonti primarie interne sulle direttive prive di effetti diretti.
[61] Si veda sul punto, la ricostruzione di F. Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, II ed., Milano, 2015, p. 98 ss.
[62] Come, peraltro, dovrebbe essere qualora si applicasse il criterio gerarchico: sul punto, ex multis, cfr. R. Bin - G. Pitruzzella, Diritto pubblico, XVIII edizione, Torino, 2020, p. 302 ss. Più in generale, P. Vipiana, Le fonti del diritto, in S. Baroncelli - A. Morelli - G. Moschella - M. Tiberii - P.M. Vipiana - P. Vipiana, Lineamenti di diritto pubblico, Torino, 2021, p. 97 ss.
[63] Qui cfr. sentenza Fratelli Costanzo, cit., supra nota 59.
[64] È noto che, recentemente, un obiter dictum della stessa Corte costituzionale (sent. n. 269/2017, cit.) abbia sollevato taluni interrogativi sulla piena operatività dei principi statuiti con la sentenza n. 170/1984, cit.: tuttavia, successive pronunce paiono aver fortemente limitato le possibili conseguenze della sentenza n. 269/2017, avvalorando l’attualità della pronuncia Granital. Per un esame approfondito della questione si richiama la dottrina che ha avuto modo di meglio studiare il tema e, in particolare, C. Caruso, Granital reloaded o di una «precisazione» nel solco della continuità, in questa Rivista, 19 ottobre 2020, e N. Lupo, La Corte costituzionale nel sistema “a rete” di tutela dei diritti in Europa, tra alti e bassi, in Amministrazione in cammino, 27 marzo 2020.
[65] Cfr. M. Timo, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, cit.
[66] Con precisione, CGUE, 24 giugno 2019, C-573/17, Popławski II, in eur-lex.europa.eu.
[67] Nel caso di specie si trattava di una decisione quadro, ma il ragionamento è esteso dalla Corte di Giustizia alle direttive: cfr., CGUE, sentenza Popławski II, cit., § 53 ss.
[68] CGUE, 18 gennaio 2022, C-261/20, Thelen Technopark Berlin GmbH, in eur-lex.europa.eu, § 33. Sul punto L.S. Rossi, “Un dialogo da giudice a giudice”, in Quaderni AISDUE, 23 maggio 2022, p. 68.
[69] M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, cit., e F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (recensione al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”), cit.
[70] L.S. Rossi, op. cit., p. 66.
[71] P. Otranto, op. cit.
[72] Quali la modulazione degli effetti caducatori sulle concessioni in essere e l’accertamento generalizzato dell’interesse transfrontaliero certo.
[73] Cons. Stato, n. 3901/2022, cit.; Cons. Stato, 3918/2022, cit.; CGARS, n. 116/2022, cit.
[74] T.A.R. Lazio, Roma, n. 5869/2022, cit.
[75] Comunicato stampa del 25 maggio 2022, Concessioni balneari: inammissibile il conflitto proposto da sette deputati, cit.
[76] M. Timo, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, cit., p. 1620.
In ricordo di Gianfranco Ciani di Gabriella Luccioli
*Nella foto di copertina: al centro Gabriella Luccioli e Gianfranco Ciani, a sinistra Ernesto Lupo, a destra Ugo Vitrone. Montepulciano 1966.
1. Gianfranco Ciani è stato per l’ordine giudiziario un grande magistrato, per me anche un amico fraterno. Per questa ragione le mie parole non potranno prescindere da alcuni riferimenti personali.
Conobbi Gianfranco al primo anno di università alla Sapienza, uno studente modello, attento, studioso, gentile nel tratto.
Percorremmo in parallelo i quattro anni del corso universitario e ci laureammo entrambi a novembre del quarto anno, entrambi con una tesi in diritto penale, entrambi seguiti dal professor Vassalli.
Poi, subito dopo la laurea, ricordo Gianfranco proiettato con grande determinazione verso la preparazione del concorso in magistratura secondo un progetto da tempo coltivato. In questo impegno non potei seguirlo subito, non essendo consentito a me donna, all’ epoca, di accedere alle funzioni giurisdizionali. Ma poco dopo la legge del febbraio 1963 eliminò quell’orribile discriminazione, così che potei raggiungere Gianfranco nella preparazione del concorso, frequentando insieme a lui una piccola scuola di via della Mercede e seguendo le belle lezioni del consigliere di Stato Santoni Rugiu.
Superammo entrambi le prove di esame, svolgemmo insieme il tirocinio e poi avemmo le prime funzioni, lui alla pretura di Foligno, io al tribunale di Montepulciano.
E dopo qualche tempo di nuovo a Roma, ancora insieme alla pretura di Roma, ad occuparci di esecuzioni mobiliari.
In seguito i nostri percorsi professionali si divaricarono, perché Gianfranco andò alla Procura generale della Cassazione con funzioni di magistrato applicato e poi di sostituto procuratore generale; nel 2008, con voto unanime del CSM, fu nominato avvocato generale; nel 2011, sempre con voto unanime, procuratore generale aggiunto; infine nell’aprile 2012, ancora una volta con voto unanime, procuratore generale.
Continuammo a coltivare insieme la passione per lo studio del diritto in un piccolo gruppo di magistrati che sotto la guida del presidente Brancaccio si incontravano una volta la settimana per dibattere insieme di temi giuridici. Il presidente Brancaccio ci accompagnò per tutto il corso della sua prestigiosa carriera in un lungo cammino di studio e di maturazione professionale.
2. La storia di Gianfranco Ciani, tutta all’interno della giurisdizione, è quella di un magistrato di elevatissima professionalità, che ha testimoniato in ogni occasione la sua concezione della giustizia come servizio per il cittadino ed ha dimostrato come le funzioni di pubblico ministero, esercitate per gran parte della sua vita professionale, possono nutrirsi della cultura della giurisdizione.
Nell’intervento svolto il 25 gennaio 2013 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 affermò che per un pubblico ministero essere parte integrante della giurisdizione significa “imparare a misurare il valore dell’azione penale (e, prima ancora, della stessa attività di indagine) sul suo esito giurisdizionale” e precisava che “il sintagma cultura della giurisdizione significa proprio una progressiva attrazione delle ragioni dell’indagine nella futura prospettiva della sentenza: in uno scenario, cioè, che non si fermi al facile clamore mediatico delle cautele personali, ma che riesca a intravedere, prospetticamente, i presupposti dell’affermazione di responsabilità. La validità di un’inchiesta non è in un provvedimento custodiale ottenuto, ma solo nella definitiva condanna di un colpevole”.
Nello svolgimento dell’incarico di segretario generale della Procura generale, affidatogli nel 2003 e conservato sino alla nomina ad avvocato generale, procedette ad una radicale ristrutturazione dell’Ufficio tesa ad una sua maggiore efficienza ed avviò e portò a termine l’informatizzazione dei registri della segreteria penale.
Nella qualità di avvocato generale addetto al disciplinare dette corso ad una importante riorganizzazione del servizio nel segno della uniformità e della trasparenza, così da garantire la diffusione interna delle problematiche affrontate e l’omogeneità formale dei capi di incolpazione.
