ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Domenica 5 febbraio l’Associazione Nazionale Magistrati ha approvato all’unanimità una mozione sul disegno di legge governativo sulla separazione delle carriere.
Si tratta di un documento importante che dà voce alla preoccupazione dell’intera magistratura sulle intenzioni di modifica dell’assetto costituzionale della separazione dei poteri dello Stato in nome di un paventato timore di squilibrio tra le parti del processo che non ha alcuna rispondenza nella realtà dei fatti.
Giustizia Insieme condivide integralmente il contenuto della mozione e ritiene necessaria la pubblicazione della stessa per far propri i timori e il disagio ivi espressi e la necessità di difendere le conquiste di civiltà faticosamente acquisite e sancite dalla nostra Carta costituzionale e di cui l’unicità della giurisdizione e la separazione dei poteri costituiscono architravi irrinunciabili.
La pubblicazione della mozione segue il solco degli articoli già pubblicati su questo tema nelle settimane precedenti (Inaugurazione dell’Anno giudiziario 2023: l’intervento del Procuratore generale Luigi Salvato, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi) e costituisce occasione per annunciare la prossima pubblicazione di una serie di approfondimenti sulla figura del Pubblico Ministero, in lavorazione.
Mozione sul d.d.l. costituzionale in materia di separazione delle carriere
Negli ultimi mesi si sono intensificati interventi e anche proposte di riforma per dare attuazione ad un progetto risalente che minerebbe alle fondamenta l’assetto costituzionale della Magistratura Italiana.
La Commissione Affari Costituzionali della Camera ha messo in calendario, dal 2 febbraio 2023, la discussione una proposta di legge che chiede di attuare la definitiva separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici.
La proposta normativa si muove su alcune direttrici di fondo che destano profondo allarme: oltre alla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente, la introduzione di distinti organi di autogoverno, che peraltro non vedranno più al loro interno la prevalenza numerica dei componenti togati, voluta dalla Costituzione proprio per assicurare il giusto equilibrio tra poteri e quindi l’autonomia della Magistratura.
Ancora più preoccupante la progettata abolizione dell’art. 107 comma 3 della Costituzione che, nel prevedere la distinzione dei magistrati solo per funzioni, ne rappresenta la massima garanzia di indipendenza, impedendo derive verticistiche all’interno degli uffici giudiziari.
Una rigida separazione delle carriere porterà ad un pubblico ministero sempre più lontano dalla cultura della giurisdizione, per divenire un "avvocato dell'accusa" pericolosamente piegato ai desiderata del potere politico.
Non è necessario spendere argomenti per confutare il presupposto che il giudice sia “culturalmente adesivo” alla prospettazione del pubblico ministero, essendo “collega”.
È la realtà dei fatti che smentisce l’assunto, perché nel 48% dei giudizi penali di primo grado l’esito è di assoluzione, il 45% di condanna, il resto ha esito misto.
E chi insiste a sostenere che la separazione è soluzione ai problemi della giustizia dimentica, evidentemente, che dal 2006 la media dei trasferimenti da una funzione all’altra è di 50 magistrati all’anno, e solo 21 nell’anno appena terminato.
Il pubblico ministero disegnato dalla riforma, quindi, rischia di allontanarsi dal ruolo di primo tutore delle garanzie individuali e dei diritti costituzionali
Non a caso, il progetto di legge interviene anche sull’obbligatorietà dell’azione penale che verrebbe esercitata esclusivamente «nei casi e nei modi previsti dalla legge», con il rischio di ledere il principio di uguaglianza dei cittadini nelle scelte di esercizio dell’azione penale.
La nostra Costituzione ha voluto realizzare una magistratura pienamente autonoma e indipendente da ogni altro potere. Oggi la prima garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura è data dalla forte cultura comune che unisce, e deve sempre unire, i giudici e pubblici ministeri, costruendo in ogni magistrato una precisa identità radicata nel ruolo di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini contro ogni arbitrio, ogni violenza, ogni forma di criminalità.
La terzietà del giudice, fondamentale come condizione per la sua imparzialità, va attuata e rafforzata all’interno del processo, con una piena applicazione dei principi fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e non certo con soluzioni che ci allontanano non solo dalla nostra tradizione giuridica, ma anche dalle linee di tendenza più significative presenti nel panorama europeo e internazionale.
Purtroppo, in Italia, già oggi a seguito degli interventi normativi verificatisi a partire dal 2006, sono pochissimi i passaggi da una funzione all’altra. Eppure, già nel 2000 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che ha un’impronta fortemente garantista, aveva raccomandato a tutti i Paesi di “consentire di svolgere successivamente le due funzioni”, le quali richiedono “analoghe garanzie in termini di qualifiche, competenze e status”. Si era precisato che “tale disposizione costituisce anche un'ulteriore tutela per il pubblico ministero”. La prospettiva del Consiglio d’Europa merita di essere condivisa con convinzione proprio alla luce dell’esperienza italiana.
La comune cultura della giurisdizione, che attualmente impone una comune formazione - iniziale e permanente - del Giudice e del Pubblico Ministero, costituisce un argine potente contro ogni rischio di pericolose derive del Pubblico Ministero. Cambiare sarebbe in controtendenza con una lunga tradizione italiana, che è un importante modello di riferimento in ambito europeo.
L’ANM ritiene che l’appartenenza dei magistrati ad un unico corpo professionale, espressamente voluta dal Costituente, rappresenti una conquista da preservare, coltivare e valorizzare.
L’autonomia e l’indipendenza potranno dirsi effettive solo se assicurate anche ai magistrati del pubblico ministero che non possono diventare avvocati dell’accusa, preoccupati degli esiti favorevoli dei processi, prima che dell’esito di giustizia.
L’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono garanzie poste a presidio delle libertà dei cittadini, certo non dei magistrati e, al contempo, limiti a possibili compressioni da parte delle contingenti maggioranze di governo.
Del resto la formazione di due CSM renderebbe abnorme il potere dei pubblici ministeri: ora sono 5 su 20 membri del CSM, con la riforma diventerebbero la totalità dei membri togati del consiglio dedicato. Una concentrazione di potere di questo genere non potrà che sfociare, prima o poi, nell’individuazione di un referente nel potere esecutivo, e l’inevitabile compressione nella tutela dei diritti dei cittadini, siano essi persone offese o imputati.
Questo esito non è desiderabile per i cittadini, non serve ad una efficiente repressione dei reati o alla tutela delle garanzie individuali e non ci sembra desiderabile neanche dall’Avvocatura e, comunque, da chi abbia a cuore i diritti costituzionali.
Regionalismo differenziato e permanenza della specialità*
di Fabrizio Tigano
Sommario: 1. Le origini e le attuali declinazioni del regionalismo in Italia - 2. L’attuazione del disegno costituzionale: alcune riflessioni - 3. Il rapporto tra regioni ed enti locali negli anni ’90; l’avvento della riforma costituzionale del 2001 - 4. La difficile attuazione del nuovo Titolo V nell’ambito dei perduranti divari Nord-Sud - 5. Alcuni problemi legati al processo di differenziazione - 6. Le proposte di attuazione dell’art. 116 c. 3 Cost. - 7. Il nuovo rapporto tra autonomia speciale e differenziata - 7.1. Le carenze del regime duale, tra istanze identitarie e funzionaliste - 7.2. La lacunosa disciplina del regionalismo differenziato - 7.3. Le prospettive della differenziazione - 8. La condizione di insularità come recupero della specialità - 9. Brevi considerazioni conclusive.
1. Le origini e le attuali declinazioni del regionalismo in Italia
È noto che il regionalismo italiano abbia attraversato diverse stagioni e che, anzi, sia stato costruito, parafrasando Giorgio Bocca, sulla scorta di un fil rouge che è rimasto carsicamente sotto traccia sin dall'unificazione e dal subito tramontare delle proposte federaliste che si sono ripetutamente affacciate - forse ancora oggi è così - senza produrre risultato.
L'unità e indivisibilità della Repubblica, accompagnate dal decentramento discendente centro-periferia - e poi, dopo il titolo V in senso ascendente - nella complessa e tutto sommato riuscita formulazione dell'art. 5 della Carta costituzionale, serba in sè la traccia, l'impronta di una condizione politico-territoriale - e poi anche economica - nella quale le regioni sono sempre esistite.
Il problema è sempre stato fare gli italiani, non perchè il senso di appartenenza, dolorosamente consolidatosi anche attraverso conflitti mondiali e guerre d'indipendenza, sia realmente mancato, ma perchè le divisioni territoriali, il retaggio comunale, i particolarismi e le particolarità reali dei territori hanno segnato l'accidentato percorso dell'autonomia nel suo complesso.
In questo contesto, la distanza tra Stato ed enti locali - chiaramente percepibile negli allegati A e B della legge sull'unificazione amministrativa, n. 2248 del 1865 - ha segnato anche la storia del Paese (si pensi a fenomeni come il banditismo ed il brigantaggio).
La creazione di un livello di governo intermedio che fosse in grado di colmare questa distanza, da cui era discesa una ulteriore compressione delle autonomie in epoca fascista, all'indomani del secondo conflitto mondiale costituiva, pertanto, una necessità avvertita trasversalmente ed indeclinabilmente.
La dialettica centro-periferia, all'indomani della scelta di dar corpo ad un ordinamento regionale, d'altro canto, ha aperto la strada ad una concezione della democrazia che fosse fondata dal basso, al di là del fatto che il principio di sussidiarietà troverà consacrazione nel testo costituzionale solo nel 2001, in esito alle c.d. "riforme Bassanini", il cui merito, fosse solo questo il loro portato, resta evidente.
2. L’attuazione del disegno costituzionale: alcune riflessioni
La vicenda regionale - come quella, connessa, dell'autonomia locale - ha seguito un percorso notoriamente accidentato.
Già in sede costituente è stata percepita la necessità di istituire, all'interno del genus regionale, speciesdiverse di autonomia, una differenziazione ante litteram o forse, più semplicemente, una prima differenziazione, di cui l'argomento del presente dibattito è - non si sa bene, se ultima - propaggine.
All'interno delle autonomie speciali regionali e di quella provinciale di Trento e Bolzano, tutte legate a ragioni storiche, politiche, amministrative ed economiche, si registrano tempi di attuazione e contenuti differenziati sui quali operare una reductio ad unum non era affatto semplice.
La Sicilia, in particolare, anche in ragione del fatto che la seconda guerra mondiale vide la sua conclusione reale ed effettiva nell'autunno del 1943 (a differenza delle regioni continentali, soprattutto di quelle più settentrionali, dove si consumarono gli ultimi drammatici momenti del regime, tanto da potersi considerare conclusa convenzionalmente il 25 aprile 1945), reclamò da subito - mutuando una espressione particolarmente cara ad Ignazio Marino - una forma di autonomia molto vicina alla secessione.
È, anzi, noto come nell'isola presero vita istanze di emancipazione dal potere centrale che, anticipando di gran lunga quanto avverrà a partire dagli anni '90 nel settentrione, si spinsero fino ad assumere il carattere di veri e propri movimenti secessionisti. A differenza dei moti di Bronte - come noto, inutilmente soppressi nel sangue da Nino Bixio - vi furono esperienze come la repubblica di Comiso, proclamata il 6 gennaio 1945, che si spinsero a chiedere l'indipendenza e la sovranità (il limite che la Corte costituzionale ha sempre posto anche alla più estrema delle autonomie speciali, tra cui la stessa Sicilia), forse anche la federazione agli Stati Uniti d'America.
Tanto basta per fare della Sicilia - in linea con un retaggio storico caratterizzato da diverse e sempre contrastate dominazioni - un unicum nel panorama delle autonomie speciali. Non a caso, lo statuto siciliano risale al 1946 e, al di là del suo "travaso" in legge costituzionale, non è mai stato realmente allineato alla sopravvenuta Carta costituzionale, costituendo, così, per mutuare una espressione cara a Salvatore Raimondi, privilegio e condanna del popolo siciliano.
Occorre aggiungere che, in generale, l'attuazione del disegno costituzionale regionale, così come preconizzato all'interno del Titolo V, non è stata più semplice, perchè a lungo fagocitata da una fase politica estremamente complessa, segnata dalla dialettica tra sinistra e partito popolare, risoltasi solo dopo che è apparso chiaro a tutti che i tempi per l'avvento delle prime alla guida del Governo non fossero ancora maturi.
Il disegno regionalista del 1948, inoltre, ha progressivamente mostrato la corda anche nella sua fase di attuazione: le Regioni ordinarie, tardivamente istituite, soprattutto nell’esercizio delle funzioni amministrative hanno finito per duplicare e persino mettersi in competizione con gli enti locali, cui ordinariamente era destinato, per il loro tramite, il decentramento preconizzato dall’art. 5 e declinato dall'art.118 della Carta costituzionale.
Si tratta di un tema assai delicato, frutto della – forse ineliminabile – politicizzazione dei centri di potere regionale, ma anche della burocratizzazione delle attività amministrative, mancando così di costituire quel necessario tassello di unitarietà dell’ordinamento che, e necessitate, doveva contemplare anche gli enti locali, la cui legge fondamentale, ex art. 128 Cost., è intervenuta solo nel 1990, cioè vent’anni dopo l’istituzione delle regioni ordinarie.
3. Il rapporto tra regioni ed enti locali negli anni ’90; l’avvento della riforma costituzionale del 2001
Gli elementi sommariamente ricordati hanno fatto sì che si delineasse - al di là della differenza tra gli statuti - un sistema a più velocità, scoordinato nella sua attuazione – come ebbe modo di rilevare già Calamandrei – ancorchè il disegno avesse una precisa (e condivisibile) logica.
Da un lato, l’istituzione delle regioni a statuto speciale è avvenuto “a singhiozzo” e non sempre in linea con la Carta costituzionale, segnando – come nel caso della Sicilia – addirittura ragioni di contrasto mai risolte; dall’altro lato, l’istituzione delle regioni a statuto ordinario – teoricamente più semplice – ha sofferto di ritardi legati a contingenze storico-politiche dissipatesi solo dopo la metà degli anni ’60; dall’altro lato ancora, gli enti locali, veri destinatari dei benefici dell’istituzione dell’ordinamento regionale, sono rimasti relegati – almeno fino all’avvento della legge n. 142 del 1990 (e forse anche dopo) – ad un ruolo marginale, non recuperando il gap già segnato dagli allegati a) e b) della legge n. 2248 del 1865 ed in fondo ribadito dal t.u. della metà degli anni ’30.
Le esigenze dei territori e dei cittadini sono così rimaste per lungo tempo sullo sfondo di un centralismo mai sopito, che a quello statale ha visto sommarsi quello regionale.
La “spinta” discendente dall’attuazione dell’art. 128 della Costituzione ha segnato, quasi per paradosso, il de profundis della medesima norma, nel senso che la tardiva attuazione dello schema originario posto dall’art. 5 e dal titolo V ha fatto sì che, una volta compiuto il quadro, questo, quasi come nel ritratto di Dorian Gray, mostrasse già tutti i segni del tempo.
Le riforme Bassanini, come noto, sono intervenute, soprattutto al fine di dar luogo, dopo la controversa esperienza degli anni ’70, ad un nuovo trasferimento organico di funzioni amministrative, fondato sui principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
Preso atto, però, della difficoltà di operare le riforme “a Costituzione invariata” e del coevo fallimento della Bicamerale D’Alema, pur a colpi di maggioranza, è stata, infine, varata la riforma del Titolo V con la legge costituzionale n.3 del 2001, laddove gli assetti originari sono stati certamente modificati, forse non sconvolti, a dire il vero (della legge n. 3/2001, infatti, esiste una duplice lettura: profondamente riformatrice e riformatrice ma fortemente ancorata a precedenti vocazioni centraliste).
La norma più “ad effetto” è, probabilmente, l’art. 114, che capovolge il regime delle competenze alla luce del principio di sussidiarietà, ponendo, in tesi, sullo stesso piano i diversi livelli di governo in funzione del principio di leale collaborazione, declinato sulla risposta più immediata ed efficace alle varie ed assai complesse realtà territoriali del Paese (tutti aspetti ancora oggi di piena attualità).
Le norme di più forte impatto sono gli articoli da 116 a 120, in quanto disegnano i tratti fondamentali del nuovo regionalismo – almeno, tendenzialmente cooperativo, sicuramente non competitivo nelle intenzioni – riconoscendo un ruolo di maggiore momento al già stanco assetto regionale ordinario, rimasto fagocitato dalla sua tardiva attuazione, dal difficile trasferimento delle risorse e delle competenze, dalle inefficienze di una burocrazia restia ad amministrare ponendosi al centro dei rapporti stato-enti locali. Anzi, il moderno disegno della legge 142 del 1990, dando fortissimo impulso allo sviluppo di Province e Comuni (si pensi, a titolo di esempio, all’elezione diretta dei Sindaci ed alle “primavere” comunali da essa germinata, ma non solo), ha finito per costituire il traino per attribuire nuova linfa alla stessa struttura regionale, ponendo in tratto di dubbio quel “regionalismo di uniformità” che proprio l’art. 116 c. 3 tende a scardinare, al di là delle nuove competenze legislative primarie e del superamento del principio del parallelismo in nome del principio di sussidiarietà.
4. La difficile attuazione del nuovo Titolo V nell’ambito dei perduranti divari Nord-Sud
L’attuazione del nuovo titolo V, come noto, è risultata tutt’altro che semplice, non essendo state dipanate alcune questioni di fondo ancora oggi presenti nel dibattito scientifico (oltrechè politico ed economico) che hanno costituito e tuttora costituiscono il limite profondo ed immanente ad ogni tentativo di riforma.
Il divario nord-sud, la complessità dei trasferimenti finanziari provenienti dallo Stato, la relazione con i territori e con gli enti locali, la trasversalità di alcune materie di legislazione concorrente, il mai risolto tema dei diritti sociali e, più in generale, dei diritti fondamentali dei cittadini, la simmetria “possibile e sostenibile” tra le regioni (si pensi, per tutte, alla questione del diritto alla salute), le relazioni con Governo e Parlamento (anche alla luce dell’elezione diretta dei governatori regionali), la debolezza politica delle regioni, convertitesi in centri di gestione e di amministrazione, la sovrapposizione ed il mancato coordinamento delle competenze con gli enti locali, sono solo alcune delle questioni sul tappeto.
Una prima risposta, sulla quale ancora oggi dovrebbe lavorarsi, è stata le legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, i cui decreti attuativi, in particolare il n. 216 del 2010, hanno affrontato lo scottante tema della scelta, nel finanziamento pubblico, tra costi storici e costi standard in vista della individuazione dei LEP con riferimento ai diritti civili e sociali da realizzare sull’intero territorio ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. m).
Si tratta, però, di un processo che paga fatalmente le crisi che, a partire dal 2008, quasi ininterrottamente, hanno colpito la struttura economica e finanziaria dello Stato, determinando una serie di tagli lineari che hanno colpito in misura assai rilevante le regioni e gli enti locali. Il 2012, in particolare, segna l’avvento di una riforma costituzionale che apre una fase particolarmente faticosa per rientrare nei parametri dell’Euro (e non solo), in funzione di politiche eurounitarie improntate ai parametri dell’austerità accompagnata dalla sollecitazione ad operare riforme profonde per modernizzare e rendere efficiente la macchina amministrativa italiana, a tutti i livelli.
A tale fase è corrisposta, giocoforza, una risposta articolata dei territori e della autorità regionali e locali. Ma, mentre queste ultime hanno subito, per lo più, le difficoltà dell’austerità, ad un tratto, la reazione, tra il 2018 ed il 2019, si è (nuovamente) manifestata da parte di alcune regioni, segnatamente la Lombardia il Veneto e l’Emilia Romagna (ma poi anche di altre, tra cui la Campania), nel rivendicare il proprio ruolo istituzionale attraverso la richiesta di ulteriori e più estese forme di autonomia, differenziandosi dal resto del Paese, facendo appello ad una norma di complessa attuazione come l’art. 116 c. 3 del novello titolo V.
Nasce da qui quello che viene oggi battezzato come “regionalismo differenziato”, che, se rapportato al complessivo disegno costituzionale regionalista, in effetti, costituisce ulteriore differenziazione all’interno di un quadro nel quale campeggiavano (e si differenziavano per qualità degli statuti) le regioni ordinarie e quelle speciali.
