ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Con la l. n. 114 del 2024 il Parlamento ha introdotto, riformando vari articoli della disciplina cautelare, il c.d. contraddittorio anticipato per l’applicazione delle misure cautelari.
La riforma, come emerge dagli approfondimenti dottrinali, si presenta complessa, articolata e soggetta a molte valutazioni controverse.
Il dato è già emerso dalla recente decisione della V Sezione della Cassazione che ha rimesso alle Sezioni Unite due questioni sulle quali si erano prospettati interpretazioni e soluzioni controverse (v. infra).
È sin da ora possibile proporre, seppur per punti, una sorte di questioni che la nuova disciplina prospetta.
Com’è noto, il contraddittorio anticipato, come emerge dallo stesso art. 291 c.p.p. riformato, è previsto all’art. 288 c.p.p. (e dalla l. n. 231 del 2021 all’art. 47). In caso di applicazione delle altre misure interdittive la Corte costituzionale ha escluso possa operare il contraddittorio anticipato.
Ci si potrebbe chiedere ora se il contraddittorio anticipato sia possibile – stante la generica previsione dell’art. 291 c.p.p. – anche per le altre misure interdittive (artt. 288 e 289 bis, 290 c.p.p.).
È incerta la possibilità che, mancando la nomina del difensore, di fiducia, ovvero la sua presenza all’atto, sia necessaria la nomina di un difensore d’ufficio, ovvero se non possa ritenersi necessaria la presenza obbligatoria del difensore, come previsto dall’art. 294 c.p.p.
Questioni si prospettano con riferimento al possibile riconoscimento dell’impedimento del difensore e dell’indagato; nonché alla possibilità che il p.m. chieda l’anticipazione dell’interrogatorio, essendo previsto solo che il termine a comparire può essere accorciato dal giudice.
Spetta al giudice la valutazione delle condizioni che consentono o escludono l’operatività del contraddittorio anticipato che, escluso per le lett. a e b dell’art. 274 c.p.p. opera solo per l’ipotesi del secondo periodo della lettera c dello stesso art. 274 c.p.p.
Al giudice spetta la valutazione della gravità indiziaria e quella del fatto in relazione alla tipologia della misura cautelare da applicare (art. 280 c.p.p.). In caso di applicazione del carcere, a regime (cioè quando ci saranno i giudici in misura sufficiente) procederà l’organo collegiale.
Non è da escludere, nella procedura anticipata, l’operatività dell’art. 27 c.p.p. nel caso in cui il giudice incompetente ritenga presenti ragioni di urgenza e applichi la misura cautelare.
Non opererà l’art. 104 c.p. per l’incompatibilità con la procedura de qua.
Deve riconoscersi la possibilità per la difesa di depositare memorie e indagini difensive (non e previsto il diritto a prova contraria del p.m. nella stessa udienza, a seguito di rinvio).
Nell’eventualità in cui l’indagato si avvalga della facoltà di non rispondere, resta il problema se dopo l’applicazione della misura si possa o debba procedere all’interrogatorio di garanzia ex art. 294 c.p.p., godendo così di un ampio margine di tempo per difendersi. Comunque con l’interrogatorio prima dell’applicazione della misura anticipata l’indagato disporrà, essendo libero e conoscendo gli atti depositati dal p.m. di utilizzare maggiormente degli spazi del processo mediatico.
Poiché il giudice dovrà tener conto nell’ordinanza di applicazione della misura di quanto sostenuto dalla difesa, il riesame dovrà essere sorretto da motivi specifici.
Nel corso dell’interrogatorio, non si può escludere che l’imputato confessi (anche altri reati) chieda il patteggiamento, faccia una chiamata di correo.
Una significativa lacuna si presenta sia in relazione al tempo in cui il giudice deve pronunciarsi sulla richiesta del p.m., sia in ordine alle modalità e tempi della decisione. Manca ogni riferimento alla procedura necessaria allo svolgimento dell’interrogatorio, soprattutto nel caso in cui sia applicata la misura della custodia in carcere, sia in ordine alle informazioni all’indagato del rigetto della domanda del p.m.
Mentre di contraddittorio anticipato si potrà parlare nell’ipotesi in cui all’art. 302 c.p.p. (“previo interrogatorio”), il dato andrebbe escluso nell’ipotesi in cui all’art. 307 c.p.p. (c’è la convalida del fermo del fuggitivo) nonché nelle situazioni di cui agli artt. 275, comma 1 bis e 2 ter c.p.p. nonché all’art. 300, comma 5, c.p.p. dovendosi ritenere che superata la fase delle indagini preliminari, la riforma non trova applicazione.
Come anticipato due questioni in ordine alle quali si sono prospettate soluzioni contrastanti, sarà stata rimessa alle Sezioni unite.
Con la prima “Se il giudice per le indagini preliminare che, in un procedimento cautelare riguardante più indagati e avente ad oggetto più reati connessi ex art. 12 c.p.p. o probatoriamente collegati ex art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p., ritenga sussistenti, solo nei confronti di taluno, le condizioni di deroga per applicare la misura personale senza procedere al previo interrogatorio ai sensi dell’art. 291, comma 1 quater c.p.p., possa effettuare l’interrogatorio successivo anche nei confronti degli altri coindagati per i quali, invece, è necessario espletare l’interrogatorio preventivo”.
Con la seconda, “Se l’omissione del previo interrogatorio ai sensi dell’art. 291, comma 1 quater c.p.p., nei casi in cui esso sia prescritto, integri una nullità c.d. a regime intermedio ex art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p., che può essere dedotta per la prima volta dinanzi al tribunale del riesame o da questo rilevata ex officio anche nel caso in cui non sia stata eccepita dall’interessato in sede di interrogatorio postumo di garanzia svolto nelle more”.
Sommario: 1. Il testo normativo – 2. La relazione illustrativa – 3. La portata della norma – 4. Il regime intertemporale - 5. Le limitazioni probatorie – 6. La distribuzione dell’onere probatorio – 7. La discrezionalità del legislatore – 8. Il principio di vicinanza della prova – 9. La giurisprudenza della Corte Costituzionale – 10. Conseguenze della limitazione dei mezzi di prova -10. Conseguenze della nuova distribuzione dell’onere probatorio.
1. Il testo normativo
L’art.1, comma 2, del d.l. 28.3.2025, n. 36 convertito, con modificazioni, in legge 23.5.2025, n. 74, recante «Disposizioni urgenti in materia di cittadinanza», ha apportato alcune modifiche all’articolo 19-bis del d.lgs. 1.9.2011, n. 150 (cosiddetto «decreto riti»).
La rubrica è stata aggiornata con l’estensione del riferimento anche alle controversie in tema di cittadinanza, sì da suonare «Controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia e di cittadinanza italiana».
L’articolo, introdotto nel decreto riti con l’articolo 7, comma 1, lettera d), del d.l. 17.2.2017, n. 13[1], si riferiva originariamente solo alle controversie in materia di apolidia ed era stato esteso con la legge di conversione del 13.4.2017, n. 46, anche alle controversie in materia di cittadinanza, senza però che si provvedesse al debito aggiornamento della rubrica.
I primi due commi, rimasti immutati, regolano rispettivamente il rito e la competenza territoriale, laddove dispongono:
«1. Le controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia e di cittadinanza italiana sono regolate dal rito semplificato di cognizione.
2. È competente il tribunale sede della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea del luogo in cui il ricorrente ha la dimora.»
Il primo comma era stato modificato in sede di «Riforma Cartabia»[2].
Il secondo comma, relativo alla competenza territoriale, deve essere coordinato con il disposto dell’art.4, comma 5 del d.l. n. 13/2017 convertito con modificazioni dalla legge 46/2017, che ha assegnato la competenza per le controversie di accertamento dello stato di cittadinanza italiana sulla base del comune di nascita del padre, della madre o dell’avo cittadini italiani, in caso di residenza all’estero dell’attore.[3]
Con il d.l. 36 del 2025 sono stati aggiunti:
2. La relazione illustrativa
L’intervento normativo è stato così spiegato nella relazione illustrativa[4]:
«In virtù di quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, l’onere di provare l’insussistenza della preclusione all’acquisto sancita dal nuovo articolo 3-bis della legge n. 91/1992 incombe sul richiedente il riconoscimento della cittadinanza e non sono ammessi come prova il giuramento e la prova testimoniale.
In particolare, il nuovo comma 2-ter dell’articolo 19-bis del decreto legislativo n. 150/2011 prevede una specifica disciplina dell’onere della prova nell’ambito delle controversie in materia di cittadinanza. In base alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 25317/2022, chi reclama il possesso della cittadinanza iure sanguinis ha solo l’onere di provare il vincolo di discendenza, essendo assegnato allo Stato (rappresentato usualmente dall’Amministrazione dell’Interno) l’onere di provare la sussistenza di eventuali cause interruttive ostative all’acquisto o al mantenimento della cittadinanza. Tale distribuzione dell’onere della prova non è adeguata alla realtà concreta delle controversie in materia di cittadinanza, nella quale coloro che chiedono l’accertamento sono gli unici ad avere accesso ai fatti e ai documenti rilevanti. Invero, la legge ha previsto (almeno fino al 15 agosto 1992) significativi eventi interruttivi dell’acquisto o del mantenimento della cittadinanza, tutti riconducibili a situazioni venute in essere in ordinamenti stranieri (trasferimenti di residenza, acquisti volontario di cittadinanza straniera, esercizio volontario di diritti politici a seguito dell’acquisto non volontario di cittadinanza straniera). Non è in tale contesto ragionevole imporre allo Stato l’onere (anche finanziario) della ricerca in archivi stranieri di tali fatti e situazioni, peraltro assai risalenti nel tempo. In effetti, la distribuzione dell’onere della prova delineata dalla suddetta pronuncia stabilisce un indebito vantaggio nei confronti dei ricorrenti e un irragionevole onere finanziario a carico dello Stato italiano, premiando in maniera irragionevole situazioni di prolungata inerzia degli interessati.»
3. La portata della norma
Le nuove disposizioni si riferiscono a tutte le controversie in cui è richiesto l’accertamento dello stato di cittadinanza italiana e quindi a tutte le controversie attribuite alla giurisdizione ordinaria che riguardano, appunto, l’accertamento dello status e non comportano pronunce costitutive.
Le nuove norme, quindi, non si riferiscono ai giudizi in tema di cittadinanza devoluti al giudice amministrativo.
Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di acquisto della cittadinanza italiana si basa sulla natura della situazione giuridica soggettiva azionata, in difetto di attribuzioni di giurisdizione esclusiva, e quindi sulla distinzione tra le ipotesi in cui l’interessato è titolare di un diritto soggettivo all’acquisto della cittadinanza e quelle in cui vanta un interesse legittimo.
Le controversie relative alla cittadinanza, relative a uno status della persona, sono attribuite al giudice ordinario nei casi in cui lo status civitatis è attribuito o perduto ex lege. Sono invece di competenza del giudice amministrativo le controversie in materia di acquisto della cittadinanza per concessione, perché in tal caso viene in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale da parte dell’amministrazione, di fronte al quale l’interessato è titolare di un mero interesse legittimo.
Su questa base, la giurisprudenza ha riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario per l’acquisto della cittadinanza italiana nei casi previsti dagli artt. da 1 a 5 della legge n. 91 del 5.2.1992, che concernono appunto ipotesi in cui occorre procedere all’accertamento dei requisiti di un diritto soggettivo.
Competono quindi alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria le controversie aventi ad oggetto le fattispecie di acquisto automatico o volontario, fatta eccezione per quelle, riguardanti l’acquisto da parte del coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano, nelle quali si controverta della sussistenza delle esigenze di sicurezza pubblica ostative al riconoscimento, che restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, così come quelle riguardanti le ipotesi di acquisto per concessione, fra cui anche quella di cui all’art. 9, comma 1, lett. f).