Nel corso della sua lunga esperienza di pubblico ministero si occupò di processi delicatissimi, che sfiorarono i palazzi del potere, svolgendo il ruolo dell’accusa con equilibrio e saggezza. Da segnalare il processo a carico dell’on. Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, in cui chiese ed ottenne l’assoluzione dell’uomo politico definendo mere congetture le accuse; quello a carico dell’avvocato inglese Mills, concluso con l’accoglimento da parte della Cassazione della sua richiesta di dichiarare la prescrizione del reato di corruzione in atti giudiziari, ma non di prosciogliere nel merito; quelli contro importanti esponenti della criminalità terroristica, interna ed internazionale, tra i quali va ricordato il giudizio di cassazione originato da un provvedimento di cattura nei confronti del presidente dell’OLP Arafat, che poneva delicati problemi di diritto internazionale.
E poi processi che hanno segnato la storia del nostro Paese, come quelli a carico di Annamaria Franzoni e di Angelo Izzo, o quello relativo all’attentato dell’Addaura.
Dopo la nomina a Procuratore generale continuò a partecipare alle udienze dinanzi alle Sezioni unite penali, così rompendo una tradizione risalente negli anni di disimpegno del capo dell’Ufficio dall’esercizio dell’attività giurisdizionale in senso stretto.
Nelle funzioni di titolare dell’azione disciplinare esercitò il relativo potere con forte senso dell’istituzione ed equità, non disgiunta dal necessario rigore lì dove si trattava di censurare comportamenti di particolare gravità. A tale riguardo osservò nel richiamato intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 che “il controllo sul versante della responsabilità disciplinare è requisito coessenziale all’indipendenza della magistratura, nella ricerca del punto di equilibrio tra autonomia della funzione e garanzia della qualità del servizio reso, senza derive né verso la tutela corporativa, né verso un conformismo burocratico”.
Ancora si impegnò attivamente, sia a livello nazionale che internazionale, per la istituzione del pubblico ministero europeo al quale affidare la tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
Intensa la sua partecipazione a convegni ed incontri internazionali in Paesi europei ed extraeuropei, nonché a conferenze mondiali dei procuratori generali.
Fece parte di numerose commissioni ministeriali per la riforma del codice di procedura penale, nonché della commissione di studio per la riforma del CSM, dei consigli giudiziari e del consiglio direttivo della Cassazione istituita con d.m. 12 agosto 2015.
Fu collaboratore de Il Foro Italiano e componente del comitato di direzione di Cassazione penale. Curò vari commenti ai codici penale e di procedura penale.
La misura dei toni, il tratto gentile e la straordinaria umanità hanno segnato la figura di un magistrato che non ha mai fatto sfoggio della sua cultura e della sua preparazione, ma ha assunto sobrietà e compostezza come suo habitus professionale e mentale. Ogni suo ragionamento era frutto di riflessione e di ponderazione.
I reiterati richiami, nel ruolo di Procuratore generale, al dovere di riserbo, gli inviti a sottrarsi alle lusinghe dell’immagine e della notorietà, a non coltivare rapporti privilegiati con la stampa, a non ricorrere in modo disinvolto a provvedimenti di custodia cautelare, il costante riferimento alla necessità di una adeguata organizzazione degli uffici del pubblico ministero, in rapporto alle complesse funzioni loro demandate, con la sollecitazione a costituire in ogni Procura gruppi di lavoro specializzati ed a fissare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti, non solo consentono di delineare l’immagine di un magistrato a tutto tondo, portatore dei valori dell’indipendenza e dell’autonomia e attento alla qualità del servizio, ma esprimono una visione estremamente attuale dei problemi sul tappeto e delle possibili soluzioni.
Altrettanto lucide ed attuali appaiono le sue considerazioni sulla necessità di interventi legislativi volti ad un’efficace opera di depenalizzazione, che limiti la sanzione penale alla tutela di beni costituzionalmente garantiti, e ad una seria modifica della disciplina della prescrizione, secondo una visione che poneva le due linee di intervento normativo come sfide immediate per la garanzia dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Nell’intervento svolto il 23 gennaio 2015 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, l’ultimo prima del suo pensionamento, denunciò l’errore diffuso nella società di individuare nel giudice penale il metronomo assoluto dei comportamenti esigibili sul piano etico dai consociati, così consegnando esclusivamente a detto giudice la percezione della antisocialità di talune condotte e affidando alla giurisdizione il peso di distorte incombenze culturali ed ideologiche.
La consapevolezza dei pericoli insiti in tale fenomeno, diretto a caricare la giurisdizione di enormi aspettative etiche e sociali destinate a rimanere deluse, non gli impedì di lanciare, in detta occasione, un segnale di ottimismo con parole che in questo momento così difficile è bello richiamare: “è venuto il momento di reagire al pessimismo dilagante, divenuto una sorta di alibi dell’immobilismo e dell’improvvisazione, e di creare le condizioni per contrastare una situazione che è certamente grave, ma può essere superata se prevalgono l’ottimismo della volontà e l’impegno della magistratura e delle istituzioni interessate, in spirito di coesione, per adeguare l’amministrazione della giustizia al livello dei Paesi più avanzati”.
3. Gli anni dopo il pensionamento non sono stati facili per Gianfranco: lo tormentavano seri problemi alla vista, con le inevitabili limitazioni alla lettura e alla vita di relazione. Ed era proprio questo che più lo angosciava: l’impossibilità di continuare a leggere, a studiare, ad occuparsi dei temi che avevano interessato tutta la sua vita professionale e di impiegare pienamente il suo tempo. Da ultimo la malattia che lo ha stroncato e che rendeva la sua voce al telefono sempre più debole, ma sempre carica di amicizia, una voce in cui pur nella sofferenza era possibile percepire una nota di sollievo per il piacere di risentirci.
Ai due splendidi figli Stefania e Giancarlo che hanno seguito la sua strada professionale resta il conforto di aver vissuto accanto ad una persona eccezionale e la prospettiva di seguirne l’esempio.
A noi resta la testimonianza autorevole di un modo alto di essere magistrato.
Il ruolo dell’inerzia del curatore ai fini della legittimazione straordinaria del contribuente insolvente ad impugnare atti impositivi
di Ginevra Iacobelli
La quinta sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25373 del 25 agosto 2022, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per valutare il rinvio della causa alle Sezioni Unite Civili, per le seguenti questioni:
- Se, al fine di ritenere sussistente la legittimazione straordinaria del contribuente insolvente ad impugnare atti impositivi, rilevi la mera inerzia del curatore, intesa come omesso ricorso alla tutela giurisdizionale o, invece, occorra accertare se l’inerzia sia frutto o meno di valutazione ponderata degli organi della procedura concorsuale;
- Quali siano gli effetti della soluzione alla predetta questione sulla natura, relativa o assoluta, dell’eccezione di difetto di legittimazione e sulle difese del contribuente, e le possibili ripercussioni al di fuori della materia tributaria.
La questione oggetto dell’ordinanza interlocutoria in commento origina dall’impugnazione di due avvisi di accertamento, con i quali venivano disconosciuti costi non documentati e recuperata IVA, per i quali il contribuente ha fatto valere la propria legittimazione straordinaria ad impugnare, stante il disinteresse dimostrato dal curatore del fallimento della società di cui egli era legale rappresentante, società nelle more dichiarata fallita.
La CTP di Napoli ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo il contribuente privo di legittimazione. La CTR della Campania ha rigettato l’appello del contribuente ritenendo che non vi fosse stato disinteresse della curatela ad impugnare l’atto impositivo, ma che la rinuncia fosse stata oggetto di specifica valutazione del giudice delegato.
Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione specificando che l’atto impositivo riguardava crediti concorsuali insorti prima della dichiarazione di fallimento e considerandosi – quale soggetto passivo del rapporto di imposta – legittimato ad agire in costanza di fallimento. Secondo il ricorrente l’inerzia del curatore ad impugnare gli atti impositivi relativi a crediti concorsuali rileva, ai fini della insorgenza della legittimazione straordinaria del soggetto dichiarato fallito, per il solo fatto che il curatore ometta tout court di adire la tutela giurisdizionale. Di conseguenza, il difetto di legittimazione passiva non può essere rilevato di ufficio, in assenza di eccezione sollevata dal curatore.
1. La legittimazione ad impugnare atti impositivi in caso di fallimento del contribuente
L’indagine viene incentrata sulla legittimazione del debitore a far valere la tutela giurisdizionale avverso atti impositivi, che astrattamente e potenzialmente impattano sullo stato passivo del fallimento e che, pertanto, tendono a incrementare la massa dei creditori che concorrono sul ricavato dell’attivo ripartibile.
La Suprema Corte richiama il principio secondo cui, stante il trasferimento al curatore della legittimazione a far valere rapporti di diritto patrimoniale che facevano capo al debitore (artt. 43 l. fall., 143 d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) - il debitore è privo, in linea generale, della capacità di stare in giudizio nelle controversie concernenti i rapporti patrimoniali compresi nel fallimento.
A questa regola fanno eccezione i seguenti casi:
i) il debitore dichiarato fallito (insolvente) che agisce per la tutela di diritti di natura strettamente personale ex artt. 46 l. fall., 146 d. lgs. n. 14/2019 (Cass., Sez. III, 9 maggio 2019, n. 12264);
ii) inerzia degli organi della procedura (Cass., Sez. Lav., 5 dicembre 2019, n. 31843; Cass., Sez. II, 4 dicembre 2018, n. 31313).
Con la specifica che fa a sua volta, eccezione a quest’ultimo principio – secondo cui il debitore, in caso di inerzia degli organi della procedura concorsuale, è legittimato a impugnare provvedimenti che impingono nei rapporti patrimoniali che facevano capo al debitore e che incrementano il passivo concorsuale - il decreto di esecutività dello stato passivo, provvedimento che non è in alcun modo impugnabile dal debitore, attesa anche l’estraneità del debitore al novero dei soggetti legittimati ad impugnare il suddetto decreto, a termini degli artt. 98, terzo comma, l.f., art. 206, comma 3, d. lgs. n. 14/2019 (Cass., Sez. I, 21 gennaio 2020, n. 1197; Cass., Sez. VI, 25 marzo 2013, n. 7407; Cass., Sez. I, 29 marzo 2012, n. 5095).
Nel caso di impugnazione di atti impositivi i cui presupposti si fossero determinati prima dell’apertura della procedura concorsuale – impugnazioni che si svolgono davanti al giudice tributario e che indirettamente incidono sullo stato passivo – si riafferma il principio che il contribuente dichiarato fallito (insolvente) è legittimato ad impugnare gli atti impositivi in caso di inerzia degli organi della procedura.
2. Il ruolo dell’inerzia del curatore nel riconoscimento della legittimazione straordinaria del contribuente fallito
Come è evidente, l’inerzia degli organi del fallimento è considerata, in ogni caso, il presupposto per attribuire legittimazione al debitore. È evidente l’importanza che assume comprendere cosa debba intendersi per inerzia del curatore del fallimento e quando si manifesta.
Il problema è che tipo di inerzia permetta al contribuente fallito di agire personalmente in giudizio.
Sul punto la Corte specifica che, nel tempo, si sono formati due orientamenti:
L’orientamento tradizionale (i) sostiene l’impugnabilità degli atti impositivi da parte del contribuente, giustificata dal diverso interesse che ha il contribuente insolvente rispetto al curatore del fallimento.
Il curatore ha interesse ad opporsi ad una pretesa tributaria, in sede giurisdizionale, solo se il contenzioso possa incidere astrattamente sulla ripartizione dell’attivo; il contribuente ha un interesse diverso che gli deriva da riflessi anche di carattere sanzionatorio. L’interesse ad adire del contribuente, inoltre, rileva anche in forza di eventuali effetti positivi che potrebbero derivargli al momento della chiusura del fallimento, ad esempio nel giudizio di esdebitazione, anche ai fini IVA.
Dal riconoscimento della legittimazione straordinaria in capo al contribuente dichiarato fallito discendono i seguenti corollari:
- il difetto di legittimazione straordinaria può essere rilevato solo dal curatore che non sia rimasto inerte e abbia adito l’autorità giudiziaria (l’eccezione è, quindi, di natura relativa non rilevabile né dalla controparte, né d’ufficio);
- il contribuente, in costanza di fallimento, non ha l’onere di dimostrare l’interesse ad agire visto che né il giudice né la controparte potrebbero rilevare il difetto di interesse.
Più chiaramente, secondo l’orientamento richiamato la regola è che il contribuente sia legittimato ad impugnare gli atti impositivi (salvo l’eccezione del curatore), presumendosi l’inerzia degli organi concorsuali in caso di mancato avvio dell’azione giurisdizionale. Unica eccezione è il caso in cui il curatore resti inerte dopo aver instaurato un giudizio tributario, ritenuto successivamente inopportuno da coltivare.
Si afferma, cioè, che l’avvio di un giudizio tributario da parte del curatore fallimentare sia idoneo a escludere il realizzarsi del presupposto dell’inerzia e precluda la legittimazione straordinaria del contribuente. Si delinea la presunzione secondo cui la mancata prosecuzione del giudizio o l’omessa impugnazione della sentenza che lo conclude derivano da una specifica valutazione degli organi della procedura che ne escludono l’inerzia. In tal caso l’eccezione di difetto di legittimazione diviene assoluta, rilevabile anche d’ufficio.
All’orientamento tradizionale si è opposto, di recente, un diverso orientamento (ii) che ritiene che non ricorra l’inerzia in ogni caso in cui vi sia stata una espressa valutazione da parte del curatore, sfociata nella mancata impugnazione dell’atto impositivo. L’inerzia, pertanto, non rileva per il solo fatto che il curatore non abbia impugnato l’atto impositivo, ma solo se la mancata impugnazione sia stata causata da un totale disinteresse. Così, però, occorrerebbe volta per volta esaminare l’omessa proposizione dell’azione di impugnazione da parte del curatore per comprendere se sia frutto di ponderata valutazione.
L’ordinanza sembra non appoggiare la predetta soluzione sottolineando che:
1. in tal caso, l’eccezione di difetto di legittimazione attiva del contribuente diventerebbe assoluta e potrebbe essere rilevata anche d’ufficio dal giudice;
2. la legittimazione straordinaria per pura inerzia diventerebbe, così, inapplicabile in caso di normale operare degli organi della procedura, visto anche che il curatore, quando non intende agire, non procede a farsi autorizzare, ma si limita a sottoporre al visto del giudice delegato il proprio operato.
L’unico spazio di operatività del principio di pura inerzia sarebbe fatto salvo solo nel caso in cui il curatore non si fosse accorto della pendenza del termine per impugnare, lasciando spazio all’iniziativa del debitore.
Si finirebbe, così, per pregiudicare l’operato dei contribuenti insolventi che si trovino al cospetto di curatori attenti e si favorirebbero, viceversa, i contribuenti che si trovino al cospetto di curatori disattenti in relazione ai contenziosi pendenti;
3. l’interesse ad agire del contribuente verrebbe in qualche modo legato alla valutazione operata dal curatore, la quale è del tutto slegata dall’interesse del contribuente.
