ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Un marziano a spasso per il processo amministrativo (divertissement sul non-processo)[1]
di Francesco Volpe
A un certo punto, la depressione per quel cielo, sempre rosso e sempre aranciato, divenne insostenibile.
Arthur Dent prese una decisione e, dopo aver strofinato tre volte il naso con sua mamma Trillian (i marziani si salutano così), salì a bordo della sua astrocar. Aveva sentito parlare di un pianeta bianco e azzurro: doveva essere bello vivere lì.
L’astrocar era una vecchia utilitaria e ci vollero venti giorni standard, ma alla fine Arthur arrivò sulla Terra e, scelto un posto a caso, fece landing in Italia.
Fu il paradiso. Conobbe la pasta al pomodoro, il frico e la malvasia. Anche il sole, immerso in quei cieli blu, era una tiepida e piacevole scoperta. Arthur si sentiva finalmente bene e, poiché era di spirito gentile, si fece presto degli amici.
Un giorno venne a sapere che l’Università aveva bandito un concorso per un posto a cattedra di lingua e letteratura marziane.
“È proprio quello che fa per me” – pensò - “È vero che su Marte facevo il consulente legale e che, a scuola, prendevo sempre cinque in marziano, ma qui sono l’unico che conosce la lingua, senza tenere conto che ho anche una discreta conoscenza della letteratura, perché ho letto tutti i gialli di Douglas Hactar!”.
Con stupore apprese, tuttavia, che il concorso era stato vinto da una studiosa di filologia ugrofinnica con dottorato a Kuala Lumpur. Arthur era arrivato terzo, perché gli era stato preferito anche un associato di fisica dei corpi fluidi che veniva dall’Università di Capo Passero.
“Non è possibile!”, pensò Arthur.
Poiché era entrato in confidenza con Santino, che faceva l’avvocato, una sera lo invitò in birreria e, davanti a un wurstelpallido e a un piatto di patatine lutee, disse: “Voglio rivolgermi al giudice”.
“Un momento”. – replicò Santino – “Non basta dire che vuoi andare dal giudice. Si deve prima stabilire davanti a qualegiudice”.
Il dialogo che seguì si svolse più o meno in questi termini.
“Come?” – fece Arthur – “Qui non c’è un solo giudice?”.
“No. Ce ne sono diversi e per la tua causa quello giusto è il giudice amministrativo”.
“Boh, io, questa cosa, non la capisco tanto. La giustizia dovrebbe essere applicata in modo uguale per tutti e un giudice che decide su cause particolari è un giudice che riserva ad alcuni soggetti un trattamento speciale. Ma, alla fine, basta che sia indipendente e che possa giudicare in modo imparziale. Sarà così anche per questo giudice amministrativo”.
“Dipende da quello che intendi” – fece Santino – “I giudici del primo grado, in effetti, sono assunti per concorso. Ma i giudici di secondo grado – quelli che metteranno la parola fiat sulla tua causa – sono nominati per un quarto dall’esecutivo. Cioè, proprio da quell’amministrazione su cui saranno chiamati a giudicare. Spesso, inoltre, questi giudici vanno e vengono dai ruoli della pubblica amministrazione. Ora fanno i consiglieri dei ministri, altre volte dirigono importanti autorità. Poi tornano a fare i magistrati e il loro posto nei ministeri viene preso da altri loro colleghi con cui si danno il turno”.
“Questo non è tanto bello” – osservò Arthur – “Ma immagino che, se i giudici commettessero delle birbanterie, ci sarebbero dei procedimenti disciplinari…”.
“Sì e no. Nel senso che è vero: ogni tanto se ne celebrano. Ma è sempre uno psicodramma, perché il procedimento disciplinare non è mai stato ben regolato e così si va all’impronta. Non esiste neppure un vero e proprio organo di autogoverno perché quello che c’è si limita a dare le autorizzazioni sugli incarichi esterni e ad assegnare le sedi, senza avere competenze disciplinari. In realtà, il Consiglio di Stato è governato dal suo presidente, che è nominato anch’egli dall’esecutivo. È il presidente colui che dice quali siano le competenze delle sezioni, ripartendole sulla base dell’amministrazione resistente. Con la conseguenza che tutte le cause contro il Ministero delle Infrastrutture sono decise da un’unica sezione e da quegli otto o nove magistrati che la compongono. Il presidente stabilisce anche da quali magistrati siano composte queste sezioni oltre che la sezione più importante, da lui presieduta, che si chiama Plenaria. Su tutte queste cose il consiglio di presidenza si limita a dare un parere. Ma ti faccio osservare che anche questo consiglio è presieduto dal presidente del Consiglio di Stato. Inoltre, se gli garba, il presidente può acciuffare una particolare causa per farla decidere dalla sua Plenaria, invece che dalla sezione a cui è stata assegnata”.
A Arthur venne un senso di vertigine: su Marte le cose funzionavano in modo diverso. Ora, però, lui era qui e bisognava accettare le regole del gioco.
“Adesso, spiegami… concretamente… come si fa a presentare la causa?”.
“Beh, è abbastanza semplice” – rispose Santino – “Per prima cosa, devi notificare un ricorso all’Università e almeno a uno dei controinteressati”.
“Oh, bella! Perché mai a uno solo? A tutti o a nessuno, non ti pare?”.
“Perché se sono di più, poi si dovrà integrare il contraddittorio anche nei confronti degli altri”.
“Ho capito” – rispose Arthur – “ma, se è così, allora tanto vale non notificare il ricorso a nessun controinteressato e poi integrare il contraddittorio verso tutti. Cosa succede se non notifico a quell’unico?”.
“Succede che il giudice ti respinge il ricorso senza nemmeno leggere le carte”.
“Siete davvero bizzarri…” – chiosò il marziano – “Ma, dopo, come si va avanti?”.
“Dopo che hai notificato, devi depositare il ricorso”.
“E poi?”.
“E poi, aspetti”.
“Aspetto? Aspetto cosa?”.
“Aspetti. Aspetti che ti fissino l’udienza in cui la tua causa sarà decisa. Diciamo che puoi aspettare per anni, anche perché ti passeranno davanti altre cause che sono più importanti: appalti, interventi PNRR, opere pubbliche, mi capisci? Così può capitare che tu debba aspettare parecchio tempo. Al punto che, se l’udienza non sarà stata fissata entro cinque anni, tu dovrai dichiarare che vuoi proprio - ma proprio proprio, eh! - che il tuo ricorso venga deciso. Se non lo farai, la causa verrà cancellata”.
“Ma come! Anche questa! Non voglio sembrare scortese, ma su Marte, dopo che è stata presentata la causa, il giudice ha il dovere di deciderla, senza che questo dovere cada in prescrizione. Da noi non esiste che il giudice possa non fare la sua parte perché è rimasto a lungo inadempiente. E, poi, durante tutti questi anni, si farà pur qualcosa! Si ammetteranno delle prove, ad esempio. Io stesso vorrei chiamare a testimoniare il signor Lino, che era presente all’orale del concorso, perché riferisca che né la dottoranda di Kuala Lumpur né il professore di Capo Passero sono riusciti a spiccicare un’acca stracca di marziano e tanto meno conoscono i fondamentali romanzi di Douglas Hactar!”.
Santino sorseggiò la sua birra. La schiuma inzuppò i baffi che da neri divennero bianchi per tutto il tempo che ci volle prima che lui se li pulisse con il palmo della mano. Poi prese una patatina, l’intinse nella ciotola del ketchup e se la portò, meditabondo, alla bocca.
“In realtà, no. In quei cinque anni non si fa proprio niente. Anzi, non c’è nemmeno un momento preciso in cui si decide se una prova debba essere ammessa o no. Si fanno queste cose solo insieme ad altre, quando si valuta la domanda cautelare o si decide il merito. E, la tua testimonianza, forse riuscirai a portarla nel processo, ma non pensare di convocare Lino davanti al collegio, perché Lino potrà rendere solo dichiarazioni scritte”.
“Ma che testimonianza è, se il teste non viene nemmeno ascoltato dal giudice e dalle altre parti!” – sbottò Arthur, sempre più stupefatto - “Però, senti, io vorrei chiedere anche una perizia per dimostrare che chi ha scritto libri di filologia ugrofinnica e articoli sulla fisica dei corpi fluidi non ha le competenze per insegnare lingua e letteratura marziane. Almeno questo, potrò farlo?”.
“Fino a un certo punto, Arthur…” – disse Santino, inghiottendo un’altra patatina - “… intanto il giudice potrebbe dirti che queste verifiche ricadono nella discrezionalità dell’Università su cui lui non può mettere il naso…” – e qui Santino sprofondò il naso nel boccale di birra - “… in secondo luogo, anche se il giudice ti ammettesse la perizia, non ti aspettare che nomini un consulente esterno. Chiamerà, invece, un verificatore da un’altra Università”.
“Ma è pur sempre un’Università! Amici del mio avversario! Siamo sicuri che questo verificatore, come lo chiami tu, sia davvero imparziale?”.
“Eh…!” – Santino non aggiunse altro.
“Fatto sta che io non posso aspettare tutto questo tempo prima di sapere se avrò un lavoro. Ho le bollette da pagare e sulla Terra andate avanti con il combustibile fossile che è carissimo, quando su Marte usiamo il nucleare da almeno dieci millenni. Inoltre, atterrando ho rotto un sospensore dell’astrocar e il carrozziere mi ha chiesto un botto. Ho bisogno di uno stipendio. C’è niente che si possa fare nel frattempo?”.
“Sissì! Puoi provare a chiedere un provvedimento cautelare. Ne fanno anche di molto stravaganti, che la legge neppure prevede. E decidono in fretta, sai? Ma devi dimostrare di avere un danno grave e irreparabile”.
“Ah, beh!” – fece Arthur, finalmente sollevato – “questo è facile. Tiro fuori le bollette e la fattura del carrozziere”.
“Al tempo!” – lo fermò Santino, che era stato caporale istruttore a Udine – “Guarda che il danno grave e irreparabile non è mica solo il tuo. Anche se la legge non lo dice chiaro e tondo, il giudice valuta pure quello che subirebbe l’Università e poi fa una comparazione per stabilire chi dei due abbia il danno grave più grave. Di solito, il giudice dice che quello dell’Università è più grave del tuo, perché è legato a un interesse pubblico, che merita di essere tutelato di più”.
“Anche questa non me la spiego. Mi hai appena detto che il giudice non può fare valutazioni di questo tipo. Come l’hai chiamata? Discrezionalità?”.
“Però quando vuole le fa e fa anche di peggio, perché, se gli comoda, si sostituisce senza troppo discutere all’amministrazione e fa di testa sua. Egli è Giano. Ora fa il giudice, ora, invece, è la più alta di tutte le pubbliche amministrazioni, ora è tutti e due.
In ogni caso, si deve stare attenti a presentare una domanda cautelare, perché il giudice potrebbe ritenere che la causa sia già pronta per essere decisa e così ti fa sentenza subito. In questo modo, però, tu perdi la possibilità di presentare altre memorie e di produrre altri documenti, perché la causa viene definita così com’è”.
“Ma senti questa! Il giudice che mi confisca il diritto di difesa!” – Arthur era sempre più sconsolato – “Potrò pure oppormi o no?”.
“Oh, sì, puoi farlo, ma non servirebbe a nulla, perché è il giudice che decide se ricorrere alla sentenza in forma semplificata. Tu non riusciresti a evitarlo neppure se rinunciassi alla domanda cautelare. Ormai sei lì. Basta che tu passi per la camera di consiglio e… zac… sei preso al laccio”.
Arthur, perturbato e intontito, fissava i graffiti lasciati sul tavolo da precedenti avventori. Un cuore frecciato e una frase: Luana, tu sei la luna dei miei lunedì.
“Ma consolati,” – riprese Santino – “il giudice può cambiare il rito anche in altre occasioni. Ad esempio, se ritiene che la causa possa essere decisa subito, fissa lui, senza che nessuno glielo chieda, la camera di consiglio e questo anche prima che siano scaduti i termini per la costituzione. In questo modo, la causa si chiude in quattro e quattr’otto e magari alcune parti neppure lo sanno”.
“Ma ci sarà un appello!”.
“Ovvio che c’è un appello. E ci diciamo anche che l’appello ha carattere devolutivo perché si dovrebbe riprendere la causa in mano come se si fosse in primo grado. Ma non è mica del tutto vero, sai? Non si possono portare nuove prove, non si possono sollevare nuove eccezioni, quali esse siano, e si intendono rinunciate tutte le domande e tutte le eccezioni che non siano state riproposte con appello incidentale o nei termini di costituzione, se per caso il t.a.r. non le avesse valutate”.