Infatti il Giudice del riparto ha affermato che, in tema di acquisto della cittadinanza italiana per iuris communicatio, il diritto soggettivo del coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano affievolisce ad interesse legittimo solo in presenza dell’esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere discrezionale di valutare l’esistenza di motivi ostativi inerenti alla sicurezza della Repubblica. Di conseguenza, una volta precluso l’esercizio di tale potere, in caso di mancata emissione del decreto di acquisto della cittadinanza, così come di rigetto della relativa istanza, ove si contesti solamente la ricorrenza degli altri presupposti tassativamente indicati dalla legge, sussiste il diritto soggettivo del richiedente che può adire il giudice ordinario per far accertare la propria cittadinanza italiana.[5]
D’altro canto, la giurisdizione del giudice amministrativo viene riconosciuta con riferimento alle controversie concernenti l’acquisto della cittadinanza per concessione, ai sensi del predetto art. 9, in quanto, oltre alla valutazione inerente ai requisiti necessari e alle cause ostative, permane in capo all’amministrazione il potere di esercitare valutazioni e scelte ampiamente discrezionali, capaci di attrarre le relative controversie alla giurisdizione generale di legittimità. Tali valutazioni e scelte, infatti, si traducono in un apprezzamento di opportunità circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulla base di un complesso di circostanze idonee a dimostrare la sua integrazione sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e della condotta di vita.
4. Il regime intertemporale
Un’attenta riflessione deve essere dedicata al regime intertemporale della nuova disciplina di cui commi 2-bis e 2-ter novellati dell’art.19-bis del decreto 150 del 2011.
In particolare, si discute se essa – in assenza di una norma transitoria - possa essere applicata ai giudizi in corso, anche se la sua entrata in vigore è avvenuta il giorno successivo alla pubblicazione del decreto legge sulla Gazzetta Ufficiale del 28.3.2025, e quindi il 29.3.2025.
Da un lato, si potrebbe sostenere che le norme siano «meramente processuali», pertanto soggette al principio tempus regit actum e quindi applicabili ai giudizi in corso. Secondo l’opposto orientamento, la normativa avrebbe natura sostanziale e pertanto non troverebbe applicazione che ai giudizi iniziati dal 29.3.2025.
Questo secondo orientamento si fa di gran lunga preferire[6] per una pluralità di convergenti considerazioni.
In primo luogo, secondo autorevole dottrina processual-civilistica, le norme sulla prova possiedono natura sostanziale quando orientano i comportamenti dei consociati e incidono sul contenuto della decisione.
Interessanti al proposito appaiono le osservazioni proposte dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione[7] al momento della entrata in vigore del primo decreto «Paesi sicuri», che possono offrire un utile paradigma di riferimento: «Chi si è occupato in modo specifico del problema con riferimento al decreto sui Paesi sicuri ha tuttavia osservato, sulla scorta degli approdi di autorevole dottrina processualcivilistica, che le norme sulla prova non si applicano retroattivamente quando non si limitino a modificare semplicemente gli strumenti processuali utilizzabili dal giudice, ma orientino i comportamenti dei consociati e incidano sul contenuto della decisione finale[8].Si tratterebbe in questo caso di norme primarie e materiali, come tali irretroattive. In effetti, anche la giurisprudenza di legittimità è orientata a ritenere che le presunzioni abbiano natura sostanziale e non processuale, con conseguente irretroattività delle norme che le introducano nel corso del giudizio.[9]Alla luce di tale orientamento, sembrerebbe potersi affermare che anche il decreto di designazione dei Paesi sicuri e le norme la cui efficacia era subordinata alla sua emanazione non possano trovare applicazione alle domande amministrative e giudiziali presentate prima dell’entrata in vigore del d. intermin., ossia prima del 22 ottobre 2019. Ne dovrebbe scaturire, rispetto a tali domande, oltre all’inoperatività della presunzione relativa…».
In secondo luogo, allo stesso approdo sospinge la doverosa considerazione dei principi del giusto processo e dell’affidamento incolpevole che impongono di non modificare in corso di causa i criteri di valutazione delle prove e di non penalizzare conseguentemente le impostazioni e le strategie processuali formulate dalle parti nel vigore di una precedente normativa e gli affidamenti che ne derivano circa l’esito della lite.
La Corte di Cassazione[10]ha ragionato sostanzialmente in questa direzione allorché ha affermato che « In tema di protezione internazionale, l’inserimento del paese di origine del richiedente nell’elenco dei "paesi sicuri" produce l’effetto di far gravare sul ricorrente l’onere di allegazione rinforzata in ordine alle ragioni soggettive o oggettive per le quali invece il paese non può considerarsi sicuro, soltanto per i ricorsi giurisdizionali presentati dopo l’entrata in vigore del d.m. 4 ottobre 2019, poiché i principi del giusto processo ostano al mutamento in corso di causa delle regole cui sono informati i detti oneri di allegazione, restando comunque intatto per il giudice, a fronte del corretto adempimento di siffatti oneri, il potere-dovere di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi utili ad indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale.».
Per queste stesse ragioni non sembra sostenibile l’applicazione a processo in corso di una diversa distribuzione dell’onere probatorio, dopo che le parti hanno proposto le loro allegazioni, difese e istanze istruttorie, o addirittura dopo che la causa è già stata istruita.
In terzo luogo, la tesi dell’applicabilità ai giudizi in corso imporrebbe ai giudici di assicurare il rispetto dei diritti alla difesa in giudizio e al giusto processo con un provvedimento di rimessione in termini per la formulazione di allegazioni e istanze di prova, precedentemente non formulate e solo ora divenute necessarie. Il silenzio al riguardo del legislatore appare perciò significativo: il principio di economia di Guglielmo di Occam secondo cui «entia non sunt multiplicanda sine necessitate» suffraga ulteriormente l’assunto della non immediata applicabilità delle nuove disposizioni ai giudizi in corso.
Infine la lettera b) del novellato art.3-bis della legge 91 del 1992[11] espressamente dispone che lo stato di cittadino dell’interessato è accertato giudizialmente, nel rispetto della normativa applicabile al 27.3.2025, a seguito di domanda giudiziale presentata non oltre le 23:59, ora di Roma, della medesima data.
5. Le limitazioni probatorie
Come si è detto, il comma 2-bis incide sulla tipologia di mezzi di prova ammissibili nelle controversie in tema di accertamento della cittadinanza[12] escludendo espressamente il giuramento e la prova testimoniale.
La pur amplissima ed erudita relazione illustrativa, che si sofferma solo sulla disposizione in tema di distribuzione dell’onere probatorio, è silente al proposito.
La spiegazione che è stata offerta da taluni nel senso della natura normalmente documentale di questa tipologia di controversie, in cui assume rilievo centrale la prova del rapporto di filiazione attraverso la produzione dell’atto di nascita, lascia insoddisfatti se si considera che in questa prospettiva la novità normativa non si baserebbe su alcuna reale esigenza di adeguamento. Non si può che restar perplessi se un intervento, per giunta attuato con decreto legge per straordinarie ragioni di necessità ed urgenza, viene giustificato con la spiegazione che esso non modificherebbe alcunché.
Per altro verso, la Novella non è affatto indolore: non tanto per l’esclusione del giuramento, indubbiamente del tutto infrequente, quanto della prova testimoniale in casi particolari. Soprattutto - e qui sorge il dubbio che il legislatore implicitamente plus dixit quam voluit - l’esclusione della prova testimoniale porta con sé, per effetto dell’art.2729, comma 2, c.c. l’esclusione del ricorso alle presunzioni semplici ossia della prova presuntiva rimessa alla prudenza del giudice, allorché le conseguenze tratte da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato (art.2727 c.c.) siano gravi, precise e concordanti.
È doveroso, tuttavia, rammentare che la norma con l’inciso iniziale introduce una clausola di salvaguardia che fa salvi i casi espressamente previsti dalla legge.
L’art.2724 c.c., che per vero trova il suo terreno di elezione in materia contrattuale, ammette in ogni caso la prova per testimoni:
1) quando vi è un principio di prova per iscritto (costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato);
2) quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta;
3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova.
Ancor più pertinente ai fini della clausola di salvaguardia appare l’art.241 c.c. che prevede che quando mancano l’atto di nascita e il possesso di stato, la prova della filiazione possa essere data in giudizio con ogni mezzo.
6. La distribuzione dell’onere probatorio
Il nuovo comma 2-ter dell’art.19-bis d.lgs.150/2011 incide sia sull’onere di allegazione sia sull’onere della prova e attribuisce entrambi a colui che agisce per l’accertamento della cittadinanza italiana, laddove dispone che chiede l’accertamento della cittadinanza è tenuto ad allegare e provare l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge.
In tal modo il legislatore sembra aver inteso derogare alla regola generale contenuta nell’art.2697 c.c. e alla sua applicazione in materia di controversie sulla cittadinanza, così come recepita dal diritto vivente.
Le sentenze n. 25317 e 25318 del 24.8.2022 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affrontato infatti anche il tema dell’onere della prova nei giudizi di riconoscimento della cittadinanza e hanno affermato che colui che richiede il riconoscimento deve provare solo il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione e che incombe sull’amministrazione eccipiente la prova dell’eventuale fattispecie impeditiva/estintiva. Tale ripartizione probatoria predicata dal diritto vivente era conforme alla struttura della fattispecie e al riparto disegnato dall’art.2697 c.c.: l’acquisto della cittadinanza operava come fatto costitutivo, il cui onere incombeva sul richiedente il riconoscimento dello status e la perdita della cittadinanza agiva quale fatto estintivo, il cui onere gravava su chi si opponeva al suo riconoscimento[13].
L’intervento così attuato stimola alcuni interrogativi.
a) Il legislatore può derogare con riferimento a un singolo istituto o gruppo di controversie, alle regole fissate dall’art.2697 c.c., secondo il quale «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda»?
b) Nel caso in questione il legislatore lo ha fatto?
c) La discrezionalità legislativa al proposito è assoluta o incontra dei limiti nella Costituzione o nel diritto dell’Unione Europea?
La risposta ai primi due interrogativi sembra positiva.
Quanto al quesito sub a) l’art.2697 c.c. è norma di legge ordinaria e quindi può essere oggetto di deroga ad opera di atto avente forza di legge.
Non si potrebbe neppure escludere che la discrezionalità del legislatore si possa spingere sino ad accollare a una parte l’onere della prova di fatti negativi.
Il principio espresso dal brocardo «negativa non sunt probanda», secondo la giurisprudenza di legittimità, non ha fondamento normativo. La Cassazione è ferma nell’affermare che l’onere probatorio gravante su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto “fatti negativi”, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, che grava pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo; tuttavia, poiché non è possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo.[14]
Anche la risposta al quesito sub b) appare positiva: sembra innegabile che l’onere sia stato esteso dal legislatore del 2025, in deroga all’art.2697 c.c., anche oltre i fatti costitutivi, sino a ricomprendere anche i fatti estintivi o impeditivi, visto che esso include l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge. Ovvero, ma la sostanza non cambia, potrebbe sostenersi che i fatti impeditivi sono stati trasformati ex lege in fatti costitutivi negativi il cui onere (sia assertivo, sia probatorio) incombe sulla parte attrice che chiede l’accertamento della cittadinanza italiana.
Le conseguenze della modifica normativa, accennate nella relazione ministeriale, sovvertono quindi la regola di riparto enunciata dalle Sezioni Unite nelle sentenze n.25317 e 25318 del 2022, ove era stato affermato «Ne segue che, ove la cittadinanza sia rivendicata da un discendente, null’altro – a legislazione invariata - spetta a lui di dimostrare salvo che questo: di essere appunto discendente di un cittadino italiano; mentre incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell’evento interruttivo della linea di trasmissione.»
Nelle controversie in tema di cittadinanza, oltre alla prova della discendenza per filiazione da un antenato cittadino italiano, occorre infatti sovente verificare se vi sia stata perdita della cittadinanza in capo agli antenati cittadini italiani la cui linea di discendenza per filiazione viene invocata in giudizio e a tal fine è necessario riferirsi alle norme di legge applicabili ratione temporis.