Se l’irrilevanza dell’interesse del debitore fallito sembra essere alla base dell’esclusione della legittimazione del debitore per quanto riguarda le impugnazioni dei crediti ammessi allo stato passivo, ove si esclude la legittimazione del debitore, l’estensore sottolinea che non si rinviene una analoga norma nel procedimento tributario.
Questa limitazione «di fatto» della legittimazione straordinaria del contribuente potrebbe, peraltro, apparire distonica con la persistenza del rapporto di imposta – in costanza di fallimento - in capo al contribuente e con l’interesse alla tutela giurisdizionale in materia tributaria, la quale rientra tra i diritti fondamentali dell’ordinamento (artt. 24, 53 Cost.).
Il reclamo/mediazione all’indomani della riforma della giustizia tributaria
di Giuseppe Corasaniti*
Sommario: 1. Premessa. – 2. Brevi cenni in merito all’evoluzione normativa e giurisprudenziale della disciplina del reclamo e della mediazione tributaria. – 3. Le (inattuate) proposte di riforma del reclamo/mediazione a seguito della c.d. Manovra Correttiva. – 4. Il “nuovo” reclamo/mediazione e la “conciliazione d’ufficio proposta dalla corte di giustizia tributaria”. – 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Il 31 agosto 2022 è stata emanata la l. n. 130, rubricata “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”[1] che, dopo il fallimento di diverse iniziative legislative proposte negli ultimi anni, ha finalmente attuato l’auspicata riforma della giustizia tributaria.
Il provvedimento legislativo in discorso, sebbene permangano talune criticità[2], deve tuttavia essere accolto con favore, avendo introdotto novità di pregio ed essendo intervenuto su profili – specie per quanto concerne la fase istruttoria del processo tributario[3] – di particolare rilievo.
Nonostante il giudizio in merito alla menzionata riforma sia dunque, complessivamente, positivo, si è però dell’opinione che ad alcuni istituti sarebbe stato opportuno dedicare un’attenzione più ampia. Il riferimento è, in particolare, al reclamo e alla mediazione tributaria disciplinati dall’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, norma che, sin dalla sua introduzione, pare non aver soddisfatto gli obiettivi che avrebbe dovuto contribuire a realizzare. La disposizione in discorso, sebbene interessata da continue modifiche che hanno certamente condotto a parziali miglioramenti rispetto alla sua primaria formulazione, fatica infatti, anche a seguito delle più recenti novità contemplate dall’art. 4, co. 1, lett. e), l. n. 130 del 2022, a trovare un’adeguata collocazione che le consenta realmente di adempiere alle finalità per cui era stata introdotta, ovvero quella di fungere da «efficace rimedio amministrativo per deflazionare il contenzioso»[4].
2. Brevi cenni in merito all’evoluzione normativa e giurisprudenziale del reclamo e della mediazione tributaria
Come poc’anzi accennato, il testo attuale dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992 si discosta sotto molteplici aspetti dalla sua originaria formulazione, essendo il risultato di una profonda trasformazione che gli istituti del reclamo e della mediazione tributaria[5] hanno conosciuto negli anni successivi alla loro introduzione, tanto ad opera del Legislatore, quanto della Corte Costituzionale[6], che attraverso una serie di interventi “correttivi” hanno tentato di porre rimedio ad alcuni fra i profili maggiormente “critici” che ne caratterizzavano l’originaria disciplina[7].
Come noto, le prime modifiche apportate alla norma si rinvengono già in occasione dell’approvazione della l. 27 dicembre 2013, n. 147 (“Legge di stabilità 2014”), emanata nelle more del relativo giudizio di legittimità costituzionale, e testimoniano l’intento del Legislatore di «“mettere in sicurezza” il reclamo e la mediazione nella prospettiva dell’imminente pronuncia della Consulta» e di «minimizzare le eventuali conseguenze di una pronuncia di illegittimità costituzionale[8]».
A breve distanza di tempo, tuttavia, la disciplina dell’istituto, così come risultante a seguito delle novità apportate dal Legislatore con la l. n. 147 del 2013, nonché a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 17-bis, co. 2, d.lgs. n. 546 del 1992, ha conosciuto un’ulteriore e significativa evoluzione che ha condotto ad una sostanziale riformulazione della norma, all’interno della quale l’art. 9, co. 1, lett. l), d.lgs. n. 156 del 2015[9] ha introdotto alcune novità di pregio, senza però risolvere tutte le perplessità sorte negli anni precedenti[10]. Il citato art. 9, più precisamente, ha integralmente “riscritto” il previgente art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, contemplando novità di notevole rilevanza nel dichiarato intento di potenziare l’istituto del reclamo/mediazione e, conseguentemente, di incentivare ulteriormente rispetto al passato la deflazione del contenzioso tributario[11].
Di minor pregnanza, seppur degne di approfondimento, si sono rivelate invece le modifiche normative operate dall’art. 10, d.l. 24 aprile 2017, n. 50 (conv. con mod. dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, c.d. “Manovra Correttiva”), che rappresenta l’ultimo intervento legislativo che ha interessato gli istituti del reclamo e della mediazione prima delle recenti novità introdotte dalla l. n. 130 del 2022.
A tal riguardo, si ritiene dunque opportuno ricordare brevemente come la novella del 2015 abbia anzitutto confermato l’impostazione adottata in sede di prima revisione dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, senza riproporre l’originaria sanzione dell’inammissibilità del ricorso giurisdizionale in caso di mancata previa proposizione dell’istanza di reclamo e mantenendo altresì inalterato il limite di valore di ventimila euro. L’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, come risultante a seguito della predetta modifica normativa, ha inoltre confermato che il ricorso diviene procedibile solo una volta trascorso il termine di novanta giorni previsto al fine di esperire la procedura amministrativa volta alla composizione della lite; tuttavia, diversamente rispetto alla disposizione precedentemente vigente, questo meccanismo è stato attuato prevedendo che il ricorso, proposto nelle forme di rito, produce anche gli effetti del reclamo, che può contenere una proposta di mediazione, con rideterminazione dell’ammontare della pretesa[12]. Ne consegue che la proposizione dell’impugnazione produce, nelle controversie di valore non superiore (originariamente) a ventimila (attualmente cinquantamila) euro, oltre agli effetti sostanziali e processuali tipici del ricorso, anche quelli del reclamo/mediazione: in concreto, dunque, si è previsto che il procedimento amministrativo in esame fosse introdotto automaticamente con la presentazione del ricorso[13].
Sotto il profilo soggettivo, è inoltre importante sottolineare come la novella del 2015 abbia decisamente esteso l’ambito di applicazione dell’istituto, ricomprendendo infatti nell’ambito delle controversie reclamabili anche quelle riguardanti tributi di competenza dell’Agenzia delle dogane, dell’Agenzia del territorio, dei Monopoli di Stato, degli Enti locali, nonché quelle di competenza dell’Agente della riscossione e dei Concessionari della riscossione. In queste ultime due eventualità, peraltro, l’art. 17-bis, co. 9, d.lgs. n. 546 del 1992 ha disposto che il reclamo possa applicarsi solo ove compatibile.
Come sottolineava espressamente la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 156 del 2015, «la ratio sottesa all’estensione del reclamo risiede[va] nel principio di economicità dell’azione amministrativa diretta a produrre effetti deflativi del contenzioso, anche alla luce del proficuo abbattimento riscontrato nel contenzioso contro gli atti emessi dall’Agenzia delle entrate». E sempre alla medesima ratio rispondeva altresì l’estensione del procedimento di reclamo/mediazione ai tributi di competenza comunale o di altri Enti locali.