“Funziona così, in Consiglio di Stato?”.
“Sì”.
“E sopra al Consiglio di Stato?”.
“Sopra, c’è la Cassazione. Anche lì capitano cose curiose, ma non serve che te ne parli, perché ci vai solo se è stato sbagliato il giudice e la Cassazione non può dire se il Consiglio di Stato abbia deciso bene o male la tua causa. In passato, poverina, ci ha anche provato, inventandosi un arzigogolo, ma poi l’hanno stoppata”.
“Quindi il Consiglio di Stato fa una giurisprudenza tutta per conto suo?”
“È così”.
“Un’altra cosa, Santino. Se vincessi la causa, poi mi assumerebbero in Università?”.
“Beh, non è scontato. Si dovrebbe rifare il concorso e se tu risultassi il candidato migliore avresti il posto. Del resto, neppure la sentenza è scolpita sulla pietra perché il giudicato, ormai, è a formazione progressiva. Perciò, l’Università potrebbe chiedere chiarimenti al giudice su come la sentenza debba essere eseguita e sai bene come funziona… ogni volta che si spiega qualcosa, inevitabilmente la si interpreta e ogni volta che si interpreta qualcosa, inevitabilmente la si cambia…”.
“Senti” – aggiunse Arthur – “se non ci fosse modo di vincere il concorso, potrei anche lasciar perdere. Ma io ero davvero il candidato migliore. Che almeno mi riconoscano i danni!”.
“I danni… sì, vero, … ma prima devi avere impugnato nei termini gli atti del concorso e il giudice deve averli annullati. Altrimenti, non ti verrà risarcito quasi nulla”.
La birra era diventata acida. Restava solo la domanda più importante.
“Tu cosa faresti al posto mio, Santino?”.
L’avvocato tirò il fiato: “Lascerei stare, Arthur. Rischi seriamente di buttare via tempo e quattrini e intanto ci staresti male. Mettiti, se mai, a fare qualche lavoretto in nero: dà qualche ripetizione, aggiusta gli scarichi dei lavandini... ti conviene…”.
Si salutarono davanti all’ingresso della birreria.
Arthur Dent era triste: caelum non animum mutant qui trans sidera currunt.
Qualche incivile aveva lasciato sul marciapiede una copia della Gazzetta Ufficiale del Pianeta Venere.
Per curiosità, Arthur la prese in mano. Conosceva bene il venusiano, che aveva imparato a scuola.
Vide così che l’Università di Frac aveva bandito un concorso di lingue e letterature marziane.
Arthur sollevò la testa. Di nuovo, aveva preso una decisione.
Montò sull’astrocar, tirò la levetta dell’aria, accese il motore a onde quantiche e partì, verso il secondo pianeta del sistema solare.
[1] Relazione tenuta il 29 febbraio 2024 al Convegno Giudicati e riti del processo amministrativo, svoltosi a Trieste il 29 febbraio 2024 per la cura di Andrea Crismani.
L’intervento trae ispirazione da una suggestione del saggio di Alberto Romano, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205 del 2000 (epitaffio per un sistema), Dir. proc. amm., 2001, 602 s. Esso è, dunque, dedicato al suo Autore, tanto più che gli si è profondamente grati per il suo insegnamento.
Si sente, inoltre, la necessità di riconoscere un certo debito anche nei confronti di Douglas Adams e di Giulio Cesare Croce.
Il breve appunto mira a ripercorrere le soluzioni adottate dalla Sezioni Unite, con informazione provvisoria degli esiti dell’udienza dello scorso 29 febbraio 2024 conforme alle richieste della Procura Generale, in ordine al perimetro di utilizzabilità dei contenuti delle comunicazioni intercorse attraverso i criptofonini dedicati all’utilizzo dell’applicazione Sky ECC.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Le ordinanze di rimessione della Terza e della Sesta sezione penale della corte di Cassazione ed il contenuto dell’informazione provvisoria - 3. Le modalità di acquisizione della prova: Autorità legittimata e strumento processuale applicabile - 4. Rispetto dei principi di necessità, proporzionalità ed equivalenza. La natura delle comunicazioni acquisite attraverso piattaforma “Sky ECC” e l’autonoma competenza del Pubblico Ministero, organo della giurisdizione - 5. L’utilizzabilità delle acquisizioni e la verifica dell’Autorità Giurisdizionale dello Stato di emissione dell’OEI del rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo. - 6. Conclusioni.
1. Introduzione
Negli ultimi mesi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito processual-penalistico la questione relativa all’utilizzabilità dei contenuti comunicativi veicolati attraverso l’applicazione Sky ECC, utilizzabile esclusivamente in criptofonini dedicati, che – quanto meno nella prospettazione dei loro programmatori Sky Global – sarebbero dovuto restare inviolabili, grazie all’uso di plurimi sistemi di cifratura, presenti sia negli apparecchi mobili che nel server centrale, idonei a garantire la segretezza delle comunicazioni e la non conservazione dei contenuti scambiati.
In estrema sintesi, l’applicazione funziona su telefonini elaborati con apposita scheda SIM e sistema operativo dedicato. Le chiamate non si appoggiano alla rete GSM e la messaggistica si avvale di un sistema c.d. “peer to peer” con l’interpolazione di un server fra mittente e destinatario, ove i dati venivano archiviati, prima di transitare al destinatario finale, attraverso vari livelli di cifratura avanzata che rendono non intercettabile il contenuto, a meno che non si conoscano le chiavi di cifratura.
Grazie al “servizio” offerto, i criptofonini Sky ECC sono ben presto diventati uno strumento indispensabile per strutture criminali organizzate, ed in particolare per narcotrafficanti di rango internazionale, capaci di movimentare ingentissimi quantitativi di stupefacente.
A partire dal giugno 2019 l’Autorità Giudiziaria francese, sulla scorta di una cooperazione di polizia fra Francia, Olanda e Belgio, nell’ambito di un’attività di indagini relativa ad un’ipotesi di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, ha iniziato a comprendere il funzionamento del sistema dei criptofonini, adottando provvedimenti di intercettazione e, successivamente, con l’installazione di un programma informatico sul server centrale, riuscendo a cogliere le chiavi di cifratura necessarie per la decrittazione dei dati, per poi giungere, nel marzo 2021, al sequestro dei server OVH su cui Sky ECC conservava copia della cronologia delle conversazioni. Di tali server è stata effettuata copia forense e, grazie anche alla consueta cooperazione veicolata attraverso Eurojust e gli organi di cooperazione di polizia internazionale, ne è stata data informazione dell’esistenza alle autorità giudiziarie potenzialmente interessate sul territorio nazionale.
Sequenzialmente, numerose Procure della Repubblica hanno chiesto copia del “dato statico” acquisito attraverso il menzionato sequestro dei server, ottenendo la disponibilità di un bagaglio di informazioni di unico rilievo probatorio.
La ritenuta inviolabilità del mezzo di comunicazione è risultata, infatti, direttamente proporzionale alla chiarezza delle informazioni trasmesse, prive di contenuti “criptici” e spesso associate a materiale fotografico ritraente l’oggetto delle illecite transazioni.
In contesti dove i tradizionali mezzi di intercettazione telefonica non consentivano di permeare talune dinamiche criminali, il dato conoscitivo di Sky ECC – seppur statico (questione centrale in relazione alla natura delle chat) – ha generato uno tsunami investigativo con sequenziali richieste cautelari per fatti dall’elevato disvalore penale e, sequenzialmente, un proliferare di questioni difensive sollevate in sede di riesame ed approdate in Corte di Cassazione, ove sono sorti contrasti che hanno richiesto la remissione alle Sezioni Unite Penali che, con pronuncia attesissima nell’ambiente, si sono determinate alla scorsa udienza del 29/2/24.
2. Le ordinanze di rimessione della Terza e della Sesta sezione penale della Corte di Cassazione ed il contenuto dell’informazione provvisoria
Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere due distinti ricorsi: il ricorso N.R.G. 33544 del 2023, ric. GJUZI Ermal (fatti relativi ad ipotesi di narcotraffico internazionale con contestazioni per oltre 5 quintali di stupefacente del tipo eroina, cocaina e derivati della cannabis) ed il ricorso N.R.G. 41618/2023, ric. GIORGI Bruno e GIORGI Sebastiano (fatti relativi a contestazioni di narcotraffico internazionale verso il territorio calabrese addebitabili, in ipotesi investigativa, a tre distinte organizzazioni criminali).
Nel ricorso GJUZI, con ordinanza n. 47798/2023 del 3/11/23, dep. 30/11/23, la Terza sezione della Suprema Corte portava all’attenzione della Sezioni Unite le seguenti questioni controverse:
a) Se il trasferimento all’Autorità giudiziaria italiana, in esecuzione di ordine europeo di indagine, del contenuto di comunicazioni effettuate attraverso criptofonini e già acquisite e decrittate dall’Autorità giudiziaria estera in un proprio procedimento penale, costituisca acquisizione di documenti e di dati informatici ai sensi dell’art. 234-bis cod. proc. pen. o di documenti ex art. 234 cod. proc. pen. ovvero sia riconducibile ad altra disciplina relativa all’acquisizione di prove.
b) Se il trasferimento di cui sopra debba essere oggetto di verifica giurisdizionale preventiva della sua legittimità, nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine.
c) Se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine».
Ai quesiti sopra illustrati, secondo quanto diffuso dall’informazione provvisoria, sono state date le seguenti soluzioni:
primo quesito: il trasferimento di cui sopra rientra nell’acquisizione di atti di un procedimento penale che, a seconda della loro natura, trova alternativamente il suo fondamento negli artt. 78 disp. att. cod. proc. pen., 238, 270 cod, proc. pen. e, in quanto tale, rispetta l’art. 6 della Direttiva 2014/41/UE;
secondo quesito: negativa, rientrando nei poteri del pubblico ministero quello di acquisizione di atti di altro procedimento penale;
terzo quesito: affermativa; l’Autorità giurisdizionale dello Stato di emissione dell'ordine europeo di indagine deve verificare il rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo.
Nel ricorso GIORGI, con ordinanza n. 2329/2024 del 15/1/24, dep. 18/1/24, la Sesta sezione della Suprema Corte dava atto della presenza di un contrasto giurisprudenziale, rimettendo alle Sezioni Unite i seguenti quesiti:
a) Se l’acquisizione, mediante ordine europeo d’indagine, dei risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera, in un proprio procedimento, su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini integri l’ipotesi disciplinata, nell’ordinamento nazionale, dall’art. 270 cod. proc. pen.
b) Se, ai fini dell’emissione dell’ordine europeo di indagine finalizzato al suddetto trasferimento, occorra la preventiva autorizzazione del giudice.
c) Se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine»
Ai quesiti sopra illustrati, secondo quanto diffuso dall’informazione provvisoria, sono state date le seguenti soluzioni:
Primo quesito: affermativa.
Secondo quesito: negativa.
Terzo quesito: affermativa; l’Autorità giurisdizionale dello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine deve verificare il rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo.
3. Le modalità di acquisizione della prova: Autorità legittimata e strumento processuale applicabile
Dei tre quesiti specularmente trattati nei ricorsi, dalla lettura dell’informazione provvisoria, la soluzione al quesito n. 2, ovvero quello relativo alla necessità – o meno – di una preventiva autorizzazione del giudice nazionale per il trasferimento dei contenuti Sky ECC, non lascia alcun dubbio interpretativo.
Ed in particolare, dalla lettura combinata delle due informazioni provvisorie, si evince come sia stato dichiarato legittimo l’operato del Pubblico Ministero che emetta, senza la preventiva autorizzazione del Giudice nazionale, un ordine di indagine europeo finalizzato al trasferimento di risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera, ovvero funzionale all’acquisizione di atti di altro procedimento penale (sul punto, si rimanda alle considerazioni che seguono in ordine all’individuazione della natura delle chat Sky ECC acquisite).
Ed in particolare, con la premessa che, come statuito dall’art. 1 par. 1 della direttiva OEI 2014/41/UE (attuata nell’ordinamento interno con d.lgs. 108/17), l’ordine di indagine europeo può essere emesso anche “solo” per ottenere prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione, risulta pacifico che in caso di attività di intercettazione ritualmente svolta nell’ambito di un procedimento da parte dell’A.G. straniera, il Pubblico Ministero potrà richiederne il trasferimento delle risultanze ai sensi degli artt. 1 e 10 della citata direttiva, senza una previa autorizzazione del Giudice nazionale, così come potrà richiedere, autonomamente, la trasmissione di atti di un procedimento penale compiuti dall’A.G. straniera.