Non si devono avere prese di posizione preconcette su questo punto: le rivendicazioni delle regioni a statuto ordinario sono pienamente legittime sul piano costituzionale (bisognerebbe vedere in quello amministrativo) e forse hanno una logica precisa in un contesto, anche a livello europeo, nel quale una struttura regionale maggiormente protagonista, pur nel rispetto dei limiti dell’interesse nazionale, delle scelte economiche, fiscali e politiche potrebbe costituire un motivo di forza e di sviluppo dei territori, una realizzazione della cittadinanza in armonia con gli artt. 174 e 175 del TFUE e, nel contempo, uno snellimento della struttura centrale, non sempre in grado di provvedere adeguatamente.
Vi è, però, che il regionalismo differenziato non può costituirsi prescindendo dalla risoluzione dei problemi che hanno caratterizzato l’ordinamento regionale nel suo complesso, dal divario Nord – Sud (il recupero del gap è, come risulta pacifico da tutte le relazioni stese sul punto, compresa quella della Banca d’Italia, fondamentale per la crescita del Paese), cui è connesso il corretto riparto delle risorse (finora non paritario), alla previa determinazione dei LEP sulla base dei costi storici e/o standard, dal mantenimento di un fondo perequativo, tale da non determinare un regionalismo competitivo e rimanere – come richiede la Corte costituzionale – nell’ambito di un regionalismo cooperativo.
Nel merito, le richieste rischiano di determinare un vero e proprio svuotamento della legislazione concorrente, aspetto che, in sé potrebbe risultare persino paradossale.
Nel metodo, la scelta è caduta – come pare ormai assodato – sull’utilizzo di una legge rafforzata di attuazione dell’art. 116 c. 3, che, però, nelle attuali formulazioni, mostra una sorta di “amministrativizzazione” non del tutto convincente. Immaginare, in particolare, come prevedeva il disegno di legge “Boccia”, si possa procedere oltre anche laddove non siano stati previamente determinati i LEP, facendo ricorso ai costi standard rischia di fare degenerare il processo di differenziazione, che, in tesi, mira ad ottenere risultati proficui in termini di efficienza e gestione delle risorse, anziché aggravare i divari esistenti, che non servono ad alcuno, anche in termini economici (Castronuovo).
5. Alcuni problemi legati al processo di differenziazione
Sul processo di differenziazione pendono altri problemi di fondo: il suo porsi in controtendenza con le scelte politiche di “accentramento” post Covid 19 ribadite dal PNRR, non avendo, peraltro, le Regioni dato sempre piena prova di riuscire a superare le attuali fasi di crisi (altro discorso è quello della competenza legislativa statale per materia). La pandemia ha certamente evidenziato la necessità di procedere ad una corretta riorganizzazione amministrativa sui territori che, da una parte, agevoli i processi di sviluppo, dall’altro non fagociti i diritti fondamentali dell’intera cittadinanza.
Anche le notevoli risorse destinate al Mezzogiorno dal PNRR, finalizzate allo sviluppo dei territori ed alla salvaguardia dei diritti di cittadinanza, passa attraverso la capacità di operare gli interventi e, concretamente, di "metterli in campo" (Manganaro).
Vi è un’altra obiezione all’immediata attuazione del regionalismo differenziato – fra le tante, non si pensa di esaurirle tutte – ossia il ruolo del principio di sussidiarietà posto dall’art. 118 della Costituzione novellata nel 2001, al centro del quale campeggia il Comune e non la Regione.
L’attuazione del regionalismo differenziato potrebbe dar luogo ad una sorta di riproposizione del parallelismo, ma rovesciato, non consentendo l’attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni. In altri termini, se è forse anche corretta l’idea secondo la quale la dipendenza dallo Stato costituisca la propaggine di un centralismo da scardinare – ancorché attualmente in una delle sua fasi di maggiore fulgore – in nome dell’originario disegno costituente posto dall’art. 5 (rispetto al quale la riforma del 2001 non può dirsi in contrasto), sarebbe stato preferibile riconoscere maggiore rilevanza alla sussidiarietà posta dall’art. 118, prima ancora che giungere a proposte, che, senza la soluzione dei nodi problematici che accompagnano il regionalismo italiano, rischiano di tradursi in ulteriori divisioni, al limite della secessione (beninteso, non si può parlare di secessione tout court), non utili allo sviluppo ed alla crescita dell’Italia.
Ciò per tacere del tema della fiscalità, che, come noto, è agganciata a principi che prescindono dalla produttività dei singoli territori e comunque è improntata alla redistribuzione equa tra tutti, ma anche del fatto che la neutralità del trasferimento non sarebbe facilmente considerabile né garantibile. In tal senso, va ricordato il contributo di Luciano Vandelli, il quale evidenzia la presenza di due pilastri: l’art. 118 in nome della differenziazione adeguatezza e sussidiarietà; quello costituito da “valori unitari e gli strumenti per la loro tutela, i livelli essenziali, la perequazione e la solidarietà del sistema finanziario, i principi fondamentali nelle materie concorrenti, la leale collaborazione, eccetera ex art. 117 e 119”.
In altri termini, si tratta di un contesto nel quale ben vengano le richieste autonomistiche delle regioni a statuto ordinario. Ma senza prescindere da una visione complessiva, a pena di determinare una fase nella quale venga ad incrinarsi gravemente, se non proprio a spezzarsi, l’unità dell’ordinamento.
6. Le proposte di attuazione dell’art. 116 c. 3 Cost.
Viene, così, a delinearsi un quadro di luci ed ombre, attraversato dal dubbio che mascherati intenti egoistici dei “più ricchi” vadano a discapito dei “più poveri”.
Si tratta di una vulgata, a volte anche echeggiata in alcune affermazioni di carattere politico, a cui non si può e non si deve credere. Lo stesso Ministro Calderoli a più riprese ha chiarito che non si mira affatto a creare divisioni ed ingiustizie tra regioni e territori, ma a promuovere il sistema regionale, quello degli enti locali e lo sviluppo dei territori e del Paese (bisognerà vedere, però, cosa accadrà in concreto).
D’altro canto, sia nella bozza informale sia nel disegno di legge governativo, ciò risulta abbastanza chiaramente, pur con tutta una serie di perplessità che riguardano la stipula ed il valore delle intese e soprattutto il ruolo del Parlamento, a lungo esautorato da decisioni che riguardano l’intera collettività, la cui centralità va recuperata soprattutto in una fase politica nella quale sembrano archiviate le – pur necessarie – esperienze “tecniche” o “di larghe intese”, esperienze di governo non diretto frutto della volontà popolare.
Se, infatti, come insegna la quasi totalità della scienza costituzionale, i governi tecnici, pur pagando in termini di rappresentatività, sono perfettamente legittimi, d’altro canto, la parentesi storica che li ha contemplati è stata forse eccessiva.
La “tecnicizzazione” delle scelte politiche (come, in fondo, di quelle prettamente amministrative), del resto, porta con sé vantaggi e svantaggi: da una parte si tratta di scelte difficilmente discutibili, anche perché sovente necessitate dalla contingenza; dall’altra parte, però, la diretta legittimazione popolare e la possibilità (come è attualmente) di godere di una solida maggioranza (almeno nei numeri), consente di operare scelte "propriamente" espressione dell’indirizzo politico, cui non si vede perché rinunciare.
In un recente disegno di legge presentato dall’opposizione viene segnalato – anche questo è un importante aspetto sul quale riflettere – che diverse materie di legislazione concorrente previste dall’art. 117 (“produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, le “grandi reti di trasporto e di navigazione”, le “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito fondiario e agrario a carattere regionale”) richiedano un diverso riparto delle competenze, anche in funzione dell’attuale nuova fase storica e dei rapporti con l’Unione europea. Ma viene anche ricordato, segnatamente con riferimento alla bocciatura della richiesta regionale di trattenere i 9/10 dei tributi riscossi a livello regionale, che l’autonomia differenziata “come insegna anche la storia delle regioni a statuto speciale, non può essere considerata un fine in sé, quasi si trattasse di realizzare una statualità propria della regione richiedente, ma come un processo in cui sperimentare il miglioramento delle politiche pubbliche in un quadro di sussidiarietà che non intacchi l’unità nazionale”. Ovvero, si tratta di “competenze, quali quelle in materia di politiche attive del lavoro, di integrazione fra politiche attive e politiche passive, di organizzazione delle fondazioni ITS, di realizzazione di un sistema integrato di istruzione professionale e di istruzione e formazione professionale, di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, di governo del territorio funzionale alla rigenerazione urbana e alla prevenzione del rischio sismico°, che le regioni “possono gestire adattandole proficuamente ai diversi sistemi d’impresa che caratterizzano i nostri territori”.
Nel disegno di legge di cui si tratta – ovviamente, ben più definito della iniziale “bozza Calderoli” del novembre scorso (ma non pare con esso in totale contrasto) – viene precisato che l’attribuzione delle competenze alle regioni presuppone il rispetto degli artt. 118, 2 e 5 della Costituzione, “sentiti gli enti locali e tenuto conto delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane definite dalla legislazione statale, ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. p) della Costituizone”; inoltre, l’attribuzione delle competenze, ove riguardino materie che costituiscano livelli essenziali delle prestazioni (art. 117 c. 2 lett. m) possano essere attribuire alle regioni richiedenti solo dopo la definizione dei LEP.
In ogni caso il Parlamento (dopo una prima fase governativa ove si ha la sottoscrizione dell’intesa), è consultato con l’acquisizione del parere da parte della Commissione parlamentare per le questioni regionali e poi nella fase successiva alla sua sottoscrizione definitiva, con la trasmissione dello schema di disegno di legge di ratifica alle Camere ai sensi dell’art. 116 c. 3, con eventuale previo invio di una relazione dettagliata governativa circa eventuali difformità dalle indicazioni espresse dal Parlamento.
Vi è, poi, il profilo relativo ai LEP, che vanno previamente determinati, entro e non oltre un anno dalla entrata in vigore della legge, nonché il nodo delle risorse strumentali e finanziarie in uno al trasferimento delle competenze alle regioni, in base a quattro fondamentali principi: 1) il rispetto del principio di equilibrio dei bilanci pubblici; b) la tendenziale neutralità finanziaria e il rispetto degli equilibri di finanza pubblica; c) l’integrale copertura delle funzioni, ai sensi dell’art. 119; d) il periodico aggiornamento del quadro finanziario in rapporto all’evoluzione del quadro macro economico, nel rispetto della neutralità finanziaria.
Aspetto sul quale pare ci sia una convergenza tra maggioranza ed opposizione è quello del riferimento ai costi standard, ossia le risorse da assegnare in sede di intesa, risorse finanziarie assegnate in termini di compartecipazione al gettito dei tributi erariali del territorio regionale. Fino alla definizione dei costi standard, le risorse sono attribuite alla regione con riferimento alla spesa permanente sostenuta dallo Stato per l’erogazione delle corrispondenti funzioni.
Una differenza tra la bozza Calderoli ed il disegno di legge governativo è sul passaggio finale in sede parlamentare.
Mentre l’art. 2 c. 6 della bozza prevedeva la mera approvazione dell’intesa, adesso il riferimento è al solo art. 116 c. 3 della Costituzione. In realtà, il procedimento descritto nel disegno di legge governativo tende dichiaratamente a salvaguardare il ruolo del Parlamento, prevedendo la possibilità di esprimersi con atti di indirizzo. Occorrerà verificare cosa accadrà davvero.
7. Il nuovo rapporto tra autonomia speciale e differenziata
Il 116 c. 3 non va inteso pregiudizialmente come contenente una clausola idonea a fondare un tertium genus di regionalismo: si tratta, invero, di uno strumento di razionalizzazione e perfezionamento del regionalismo ordinario, su matrice volontaria, opzionale e non obbligatoria.
Eppure, è stato sostenuto che l’art. 116, introdotto in modo approssimativo ed all’ultimo minuto, costituisca un modo per non affrontare la questione più profonda, che è quella della “federalizzazione” dell’ordinamento (Frosini), da cui dovrebbe discendere, quale primo passo, l’abolizione della specialità, in quanto, in uno stato federale, tutte le regioni sono “speciali”.
Da altra parte, poi – ed è una tesi ricorrente – si considera inattuabile l’art. 116 c. 3 perché carente “di strumenti flessibili di integrazione tra unità e differenziazione, tra competizione e cooperazione” (Palermo). Il rischio è che “una volta innescato il meccanismo differenziale, non sarà più possibile tornare indietro, almeno con decisione unilaterale dello Stato”, essendo l’accordo governabile solo attraverso soluzioni politiche e non istituzionali. Si creerebbe, cioè, altra specialità con un procedimento diverso da quello degli Statuti speciali e delle norme di attuazione, queste ultime, caratterizzate da riserva e separazione.
La c.d. “clausola di asimmetria” contenuta nell’art. 116 c. 3 è accompagnata da una serie di previsioni utili a compensare gli effetti negativi che riguardo alla distribuzione delle risorse, potevano scaturire da una differenziazione esasperata: la istituzione di un fondo perequativo generale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119) e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale ex art. 117 c. 2 lett. m).
A ben guardare, però, l’attuazione dell’art. 116 c. 3 non è, almeno formalmente (ma su questo il disegno di legge governativo pare consentire maggiore ottimismo), subordinata alla istituzione del fondo perequativo ed alla fissazione dei LEP: in tesi, dunque, la sua attuazione potrebbe avvenire prescindendone, cioè senza le garanzie necessarie a salvaguardare la coesione economico-sociale del Paese e l’unità nazionale. Il fondo perequativo non è ancora stato istituito e non sono stati fissati in diversi importanti settori i LEP, né è stato applicato il principio dei fabbisogni standard per il calcolo dei costi delle funzioni.
Sta di fatto che il modello cui le regioni a statuto ordinario hanno guardato – anche questa è una communis opinio, seppure più fondata della precedente vulgata – è quello dell’autonomia speciale, ancorchè si tratti di un modello astratto, in quanto concretamente attuato in misura diversa da regione a regione. Ciò si ricava anzitutto dalla formulazione del quesito posto nel referendum consultivo del 2017 Veneto (l’unico fatto salvo dalla Corte costituzionale n. 118 del 2015), dal numero di materie (23) in cui è stata chiesta l’attivazione della clausola di asimmetria – non consentendo di parlare di una funzione integrativa e complementare rispetto alla vigente articolazione delle competenze, rinviando all’idea di un vero e proprio statuto speciale – e dalla previsione nelle bozze d’intesa che le modalità per l’attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali e le forme di raccordo con le amministrazioni centrali per l’esercizio delle funzioni devolute dovrebbero essere determinate da un’apposita commissione paritetica, simile a quelle previste nelle regioni a statuto speciale.
Viene, però, in dottrina, rilevato che la composizione di queste commissioni è meno garantista delle paritetiche (in quanto ne fanno parte soggetti designati da organi di rappresentanza elettiva anziché dall’esecutivo) e che, a differenza dei decreti di attuazione degli statuti speciali (atti con forza di legge previsti da leggi costituzionali ed emanati dal P.d.R.) gli atti previsti dalle bozze d’intesa sarebbero decreti del P.d.Consiglio, privi di forza di legge e dall’incerta natura, mal celando l’intento di “privatizzare” il trasferimento di funzioni alle regioni, riservandolo al rapporto tra esecutivo nazionale e regionale (Morelli).
L’autonomia differenziata può, dunque, essere intesa come un modo per giungere all’autonomia speciale per altra via rispetto a quella dello statuto speciale di rango costituzionale? E poi: la riforma del 2001 ha, in qualche modo, decostituzionalizzato il procedimento di riconoscimento dell’autonomia speciale?
A questi quesiti si può rispondere in vario modo: la risposta più probabile è quella negativa, dal momento che il costituente ha distinto in modo chiaro tra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario.
Altro discorso, ovviamente, è interrogarsi circa la perdurante utilità del regime duale esistente, in quanto integrato da regioni ordinarie differenziate.
Al proposito, in dottrina si è parlato di una nuova “specialità diffusa” (Ruggeri), predicando, cioè l’abbandono del modello duale in nome di nuovi percorsi autonomistici regionali e locali nei quali il tema della coesione politica e sociale, anche per quel che concerne i diritti sociali e di cittadinanza, istituendo fondi perequativi, fissando LEP, sia diversamente articolato. Preso atto dei percorsi possibili cui può dare la stura l’attuazione dell’art. 116 c. 3, infatti, vi è l’opportunità – e persino la necessità – “di abbandonare una buona volta e senza rimpianto alcuno il vecchio regime duale fondato sull’articolazione dell’autonomia in ordinaria e specie, mirando piuttosto (e decisamente) all’impianto di un sistema complessivo di specialità diffusa, eretto e incessantemente rinnovato con il fattivo concorso delle stesse regioni in forme idonee a salvaguardarne l’autonomia, nella cornice dalla unità-indivisibilità della Repubblica. Si tratta di un percorso che, tuttavia, richiede l’obbligatorio ricorso alla revisione costituzionale, non potendosi aggirare le norme della Carta fondamentale”.
Si è anche rilevato che l’attuale processo di differenziazione, diversamente da quanto prefigurato nel 2006 e poi nel 2018, segue una prospettiva di differenziazione generalizzata, ponendo in crisi la stessa distinzione rispetto alla tradizionale “specialità”. Nel silenzio dell’art. 116, tale circostanza metterebbe seriamente in discussione l’attuale impianto costituzionale, nel quale vige una ordinarietà governata dal Titolo V, con parziali deroghe per le regioni speciali.
Infine, è stato posto il problema della sostenibilità per la finanza pubblica di un regime differenziato generalizzato.
Insomma, il tema è se sia messa in discussione la stessa sopravvivenza della specialità, oltre alla potenziale integrale disattivazione dell’intero Titolo V, dando ragione a chi sostiene che debba abbandonarsi il regime duale in nome di una specialità diffusa. Unica vera alternativa è l’adeguamento degli statuti (ex art. 10 l. cost. n. 3/2001). Laddove il regionalismo differenziato sconfinasse in quello speciale, del resto, si potrebbe parlare di una surrettizia (e pericolosa) forma di violazione della Costituzione.
In tal senso, è stato rilevato che non è possibile far transitare tutte le Regioni ordinarie nel modello della differenziazione e, d’altro canto, non può porsi un vero e proprio limite quantitativo e temporale senza condurre un discorso maggiormente organico. La rivendicazione generalizzata della differenziazione incide e forse trasforma la stessa forma di Stato, perché diventano oggetto di discussione i modelli regionali. Il modello della differenziazione, dunque, va, molto probabilmente, inserito in un quadro costituzionale già esistente, senza assimilazione al modello della specialità.
Il "116" serve a trasferire ulteriori competenze legislative (o pezzi di esse), quindi il suo impatto è tutt’altro che irrilevante. Se si trattasse solo di trasferire funzioni amministrative sarebbe sufficiente l’art. 118 ed una legge ordinaria, non vi sarebbe ragione di ricorrere al 116 c. 3. In ogni caso, non vi è alcuna obiezione in relazione al fatto che il trasferimento di funzioni legislative coinvolga anche quelle amministrative, come dimostra il previo coinvolgimento degli enti locali in nome, evidentemente, del principio di sussidiarietà.
7.1. Le carenze del regime duale, tra istanze identitarie e funzionaliste
Quali sono, eventualmente, le ragioni che giustificano la permanenza del regime duale? La specialità risponde ad una logica top down, discendente e imposta dall’alto, frutto di negoziazione politica; il 116 c. 3 risponde alla logica bottom up, giacchè l’attribuzione delle condizioni particolari di autonomia discende da una legge approvata a maggioranza assoluta, a seguito di negoziazione politica e sulla base di un’intesa tra lo Stato e la Regione interessata.
Mentre l’autonomia differenziata può essere istituita solo nelle materie indicate dall’art. 117, cui rinvia il 116 c. 3, l’autonomia speciale ha, in potenza, un ambito di estensione più ampio, perché non conosce limiti precostituiti, se non l’inserzione nelle leggi costituzionali di approvazione degli statuti speciali.
Dunque, l’autonomia speciale, in tesi, è complessivamente superiore rispetto a quella differenziata.
Ma quali esigenze le due forme di autonomia sono chiamate a soddisfare? L’autonomia speciale, in tesi, risponde ad una logica prevalentemente identitaria (e forse anche ideologica), quella differenziata ad una visione funzionalista, ossia come strumento per assicurare un’amministrazione efficace ed efficiente.