Il Codice civile del Regno d’Italia del 1865, all’art. 11, disciplinava la fattispecie estintiva nel seguente modo: “La cittadinanza si perde: 1. Da colui che vi rinunzia con dichiarazione davanti l’uffiziale dello stato civile del proprio domicilio, e trasferisce in paese estero la sua residenza; - 2. Da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero; 3. Da colui che, senza permissione del governo, abbia accettato impiego da un governo estero, o sia entrato al servizio militare di potenza estera”.
L’art.8 della legge speciale sulla cittadinanza n. 555 del 1912 aveva invece disposto: «Perde la cittadinanza: 1° chi spontaneamente acquista una cittadinanza straniera e stabilisce o ha stabilito all’estero la propria residenza; 2° chi, avendo acquistata senza concorso di volontà propria una cittadinanza straniera, dichiari di rinunziare alla cittadinanza italiana, e stabilisca o abbia stabilito all’estero la propria residenza. Può il Governo nei casi indicati ai nn. 1 e 2 dispensare dalla condizione del trasferimento della residenza all’estero. 3° chi, avendo accettato impiego da un Governo estero od essendo entrato al servizio militare di potenza estera, vi persista nonostante l’intimazione del Governo italiano di abbandonare entro un termine fissato l’impiego o il servizio.”
Pertanto il richiedente che invoca la cittadinanza per discendenza da un antenato italiano trasferitosi all’estero dovrà allegare e dimostrare che l’antenato in questione non ha «ottenuto » (periodo 1865-1912) o «spontaneamente acquistato» (1912- 1992) la cittadinanza straniera[15], o non ha rinunciato alla cittadinanza italiana, o ancora non ha accettato un impiego da un governo estero o ha prestato servizio militare per una potenza straniera nonostante l’intimazione del Governo italiano di desistervi.
La relazione illustrativa sopra citata si riferisce, senza maggiori precisazioni, anche all’ «esercizio volontario di diritti politici a seguito dell’acquisto non volontario di cittadinanza straniera». Questo riferimento non è del tutto comprensibile e probabilmente si riferisce a tesi difensive prospettate dall’Amministrazione, che tuttavia non trovano riscontro nel diritto vivente, perché la giurisprudenza di legittimità non attribuisce alcun rilievo in termini di perdita della cittadinanza italiana all’iscrizione dell’antenato italiano nelle liste elettorali e all’esercizio del diritto di voto dopo l’acquisto non volontario della cittadinanza dello Stato straniero di emigrazione.
È evidente che il comma 2-ter accolla al richiedente un onere assertivo e soprattutto probatorio particolarmente gravoso, che rasenta in alcuni casi la probatio diabolica.
Quest’onere appare ulteriormente appesantito se si considera che, salve le eccezioni espressamente previste dalla legge, la prova può essere solamente documentale poiché il comma 2-bis del novellato art.19-bis del d.lgs.150/2022 preclude il ricorso al giuramento e soprattutto alla prova testimoniale; l’art.2729, 2° comma, c.c. esclude inoltre il ricorso alla prova presuntiva (tradizionalmente ammessa dalla giurisprudenza per soddisfare l’onere probatorio in tema di fatti negativi) quale conseguenza del divieto di prova testimoniale.
La norma poi si pone in controtendenza rispetto al codice del processo amministrativo (d.lgs. 2.7.2010 n.104) che si applica ai giudizi in tema di cittadinanza devoluti al giudice amministrativo e all’art.63 assicura l’ammissibilità di un ampio ventaglio di mezzi di prova. Questa discriminazione non appare agevolmente giustificabile e suona financo paradossale se si constata che le limitazioni dei mezzi di prova gravano maggiormente sul giudice del rapporto che sul giudice del provvedimento.
A questo punto occorre affrontare il quesito sub c) che attiene alla portata della discrezionalità riservata al legislatore nel derogare al principio generale di cui all’art. 2697 c.c.
7. La discrezionalità del legislatore
La risposta corretta è che la pur sussistente discrezionalità del legislatore ordinario non è assoluta e non può superare i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità nella elaborazione delle regole di riparto, senza contraddire i principi fissati dagli artt.2, 3 e soprattutto 24 e 111 della Costituzione.
Non avrebbe senso infatti riconoscere un diritto e il conseguente diritto di agire in giudizio per il suo riconoscimento se la prova richiesta fosse così gravosa da risultare in concreto impossibile; né si potrebbe ritenere che un processo siffatto sia giusto, equo e imparziale e rispettoso delle condizioni di parità.
In varie occasioni la giurisprudenza della Cassazione e delle Sezioni Unite[16] ha ravvisato, dapprima implicitamente e poi esplicitamente, uno specifico collegamento («ancoraggio») fra l’art.24 della Costituzione e la regola dell’onere probatorio.
Da ultimo, nella sentenza delle Sezioni Unite n.11748 del 3.5.2019, la Cassazione, dopo aver ricordato che il principio di vicinanza della prova ha trovato la sua prima compiuta enunciazione nella fondamentale sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001, declinato nel senso che l’onere della prova deve essere «ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione», ha affermato che l’ancoraggio di tale principio all’articolo 24 della Costituzione, già implicito nella pronuncia del 2001, è stato poi reso esplicito nelle pronunce successive. La sentenza n. 13533 del 2001 ritiene il principio della vicinanza della prova «coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi» e il criterio della vicinanza/distanza della prova viene in sostanza utilizzato per distinguere i fatti costitutivi della pretesa (identificati con quelli che sono nella disponibilità dell’attore, che il medesimo ha l’onere di provare) dai fatti estintivi o modificativi o impeditivi, identificati con quelli che l’attore non è in grado di provare e che, pertanto, devono essere provati dalla controparte. In pronunce successive, per contro, il criterio della vicinanza/distanza della prova non appare più collegato al disposto dell’articolo 2697 c.c. e viene utilizzato come un temperamento della partizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, modificativi od impeditivi del diritto, idoneo a spostare l’onere della prova su una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata in base a questa ripartizione.
8. Il principio di vicinanza della prova
Si è sostenuto che con le disposizioni in esame e in particolare con il nuovo comma 2-ter, nel modificare la distribuzione dell’onere della prova, il legislatore abbia fatto applicazione del principio della vicinanza della prova, posto che gli eventi accaduti nello Stato straniero di emigrazione riguardanti l’antenato italiano emigrati sarebbero più prossimi (e quindi più agevoli da dimostrare) per il richiedente che per lo Stato italiano.
Secondo il c.d. principio di vicinanza (o prossimità) della prova l’onere della prova deve essere ripartito tenendo conto in concreto della possibilità per l’uno o per l’altro dei contendenti di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione, per cui è ragionevole gravare dell’onere probatorio la parte a cui è più vicino il fatto da provare. Ciò significa che, al fine di provare un fatto, l’onere della prova potrà incombere sul soggetto che è più prossimo, vicino, alla fonte di prova.
Il rapporto tra l’articolo 2697 c.c. e il principio della vicinanza della prova è per vero assai controverso: per taluni il principio costituisce la ratio ispiratrice e fondante dell’art.2697 c.c.; secondo altri si tratterebbe di un criterio integrativo di cui avvalersi in sede interpretativa per risolvere i casi dubbi; per altri ancora si tratterebbe di una deroga temperatrice al canone espresso dall’articolo 2697 c.c.
Tuttavia la riconduzione della nuova disposizione al principio di vicinanza della prova non può essere accettata in linea generale: non si vede infatti davvero come la rinuncia alla cittadinanza italiana formalizzata presso gli uffici consolari o l’intimazione da parte del Governo italiano a rinunciare all’impiego estero possano essere considerate più prossime e più agevoli per il discendente dell’interessato che per l’amministrazione convenuta.
9. La giurisprudenza della Corte Costituzionale
La giurisprudenza della Corte Costituzionale, sia pur non numerosa, conferma la tesi della necessaria ragionevolezza e proporzionalità della discrezionalità legislativa in tema di distribuzione degli oneri probatori.
Interessante, seppur resa in riferimento ad un ambito diverso, appare la pronuncia n.440 del 16.12.1993 che scrutina la ragionevolezza della scelta del legislatore nella distribuzione dell’onere probatorio in tema di prova della buona condotta addossato al privato.
La Corte Costituzionale ha al proposito ritenuto «intrinsecamente irragionevole» addebitare all’interessato un onere che talora neppure l’amministrazione sarebbe in grado di adempiere proprio per la varietà dei parametri di verifica dai quali può scaturire la preclusione alla realizzabilità di posizioni soggettive di cui il privato è titolare; ha poi ribadito che «quanto irragionevole ed arbitraria dovesse ritenersi, in via generale, l’esistenza di un simile onere probatorio, risulta essere stato avvertito dal legislatore allorché con l’art. 10 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, contenente norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione delle firme, ha statuito che la buona condotta (al pari dell’assenza di precedenti penali e di carichi pendenti) è accertata d’ufficio, presso gli uffici pubblici competenti dalla amministrazione che deve emettere il provvedimento.»
Secondo la Consulta si deve evitare l’imposizione all’interessato di una prova talora diabolica volta a contrastare la forza cogente dell’onere e scongiurare la persistenza di una situazione giuridica non in grado di potersi concretizzare o destinata ad essere posta nel nulla nonostante la presenza e la persistenza di posizioni astratte di legittimazione.
Altrettanto significative appaiono due decisioni della Consulta in tema di traslazione dell’onere economico di un tributo.
Con la sentenza del 21.4.2000 n.112 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 del d.l. 30.9.1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito con modificazioni nella legge 27.11.1982, n. 873, nella parte in cui poneva a carico del contribuente, che agisce per la ripetizione di imposte di consumo indebitamente corrisposte, l’onere di provare solo documentalmente che il peso economico dell’imposta non era stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti. Secondo la Corte, pur se la mera inversione dell’onere della prova non è di per sé in contrasto con l’art. 24 Cost., trattandosi di materia indubbiamente rimessa alla discrezionalità del legislatore, la previsione che tale onere possa essere assolto solamente per mezzo della prova documentale - intesa in senso tecnico - comporta una sicura lesione del diritto di agire in giudizio del solvens. Siffatta previsione viene infatti a subordinare la tutela giurisdizionale a una prova impossibile secondo criteri di normalità, non potendo in via generale essere ipotizzata l’esistenza di un documento contenente la diretta rappresentazione del fatto negativo costituito dalla mancata traslazione del peso economico di un’imposta.
Successivamente la Consulta con la sentenza n.332 del 9.7.2002 si è occupata della stessa norma con riferimento alla distribuzione dell’onere probatorio e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto art.19 del d.l. 30.9.1982, n. 688, convertito, con modificazioni, in legge 27.11.1982, n. 873, anche nella parte in cui prevede che sia l’attore in ripetizione a dover provare che il peso economico dell’imposta non è stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti.
La Corte Costituzionale al proposito ha osservato che la traslazione dell’imposta, in quanto fatto impeditivo del diritto alla ripetizione, dovrebbe essere opponibile solo in via di eccezione dall’accipiens (art. 2697 cod. civ.); invece, la norma impugnata, onerando il solvens della prova (negativa) della mancata traslazione dell’imposta, ha operato una inversione legale dell’onere della prova lesiva del generale canone di ragionevolezza garantito dall’art. 3 della Costituzione.
Tale inversione rinviene, infatti, la sua ragione nell’intento di attribuire all’amministrazione finanziaria convenuta con l’azione di ripetizione una posizione di particolare privilegio in sede probatoria, del tutto ingiustificato ove si consideri che l’amministrazione è l’accipiens di un pagamento non dovuto che in quanto tale dovrebbe essere, in base ai principi generali, restituito. D’altro canto, la pur contestata ricorrenza, nella normalità delle ipotesi, del fenomeno della traslazione non potrebbe certo giustificare la suddetta inversione, ma, semmai, valere come argomento di prova utilizzabile, in giudizio, dall’accipiens. Il vulnus al principio di ragionevolezza che si viene così a determinare comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata, nella parte in cui pone a carico dell’attore in ripetizione l’onere di provare la mancata traslazione dell’imposta invece di prevedere che la domanda debba essere respinta qualora l’amministrazione convenuta provi che il peso economico dell’imposta è stato trasferito dal solvens su altri soggetti.