Di converso, per procedere alla “mera” esecuzione delle operazioni di intercettazione, naturalmente, è necessario un vaglio del giudice dello Stato emittente che le autorizzi (diversa è l’ipotesi in cui nello Stato di esecuzione è pendente altro procedimento per fatti connessi o collegati e ivi si richieda, in forma di coordinamento tra A.G. lo svolgimento di operazioni di intercettazione, previo espletamento della relativa sequela autorizzativa nazionale).
È evidente dunque come, da un lato, ai sensi dell’art. 27 d.lgs. 108/17, il Pubblico Ministero, nella fase delle indagini preliminari, è l’organo legittimato ad emettere un OEI finalizzato ad acquisire una prova già disponibile presso l’Autorità Giudiziaria straniera, trasmettendolo direttamente allo Stato d’esecuzione.
E d’altro canto, sulla scorta della tipologia della prova concretamente richiesta (acquisizione di esiti di intercettazione, ovvero di atti di altro procedimento penale iscritto presso l’Autorità Giudiziaria), risulta altrettanto pacifico come non sia necessario un preventivo vaglio autorizzativo del Giudice nazionale, ben potendo, in entrambi i casi, il Pubblico Ministero provvedere autonomamente.
4. Rispetto dei principi di necessità, proporzionalità ed equivalenza. La natura delle comunicazioni acquisite attraverso piattaforma “Sky ECC” e l’autonoma competenza del Pubblico Ministero, organo della giurisdizione
Il Pubblico Ministero, nella sua collocazione funzionale nel sistema giurisdizionale interno, ai fini dell’emissione dell’OEI (art. 27 d.lgs. 108/17), dovrà valutare la sussistenza dei requisiti di necessità e proporzionalità, nonché della possibilità di disporre dell’atto istruttorio alle stesse condizioni in un caso interno analogo (principio di equivalenza), come precisato all’art. 1 della direttiva 2014/41/UE: “1. L'autorità di emissione può emettere un OEI solamente quando ritiene soddisfatte le seguenti condizioni: a) l'emissione dell'OEI è necessaria e proporzionata ai fini del procedimento di cui all'articolo 4, tenendo conto dei diritti della persona sottoposta a indagini o imputata; e b) l'atto o gli atti di indagine richiesti nell'OEI avrebbero potuto essere emessi alle stesse condizioni in un caso interno analogo.”.
Sul punto, anche ai fini della “decriptazione” della portata contenutistica delle informazioni provvisorie della Suprema Corte, risulta di estremo interesse la lettura della pregevole memoria di udienza depositata dalla Procura Generale, risultando l’esito dell’udienza indicato come conforme alle conclusioni della stessa Procura Generale.
Secondo quanto ricostruito, ed in estrema sintesi, l’attività definita di intercettazione muoveva da un’indagine riguardante soggetti determinati (e non un controllo diffuso come sottolineato da più tesi difensive) e si è sostanziata, inizialmente, nell’installazione di un primo trojan dall’A.G. di Lille (giugno 2019) che ha consentito di apprendere le chiavi di decrittazione del server (e, dunque, non in un’attività di intercettazione riconducibile al paradigma normativo interno di cui all’art. 266 c.p.p. ma, al più, vedi infra, quello di cui all’art. 266 bis c.p.p.); successivamente, l’A.G. di Parigi (dicembre 2020) ha installato un ulteriore trojan nel server che ha consentito di acquisire le chiavi di cifratura dei singoli apparecchi telefonici (anche in questo caso non un’attività di intercettazione ex art. 266 c.p.p.) e, solo successivamente, grazie all’installazione di un ulteriore trojan, è stato possibile prendere contezza dei contenuti delle comunicazioni, con successivo sequestro dei server contenenti la copia della cronologia nel marzo 2021. Soltanto in questo momento della progressione investigativa, acquisite le chiavi di decrittazione del server e dei criptofonini, è stato possibile prendere contezza dei contenuti – sbalorditivi in termine di prova dei reati – delle conversazioni intercorse sulla piattaforma.
In questo modo, è stato acquisito un dato freddo, statico, che, successivamente, grazie alle comunicazioni intercorse, è stato oggetto dei vari OEI emessi da numerosi uffici inquirenti italiani ed esteri.
È bene precisare, a tal proposito, a conferma della proporzionalità dello strumento di indagine utilizzato come, a fronte del sequestro di un server tout court, unico mezzo per garantire la conservazione dei contenuti, l’analisi ha riguardato target specifici, associati ad apparati telefonici collegati a PIN individuati ed attribuiti, con certezza, a singoli autori di reati operanti sul territorio.
La previa contezza della disponibilità di siffatti criptofonini ha garantito la selezione investigativa, in ossequio al principio di proporzionalità, ancora richiamato dall’art. 6 della direttiva OEI.
Sulla verifica della sussistenza del requisito di necessità dovrà farsi riferimento ai singoli casi specifici, pur potendo osservare sin d’ora che, stante la natura illecita delle transazioni in essere, il disvalore delle vicende trattate (i criptofonini erano apparecchi costosi ed il cui mantenimento imponeva un costo mensile), è del tutto ragionevole ritenere come i contenuti delle chat Sky ECC siano risultati non solo necessari, ma senz’altro indispensabili ai fini della prova dei reati oggetto di contestazione, in assenza di comunicazioni intercorse con strumenti “ordinari”.
Ciò detto in punto di necessità e proporzionalità, al fine di verificare il rispetto del principio di equivalenza, la questione centrale sarà quella di individuare quale sia l’istituto processuale che, sulla scorta della lex fori interna, consentirebbe l’acquisizione della prova nel procedimento penale italiano, evitando così l’elusione di eventuali divieti di acquisizione probatoria.
Dalla lettura dell’informazione provvisoria, sembra potersi escludere la riconducibilità della fattispecie all’ipotesi di cui all’art. 234 bis c.p.p. in quanto, da un lato, nell’ottica dello Stato emittente, il dato risulta già essere stato acquisito dall’Autorità Giudiziaria francese e non è stata richiesta l’acquisizione in quanto presente in rete o su un server e, d’altro lato, anche dal punto di vista dello Stato di esecuzione, in quanto quel dato non è stato acquisito con il consenso della società fornitrice ma attraverso attività di intercettazione prima e di sequestro poi, progressione investigativa resasi necessaria alla luce della peculiarità dell’architettura della piattaforma Sky ECC.
Ancora, altra ragione che indurrebbe ad escludere la riconducibilità dell’acquisizione all’ipotesi di cui all’art. 234 bisc.p.p. deriva dalla qualificazione delle chat come forma di corrispondenza anche dopo la ricezione (e, dunque, anche in fase “statica”) e non già come documento o dato informatico, e ciò anche sulla scorta di una recente pronuncia della Consulta, la numero 170/23, emessa nella nota vicenda relativa ad un’ipotesi di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato a seguito dell’acquisizione di plurime comunicazioni del senatore Renzi, disposta nell’ambito di un procedimento penale a carico dello stesso senatore ed altri ed in assenza di una previa autorizzazione da parte del Senato della Repubblica.
Un altro tema è, evidentemente, quello relativo alla legittimazione del Pubblico Ministero a richiederle senza l’autorizzazione del Giudice per le Indagini Preliminari. Sul punto, come già poc’anzi accennato, ed in assenza allo stato di una normativa che imponga che l’acquisizione di dette comunicazioni, allorquando avvenga in un momento successivo a quello in cui sono intercorse, vada preventivamente autorizzata dal GIP, si ritiene rientri fra gli strumenti di indagine che il Pubblico Ministero, organo della giurisdizione, potrà autonomamente esercitare attraverso un motivato decreto di sequestro (emesso ai sensi degli artt. 253-254 c.p.p.).
Dunque, un provvedimento assolutamente legittimo e che, in un caso analogo interno, equivarrebbe ad un sequestro di corrispondenza, con ciò ritenendo rispettato il principio di equivalenza di cui all’art. 6 della Direttiva OEI.
In questi termini parrebbe intendersi il riferimento delle Sezioni Unite alla disciplina dell’art. 78 disp.att. c.p.p., norma che richiama l’art. 238 c.p.p., in relazione all’acquisizione di atti di un procedimento penale compiuti dall’autorità giudiziaria straniera. Il richiamo, infatti, potrebbe intendersi esteso anche al comma terzo dell’art. 238 c.p.p. che, come noto, disciplina l’acquisizione della documentazione di atti irripetibili fra cui, per l’appunto, quelli relativi ad un provvedimento di sequestro, strumento investigativo maggiormente compatibile con la fattispecie in esame, alla luce delle considerazioni sopra esposte.
Stante il rilievo della tematica anche nel diritto interno, si consenta una riflessione ritenendo auspicabile – seppur non prevedibile – il mantenimento di siffatto quadro normativo che consente al Pubblico Ministero di procedere, legittimamente, con un proprio provvedimento autoritativo, al sequestro di corrispondenza e ciò nel presupposto indefettibile della funzione giurisdizionale che anche il Pubblico Ministero esercita e che trova il suo fondamento nell’attuale assetto costituzionale e nelle norme del codice che disciplinano le indagini preliminari.
Ancora, a mente il contenuto dell’informazione provvisoria della Corte, si segnala che, anche qualora volesse attribuirsi all’attività di indagine eseguita dell’A.G. francese la natura di intercettazione in senso codicistico (art. 266 e ss. c.p.p.), quanto meno nella fase antecedente il sequestro dei server del marzo 2021, sarebbe comunque legittima l’utilizzazione nel processo penale interno, ai sensi dell’art. 270 c.p.p. ed in presenza dei presupposti della rilevanza ed indispensabilità per la prova di reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
In sintesi, dunque, a seconda della natura delle comunicazioni acquisite, verosimilmente da intendersi in base alla fase investigativa in cui l’A.G. francese ne ha avuto la disponibilità, se come dato freddo ovvero captato in tempo reale, l’acquisizione a mezzo OEI risulta legittima in quanto conforme anche al principio di equivalenza di cui all’art. 6 della direttiva 2014/41/UE trovando il suo fondamento, alternativamente, negli artt. 78 disp.att. c.p.p., 238 e 270 c.p.p.
5. L’utilizzabilità delle acquisizioni e la verifica dell’Autorità Giurisdizionale dello Stato di emissione dell’OEI del rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo
La questione trova il suo fondamento normativo all’art. 1 paragrafo 4 della direttiva 2014/41/UE in forza del quale: “La presente direttiva non ha l'effetto di modificare l'obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i principi giuridici sanciti dall'articolo 6 TUE, compresi i diritti di difesa delle persone sottoposte a procedimento penale, e lascia impregiudicati gli obblighi spettanti a tale riguardo alle autorità giudiziarie” ed all’art. 14 paragrafo 7 del medesimo testo che prevede che: “Lo Stato di emissione tiene conto del fatto che il riconoscimento o l'esecuzione di un OEI sono stati impugnati con successo conformemente al proprio diritto nazionale. Fatte salve le norme procedurali nazionali, gli Stati membri assicurano che nei procedimenti penali nello Stato di emissione siano rispettati i diritti della difesa e sia garantito un giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite l'OEI”.
Sul punto, in entrambi i ricorsi esaminati dalle Sezioni Unite, le Sezioni remittenti richiedevano alla Corte di valutare anche se l’utilizzabilità degli esiti investigativi (dunque un momento successivo all’attività di acquisizione) fosse soggetta ad un vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine di indagine europea. La risposta al quesito è stata affermativa ma, ciò non di meno, allo stato, residuano dubbi interpretativi sulla portata di tale statuizione.
Per provare a tracciare il perimetro dell’assunto della Suprema Corte sarà necessario muovere dalla disamina delle questioni relative alla fase della raccolta della prova nello Stato ricevente.
Come noto, la fase della raccolta della prova (formata o da formarsi) segue la lex loci, fatte salve eventuali formalità operative richieste dallo Stato di esecuzione ai sensi dell’art. 9 dir. OEI e dell’art. 33 d.lgs. 108/17. Tale assunto discende dal principio del mutuo riconoscimento fondante la cooperazione penale europea che implica una presunzione di conformità degli atti al diritto dell’Unione, a sua volta derivante dalla presunzione di sussistenza di un analogo livello di protezione dei diritti individuali.