Sull’autonomia speciale, vi sono tesi opposte: vi è chi la ritiene un caposaldo storico dell’ordinamento italiano (D’Atena), pertanto sottratto alle volizioni politiche contingenti (Silvestri); ma anche chi considera le autonomie speciali come alcune tra le possibili declinazioni del principio autonomistico di cui all’art. 5, che, come tale, potrebbe trovare diverse (e forse anche più soddisfacenti) realizzazioni (Pajno).
In astratto, i modelli sono distinti: si trovano di fronte forme di autonomia speciale intangibile se non con il procedimento di revisione costituzionale, rispetto a potenziali autonomie differenziate, orientate da parametri di efficienza amministrativa e contenute entro i limiti dell’art. 119.
Ovviamente, passando dall’astratto al concreto, il discorso può trovare altra declinazione, considerato che le istanze identitarie e quelle funzionaliste non stanno in conflitto tra loro e possono anche convergere. La contrapposizione tra la declinazione politico-identitaria e quella funzionalista dell’autonomia “non deve essere enfatizzata alla luce del fatto che, anche se nella configurazione istituzionale di un livello territoriale di governo, si parte dell’esigenza di soddisfare al meglio gli interessi, non si può prescindere dalle risultanze storico-sociali e dalle intrecciate ragioni economiche legate alla comunità di riferimento” (Tarli Barbieri).
Le autonomie speciali, a loro volta, non costituiscono una categoria omogenea, nel senso che ogni statuto speciale presenta caratteri propri e peculiari (quelli che giustificano, in linea di principio, la specialità) ed anzi è noto che, per alcune regioni (soprattutto quelle insulari), la specialità ha finito per costituire un freno anziché una risorsa per lo sviluppo dei relativi territori.
Né gli orientamenti del legislatore e del giudice delle leggi hanno mai attraversato stagioni di particolare fulgore, nel senso che le aspirazioni di tutte le autonomie, regionali, ordinarie e speciali, hanno subito, in misura più o meno ampia, gli effetti di una logica orientata più all’omologazione che alla differenziazione.
7.2. La lacunosa disciplina del regionalismo differenziato
Il 116 c. 3 è, indubbiamente formulato in modo non chiaro ed esaustivo: un intervento integrativo e correttivo di stampo costituzionale potrebbe, per vero, risultare molto utile, prima dell’adozione di una legge attuativa, peraltro non richiesta dalla stessa norma. Un intervento con legge costituzionale sarebbe giustificato da più ampie esigenze di sistema e soprattutto dalla necessità di impedire che già sul piano procedurale si producano discriminazioni in base al colore politico del governo della regione interessata alla trattativa, giacchè le regole procedurali non possono divenire oggetto di negoziazione politica.
La soluzione prescelta, fin dal 2018, tuttavia è quella della legge quadro, cui paiono coerenti le ulteriori e più recenti proposte. Ma anche tale legge (viene anche fatto riferimento, vista l’iniziativa regionale, all’art. 121 Cost.) non convince del tutto nel senso che non si offre alcun elemento riguardo alla tempistica e soprattutto ai principi cui informare il momento generativo dell’intesa tra Stato e regione.
La clausola di asimmetria, d'altro canto, si ritiene concerna solo le regioni a regime ordinario. A favore di tale tesi, a parte il dato testuale, vi è il fatto che per le regioni a statuto speciale, la via istituzionale è quella che prevede la revisione dei rispettivi statuti con legge costituzionale. Va, però, rilevato che nei due procedimenti la Regione ha un ruolo differente: nel primo caso (revisione costituzionale) meramente consultivo, nel secondo caso più probabilmente paritario. Quindi, se è vero che l’ampliamento dell’autonomia speciale, di regola, presuppone la revisione degli Statuti, in una prospettiva sperimentale (Morelli) il procedimento di differenziazione potrebbe servire per fare acquisire alle autonomie speciali competenze in materie di cui esse non avessero già la disponibilità. Tali competenze non verrebbero inserite negli statuti speciali, ma nulla impedirebbe, in caso di accordo politico con lo Stato, che tali competenze trovino inserimento in seguito negli statuti, in ossequio, peraltro, alla clausola di maggior favore prevista dalla legge cost. 3/2001, in quanto l’introduzione nello statuto speciale della previsione di una delle competenze oggetto di differenziazione, dopo un “periodo di prova”, rafforzerebbe, in via transitoria, la competenza stessa.
A questo si obietta che l’art. 10 varrebbe solo per le condizioni di autonomia di cui al Titolo V e non anche per quelle poste dall’art. 116 c. 3: di contro può osservarsi che la differenziazione è prodotto logico e diretto dell’attuazione del 116 c. 3, sicché non si vede perché escludere la possibilità di avvalersi della procedura che lo riguarda, ponendosi, a ben guardare, in contrasto con la ratio della stessa clausola di maggior favore, in quanto sarebbe impedito transitoriamente, in attesa della revisione degli statuti, alle regioni speciali di avere accesso al regionalismo differenziato.
Peraltro, l’art. 11 della legge n. 131/2003, nel richiamare l’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001 precisa che “le Commissioni paritetiche previste dagli statuti delle Regioni a statuto speciale, in relazione alle ulteriori materie spettanti alla loro potestà legislativa ai sensi dell’articolo 10 della citata legge costituzionale n. 3 del 2001, possono proporre l’adozione delle norme di attuazione per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, umane e organizzative, occorrenti all’esercizio delle ulteriori funzioni amministrative”. Le norme di attuazione, in applicazione dell’art. 10 possono prevedere altresì “disposizioni specifiche per la disciplina delle attività regionali di competenza in materia di rapporti internazionali e comunitari”. Secondo D’Atena, “una volta rovesciata l’enumerazione delle competenze legislative, il mantenimento dell’autonomia speciale nella sua originaria consistenza avrebbe posto gli enti che ne erano dotati in posizione deteriore rispetto agli altri. Per l’evidente ragione che le competenze individuate dai rispettivi statuti, con tecnica enumerativa, avevano un’estensione decisamente inferiore rispetto a quelle assicurate alle regioni ad autonomia ordinaria dalla clausola residuale”.
7.3. Le prospettive della differenziazione
Il regionalismo differenziato, nato in chiave funzionalista, attualmente ha finito per assumere una valenza simbolica ed identitaria, in vista del raggiungimento dell’autonomia speciale. Su questo nessuna obiezione, come si è detto. E tuttavia, una volta avviato il processo di differenziazione, la "via del ritorno" pare preclusa, anzi non è proprio prevista, evidenziandosi così una evidente lacuna normativa. Nonostante, infatti, sia prevista una revisione periodica dell’intesa dopo un decennio dall’entrata in vigore della legge attributiva delle nuove forme di autonomia, il ritorno al passato porrebbe enormi problemi pratici (anche nella riorganizzazione degli uffici) e sarebbe certamente interpretato come una sorta di spoliazione da parte del centro rispetto alla regione. Una legge costituzionale che disciplinasse questo passaggio sarebbe, quindi, auspicabile, potendo costituire, peraltro, parametro di legittimità costituzionale.
Una volta attuata la differenziazione, del resto, non è prevedibile immaginare quali conseguenze si avrebbero nelle relazioni con le regioni a statuto speciale.
Deve immaginarsi la crescita del contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale, la quale potrebbe fare ricorso a tutta la precedente giurisprudenza in tema di leale collaborazione, ragionevolezza e proporzionalità, per assicurare istanze unitarie, ridimensionando gli effetti della differenziazione in nome dell’interesse nazionale.
Un problema non secondario potrebbe porsi in rapporto alla tenuta economica complessiva del Paese, laddove si manchi di valorizzare le regioni della solidarietà interterritoriale.
8. La condizione di insularità come recupero della specialità
Le ragioni della specialità, soprattutto per le regioni insulari (Sicilia e Sardegna) trovano oggi particolare ed ulteriore fondamento in funzione del riconoscimento della condizione di insularità, le cui caratteristiche geografiche, economiche, demografiche e sociali sono assolutamente specifiche, sfidando le stesse politiche europee in ragione del mercato limitato e della difficoltà di realizzare economie di scala. Si pensi ai costi di trasporto sicuramente più elevati, alle relazioni inter-industriali, ai deficit di infrastrutture e di offerta di servizi per le imprese (rispetto alle realtà continentali), alla compressione dei servizi sociali e formativi ai cittadini, nonché in relazione ai recenti fenomeni migratori. Le misure di riequilibrio e di perequazione per la condizione geografica e di discontinuità territoriale devono consentire pari opportunità di sviluppo e accesso al mercato unico europeo anche rispetto alle altre regioni. Insularità e perifericità producono un incremento dei costi e creano ritardi e debolezze nel processo di sviluppo e coesione (Armao).
Significativa, sul punto la sentenza n. 9 del 2019 della Corte costituzionale per la quale il fattore insulare va declinato opportunamente sia sul piano dell’identità e specialità, sia con riferimento alle opportunità di studiare e lavorare, come anche di assicurare la libera circolazione dei beni, dei trasporti e delle persone garantendo l’esercizio dei loro diritti economici. La Corte costituzionale ha, infatti, ritenuto illegittimo l’art. 1 c. 851 l.n. 205/2019 “nella parte in cui non prevede, nel triennio 2018-2020, adeguate risorse per consentire alla regione autonoma Sardegna una fisiolgica programmazione nelle more del compimento, secondo canoni costituzionali, della trattativa finalizzata alla stipula dell’accordo di finanza pubblica”. La Corte, peraltro, aveva già ritenuto necessario un rapporto di leale collaborazione con le autonomie territoriali nella gestione delle politiche di bilancio (c.d. “tirannia” della ragione erariale). Il meccanismo della priorità dell’intervento finanziario, sempre secondo il Giudice delle leggi, connota “il principio dell’equilibrio dinamico come giusto contemperamento, nella materia finanziaria, tra i precetti dell’articolo 81 della Costituzione, la salvaguardia della discrezionalità legislativa e l’effettività delle pronunce del giudice costituzionale”.
Quanto alla condizione di insularità, pur essendo venuto meno l’esplicito riferimento un tempo contenuto nell’art. 119 c. 3 Cost., resta il dato normativo costituito dall’art. 27 della l.n. 42/2009 che garantisce l’adozione di meccanismi di perequazione fiscale ed infrastrutturale volti a garantire il riequilibrio dei divari: “in relazione alla mancata ridefinizione delle relazioni finanziarie tra Stato e regione autonoma .. secondo i canoni fissati dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009, va sottolinea come, a quasi dieci anni dall’emanazione di tale legge, il problema dell’insularità non sia mai stato preso in considerazione ai fini di ponderare complessivamente le componenti di entrata e di spesa dell’autonomia territoriale” dato lo svantaggio economico determinato da tale condizione.
In tal senso, depongono le norme del TFUE, segnatamente l’art. 174 in tema di coesione sociale, economica e territoriale, al fine di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle Regioni attraverso il rafforzamento delle politiche di coesione, con particolare attenzione alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali, come le isole.
9. Brevi considerazioni conclusive
Il percorso del regionalismo differenziato è tuttora in fieri, avendo conosciuto nuova e significativa accelerazione sul piano politico.
Le perplessità riguardano, da un lato, la (in)completezza dell’art. 116 c. 3 della Carta costituzionale ed il modo migliore per darvi attuazione; dall’altro, gli effetti che ne possono derivare sul piano istituzionale e delle relazioni fra i livelli di governo.
Le regioni a statuto speciale solo apparentemente – cioè, perché il 116 c. 3 ad esse non fa riferimento – sono spettatrici di questo processo, ma, a ben guardare, ne sono coinvolte sotto molteplici profili, forse anche in forza dell'apposita clausola (art. 10) contenuta nella legge costituzionale n. 3/2001.
Ci si chiede, in primo luogo, cosa ne sarà dell’originario dualismo tra autonomia speciale ed ordinaria: in particolare, quali effetti potrà produrre, nelle reciproche relazioni, questo sensibile mutamento di assetto sia in termini di funzioni legislative, sia con riferimento a quelle amministrative.
Ci si chiede, in secondo luogo, se, una volta attuato il regionalismo differenziato, abbia ancora senso distinguere tra regioni a statuto ordinario e speciale, se, cioè, come pure sostenuto in dottrina, si dovrà pervenire ad una “specialità diffusa”, la cui attuazione, però, richiede e necessitate una riforma costituzionale.
Ci si chiede, in terzo luogo, cosa ne sarà delle relazioni tra regioni, Stato ed Unione europea, se, cioè, l’autonomia differenziata determinerà un differente assetto, in grado di conferire alle regioni “differenziate” una “speciale” qualità ed un nuovo ruolo nella interlocuzione con gli organi comunitari.
Ci si chiede, infine, se, al di là delle buone intenzioni (la buona fede si presume), l’attuazione del regionalismo differenziato preluda a (o, comunque, finisca per) minare gli equilibri profondi del Paese – soprattutto quelli economici e sociali, considerato l’enorme e crescente divario Nord/Sud – preservati fino ad oggi, da singole e specifiche, quanto giustificate, specialità e se questo sia il tempo per rivendicare nuova autonomia o esercitare bene quella che già si ha.
*L’articolo riproduce l’intervento al seminario tenuto nell’ambito de I Lunedì di Giustiziainsieme il 9 gennaio 2023 sul tema Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma.
Il primo giorno della mia vita. Recensione di Dino Petralia
In una combinazione degli opposti in cui primo e ultimo s’identificano, la sorte benigna di quattro personaggi, colti nell’attimo fatale del suicidio, autorizza una loro momentanea sopravvivenza, affidando al rispettivo arbitrio la decisione di una conferma della fine o di un vitale ripensamento. Una sopravvivenza asensoriale e diafana, priva di bisogni primari ed invisibile al prossimo, relegata in un solitario albergo cittadino ma non espropriata del corredo sentimentale utile a ciascuno per valutare quella diversa prospettiva che un ignoto traghettatore ha proposto loro. E per agevolarne la scelta l’innominato concede ai quattro invisibili spettatori la possibilità di uno sguardo sull’immediato futuro, sia nella versione del dopo morte in fotogrammi di una vita che prosegue comunque in loro assenza, sia in una fugace sequenza esistenziale, organizzata come proiezione in una sala vuota di un cinema antico di una Roma notturna e deserta, di un futuro questa volta in loro vitale presenza. A sostegno della decisione soccorre anche la concessione di una giornata di libera uscita tra la gente, con momenti di sensorialità capaci di far gustare - o continuare a ripudiare - la vita perduta, come il pranzo fisicamente realistico sul trabocco e l’allegra conoscenza che tra i quattro sospesi fa Emilia - la giovane ginnasta insoddisfatta del suo eterno secondo posto - di un coetaneo che le si siede accanto con invitante sorriso. Ancora un desiderio a scelta da esaudire e il catalogo dei vantaggi loro concessi è completo; si tratta adesso di scegliere ritornando all’istante dell’atto e così decidere se continuare ad assecondare la pulsione suicida o piuttosto virare gli eventi verso una nuova prospettiva esistenziale, consci che la felicità è di pochi ma che la vita riserva e promette comunque.
La sopravvivenza del dolore nell’anomalo gruppo viene tuttavia lentamente erosa dal progressivo insinuarsi di un fremito sentimentale, evolvendo in una languida e sottintesa nostalgia di felicità; è così che al cospetto di un palpito filiale di Arianna verso il piccolo Daniele che ne assapora il calore materno, al segnale di una scossa d’interesse di Emilia per il giovane avventore che le si avvicina sorridente, l’amore per la vita sigla il suo primato vincente sulla morte.
Non per tutti allo stesso modo però.
Mentre la morte della figlia adolescente per Arianna, la frustrante delusione da eterna seconda di Emilia, la esagerata voracità di ciambelle indotta dal padre in Daniele per guadagnare primati di followers in rete, erano tutti motivi palpabili di insofferenza esistenziale, l’assenza di una ragione giustificante in Napoleone e la presenza in lui di un malessere abissale, così intimo e irrazionale, non gli danno tregua né sollievo neppure in quel limbo di vita sospesa, non esonerandolo dal gesto che sceglie di compiere nuovamente lanciandosi dal ponte. Ed è proprio in quel frammento scenico che il timbro del regista compone la sua impronta finale, offrendola agli spettatori ancora una volta come messaggio di macerante ma concreto ottimismo: Napoleone muore ma al tempo stesso rivive negli analoghi panni del suo momentaneo traghettatore, afflitto in vita dal male oscuro e suicidatosi pure lui gettandosi giù da un ponte. E da rinnovato motivatore d’anime, come il suo provvidenziale angelo s’impegna da quel momento a riacciuffare la vita degli altri nell’attimo fuggente del loro volontario trapasso, assegnando ad ogni eletto una seconda chance di libera autodeterminazione.
Esattamente com’è il jazz, libero e improvvisante, non a caso canticchiato dall’ignoto autista nell’iniziale transito verso l’albergo.
L’artificio filmico e la volutamente meccanica recitazione d’interpreti di qualità - Servillo (l’ignoto) e la Buy (Arianna) che fanno qui ancora una volta egregiamente Servillo e la Buy, la giovane Sara Serraiocco (Emilia), il giovanissimo Gabriele Cristini (Daniele) e un sempre efficace Mastandrea nei panni di Napoleone, oppresso da un incrollabile male di vivere - compongono un lavoro che riflette e fa riflettere, coerente con la linea narrativa del Paolo Genovese di Perfetti sconosciuti e The Place, curioso delle intime dissonanze e attento alle pieghe dei disagi esistenziali, in un’ottica analitica che la maestria del regista adegua al linguaggio filmico con accurata abilità.
Sulla definizione di algoritmo (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 25 novembre 2021, n. 7891)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda conteziosa - 3. L’interpretazione delle clausole di gara - 4. Il termine algoritmo - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Le nuove tecnologie offrono degli innovativi strumenti capaci di migliorare i livelli di efficienza amministrativa, l’ingerenza della scienza tecnologica nella materia amministrativa[1] è, ormai, inarrestabile; il legislatore e il giudice non possono non conoscere le nuove definizioni, quali algoritmo[2] o intelligenza artificiale[3] al fine di tutelare gli interessi della collettività nel processo di trasformazione cibernetica che sta avvenendo all’interno del settore pubblicistico.
Le PP.AA., in un’ottica di ammodernamento e innovazione, sono onerate ed obbligate a far proprie tali nozioni in quanto, tale terminologia, è sempre più presente nelle norme, nei capitolati e nei bandi di gara.
Nondimeno, la loro interpretazione, in alcune ipotesi, necessita di uno sforzo considerevole, in ragione dello specifico ambito che non può prescindere dal buon senso e dallo specifico contesto in sono inserite.
A tal proposito, tale commento, vuole soffermarsi sul delicato tema dei rapporti intercorrenti tra la nozione di intelligenza artificiale e quella di algoritmo, in relazione al complesso processo di integrazione in atto, necessario al fine di coadiuvare la convivenza di tali nuove tecnologie all’interno dell’apparato amministrativo.
2. La vicenda contenziosa
La sentenza in commento concerne l’esatta perimetrazione della nozione di algoritmo di trattamento nel contesto di una procedura nazionale di gara per la fornitura di pacemaker di alta fascia[4].
Nella procedura di affidamento, la Commissione di gara riteneva soddisfatto il possesso degli algoritmi sia per la prevenzione che per il trattamento, tuttavia il massimo punteggio era ottenibile esclusivamente nel caso di algoritmi automatici[5]. La questione veniva portata all’evidenza del primo giudice amministrativo e, in tale occasione, questi puntualizzava come bastasse la sola presenza di un algoritmo ti trattamento, senza specificare il genus dello stesso[6].
Nell’estendere la sentenza, il primo giudice, al fine di meglio circoscrivere il concetto, aggiungeva delle importati affermazioni, in ordine alla nozione di algoritmo in luogo dell’intelligenza artificiale: “non deve confondersi la nozione di “algoritmo” con quella di “intelligenza artificiale”, riconducibile invece allo studio di “agenti intelligenti”, vale a dire allo studio di sistemi che percepiscono ciò che li circonda e intraprendono azioni che massimizzano la probabilità di ottenere con successo gli obiettivi prefissati….. sono tali, ad esempio, quelli che interagiscono con l’ambiente circostante o con le persone, che apprendono dall’esperienza (machine learning), che elaborano il linguaggio naturale oppure che riconoscono volti e movimenti”.