Vi è inoltre da chiedersi se l’imposizione di una prova diabolica rispetti l’art.47 della Carta dei diritti fondamentali UE quanto al diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale e l’art.6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
10. Conseguenze della limitazione dei mezzi di prova
La limitazione dei mezzi di prova produce gravi conseguenze in alcuni casi limite.
Il nuovo art.19-bis, comma 2-ter, impone al richiedente l’accertamento della cittadinanza di allegare e provare l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge.
Come si è dianzi ricordato, l’art.11 del codice civile del 1865 disponeva che perdesse la cittadinanza italiana colui che senza permesso del Governo, avesse accettato un impiego da un governo estero o fosse entrato al servizio militare di potenza estera. Analogamente e ancor più chiaramente, l’art. 8 n.3 della legge n. 555 del 1912 disponeva che perde la cittadinanza italiana chi, avendo accettato impiego da un governo estero od essendo entrato al servizio militare di potenza estera, vi persista nonostante l’intimazione del Governo italiano di abbandonare entro un termine fissato l’impiego o il servizio.
Tanto il codice civile del 1865 quanto la legge n.555 del 1912 consideravano inoltre la rinuncia espressa quale causa di perdita della cittadinanza.
Il richiedente deve quindi, ad esempio, allegare e dimostrare che gli ascendenti cittadini italiani emigrati all’estero non hanno rinunciato alla cittadinanza italiana, ovvero che essi non hanno accettato un impiego (ad esempio di insegnamento in una scuola pubblica) dal Governo estero o se lo hanno fatto che lo Stato italiano non ha intimato loro di abbandonarlo.
Si tratta di una prova negativa di difficile adempimento.
È pur vero che l’attore potrebbe essere agevolato dall’onere di contestazione che l’art.115 c.p.c. pone in capo alla controparte, secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Se il richiedente allega specificamente i fatti rilevanti (ad esempio, che l’avo ha accettato l’impiego e che il Governo italiano non gli ha intimato di abbandonarlo), la parte convenuta ha l’onere di contestarli specificamente per evitare che risultino non controversi e non bisognosi di prova.
E tuttavia questa regola di responsabilizzazione delle parti nella dialettica processuale non opera nei confronti della parte non costituita in giudizio: e molto sovente nelle controversie per l’accertamento della cittadinanza italiana l’amministrazione non si costituisce con la conseguente irrilevanza del suo silenzio ai fini probatori.
Certamente il ricorrente potrebbe chiedere preventivamente all’amministrazione italiana di certificare che l’intimazione non vi è stata, ma in caso di mancata ottemperanza il richiedente si troverebbe in grave difficoltà nell’assolvere all’onere probatorio del fatto negativo nel giudizio contumaciale, visto che non gli è consentito invocare il ragionamento presuntivo per inferire la prova dell’omessa intimazione dal silenzio della P.A. e dalla mancata certificazione pur richiesta.
Resterebbe lo spazio per un ordine di esibizione ex art.210 c.p.c. o per una richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione ex art.213 c.p.c., secondo la prospettazione fatta propria da Cass. civ. Sez. 5, 30.4.2019, n. 11432, e a sua volta ispirata dalla sentenza della Corte Costituzionale n.109 del 29.3.2007, secondo la quale la produzione di documenti, oltre che spontanea, può essere ordinata su istanza di parte a norma dell’art. 210 cod. proc. civ. (e, quindi, nei confronti dell’amministrazione parte in causa e anche nei confronti di terzi); mentre, ove necessario, il giudice ha il potere - nei confronti di pubbliche amministrazioni diverse da quella che è parte del giudizio davanti a lui pendente - di chiedere informazioni o documenti ai sensi dell’art. 213 cod. proc. civ., e cioè attivarsi in funzione di chiarificazione dei risultati probatori prodotti dai mezzi di prova dei quali si sono servite le parti.
11. Conseguenze della nuova distribuzione dell’onere probatorio
Un’interpretazione e un’applicazione estremamente rigorosa e letterale delle nuove disposizioni potrebbero condurre a ritenere che il richiedente debba allegare e provare che il proprio antenato emigrato non abbia acquisito volontariamente la cittadinanza di ogni altro Stato, anche diversa da quella del paese di emigrazione e di residenza. Si tratterebbe, pur sempre, di una fattispecie idonea a produrre la perdita della cittadinanza italiana di cui il richiedente sarebbe tenuto ad allegare e provare l’insussistenza.
Una siffatta interpretazione, presumibilmente contrastante con la stessa intentio legis, esporrebbe la norma alla collisione con il principio di eguaglianza, con il diritto di azione in giudizio e al giusto processo, gravando l’attore di un onere irragionevole e sproporzionato, risolventesi in una probatio diabolica.
La violazione degli artt.3, 24 e 111 Cost. che ne deriverebbe può tuttavia essere scongiurata con una interpretazione costituzionalmente orientata, nonché conforme al diritto dell’Unione Europea in punto effettività dei rimedi giurisdizionali, che appare del tutto ragionevole: occorre cioè perimetrare l’onere di allegazione e di prova in questione alla vicenda in fatto posta a base del ricorso, escludendo così che il richiedente abbia l’onere di provare l’insussistenza di cause di perdita della cittadinanza prive di alcun collegamento fattuale con la sua narrazione.
Questa, del resto, è la soluzione suffragata dalle raccomandazioni dell’ UNHCR nel Manuale per la protezione delle persone apolidi per l’interpretazione della Convenzione di New York del 1954, ratificata dall’Italia con legge 1.2.1962 n. 306. La definizione della persona apolide come colui «che nessuno Stato considera come suo cittadino per l’applicazione della sua legislazione» viene assoggettata a una lettura restrittiva circoscritta con riferimento ai soli Stati con i quali il richiedente ha legami rilevanti alla luce delle circostanze di fatto allegate alla domanda (ad es. nascita o residenza abituale sul territorio di uno Stato o discendenza da cittadini di quello Stato).
Nel § 18 del Manuale predetto si legge infatti che «Nonostante il fatto che la definizione contenuta nell’articolo 1(1) sia formulata come negazione (“nessuno Stato considera come suo cittadino per applicazione della sua legislazione”), il campo d’indagine nell’analisi delle domande di riconoscimento dell’apolidia è limitato agli Stati con cui il richiedente ha dei legami pertinenti come, in particolare, la nascita sul territorio di uno Stato o l’avervi risieduto in maniera abituale, il matrimonio o la discendenza da cittadini dello Stato in questione. In alcuni casi, questo approccio può limitare il campo d’indagine ad un solo Stato (o ad una sola entità che non può essere considerata tale)».
Solo leggendo così la norma si può evitare di imporre ai richiedenti un onere iperdilatato a livello “mondiale” e ricondurre a ragione la sua portata applicativa.
[1] Il cosiddetto «decreto Minniti»
[2] Ad opera dell’articolo 15, comma 3, lettera l), del d.lgs. 10.10.2022, n. 149 , con effetto a decorrere dal 28.2.2023, come stabilito dall’articolo 35, comma 1, del d.lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall’articolo 1, comma 380, lettera a), della legge 29.12.2022, n. 197.
[3] Questa disposizione ha avuto l’effetto di spostare la competenza dal Tribunale di Roma, altrimenti competente sulla base del foro del convenuto, ai Tribunali del luogo di provenienza dell’emigrante. Si legga in proposito, anche in relazione all’effetto di ingente aumento del contenzioso in tema di cittadinanza presso il Tribunale di Venezia, S. LAGANÀ, Contributo in ordine alla conversione in legge del decreto-legge n. 36 del 2025, in sede di audizione alla Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica.
[4] Insolitamente ampia, argomentata e documentata.
[5] Cass., Sez. Un., 7.7.1993, n. 7441; Cass., Sez.Un., 27.1.1995, n. 1000.
[6] L’argomento è stato ampiamente discusso nel corso dell’incontro di studi P.25067 della Scuola Superiore della Magistratura tenutosi a Napoli dal 22 al 24.9.2025, intitolato «La cittadinanza e le cittadinanze. Spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo».
In quella sede la tesi della non immediata applicabilità ai giudizi in corso è stata largamente condivisa da relatori e partecipanti.
Si possono consultare al proposito le relazioni di A.BARALDI, “La giurisprudenza di merito: gli orientamenti e i problemi organizzativi delle sezioni specializzate”, G. BONATO, “I dubbi sulla riforma del 2025”, intervento alla tavola rotonda; A. GIUSTI, “La giurisprudenza di legittimità (con osservazioni preliminari con riferimento al riparto di giurisdizione)”.
[7] Relazione n. 4 del 10.1.2020 «Art. 2 bis d. lgs. n. 25 del 2008 e connesso Decreto Interministeriale attuativo dell’elenco dei paesi di origine sicuri.».
[8] V. F. VENTURI, Il diritto di asilo: un diritto “sofferente”, cit., p. 187 ss., spec. p. 188, secondo cui una diversa soluzione determinerebbe “una grave lesione dei principi, costituzionalmente garantiti, di parità di trattamento e di tutela del legittimo affidamento di quei medesimi richiedenti protezione internazionale”. La dottrina processualcivilistica cui questo A. fa riferimento è G. VERDE, Prova, in Enciclopedia del diritto, XXXVII, Milano, 1988. Sull’affidamento come criterio-guida nella valutazione sulla legittimità di una legge retroattiva, v. M. LUCIANI, Il dissolvimento della retroattività, in Giur. it., 2007, I, c. 1833 ss. e A. PUGIOTTO, Il principio d’irretroattività preso sul serio, in C. PADULA (a cura di), Le leggi retroattive nei diversi rami dell’ordinamento, Napoli, 2018.
[9] Cass., Sez. 5, 19.12.2019, n. 33893; Sez. 2, 13.12.2019, n. 32992.
[10] Cass. Sez. 1, 11.11.2020, n. 25311.
[11] Al pari di quanto dispongono per le domande amministrative le precedenti lettere a) e a-bis).
[12] Radicate a partire dal 29.3.2025: vedi supra.
[13] Vedasi in proposito A. GIUSTI, relazione citata “La giurisprudenza di legittimità (con osservazioni preliminari con riferimento al riparto di giurisdizione)” nell’incontro di studi SSM P.2506.
[14] Cass. Sez. 1, n.2612 del 16.7.1969; Sez. 3, n. 2586 del 28.04.1981; Sez. 3, n. 1557 del 13.2.1998; Sez. L, n. 12521 del 12.12.1998; Sez. L, n. 11029 del 23.8.2000; Sez. 2, n. 5427 del 15.4.2002 ; Sez. L, n. 23229 del 13.12.2004; Sez. 3, n. 384 del 11.1.2007; Sez. 3, n. 14854 del 13.6.2013.
[15] I concetti sono tuttavia secondo la Corte di Cassazione sostanzialmente equivalenti.
[16] Cass. Sez. U., 30.10.2001, n. 13533; Cass. Sez. U., 10.01.2006, n. 141; Cass. Sez. 2, 9.8.2013, n. 19146; Cass. Sez. U., 3.5.2019, n. 11748.
Su questa rivista, si veda anche La Corte Costituzionale si pronuncia sulla cittadinanza. Osservazioni a prima lettura della Sentenza 142 del 2025 di Umberto Scotti, Cittadinanza iure sanguinis: brevi note dopo C. Cost. 31/7/25 n. 142 di Marco Gattuso,La cittadinanza nel diritto europeo di Bruno Nascimbene.