Da ultimo, il già citato art. 10, d.l. 24 aprile 2017, n. 50, ha apportato ulteriori modifiche all’impianto dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, prevedendo, fra l’altro, l’innalzamento del valore delle liti reclamabili da ventimila a cinquantamila euro per tutti gli atti impugnabili notificati a decorrere dal 1° gennaio 2018[14].
3. Le (inattuate) proposte di riforma del reclamo/mediazione a seguito della c.d. Manovra Correttiva
A seguito delle (contenute) novità introdotte ad opera della Manovra Correttiva, nel 2017, i tentativi di riformare gli (imperfetti) istituti del reclamo e della mediazione non si sono sopiti, ragion per cui si ritiene opportuno, specie al fine di comprendere il motivo per cui la recente novella appaia di certo “deludente” rispetto alle originarie aspettative, ripercorrere brevemente i tratti salienti delle principali proposte di modifiche normative formulate nel corso degli ultimi anni.
A tal riguardo, occorre in particolare menzionare il progetto di “Codice della Giustizia tributaria” predisposto dal prof. Glendi e del dott. Labruna, all’interno del quale si prevedeva la soppressione dell’istituto del reclamo e la “sostituzione” della mediazione con un “nuovo” strumento, avente sempre funzione deflativa del contenzioso, ma collocato nell’ambito dei “riti speciali” (titolo quinto del progetto), in specie, nel capo primo relativo alle “procedure conciliative”, denominato “conciliazione preliminare per le liti minori” (art. 114 del progetto). Tuttavia, seppur qualificata come “procedura conciliativa” e pur avendo alcuni profili disciplinari comuni con le (diverse) forme di “conciliazione in udienza” (art. 115 del progetto) e di “conciliazione fuori udienza” (art. 116 del progetto), la “nuova” “conciliazione preliminare delle liti minori”, avrebbe parzialmente conservato i tratti caratteristici dell’attuale istituto della mediazione, pur differenziandosene per taluni aspetti procedurali di non poca rilevanza[15].
Fra i profili maggiormente caratterizzanti il “nuovo” istituto della “conciliazione preliminare per le liti minori” figurava, senza dubbio, la “facoltatività”. Difatti, la scelta di attivare la relativa procedura avrebbe dovuto essere rimessa, in via esclusiva, al ricorrente, a fronte, invece, dell’obbligatorietà dell’attuale procedura del reclamo e della facoltatività – ad iniziativa del ricorrente oppure dell’Ufficio – della mediazione (ex art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992).
Si prevedeva, altresì, diversamente da quanto previsto dalla normativa attualmente vigente, un obbligo, a carico dell’Ente fiscale, di formulare al ricorrente una “controproposta di conciliazione novativa della controversia”, ma solo nel caso in cui ritenesse di non accogliere la proposta conciliativa formulata nel ricorso. In tal senso, la “conciliazione preliminare per le liti minori” avrebbe dovuto rappresentare uno strumento deflativo del contenzioso destinato a condurre solo ed esclusivamente ad una “rideterminazione novativa” dell’ammontare complessivo della pretesa formulata nell’atto impugnato non potendo, al contrario, mai condurre ad un suo annullamento integrale.
Alla luce di quanto illustrato può dunque osservarsi che il progetto, da un lato, abbandonava l’attuale strumento del reclamo quale istanza amministrativa volta all’annullamento totale o parziale dell’atto ovvero (più correttamente) quale “ricorso amministrativo in opposizione” (volto a provocare un riesame giustiziale dell’atto), ravvisabile ex lege nel ricorso tutte le volte in cui il valore della lite non superasse la soglia normativamente predeterminata (con attivazione, in ogni caso, di una procedura amministrativa della durata di novanta giorni, che è condizione di procedibilità del ricorso quale atto processuale); mentre, dall’altro, conservava lo strumento della mediazione, pur modificandone la “veste”, la “denominazione” e alcuni tratti disciplinari[16].
Un ulteriore interessante (e condivisibile) profilo disciplinare del “nuovo” istituto della “conciliazione preliminare per le liti minori” era rappresentato dalle modalità di perfezionamento. Difatti, ai fini del perfezionamento dell’“accordo conciliativo”, non sarebbe stato necessario il pagamento dell’intero o della prima rata dell’importo dovuto, in quanto l’“accordo conciliativo” si sarebbe perfezionato con la relativa sottoscrizione e produzione in giudizio, in modo sostanzialmente analogo a quanto previsto dalla disciplina vigente per la conciliazione giudiziale ex artt. 48 ss., d.lgs. n. 546 del 1992.
Di minor interesse rispetto all’ambizioso progetto di “Codice della Giustizia tributaria” che, come visto, per gli istituti del reclamo e della mediazione prospettava soluzioni condivisibili e normativamente impeccabili, a conclusioni senz’altro diverse si giungeva con riferimento alla proposta n. 2283 di disegno di legge delega di iniziativa parlamentare presentata il 29 novembre 2019 presso la Camera dei Deputati, all’interno della quale era prevista la soppressione delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali e l’attribuzione delle relative competenze al Giudice ordinario, con l’istituzione di sezioni specializzate in materia tributaria presso i principali Tribunali e le Corti d’appello. In tale proposta di disegno di legge delega, inoltre, era previsto che ai procedimenti in materia tributaria fossero applicabili le disposizioni previste dagli artt. 702-bis e ss., c.p.c. (fatta eccezione per l’art. 702-ter, co. 3, c.p.c.) e che le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi in materia tributaria fossero proposte, ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., al Giudice dell’esecuzione del Tribunale competente.
Ciò posto, tra i principi e criteri di delega era prevista anche l’applicazione delle procedure di mediazione tributaria vigenti alla data di entrata in vigore della legge delega. Ciò significava che, nelle intenzioni dei promotori della suddetta riforma, nel “nuovo” processo tributario innanzi al Giudice ordinario avrebbe potuto essere applicabile la sola procedura (facoltativa) di mediazione tributaria disciplinata dall’attuale art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, ma non anche l’istituto (obbligatorio) del reclamo.
Come già espresso in un precedente contributo, al di là di qualsiasi giudizio in merito ad una simile riforma del processo tributario[17] (che, fortunatamente, è rimasta priva di seguito), ci si limiti ad osservare che l’applicazione sic et simpliciter dell’attuale procedura di mediazione tributaria (ex art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992) avrebbe implicato un “innaturale” innesto di una procedura di natura prettamente amministrativa nella fase inziale di un giudizio svolto con rito ordinario. Ed in effetti, si sarebbe passati da un giudizio (quello attuale) che si attiva mediante impugnazione di provvedimenti amministrativi tributari, che ha ad oggetto un rapporto giuridico (quello tributario) di natura pubblicistica, ad un giudizio svolto non già sul modello (ovvero con il rito) del (più similare) processo amministrativo, bensì svolto con le modalità previste per la risoluzione delle controversie di stampo privatistico, con tutte le anomalie che ciò avrebbe implicato.