Definita la nozione di algoritmo, in contrapposizione a quella di intelligenza artificiale, il Tar concludeva il suo percorso argomentativo, sancendo che: “l’algoritmo di trattamento dell’aritmia non è altro che l’insieme di passaggi (di stimoli creati dal pacemaker secondo istruzioni predefinite) necessari al trattamento del singolo tipo di aritmia. Questo concetto non include necessariamente, invece, come erroneamente ritenuto dalla stazione appaltante, che il dispositivo debba essere in grado di riconoscere in automatico l’esigenza (quindi di diagnosticare il tipo di aritmia) e somministrare in automatico la corretta terapia meccanica (trattamento). In altre parole, il dato testuale della lettera di invito non richiede che l’algoritmo di trattamento, al verificarsi dell’episodio aritmico, sia avviato dal dispositivo medesimo in automatico. Tale caratteristica attiene a una componente ulteriore, non indicata nella legge di gara, vale a dire a un algoritmo di intelligenza artificiale nella diagnosi dell’aritmia e avvio del trattamento. Fondatamente, pertanto, Abbott ha dedotto l’erroneità della valutazione della commissione di gara che – pur in presenza di un algoritmo di trattamento delle aritmie nel proprio dispositivo (vale a dire l’algoritmo NIPS, pacificamente definibile come tale) – ha attribuito soli 7 punti anziché 15 al dispositivo offerto. Infatti, la commissione ha confuso, sovrapponendoli indebitamente, il concetto di algoritmo con quello di avvio automatico del trattamento”.
Tale, singolare, ricostruzione veniva appellata e, nel ricorso del giudizio di secondo grado, si segnalava come questa risultava ampiamente generica. Ulteriormente, veniva ribadito che l’evoluzione del settore è sempre più permeata dall’introduzione di algoritmi maggiormente complessi[7], capaci di adattare la terapia da somministrare in ordine alle caratteristiche individuali, inclusa, anche, la capacità di riconoscere, prevenire e trattare episodi aritmici, quali le aritmie atriali, come acclarato nell’ambito della letteratura clinica.
Ancora, l’appellate, sottolineava come il concetto di algoritmo era ben lontano da quello di intelligenza artificiale, in quanto basato su uno schema tipico (input-elaborazione-riposta) connaturato alla funzione di sorvegliare continuativamente il ritmo cardiaco, che nulla aveva in comune con i meccanismi di machine learning [8], evocati in prime cure.
Di contro, per l’appellante, non trovavano alcun fondamento, nella nozione di algoritmo, le funzioni di test (come il NIPS) attivabili a mezzo del collegamento, in ambiente ospedaliero, del pacemaker ad una strumentazione esterna, sotto il diretto controllo del personale medico, chiamato a decidere, in base ai risultati del test, le azioni di stimolazione da far eseguire al pacemaker in modo temporaneo e sempre sotto supervisione.
L’appellata replicava ai suddetti assunti, ribadendo che la nozione di algoritmo informatico era del tutto compatibile con la fase di input attivata da un umano e, in tale ipotesi, non poteva darsi rilievo alla circostanza che i dispositivi da fornire erano di “alta fascia”, poiché è fuor di dubbio che tali dispositivi gestivano funzioni comuni anche ai dispositivi “bassa fascia” che si attivano attraverso un programmatore o l’intervento del clinico. La mancata specificazione da parte della lex gara del carattere “automatico” o “intelligente” dell’algoritmo avrebbe dovuto dunque indurre la commissione ad interpretare in modo letterale ed ampio la nozione di algoritmo, a beneficio del principio di massima partecipazione e della par condicio.
3. L’interpretazione delle clausole di gara
Il Consiglio di Stato, prima di entrare nel merito della vicenda, chiariva alcuni importanti profili in ordine all’interpretazione delle clausole della lex gara. Il primo giudice, riportava il dominante orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo il quale ‘l'interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il bando, soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss. c.c.[9] per l'interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, perché gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative[10]; con la conseguenza che “la dovuta prevalenza da attribuire alle espressioni letterali, se chiare, contenute nel bando esclude ogni ulteriore procedimento ermeneutico per rintracciare pretesi significati ulteriori e preclude ogni estensione analogica intesa ad evidenziare significati inespressi e impliciti, che rischierebbe di vulnerare l'affidamento dei partecipanti, la par condicio dei concorrenti e l'esigenza della più ampia partecipazione”[11].
4. Il termine algoritmo
Chiariti i profili interpretativi delle clausole del bando di gara il Collegio si soffermava a ricostruire le modalità in cui il termine “algoritmo” andava interpretato all’interno di un bando di gara.
In primis, chiariva che non si trattava di una singola clausola stabilente condizioni di partecipazione o regole per la competizione, ma di un vero e proprio criterio di attribuzione del punteggio tecnico; chiara espressione delle preferenze dell’amministrazione rispetto alle caratteristiche funzionali e tecniche del bene da reperire sul mercato.
Il giudice ripercorreva un iter argomentativo volto a far emergere, sia da un punto di vista funzionale che logico, che le esigenze dell’amministrazione sono la fonte dalla quale il procedimento di gara si dipana e, se è vero che l’amministrazione adisce il mercato per ricercare un bene, tali esigenze non potevano essere certamente mese a repentaglio da interpretazioni dubbie capaci di imporre all’amministrazione un bene che essa non necessita.
Il giudice sottolineava, infatti, che cosi ragionando, per assurdo, si darebbe vita ad un processo fine a sé stesso, suscettibile di tramutare la procedura da strumento servente e utile all’approvvigionamento ad un mero vincolo condizionante lo stesso fabbisogno della stazione appaltante.
Ancora, l’amministrazione dichiarava espressamente, a mezzo degli atti a base di gara, di voler reperire dispositivi di “alta fascia” e di preferire, fra questi, quelli dotati di “Algoritmo di prevenzione+trattamento delle tachiaritmie atriali” (premiati con punti 15) rispetto a dispositivi dotati “del solo algoritmo di prevenzione o del solo trattamento delle tachiaritmie atriali” (valorizzati con punti 7).
Dall’attribuzione, quasi doppia, di punteggio è chiaro come l’intento dell’amministrazione era quello di preferire un apparecchio tecnologicamente avanzato, dotato di un grado di automazione capace di coprire sia l’area della prevenzione che quella del trattamento.
Il giudicante, dunque, si interrogava in ordine a cosa, realmente, l’amministrazione aveva richiesto predisponendo il bando di gara e il proprio “invito ad offrire” soffermandosi, poi, sullo specifico punteggio da attribuire al prodotto dalla controinteressata (15 punti oppure 7).
In ordine al primo interrogativo, il Tar così descriveva la propria valutazione: “l’algoritmo di trattamento dell’aritmia non è altro che l’insieme di passaggi (di stimoli creati dal pacemaker secondo istruzioni predefinite) necessari al trattamento del singolo tipo di aritmia. Questo concetto non include necessariamente, invece, come erroneamente ritenuto dalla stazione appaltante, che il dispositivo debba essere in grado di riconoscere in automatico l’esigenza (quindi di diagnosticare il tipo di aritmia) e somministrare in automatico la corretta terapia meccanica (trattamento). In altre parole, il dato testuale della lettera di invito non richiede che l’algoritmo di trattamento, al verificarsi dell’episodio aritmico, sia avviato dal dispositivo medesimo in automatico. Tale caratteristica attiene a una componente ulteriore, non indicata nella legge di gara, vale a dire a un algoritmo di intelligenza artificiale nella diagnosi dell’aritmia e avvio del trattamento.
Tale ricostruzione, tuttavia, non trovava appoggio da parte del Collegio che, dissentendo, criticava la nozione fornita dal primo giudicante, quando questi si limitava a definire l’algoritmo come “semplicemente una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato” .
È da sottolineare che una definizione di algoritmo di tale tenore risulta, estremamente ampia e, seppure corretta, nella sua estensione, ai fini del bando avrebbe finito per ricomprendere elementi che nulla aggiungevano al valore del prodotto, questo perché l’algoritmo in questione era la base del punteggio tecnico aggiuntivo e visto che tale punteggio era volto proprio ad individuare soluzioni tecnicamente più avanzate, non sarebbe stato logico, nel caso, dare il punteggio massimo tanto a un software che dipendeva integralmente dall’azione umana, quanto ad uno che automaticamente interviene in alcuni contesti, apportando un significativo vantaggio al prodotto[12].
Ciononostante, il Consiglio di Stato osserva come la nozione di algoritmo, applicata a sistemi tecnologici, è ineludibilmente collegata al concetto di automazione, ovvero sistemi di azione e controllo idonei a ridurre l’intervento umano: maggiore è il grado di estraneità dell’intervento umano e maggiore è la complessità e dall’accuratezza dell’algoritmo che la macchina è chiamata a processare[13].
Di tutt’altra natura è, invece, la nozione di intelligenza artificiale, in questo caso, infatti, l’algoritmo riflette dei meccanismi di machine learnig e crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole sofware e i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo “tradizionale”) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico.
In sostanza, per ottenere la fornitura di un dispositivo con elevato grado di automazione, l’amministrazione non doveva far riferimento agli elementi dell’intelligenza artificiale, ma era sufficiente soffermarsi al concetto di algoritmo, ossia ad istruzioni capaci di fornire un efficiente grado di automazione, ulteriore rispetto a quello di base, sia nell’area della prevenzione che del trattamento delle tachiaritmie atriali, in modo da assecondare le esigenze della P.A., refluite nel bando di gara, in ordine alla preferenza della presenza congiunta di algoritmi di prevenzione e trattamento delle “tachiaritmie atriali”.
In ultimo, il Collegio si soffermava sull’aspetto tecnico della funzione “Non invasive program stimulation” (NIPS), assicurata, per l’area del trattamento, dal prodotto offerto dalla controinteressata[14].
Di contro, la controinteressata, a mezzo della riproposizione dei motivi assorbiti, sosteneva che anche il dispositivo offerto dalla ricorrente era privo del trattamento automatico delle tachiaritmie atriali.
Tuttavia, la Commissione, composta da comprovati esperti (clinici e ingegneri biomedici), riteneva - sulla base di valutazioni che non apparivano affette da manifesta erroneità o vizi logici - che tale algoritmo consentiva in maniera automatica di contrastare il ritmo prefibrillatorio e che in sostanza, avendo il contrasto del ritmo prefibrillatorio anche una valenza terapeutica, questo era da annoverare nella categoria dell’algoritmo di trattamento. Il Collegio si determinava per l’accoglimento dell’appello ribaltando quanto sostenuto in primo grado.
5. Conclusioni
La sentenza in commento è utile al fine di valutare quelle che sono le possibili problematiche legate alle nuove terminologie tecnologiche presenti nella materia amministrativa.
La pronuncia offre notevoli spunti interpretativi della lex specialis connessi alla problematica definizione di algoritmo, non ancora permeata placidamente nel classico apparato amministrativo e, in parte, ancora decontestualizzata e capace di creare dei dubbi interpretativi. È sufficiente soffermarsi sul fatto che, erroneamente, il Tar aveva ritenuto che l’automazione non fosse tanto un concetto da ricollegarsi agli algoritmi, bensì all’intelligenza artificiale[15]. Si è precisato, invece, che per automatizzare è sufficiente costruire una relazione logica tra input e output, che non necessita alcuna attività di machine learning[16]. Gli spunti riflessivi restano molteplici, una mera interpretazione della definizione di “algoritmo” risulta, ad oggi, in grado da fungere da spartiacque tra l’accoglimento o il rigetto del ricorso giurisdizionale, oltre che a modificare l’esito dell’aggiudicazione stessa. Ciononostante la definizione di algoritmo[17]è ancora lontana da una sua completa statuizione definitiva, tuttavia l’interpretazione dei bandi di gara, non può prescindere da un approccio sistemico, lontano da una mera e asettica interpretazione letterale, il tutto al fine di agevolare le stazioni appaltanti nella ricerca dei beni sul mercato, che mai dovrebbero scontrarsi con delle frizioni di carattere interpretativo, capaci di creare contraddizioni, inefficienza e, a cascata, contezioso.
[1] Per approfondire, D.U. Galetta e J. G. Corvalán, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto in Federalismi. n.3/2019, federalismi.it; M. C. Cavallaro e G. Smorto, Decisione pubblica e responsabilità dell’amministrazione nella società dell’algoritmo in Federalismi. n.16/2019 4 Settembre 2019; G. Iozzia, L’Intelligenza artificiale deve essere “spiegabile”, ecco i progetti e le tecniche in Agendadigitale.eu, 25 Novembre 2019; R. Pardolesi e A. Davola, Algorithmic legal decision making: la fine del mondo (del diritto) o il paese delle meraviglie? in Questione Giustizia n.1/2020; A. Longo e G. Scorza, Intelligenza Artificiale, L’impatto sulle nostre vite, diritti e libertà in Mondadori Università, 2020; E. Errichiello, Algoritmi nella PA: accesso al software e diritti del produttore, i paletti del Consiglio di Stato in Agendadigitale.eu, 5 Febbraio 2020; B. Raganelli, Decisioni pubbliche e algoritmi: modelli alternativi di dialogo tra forme di intelligenza diverse nell’assunzione di decisioni amministrative in federalismi.it, 22 Luglio 2020; D. Coyle, The tensions between explainable AI and good public policy, Brookings Institution Press. September 15, 2020, R. Rolli e M. D’Ambrosio, Consenso e accountability: i poli del commercio dei dati personali online, P.A. Persona e Amministrazione, 2022.
[2] In tema di algoritmo il Consiglio di Stato si è più volte pronunciato, cfr. Cons. di Stato n. 881/2020, n. 2270/2019, n. 30/2020, n. 8472/2019.
[3] Ne parlava già G. Sartor, Le applicazioni giuridiche dell’intelligenza artificiale. La rappresentazione della conoscenza, Bologna 1990, P.L.M Lucatuorto, Intelligenza artificiale e diritto: le applicazioni giuridiche dei sistemi esperti, in Cyberspazio e diritto, 2006.
[4] Nello specifico, la lex gara prevedeva tra i criteri di valutazione dell’offerta tecnica, il parametro tabellare “Algoritmo di prevenzione+trattamento delle tachiaritmie atriali” al quale assegnare 15 punti per l’ipotesi di presenza di entrambi gli algoritmi e 7 punti nel caso di “presenza del solo algoritmo di prevenzione o del solo trattamento delle tachiaritmie atriali”.
[5] Si legge nella sentenza in commento che “La commissione come algoritmo di trattamento automatico per Microport ha considerato l’accelerazione su PAC frequenti che consente in maniera automatica di contrastare il ritmo prefibrillatorio costituito dal riconoscimento di frequenti ectopie atriale e trattato mediante riduzione/omogeneizzazione dei periodi refrattari atriali. L’algoritmo denominato NIPS (Noninvasive program stimulation) e presente nel prodotto offerto da Abbott costituisce invece uno studio elettrofisiologico eseguito in office da un operatore specialistico”.
[6] Il Tar adito sanciva che “la legge di gara richiede unicamente la presenza di un algoritmo di trattamento (senza altro specificare)” e “con esso ci si richiama, semplicemente, a una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato (come risolvere un problema oppure eseguire un calcolo e, nel caso di specie, trattare un’aritmia)”.
[7] Specialmente nei dispositivi di c.d. alta fascia oggetto della gara de qua.
[8] Il Machine Learning (ML) è un sottoinsieme dell'intelligenza artificiale (AI) che si occupa di creare sistemi che apprendono o migliorano le performance in base ai dati che utilizzano. Intelligenza artificiale è un termine generico e si riferisce a sistemi o macchine che imitano l'intelligenza umana. I termini machine learning e AI vengono spesso utilizzati insieme e in modo interscambiabile, ma non hanno lo stesso significato. Un'importante distinzione è che sebbene tutto ciò che riguarda il machine learning rientra nell'intelligenza artificiale, l'intelligenza artificiale non include solo il machine learning. Attualmente, il machine learning è utilizzato ovunque. Quando interagiamo con le banche, acquistiamo online o utilizziamo i social media, vengono utilizzati gli algoritmi di machine learning per rendere la nostra esperienza efficiente, facile e sicura. Il Machine Learning e la tecnologia associata si stanno sviluppando rapidamente e noi abbiamo appena iniziato a scoprire le loro funzionalità, in oracle.com
[9] Atteso che l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli articoli 1362 e seguenti del codice civile, non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti. A tale fine, l'estrapolazione del singolo brano della motivazione del provvedimento che si intenda censurare deve associarsi a una puntuale evidenziazione del vizio, dissolvendosi altrimenti la deduzione critica in un'astratta enunciazione di principio, in Guida al diritto 2022, 49.
[10] Così, tra le tante, Cons. Stato, V, 13 gennaio 2014 n. 72.
[11] Cfr. Cons. Stato, V, 15 luglio 2013, n. 3811 e Cons. Stato, V, 12 settembre 2017, n. 4307.
[12] Sul punto, Focus sentenze G.A. su decisioni algoritmiche – Cosa si intende per algoritmo? Serve buonsenso!
13 Settembre 2022, in irpa.eu.
[13] V. MANCUSO, Intelligenza delle macchine e libertà dell’uomo, Relazione al convegno “Uomini e macchine”, Roma, 30 gennaio 2018, in cui l’Autore conclude: «Sono stato invitato a parlare di “Intelligenza delle macchine e libertà dell’uomo” e io concludo con l’auspicio che le macchine non ci tolgano il caos. È dal caos, infatti, come insegnano tutte le antiche cosmogonie, che prende forma la natura, anche la natura umana, la quale, tra tutte le manifestazioni naturali, è la più caotica, e per questo la più libera».
[14] Il nodo da sciogliere era quello relativo alla qualificazione di tale funzione come algoritmo di trattamento delle tachiaritmie atriali e, dall’esame degli atti di causa, emerge che il NIPS è una funzione che deve qualificarsi come test elettrofisiologico: in sostanza il test NIPS è attivato solo presso ambulatori cardiologici attraverso un programmatore esterno, che viene utilizzato dall’operatore clinico per assumere temporaneamente il controllo del pacemaker e per impartire, sulla base della valutazione in tempo reale del ritmo cardiaco, una sequenza di stimoli da erogare a scopo terapeutico (che possono essere interrotti e/o modificati ad ogni evento avverso), mentre le normali funzioni di sensing e di risposta automatica del pacemaker sono provvisoriamente inibite. Il test NIPS per converso non consente di correggere automaticamente le aritmie al momento dell’insorgere della disfunzione.
In tal senso depone anche l’estratto dell’“elenco sistematico delle procedure diagnostiche e terapeutiche del Ministero della Salute”, dove la stimolazione elettrica non invasiva programmata NIPS è classificata nell’ambito delle procedure ospedaliere/ambulatoriali e in particolare all’interno della categoria “procedure diagnostiche sul cuore e sul pericardio” ; così come la letteratura di settore (cfr. Tabella riassuntiva 3 del contributo pubblicato su EuroPace 2009, vol. 11, pagg. 1272-1280 “Novel pacing algorithms: do they represent a beneficial proposition for patients, physicians, and the health care system?” Simantirakis E. N., Arkolaki E. G.) che non ricomprende la funzione NIPS negli elenchi di riferimento degli algoritmi incorporati nei pacemakers per la gestione del ritmo cardiaco in continuo e in automatico.
A nulla vale osservare che anche il test NIPS funziona sulla base di un algoritmo interno. Il Collegio non lo mette in dubbio e tuttavia confida di aver chiarito che siffatto algoritmo, che sovrintende al test diagnostico, non interviene in funzione di automazione delle funzioni di prevenzione e trattamento delle tachiaritmie atriali come richiesto dall’amministrazione, e dunque correttamente l’amministrazione non lo ha considerato ai fini del punteggio.
[15] Affermava infatti che “il dato testuale della lettera di invito non richiede che l’algoritmo di trattamento, al verificarsi dell’episodio aritmico, sia avviato dal dispositivo medesimo in automatico. Tale caratteristica attiene a una componente ulteriore, non indicata nella legge di gara, vale a dire a un algoritmo di intelligenza artificiale nella diagnosi dell’aritmia e avvio del trattamento”.
[16] Il Consiglio di Stato evidenziava come “Cosa diversa è l’intelligenza artificiale. In questo caso l’algoritmo contempla meccanismi di machine learning e crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole software e i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo “tradizionale”) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico”.
[17] Cfr. La nozione di algoritmo “tecnologico” secondo una recente decisione del Consiglio di Stato, 13 Gennaio 2022, in irpa.eu.