Sommario: 1. Premessa – 2.Obiezione sulla costituzionalità dell'art. 577-bis c.p.: il femminicidio non viola il principio di uguaglianza - 2.1. L’introduzione del delitto di femminicidio è imposta dagli obblighi sovranazionali - 2.2. Il delitto di femminicidio disvela il trucco della falsa neutralità del diritto penale - 2.3.Il diritto penale in chiave antidiscriminatoria e la necessità di adottare la prospettiva di genere per “un diritto diseguale paritario” - 2.4. La legittimità costituzionale di un sistema sanzionatorio differenziato per il delitto di femminicidio (e per gli altri reati contro le donne). Non è “colpa d’autore” - 3.Obiezione sulla discriminazione degli uomini: il femminicidio è causato dalla discriminazione sessuale - 4.Obiezione sull’assenza di proporzionalita dell’ergastolo :il femminicidio prevede una pena proporzionata alla gravità del fatto - 4.1. La pena prevista dal codice penale per l’omicidio - 4.2. La proporzionalità della pena secondo la giurisprudenza costituzionale. In particolare, la sentenza n. 197 del 2023 - 5. Obiezione sul panpenalismo: il femminicidio non rappresenta un eccesso di criminalizzazione - 5.1. La funzione del diritto penale: non solo repressione ma anche orientamento culturale - 5.2. Il diritto penale come strumento di riconoscimento e definizione dei beni giuridici fondamentali - 5.3. La funzione general-preventiva della norma penale: orientamento dei comportamenti sociali ed effetti indirettamente preventivi - 6. L’obiezione sul difetto di tassatività. La fattispecie di femminicidio descrive il fatto tipico in modo preciso e determinato - 6.1. La prima parte della fattispecie: “in quanto donna” - 6.2. La seconda parte della fattispecie: la scelta autonoma della relazione - 6.3. La terza parte della fattispecie: la limitazione delle libertà individuali - 7. Obiezione sulla contrapposizione tra punizione e prevenzione: non sono alternative ma complementari - 7.1. La falsa contrapposizione tra repressione e prevenzione - 7.2. Il delitto di femminicidio produce effetti preventivi - 8.Conclusioni.
1. Premessa
Il disegno di legge che introduce nel codice penale l'art. 577-bis, dedicato al delitto di femminicidio (e le aggravanti che su di esso si modellano), rappresenta un passaggio epocale per l'ordinamento giuridico italiano perché interrompe la pratica interpretativa di invisibilizzazione delle donne e della violenza che su di esse viene agita “in quanto donne”.
Se fossero uomini, nelle stesse condizioni di fatto, non verrebbero sottoposte a maltrattamenti, abusi sessuali, persecuzioni, umiliazioni, manipolazioni.
Viene, dunque, spezzata la falsa neutralità del diritto penale; viene indicata, in termini chiari, la struttura culturale e discriminatoria in cui si sviluppa la violenza contro le donne con applicazione dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione e delle fonti sovranazionali.
La norma proposta definisce il femminicidio come l'uccisione di una donna " quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali è punito con la pena dell’ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo si applica l’articolo 575…”.
Questa innovazione normativa, unica sulla quale mi soffermo in questa audizione, ha suscitato forti obiezioni che meritano una risposta puntuale e argomentata che deve necessariamente partire dagli obblighi costituzionali e sovranazionali del nostro Paese, soprattutto all’esito delle diverse condanne subite dall’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani (v. Talpis contro Italia, 2 marzo 2017; Landi c. Italia, 7 aprile 2022, De Giorgi c. Italia, 16 giugno 2022, M.S. c. Italia, 7 luglio 2022; I.M. e altri c. Italia, 10 novembre 2022; P.P. contro Italia, 13 febbraio 2025) l’ultima delle quali di pochi giorni fa: Scuderoni contro Italia, 23 settembre 2025.
Dobbiamo porci il problema del perché, a fronte del progressivo rafforzamento degli strumenti normativi nel contrasto alla violenza contro le donne, la Corte EDU continui a condannare l’Italia per passività giudiziaria.
La risposta risiede nelle seguenti gravi aporie su cui invito fortemente il Parlamento a lavorare servendosi dell’importante binario costituito dal recepimento della Direttiva 2024/1385 del 14 maggio 2024 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, al fine di:
a) affrontare in modo sistemico il contrasto alla violenza contro le donne prevedendo un apparato normativo unitario, chiaro e coordinato che riguardi tutti gli ambiti con i quali una donna vittima di violenza e i suoi figli entrano in contatto al fine di prenderla in carico, in modo professionale, efficace ed empatico, evitando vuoti di tutela e decisioni contraddittorie che conducono alla sfiducia nelle istituzioni e al rientro della donna e dei suoi figli nella relazione maltrattante;
b) investire su uno strutturato sistema di prevenzione in tutti gli ambiti formativi, a partire dagli asili nido, che metta al centro la libertà e la dignità femminile e ricostruisca un nuovo alfabeto nel rapporto tra uomini e donne;
c) imporre un coordinamento, con periodici monitoraggi circa la loro effettività ed efficacia, tra tutti i soggetti che entrano in contatto con le donne vittime di violenza e i loro figli (ospedali, medici di famiglia, enti territoriali, assistenti sociali, insegnanti, forze di polizia, polizia giudiziaria, consulenti tecnici, pubblici ministeri, giudici – civili, penali e minorili -, operatori dei centri per la giustizia riparativa, operatori dei centri per uomini maltrattanti, ecc.), riconoscendo il ruolo decisivo che svolgono i centri antiviolenza, altrimenti ogni intervento resta settoriale e a rischio di decisioni contrastanti tali da mettere in serio pericolo la donna e i suoi figli. Ad oggi ogni istituzione si muove in modo disarticolato, autonomo, separato e sovrapposto, con imponenti e spesso inutili costi, anche economici, e in totale assenza di indispensabili controlli.
d) rendere obbligatoria, strutturata, continuativa la formazione di tutti gli operatori, a partire da polizia giudiziaria e magistratura:
-sulla necessità di assumere una prospettiva di genere nell’affrontare questi delitti (come imposto dalle norme sovranazionali);
-sulle dinamiche culturali ed identitarie della violenza contro le donne;
-sulla valutazione del rischio;
- sui pregiudizi giudiziari inconsapevoli e persistenti – riconosciuti dalle fonti sovranazionali - che impediscono alle donne l’accesso alla giustizia (le donne mentono, le donne esagerano, le donne se la sono cercata, le donne provocano, le donne denunciano falsamente, ecc.) e che portano, invece, ad empatizzare o giustificare gli autori;
-sull’ascolto professionale delle vittime, previa conoscenza del ciclo della violenza;
- sulla consapevolezza del trauma – spesso ridimensionato o non accertato - che generano questi delitti;
- sulla necessità di un coordinamento serrato tra il procedimento civile di separazione ed affidamento dei figli ed il procedimento penale, ad oggi sostanzialmente ancora inesistente per la mancata applicazione dell’art. 64-bis disp. att. cod. proc. pen. e per l’assenza di controlli da parte dei dirigenti degli uffici giudiziari.
La formazione, per essere efficace e adeguata, dovrebbe essere innanzitutto comune e poi svolta soltanto da professionisti dalla competenza riconosciuta e accreditata, primi tra tutti le operatrici dei centri antiviolenza;
e) investire in modo consistente e strutturale sul personale (forze di polizia, polizia giudiziaria, addetti al monitoraggio dei braccialetti elettronici nelle sale operative, magistratura, cancellerie), che oggi opera ai limiti del collasso ed è del tutto insufficiente, perché a fronte di continue riforme, anche doverosamente acceleratorie, tutto è rimasto invariato ed è avvenuto a costo zero. Il contrasto alla violenza contro le donne può essere efficace e non consentire alibi a nessuno solo partendo da un imponente investimento economico.
2. Obiezione sulla costituzionalità dell'art. 577-bis c.p.: il femminicidio non viola il principio di uguaglianza
2.1. L’introduzione del delitto di femminicidio è imposta dagli obblighi sovranazionali
Il femminicidio non è l’uccisione di una donna, ma costituisce l’apice di una relazione di potere strutturalmente discriminatoria che termina con la sua definitiva soppressione.
Le donne sono le uniche persone ad essere uccise per il solo fatto di appartenere al loro sesso ("in quanto donne") e questa specificità richiede che le norme penali, lungi dall'essere neutre, esplicitino il meccanismo in cui si consuma il delitto.
L'introduzione dell'art. 577-bis cod. pen. attua gli obblighi sovranazionali derivanti dalle seguenti fonti vincolanti per l’Italia in via diretta o ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. la Convenzione CEDAW (ratificata dall'Italia nel 1985), e le sue Raccomandazioni, la Convenzione di Istanbul (ratificata nel 2013), la Direttiva UE 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne che impongono agli Stati di adottare misure legislative specifiche per contrastare la violenza di genere nelle sue forme più gravi.
Si richiamano inoltre, fonti di soft law:
a) la Risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite[1], che ha raccomandato alle legislazioni nazionali di punire l'uccisione di ragazze e donne per motivi di genere, nonché meccanismi per prevenire e indagare queste forme di violenza;
b) la Dichiarazione di Vienna delle Nazioni Unite del 2013[2] che ha individuato, per la prima volta, diversi tipi di femminicidi oltre l’uccisione di donne a seguito di violenza da parte di un partner intimo, ad oggi non ritenuti tali nel nostro Paese tra cui:
c) la Risoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019 sull’adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul e altre misure per combattere la violenza di genere (2019/2855(RSP) che definisce il femminicidio come “la morte violenta di una donna per motivi di genere, che avvenga nell’ambito della famiglia, di un’unione domestica o di qualsiasi altra relazione interpersonale, nella comunità, a opera di qualsiasi individuo, o quando è perpetrata o tollerata dallo Stato o da suoi agenti, per azione o omissione”.
Da ultimo l’EIGE – l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere dell’Unione europea – ha sollecitato gli Stati membri dell’UE a considerare il femminicidio un reato autonomo proprio mettendo a punto gli indicatori utili ad armonizzare i processi di registrazione dei dati per migliorarne l’acquisizione e le Osservazioni conclusive sull’Italia del Comitato sull’Eliminazione della Discriminazione contro le Donne (CEDAW), pubblicate il 19 febbraio 2024, nell’VIII Rapporto periodico, hanno raccomandato allo Stato di introdurre il delitto di femminicidio.
Quindi la previsione della fattispecie di femminicidio nel codice penale è un atto dovuto.
2.2. Il delitto di femminicidio disvela il trucco della falsa neutralità del diritto penale
Vedere la disuguaglianza sessuale e la discriminazione quotidiana che vivono le donne in ogni contesto è il presupposto per contrastarla[3].
Il diritto penale ha il potere di "nominazione": dare un nome giuridico al femminicidio significa riconoscerne la matrice discriminatoria e fornire agli operatori gli strumenti interpretativi per decrittarlo correttamente.
Ad oggi in Italia, così come in gran parte dei Paesi europei, continua a prevalere un diritto neutro secondo un’impostazione arcaica che non tiene conto, invece, del valore promozionale dell’ordinamento a tutela dei diritti di chi ha strutturalmente meno potere di chi impone le regole del diritto neutro.
Il paradigma classico del diritto penale è la neutralità dei delitti rispetto al sesso[4], corollario del principio di uguaglianza formale, secondo il quale vi è un medesimo statuto giuridico per tutti i cittadini di fronte alla legge.
La neutralità evita tutele diversificate per tipi di vittima o di autore fondate sull’appartenenza del soggetto attivo o passivo del reato.
D’altra parte, la neutralità, id est oggettività, conferisce al dominio le apparenze della legittimità[5]. Tanto questo è vero che, mentre veniva teorizzato tutto questo, come è noto, nel nostro codice penale esistevano, tra gli altri, l’adulterio, il matrimonio riparatore e l’omicidio per causa d’onore, tutti delitti volti a convalidare, anche istituzionalmente, i segni inequivoci della mascolinità come relazione di dominio sulle donne, e sopravvissuti, nel silenzio generalizzato degli operatori del diritto, per decenni nonostante l’approvazione della Costituzione repubblicana e dell’articolo 3, secondo comma.