4. Il “nuovo” reclamo/mediazione e la “conciliazione d’ufficio proposta dalla corte di giustizia tributaria”
Il disegno di legge di iniziativa governativa di riforma della giustizia tributaria AS 2636, concretizzatosi nell’approvazione della l. n. 130 del 2022, è giunto al termine di un lungo percorso di approfondimento delle complessità concernenti la giustizia tributaria nel suo complesso, con l’obiettivo primario di realizzare una riforma strutturale che consentisse, in particolare, di far fronte al contenzioso arretrato e di ridurre la durata dei processi. Il disegno di legge in parola ha affrontato numerose tematiche di considerevole rilevanza, soffermandosi altresì su taluni istituti – quali quelli del reclamo e della mediazione tributaria – che per la loro natura di “strumenti deflativi del contenzioso” rivestono evidentemente un ruolo essenziale per il raggiungimento delle suddette finalità. Tuttavia, come accennato in premessa, le novità che la l. n. 130 del 2022 ha contemplato con specifico riguardo al reclamo/mediazione appaiono piuttosto contenute.
Ebbene, per comprendere le ragioni che hanno indotto il Legislatore a mantenere sostanzialmente inalterata la configurazione degli istituti in discorso, si è dell’opinione che non possa prescindersi da una, seppur breve, ricognizione del dibattito sorto sul tema nell’ambito della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, istituita con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze e del Ministro della giustizia del 12 aprile 2021, e presieduta dal prof. Giacinto della Cananea.
Nella Relazione finale della Commissione, pubblicata il 30 giugno 2021, non si è mancato di porre in evidenza come, nel corso delle audizioni, sulla struttura del reclamo/mediazione così come disciplinata dall’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992 fossero state sollevate diverse perplessità in merito alla concreta efficacia dell’istituto ai fini della deflazione del contenzioso tributario, specie a motivo dell’assenza di terzietà dell’organo competente all’esame delle relative istanze.
Sul punto, come correttamente osservato dal prof. Franco Gallo, l’affidamento del reclamo e della mediazione ai medesimi Uffici che hanno notificato gli atti e, di conseguenza, dato origine alle controversie «appesantisce indubbiamente la procedura, la rende di scarsa utilità, dilata inutilmente i tempi del giudizio ed è di fatto sovrapponibile all’accertamento con adesione»[18]. Proprio per tale ragione, il prof. Gallo suggeriva di abolire tanto il reclamo quanto la mediazione, proponendo quali alternative all’istituto, la “conversione” della mediazione in una «conciliazione “forte”, presieduta dal giudice monocratico o relatore» ovvero, in alternativa, l’affidamento del tentativo di mediazione «ad un apposito organismo terzo ed imparziale, mediante la creazione di un albo dei mediatori presso il Ministero di Grazia e Giustizia (avvocati e commercialisti)»[19].
Nonostante le manifestate critiche ed insoddisfazioni riguardo all’istituto del reclamo/mediazione, la Commissione della Cananea non ha giudicato opportuno né procedere alla sua soppressione, né, tantomeno “stravolgere” la struttura disegnata dall’art. 17-bis. Anzitutto, la Commissione ha ritenuto “significativa” la percentuale di controversie tributarie definite secondo la procedura di cui alla norma in discorso[20], circostanza che dunque avrebbe giustificato la sopravvivenza dell’istituto, tenuto altresì conto del fatto che (ma sul punto sia consentito sollevare qualche dubbio) «esso induce nell’Ente impositore una rimeditazione complessiva dell’atto impugnato ai fini dell’eventuale esercizio del potere di autotutela». In secondo luogo, la Commissione riteneva necessario che per tutte quelle controversie di valore non superiore a 50.000 euro «che “sopravvivono” al tentativo di mediazione» e che, di conseguenza, non vengono definite in via amministrativa, fossero potenziati altri istituti deflativi. In altre parole, nell’intento della Commissione l’eventuale fallimento della mediazione avrebbe dovuto essere “temperato” dalla possibilità di usufruire di ulteriori rimedi extraprocessuali, con l’obiettivo, quindi, di avvalersi di altri strumenti di natura amministrativa per scongiurare il deposito del ricorso e l’avvio del giudizio dinanzi alla Commissione tributaria.
Anche con specifico riferimento all’opportunità di affidare la procedura di reclamo/mediazione ad un organismo terzo e indipendente rispetto all’Ufficio responsabile dell’emanazione dell’atto impositivo, la Commissione ha ritenuto di non accogliere le istanze e gli auspici formulati in tal senso. Ciò, per ragioni senz’altro comprensibili da un punto di vista strettamente “pratico”, ma non del tutto condivisibili sotto il profilo della necessità di assicurare una reale tutela per il contribuente che, si ritiene, sarebbe maggiormente garantita solo nel caso in cui l’istanza di reclamo/mediazione fosse esaminata da un soggetto imparziale e privo di interessi nel caso concreto. Difatti, le motivazioni addotte dalla Commissione a sostegno del proprio convincimento risiedevano: i) nella difficoltà di creare ex novo un organismo di mediazione, terzo rispetto all’Ente impositore, «anche considerati i costi ed i tempi amministrativi necessari»; ii) in una (presunta) ambiguità circa la natura delle funzioni che avrebbero dovuto essere attribuite al suddetto organismo, «tra la pura mediazione e l’attività decisoria»; iii) «i costi ed i tempi per il contribuente, certi a fronte dell’incertezza dell’esito».
Ebbene, le conclusioni espresse dalla Commissione della Cananea nella propria Relazione finale paiono aver influenzato in maniera determinante la sorte degli istituti del reclamo e della mediazione di cui all’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, il quale, nonostante gli emendamenti proposti a seguito della presentazione in Senato del d.d.l. AS 2636[21], ha sostanzialmente mantenuto la sua precedente formulazione. La l. n. 130 del 2022, difatti, si è limitata a contemplare l’aggiunta di un ultimo comma alla norma in parola, il 9-bis, che prevede quanto segue: “In caso di rigetto del reclamo o di mancato accoglimento della proposta di mediazione formulata ai sensi del precedente comma 5, la soccombenza di una delle parti, in accoglimento delle ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione, comporta per la parte soccombente la condanna al pagamento delle relative spese di giudizio. Tale condanna può rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione”.
In aggiunta alla suddetta modifica, occorre tuttavia fare presente un’altra novità introdotta dalla l. n. 130 del 2022 che, sebbene non abbia ulteriormente scalfito la lettera dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, risulta comunque connessa all’istituto del reclamo/mediazione e trae anch’essa origine dalle considerazioni svolte dalla Commissione della Cananea in merito alla necessità di consentire il ricorso ad ulteriori rimedi di natura extra-processuale in caso di fallimento della mediazione.
Nella Relazione finale del 30 giugno 2021, difatti, si ipotizzava di “rafforzare” e di dare una diversa configurazione all’istituto della conciliazione giudiziale, con specifico riferimento alle controversie di valore non superiore a 50.000 euro. Più precisamente, si proponeva di introdurre una nuova forma di conciliazione giudiziale su proposta del giudice, così mutuando quanto previsto nell’ambito del processo civile dall’art. 185-bis c.p.c. In questo modo, secondo quanto osservato dalla Commissione, il tentativo di conciliazione avrebbe potuto essere esperito anche «per le controversie per le quali l’Ente impositore è rimasto inerte nella fase di reclamo/mediazione, ovvero ha opposto dinieghi in qualche misura non giustificati, con il decisivo ausilio del giudice chiamato a formulare un’equilibrata proposta». Inoltre, si riteneva che l’efficacia deflativa della nuova conciliazione “d’ufficio” sarebbe stata «potenziata» dall’istituzione di una magistratura tributaria di ruolo.