Le nuove norme processuali in materia di persone, minorenni e famiglia (d.lgs. n. 149/2022): prime letture sintetiche
di Giuseppe Buffone
Giustizia Insieme propone ai suoi lettori una serie di contributi relativi alla riforma della procedura civile, per conoscere, approfondire e discutere. L’articolo presentato riguarda la riforma dei procedimenti in materia di persone, minori e famiglia.
I precedenti articoli:
1. La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.)
2. La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura
3. La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs n. 149/2022
4. La riforma dell’esecuzione forzata: le novità del D. Lgs n. 149/2022
5. Le nuove disposizioni in materia di processo del lavoro
Sommario: 1. Regime transitorio – 2. Criterio generale di interpretazione – 3. Ambito di applicazione – 3.1. Regime della connessione - 4. Le disposizioni generali - 4.1. Poteri del giudice – 4.2. Ascolto del minore – 4.3. Curatela speciale – 5. Procedimento di separazione e divorzio – 5.1. Competenza territoriale - 5.2. Il processo - 5.3. Contemporanea proposizione delle domande di separazione e divorzio – 5.4. Provvedimenti provvisori – 5.5. Procedimento su domanda congiunta - 6. Il processo minorile a gestione condivisa.
1. Regime transitorio
Il decreto legislativo 10 ottobre 2022 n 149 (cd. Riforma Cartabia)[1] ha introdotto nuove norme di procedura dedicate ai procedimenti che riguardano la persona e la famiglia: le nuove disposizioni sono contenute nel libro II, (nuovo) titolo VI-bis del codice di procedura civile («Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie», cd. procedimento PMF), in particolare negli articoli 473-bis e ss c.p.c.
Queste disposizioni si applicano ai procedimenti instaurati successivamente al 28 febbraio 2023. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti (art. 35 del decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149, come modificato dall’art. 1, comma 380, della legge 29 dicembre 2022 n. 197, ossia legge di Bilancio 2023[2]). Il regime transitorio è stato modificato anche dal cd. decreto milleproroghe (decreto-legge 29 dicembre 2022 n. 198[3]) che, per quanto qui interessa, ha effetto soprattutto per il regime dell’udienza di giuramento del consulente tecnico d’ufficio. La legge di Bilancio 2023, modificando l’art. 35 del dlgs 149/2022, ha incluso anche la modifica dell’art. 193 c.p.c. tra le norme di applicazione anticipata alla data del 1° gennaio 2023. Il decreto milleproroghe, tuttavia, all’art. 8 (proroghe di giustizia) ha previsto che l’art. 221, comma 8, decreto-legge 19 maggio 2020 n. 34 continua ad applicarsi alle udienze da svolgere fino al 30 giugno 2023, anche in deroga alle disposizioni di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149. Ebbene, il nuovo art. 193 c.p.c. – come riscritto dalla Riforma Cartabia - prevede, al comma secondo, che “in luogo della fissazione dell'udienza di comparizione per il giuramento del consulente tecnico d'ufficio il giudice può assegnare un termine per il deposito di una dichiarazione sottoscritta dal consulente con firma digitale, recante il giuramento previsto dal primo comma”. La disposizione richiamata dal decreto milleproroghe statuisce, invece, che “in luogo dell'udienza fissata per il giuramento del consulente tecnico d'ufficio ai sensi dell'articolo 193 del codice di procedura civile, il giudice può disporre che il consulente, prima di procedere all'inizio delle operazioni peritali, presti giuramento di bene e fedelmente adempiere alle funzioni affidate con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico”. Entrambi i regimi giuridici regolano l’udienza di giuramento del CTU dematerializzata: alla luce del coordinamento delle disposizioni di diritto transitorio, la regola prevista dalla decretazione d’urgenza (ed estesa nel tempo dal d.l. 198/2022) continua ad applicarsi fino alle udienze da svolgere fino al 30 giugno 2023; successivamente a quella data, sarà applicabile il nuovo art. 193 c.p.c. come riscritto dal dlgs 149/2022[4].
2. Criterio generale di interpretazione
Il decreto legislativo n. 149 del 2022 racchiude un corpus iuris di estrema complessità e, soprattutto, capillare quanto ai settori di intervento. Si porranno certamente diversi quesiti ermeneutici e, conseguentemente, elevato sarà il tasso di intervento degli interpreti. Ciò nondimeno, in questo caso, può essere utile segnalare che tutte le relazioni illustrative sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale[5] a dar conto delle ragioni di ogni scelta normativa adottata. E ciò è importante anche per ricordare un criterio generale di interpretazione che certamente può essere utilizzato in questa occasione: il principio del cd. “Legislatore consapevole”. “Il canone interpretativo del «Legislatore consapevole» presuppone un Parlamento attento al diritto giurisprudenziale e composto, almeno in parte, da tecnici; si tratta di un criterio che deve orientare l’interprete verso la scelta ermeneutica più vicina alla volontà espressa nella legge”[6]. Ebbene, tenuto conto di come sono stati organizzati i lavori dei tecnici in questo caso e della composizione delle Commissioni preposte alla stesura delle norme, dovrà prestarsi particolare attenzione alle modalità di interpretazione, presupponendo che ciò che è stato scritto (o non scritto) sia “consapevole”. Altrimenti detto: le nuove norme devono leggersi come frutto della consapevole conoscenza dello “stato dell’arte” del processo al momento dell’intervento legislativo e come risultato voluto[7].
3. Ambito di applicazione
Il nuovo procedimento PMF ha vocazione generale: le nuove disposizioni si applicano a tutti i procedimenti (contenziosi) relativi allo stato delle persone, ai minorenni e alle famiglie attribuiti alla competenza del tribunale ordinario, del giudice tutelare e del tribunale per i minorenni (art. 473-bis c.p.c.). Sussistono solo tre eccezioni: 1) non si applica il procedimento PMF se “la legge dispone diversamente”; 2) non si applica il procedimento PMF nei casi di esclusione previsti dall’art. 473-bis, primo comma, c.p.c. (procedimenti volti alla dichiarazione di adottabilità, procedimenti di adozione di minori di età, procedimenti attribuiti alla competenza delle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea); 3) restano fuori dall’ambito applicativo del nuovo rito unificato a cognizione piena tutti i procedimenti di giurisdizione volontaria, che continuano ad essere retti dalle forme processuali camerali (art. 473-ter c.p.c.). In questa ipotesi, il tribunale giudica in composizione collegiale, salvo che sia altrimenti disposto (art. 50-bis c.p.c.) e i decreti sono immediatamente esecutivi (art. 473-ter c.p.c.)[8].
L’adozione del termine “famiglie” mira a includere tutti modelli familiari, vuoi che si tratta di coppie unite in matrimonio, vuoi che si tratti di convivenze di fatto. Le nuove norme si applicano anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso: in tal caso, l’applicabilità è stata espressamente prevista nell’art. 1, comma 25[9] della legge 20 maggio 2016 n. 76 (“si applicano, in quanto compatibili (…) le disposizioni di cui al Titolo IV-bis del libro secondo del codice di procedura civile (…)”. Il nuovo procedimento assorbe anche le controversie tra genitori non legati da vincolo matrimoniale. Al riguardo, una precisazione è opportuna. Nel vigore del vecchio assetto ordinamentale, le liti tra genitori non uniti da matrimonio erano collocate nel procedimento camerale e fondate sulla base giuridica formata dal combinato disposto degli artt. 316, quarto comma, 337-bis c.c.[10] Nell’attuate procedimento PMF, l’art. 473-ter c.p.c. prevede che i provvedimenti di cui all’articolo 316 del codice civile “sono pronunciati in camera di consiglio”. Ma, adesso, il rinvio è al “nuovo articolo 316 c.c.”, come modificato dal dlgs n. 149/2022[11], che riconduce questo istituto esclusivamente alle liti “endofamiliari” ossia ai diverbi tra genitori uniti e, quindi, non in una fase di separazione (in linea con istituti simili, come quello di cui all’art. 145 c.c.[12]). Quanto a dire: nel caso in cui una coppia unita sia in disaccordo su questioni che riguardano i figli, opera il rito camerale e l’art. 316 c.c., ma se si tratta di disgregazione della famiglia (ossia: una separazione), allora si applica il procedimento PMF (perché si tratta di vero e proprio procedimento contenzioso). Nell’ambito del procedimento PMF vanno anche collocate le controversie in materie di alimenti, in quando non è espressamente prevista una esclusione (e, quindi, ricade in questa tipologia di procedimento anche la controversia alimentare tra conviventi, ai sensi dell’art. 1, comma 65, legge n. 76/2016).
Le nuove disposizioni di applicano, come detto, anche ai procedimenti relativi allo stato delle persone (“azioni di stato”), incluso il procedimento previsto dall’art. 250 c.c. che, a tal fine, è stato espressamente modificato per confluire nel nuovo rito unitario[13]. Queste azioni sono di competenza del tribunale ordinario (artt. 38 disp. att. c.c., 9 c.p.c.) anche quando la parte attrice sia un minore. Per effetto della inclusione dei procedimenti relativi allo stato delle persone in seno al rito unitario, per determinare la competenza territoriale si applica l’art. 473-bis.11 c.p.c.: “per tutti i procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che riguardano un minore, è competente il tribunale del luogo in cui il minore ha la residenza abituale” (secondo la logica del forum conveniens). Questa nuova regola modifica, di fatto, il pregresso “status quo” della giurisprudenza in virtù del quale nelle azioni di stato (anche ove coinvolti minori), la competenza è del luogo di residenza del convenuto[14]. Il nuovo grimaldello in seno al rito unitario apre, invece, la porta della competenza del foro di residenza del bambino anche ove questi sia coinvolto in una azione di stato (alla luce della formulazione generale: “tutti i procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che riguardano un minore”).
Così delineato l’ambito di applicazione, è importante, in punto di qualificazione giuridica, affermare che non si tratta di un rito speciale (non più). Il procedimento PMF è stato inserito, sistematicamente (e consapevolmente), all’interno del Libro II del c.p.c. (processo ordinario di cognizione). Questa scelta sottolinea anche dal punto di vista sistematico che si tratta a tutti gli effetti non già di un rito settoriale, quanto di un modello processuale generale[15]. Volendo essere più chiari: non si tratta più di un “procedimento speciale” di cui al Libro IV del c.p.c. (“Dei procedimenti speciali”) ma di un processo ordinario di cognizione, di cui al Libro II del c.p.c. (“Del processo di cognizione”); il termine “speciale”, anche quando usato anche dalla Dottrina[16], non va, dunque, frainteso perché significa rito ordinario con alcune caratteristiche di “specialità” nel regime giuridico che lo tratteggia.
Si tratta, dunque, del processo ordinario di cognizione con rimedi e tutele particolareggiate. Queste ultime sono contenute nel Capo III (Disposizioni speciali), costituito da sette sezioni. Si è andato incontro, quindi, a esigenze di tutela particolareggiata, caso per caso.
3.1. Regime della connessione
Fatta questa premessa, può rilevarsi, forse, una omissione in seno al nuovo articolo 40 c.p.c. (in materia di connessione). La riforma, infatti, si è preoccupata di introdurre al terzo comma dell’articolo 40 c.p.c. la disciplina che dispone la prevalenza del rito semplificato di cognizione nei casi in cui si determina connessione (ai sensi degli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.) tra una causa sottoposta a tale rito e una causa invece da trattarsi con rito speciale diverso da quelli di cui agli articoli 409 e 422 c.p.c. Non ha, invece, nulla previsto per il caso del procedimento PMF. In presenza di questa possibile lacuna non dovrebbe propendersi, come soluzione, per la prevalenza del procedimento di cognizione ordinario generale ma, adottando una interpretazione funzionale, dovrebbe applicarsi quello “particolareggiato” degli artt. 473-bis e ss c.p.c. Altre conseguenze si registrano in tema di cumulo processuale. Ebbene, fermo restando che tra le domande deve sussistere un vincolo di connessione (che, ad esempio, è in genere escluso con la domanda di divisione del patrimonio: v. Cass. civ. n. 6424/2017), dovrebbe propendersi, a questo punto, per la possibilità della trattazione congiunta delle azioni tipiche del procedimento PMF e le azioni di risarcimento del danno endofamiliare. Rispetto a tale aspetto, un approfondimento può essere utile. L’art. 1, comma 24, lett. c) della legge n. 209 del 2021, ha richiesto al Legislatore di istituire il futuro Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, attribuendogli anche la competenza sui “procedimenti aventi ad oggetto il risarcimento del danno endo-familiare” (che sarà assegnato alle sezioni circondariali). Questa materia non è oggetto della delega attuata nel dlgs n. 149/2022. Ciò nondimeno, alla luce del nuovo procedimento PMF può legittimamente predicarsi la possibilità del cumulo tra le azioni di separazione e divorzio e la domanda di risarcimento del danno endofamiliare (che, peraltro, è in genere “accessoria”). Valga, comunque, considerare che già nel vigore del “rito speciale” di separazione/divorzio la Corte di Cassazione ha dimostrato favore per il regime del cumulo in caso di domande risarcitorie fondate su cd. illeciti endo-familiari[17]: ad esempio, là dove ha affermato, di recente, che “è consentita, nel procedimento camerale finalizzato all'adozione delle misure di cui all'art. 709-ter c.p.c., la proposizione della domanda risarcitoria da illecito endofamiliare per gli atti pregiudizievoli commessi dall'altro genitore ai danni del minore, non essendovi motivo per imporre al genitore, che intenda svolgere siffatta domanda nell'interesse del figlio minore, la necessità di proporre un'autonoma azione da illecito aquiliano; l'art. 709-ter c.p.c. è, infatti, norma processuale che, in via eccezionale, consente al giudice di trattare una domanda ordinaria con rito speciale, per preminenti ragioni di celerità del mezzo di tutela, ed il provvedimento terminativo del giudizio riveste il carattere della decisorietà, con conseguente idoneità al giudicato” (Cass. Civ. n. 27147 del 2021). Depone a favore della inclusione delle azioni di risarcimento del danno endofamiliare nell’ambito del procedimento PMF, in caso di cumulo processuale, il nuovo art. 473-bis.39 c.p.c. che, al secondo comma, conferma la previgente previsione dell’art. 709-ter (“Nei casi di cui al primo comma, il giudice può inoltre condannare il genitore inadempiente al risarcimento dei danni a favore dell'altro genitore o, anche d'ufficio, del minore”) ma stavolta nell’ambito delle disposizioni comuni di tutto il procedimento e non, quindi, nel contesto di una intercapedine di rito speciale.
In presenza di “connessione” il rito è ormai la sede in cui proporre tutte le domande. Ad esempio, nel rito del divorzio, possono essere anche decise, in regime di cumulo processuale, la domanda di mantenimento del cognome del maritoo di liquidazione della quota di trattamento di fine rapporto, etc.[18]
A scanso di equivoci è bene evidenziare che, nonostante l’introduzione del rito unitario in materia di famiglia, resta – sino a quando non entrerà in vigore la riforma del tribunale delle persone, dei minori e delle famiglie - la ripartizione delle competenze tra il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni, seppur ai sensi del novellato art. 38 disp. att. c.c.[19]
4. Le disposizioni generali
Il dlgs 149/2022 introduce delle norme “generali” per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie: si tratta degli articoli 473-bis – 473-bis.10, racchiusi nel Capo I. Queste disposizioni regolano, con carattere generale, tutti i procedimenti che ricadono nell’ambito di applicazione del procedimento PMF. L’art. 473-bis.1 individua la composizione dell’organo giudicante con una scelta che punta ad accelerare la governance dei procedimenti a decisione collegiale ammettendo che la trattazione e l'istruzione possano essere delegate a uno dei componenti del collegio (si passa, dunque, a un modello a istruzione monocratica e decisione collegiale). In virtù della disposizione in esame, il giudice relatore potrà, ad esempio: nominare il curatore speciale del minore (oppure il tutore provvisorio nei casi previsti); esercitare i poteri d’ufficio riconosciuti nel caso in cui debbano essere adottati provvedimenti in materia di minori; condurre l’ascolto del bambino; adottare i provvedimenti indifferibili; tenere l’udienza di comparizione personale delle parti, all’esito della quale adottare i provvedimenti provvisori; ammettere istanze istruttorie, CTU, delegare indagini ai Servizi socio assistenziali; tenere le ulteriori udienze istruttorie necessarie per giungere alla decisione; modificare i provvedimenti provvisori ricorrendone i presupposti[20]. Resta, invece, confermata – in mancanza di disposizione di deroga in tal senso – la riserva di collegialità per l’eventuale incidente di costituzionalità: infatti, nei giudizi in cui il tribunale decide in composizione collegiale, il giudice relatore/istruttore difetta di legittimazione (ex multis, Corte cost., n. 266 del 2014) che sussiste solo con riferimento a questioni concernenti disposizioni di legge che il giudice istruttore deve applicare per provvedimenti rientranti nella sua competenza, mentre non sussiste quando la norma impugnata assuma rilevanza per la risoluzione della causa (Corte cost. n. 552 del 2000).
Nell’ipotesi in cui il procedimento sia di competenza del tribunale per i minorenni, il regime presenta, invece, delle differenze poiché “nei procedimenti aventi ad oggetto la responsabilità genitoriale possono essere delegati ai giudici onorari specifici adempimenti ad eccezione dell'ascolto del minore, dell'assunzione delle testimonianze e degli altri atti riservati al giudice. La prima udienza, l'udienza di rimessione della causa in decisione e le udienze all'esito delle quali sono assunti provvedimenti temporanei sono tenute davanti al collegio o al giudice relatore” (art. 471-bis.1). Si istituisce, dunque, una sorta di “riserva” di giudice togato per gli snodi e gli atti di maggiore importanza per lo svolgimento del procedimento.
4.1. Poteri del giudice
Una novità importante è iscritta nell’art. 473-bis.2 dove si tipizza – e consolida con base giuridica ad hoc – un principio invalso nei procedimenti che coinvolgano minori: il potere officioso del giudice. La nuova disposizione si distingue per il dettaglio con cui identifica i casi in cui il giudice può adottare provvedimenti in assenza di domanda di parte oppure attivare iniziative per la raccolta della prova. Il dettaglio si traduce in “regole d’azione” che identificano l’esercizio “legale” di questi poteri. Innanzitutto, sono poteri esercitabili esclusivamente in favore del minore (che è parte sostanziale del processo: v. Cass. civ. n. 16410/2020[21]): la disposizione, infatti, premette che l’iniziativa del giudice deve essere adottata «a tutela dei minori». Sussistendo questo presupposto, il giudice può muoversi nel processo “in deroga all’art. 112 c.p.c.” e, pertanto, adottare iniziative ex officio. La nuova norma, dunque, legittima una deroga sia al principio della domanda che al principio dispositivo.
L’articolo include misure tipiche e misure atipiche (ossia a contenuto non predeterminato). Il giudice può: 1) nominare il curatore speciale (nei casi di cui all’art. 473-bis.7 c.p.c.); 2) disporre mezzi di prova al di fuori dei limiti di ammissibilità previsti dal codice civile (con riferimento pertanto, in primis, alle limitazioni di cui agli articoli 2721 e ss c.c.).; 3) con riferimento alle domande di contributo economico, ordinare l'integrazione della documentazione depositata dalle parti e disporre ordini di esibizione e indagini sui redditi, sui patrimoni e sull'effettivo tenore di vita, anche nei confronti di terzi, valendosi se del caso della polizia tributaria; 4) «adottare i provvedimenti opportuni in deroga all'articolo 112 c.p.c.». Si è detto che deve trattarsi di un esercizio “legale” e, dunque, rispettoso delle condizioni che l’art. 473-bis.2 prevede: queste sono, essenzialmente, il rispetto del contraddittorio e del diritto alla prova contraria. Al cospetto di una iniziativa officiosa, il giudice dovrà, dunque, necessariamente garantire la partecipazione delle parti, nella misura ritenuta adeguata e applicando, in primo luogo, l’art. 101 c.p.c. Tenuto conto della natura della misura, il contraddittorio potrà essere garantito ex ante oppure ex post.
L’art. 473-bis.3 c.p.c. regola, invece, i poteri del pubblico ministero che, nell'esercizio dell'azione civile e al fine di adottare le relative determinazioni, può assumere informazioni, acquisire atti e svolgere accertamenti, anche avvalendosi della polizia giudiziaria e dei servizi sociali, sanitari e assistenziali.