Non è un caso che la modalità linguistica gender neutral, volta a rendere le donne invisibili persino nei contesti giuridici in cui sono soggette a gravi forme discriminatorie “in quanto donne” - reati di violenza maschile contro le donne nell’ambito penale e diritto di famiglia e responsabilità genitoriale nell’ambito civile – è stata oggetto di serrate critiche degli organismi sovranazionali di controllo, come il Grevio[6], e da ultimo della stessa Commissione europea. Infatti, nel Rapporto sulle conseguenze giuridiche, per l’Unione europea, dell’adesione alla Convenzione di Istanbul si stigmatizza il mancato espresso richiamo alle donne e alle ragazze in numerose norme, anche della stessa legislazione europea, inclusa la Direttiva 2024/1385/UE, perché questa omissione, non riconoscendo l'impatto sproporzionato che ha su di loro la violenza «porta a una mancanza di comprensione delle dinamiche di potere tra uomini e donne, in particolare quelle all'intersezione di diversi motivi di discriminazione»[7].
Come già evidenziato in altra sede[8] declamare la neutralità e l'universalità del diritto è un trucco volto a cancellare le donne e i loro diritti.
Si parlava di suffragio universale elettorale anche quando era impedito alle donne di votare. Perché l’universale è sempre e solo maschile, unico modello riconosciuto e riconoscibile.
Il codice penale, nella sua presunta neutralità, ha storicamente occultato la specificità della violenza maschile contro le donne:
Alla luce di tutto questo apparato, è evidente la carica di rompente della nuova fattispecie penale e delle aggravanti che essa si conformano.
2.3. Il diritto penale in chiave antidiscriminatoria e la necessità di adottare la prospettiva di genere per “un diritto diseguale paritario”
Il punto di partenza per qualsiasi riflessione di carattere culturale, sociale, economico, ma soprattutto giuridico è la necessità di riconoscere la disuguaglianza sistemica e profonda nelle relazioni tra donne e uomini e di volerne garantire, nel concreto, il pieno superamento affinché i diritti umani e le libertà siano individuati, esercitati e protetti, in modo uguale, per donne e uomini[9].
Il Trattato sull’Unione europea (artt. 2 e 3, par. 3), la Carta dei diritti fondamentali (art. 21) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea stabiliscano che il diritto alla parità di trattamento e alla non discriminazione è un principio fondante dell’Unione europea (art. 8 e, in particolare, gli artt. 82, par. 2, e 83, par. 1).
Anche la Costituzione italiana sposta l’obiettivo : dalla parità di trattamento formale alla promozione dell’uguaglianza sostanziale tra uomo e donna di cui la violenza costituisce il più grave impedimento.
Si impone, dunque, la necessaria attivazione di una discriminazione positiva, costituzionalmente posta ma fortemente frenata da coloro che temono, che in tal modo, avvenga una deviazione qualificata del principio di uguaglianza, ignorando che il diritto delle donne di vivere libere dalla violenza costituisce un diritto umano inalienabile riconosciuto da fonti sovranazionali vincolanti per il nostro Paese.
L’obiettivo della legge sul femminicidio non è quello di garantire situazioni, giuridiche o di fatto, identiche, ma di creare le condizioni effettive per permettere alle donne la piena espressione delle loro potenzialità e più in generale della loro personalità che ad oggi non è consentita a causa della pratica quotidiana della violenza che subiscono, di cui il femminicidio è la forma più estrema.
Premesso che ogni vita merita di essere tutelata, la questione deve ruotare intorno al tema della differenza e non a quello dell’identità, nella logica prioritaria di riequilibrare lo svantaggio millenario, tuttora esistente, che vede le donne vittime della violenza maschile.
Il diritto penale, letto in una condivisibile prospettiva non solo emancipatoria, ma soprattutto antidiscriminatoria, che valorizzi l’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, potrebbe costituire uno strumento di rafforzamento della tutela di beni, rectius diritti, già esistenti che la collettività percepisce come particolarmente bisognosi di protezione[10].
La funzione special-preventiva, invece, concepisce la pena come strumento per prevenire che l’autore di un reato ne commetta in futuro altri.
In questa cornice, spetta al potere legislativo selezionare i comportamenti penalmente rilevanti e stabilirne la pena, a seconda del valore attribuito al bene giuridico da tutelare e alla considerazione che merita nell’ambito della comunità sociale che ne richiede una maggiore protezione; mentre spetta al potere giudiziario accertare, nel caso concreto, l’avvenuta commissione del delitto, interpretando la norma penale di riferimento ed applicando all’autore pene adeguate nella prospettiva rieducativa sancita dalla Costituzione.
In piena condivisione delle tesi sostenute dalla dottrina penalistica più moderna possiamo riconoscere che la creazione di una fattispecie penale richiede :
In sostanza il precetto penale, in ragione della gravità delle conseguenze che derivano dalla sua inosservanza, richiede una giustificazione rilevante, in termini di idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto rispetto alle legittime finalità perseguite dal legislatore mediante l’incriminazione.
La Corte costituzionale spagnola, già a decorrere dal 1992, e soprattutto dopo la Ley organica n. 1/2004 contra la violencia de género – che ha introdotto venti anni fa delitti che prevedono un più severo trattamento punitivo per gli uomini che commettono determinate condotte criminose ai danni delle donne con le quali hanno o avevano una relazione affettiva, indipendentemente dalla convivenza - ha delineato la dottrina del diritto diseguale egualitario [14] in forza del quale la differenza di trattamento opera come “un rimedio correttore di passate ingiustizie consumate sopra un gruppo specifico, determinando una redistribuzione del lavoro, dell’educazione, delle spese pubbliche e di alcuni altri beni, a favore di questo gruppo, caratterizzato normalmente per la razza, l’etnia o il genere, arrivando a concedere un trattamento preferenziale per facilitare il loro accesso a questi beni, a titolo di risarcimento per la discriminazione attuale o passata diretta contro di loro, al fine di garantire una distribuzione proporzionale di quei beni”[15].
Non è un caso che detto sistema differenziato, volto anche ad interpretare in modo corretto i delitti di violenza maschile contro le donne e il contesto discriminatorio in cui sono commessi, ha consentito di evitare la diffusa minimizzazione di questi a vicende private o liti familiari da parte di operatori giudiziari non adeguatamente formati (e non solo specializzati), nelle fasi antecedenti ai femminicidi, tanto che questi in Spagna si sono drasticamente ridotti, tra 50 e 60 vittime annuali[16], a fronte dei circa 110-130 annui che registra stabilmente l’Italia[17].
Il diritto penale, inoltre, non è più racchiuso all’interno della tradizionale prospettiva nazionale, grazie alla interrelazione con le fonti sovranazionali che disegnano una progressiva evoluzione dell’ordinamento interno e dei diritti da questo tutelati nella costruzione della legalità europea e del rafforzamento dei diritti umani inalienabili, nei termini indicati anche dalla giurisprudenza della Corte Europea per i diritti umani.
Poiché la radice della violenza è la disuguaglianza tra uomini e donne, è necessario che venga nominata descrivendone i quotidiani meccanismi in cui si sviluppa nelle singole relazioni.
Perché questo avvenga, l'interprete deve assumere la prospettiva di genere che implica di dare un corpo sessuato ai protagonisti della vicenda giuridica per stabilire quando essere uomini o donne o assumere ruoli maschili o femminili determina l’effetto di essere o meno titolari di diritti oppure facilita o rende più difficoltoso o elimina del tutto il loro esercizio[18].
La prospettiva di genere è una visione, scientifica ed analitica, diffusa in gran parte del mondo[19], capace di osservare la violenza come un meccanismo che riproduce le disuguaglianze e le relazioni gerarchiche tra le persone basate Sull'appartenenza sessuale, così da imporre all’interprete di vedere che gli uomini e le donne, in concreto, non hanno lo stesso valore sociale, non hanno gli stessi diritti ed opportunità per decidere, per accedere alle risorse economiche e alla rappresentanza negli ambiti in cui si esercita potere.
Solo adottando la prospettiva di genere si può accertare, nel caso concreto, se la violazione dei diritti umani è conseguenza della discriminazione motivata dall’appartenenza sessuale[20].
Dunque, agli operatori - giudiziari, sanitari, socioassistenziali, eccetera - [21]serve acquisire strumenti di lettura, culturali ed interpretativi, per comprendere, nello specifico contesto da esaminare, se vi sia innanzitutto una effettiva condizione di libertà della donna e questa si traduca nella libertà di prendere delle decisioni senza imposizioni perché la violenza maschile contro le donne, in generale, ha le sue origini in una società che le considera esseri umani inferiori e oggetti sessuali al servizio dei bisogni e dei desideri maschili e quando non vengono assecondati sono uccise.
Una volta riconosciuto che la disuguaglianza nelle relazioni tra donne e uomini costituisce un dato di fatto storico ed universale e che la violenza ne costituisce una delle più esplicite rappresentazioni, la conseguenza logico-giuridica è che uno Stato di diritto, fondatore dell’Unione europea, tenuto al rispetto dei principi sopra richiamati, sia obbligato a predisporre strumenti giuridici capaci:
a) di tenere conto che le donne sono un soggetto giuridico autonomo e diverso da qualsiasi altro, iniziando con il nominarle nelle leggi;
b) di potenziare la loro esistenza, rimuovendo gli ostacoli strutturali che conseguono alla diffusa minimizzazione istituzionale e sociale della violenza che subiscono “in quanto donne”, in ogni contesto;
c) non confondere questa forma, unica e specifica di violenza, con qualsiasi altra vissuta da altri esseri umani.
2.4. La legittimità costituzionale di un sistema sanzionatorio differenziato per il delitto di femminicidio (e per gli altri reati contro le donne). Non è “colpa d’autore”
Nella prospettiva del principio generale di uguaglianza, la legittimità costituzionale della norma dipende dalla ragionevolezza di un trattamento differenziato quando vi siano presupposti di fatto disuguali, privi di una giustificazione oggettiva e che non comportino conseguenze sproporzionate alla luce dello scopo perseguito
La violenza nei confronti delle donne costituisce non solo un delitto, ma anche una forma estrema di discriminazione strutturale nei loro confronti, vietata dall'articolo 3 della Costituzione italiana e dalle Dichiarazioni universali sui diritti, perché costringe il genere femminile in una posizione di consolidata subordinazione a tutti i livelli della società.
Ne consegue che una più severa sanzione diventa del tutto ragionevole perché tiene conto di questo surplus di disvalore.
Non si tratta di punire più gravemente la violenza contro le donne in considerazione di uno specifico movente soggettivo dell’autore (provato facilmente per ogni delitto ed evincibile dalla sua stessa dinamica), ma di accertare la dinamica oggettiva della relazione con la vittima tenendo conto che l’offesa all’incolumità fisica, alla dignità, alla libertà personale, sessuale ed economica, realizzata attraverso i numerosi delitti di violenza contro le donne, di cui il femminicidio, per operatori specializzati, è soltanto il prevedibile apice, produce una lesione ulteriore in quanto, come stabilito dal Preambolo della Convenzione di Istanbul: a) costituisce “una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne”; b) “la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”.
Per questo la particolare gravità delle aggressioni al genere femminile merita una risposta punitiva che renda l’uguaglianza sostanziale un bene giuridico meritevole di intervento penale, fermo restando che il più severo trattamento non attiene ad un tipo di autore, per responsabilità del genere cui appartiene, ma tiene conto del peculiare disvalore insito nella violenza contro le donne che il singolo, con un deliberato, specifico e volontario atto proprio - che impone, come per ogni delitto, un approfondito e garantito accertamento secondo le regole del processo penale – non fa altro che rinnovare, rafforzandola.
Non si punisce, dunque, come ribadito dal Tribunale Costituzionale spagnolo, un delitto per la colpa degli altri, ma per avere quello specifico autore consapevolmente realizzato quella violenza di genere che esprime adesione alla cultura maschilista e per avere riprodotto e confermato con la propria azione la sua carica di disvalore.
Soltanto chi nega la validità della situazione discriminatoria di partenza tra uomini e donne può escludere la maggiore gravità e lesività che esprime la violenza dell’uomo contro la donna nell’ambito di una relazione di potere discriminatorio che non può valere all’inverso.