Dall’informazione provvisoria si evince che, pur partendo da tale presupposto, è previsto un vaglio da parte dell’autorità giurisdizionale dello Stato emittente, ai fini dell’utilizzabilità degli esiti investigativi acquisiti, sul rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo.
Il vero nodo interpretativo da sciogliere è quello sull’ampiezza del contenuto della verifica demandata al giudice nazionale nonché sulla rilevabilità dell’eventuale violazione.
Ed in particolare, volgendo lo sguardo allo specifico caso dell’acquisizione delle chat di Sky ECC, è noto come la vicenda sia stata oggetto di specifiche impugnazioni nello Stato estero ed addirittura di un giudizio costituzionale che ne ha confermato la legittimità (decisione del Conseil constitutionnel francese n. 2022-987 QPC dell’8 aprile 2022), peraltro in forza di un ventaglio di provvedimenti emessi dall’Autorità Giudiziaria francese muniti di un profilo motivazionale particolarmente rafforzato (che, peraltro, in un’ottica di principio di equivalenza, rispetterebbe tutte le previsioni della disciplina interna in punto di intercettazioni).
Si pone quindi la necessità di assicurare un contenuto alla verifica del giudice nazionale che sia compatibile con il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni e la fiducia immanente ai rapporti tra gli Stati membri in tema di cooperazione penale.
In assenza di una manifesta – ad oggi – lesione dei principi inderogabili dell’ordinamento interno dello Stato di esecuzione (verifica demandata a quella A.G.), ai fini della necessità di una verifica ulteriore da parte del Giudice nazionale si ritiene non si possa prescindere da un’allegazione difensiva con la quale si eccepisca, in concreto, dove sia avvenuta l’eventuale lesione del diritto di difesa (o delle garanzie di un equo processo) e quali siano gli elementi fattuali che l’attestano. Si pensa ad esempio ad un’alterazione del dato informatico ricavabile dalla lettura del dato trasmesso dall’Autorità Giudiziaria francese che possa far dubitare della correttezza del contenuto trasmesso (magari riscontrabile dagli stessi interessati, sulla scorta del loro patrimonio conoscitivo diretto) che dovesse risultare non intellegibile.
Diversamente, si corre il rischio di introdurre un sindacato sulla legittimità degli strumenti investigativi per la raccolta delle prove dello Stato destinatario di un OEI che mal si concilia con i principi in punto di cooperazione penale.
Tale conclusione, peraltro, trova conferma anche a mente l’iter procedurale in concreto adottato dagli investigatori francesi per giungere all’acquisizione delle chat di Sky ECC, assolutamente legittimo e come tale giudicato dall’Autorità Giudiziaria straniera.
In particolare, anche sul punto, pare cogliere nel segno l’osservazione della Procura Generale che, ricostruendo la complessità del sistema tecnologico indagato, inquadra questa prima fase della progressione investigativa nell’ambito della previsione di cui all’art. 266 bis c.p.p., trattandosi, di fatto, di un’intercettazione di flussi di comunicazioni intercorsi tra sistemi informatici, sub specie dell’algoritmo di decifrazione di un flusso di dati già captato (diversamente opinando, si darebbe infatti ingresso ad uno spazio di immunità, non risultando intercettabile tale dato). In questo caso, pertanto, non sembra necessario un richiamo alla norma confinaria di cui all’art. 189 c.p.p., ovvero inquadrando l’operato degli investigatori francesi quale prova atipica, pur in passato avendo la Suprema Corte adottato tale soluzione in una fattispecie analoga (Sez. 5, Sentenza n. 16556 del 14/10/2009 Ud. (dep. 29/04/2010) Rv. 246954).
Ancora, di fondamentale rilievo al fine di ritenere garantito il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo (sub specie del diritto alla riservatezza delle comunicazioni) è la considerazione per cui l’intercettazione del server è stato soltanto il precedente logico funzionale all’acquisizione delle chiavi di cifratura per procedere ad una successiva intercettazione dei criptofonini di interesse investigativo singolarmente individuati e non già, come da taluno paventato, una forma di intercettazione massiva con target indeterminato.
Il successivo sequestro del server (in ipotesi contenente anche conversazioni non aventi rilievo penale) è assimilabile al sequestro di un insieme di cose, fra cui anche cose pertinenti al reato, inscindibile nella sua unitarietà a pena di disperdere la prova (peraltro di enorme rilievo investigativo) e dal quale, in seguito, sono state effettuate acquisizioni parziali, sulla scorta di una selezione effettuata sulla base di altre evidenze investigative. Ad esempio, allorquando nel corso di indagini nazionali sono stati sequestrati criptofonini, ovvero ne è stata accertata la disponibilità da parte degli indagati a mezzo captazione tradizionale, è stata richiesta la trasmissione, a mezzo OEI, delle relative conversazioni intrattenute, previa indicazione dell’identificativo del PIN di interesse. PIN che poi, se presente nel server sequestrato, è stato oggetto di materiale consegna allo Stato di emissione. Dunque, è stata adottata una procedura di selezione che nulla ha a che vedere con un’indiscriminata violazione del diritto alla riservatezza individuale, da taluno paventata (questione che, al contempo, si intreccia con il positivo vaglio in ordine al prerequisito della proporzionalità dell’emissione dell’OEI).
E se violazione vi dovesse essere stata, sarebbe onere della Difesa dedurla, allegando circostanze concrete a fondamento dell’eccezione. Diversamente, come detto, si corre il rischio di traslare eccezioni processuali su un piano astratto. Ed anche in questo caso, comunque, facendo soltanto riferimento all’iter procedurale assunto dagli investigatori francesi (ed a quello seguito dai Pubblici Ministeri richiedenti), rileverebbero le considerazioni espresse al paragrafo che precede che ne provano la piena legittimità.
In questa prospettiva, pare immune da censure anche la decisione assunta nello Stato di esecuzione che ha apposto il segreto di stato alle chiavi di cifratura della piattaforma. Lo strumento, verosimilmente attivato per la natura di taluno dei contenuti captati, è previsto nell’ordinamento interno ed è stato ritenuto legittimo dal Conseil constitutionnel nella decisione già menzionata dell’aprile 2022. Non si ritiene, pertanto, che possa essere richiesto, a fini difensivi, l’esibizione delle chiavi di cifratura, pena violazione del diritto di difesa.
Diverso è il tema dell’attendibilità della prova, ovvero quanto il contenuto della chat risulti esplicativo del fatto qualora, ad esempio, la ricostruzione dovesse risultare incompleta per carenza parziale dei contenuti del “Pin”, ovvero per assenza dei contenuti del “Pin” interlocutore. Tale profilo non attiene ad un’eventuale elusione del diritto di difesa bensì, al più, alla forza esplicativa della prova acquisita.
6. Conclusioni
La soluzione adottata dalla Suprema Corte, conforme alle conclusioni della Procura Generale, pare certificare la legittimità dell’operato degli uffici requirenti che hanno, autonomamente e senza un preventivo vaglio del Giudice nazionale, disposto l’acquisizione delle chat di Sky ECC attraverso l’emissione di ordini d’indagine europei.
Nelle vicende attenzionate, inoltre, risulta correttamente applicato l’art. 6 della Direttiva 2014/41/UE, in punto di verifica dei presupposti di necessità, proporzionalità ed equivalenza ai fini dell’emissione di un OEI.
Ancora, fatte salve valutazioni nel caso concreto sulla scorta di un onere di allegazione difensiva, presupposto il principio del mutuo riconoscimento fondante la cooperazione penale europea che implica una presunzione di conformità degli atti al diritto dell’Unione, a sua volta derivante dalla presunzione di sussistenza di un analogo livello di protezione dei diritti individuali, si ritiene che non vi sia stata alcuna violazione nel rispetto dei diritti fondamentali (comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo).
Altro sarà valutare, caso per caso, eventuali emergenze che inducano a ritenere come, nella fattispecie esaminata, vi sia stata un’effettiva contrazione dei diritti difensivi ma che dovrà fondarsi, evidentemente, su elementi in concreto che inducano a ritenere come questo possa essere accaduto.
Un’ultima riflessione; progressivamente aumenta la consapevolezza della dinamicità delle organizzazioni criminali che, sfruttando il progresso tecnologico, eludono le investigazioni tradizionali, non consentendo un’adeguata repressione di fenomeni di peculiare gravità. È necessario che gli investigatori seguano il passo, ricevendo risorse e formazione adeguata. E di fronte a tale complessità è compito dell’interprete individuare gli strumenti giuridici che consentono di affrontarla.
Il lavoro ermeneutico cui è stata chiamata la Corte, per l’appunto, involge la complessità della vicenda “Sky ECC” nella sua pluralità di profili, anche di natura tecnico-informatica. Oggi, nel faro del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento interno, l’enorme materiale probatorio acquisito grazie all’acquisizione delle chat di Sky ECC assume una collocazione sistematica che consente di sostenerne la legittima acquisizione e la sua utilizzabilità nel processo, così peraltro attestando la nostra giurisprudenza a quella dei Tribunali di legittimità di altri Stati dell’Unione coinvolti in analoghi giudizi ed in attesa delle ulteriori statuizioni delle corti sovranazionali già investite della vicenda.
Oggi 10 marzo è la giornata internazionale delle donne in magistratura.
Ripubblichiamo il contributo del 10 marzo 2023, Il 10 marzo: la ricorrenza al di là della retorica di Maria Teresa Covatta che racconta la genesi di questa giornata nell’ambito della comunità internazionale, nonché le interviste di magistrate che hanno segnato passaggi importanti. L'intervista a Gabriella Luccioli, Consigli alle giovani magistrate, e l'intervista a Margherita Cassano, La prima magistrata nominata Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, quando è stata nominata Presidente Aggiunta.
Margherita Cassano è stata nominata Prima presidente della Suprema Corte di cassazione il 6 marzo 2023, ben 58 anni dopo l'entrata delle prime donne in magistratura.
Le magistrate italiane, nell'organo di governo autonomo, negli organi di formazione e nella dirigenza, sono presenti in percentuale ingiustificatamente bassa.
Il dato numerico offre la dimostrazione empirica che il percorso dal 1965 ad oggi è un percorso a ostacoli.
Riteniamo sia utile rileggere le Interviste in tema di lessico e la risposta dell'Accademia della Crusca al quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.
Anche il lessico è importare ai fini del riconoscimento del valore di genere.
Manca però, in questo contesto, la voce degli uomini, che devono divenire protagonisti e non più meri spettatori di questo cammino.
La Redazione si propone di realizzare una serie di interviste a magistrati perché possano dare un contributo di opinioni, idee e valutazioni utili a capire dov'è l'errore.
L'Accademia risponde a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione 09 marzo 2023
È recentemente giunta all'Accademia una domanda da parte del Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione riguardante la parità di genere nella scrittura degli atti giudiziari. La questione, molto sentita e molto attuale, tocca la quotidianità di chi lavora nei settori del diritto, dell’amministrazione della giustizia, della burocrazia delle istituzioni pubbliche, e interessa tutti i parlanti attenti a un uso della lingua che sia rispettoso delle differenze di genere: per questo la pubblichiamo volentieri nella sua interezza.
Risposta al quesito sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari posto all’Accademia della Crusca dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione
Premessa
A chi opera nel settore del diritto e dell’amministrazione della giustizia (cfr. in maniera specifica l’art. 121 del rinnovellato codice di procedura civile), così come a chi opera nella burocrazia delle istituzioni pubbliche, a tutti i livelli, è oggi richiesto di scrivere in modo chiaro e sintetico, secondo regole che da tempo sono state indicate, per le quali è necessario un addestramento attento e continuo che ne renda naturale e automatico il rispetto.
Un analogo addestramento costante serve per un uso della lingua attento alla prospettiva di genere. Nei molti manuali compilati da varie amministrazioni centrali e locali vengono di solito indicate e ripetute, in forma sostanzialmente identica, regole ispirate al modello proposto nel 1986-87 da Alma Sabatini, che ha introdotto queste tematiche nella nostra lingua, rifacendosi a sua volta al modello anglosassone. Alma Sabatini proveniva dalla cultura femminista del suo tempo e faceva riferimento in maniera esclusiva al rapporto tra donne e linguaggio, mentre oggi le rivendicazioni e le richieste di intervento si sono fatto più ampie, provenendo anche da parte di chi nega la tradizionale sistemazione binaria dei generi.