4.2. Ascolto del minore
Gli articoli 473-bis.4 e 473-bis.5 c.p.c. disciplinano l’istituto dell’ascolto del minore ereditando il portato della giurisprudenza di legittimità che ha, di fatto, compilato un codice dell’audizione dei bambini a uso forense. Va premesso che il “Diritto del minore di esprimere la propria opinione” è ormai oggetto di armonizzazione europea (art. 21, Reg. UE n. 1111 del 2019[22]) e rappresenta l’istituto “cardine” dei procedimenti minorili. Le regole giuridiche consolidatesi nell’ordinamento italiano si snodano affermando che: 1) l’audizione del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento obbligatorio (Cass. civ. n. 16410/2020); 2) l’adempimento è svolto a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, in relazione al quale incombe sul giudice che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione (Cass. civ. n. 1474/2021); 3) in caso di omessa audizione del minore, il procedimento è viziato da nullità (Cass. civ. n. 23804/2021). L’ascolto deve essere disposto rebus sic stantibus ossia “per ogni procedimento” che coinvolga il bambino (essendo pertanto irrilevante che il minore sia stato sentito in altri precedenti procedimenti: v. Cass. civ. n. 9691/2022). Ebbene, questa architettura di regole e principi trova, oggi, specifica collocazione negli articoli citati che, in particolare, determinano i casi dell’ascolto (473-bis.4) e le sue modalità (473-bis.5). La disciplina presenta, invero, differenze sostanziali rispetto alla precedente, in senso migliorativo. In primo luogo, i casi di esclusione motivata dell’audizione sono, ora, ben tipizzati nel secondo comma dell’art. 473-bis c.p.c.: 1) l’ascolto è contrasto con l'interesse del minore; 2) l’ascolto è manifestamente superfluo; 3) sussiste una ipotesi di impossibilità fisica o psichica del minore; 4) il minore manifesta la volontà di non essere ascoltato. L’esclusione dell’ascolto in caso di “rifiuto” del bambino costituisce l’adesione all’orientamento che era stato espresso sul punto dalla giurisprudenza di merito. Si era affermato, infatti, che “l’audizione del minore deve essere esclusa dove il fanciullo, prossimo a divenire maggiorenne (cd. grand enfants) comunichi, anche tramite i suoi rappresentanti (i genitori) il proprio rifiuto all’ascolto. Accertato che il rifiuto è pacifico (dovendosi altrimenti accertarne la veridicità), è contrario all’interesse del fanciullo ricercare ostinatamente di assumere la sua opinione: come tutti i diritti, ferma la titolarità, il concreto esercizio passa anche per un atto di volontà del fanciullo. Peraltro, non rispettare il rifiuto del minore rappresenterebbe un’aporia logica prima che giuridica: si dispone l’audizione per ascoltare il minore, ma non lo si ascolta nella dichiarazione più importante (cioè che non vuole essere ascoltato)” (Trib. Milano, sez. IX civ., 21 febbraio 2014)[23].
L’art. 473-bis.4, terzo comma, introduce, poi, una disposizione ad hoc per le ipotesi di accordo dei genitori: in questi casi, “il giudice procede all’ascolto soltanto se necessario”. Questa norma mira a tutelare l’interesse del minore a non essere ulteriormente esposto a possibili pregiudizi derivanti dal rinnovato coinvolgimento emotivo nelle questioni relative alla rottura del nucleo familiare, qualora il giudice prenda atto dell’accordo tra i genitori e ritenga non indispensabile procedere all’ascolto. Tale disposizione abroga quanto previsto dall’articolo 337-octies del codice civile, secondo cui nei procedimenti in cui si omologa o si prende atto di un accordo dei genitori, relativo all’affidamento dei figli, il giudice deve sempre procedere all’ascolto, salvo che ciò appaio in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo” (Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 in Gazz. Uff. 19.10.2022, serie gen. n. 245, suppl. ord. n. 5).
La disposizione che completa il regime è quella di cui all’art. 475-bis.5 c.p.c. che si occupa delle modalità dell’ascolto. La funzione di questa norma riposa nella “doppia” anima dell’ascolto del bambino: è istituto a protezione del minore in quanto parte del procedimento ma è anche un incombente del processo che deve collocarsi “all’interno della procedura” nel senso di garantire il contraddittorio delle parti. La partecipazione dei genitori (e dei difensori) all’ascolto in quanto “incombente processuale” è realizzata in diversi modi: 1) le parti possono proporre argomenti e temi di approfondimento per l’audizione; 2) le parti, su autorizzazione del giudice, possono partecipare all'ascolto; 3) dell'ascolto del minore è effettuata registrazione audiovisiva. Se per motivi tecnici non è possibile procedere alla registrazione, il processo verbale descrive dettagliatamente il contegno del minore. A corredo della disciplina, sempre in tema di modalità dell’ascolto, la Riforma conferma la precedente disciplina prevedendo che “quando la salvaguardia del minore è assicurata con idonei mezzi tecnici, quali l'uso di un vetro specchio unitamente ad impianto citofonico, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato, ed il pubblico ministero possono seguire l'ascolto del minore, in luogo diverso da quello in cui egli si trova, senza chiedere l'autorizzazione del giudice prevista dall'articolo 473-bis.5, terzo comma, del codice” (art. 152-quater disp. att. c.p.c.). Aggiunge, però, una nuova disposizioni di particolare importanza, nell’art. 152-quinquies disp. att. c.p.c. (Registrazione audiovisiva dell’ascolto): “con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia sono stabilite le regole tecniche per la registrazione audiovisiva, la sua conservazione e il suo inserimento nel fascicolo informatico”. Questa norma di collega all’ultimo comma dell’art. 473-bis.5 c.p.c. («Dell'ascolto del minore è effettuata registrazione audiovisiva. Se per motivi tecnici non è possibile procedere alla registrazione, il processo verbale descrive dettagliatamente il contegno del minore»). Ciò vuol dire che l’obbligo della videoregistrazione entrerà in vigore una volta che il Ministero della Giustizia abbia adottato un decreto ministeriale che doti gli uffici degli strumenti tecnologici necessari alla videoregistrazione, da redigere a cura dello stesso organo ministeriale. In assenza, tuttavia, il giudice può comunque, sulla base anche delle prassi sino ad ora seguite, valutare la videoregistrazione a tutela del minore e a beneficio del contraddittorio.
Le nuove norme predicano l’ascolto diretto del minore che, dunque, deve essere condotto dal giudice.[24] La relazione illustrativa precisa che «il legislatore ha qui escluso espressamente la delega, da parte del giudice, dell’ascolto del minore, stante la delicatezza dei temi sui quali il minore è chiamato ad esprimersi»[25]. Questa esclusione, tuttavia, non può interpretarsi in senso assoluto, ossia insuperabile, proprio alla luce della cornice internazionale ed europea entro cui si colloca il diritto del minore a esprimere la propria opinione. Occorre sempre tener presente che nelle cause in cui coinvolto un bambino è il processo che deve “adattarsi” al minore e non il contrario: si parla, infatti, di «accomodamenti procedurali». Tant’è che, come visto, l’interesse superiore del minore infrange anche il dogma del principio della domanda. Ciò vuol dire che, eccezionalmente, il giudice, nell’interesse superiore e preminente del minore, potrebbe valutare assolutamente necessaria una audizione “delegata” e indiretta, ad esempio a mezzo di esperto in sede di consulenza tecnica d’ufficio. Che le eccezioni siano possibili lo conferma, ad esempio, il fatto che la normativa prevede espressamente anche l’ipotesi dell’audizione condotta dal curatore speciale. Valga considerare che, per le Linee guida del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore dovrebbe essere finanche data al minore la possibilità di scelta circa le modalità di audizione perché «è possibile che alcuni minori preferiscano essere ascoltati da uno “specialista” che poi trasmette il loro punto di vista al giudice»[26]. Ipotesi concrete possono essere quelle di rischio per il benessere psico-fisico del bambino: in questi casi, è stata la stessa Corte EDU ad imporre di adottare tutte le misure necessarie per proteggere i bambini[27].
Pertanto: la regola generale è che l’audizione debba essere diretta (quindi, condotta dal giudice); eccezionalmente, tuttavia, per ragioni primarie di tutela del bambino, l’ascolto può essere realizzato con modalità diverse.
Nei procedimenti transfrontalieri, invece, il modello di audizione “privilegiato” è quello tramite modalità videoconferenza (e, quindi, tramite collegamenti audiovisivi). È una scelta di buon senso: evita che il bambino debba essere trasportato da uno Stato all’altro e garantisce che il giudice possa procedere all’ascolto rapidamente. In questa direzione si pone il Considerando n. 53 del Regolamento Bruxelles 2-ter[28] (“l’autorità giurisdizionale può valutare la possibilità di tenere un’audizione in videoconferenza o con altre tecnologie di comunicazione”), da leggere in combinato disposto con il Considerando n. 21 del Regolamento UE 2020/1783 (sull’assunzione delle prove nei procedimenti transfrontalieri[29]). A completamento della disciplina, de jure condendo, si deve poi tener conto della proposta di “Regolamento sulla digitalizzazione della cooperazione giudiziaria e dell'accesso alla giustizia in materia civile, commerciale e penale a livello transfrontaliero e che modifica taluni atti nel settore della cooperazione giudiziaria” (del 1° dicembre 2021) che, nel testo oggetto di orientamento generale approvato dal Consiglio UE[30], prevede una integrazione del regime giuridico UE mettendo a disposizione dei giudici due strumenti complementari: questa proposta, per l’ascolto del bambino nei procedimenti di famiglia; il Reg. 2020/1783, per l’ascolto del minore se escusso come testimone[31].
4.3. Curatela speciale
Il procedimento PMF si arricchisce di altre interessanti disposizioni di carattere generale: A) art. 473-bis.6 che regola la reazione del processo al caso in cui emerga il rifiuto del minore a incontrare il genitore o siano allegate o segnalate condotte di un genitore tali da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo tra il minore e l’altro genitore o la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale (il giudice procede all'ascolto senza ritardo, assume sommarie informazioni sulle cause del rifiuto e può disporre l'abbreviazione dei termini processuali); B) articoli 473-bis.7 – 473-bis. 8 che racchiudono le norme in tema di curatore del minore (a cui possono essere attribuiti anche specifici poteri di rappresentanza sostanziale, quali ad esempio la decisione sulla iscrizione scolastica, sulle cure mediche, su trattamenti sanitari etc.); C) art. 473-bis.9 che riproduce la disciplina previgente in tema di disposizioni in favore dei figli maggiorenni portatori di handicap grave; D) l’art. 473-bis.10 in materia di mediazione familiare (per cui la Riforma introduce una autonoma disciplina organica inserita nel capo II-bis, titolo II delle disp. att. c.p.c.).
La nuova normativa sulla curatela speciale fa tesoro del diritto vivente e dell’elaborazione dogmatica della dottrina[32] pure introducendo una norma inedita (art. 473-bis.8 ultimo comma c.p.c.) che colma lacuna della disciplina in punto di revoca del curatore introducendo un procedimento di competenza del presidente del tribunale o del giudice che procede e l’attribuzione della legittimazione attiva per la proposizione dell’istanza ai genitori esercenti la responsabilità genitoriale, al tutore, al pubblico ministero o al minore medesimo[33].
Alla luce della nuova disposizione inserita, il Legislatore modula due diverse ipotesi di curatela speciale: processuale (art. 473-bis.8 primo e secondo comma) e sostanziale (art. 473-bis.8 terzo comma). Il curatore speciale del minore, nei primi due commi dell’articolo 473-bis.8 c.p.c. è figura processuale ossia soggetto (nella maggior parte dei casi individuato tra avvocati altamente specializzati) chiamato a rappresentare il minore nei casi di conflitto di interessi con i genitori (specificamente indicati nella norma, per esempio nei casi di procedimenti di decadenza, di procedimenti ex articolo 403 c.c., di affidamento etero familiare del minore etc.) oppure nei casi in cui vi sia espressa richiesta del minore che abbia compiuto i quattordici anni di età. Al contrario, il curatore speciale del minore nel terzo comma dell’art. 473-bis.8 ha natura sostanziale: agisce “fuori” dal processo e per situazioni specifiche su mandato del giudice. In tutti i casi, il curatore speciale del minore esaurisce i suoi compiti (anche laddove gli siano stati assegnati specifici poteri sostanziali) con la definizione del procedimento nel cui ambito è avvenuta la nomina.
Importante – e già presente nella disciplina previgente – è il potere in capo al giudice (anche relatore nel corso dell’istruzione e della trattazione) di attribuire al curatore specifici poteri di rappresentanza sostanziale. Al riguardo, è bene precisare che la disposizione non delinea una fisiologia tipica nell’esito della curatela in questo caso: quanto a dire che è, poi, il giudice a definire le modalità di adozione del provvedimento finale. Alla luce delle prassi giurisprudenziali, infatti, sono diffuse almeno due metodologie (entrambe da ritener compatibili con il nuovo art. 473-bis.8). In un primo caso, il giudice non attribuisce al curatore un effettivo potere di rappresentanza sostanziale, bensì il compito di da far confluire una posizione scritta nell’interesse del minore (relazione): a seguito della posizione rappresentata nell’interesse del minore, è il giudice ad adottare l’atto necessario (ad esempio, attribuendo a uno dei due genitori – quello che era favorevole a tale atto – il potere di procedere da solo; oppure emettendo misura ad hoc rivolta ai terzi interessati, come ente locale, sanitario o scuola). In questo caso, quindi, l’atto conclusivo resta giudiziale. Valga un esempio. Un padre vuole iscrivere il figlio in una scuola pubblica la ma madre non è d’accordo. All’esito dello svolgimento dei compiti, il curatore conclude nel senso che, nel migliore interesse del bambino, va preferita l’iscrizione nella scuola [34]pubblica. A questo punto, il giudice autorizza il padre a iscrivere il figlio alla scuola pubblica (superando, così, la necessità del consenso del genitore dissenziente). Altra ipotesi è, invece, quella della rappresentanza strettamente sostanziale, perché di natura sostitutiva: è il curatore che, direttamente, pone in essere l’atto necessario nell’interesse del bambino (ad es., sottoscrivendo il modulo di iscrizione a scuola). La nuova norma non esplicita in che misura venga liquidato il compenso del curatore e ciò perché questa figura può essere ricondotta all’alveo degli ausiliari del giudice nominati ai sensi dell’articolo 68 c.p.c. Ne consegue che la liquidazione è fatta con decreto dal giudice che lo ha designato (art. 52 disp. att. c.p.c.) e posta a carico di chi è tenuta a sostenerla (art. 53 disp. att. c.p.c.). In linea di principio, è spesa che il giudice può liquidare e porre a carico di entrambi genitori o di quello che, all’esito dell’incombente, sia risultato “soccombente”. Ove il curatore speciale assuma le vesti del difensore del minore, potrà depositare in nome e per conto del medesimo, l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato (il curatore speciale del minore che rivesta anche la qualifica di avvocato può stare in giudizio senza il ministero di altro difensore ai sensi dell'art. 86 c.p.c., potendo cumulare le due qualifiche - che restano, comunque, distinte - e non avendo necessità del formale conferimento a sé stesso della procura alle liti).
Il curatore speciale del minore è soggetto su cui grava l’obbligo di ascolto del minore, nei limiti di cui all’art. 473-bis. c.p.c. Orbene, come noto, nella maggior parte dei casi il curatore speciale è un avvocato specializzato che, peraltro, concentra in sé la qualifica di curatore e di avvocato del minore. Il codice deontologico forense vieta agli avvocati di procedere all’ascolto di una persona di minore età senza il consenso dei genitori (art. 56) ma questa norma non opera in presenza di una designazione giudiziale che assegna la qualifica di curatore speciale. La disciplina applicabile non richiama, in questo caso, l’art. 473-bis.5 (modalità dell’ascolto): ciò non esclude che il giudice possa dare indicazioni e precisare la metodologia dell’ascolto ove lo ritenga opportuno o necessario.
Altra distinzione che risulta dal dato normativo è quello tra apertura della curatela facoltativa e vincolata. In alcuni casi, infatti, è il Legislatore che configura, ex ante, la necessità del curatore (art. 473-bis.8, primo comma); in altri casi, la scelta è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice (art. 473-bis.8, secondo comma[35]; art. 473-bi.7, secondo comma). In linea di principio, il Legislatore si muove nei binari che aveva già delineato la giurisprudenza di legittimità e costituzionale[36].
L’acquisita centralità del curatore non deve, però, sfociare nell’«abuso» di utilizzo di questa figura tenuto conto del fatto che esso rappresenta una significativa deroga alla regola generale della rappresentanza del figlio da parte dei genitori, diretta espressione della responsabilità genitoriale di cui sono titolari[37].
5. Procedimento di separazione e divorzio
In seno al nuovo titolo IV-bis (Libro II c.p.c.), la sezione VII disegna le disposizioni particolareggiate per i procedimenti di separazione, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento dell'unione civile e di regolamentazione dell'esercizio della responsabilità genitoriale, nonché di modifica delle relative condizioni (artt. 473-bis.47 – 473-bis.51 c.p.c.). La cornice regolatoria è costituita da queste disposizioni, in combinato disposto con quelle dei Capi precedenti (norme generali, del giudizio di primo grado, del grado di appello). Orbitano nello spettro del nuovo rito unitario, ovviamente, anche le controversie che hanno ad oggetto la nullità del matrimonio.
5.1. Competenza territoriale
Le regole di competenza territoriale prevedono un criterio prioritario se “devono essere adottati provvedimenti che riguardano un minore” (art. 473-bis.11[38]): in questa ipotesi è competente il tribunale del luogo in cui il minore ha la residenza abituale[39], a salvaguardia della sua continuità affettivo relazionale[40]. Il criterio generale della residenza del convenuto (art. 18 c.p.c.) è, dunque, secondario (si applica in mancanza di minori coinvolti nel processo[41]). La residenza abituale del bambino deve essere decisa di comune accordo dei genitori, rientrando tra le questioni di particolare importanza[42]. Per non frustrare lo spirito della norma e per disincentivare trasferimenti attuativi di forme di “forum shopping”, è previsto che, in caso di trasferimento non autorizzato della residenza del minore, permanga la competenza del tribunale del precedente luogo di residenza, qualora il ricorso sia depositato entro l’anno[43].
Ci si è chiesti se in caso di declaratoria di incompetenza territoriale il giudice possa pronunciare provvedimenti provvisori[44]. Nel riparto di competenze tra tribunale per i minorenni e tribunale ordinario, il Legislatore è espressamente intervenuto nell’art. 38 disp. att. c.c.: 1) i provvedimenti adottati dal tribunale per i minorenni conservano la loro efficacia fino a quando sono confermati, modificati o revocati con provvedimento emesso dal tribunale ordinario; 2) i provvedimenti adottati dal tribunale ordinario conservano la loro efficacia fino a quando sono confermati, modificati o revocati con provvedimento emesso dal tribunale per i minorenni. In questa ipotesi, però, la disciplina relativa alle misure interlocutorie si lega a doppio filo con il fatto che è in corso una translatio iudicii (il procedimento viene trasferito da un ufficio all’altro); ciò non accade per la competenza territoriale e, da qui, la mancanza di un regime analogo. Applicando in questa sede il principio del Legislatore consapevole dovrebbe propendersi per la esclusione dell’applicazione analogica del regime previsto dall’art. 38 disp. att. c.c. che, invero, regola una fattispecie processuale ben diversa (per quanto si è detto).
5.2. Il processo
Il procedimento regolato dal rito unitario si introduce con ricorso (secondo le regole generali: art. 473-bis.12 se promosso dalle parti; art. 473-bis.13 se promosso dal pubblico ministero) che deve essere redatto in modo chiaro e sintetico[45]; quale corollario, l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda si fonda deve rispondere ai criteri di chiarezza e sinteticità[46] (art. 473-bis.12, primo comma, lett. e).
Il ricorso deve contenere: 1) l’indicazione del giudice (“l’indicazione dell’ufficio giudiziario davanti al quale la domanda è proposta”), i riferimenti soggettivi della lite, le indicazioni relative ai minori o ai figli maggiorenni ma bisognosi di protezione (“il nome, il cognome, il luogo e la data di nascita, la cittadinanza, la residenza o il domicilio o la dimora e il codice fiscale dell’attore e del convenuto, nonché dei figli comuni delle parti se minorenni, maggiorenni economicamente non autosufficienti o portatori di handicap grave, e degli altri soggetti ai quali le domande o il procedimento si riferiscono”; “il nome, il cognome e il codice fiscale del procuratore, unitamente all’indicazione della procura”), gli ulteriori elementi identificativi dell’azione (“la determinazione dell’oggetto della domanda” e “la chiara e sintetica esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda si fonda, con le relative conclusioni”); 2) “l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi e dei documenti che offre in comunicazione”.