Evidentemente accogliendo le istanze della Commissione della Cananea, la l. n. 130 del 2022 ha inserito nel d.lgs. n. 546 del 1992 il nuovo art. 48-bis.1, rubricato “Conciliazione proposta dalla corte di giustizia tributaria”, il cui co. 1 prevede espressamente che: “Per le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”.
La norma chiarisce, inoltre, che la proposta di conciliazione può essere formulata in udienza o fuori udienza e si perfeziona con la redazione di un processo verbale all’interno del quale dovranno essere indicati le somme dovute, i termini e le modalità di pagamento e che costituirà titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il per il pagamento delle somme dovute al contribuente[22].
5. Osservazioni conclusive
Il dibattito in merito al reclamo e alla mediazione tributaria, a distanza di undici anni dalla loro introduzione all’interno del d.lgs. n. 546 del 1992, fatica ancora ad attenuarsi e, a parere di chi scrive, non troverà definitiva soluzione a seguito delle recenti novità introdotte dalla l. n. 130 del 2022.
Diversi sono ancora i profili, come si è tentato di illustrare nei paragrafi precedenti, che non consentono all’istituto in discorso di soddisfare appieno gli obiettivi che hanno originariamente condotto alla sua introduzione, né si ritiene che la previsione di una “seconda possibilità” di risolvere la controversia in via “extra-processuale”, grazie all’introduzione della nuova conciliazione su proposta del giudice ex art. 48-bis.1, d.lgs. n. 546 del 1992, rappresenti la scelta più adeguata a risolvere quelle criticità cui non hanno posto rimedio i numerosi interventi legislativi che hanno interessato l’art. 17-bis nel corso degli anni.
La nuova conciliazione ex art. 48-bis1 si pone invero come una sorta di rimedio di seconda istanza che potrebbe avere quale possibile effetto (indesiderato) quello di dilatare ulteriormente i tempi di conclusione della controversia senza peraltro soddisfare l’esigenza di deflazionare il contenzioso tributario. A tal riguardo, si è dell’opinione che sarebbe stato preferibile sposare la soluzione, proposta dal prof. Glendi e dal dott. Labruna nel progetto di Codice della Giustizia tributaria, di introdurre sì una nuova forma di conciliazione, ma con l’obiettivo (più ragionevole) di sostituire il reclamo/mediazione e non di (tentare di) potenziarne gli effetti in caso di suo fallimento.
*Professore ordinario di Diritto tributario Università degli Studi di Brescia
[1] Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 204 del 1° settembre 2022.
[2] Al riguardo, come correttamente sottolineava il prof. Giuseppe Melis all’indomani della presentazione in Senato del d.d.l. A.S. 2636, una più ampia e «meditata riforma dell’intero processo tributario, ordinamentale e processuale, sarebbe risultata incompatibile con i tempi di urgenza dell’intervento dettati dal PNRR». Si veda, al riguardo, la testimonianza fornita dal prof. Melis in data 28 giugno 2022 nell’ambito del Ciclo di audizioni informali nell'ambito dell’esame del disegno di legge n. 2636 sulla riforma della giustizia tributaria. Si veda inoltre, sempre G. Melis, Liti tributarie, una riforma a danno dei contribuenti, in Il Sole-24 Ore, 24 giugno 2022; Id., Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in Giustizia insieme, 30 giugno 2022.
[3] Sul punto si vedano le riflessioni di C. Glendi, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Ipsoa Quotidiano, 24 settembre 2022, il quale ha sottolineato che «Rispetto al Ddl, il testo di legge fornito dal Parlamento presenta modifiche molto significative e migliorative» e ha osservato, con particolare riguardo alla disciplina dell’istruttoria del processo tributario, che le modifiche introdotte rappresentano «Nell’insieme (…) una vera e propria “rivoluzione copernicana”, che trasforma profondamente tale disciplina in termini di maggiore affidabilità e funzionalità operativa».
Particolarmente critico, invece, si dimostrava il prof. Glendi a seguito della presentazione in Senato del d.d.l. A.S. 2636. Cfr. C. Glendi, “At ille murem peperit” (ovvero del tormentato parto governativo sulla riforma della giustizia tributaria), in GT – Riv. giur. trib., 2022, 6, 473, il quale ha correttamente posto in evidenza come le scarne novità contemplate dal d.d.l. A.S. 2636 rappresentassero «una sorta di “minimo sindacale” (…) che sembra studiato apposta per evitare incidenti di percorso in sede assembleare nei termini ormai prossimi a scadere onde acquisire gli agognati benefici unionali».
[4] In questi termini si esprimeva la Relazione di accompagnamento al d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, il cui art. 39 ha originariamente introdotto l’art. 17-bis all’interno del d.lgs. 546 del 1992.
[5] Per un’analisi degli istituti del reclamo e della mediazione, oltre che per maggiori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali sul tema, si consenta il rinvio a G. Corasaniti, Il reclamo e la mediazione nel sistema tributario, Padova, 2013, passim; Id., Mediazione e conciliazione nel processo tributario: lo stato dell’arte e le prospettive di riforma, in Dir. prat. trib., 2020, 3, 965 ss.
[6] Il riferimento è, in particolare, alla sentenza della Corte Costituzionale n. 98 del 16 aprile 2014.
[7] La disposizione in esame è stata inoltre oggetto, sin dalla sua originaria introduzione nel nostro ordinamento, di giudizi contrastanti da parte della dottrina che ne ha accuratamente studiato i profili sostanziali e procedurali. Difatti, a chi considerava «sicuramente apprezzabile l’intento di creare un filtro con finalità conciliative» (cfr. F. Pistolesi, Il reclamo e la mediazione nel processo tributario, in Rass. trib., 2012, 89), si contrapponeva chi, considerando la procedura un’inutile e fuorviante sovrastruttura (cfr. M. Basilavecchia, Reclamo, mediazione fiscale e definizione delle liti pendenti, in Corr. trib., 2011, 2492), esprimeva notevoli perplessità sia perché essa determinava il totale disvelamento della strategia processuale del contribuente, sia in quanto la disciplina del reclamo era mal coordinata con quella dell’accertamento con adesione. Sotto questo ultimo profilo, appariva singolare la scelta di imporre lo svolgimento di un’ulteriore fase amministrativa, pur avanti ad una struttura diversa dell’ufficio – quella deputata alla gestione del contenzioso – dopo che non fosse andata a buon fine quella avviata ex art. 6, d.lgs. n. 218/ del 1997 (sulla mancanza di coordinamento tra la disciplina in esame e l’accertamento con adesione concordava, comunque, anche F. Pistolesi, op. cit., 73).
[8] In questi termini A. Marinello, Reclamo e mediazione tributaria: i limiti costituzionali della giurisdizione condizionata, in Dir. prat. trib., 2014, 4, 628 ss. Si consenta inoltre il rinvio a G. Corasaniti, Il reclamo e la mediazione nel sistema tributario, cit., 123 ss.
[9] Emanato in attuazione dell’art. 10 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23.
[10] Con riferimento alle citate modifiche, Autorevole dottrina rilevava che, in realtà, «alla stregua della nuova normativa sembra ormai del tutto improprio parlare di mediazione, non avendo comunque il congegno normativamente previsto più nulla a che fare con la mediazione di stampo processualcivilistico». Cfr. C. Glendi, Il reclamo e la mediazione, in Abuso del diritto e novità sul processo tributario, (a cura di) Glendi – Consolo – Contrino, Milano, 2016, 182.
[11] Cfr. Circolare n. 38/E del 29 dicembre 2015.