I principi tradizionalmente invocati per stabilire le regole o raccomandazioni per un uso della lingua rispettoso della parità di genere sono i seguenti:
1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare perché a torto considerato non marcato (da alcuni definito inclusivo o, meno correttamente, neutro);
2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi femminili, perché genera un’asimmetria con quelli maschili;
3) accordare il genere degli aggettivi con quello dei nomi che sono in maggioranza o più vicini all’aggettivo;
4) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne.
Alla base di questi assiomi sta il principio base, che consiste nella volontà di rompere qualunque eventuale asimmetria che distingua il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come discriminazione. Secondo chi sostiene questi principi, l’operazione non solo sana un’ingiustizia storica e ripulisce la lingua dai residui patriarcali di cui sarebbe ancora incrostata, ma ha anche una finalità educativa rispetto alla popolazione presente e futura, perché la lingua condizionerebbe la percezione della realtà, cioè il modo con cui le persone colgono e interpretano il mondo. Una simile concezione della lingua non è universalmente condivisa, e anzi c’è chi vede il pericolo di un eccesso di intervento. Le moderne neuroscienze (si considerino in Italia gli studi di Andrea Moro, ad es. La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo, La nave di Teseo, 2019) hanno messo in discussione il fatto che la lingua costituisca di per sé un condizionamento e un filtro rispetto alla percezione dei dati empirici reali. Inoltre illustri esponenti della cultura del secondo Novecento, come Lévi-Strauss e Dumézil, hanno insistito sul valore puramente formale del genere grammaticale, in quanto meccanismo strutturale della lingua ai fini del suo elementare funzionamento, molte volte totalmente estraneo alla componente del sesso. I principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno dunque sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali. D’altra parte queste mode hanno un’innegabile valenza internazionale, legata a ciò che potremmo definire lo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata: si veda a questo proposito il libro pubblicato dall’Accademia della Crusca «Quasi una rivoluzione». I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, con un saggio di Giuseppe Zarra e interventi di Claudio Marazzini, a cura di Yorick Gomez Gane, 2017. Da ultimo, si deve prendere atto della connessione tra il tentativo di definire le regole di un linguaggio che dovrebbe escludere ogni vera o presunta discriminazione di genere, e l’aspirazione più ampia a un linguaggio ‘politicamente corretto’, tale da restituirci una lingua edenica e immacolata. Anche questa aspirazione ha dato luogo a polemiche, specialmente quando ha imboccato la deriva che porta verso la cosiddetta “cultura della cancellazione”, la quale comincia a farsi sentire anche in Italia. Ovviamente va tenuta distinta la libertà della lingua comune nel suo impiego individuale, nella varietà degli stili e delle opinioni, dall’uso formalizzato da parte di organismi pubblici. Anche l’uso giuridico rientra in questa possibile regolamentazione che investe l’impiego della lingua da parte di istituzioni dello Stato, ben distinta da altre funzioni della comunicazione (familiare, scherzosa, artistica ecc.), alle quali occorre per contro garantire la massima libertà.
Alla luce di questa premessa, l’Accademia, sentito il parere del Servizio di consulenza linguistica e del suo coordinatore, e dopo approfondita discussione in seno al Consiglio direttivo, fornisce in forma sintetica le indicazioni che seguono.
Indicazioni pratiche
Evitare le reduplicazioni retoriche. In base al principio della concisione ai quali si ispira la revisione generale attualmente in corso del linguaggio giuridico, sono da limitare il più possibile interventi che implichino riferimento raddoppiato ai due generi, espediente pur largamente utilizzabile in contesti di pubblica oratoria e di valenza retorica. Intendiamo riferirci al tipo “lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, impiegati e impiegate” e simili. Per evitare questo allungamento della frase si possono scegliere altre forme neutre o generiche, per esempio sostituendo persona a uomo, il personale a i dipendenti ecc. Quando questo non sia possibile, il maschile plurale “inclusivo” (a differenza del singolare) risulta comunque accettabile.
Uso dell’articolo con i cognomi di donne. Nell’uso generale, non solo in quello giuridico, l’omissione dell’articolo determinativo di fronte al cognome si è negli ultimi anni particolarmente diffusa, non solo nel femminile, ma anche nel maschile, che lo ammetteva, nello standard, nel caso di personaggi celebri del passato (il Manzoni, il Leopardi ecc.). Oggi è considerato discriminatorio e offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile. Non entriamo nelle ragioni di questa opinione, che riteniamo scarsamente fondata. Tuttavia, per quanto estemporanea e priva di motivazioni fondate, l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto. Osserviamo ancora che, nel caso in cui si ometta l’articolo con preposto al cognome di persone celebri, non si verificano controindicazioni, ma in altri casi si manifesta un’evidente perdita di informazione (“La presenza di Rossi in aula” si riferisce a un uomo o una donna?); quando sia utile dare maggiore chiarezza al genere della persona, sarà sufficiente aggiungerne il nome al cognome, o eventualmente la qualifica (“La presenza di Maria Rossi” o “La presenza della testimone Rossi”).
Esclusione dei segni eterodossi e conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre. La lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di una priorità agli occhi di molti linguisti, e ad esso la scrittura deve corrispondere il più possibile. Inoltre il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere. È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…»). Lo stesso vale per lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano, ma utilizzata in alcuni dialetti della Penisola (nei quali peraltro non compromette sistematicamente la distinzione di genere tra maschile e femminile, così come quella di numero, tra singolare e plurale). La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto. In una lingua come l’italiano, che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti continua a essere il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare. Ugualmente si potrà usare il maschile non marcato quando ci si riferisca in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta: «Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 89, II c., Cost.).
Si tenga presente che il maschile non marcato è ben vivo nella lingua, nell’uso comune: “Tutti pronti?”, “Siete arrivati tutti?”, “Sono tutti sani e salvi!”, “Scendete tutti da quella barca: sta per affondare!”. In casi come questi, la reduplicazione, ammissibile nel discorso pubblico di un ministro o una ministra, di un rettore o una rettrice universitaria, di un sindaco o una sindaca, avrebbe effetti comici e inappropriati, specialmente in situazioni familiari o di urgenza. Inoltre, il maschile non marcato è in questi casi inevitabile: se lo si volesse annullare interpretando il maschile in maniera assurdamente rigida, occorrerebbe rivedere tutti i testi scritti italiani, compresi quelli giuridici, occorrerebbe insomma riscrivere milioni di pagine, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, che parla di “cittadini”, senza reduplicare “cittadini e cittadine”, ma intendendo che i diritti dei cittadini sono anche quelli delle cittadine.
Uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile. Si deve far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile. Questi nomi possono essere ricavati con l’applicazione delle normali regole di grammatica (ingegnere > ingegnera, il presidente > la presidente...). Ecco alcune indicazioni in proposito.
In italiano esistono diverse classi di nomi:
1) i nomi terminanti al maschile in -o hanno il femminile in-a: magistrato/magistrata; prefetto/prefetta; avvocato/avvocata; segretario/segretaria, segretario generale / segretaria generale; delegato/delegata; perito/perita; architetto/architetta; medico/medica; chirurgo/chirurga; maresciallo/marescialla; capitano/capitana; colonnello/colonnella.
2) i nomi terminanti in -e non suffissati (quindi per i nomi terminanti in -tore e -sore si veda più avanti) sono ambigenere, cioè possono essere sia maschili che femminili e affidano l’indicazione del genere all’articolo (e stabiliscono l’accordo di altri elementi: aggettivi, participi…): il preside / la preside; il presidente / la presidente; il docente / la docente; il testimone / la testimone; il giudice / la giudice; il sottufficiale / la sottufficiale; il tenente / la tenente; il maggiore / la maggiore; ess. con aggettivo: il consulente tecnico / la consulente tecnica; il giudice istruttore / la giudice istruttrice, NON la giudice istruttore. Fanno eccezione forme ormai entrate nello standard come studente/studentessa (per professore/professoressa, vedi più avanti).
3) i nomi suffissati:
3.1) i nomi terminanti in -iere: il suffisso -iere (pl. -ieri) al maschile, è al femminile -iera, (pl. -iere); ess: cavaliere (cavalieri) / cavaliera (cavaliere); cancelliere (cancellieri) / cancelliera (cancelliere); usciere (uscieri) / usciera (usciere), brigadiere (brigadieri) / brigadiera (brigadiere); nel caso di titoli onorifici come cavaliere del lavoro e commendatore va considerato che finora sono rimasti al maschile anche quando assegnati a donne;
3.2) i nomi o aggettivi terminanti in -a e in -ista: al singolare sono ambigenere, mentre al plurale danno al maschile -i e -isti, al femminile -e e -iste; ess: il/la collega, ma i colleghi / le colleghe; il pilota / la pilota, ma i piloti / le pilote; l’avvocato penalista / l’avvocata penalista, ma gli avvocati penalisti / le avvocate penaliste; l’avvocato civilista / l’avvocata civilista ma gli avvocati civilisti / le avvocate civiliste; fa eccezione poeta/poetessa:
3.3) i nomi terminanti in -tore: il suffisso -tore (pl. -tori) al maschile, è normalmente al femminile -trice (pl. -trici); ess: tutore/tutrice; rettore/rettrice; direttore/direttrice; ambasciatore/ambasciatrice; procuratore/procuratrice; istruttore/istruttrice; uditore giudiziario / uditrice giudiziaria;
3.3.1) eccezioni: hanno il femminile in -tora (pl. -tore) pretore/pretora; questore/ questora; e il femminile in -essa (pl. -esse) dottore/dottoressa;
3.4) nomi e aggettivi terminanti in -sore: il suffisso -sore (pl. -sori) al maschile, è al femminile -sora (pl. -sore); ess: assessore/assessora; difensore/difensora; estensore/estensora; revisore/revisora; supervisore/supervisora; fanno eccezione femminili ormai acclimatati come professore/professoressa.
3.5) nomi e aggettivi terminanti in -one (pl. -oni): hanno normalmente i femminili in -ona (pl. -one): commilitone/commilitona; fa eccezione campione/campionessa.
4) nomi composti:
4.1) composti con vice-, pro-, sotto- e 4.2) sintagmi con vicario, sostituto, aiuto: conta il genere della persona che deve portare l’appellativo: se è donna andrà al femminile secondo le regole del sostantivo indicante il ruolo, se è uomo andrà al maschile, senza considerare il genere della persona di cui è vice, vicaria/vicario, sostituta/sostituto; ess. Prosindaco (anche se il sindaco è donna) / prosindaca (anche se il sindaco è un uomo); vicesindaco/vicesindaca; sottoprefetto/sottoprefetta; sostituto procuratore / sostituta procuratrice; prorettore vicario / prorettrice vicaria; aiuto cuoco / aiuto cuoca.
5) Pubblico Ministero: Pubblica Ministera.
Si manterranno senza problemi i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche per il maschile, come la guardia giurata, la spia al servizio della potenza straniera, la sentinella, la guida turistica, nonché i nomi grammaticalmente maschili ma validi anche o solo per il femminile, come il membro e il soprano (ma è accettabile anche la soprano).
Sommario: 1. Riaprire Basaglia come strumento di conflitto – 2. Ciò che resta nascosto dalla monumentalizzazione – 3. Deistituzionalizzare la salute mentale – 4. Aspetti in un certo senso contrastanti – 5. Indicazioni conclusive.
1. Riaprire Basaglia come strumento di conflitto
«Ma, al momento attuale, siamo sicuri di poter incominciare a dedicarci alla «malattia»? Ciò che - nella nostra istituzione psichiatrica - è rimasto, dopo la serie di riduzioni successive che ha liberato il malato mentale dalle incrostazioni istituzionali e scientifiche di cui era coperto, è da ritenersi la «malattia»? O il peso dei ricoverati che - non avendo all’esterno una soluzione sociale - siamo costretti a continuare a gestire, ci impedisce ancora di essere ciò che vogliamo, obbligandoci a creare una nuova istituzione per poter sopravvivere? Questo è il segno della nostra impotenza, o dell’impossibilità di agire all’interno del sistema?»