In Italia, l’analisi della ragionevolezza della differenziazione sessuale per questi delitti, sino ad oggi estranea al diritto penale, richiede di iniziare con la ricerca della legittimità e della funzionalità dello scopo perseguito dalla fattispecie illecita, fondata sulle citate fonti sovranazionali, in materia di protezione integrale delle donne e di lotta alla discriminazione sessuale, e nella consapevolezza del legislatore che le aggressioni degli uomini nei confronti del genere femminile hanno un maggiore disvalore rispetto a qualsiasi altra “violenza di relazione”.
Questo perché:
-è un'aggressione che causa un danno maggiore alla vittima;
-l’autore agisce in conformità ad uno schema culturale ed identitario discriminatorio, contrario alla Costituzione, volto a limitare libertà e dignità della persona offesa “in quanto donna” così negandole lo status di persona in un rapporto paritario;
-rafforza nella società l’identificazione di metà del genere umano, le donne, con un sesso disprezzato, inferiore, privo di autonomia.
D’altra parte, il femminicidio è un delitto che si verifica quando le condizioni storiche generano pratiche sociali che permettono l’aggressione all’ integrità, allo sviluppo, alla salute, alle libertà e alla vita delle donne. Questo può avvenire in qualsiasi tempo e in qualsiasi spazio da parte di persone conosciute (mariti, parenti, fidanzati, compagni, colleghi di lavoro, clienti) o di sconosciuti, gruppi mafiosi, di narcotraffico o di criminalità che utilizzano la violenza.
Gli uomini che usano violenza sulle donne, conosciuti o sconosciuti che siano, a qualsiasi contesto appartengano, hanno un comune denominatore culturale: ritengono il genere femminile utilizzabile e maltrattabile nella certezza della più assoluta omertà, collusione, minimizzazione e normalizzazione di quello che subisce.
Questa è la ragione che impone allo Stato di creare condizioni di sicurezza per la vita delle donne all’interno delle famiglie, delle comunità, dei luoghi di lavoro, delle strade, delle palestre, dei locali, eccetera.
Un ambiente sociale sessista e misogino normalizza la violenza perché genera una convivenza insicura per le donne, pone a rischio la loro vita e favorisce i crimini nei loro confronti.
Contribuiscono alla commissione dei femminicidi il silenzio sociale, la disattenzione, la negligenza e l’assenza di formazione degli operatori, l’idea che ci siano problemi più urgenti, la minimizzazione, la negazione del problema e della sua gravità, il linguaggio.
3. Obiezione sulla discriminazione degli uomini: il femminicidio è causato dalla discriminazione sessuale
Un'obiezione frequente è che l’art. 577-bis cod. pen. cp creerebbe una discriminazione "al contrario" perché punirebbe più severamente l’uccisione di una donna rispetto a quella di un uomo.
È un’obiezione fallace sotto diversi profili:
a) questo reato non viola affatto il fondamentale diritto di uguaglianza e di non discriminazione tra uomini e donne, ma, al contrario, risponde ad una finalità costituzionale, euro unitaria e convenzionale cioè quella di prevedere una più adeguata protezione dei diritti delle donne, ed in particolare il diritto di vivere libere da qualsiasi tipo di violenza, quando le condotte illecite siano determinate da discriminazione sessuale che, ad oggi, colpisce solo il genere femminile;
b) non tiene conto della natura strutturale della sola violenza contro le donne, dato discriminatorio millenario, che il legislatore, nell’ambito della propria discrezionalità politica, esprimendo anche precise condivise istanze sociali, decide di considerare più riprovevoli e più gravi in quanto espressive di una radicata disuguaglianza che genera anche insicurezza, intimidazione e disprezzo nei confronti di metà del genere umano, le donne, e la autoalimenta;
c) non considera che l’uccisione di una donna (o di un uomo o di un bambino/a) in un contesto diverso da quello indicato dall’articolo 577 bis cod.pen. (come può essere quello di una rapina, di un regolamento di conti per questioni connesse al traffico di stupefacenti, dell’omicidio stradale, della strage, della tortura, eccetera) viene punito a prescindere dall’appartenenza sessuale della vittima, in quanto quella morte non assume un disvalore autonomo e diverso rappresentato dalla discriminazione sessuale.
La norma, dunque, non introduce un privilegio, ma riconosce e sanziona una specifica forma di violenza, unica a riguardare metà delle persone che abitano il pianeta, e non una minoranza, qualsiasi essa sia.
Se ancora vi fossero perplessità circa la natura discriminatoria “al contrario”, cioè ai danni degli uomini, derivante dalla tipizzazione del delitto di femminicidio nel codice penale, oltre che delle diverse aggravanti che ne riprendono la definizione - inserite in relazione a tutti i delitti di violenza contro le donne - è bene ricordare, oltre il già menzionato art. 3, secondo comma, Cost. , che l’articolo 4 della Convenzione di Istanbul (Diritti fondamentali, uguaglianza e non discriminazione) al paragrafo 4 (che riprende l’art. 4 della CEDAW) non solo impone agli Stati di «assumere le misure specifiche necessarie per prevenire la violenza e proteggere le donne contro la violenza di genere» ma aggiunge che dette misure «non saranno considerate discriminatorie».
La Relazione esplicativa della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica al paragrafo 55 spiega come l’articolo 4, stabilendo che le misure speciali volte a prevenire e proteggere le donne contro la violenza di genere non riguardano gli uomini, richiama il concetto di discriminazione per come interpretato dalla Corte europea dei diritti umani in relazione al corpus giurisprudenziale relativo all'articolo 14 della CEDU e, in particolare, la sentenza Abdulaziz, Cabales e Balkandali contro Regno Unito («si può parlare di discriminazione nel caso in cui la differenza di trattamento non abbia una oggettiva irragionevole giustificazione, ossia, non persegua un obiettivo legittimo o non vi sia un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e la finalità che si intende perseguire»)[22]. La Relazione aggiunge che «il fatto che le donne subiscano molto più degli uomini atti di violenza basata sul genere, inclusa la violenza domestica, può essere considerata una giustificazione oggettiva e ragionevole per utilizzare risorse ed assumere particolari misure solo ed esclusivamente a beneficio delle donne vittime di violenza».
Il legislatore statale è tenuto a creare un meccanismo giuridico volto innanzitutto a garantire che la vita delle donne non sia minacciata, ma anche a reprimere questa forma, del tutto autonoma e specifica di violenza, nell’ambito di una strategia politico-criminale come richiesto agli Stati dall’art. 5 della Convenzione di Istanbul [23].
Pertanto, la disposizione di cui all’art. 577-bis cod. pen. del codice penale (e le circostanze aggravanti su questa costruite), proposta dal disegno di legge, costituisce una misura oggettiva, positiva e ragionevole ai sensi:
- dell’articolo 3, secondo comma, della Costituzione;
- dell’articolo 4, paragrafo 4, della Convenzione di Istanbul;
- dell’articolo 50 della CEDAW e dell’articolo 12 della Convenzione di Istanbul che affermano esplicitamente il dovere dello Stato di “modificare le pratiche legali o consuetudinarie che favoriscono la persistenza e la tolleranza della violenza contro le donne”, adottando dunque norme specifiche di genere poiché la modifica dei modelli socioculturali richiede misure appropriate.
4. Obiezione sull’assenza di proporzionalità dell’ergastolo: il femminicidio prevede una pena proporzionata alla gravità del fatto
4.1. La pena prevista dal codice penale per l’omicidio
Il codice penale prevede, per la forma base del delitto di omicidio volontario, un minimo di ventuno e un massimo di ventiquattro anni di reclusione.
A questo delitto sono applicabili:
-tutte le circostanze aggravanti comuni (la cui presenza può innalzare il massimo sino a trent’anni);
- quelle speciali previste dagli artt. 576 e 577 cod. pen., la maggior parte delle quali può comportare la pena dell’ergastolo, in caso di assenza di attenuanti, o di ritenuta prevalenza delle stesse aggravanti rispetto ad eventuali attenuanti.
All’omicidio sono di regola applicabili tutte le circostanze attenuanti comuni (art. 62 cod. pen.) e le attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.)[24] sicché, in caso di ritenuta prevalenza di queste ultime, il giudice potrà infliggere una pena sensibilmente inferiore al minimo edittale di ventun anni di reclusione e, più precisamente, arrivare:
- sino a un minimo di quattordici anni ove riconosca un’unica attenuante;
- nove anni e quattro mesi, ove ne riconosca due;
- sei anni, due mesi e venti giorni, ove ne riconosca tre.
La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio della XVIII Legislatura, nella Relazione sulla risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018, ha accertato che l’ergastolo è stato applicato nel 17,2% delle sentenze di condanna.
Inoltre, è bene sapere che l’ergastolo non è un “fine pena mai” perché secondo la Corte costituzionale e la Corte EDU vanno comunque assicurate «progressività trattamentale e flessibilità»[25], secondo i principi di proporzione e individualizzazione della pena[26] in quanto «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento».
L’ergastolo, previsto per non pochi delitti, è sempre sopravissuto alle censure di incostituzionalità (tranne quella relativa al caso di ergastolo inflitto al minore), in relazione al potenziale contrasto con il principio dell’umanizzazione della pena e della finalità rieducativa di essa. Le diverse sentenze di rigetto della Consulta si sono basate essenzialmente sull’idea per cui i vari benefici premiali introdotti dal legislatore penale e penitenziario abbiano di fatto attenuato il carattere di perpetuità dell’ergastolo rendendolo compatibile alla Costituzione e fornendo tutti gli strumenti necessari a consentire il reinserimento in società del condannato. Infatti, i condannati all’ergastolo ordinario, come sono coloro che vengono condannati per il delitto di femminicidio, possono accedere ad una serie di benefici, trascorso un periodo di pena espressamente previsto dalla legge: la liberazione anticipata, che comporta una detrazione di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata qualora il condannato abbia dato prova di rieducazione; la semilibertà, che consente di trascorrere parte della giornata all’esterno, dopo aver scontato 20 anni; i permessi premio, che riconoscono al condannato la facoltà di coltivare fuori dal carcere i propri interessi affettivi; il lavoro all’esterno, cui si accede dopo 10 anni di pena scontata; la liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di pena.
Ad oggi nessuno di detti benefici penitenziari viene comunicato né ai parenti della vittima, come ad esempio gli orfani di femminicidio, né alle madri sopravvissute alle uccisioni dei loro figli, con ciò che ne consegue in termini di messa in pericolo della loro integrità fisica e psichica.
Questa è una grave carenza che il disegno di legge in esame ha il merito di riempire con la modifica dell’articolo 58 sexies dell’ordinamento penitenziario.
4.2. La proporzionalità della pena secondo la giurisprudenza costituzionale. In particolare, la sentenza n. 197 del 2023
Non può farsi a meno di sottolineare come la questione della proporzionalità della pena e della irragionevolezza dell’ergastolo abbia visto una levata di scudi solo per il delitto di femminicidio che già oggi prevede questa sanzione (attraverso le aggravanti) e che, sotto il profilo della proporzionalità e dell’offensività, viola un diritto umano inalienabile attraverso la discriminazione sessuale che ne costituisce il fondamento.
La giurisprudenza della Corte costituzionale ha più volte sottolineato che il principio di proporzionalità della pena, desunto dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige che questa sia adeguatamente calibrata sia con riferimento al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, sia al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo il quale a sua volta «dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile» (sentenza n. 73 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 94 del 2023, punto 10.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 55 del 2021, punto 8 del Considerato in diritto).
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 197 del 2023, ha fornito indicazioni decisive sul rapporto tra proporzionalità della pena, individualizzazione del trattamento sanzionatorio e necessità di riconoscere la diversa gravità oggettiva e soggettiva dei fatti di reato esaminando proprio casi che con la nuova disciplina definiremmo femminicidi.
È lo stesso Giudice delle leggi a prendere atto che «Le statistiche annue sui femminicidi, sulle quali ha insistito l’Avvocatura generale dello Stato negli atti di intervento e nella discussione orale, dimostrano la necessità per il legislatore di intervenire con misure incisive, preventive e repressive, per contrastare efficacemente questo drammatico fenomeno, nonché la generalità dei fenomeni di violenza e abusi commessi nell’ambito di relazioni familiari e affettive» (Paragrafo 5.6).