[12] Lo precisa l’art. 17-bis, co. 1., d.lgs. n. 546 del 1992.
[13] Cfr. Circ. n. 38/E del 2015.
Al riguardo, si sono peraltro sempre condivisi gli orientamenti interpretativi di quella parte della dottrina che ravvisa nella disciplina del reclamo (nella sua veste amministrativa) «aspetti dei veri e propri rimedi giustiziali» (cfr. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2012, 413) ovvero, in modo ancora più specifico, che sembrerebbe assimilare il reclamo (nella sua veste amministrativa) al ricorso amministrativo in opposizione, affermando che il reclamo, essendo «volto all’annullamento totale o parziale dell’atto», da questo punto di vista «altro non è che un ricorso in opposizione amministrativa» (cfr. A. Giovannini, Reclamo e mediazione tributaria: per una riflessione sistematica, in Rass. Trib., 2013, 54 ss.; Id., Giurisdizione tributaria condizionata e reclamo amministrativo, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 915 ss.). Al riguardo si consenta inoltre il rinvio, per una più approfondita trattazione sul tema, a G. Corasaniti, Il reclamo e la mediazione nel sistema tributario, cit., 4; Id., L’incessante evoluzione del reclamo/mediazione: pregi e difetti di un istituto in continuo rinnovamento, in Dir. prat. trib., 2017, 21, 1639 ss.
In merito, si ricordino inoltre le parole con cui Autorevole dottrina ha sottolineato «l’alto tasso di scadimento confusionale sul piano della tecnica legislativa» osservando come risulti pressoché inutile che la nuova norma continui a parlare di “reclamo” e, a maggior ragione, di “reclamo” quale effetto del ricorso (cfr. C. Glendi, Il reclamo e la mediazione, in Abuso del diritto e novità sul processo tributario, cit., 175.)
Per una più approfondita riflessione in merito alla natura giuridica degli istituti del reclamo e della mediazione si consenta inoltre il rinvio a G. Corasaniti, La mediazione e la conciliazione nel processo tributario, in La riforma della giustizia tributaria, C. Glendi (a cura di), Milano, 2021, 42 ss.
[14] Per una disamina delle più recenti modifiche apportate all’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, sia consentito il rinvio a G. Corasaniti, Dall’Agenzia delle Entrate istruzioni sul reclamo/mediazione: una riforma ancora incompleta, in Corr. trib., 2018, 600 ss.
Si veda inoltre: Agenzia delle Entrate, Circolare 22 dicembre 2017, n. 30.
[15] Per una più completa disamina del “nuovo” istituto contemplato nel progetto di “Codice della Giustizia tributaria” si consenta il rinvio a G. Corasaniti, La mediazione e la conciliazione nel processo tributario, cit., 65 ss.
[16] Il progetto disciplinava espressamente, inoltre, l’ipotesi dell’“accordo conciliativo parziale” che avrebbe determinato una separazione del processo: si sarebbe estinta la parte del processo che aveva ad oggetto la parte della pretesa formulata nell’atto impugnato “definita” con lo strumento della “conciliazione preliminare”; sarebbe proseguita, invece, la parte del processo che aveva ad oggetto la parte residua non conciliata. Senza dubbio, l’espressa previsione (e disciplina) dell’“accordo conciliativo parziale” avrebbe potuto rappresentare un ulteriore “stimolo” per il ricorrente ad attivare il “nuovo” strumento deflativo del contenzioso.
[17] Al riguardo si sono condivise appieno le dure critiche formulate da C. Glendi, Verso l’ecatombe della giustizia tributaria (e di quella civile), in Ipsoa Quotidiano del 12 ottobre 2020, il quale, tra l’altro, sottolineava come un simile progetto di riforma si ponesse «in aperta contraddizione con l’attuale assetto ordinamentale costituzionalmente guarentigiato dove, piaccia o non piaccia, così come congegnato e formatosi dopo i ben noti dibattiti in sede di Assemblea costituente, non è prevista una sola giurisdizione (quella ordinaria), ma sono previste più giurisdizioni e cioè varie giurisdizioni speciali (amministrativa, contabile e anche tributaria), che dunque non possono essere soppresse con una legge ordinaria, richiedendosi, perché ciò, malauguratamente possa trovare ingresso, una disposizione normativa di rango costituzionale (come, tra l’altro, già in altre occasioni sostenuto e affermato dalla Corte costituzionale e dalle stesse SS.UU. della Corte di cassazione)».
[18] Ciò è vero, secondo il parere del prof. Gallo cui si ritiene di aderire, sebbene le procedure di reclamo/mediazione siano affidate a strutture interne differenti rispetto a quelle che procedono alla notifica degli atti impositivi.
[19] «La prima soluzione», osservava il prof. Gallo, «avrebbe il vantaggio di incidere maggiormente sulle scelte delle parti, perché la proposta del giudice monocratico potrebbe essere in qualche modo indicativa dell’orientamento della Commissione adita», generando inoltre «un trait d’union diretto con la condanna alle spese in caso di mancato raggiungimento dell’accordo». In concreto, adottando una soluzione di tal genere, la procedura avrebbe dovuto concludersi attraverso la conclusione di un vero e proprio accordo conciliativo, il cui perfezionamento si sarebbe realizzato con la redazione di un processo verbale volto a dare atto dell’accordo raggiunto, delle somme dovute, nonché dei relativi termini e modalità di pagamento.
La seconda soluzione proposta, invece, avrebbe avuto quale primario vantaggio quello della terzietà dell’organo competente ad esaminare l’istanza (cfr. pagg. 53 ss. della Relazione finale)
[20] Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, e riportati nella Relazione finale della Commissione, nei primi anni di applicazione del reclamo/mediazione i ricorsi definiti in via amministrativa rappresentavano una percentuale (di poco) superiore al cinquanta per cento. Tale percentuale è poi diminuita negli anni successivi, sebbene la Commissione l’abbia ritenuta, in ogni caso, «nel complesso molto elevata» (cfr. pagg. 39 ss. della Relazione finale).
[21] Gli emendamenti proposti, in particolare, testimoniavano la necessità di rafforzare quanto più possibile la terzietà e l’indipendenza dell’organo deputato all’esame dell’istanza di reclamo e mediazione formulata dal contribuente. Si suggeriva, altresì, di innalzare il limite di valore delle controversie reclamabili sino a 100.000 euro (il riferimento è all’emendamento proposto dagli On.li Pittella, Comincini e Mirabelli) ovvero a 250.000 euro e alle liti di valore indeterminabile (il riferimento è all’emendamento proposto dagli On.li Ferro e Boccardi).
Per maggiori approfondimenti si vedano gli Emendamenti proposti nel Fascicolo Finale del 19 luglio 2022 con riferimento al d.d.l. AS 2636.
[22] Nel dettaglio, l’art. 48-bis.1 prevede quanto segue: “1. Per le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione. 2. La proposta può essere formulata in udienza o fuori udienza. Se è formulata fuori udienza, è comunicata alle parti. Se è formulata in udienza, è comunicata alle parti non comparse. 3. La causa può essere rinviata alla successiva udienza per il perfezionamento dell’accordo conciliativo. Ove l’accordo non si perfezioni, si procede nella stessa udienza alla trattazione della causa. 4. La conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale, nel quale sono indicati le somme dovute nonché i termini e le modalità di pagamento. Il processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente. 5. Il giudice dichiara con sentenza l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere. 6. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice.”
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