Questa domanda proviene da “Il problema della gestione”, testo di Franco Basaglia che si trova tra le appendici del libro “L’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, uscito per la prima volta nel 1968[1]. Il brano testimonia delle riflessioni che si svolgono nel momento in cui l’equipe goriziana ha portato alle estreme conseguenze il lento processo di messa in questione delle rigide pratiche custodialistiche che vigevano nell’ospedale psichiatrico tradizionale[2] e si interroga su quello che avverte come un necessario passo avanti, costituito dall'apertura di traiettorie esistenziali fuori di esso, dalla possibilità, cioè, che il lavoro riabilitativo possa continuare a realizzarsi come vettore di modificazione della realtà esterna da cui la necessità del manicomio è prodotta, decostruendone praticamente le ingiunzioni e i mandati (“violentando” la società, dirà Franco Basaglia altrove[3]). All’interno dell’ospedale psichiatrico - che ormai è stato ampiamente “rimodernato” secondo i principi tolleranti della comunità terapeutica - si svolge una situazione in cui il paradigma dell’internamento non è stato ancora disinnescato ma all’interno dell’istituzione totale si sono messi a nudo i processi di spoliazione della soggettività e di copertura dell’esclusione sociale che la psichiatria del tempo pretendeva di coprire con l'artefatta neutralità della sua disciplina; in altri termini, «l'istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia è contemporaneamente messa tra parentesi e curata, l'atto terapeutico viene contemporaneamente rifiutato e agito». Ma, occupando tale posizione contraddittoria, si corre il rischio che le ideologie intervengano a coprire un vuoto caratterizzato da ansia e bisogno di elaborazione: «le contraddizioni rese esplicite da un’azione di rovesciamento istituzionale possono essere ricoperte sotto un’ideologia tecnico scientifica che le giustifichi (un’azalea che copra il puzzo di cadaveri)» scrivono infatti Franco Basaglia e Franca Ongaro nel testo che introduce “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerato e Gianni Berengo Gardin",[4] citando un verso di Bertold Brecht.
Questa posizione di interstizialità nello spazio disagevole che si apre tra contraddizioni incomponibili, questa capacità di stare tra irriducibili polarità, viene individuata da Paolo Peloso in uno scritto di qualche anno fa come l’azione fondamentale di ogni «psichiatria che non voglia essere pietrificata e pietrificante»[5]. Estendendo i confini di questo posizionamento al di fuori del contesto specifico a cui si riferisce - l’ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1968 - l’autore intende evidenziare un elemento qualificante della teoria e della prassi Basagliana, di cui è utile fare tesoro in ogni condizione storica. Tale caratteristica si potrebbe riassumere in questo modo: la capacità di cogliere in ogni situazione la parzialità di una soluzione organizzativa determinata, considerando l’aspetto relativo di ogni posizionamento tattico e strategico, l'attenzione a non essenzializzare le formulazioni momentaneamente utili in ogni passaggio storico e politico. Adottando tali precauzioni diventa possibile cogliere la dimensione processuale e conflittuale del reale, nella cognizione della impenetrabile opacità della dimensione soggettiva, mai totalmente oggettivabile in nessun sistema diagnostico o organizzativo, anche il più ammodernato e tollerante; questo contemporaneamente alla consapevolezza dell'irriducibilità delle questioni esistenziali, relazionali, sociali a qualsiasi modello di incontro clinico. Su un piano più generale la posizione Basagliana si potrebbe caratterizzare come consapevolezza dell'irriducibilità della dimensione politica ad alcuna posizione identitaria: in quanto sempre aperta alle smentite della prassi, a sua volta sempre caratterizzata dal confronto con l'imponderabile - se vuole essere liberatoria - e con la possibilità dell’incidente.
In occasione del centenario della nascita di Franco Basaglia è utile riaprire l’interrogazione sulla vicenda del movimento anti-istituzionale italiano, indagandone esiti, limiti ed eredità. Questo consente di esercitare un recupero della figura di Franco Basaglia che non sia una mera celebrazione ma che ne renda le pratiche e le riflessioni strumenti di azione nel presente. Si tratta quindi di capire quanti, dei sopra citati elementi qualificanti della prassi e della teoria Basagliana, sono vivi e operanti nella situazione attuale e quanti invece sono finiti inabissati man mano che il significante “Basaglia” diveniva un vuoto e formale riferimento utile alla legittimazione di strutture di potere, al nascondimento di lacune e carenze - strutturali e di pensiero - oppure funzionava come mero richiamo consolatorio, nell’assenza di possibilità di agire concretamente sulla storia presente.
Partiamo dal riprendere gli elementi potenzialmente conflittuali che in una gestione amministrativa della 180 non si sarebbero risolti. In primo luogo la consapevolezza che il modello di gestione dei sistemi assistenziali determina la condizione problematica a propria immagine: «in epoche successive la malattia e i suoi sintomi sono sempre stati influenzati e condizionati dai nuovi orientamenti terapeutici […], noi produciamo una sintomatologia - il modo di esprimersi della malattia - a seconda del modo col quale pensiamo di gestirla, perché la malattia si costruisce e si esprime sempre a immagine delle misure che si adottano per affrontarla»[6]. Tale consapevolezza, qui espressa in termini che non si riferiscono affatto allo specifico manicomiale ma pretendono di generalizzarsi ad ogni modello di gestione, dovrebbe - se vogliamo oggi Basagliare - divenire strumento di interrogazione sui sistemi attuali con cui, nei servizi e fuori di essi, affrontiamo l’incontro con l'alterità e la sofferenza, la questione della cura, le problematiche delle relazioni e le dinamiche gestionali ad esse connesse.
2. Ciò che resta nascosto dalla monumentalizzazione
Come ha spiegato Pierangelo Di Vittorio[7], la monumentalizzazione della figura di Basaglia ne rende unidimensionale la vicenda, risolve la sua prestazione dentro una concezione lineare della storia secondo cui, in un passato mitico, esprimendo una illuminata posizione unitaria - rappresentata da un eroe singolare (maschio, bianco, borghese, peraltro) - si é portata a compimento una domanda implicita nella sensibilità comune, dietro la spinta incoercibile del progresso[8]. Tale personalità eroica, necessariamente rappresentata senza limiti o contraddizioni, avrebbe in questa visione indicato precisi modelli di gestione e confitto nella struttura formale delle norme giuridiche gli insuperabili principi da cui essi discendono. Questa posizione produce inevitabilmente due insiemi di conseguenze, a loro volta polarizzati: da una parte la sua azione, di questo Basaglia monumentalizzato, non può che risultare incompiuta, dall’altra le sue proposte non possono che risultare superate. Guardiamo al primo punto, spesso criticamente citato da Angelo Fioritti[9]: se si prende il portato di Basaglia come una modellizzazione di come dovrebbero essere organizzati i servizi di salute mentale per erogare buone prestazioni di riabilitazione ma anche su come dovrebbe essere la società per permettere la cura delle malattie mentali, inevitabilmente il senso di incompiutezza non può che essere la posizione conseguente; tali letture, bloccando in una definizione reificata la descrizione di strutture e articolazioni, oscurano la questione centrale del metodo e dell’elaborazione basagliana: la continua ricerca scientifica, la verifica popolare e la capacità di azione soggettiva, legata ai processi conflittuali in atto. Riducendo specifiche articolazioni storiche a modelli se ne minimizza il peso. Il secondo punto, che potremmo definire dell'inattualità, permette di ricordare che la tensione tra utopia e realtà si nutre proprio attraverso questo movimento del pensiero. La capacità autocritica che ne consegue permette anche di notare come alcuni concetti qui centrali (“salute mentale” o “riforme”, per esempio) abbiano subito degli slittamenti semantici che proprio su questa tensione, necessariamente irrisolta, trovano il loro terreno di esistenza, non sempre in un verso compatibile con le pratiche anti-istituzionali.
Per quanto necessarie in certi momenti storicamente determinati, queste interpretazioni di Basaglia costituiscono una riduzione rispetto a una possibile lettura che, oltre a restituirne l’eponimo a una più ampia dimensione storica, collettiva, frammentaria, anche conflittuale tra diverse posizioni, elaborazioni e strategie (prima di tutto riconoscendo che Basaglia è anche Franca Ongaro Basaglia, sua moglie, fulcro teorico dell'elaborazione e protagonista attiva di questa storia fino al 2007) permetta di attualizzarne le riflessioni e le pratiche. Ciò che è in gioco è la possibilità di aprire un campo di contraddizioni attuali, situato nelle condizioni del presente e legato alla capacità di agire in esso. Per evidenziare due nodi particolarmente critici e attuali ci concentreremo qui su due possibili declinazioni della riflessione Basagliana che nella monumentalizzazione restano necessariamente oscurate: quello tra tecnica e politica e quello tra movimenti e istituzioni. Lungo la linea contorta di questi nodi - in una lettura monumentalizzata impossibili da dipanare - si sono giocate le polifonicità e i conflitti di un movimento immerso nei passaggi del proprio tempo: le lacerazioni della sinistra (nel 1978 il Partito Comunista Italiano appoggia sostanzialmente il teorema Calogero ai danni di un gruppo di intellettuali in vario modo legati alle organizzazioni extraparlamentari - si vedano su questo Xenia Chiaramonte e Dario Fiorentino[10] - difficile esagerare il significato di questo passaggio per le vicende del movimento basagliano negli anni ‘80) e le limitate elaborazioni sul rapporto tra le tecniche psicoterapeutiche e il servizio pubblico di salute mentale sono le questioni che maggiormente hanno inciso sulla storia di questo movimento.
La contraddizione, oggi ancora aperta, tra tecnica e politica è stata nuovamente illuminata dalle odierne riflessioni sul problema della trasmissibilità delle elaborazioni relative alla cura o sul rischio di una loro irrecuperabile assenza (si vedano a questo proposito Negrogno e Saraceno)[11]. Con Saraceno abbiamo provato a dare voce a questa crisi della psichiatria anti-istituzionale, che oggi prende forma attraverso due possibilità: la prima è che una clinica tradizionale (con contenuti di controllo, di oggettivazione, di neutralizzazione artefattamente oggettivistica di contraddizioni politiche e sociali) si eserciti in servizi che però nel frattempo si rappresentano come innovativi, avendo interiorizzato alcune linee guida dell’approccio Basagliano - per lo meno nella sua riduzione monumentalizzante a indicazione su come dovrebbero essere organizzati i servizi per erogare buone prestazioni riabilitative; oppure che la clinica anti-istituzionale esista, si svolga in un afflato difficilmente oggettivabile nei sistemi categoriali e nosografici che oggi egemonizzano la formazione di operatori e operatrici, la pratica e l’organizzazione dei servizi; che di conseguenza in qualche modo essa esista silenziosamente principalmente perché non sappia come definirsi. Questa seconda possibile interpretazione assume particolare forza quando vediamo i contenuti basagliani funzionare fuori dai contesti specifici della psichiatria o per esempio in Brasile come strumenti delle lotte e delle elaborazioni locali: lì risultano fungere da dispositivi in grado di autolimitare la loro invadenza coloniale e aprire a riflessioni impreviste che contribuiscono ad attivare il protagonismo di popolazioni razializzate, sex workers, psicanalistə lacanianə atipichə, variamente congiunte in peculiari fenomeni di lotta politica in cui è chiaro che riflettendo di riabilitazione ne va di diritti civili e, soprattutto, sociali (si veda Stella Goulart[12]).
Con Benedetto Saraceno abbiamo notato, in linea con il movimento delle persone che nel nord globale hanno avuto a che fare con la psichiatria e che variamente in ambito anglosassone si definiscono come users, survivors o refusers, l'aumento dei trattamenti sanitari obbligatori e della reclusione in strutture residenziali senza il consenso delle persone interessate, nonostante l'enfasi sui servizi territoriali/comunitari e sulle politiche di inclusione, anche quando queste contrapposte tendenze insistono nei medesimi territori. Tra gli altri aspetti critici - di cui ci sembra che la prassi che si richiama agli epigoni della lotta anti-istituzionale non abbia mantenuto sufficiente contezza - abbiamo notato la richiesta di risposte psicofarmacologiche poco messa in questione, la acritica accettazione di concetti come “recovery” e “partecipazione”, pur quando questi sono declinati come sinonimi della mera esortazione individualistica alla produttività, la natura ecumenica e superficiale della concezione "bio-psico-sociale", che non discute adeguatamente i propri limiti epistemici e le proprie articolazioni interne.
3. Deistituzionalizzare la salute mentale
Mario Colucci[13] ha provato a ricostruire una figura storica utile a questo recupero demonumentalizzante insistendo sul superamento del modello medico, ponendo cioè al centro della riflessione una questione che, ben lungi dall’esaurirsi nella critica al dispositivo manicomiale e alle sue successive articolazioni “diffuse”, incontra una critica epistemologica oggi espressa con forza dai movimenti delle persone disabili\disabilitate\con disabilità (a seconda di come preferiscano definirsi): «Basaglia, e successivamente Foucault, comprendono che bisogna provare a emancipare l’esperienza della follia dalla sola spiegazione di ordine medico che viene attribuita ai comportamenti, alle sofferenze, ma anche ai sentimenti e ai pensieri delle persone che la attraversano. In altri termini, bisogna affrancarsi dal sapere tradizionale della psichiatria, bisogna smontare i suoi metodi di produzione di una verità scientifica positiva.»