Quali caratteri [47]di specialità, in questo caso:
1) Il ricorso deve indicare l'esistenza di altri procedimenti aventi a oggetto, in tutto o in parte, le medesime domande o domande ad esse connesse (e deve essere allegata la copia di eventuali provvedimenti, anche provvisori, già adottati in tali procedimenti).
2) In ogni caso, al ricorso sono allegati:
a) le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni;
b) la documentazione attestante la titolarità di diritti reali su beni immobili e beni mobili registrati, nonché di quote sociali;
c) gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari relativi agli ultimi tre anni.
3) Nei procedimenti relativi ai minori, al ricorso è allegato un piano genitoriale[48] che indica gli impegni e le attività quotidiane dei figli relative alla scuola, al percorso educativo, alle attività extrascolastiche, alle frequentazioni abituali e alle vacanze normalmente godute)
Rispetto ai requisiti del ricorso, si segnala un refuso.
L’articolo 473-bis-51 c.p.c. prescrive che Il ricorso sia sottoscritto anche dalle parti e contenga “le indicazioni di cui all'articolo 473- bis.12, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 5), e secondo comma, c.p.c. (…)”. Il richiamo ai numeri 1), 2) 3) e 5) è un refuso legislativo perché l’art. 473-bis.12 presenta un elenco per lettere e non per numeri. Quindi i numeri 1), 2), 3) e 5) – citati nell’art. 473-bis.51 c.p.c. - devono essere letti come richiamo alle lettere a), b), c), e).
In linea con le scelte adottate anche per il rito ordinario generale, le preclusioni processuali e i termini per le difese si consumano in un momento anteriore all’udienza di prima comparizione, al fine di consentire una accelerazione del procedimento. La scelta adottata è, quindi, quella di far retroagire al momento della proposizione degli atti introduttivi, le preclusioni allegative e quelle probatorie, quando la controversia abbia ad oggetto diritti disponibili[49].
Parte attrice e parte convenuta si scambiano gli atti introduttivi (ricorso e comparsa di risposta) e, poi, hanno termini per le “ulteriori difese” (art. 473-bis.17 c.p.c.).
Il regime delle preclusioni processuali sortisce delle eccezioni (v. art. 473-bis.19):
1) le decadenze processuali previste (artt. 473-bis.14 e 473-bis.17) «operano solo in riferimento alle domande aventi a oggetto diritti disponibili» (art. 473-bis.19, primo comma);
2) le parti possono sempre introdurre nuove domande e nuovi mezzi di prova relativi all'affidamento e al mantenimento dei figli minori;
3) le parti possono proporre, nella prima difesa utile successiva e fino al momento della precisazione delle conclusioni, nuove domande di contributo economico in favore proprio e dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente e i relativi nuovi mezzi di prova, se si verificano mutamenti nelle circostanze o a seguito di nuovi accertamenti istruttori.
Il procedimento, nella sua struttura, ricalca il modello tipo del procedimento in materia di famiglia. Il presidente con decreto nomina il giudice relatore e fissa l’udienza, avvisa e rende edotto il convenuto dei termini decadenziali che sono fissati alle sue difese, della necessità di munirsi di un difensore tecnico, potendo godere del patrocinio a spese dello Stato, della necessità di costituirsi entro trenta giorni anteriori l’udienza[50]. Su iniziativa dell’attore, entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto, copia del ricorso e decreto vengono notificati al convenuto, in modo di garantire dalla notifica all’udienza un termine a difesa non inferiore a sessanta giorni, con dilazione ulteriore per i casi in cui la notifica debba essere effettuata all’estero e salvo sanatoria, mediante rinvio della prima udienza, in caso di termine inferiore. Se l’orologio biologico del procedimento non è compatibile con esigenze indifferibili, il ricorrente può richiedere provvedimenti provvisori (cautelari): in questo caso, si attiva la fase interlocutoria d’urgenza prevista dall’art. 473-bis. 15 che confluisce in misure adottate inaudita altera parte.
A scanso di equivoci, va evidenziato che non è più prevista “l’udienza presidenziale”[51]: il Presidente attiva il procedimento ma, poi, consegna la “gestione” della procedura al giudice relatore (designato ai sensi dell’art. 473.bis.14, secondo comma). Ben inteso, non è escluso che la trattazione sia collegiale (v. artt. 473.bis.14, 473.bis.21) ma, evidentemente, la consuetudine già consolidata è nel senso di delegarla al giudice relatore.
Ogni procedimento – anche quello di separazione – si conclude, ora, con un modulo decisorio uniforme: la sentenza. Scompare, dunque, il “decreto” di omologa della separazione consensuale che viene sostituito da una decisione tipica decisoria.
Il modello procedimentale “comune” è quello di cui all’art. 473-bis.28 c.p.c.
Una volta esaurita l’istruzione, il giudice relatore fissa davanti a sé l’udienza di rimessione della causa in decisione, assegnando alle parti termini comuni per le attività difensive finali e precisamente:
1) un termine non superiore a sessanta giorni prima dell’udienza per il deposito di note scritte di precisazione delle conclusioni;
2) un termine non superiore a trenta giorni prima dell’udienza per il deposito delle comparse conclusionali;
3) un termine non superiore a quindici giorni prima della stessa udienza per il deposito delle memorie di replica.
All’udienza la causa viene quindi rimessa in decisione e il giudice delegato si riserva di riferire al collegio. La sentenza è infine depositata nei successivi sessanta giorni.
Va da sé che, nel linguaggio processuale, l’udienza conclusiva del giudizio non sarà più “udienza di precisazione delle conclusioni” (che sono già state precisate nelle note), bensì udienza di rimessione della causa in decisione (secondo la precisa dizione dell’art. 473-bis.28, primo comma, c.p.c.).
5.3. Contemporanea proposizione delle domande di separazione e divorzio
Una straordinaria innovazione introdotta dal d.lgs. n. 149 del 2022 riguarda la possibilità di contemporanea proposizione della domanda di separazione giudiziale e di quella divorzile.
Una premessa di teoria generale è opportuna. Come noto, si distingue tra presupposti processuali e condizioni dell’azione. I primi attengono all'esistenza stessa del processo, nonché alla sua validità e procedibilità, e devono sussistere prima della proposizione della domanda a pena di improponibilità. Al contrario, le condizioni dell’azione sono i requisiti di fondatezza della domanda, necessari affinché l'azione possa raggiungere la finalità concreta cui essa è diretta: è sufficiente che tali condizioni esistano al momento della pronuncia, e non necessariamente a quello della domanda[52]. La giurisprudenza, su alcune questioni, ha talvolta offerto letture diverse qualificando un fatto vuoi come condizione dell’azione, vuoi come presupposto processuale. La differenza non è solo dogmatica: se una condizione dell’azione non sussiste al momento della domanda ma si verifica prima della rimessione della causa in decisione, la domanda è comunque procedibile. Al contrario, se un presupposto processuale manca ab origine, la domanda è in ogni caso improponibile[53].
Ebbene, sulla scorta dell’orientamento costante della giurisprudenza[54], il passaggio in giudicato della sentenza di separazione (anche vuoi solo a mezzo di decisione parziale sul solo status[55]) costituisce un presupposto della domanda di divorzio che, in suo difetto, è improponibile. Da qui, quale conseguenza logico-giuridica, l’improponibilità della domanda di divorzio unitamente alla richiesta di separazione, a prescindere dal suo passaggio in giudicato in itinere, durante il processo in regime di cumulo.
È qui che la Riforma Cartabia cambia pagina. L’art. 473-bis.49, infatti, introduce la possibilità del cumulo di domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Nel dettaglio, il primo comma della norma in esame prevede la possibilità di proporre contemporanea domanda di separazione e di divorzio, precisando che il divorzio potrà essere pronunciato solo previa verifica dei presupposti richiesti dalla normativa vigente: la disposizione, in particolare, afferma che “negli atti introduttivi del procedimento di separazione personale le parti possono proporre anche domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio”. Ciò sta a significare che la domanda divorzile può essere presentata anche dal convenuto nella comparsa di costituzione e risposta.
In virtù di questa disposizione, il divorzio potrà essere pronunciato solo dopo che già sia stata pronunciata, nel medesimo giudizio, la sentenza parziale di separazione, previo accertamento che tale decisione sia passata in giudicato e che sia trascorso il tempo richiesto (sulla base delle modifiche introdotte dalla l. 6 maggio 2015, n. 55, un anno) dalla comparizione delle parti dinanzi al giudice nel procedimento in esame (nel quale sono state proposte contemporaneamente le domande di separazione e divorzio). Qualora tali presupposti non dovessero essere sussistenti, la domanda di divorzio dovrà essere dichiarata improcedibile.
La norma, così delineata, potrebbe imporre un ripensamento della qualificazione giuridica del “giudicato sulla separazione”: la contemporanea proponibilità di entrambe le domande sembra voler dire che il passaggio in giudicato della separazione è, ora, non più presupposto processuale bensì condizione dell’azione; in questo modo, si eviterebbero aporie nella teoria generale del diritto processuale civile.
In concreto, l’attore, con il ricorso, presenta distinte conclusioni: con la prima, chiede dichiararsi la separazione dei coniugi, con pronuncia parziale sullo status; con la seconda, sul presupposto del passaggio in giudicato della decisione di separazione, chiede pronunciarsi il divorzio. Contro la sentenza che decide sullo stato delle persone è ammesso solo appello immediato (art. 473-bis.22, ultimo comma, c.p.c.).
La sentenza, per l’effetto, contiene autonomi capi per le diverse domande e determina la decorrenza dei diversi contributi economici eventualmente previsti (art. 473-bis. 49, ultimo comma). Viene quindi specificamente indicata la necessità di puntualizzare la diversa decorrenza dell’assegno di mantenimento o di divorzio in favore del coniuge o dell’ex coniuge debole, stante la rilevanza statistica di tali domande, e al fine di evitare possibili sovrapposizioni di pronunce, con potenziali problemi di contraddittorietà di giudicati e di controversie nella fase esecutiva[56].
L’art. 473-bis.49 recepisce, anche, talune prassi sviluppatesi negli uffici giudiziari all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 55 del 2015: se il giudizio di separazione e quello di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio sono proposti tra le stesse parti davanti a giudici diversi, si applica l'articolo 40 c.p.c. In presenza di figli minori, la rimessione avviene in favore del giudice individuato ai sensi dell'articolo 473-bis.11, primo comma. Inoltre, se questi procedimenti davanti allo stesso giudice, si applica l'articolo 274 c.p.c.
5.4. Provvedimenti provvisori
Il nuovo rito della famiglia, anche se non prevede più i provvedimenti presidenziali, contempla l’espressa possibilità di provvedimenti temporanei (diretti a regolare le situazioni giuridiche soggettive nelle more del processo) o urgenti (per far fronte a situazioni improcrastinabili). Queste misure in itinere sono assunte con ordinanza dal giudice delegato nel contesto della più ampia trattazione del processo; infatti, alla prima udienza, il tribunale (giusta l’art. 473-bis.22 c.p.c.): 1) pronuncia le misure provvisorie e urgenti (“quando occorra”); 2) provvede sulle richieste istruttorie; 3) predispone il calendario del processo (per cui v. art. 81-bis disp. att. c.p.c.)[57]; 4) fissa la successiva udienza determinandone il contenuto (es. assunzione dei mezzi di prova ammessi)[58]. Nei procedimenti di separazione e divorzio, questa trama di regole si integra di alcune disposizioni particolareggiate, previste dall’art. 473-bis.50 c.p.c. In questi casi, infatti, il giudice, quando adotta i provvedimenti temporanei e urgenti di cui all'articolo 473-bis.22, primo comma, «indica le informazioni che ciascun genitore è tenuto a comunicare all'altro e può formulare una proposta di piano genitoriale tenendo conto di quelli allegati dalle parti. Se queste accettano la proposta, il mancato rispetto delle condizioni previste nel piano genitoriale costituisce comportamento sanzionabile ai sensi dell'articolo 473-bis.39».
I provvedimenti “urgenti” che il tribunale può adottare mantengono il loro carattere di atipicità, proprio per adattarsi alla situazione concreta che necessita di intervento; sono, inoltre, discrezionali essendo giustificati dal criterio di “opportunità” (“dà con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che ritiene opportuni”), con l’unico limite che devono mantenersi nella cornice formata dai “limiti delle domande da proposte dalle parti e dei figli” (art. 473-bis.22, primo comma).
In quest’ambito può essere interessante richiamare una recentissima novità legislativa che potrebbe arricchire l’arsenale di misure protettive del bambino in dotazione alla giurisdizione del giudice della famiglia. Il 30 gennaio 2023, la Commissione europea ha pubblicato la decisione (UE) di esecuzione 2023/201 che fissa l’entrata in funzione (tra l’altro) del Regolamento UE 2018/1862 dalla data del 7 marzo 2023[59]. Questo Regolamento[60] introduce il nuovo sistema di informazione Schengen (SIS)[61] che presenta una novità: nel sistema di allerta è possibile inserire una segnalazione («alert») anche riguardo a “minori a rischio di sottrazione da parte di un genitore, un familiare o un tutore a cui deve essere impedito di viaggiare” (nuovo articolo 32)[62]. Prima di questo nuovo strumento, la segnalazione era possibile se il minore era stato già sottratto: con il nuovo strumento sono ampliate le ipotesi che consentono l’inserimento dell’alert (ammessa in via precauzionale rispetto alla possibile sottrazione).
Si reputa che questa misura appartenga anche al giudice del procedimento ex artt. 473-bis e ss c.p.c. perché l’art. 32, par. 3, Reg. 2018/1862 espressamente precisa che “la segnalazione di un minore [a rischio di sottrazione] è inserita in seguito a una decisione delle autorità competenti, incluse le autorità giudiziarie degli Stati membri competenti in materia di responsabilità genitoriale, in caso di rischio concreto ed evidente che il minore possa essere fatto uscire in modo illecito e imminente dallo Stato membro in cui hanno sede le autorità competenti”[63]. Il sistema di “allerta” può condurre a misure immediate atte ad impedire al minore di proseguire il viaggio (v. art. 33 Reg. 2018/1862): l’immediatezza è normativamente prevista perché, in questo caso, “gli uffici SIRENE[64] intervengono immediatamente” (art. 8, par. 3, Reg. 2018/1862). La segnalazione ha durata annuale, salvo possibilità di ulteriore durata a mezzo di proroga (v. art. 53, par. 4, Reg. 2018/1862) e può essere cancellata se “le autorità competenti dello Stato membro di esecuzione prendono una decisione sull'affidamento del minore” (art. 55, par. 2, lett. a), Reg. 2018/1862)[65].
5.5. Procedimento su domanda congiunta
Nell’articolo 473-bis.51 c.p.c. la nuova disciplina uniforma il regime giuridico sotteso ai procedimenti che nascono da una domanda congiunta, vuoi che si tratti di coppia matrimoniale, vuoi che si tratti di convivenza di fatto e sia per accordi di separazione o divorzio, sia per modifiche dei patti raggiunti in precedenza.
In questi casi, la competenza può essere radicata presso il luogo di residenza dell’una o dell’altra parte. Anche se la norma sul punto tace, resta comunque competente anche il foro di residenza abituale del bambino, per il caso in cui questa non coincida con la residenza dei due genitori, dovendosi ritenere che l’art. 473-bis.51 introduca ulteriori criteri rispetto a quello generale (art. 473-bis.11). Al riguardo, la Relazione illustrativa[66] riporta che “in presenza di minori collocati fuori dalla famiglia di origine il procedimento congiunto non potrà riguardare i provvedimenti a tutela dei figli, che dovranno essere richiesti al tribunale ordinario o al tribunale per i minorenni con altro e diverso procedimento”. Ciò vale, per l’appunto, solo in presenza di limitazioni della responsabilità genitoriale non nel caso, invece, di mere circostanze o situazioni di vita familiare[67].
Nell’ambito di questi procedimenti, l’audizione del bambino è disposta dal giudice solo se necessario (art. 473-bis.4, ultimo comma[68]).
La domanda si introduce con ricorso sottoscritto anche dalle parti “e contiene le indicazioni di cui all'articolo 473-bis.12, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 5), e secondo comma, e quelle relative alle disponibilità reddituali e patrimoniali dell'ultimo triennio e degli oneri a carico delle parti, nonché le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici”. L’articolo 473-bis-51, secondo comma, c.p.c. prescrive, come detto, che il ricorso contenga “le indicazioni di cui all'articolo 473- bis.12, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 5) (…)” ma come si è già fatto presente, il richiamo ai numeri 1), 2) 3) e 5) è un refuso legislativo perché l’art. 473-bis.12 presenta un elenco per lettere e non per numeri. Quindi i numeri 1), 2), 3) e 5) – citati nell’art. 473-bis.51 c.p.c. - devono essere letti come richiamo alle lettere a), b), c), e).
Con il ricorso le parti possono anche regolamentare, in tutto o in parte, i loro rapporti patrimoniali[69]. Questa espressa previsione a favore anche dei trasferimenti immobiliari inclusi in schede negoziali di separazione o divorzio testimonia ancora una volta l’evoluzione ordinamentale nel senso di riconoscere sempre maggiore autonomia ai coniugi; come bene ha evidenziato la Dottrina, “il principio di libertà e di autoresponsabilità che ne risulta consacrato tratteggia come diritto potestativo, in senso sostanziale, il potere in capo ai coniugi di separarsi e di divorziare, di disciplinare i risvolti anche economici di dette scelte, nonché di modificare il regime ab initio concordato[70]”.
I procedimenti su domanda congiunta consentono alle parti di sostituire l'udienza con il deposito di note scritte: in questo caso, però, devono farne richiesta nel ricorso, dichiarando di non volersi riconciliare e depositando i documenti di cui all'articolo 473-bis.13, terzo comma (ossia, la documentazione economica richiesta nel caso di procedimento contenzioso).
A seguito del deposito, il presidente fissa l'udienza per la comparizione delle parti davanti al giudice relatore e dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero, il quale esprime il proprio parere entro tre giorni prima della data dell'udienza. All'udienza il giudice, sentite le parti e preso atto della loro volontà di non riconciliarsi, rimette la causa in decisione. Il procedimento si conclude con sentenza “con la quale omologa o prende atto degli accordi intervenuti tra le parti”. Come già osservato, il modello decisorio viene uniformato nella forma della sentenza (non è, dunque, più previsto il decreto di omologa).
In caso di domanda congiunta di modifica delle condizioni inerenti all'esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli e ai contributi economici in favore di questi o delle parti, il presidente designa il relatore che, acquisito il parere del pubblico ministero, riferisce in camera di consiglio. Il giudice dispone la comparizione personale delle parti quando queste ne fanno richiesta congiunta o sono necessari chiarimenti in merito alle nuove condizioni proposte.
6. Il processo minorile a gestione condivisa
Un principio che non è espressamente indicato dalle norme del nuovo rito è, in realtà, una delle anime che emerge in modo chiaro dal tessuto delle nuove disposizioni: il processo che riguarda i bambini deve intendersi a “gestione condivisa”. Si tratta, infatti, di un rito che, come detto, si muove a “tutele particolareggiate” in cui il campo d’azione ospita diversi protagonisti, ciascuno dei quali chiamato a profondere uno sforzo convergente verso il prevalente interesse del minore: il curatore speciale (ora con poteri anche sostanziali), il consulente (ora specializzato), il mediatore familiare (ore regolato con albo), il coordinatore genitoriale (ora previsto ex lege); soprattutto: l’avvocato, il giudice. Il fatto che il procedimento chiami tutti gli interlocutori a tener presente l’interesse dei bambini coinvolti muta in parte il rapporto tra il tribunale e l’avvocatura perché deve presumersi che entrambi i due interlocutori di giustizia tengano in considerazione gli interessi del bambino e, quindi, in quest’ottica, si ispirino al principio di leale collaborazione. In ciò, la gestione del procedimento – affidata al tribunale – diventa «condivisa» nel senso che il giudice, man mano, conduce il procedimento e coltiva le sue scelte coinvolgendo attivamente gli avvocati.