Riccardo Ierna, approfondendo la denuncia delle condizioni attuali, che nulla hanno a che vedere con il prendere sul serio l’eredità basagliana, getta luce sulla questione strutturale dei servizi. «Dai dati raccolti nell’annuario statistico del servizio sanitario nazionale relativo al 2020, emerge infatti che il 48,8% delle strutture ospedaliere del nostro paese sono gestite dalla sanità privata, così come il 60% dei servizi ambulatoriali, il 78% dei servizi riabilitativi e addirittura l’82% delle strutture residenziali, dando l’idea del peso che la sanità privata accreditata esercita oggi sul nostro sistema sanitario nazionale. Da questi numeri appare evidente che a farne le spese sono state soprattutto la qualità e l’efficacia del servizio pubblico, ulteriormente gravato dai tagli di spesa e dalla carenza di personale e in particolare quello della salute mentale territoriale[14].»
Difficile, nella situazione che Ierna tratteggia, pensare ad un sistema di salute mentale in cui le funzioni di prevenzione, cura e riabilitazione siano unitariamente trattate a livello territoriale attraverso pratiche di partecipazione - vale a dire di indirizzo, monitoraggio e riappropriazione popolare - e non invece compartimentate attraverso dinamiche che tornano ad annodare i vettori di tecnicismo, monetizzazione e prestazionismo sanitarizzante, in una dimensione di complessiva spoliticizzazione, anche della partecipazione (molto spesso evocata e rappresentata, piuttosto che agita). Effetto anch’esso nocivo della monumentalizzazione, si è venuto a creare un sentore diffuso secondo cui la salute mentale riguarda quelle articolazioni tendenzialmente residuali (integrazione sociosanitaria, partecipazione comunitaria, inclusione sociale) destinate a poco più che alla gestione povera della cronicità mentre il lemma “psichiatria” sta a sottolineare il core business della pratica tecnica che si occupa di gestione della pericolosità, controllo dei rischi sociali, amministrazione della devianza - sulla base di una stringente egemonia del sapere medico. Anche appoggiandoci a tali considerazioni, nel numero 398 della rivista Aut Aut dal titolo “La psichiatria e il futuro della salute mentale”[15] abbiamo provato a spiegare che
«al di là delle risorse, a mancare è anche la qualità del dibattito culturale pubblico. Psichiatria e salute mentale vengono fatte cozzare l’una contro l’altra come avversarie irriducibili. Viene descritto un contrasto artificioso tra le due, come se si trattasse di uno scontro tra modernità e arretratezza, quasi che la prima sia all’insegna dell’innovazione e dell’affidabilità perché centrata su un insegnamento universitario di impostazione biomedica e su un solido impianto scientifico basato sull’evidenza e sulla ricerca; e la seconda, invece, pur di gran lunga prevalente per numero di servizi e di utenti in trattamento, porti avanti soltanto un lavoro routinario di assistenza territoriale di scarsa qualità scientifica e disattento agli aspetti di rivoluzione tecnologica.
(...)
Si può onestamente dire che questo discorso imperante sia sulla stessa linea dell’originaria vocazione della salute mentale italiana immaginata da Basaglia? Nonostante la celebrazione dell’epopea trionfante della lotta al manicomio, ben poco è rimasto di quella tensione etico-politica. Siamo nell’epoca dei manager della salute mentale, che si qualificano come specialisti delle buone pratiche in funzione di un efficiente governo clinico della sofferenza, ma spesso nascondono le concessioni più inaccettabili accordate alle esigenze di controllo sociale e di sicurezza urbana. Il processo di deistituzionalizzazione era tutt’altra cosa.»
In altri termini, la riduzione del pensiero e della prassi basagliana ad una riflessione sulla struttura organizzativa dei servizi in vista dell'erogazione di prestazioni tecnico riabilitative rappresenta oggi una delle forme assunte dalla monumentalizzazione della figura di Basaglia; all’ombra di questo forzoso riduzionismo si è generata una polarità artefatta tra un cuore tecnico della disciplina psichiatrica e una serie di addentellati sociopolitici relativi alle formule organizzative del rapporto tra servizi e territorio, incapaci però di tematizzare la natura stessa di questo territorio al di fuori dalla sua dimensione amministrativa e oggettivistica (sul tema del territorio e delle sue diverse formulazioni si vedano i lavori di Massimiliano Minelli[16]). Se, in una prima fase immediatamente successiva alla promulgazione della legge 180, la presenza di una varietà di proposte alternative nel contesto nazionale aveva permesso un processo di embrionale produzione di nuovi saperi - il quale, seppur in misura limitata era riuscito a stimolare nuove articolazioni del rapporto tra tecnica e politica, anche inducendo i saperi psy a confrontarsi sul terreno di un’epistemologia pubblica di salute mentale - gli anni successivi hanno segnato il richiudersi di questo dibattito.
4. Aspetti in un certo senso contrastanti
All’interno della riflessione politica più generale, la vicenda di Franco Basaglia e delle vicissitudini dei suoi epigoni permette di mettere in evidenza in modo esemplare la parabola del riformismo in Italia. Avviatosi sulla spinta dei governi di centro sinistra degli anni '60, profondamente rinnovato dell’incontro con la contestazione antiautoritaria, con la crescita di coscienza della classe operaia, con le nuove istanze poste dal femminismo e dal proletariato giovanile, il percorso paradossale del riformismo italiano attraversa passaggi di importante formalizzazione mentre iniziano a farsi strada le tendenze reazionarie del neoliberismo e del restringimento della funzione redistributiva dello Stato[17]. Franco Basaglia ha subito viva consapevolezza della fragilità di tali conquiste giuridiche come anche della loro natura intimamente ambivalente.
«Man mano che i margini di lotta si chiudono ed il paese va strutturandosi con fatiche enormi, in una logica di paese industrializzato (...), si rende necessario programmare anche un nuovo tipo di assistenza. (...) È stato portato avanti un discorso di riforma sanitaria che colloca la psichiatria all'interno della sanità ed esce una legge, estrapolata dalle forze unitarie, che è indubbiamente molto interessante anche se presenta aspetti in un certo senso contrastanti. Da una parte, infatti, c'è il rischio che essa riproponga quella che è la mistificazione della psichiatria, dall'altra può essere considerata rilevante risultato delle lotte condotte in questi anni. (...) La nuova legge sull'assistenza psichiatrica e la nuova legge sulla regolamentazione dell'aborto (...) sono il risultato di un compromesso politico (...). Il cammino di queste leggi (...) sarà indicativo del destino stesso della riforma sanitaria nel nostro paese. Dal momento infatti che ambedue queste leggi inseriscono il sociale nell'ambito della medicina, che è quello di vecchio stampo (...), è sempre presente il pericolo che esse favoriscano ancora una volta una specie di mistificazione della realtà, medicalizzando i problemi ed ostacolando la presa di coscienza della dimensione sociale dei medesimi. Prevenzione è innanzitutto presa di coscienza. Il problema è che la gente capisca i propri bisogni e comprenda l'alienazione in cui vive[18].»
Se da una parte è stato possibile vedere nella l.180 la realizzazione delle proposte del movimento, con la sua promulgazione si è aperto un campo molto problematico di elaborazione le cui alterne vicende sono state pesantemente influenzate, a partire dagli anni ‘90, dai profondi slittamenti semantici che hanno attraversato lo stesso concetto di riformismo: la fase creativa apertasi tra gli anni ‘80 e ‘90 in modalità peculiari in ciascuno dei territori attivi nella sperimentazione e in assenza di un piano nazionale di governo dei servizi (si veda su questo l’impegno parlamentare di Franca Ongaro Basaglia negli anni ‘80, recentemente documentato da Anna Carla Valeriano[19]), attraverso grandi cesure legislative, politiche e istituzionali, ha visto progressivamente scollarsi l’elaborazione teorica dalla pratica dei servizi ed emergere in ruoli di sempre maggiore protagonismo il volontariato, l’associazionismo e il terzo settore. Nonostante i tentativi di elaborazione progressista delle possibili forme di riarticolazione istituzionale di questi concatenamenti[20], i modelli organizzativi che in essi hanno affondato le loro radici si sono affermati mentre si dispiegavano le forze dell’aziendalizzazione, le tendenze alla professionalizzazione del sociale e il richiudersi corporativo dei corpi professionali e disciplinari.
Mentre il concetto di riformismo veniva riarticolandosi come mera acquiescenza ai programmi di aggiustamento strutturale in senso neoliberale, la perdita di contatto con le elaborazioni dei saperi psi - nell’ambito della formazione universitaria e delle organizzazioni professionali - ha aperto all’invasione del campo della salute mentale da parte delle formulazioni tecniche più consone al progetto moderno di gestione medica delle popolazioni, riduzione della prevenzione a prestazionismo predittivo, rifunzionalizzazione in senso governamentale dei concetti potenzialmente emancipatori elaborati dai movimenti di utenti.
5. Indicazioni conclusive
Riccardo Ierna[21] ha descritto come praticamente questo processo si realizza nei servizi mettedone in luce la spoliticizzazione e il neutralismo. Per quanto astrattamente ricondotta a un quadro di diritti e libertà civili, la salute mentale che emerge dalle pratiche - più che apparire l’esito di un rivolgimento in termini anti-istituzionali della vecchia psichiatria - risulta essere una modalità del suo innervamento sociale che opacizza le questioni reali sovrapponendovi risposte artificiali, la cui declinazione pratica risulta però molto lontana dalle dichiarazioni cui allude. Si potrebbe parlare a tal proposito di una nuova “ideologia di ricambio” (concetto formulato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Baasglia, per utilizzazioni recenti di questo concetto si veda Emma Catherine Ghainsfort[22]) con cui si è ripreso un secolare percorso di innovazione della disciplina psichiatrica oltre e contro il momento di sospensione basagliana. Simili constatazioni portano Pietro Barbetta a dire, commentando il concetto di salute mentale, che si tratta di «un sistema di significati controverso; contiene la buona intenzione di teorizzare il benessere, ma la smentisce. Subito arriva l’elenco dei disturbi: ansia, depressione, stress, insonnia, ecc. Per dare una definizione di “salute mentale” bisogna evocare i nomi del disagio. Questo il paradosso del campo semantico “salute mentale”[23].»
Agostino Pirella, di cui Marica Setaro ha messo in luce il costante impegno per l’elaborazione un paradigma complesso capace di fronteggiare le sfide della deistituzionalizzazione negli anni ‘80 e ‘90[24], descriveva l’andamento di un processo politico in cui il movimento, superata la sintesi manicomiale, doveva predisporsi a nuove alleanze e alla costruzione di nuovi strumenti concettuali. In un momento in cui l’egemonia culturale e politica reazionaria tende a ravvivare le tendenze di controllo sociale intrinsecamente legate alla psichiatria, Pirella raccoglie la sfida di elaborare strumenti concettuali compatibili con la “crisi della ragione”[25]. Similmente oggi riemerge la necessità di costruire un nuovo dialogo tra tecniche e politiche, rinnovando l’attenzione epistemologica, antropologica e sociologica a quello che succede dentro e fuori dai servizi, nelle pratiche dell'incontro con l’alterità e nelle forme della sua oggettivazione e negli spazi della sua soggettività. Allo stesso modo si fa urgente riaprire l’interrogazione sul rapporto tra movimenti e istituzioni, anche sulla base di una più profonda lettura dei nostri archivi.
[1] Franco Basaglia, “L’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, Einaudi, 1968, ora Baldini + Castoldi.
[2] La descrizione pratica di questo processo si snoda lungo i vari capitoli del libro “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”. Oltre a quelle di Franco Basaglia, nel libro sono raccolte le riflessioni di Lucio Schittar, Antonio Slavich, Agostino Pirella, Letizia Jervis Comba, Domenico Casagrande, Giovanni Jervis, Franca Basaglia Ongaro e Gian Antonio Gilli, più l’importante documento iniziale curato da Nino Vascon sulle riunioni di equipe, lo svolgimento delle assemblee interne, i racconti e i punti di vista dei/delle infermieri/e e dei/delle pazienti internati/e, le esperienze delle altre figure coinvolte nel processo di trasformazione (suore, volontari, assistenti sociali); sono inoltre raccolte le narrazioni e le riflessioni relative alla progressiva trasformazione dei singoli reparti e le elaborazioni derivanti dal confronto tra il processo in corso a Gorizia e ciò che accade nel modello inglese di Comunità Terapeutica.