E ciò presuppone un rapporto di lealtà per cui molto utili paiono le recenti osservazioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[71]: l’avvocato (…) è investito di una funzione di grande rilievo sociale, che esige da lui la massima professionalità. L’esercizio della giurisdizione non può avere luogo senza la reciproca e continua collaborazione tra avvocati e magistrati, che si deve fondare sul principio di lealtà; per cui, ove il professionista tradisca questa fiducia, potrà certamente essere chiamato a rispondere, in altra sede, del suo operato infedele; ma non si deve trarre dall’esistenza di possibili abusi, che pure talvolta si verificano, una regola di giudizio che abbia come presupposto una generale e immotivata sfiducia nell’operato della classe forense”.
Sono anche queste i principi essenziali del processo minorile: lealtà, collaborazione.
Le nuove norme sono uno “spartito” che il giudice – direttore d’orchestra – è tenuto ad eseguire nel modo migliore soprattutto pensando ai suoi ascoltatori principali: i bambini. E come in tutte le esecuzioni meglio realizzate, l’orchestra presuppone un lavoro di squadra, ciascuno nel suo ruolo. Anche perché, dopo tutto, da soli si può andare anche più veloci, ma insieme si va più lontano.
[1] Pubblicato nella Gazz. Uff. 17 ottobre 2022, n. 243, S.O.
[2] Legge 29 dicembre 2022, n. 197: “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025” in Gazz. Uff. 29 dicembre 2022, n. 303
[3] Decreto-legge 29 dicembre 2022 n. 198: “Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”, in Gazz. Uff. 29 dicembre 2022, n. 303.
[4] V. Milleproroghe 2023, prorogati i termini in materia di giustizia civile in Ilprocessocivile.it
[5] Gazz. Uff. 19.10.2022, serie gen. n. 245, suppl. ord. n. 5).
[6] Cass. civ., sez. III, 24 agosto 2007, n. 17958
[7] Valga un esempio. Il Decreto modifica l’art. 37 (in tema di difetto di giurisdizione) prevedendo che “Nei giudizi di impugnazione [il difetto di giurisdizione] può essere rilevato solo se oggetto di specifico motivo, ma l'attore non può impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito”. Si tratta del recepimento della regola già invalsa nella giurisprudenza (v. ex multis, Cass. civ., Sez. Un., n. 22349 del 2018).
[8] L’art. 473-ter c.p.c. introduce la regola generale della “immediata esecutività” dei decreti del giudice tutelare pronunciati in camera di consiglio. Tuttavia, resta immutato l’art. 741 c.p.c. in virtù del quale “i decreti acquistano efficacia quando sono decorsi i termini di cui agli articoli precedenti senza che sia stato proposto reclamo”. Deve, dunque, ritenersi che per i decreti pronunciati in camera di consiglio: se del giudice tutelare, sono immediatamente esecutivi; altrimenti, sono efficaci decorsi i termini di cui all’art. 741 c.p.c. Forse, questa non era l’intenzione del Legislatore delegato perché, a dire il vero, è una differenza di regime un po' distonica.
[9] Comma così sostituito dall'art. 29, comma 6, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149
[10] V. ad es., Trib. Milano, sez. IX civ., 14 gennaio 2015)
[11] In particolare, il nuovo quarto comma recita: “Il giudice, sentiti i genitori e disposto l'ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, tenta di raggiungere una soluzione concordata e, ove questa non sia possibile, adotta la soluzione che ritiene più adeguata all'interesse del figli!”
[12] Istituto noto come cd. mediazione giudiziale. Nella casistica giudiziaria, le ipotesi di procedimenti non contenziosi di queto tipo sono rarissime.
[13] Questo particolare aspetto è chiarito dalla Relazione illustrativa: “Il terzo comma, in attuazione del principio di delega di cui all’articolo 1 comma 22, lett. a) modifica il quarto comma dell’articolo 250 c.c., armonizzandolo con i principi che reggono il nuovo rito unitario in materia di procedimenti per le persone, i minorenni e le famiglie. A fronte del rifiuto del genitore che per primo ha riconosciuto il figlio al riconoscimento da parte dell’altro, quest’ultimo può rivolgersi al tribunale del luogo di residenza abituale del minore. Il procedimento segue le norme delineate dal nuovo rito unitario; il giudice, in linea con quanto previsto dall’articolo 250 del codice civile nella sua attuale formulazione, può adottare, in ogni momento e dunque anche prima della decisione sullo status i provvedimenti ritenuti opportuni per instaurare la relazione tra il figlio colui che ha richiesto il riconoscimento” (Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 in Gazz. Uff. 19.10.2022, serie gen. n. 245, suppl. ord. n. 5)
[14] V. Trin. Milano, 26 giugno 2013 in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 9318 - pubb. 22/07/2013: “In materia di azione ex art. 269 c.c., la competenza si radica nel luogo di residenza del convenuto (Cass. Civ. 1373/1992, Sez. Un.; Cass. Civ., 11021/1997: precedenti che si richiamano ex art. 118 disp. att. c.p.c.), non rintracciandosi, peraltro, nel codice di rito, un foro del “concepimento” e nemmeno potendosi ritenere prevalente la tutela del minore, in quanto la causa ha ad oggetto la paternità biologica che, se accertata, legittima le domande nell’interesse della prole, per le quali, sì, opera il foro di residenza del minore (es. 317-bis c.c., 38 disp. att. c.p.c.)”
[15] Danovi F., Le ragioni per una riforma della giustizia familiare e minorile in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 327
[16] V. ad es., Carratta A., Un nuovo processo di cognizione per la giustizia familiare e minorile, in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 350
[17] Una delle ipotesi di illecito endofamiliare ormai ben tipizzata dalla giurisprudenza è quella della violazione dell'obbligo del genitore di concorrere all'educazione ed al mantenimento dei figli, ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c.: essa, secondo il diritto pretorile vigente, costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare. Interessante anche evidenziare come, sempre secondo la linea di pensiero dei giudici, questa tipologia di danno è risarcibile equitativamente, attraverso il rinvio, in via analogica e con l'integrazione dei necessari correttivi, alle tabelle per il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale in uso nel distretto (Cass. civ., 28 novembre 2022 n. 34986)
[18] Se ne dà atto anche nella relazione illustrativa a proposito dell’art. 473-bis.49 c.p.c.: v. Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 in Gazz. Uff. 19.10.2022, serie gen. n. 245, suppl. ord. n. 5
[19] Cecchella C., Il nuovo processo familiare e minorile nella legge delega sulla riforma del processo civile in Questione Giustizia
[20] V. Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario: Relazioni sulle novità normative della riforma “Cartabia” (diritto e procedura civile), 2023, 236
[21] Ex multis, in tema di minore come “parte” del processo (in senso formale o sostanziale), v. Cass. civ. 6 dicembre 2021 n. 38719
[22] “Le autorità giurisdizionali degli Stati membri danno al minore capace di discernimento, conformemente al diritto e alle procedure nazionali, la possibilità concreta ed effettiva di esprimere la propria opinione, direttamente o tramite un rappresentante o un organismo appropriato”. Questa norma costituisce, ormai, l’acquis del diritto europeo. Ad esempio, è anche ripresa nella recente proposta della Commissione europea, del 7 dicembre 2022, di Regolamento relativo alla competenza, alla legge applicabile e al riconoscimento delle decisioni e all'accettazione degli atti pubblici in materia di filiazione e alla creazione di un certificato europeo di filiazione (art. 15 della proposta).
In Dottrina, v. in particolare: Musseva Boriana, The recast of the Brussels IIa Regulation: the sweet and sour fruits of unanimity in ERA Forum Volume 21 (2020), 1. La Prof.ssa Musseva ha presieduto proprio il negoziato sul recast di Bruxelles II-bis, durante la Presidenza del Consiglio dell’UE nel semestre della Bulgaria.
[23] Questa norma recepisce anche le indicazioni del Consiglio d’Europa: “L’essere ascoltato è un diritto del minore, non un dovere da imporgli” (Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, punto n. 46).
[24] Il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia raccomanda che i minori siano ascoltati direttamente. Commento generale n. 12 sul diritto del minore di essere ascoltato (CRC/C/GC/12, 1° luglio 2009), par.35 35.
[25] V. Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 in Gazz. Uff. 19.10.2022, serie gen. n. 245, suppl. ord. n. 5
[26] V. Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, punto n. 115
[27] V. ad es., Corte EDU, 8 luglio 2003, Sahin v. Germania (n. 30943/96)
[28] Regolamento (UE) 2019/1111 del 25 giugno 2019 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, e alla sottrazione internazionale di minori (rifusione)
[29] “La videoconferenza potrebbe inoltre essere usata per ascoltare un minore come previsto dal regolamento (UE) 2019/1111”: così Cons. 21, Regolamento (UE) 2020/1783 del 25 novembre 2020 relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nell’assunzione delle prove in materia civile o commerciale (assunzione delle prove) (rifusione)
[30] In data 9 dicembre 2022: v. https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2022/12/09/digital-justice-council-adopts-negotiating-mandates-on-two-proposals-to-digitalise-judicial-cooperation-and-access-to-justice/
[31] V. il Considerando n. 21-a: “Qualora un minore partecipi a procedimenti in materia civile o commerciale, in particolare in qualità di parte, a norma del diritto nazionale, il minore potrebbe partecipare all'udienza mediante videoconferenza o altra tecnologia di comunicazione a distanza a norma del presente regolamento, tenendo conto dei suoi diritti procedurali. Tuttavia, se il minore partecipa al procedimento ai fini dell'assunzione delle prove in materia civile o commerciale, ad esempio se deve essere ascoltato in qualità di testimone, il minore potrebbe essere ascoltato anche mediante videoconferenza o altra tecnologia di comunicazione a distanza a norma del Regolamento (UE) 2020/1783”.
[32] G. Ruffini, Il processo civile di famiglia e le parti: la posizione del minore, in Dir. fam. pers. 2006, 1258-1259
[33] D’Amato D., Il curatore speciale del minore alla luce della riforma del processo civile in Rivista di diritto processuale, 2022, 4, 1317
[34] Cass. civ., sez. 2, 3 gennaio 2019 n. 9
[35] Il giudice può nominare un curatore speciale quando i genitori appaiono per gravi ragioni temporaneamente inadeguati a rappresentare gli interessi del minore. Per Cass. civ, 11 maggio 2018, n. 11554 «la sussistenza del conflitto di interessi tra i genitori ed il minore ai fini della nomina del curatore speciale, in un procedimento nel quale si discuta del suo affidamento, deve essere valutata in concreto, avuto riguardo all’incapacità , anche temporanea dei genitori a tutelare la posizione del figlio, non potendosi desumere la sussistenza del conflitto di interessi dalla mera conflittualità interna tra i genitori ove risulti la loro piena capacità ed una buona relazione con il minore».
[36] Spicca, per importanza: Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83, in Fam. e dir. 2011, 545 ss., con nota di F. Tommaseo, La Corte costituzionale sul minore come parte nei processi della giustizia minorile
[37] D’Amato, opera cit.
[38] “La norma costituisce espressione dei principi sovranazionali in materia (Reg. UE 1111/19; Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori conclusa all’Aja il 19 ottobre 1996 e ratificata con legge 18 giugno 2015, n. 101) e di quelli espressi dalla Suprema Corte (cfr. da ultimo Cass., ord. 7 giugno 2021, n. 15835)”. Così: Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 in Gazz. Uff. 19.10.2022, serie gen. n. 245, suppl. ord. n. 5
[39] Il concetto di residenza abituale fa capo a una situazione di “fatto” che prescinde dalle risultanze anagrafiche e si determina in base al luogo in cui il bambino ha la sede prevalente dei suoi interessi ed affetti. Essendo una situazione “di fatti”, l’accertamento della residenza abituale si risolve in una “quaestio facti” (Cass. civ., Sez. Un., 13 dicembre 2018 n. 3239). Si tratta di una nozione ormai adottata (e simile) sia in ambito europeo (habitual residence, résidence habituelle) che nazionale e fa leva sul dato esperienziale per cui i giudici del luogo di residenza abituale si trovano di norma nella migliore posizione per valutare le misure da adottare nell’interesse del minore (Corte Giust. UE, 14 luglio 2022, C-572/21). La residenza abituale è, dunque, criterio per determinare sia la competenza territoriale (a livello nazionale) che la competenza giurisdizionale (a livello UE e internazionale).
[40] Cass. Civ., Sez. Un., ordinanza 5 giugno 2017, n. 13912; Cass., 22 luglio 2014, n. 16648 del 2014).
[41] In tal senso va letto il secondo comma dell’art. 473-bis.11 c.p.c. che prevede in sostanza, che in assenza di figli minori, il tribunale territorialmente competente sia individuato in base ai criteri generali degli articoli 18 e seguenti.
[42] Come ora risulta espressamente dal testo dell’art. 316 c.c., come novellato dal dlgs 149/22
[43] Questa è la chiara spiegazione della norma offerta dalla Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 in Gazz. Uff. 19.10.2022, serie gen. n. 245, suppl. ord. n. 5. Si precisa anche che “la fissazione di un termine, decorso il quale la competenza spetta al giudice del nuovo luogo di residenza del minore pure in presenza di trasferimenti non autorizzati, risponde alla necessità di superare alcune incertezze interpretative (Cass., ord. 20 ottobre 2015 n. 21285) ed è espressione dei principi generali della normativa sovranazionale (art. 9 Reg. UE 1111/19 e art. 7 conclusa all’Aja il 19 ottobre 1996 e ratificata con legge 18 giugno 2015, n. 101)”.
[44] V. Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario: Relazioni sulle novità normative della riforma “Cartabia” (diritto e procedura civile), 2023, 237
[45] Nuovo art. 121 c.p.c. come modificato dal dlgs n. 149 del 2022
[46] Il mancato rispetto di questi criteri può essere valutato ai fini della decisione sulle spese del processo (v. nuovo art. 46 disp. att. c.p.c.: “Forma e criteri di redazione degli atti giudiziari”)
[47] La regola generale (art. 473-bis. 12, terzo comma) prevede che questi document debbano essere presentati solo in caso di domande di contributo economico o in presenza di figli minori. L’art. 473-bis.58, tuttavia, prescrive che “Nei procedimenti di cui alla presente sezione, al ricorso e alla comparsa di costituzione e risposta è sempre allegata la documentazione prevista dall'articolo 473-bis.12, terzo comma”
[48] “Il piano genitoriale consiste nell’illustrazione, secondo la reciproca prospettazione dei genitori, degli elementi principali, che la norma espressamente individua, del progetto educativo e di accudimento del minore. Si tratta di utili informazioni che permettono al giudice, investito del procedimento, di individuare e dettagliare all’interno dei provvedimenti che egli è chiamato ad assumere, le indicazioni più opportune nell’interesse del minore, costruite “su misura” rispetto alla situazione di vita pregressa e alle sue abitudini consolidate” (Rel. Ill.)
[49] Carratta A., Un nuovo processo di cognizione per la giustizia familiare e minorile, in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 352
[50] Si tratta degli avvisi sui termini decadenziali che l’attore, per i processi che si introducono con citazione, deve precisare nell’atto ai sensi dell’articolo 163, 3° comma, n. 7, c.p.c.
[51] In alcuni commenti alla delega legislativa, si ipotizzava che, invece, l’udienza presidenziale sarebbe rimasta nel regime giuridico: v. Vullo E., Nuove norme per i giudizi di separazione e divorzio, in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 358
[52] per tutte, Cass. n. 21100 del 2004
[53] Un caso, ad esempio, riguarda la domanda di scioglimento della comunione legale proposta in pendenza del giudizio di separazione. Sulla questione, la Corte di Cassazione si è, in genere, pronunciata affermando che l'introduzione del giudizio di scioglimento della comunione, prima del passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o dell'omologa di quella consensuale), comporta l'improponibilità della domanda (tra le altre, Cass. n. 4351 del 2003; n. 9325 del 1998; n. 8707 e 11931 del 1997). Al contrario, altro indirizzo (Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 26 febbraio 2010 n. 4757), qualificando il fatto della separazione come mera “condizione”, ha affermato che “la domanda di scioglimento della comunione legale può essere proposta anche in pendenza della causa di separazione tra i coniugi. La pronuncia di merito acquisterà però efficacia solo se interviene dopo il passaggio in giudicato della decisione sulla separazione”.
[54] V. ad es., Cass. civ. n. 36176 del 2021
[55] Da ormai molto tempo, la Suprema Corte ha chiarito che la domanda parziale sulla separazione è ammissibile (Cass. civ., Sez. Un. n. 15279 del 2011).
[56] Così Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 in Gazz. Uff. 19.10.2022, serie gen. n. 245, suppl. ord. n. 5)
[57] La Riforma, modificando l’art. 81-bis disp. att. c.p.c. ha previsto che “Il rispetto del termine di cui all'articolo 473-bis.14, terzo comma, del codice è tenuto in considerazione nella formulazione dei rapporti per le valutazioni di professionalità”
[58] Come si è osservato, “la prima udienza nel nuovo rito per le persone, per i minorenni e per le famiglie diventa lo snodo centrale del giudizio” (Costabile, Procedimento: la prima udienza in IlFamiliarista.it)
[59] Decisione di esecuzione (UE) 2023/201 della Commissione del 30 gennaio 2023 che fissa la data di entrata in funzione del sistema d'informazione Schengen ai sensi del regolamento (UE) 2018/1861 del Parlamento europeo e del Consiglio e del regolamento (UE) 2018/1862 del Parlamento europeo e del Consiglio
[60] Regolamento (UE) 2018/1862 del 28 novembre 2018 sull'istituzione, l'esercizio e l'uso del sistema d'informazione Schengen (SIS) nel settore della cooperazione di polizia e della cooperazione giudiziaria in materia penale, che modifica e abroga la decisione 2007/533/GAI del Consiglio e che abroga il regolamento (CE) n. 1986/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio e la decisione 2010/261/UE della Commissione
[61] Per l’Italia, l’ufficio competente: Ministero dell’Interno — Dipartimento della Pubblica Sicurezza — Direzione Centrale della Polizia Criminale — Servizio per il Sistema Informativo Interforze — Divisione N.SIS
[62] Art. 32. Obiettivi e condizioni per l'inserimento delle segnalazioni. 1. Su richiesta dell'autorità competente dello Stato membro segnalante, sono inserite nel SIS segnalazioni sulle seguenti categorie di persone: (…) c) minori a rischio di sottrazione da parte di un genitore, un familiare o un tutore a cui deve essere impedito di viaggiare;
[63] V., anche, il Considerando n. 32: “Le segnalazioni di minori a rischio di sottrazione da parte di uno dei genitori dovrebbero essere inserite nel SIS su richiesta delle autorità competenti, incluse le autorità giudiziarie competenti in materia di responsabilità genitoriale conformemente al diritto nazionale. Le segnalazioni di minori a rischio di sottrazione da parte di uno dei genitori dovrebbero essere inserite nel SIS laddove tale rischio sia concreto ed evidente, e in limitate circostanze. É, pertanto, necessario prevedere garanzie rigorose e adeguate. Nel verificare se sussista un rischio concreto ed evidente che un minore possa essere fatto uscire in modo illecito e imminente da uno Stato membro, l'autorità competente dovrebbe tenere conto della situazione personale del minore e dell'ambiente a cui è esposto”.
[64] In virtù del SIS (v. art. 7, Reg. 2018/1862), ciascuno Stato membro designa un'autorità nazionale, operativa 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, che garantisca lo scambio e la disponibilità di tutte le informazioni supplementari («ufficio SIRENE»)
[65] Più nel dettaglio, si ha cancellazione: “alla risoluzione del caso, ad esempio se il minore è stato reperito o rimpatriato o le autorità competenti dello Stato membro di esecuzione prendono una decisione sull'affidamento del minore”
[66] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 in Gazz. Uff. 19.10.2022, serie gen. n. 245, suppl. ord. n. 5)
[67] Si pensi al caso di un bambino, che per le più svariate ragioni, abbia provvisoriamente dimora presso i nonni
[68] Art. 473-bis. 4, terzo comma, c.p.c.: “Nei procedimenti in cui si prende atto di un accordo dei genitori relativo alle condizioni di affidamento dei figli, il giudice procede all'ascolto soltanto se necessario”
[69] È la ripresa di quanto ha affermato la giurisprudenza di legittimità: Cass. civ., SS.UU. 29 luglio 2021, n. 21761
[70] Spadafora A., Autonomia privata nei rapporti familiari in Enciclopedia del Diritto, I tematici, IV-2022, 76
[71] Cass. civ., Sez. Un., 9 dicembre 2022 n. 36057
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