[3] Franco Basaglia, “Conferenze Brasiliane”, Cortina, 2018.
[4] A cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro nel testo che introduce “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerato e Gianni Berengo Gardin", Einaudi, 1969, ora Il Saggiatore.
[5] Paolo Peloso, “Ancora su L'Istituzione negata…perché 50 anni dopo è proprio da lì che dobbiamo ripartire” disponibile su http://www.psychiatryonline.it/node/7445.
[6] Basaglia, Franco; “Ideologia e pratica in tema di salute mentale”,(1975) in “Scritti”, 2, Einaudi, 1981, ora Il Saggiatore.
[7] “Costellazioni. Tra presente e passato: la salute mentale e le sfide della trasmissione” di Pierangelo Di Vittorio, in Di VIttorio, P. Cavagnero, B. (a cura di) Dopo la legge 180. Testimoni ed esperienze della salute mentale in Italia, Franco Angeli, 2019.
[8] “La “Repubblica dei matti” di John Foot ha avuto negli anni recenti il merito di problematizzare questa visione; “soltanto col senno di poi riusciamo a rimestare tra quelle braci accese, tentando di fare un po’ d’ordine» scrive l’autore nelle conclusioni, rispondendo al bisogno di ricostruire la visione complessa di una storia fatta di conflitti e sviluppi dialettici aperti. John Foot, “La «Repubblica dei matti». Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978”, Feltrinelli, 2017.
[9] Angelo Fioritti: “Chi non innova perde il proprio passato”, disponibile su Quotidiano Sanità, https://www.quotidianosanita.it/m/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=107853.
[10] Xenia Chiaramonte e Dario Fiorentino, “Il caso 7 aprile. Il processo politico dall'Autonomia Operaia ai No Tav”, Mimesis, 2019.
[11] Luca Negrogno e Benedetto Saraceno, “Ma come si curano le malattie mentali?”, disponibile su https://www.machina-deriveapprodi.com/blog/categories/freccia-tenda-cammello.
[12] Stella Goulart, “Reabilitar: uma perspectiva basagliana”. Porto Alegre: Rede Unida (in via di pubblicazione).
[13] Mario Colucci, “Effetto ‘61”, disponibile su https://www.news-forumsalutementale.it/conoscere-e-sperimentare-per-evolvere/.
[14] Riccardo Ierna, “Attualità e contraddizioni della via italiana al dopo riforma”, Aut Aut, Vol. 398: “La psichiatria e il futuro della salute mentale”, Il Saggiatore, 2023.
[15] A cura di Mauro Bertani, Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, Aut Aut, Vol. 398: “La psichiatria e il futuro della salute mentale”, Il Saggiatore, 2023.
[16] Massimiliano Minelli, “Salute mentale e territorio”, Rivista della Società italiana di antropologia medica/49, giugno 2022.
[17] Scrive a proposito Vanessa Roghi: «In Italia, per un incredibile scherzo della storia, il nuovo paradigma neoliberale inizia a diffondersi proprio mentre stanno prendendo corpo alcune delle più avanzate leggi dello Stato democratico come, per esempio, quella sulla chiusura dei manicomi, sull’aborto e, last but not least, quella che istituisce, con cinquant’anni di ritardo rispetto all’Inghilterra, il sistema sanitario nazionale» in “Eroina. Dieci storie di ieri e di oggi”, Mondadori, 2022. Come scrive Maria Grazia Giannichedda nell’introduzione all’edizione italiana delle Conferenze Brasiliane, nel 1979 «Basaglia parla da un passato presente nel quale i segni del cambiamento oggi compiuto erano già visibili, da una fase già "post-manicomiale" potremo dire, di cui Basaglia rintraccia le radici nei riformismi del secondo dopoguerra, guardando all'Europa e all'Italia ma anche agli Stati Uniti. Questo gli consente, per esempio, di evidenziare le due opposte anime politiche che anche in Italia vedremo all'opera nella chiusura dei grandi istituti pubblici di internamento: l'anima "reaganiana" dei tagli alla spesa pubblica e dell'abbandono dei malati, e quella dei diritti di cittadinanza e dell'"offerta di un'alternativa di cura", che qualifica la nuova legge italiana e che per Basaglia è la sola che potrebbe portare davvero "al superamento dei manicomi come distruzione dei meccanismi dell'istituzione”»; Maria Grazia Giannichedda, “Introduzione” in “Conferenze Brasiliane”.
[18] Intervista a Franco Basaglia a cura di Luigi Onnis e Giuditta Lo Russo, in “Dove va la psichiatria?” Feltrinelli, 1980.
[19] Anna Carla Valeriano, “Contro tutti i muri. La vita e il pensiero di Franca Ongaro Basaglia”, Donzelli, 2022.
[20] Il più significativo è senza dubbio in Ota De Leonardis, Diana Mauri e Franco Rotelli, “L'impresa sociale”, Anabasi, 1994.
[21] Riccardo Ierna, “Attualità e contraddizioni della via italiana al dopo riforma”, in Aut Aut, Vol 398: “La psichiatria e il futuro della salute mentale”, Il Saggiatore, 2023.
[22] Si veda Emma Catherine Gainsforth, “La razza, la classe e l’inclusione neoliberale”, 2023. Disponibile su: https://www.dinamopress.it/news/la-razza-la-classe-e-linclusione-neoliberale/.
[23] Pietro Barbetta, “Che cos’è la Salute Mentale” disponibile suhttps://www.doppiozero.com/che-cosa-e-la-salute-mentale.
[24] Marica Setaro, “Diario teorico di uno psichiatra. Un profilo di Agostino Pirella”, in Aut Aut, Vol 385: “Agostino Pirella. Il sapere di uno psichiatra”, a cura di Massimo Bucciantini e Mario Colucci, Il Saggiatore, 2020.
[25] Il riferimento è agli studi di Agostino Pirella ricostruiti da Marica Setaro.
La foto in copertina è di Archivio Basaglia.
Entrata in Magistratura, tra le prime, “magnifiche otto”, e con lei anche Graziana Calcagno – che pure ho avuto la fortuna di conoscere, e che ci ha lasciato da qualche anno – Giulia De Marco è stata la presidente, la magistrata, l’amica, che tutti e tutte vorremmo avere.
Per me e per la nostra “generazione di mezzo”, dell’epoca in cui eravamo ancora un po' meno della metà, ma stavamo avviandoci ad essere sempre di più, sempre più numerose anche come capi degli uffici, quelle prime donne entrate in magistratura ci ricordavano come quel punto d’arrivo – che era, poi, una partenza - non fosse stato conquistato senza fatica; anche in occasione del cinquantenario celebrato con una bella festa in Cassazione, Giulia stessa citò il susseguirsi di confronti parlamentari, certe affermazioni che pare impossibile qualcuno possa avere condiviso, la necessità di una decisione della Consulta.
Ma non solo, anche l’accettazione non scontata da parte dei colleghi, il pregiudizio che la donna magistrato non potesse che occuparsi di certe materie e non di altre, ricoprire alcune funzioni, e non altre.
Accanto a questo, io penso che la grandezza di Giulia, e quello che più di altro ce l’ha fatta sentire “amica” sia stato l’unire alla professionalità e alla dedizione alla sua funzione, la capacità di intessere legami affettivi stabili, di dare ai figli affetto e regole – come amava dire – e il proprio esempio, lo stesso che dava ai suoi collaboratori e a noi tutti, colleghe e colleghi, i “suoi” giudici.
Nel salutarla per l’ultima volta, ho ricordato come, nell’approdare al Tribunale per i minorenni di Torino, personalmente provassi un certo timore.
Un timore quasi reverenziale, perché diventavo giudice, dopo anni di procura, e arrivavo ad un Tribunale per i minorenni che aveva fatto storia, era considerato tra i migliori d’Italia, anche perché alcune soluzioni giurisprudenziali erano poi state condivise e addirittura recepite in modifiche normative.
E Giulia era stata una dei protagonisti di quell’epoca, e di quel tribunale.
Se decidere è gravoso per tutti i giudicanti, diventa a volte un vero e proprio macigno per il Giudice Minorile, che decide delle “vite degli altri”, delle relazioni più intime e profonde, della “capacità” di fare i genitori, così come della maturità dei ragazzi che commettono reati.
E, in quello, Giulia è stata una guida, per me, come per tutti i colleghi; e non era solo per la sua capacità organizzativa, la sua presenza costante, l’avere continuato a fare il giudice, a scrivere provvedimenti, a presiedere collegi, fossero penali, civili o del tribunale di sorveglianza, anche da presidente, con tutti gli adempimenti amministrativi e le responsabilità che ciò comportava.
Era la consapevolezza, che ti infondeva, del peso, e insieme della rilevanza, del decidere; non solo la rilevanza sociale, ma proprio quella rispetto al caso concreto, a quel bambino, a quel ragazzo.
Decidere la vita dei bambini, dei ragazzi, delle loro famiglie; cambiare, se necessario, il loro contesto, le loro storie, il loro futuro… dare una possibilità a chi non è stato “visto” e per questo ritiene di non avere valore, e non sa dare valore all’altro. L’importanza di intervenire in via preventiva, per evitare, poi, di ritrovare gli stessi ragazzi in sede penale.
E decidere da “giudice”, ma confrontandosi con chi di bambini e ragazzi ne sa più di noi, in quella architettura della Giustizia Minorile che è stata l’esito di un percorso che va dalla Costituzione alle grandi riforme, dal ’67, agli anni settanta e ottanta dello scorso secolo.
Ma sempre decidere; sugli atti, che conosceva a fondo; con l’aiuto di saperi “altri”; con la premura di chi sa che la vita dei bambini non si misura con il metro degli adulti; senza alcun condizionamento esterno, pure essendo, lei, una “moglie della Repubblica” realtà, questa, che tutti conoscevamo, ma che in ufficio quasi non appariva.
Giulia, poi, era unica nel motivare i provvedimenti, di una sintesi che però abbracciava tutte le questioni; e capace, nella collegialità che allora riguardava tutte le decisioni del Tribunale minorile, di cambiare anche idea, dal progetto che tutti ci si fa, in base all’istruttoria, entrando in camera di consiglio, alla conclusione assunta grazie anche all’apporto di quelle scienze “altre” che partecipavano alla decisione.
Anche dopo la pensione, Giulia partecipava alla formazione di operatori sociali, di neuropsichiatri infantili, continuando quel dialogo, che era stato il fulcro, e la novità, dei Tribunali minorili, e di quello di Torino, in particolare, in quegli anni che appaiono ora lontani.
Ma era, soprattutto, un’amica; vicina nelle questioni che riguardavano il lavoro, ma anche nel privato, per un consiglio, un abbraccio consolatorio in momenti particolarmente dolorosi, che non era di forma, e la cui mancanza, oggi, fa soffrire ancora di più.
Doti “femminili”, queste? Forse, ma nel significato che più valorizza questo modo di essere, nella nostra specificità, e nel nostro impegno, come magistrate, e come donne.
Parlare di esempio è riduttivo, parlare del ruolo della donna in magistratura non esaurisce il punto; esiste donna e donna, e le generalizzazioni sono di troppo.
Esiste chi è attento a quelle “vite degli altri”, chi percepisce l’importanza della funzione, non della persona in sé, chi sa sorridere, degli altri ma anche di se stessa, chi è davvero amica delle altre donne senza dimenticare il proprio ruolo, chi lascia insegnamenti che non si dimenticano.
Giulia ha davvero fatto scuola, ma a volte mi domando se la mia generazione invece non ci sia riuscita; o forse è cambiata la sensibilità, non voglio dire la moda, ma il senso di un’istituzione davvero dalla parte dei bambini non è più così chiaro, neppure a chi fa il magistrato minorile.
E così è arduo, ora, raccoglierne il testimone; per l’inclemenza dei tempi, e certe scelte legislative che sembrano voler cancellare il passato, senza una piena cognizione della realtà sulla quale si va ad incidere.
La sua lezione di vita e di professione parlava un linguaggio diverso da quanto ora sembra contare.
Ma soprattutto resta il ricordo di quel suo sorriso, di quei suoi occhi così vivaci, di sollecitudine nel chiedere di noi, nell’esserci sempre, in una vicinanza speciale.
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