La sentenza citata afferma testualmente che "ogni omicidio lede in maniera definitiva una vita umana. E poiché ciascuna persona ha pari dignità rispetto a tutte le altre, ogni omicidio parrebbe avere identico disvalore. Eppure, da sempre il diritto penale distingue – nell'ambito degli omicidi punibili – tra fatti più e meno gravi." (Paragrafo 5.1).
La Corte evidenzia che "quando la condotta omicida venga riguardata dal lato dell'autore anziché da quello della vittima, diviene agevole comprendere perché la gravità della condotta omicida sia suscettibile di significative graduazioni." e prosegue rilevando che “Dunque, l’unica figura legale di omicidio volontario abbraccia condotte dal disvalore soggettivo affatto differente: dall’assassinio compiuto da un sicario o da un membro di un gruppo criminale contro un esponente di una cosca rivale, alla brutale uccisione della moglie o della compagna, sino a condotte omicide…maturate in contesti di prolungata e intensa sofferenza, causata da una lunga serie di soprusi e maltrattamenti…”
In particolare, la sentenza conclude che "il principio di proporzionalità della pena, desunto dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo"(Paragrafo 5.2).
La sentenza n. 197/2023 affronta anche il tema della proporzionalità "ordinale", ossia della coerenza del sistema sanzionatorio attraverso il confronto tra fattispecie di gravità comparabile concludendo che "…il principio di eguaglianza davanti alla legge di cui all'art. 3 Cost., [che] vieta non solo irragionevoli disparità di trattamento tra situazioni analoghe, ma anche irragionevoli equiparazioni di trattamento tra situazioni tra loro dissimili." (Paragrafo 5.5.1).
Alla luce dei menzionati principi declinati dalla Corte costituzionale, emerge con evidenza la peculiarità dei femminicidi - così denominati dalla stessa Corte - rispetto all'omicidio "semplice" in quanto i femminicidi sono fondati sulla discriminazione sessuale e sulla volontà di reprimere la libertà delle donne così da presentare un disvalore specifico e aggravato tale da giustificare pienamente una risposta sanzionatoria autonoma e più severa[27].
5. Obiezione sul panpenalismo: il femminicidio non rappresenta un eccesso di criminalizzazione
5.1. La funzione del diritto penale: non solo repressione ma anche orientamento culturale
L'obiezione del "panpenalismo" – inteso come ricorso eccessivo e superfluo alla sanzione penale – è del tutto fuori fuoco se applicata al femminicidio.
La preoccupazione per il cosiddetto 'panpenalismo' è legittima quando si tratta di punire fatti non meritevoli per il solo fatto di rappresentare la forza muscolare di uno Stato e sanzionare condotte non rilevanti né per la comunità, né per le istituzioni, né per l'ordinato assetto della convivenza civile.
Questi rischi, come è ovvio, non sono invocabili rispetto al diritto umano delle donne di non essere uccise per appartenere al sesso femminile e con dimensioni sistemiche che impongono, anche per obblighi sovranazionali, una risposta istituzionale chiara e leggibile.
5.2. Il diritto penale come strumento di riconoscimento e definizione dei beni giuridici fondamentali
Il diritto penale ha una funzione regolativa e non costitutiva; i fatti sociali non cessano con la loro tipizzazione o con la loro sanzione, vengono solo definiti stabilendo il livello di considerazione che di essi ha lo Stato.
Il paragone con il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), già proposto nel libro «Codice Rosso. Il contrasto alla violenza di genere: Dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi» è illuminante[28].
Nessuno ha mai neanche immaginato che la previsione del delitto di associazione di tipo mafioso, descritto in otto commi dal codice penale, riducesse la criminalità organizzata in Italia e nel mondo. Ciononostante, nessuno può negare che abbia costituito un potentissimo strumento culturale e giuridico per stabilire cosa è mafia e cosa non lo è, quali ne sono le sue caratteristiche[29].
Allo stesso modo, tipizzare il femminicidio non significa ritenere che i femminicidi cesseranno, ma semplicemente dare forma giuridica a un fenomeno che esiste, nominarlo, riconoscerne la matrice discriminatoria e fornire agli operatori – nessuno dei quali ad oggi ha una formazione obbligatoria - le categorie concettuali per comprenderlo, prevenirlo o punirlo, diversamente da quanto ancora accade quando si indulge in letture romantiche (amore malato, dolore per la separazione, gelosia, ecc.) o patologiche (raptus) o colpevolizzanti rispetto alle vittima (l’ha uccisa perché l’amava, perché l’aveva tradito, ecc.), come accertato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere della XVIII Legislatura, nella Relazione sulla risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018, approvata all’unanimità nella seduta del 18 novembre 2021[30].
5.3. La funzione general-preventiva della norma penale: orientamento dei comportamenti sociali ed effetti indirettamente preventivi
Autorevoli penalisti nei loro manuali spiegano che il diritto penale ha una funzione "general-preventiva" che "orienta le scelte di comportamento della generalità dei consociati sia facendo leva sul contenuto afflittivo della pena - che sarà tanto più elevata quanto più il bene che tutela è essenziale ai fini di un'ordinata convivenza umana -, sia svolgendo un'azione pedagogica che confida che con il tempo la collettività spontaneamente aderisca ai valori espressi dalla legge penale."
In un'ottica liberale, il diritto penale va emancipato dalla tradizionale subordinazione alla morale corrente e all'autoritarismo statale per penalizzare soltanto i beni giuridici socialmente apprezzabili dotati di rilevanza costituzionale.
Il diritto umano delle donne di vivere libere dalla violenza costituisce indubbiamente un bene giuridico di rango costituzionale, la cui tutela attraverso la tipizzazione del femminicidio è pienamente legittima e necessaria.
6. L’obiezione sul difetto di tassatività. La fattispecie di femminicidio descrive il fatto tipico in modo preciso e determinato
6.1. La prima parte della fattispecie: “in quanto donna”
Le donne non possono uscire di sera da sole, non possono viaggiare da sole, non possono sostenere un colloquio di lavoro da sole, non possono bere e ballare, non possono studiare quello che desiderano, non possono scegliere la professione cui ambiscono, non possono vestirsi come ritengono, non possono lasciare un uomo che non amano; perché se fanno una di queste cose, in qualsiasi contesto socio-culturale, sanno di porsi automaticamente in una condizione di rischio rispetto alla violenza maschile che ne conseguirebbe e questo anche se la violenza non si esplica. E, dunque, rinunciano o subiscono o reagiscono. Con tutti gli effetti che ognuna di queste scelte determina.
Questo vuol dire “in quanto donna”, dizione contenuta nelle Definizioni dell'articolo 3, lettera d) della Convezione di Istanbul, mentre l'articolo 2, lettera a) della Direttiva 2024/1385 usa un'espressione simile "solo perché donne".
D’altra parte, sono i dati a mostrare in termini oggettivi che esistono delitti commessi quasi esclusivamente dagli uomini nei confronti delle donne “in quanto donne” cioè i delitti di violenza domestica, violenza sessuale ed atti persecutori: “Per quanto attiene alle vittime delle fattispecie di reato monitorate nel periodo in esame, l’incidenza delle donne sul totale si mantiene pressoché costante, attestandosi intorno al 75% per gli atti persecutori, tra l’81 e l’83% per i maltrattamenti contro familiari e conviventi e con valori che oscillano tra il 91 e il 93% per le violenze sessuali.”[31].
L'introduzione del femminicidio, e le aggravanti su di esso costruite, mostra questi numeri e rompe la neutralità per riconoscere una realtà: le donne sono maltrattate, violentate, perseguitate ed uccise perché nascono donne, per ragioni culturali e sociali legate alla loro appartenenza al genere femminile, per l’esercizio di minimali diritti di libertà e per il rifiuto di sottomettersi al potere maschile.
Nel delitto di femminicidio (e nelle aggravanti) le condotte sono delineate in modo chiaro ed univoco attraverso termini come odio, discriminazione, prevaricazione, controllo, possesso e dominio[32] che da decenni appartengono non solo alla descrizione di fattispecie tipiche (si vedano i termini discriminazione e odio già contenuti nell’art. 604 bis c.p.), ma sono richiamati nelle fonti sovranazionali[33] e soprattutto nell’ampia elaborazione della giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di Cassazione, della Corte di Giustizia, della Corte EDU e del Comitato CEDAW.
Ciò vuol dire che non vi è alcun rischio di violazione del principio di tassatività in quanto la descrizione del delitto è ancorato a parametri univoci e precostituiti di riferimento.
6.2. La seconda parte della fattispecie: la scelta autonoma della relazione
La seconda parte della fattispecie, quella che accerta il «rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo», è ancora percepita, dal contesto sociale e familiare, come una condotta non accettabile che, in quanto tale, legittimamente inverte le responsabilità dell’atto violento che passano dall’autore alla vittima.
In sostanza, questa descrizione della disposizione penale rompe un assetto culturale profondamente radicato nel nostro Paese, il cui fondamento è costituito dal delitto per causa d’onore nel quale prevale, sempre e comunque, il diritto maschile ad esercitare il proprio dominio su una donna che, proprio per essere tale, è priva di autonomia e capacità decisionale: l’uomo lasciato perde potere non solo su di lei, ma soprattutto rispetto al contesto sociale che misura la virilità in base alla capacità di imporsi sulle donne. Un uomo che non domina sul genere femminile non lo umilia, non lo possiede, non lo comanda, non ha identità.
Per questo quasi un terzo di femminicidi si conclude con il suicidio dell’autore.
6.3. La terza parte della fattispecie: la limitazione delle libertà individuali
La terza parte della fattispecie è quella che descrive la condotta illecita come atti di limitazione delle libertà individuali delle donne.
Anche qui non si ravvisa alcuna genericità o assenza di tassatività. Si tratta, molto semplicemente, delle libertà minimali previste dalla Costituzione che nei processi, penali e civili che quotidianamente celebriamo, vediamo compresse o addirittura vietate: la libertà di uscire di casa, di aprire le finestre, di studiare, di fare acquisti in un negozio anziché in un altro, di spendere i propri soldi, di comprare gli assorbenti, di guidare l’ auto, di rivolgersi ai propri medici di fiducia, di lavarsi con l’acqua calda, di vedersi con le amiche, di parlare con i propri genitori a telefono, di abortire o di non abortire, di truccarsi il viso, di indossare i vestiti che desidera, di tingersi i capelli, ecc.
Sono molti facili queste libertà da individuare perché sono previste dagli artt. 13 e ss. della Costituzione e comunque vanno lette nel complesso dell’intera fattispecie, soprattutto della prima parte, perché la loro limitazione avviene proprio “in quanto donne”, perché se fossero uomini non avverrebbe.
Nessun appartenente al genere maschile ad oggi in Italia è stato ucciso dalla propria partner perché voleva lavorare, studiare, guidare la propria auto o uscire con gli amici.
Ecco il motivo per cui la nuova fattispecie, grazie a questa puntuale descrizione imporrà finalmente a magistrati, avvocati, forze di polizia, psicologi, sanitari, consulenti tecnici, assistenti sociali, interpreti, ecc.: a) di misurarsi con la vera radice culturale del fenomeno criminale sotteso ai singoli delitti che ne costituiscono la sua rappresentazione; b) di riconoscere e nominare la discriminazione sessuale strutturale che costituisce il sostrato della violenza.
La tipizzazione del femminicidio costituisce dunque il giusto riconoscimento della gravità specifica di questo delitto e della necessità di contrastarlo con strumenti adeguati visto che la violenza domestica è ancora ritenuta una sorta di destino femminile, di matrice privatistica, al quale le donne si adeguano per scelta o per assenza di alternative tanto da esserne in qualche modo masochisticamente compartecipi.
Attraverso l’enunciazione chiara di queste condotte non sarà più consentito banalizzare la vera e propria gerarchia di potere che continua a governare indisturbata un numero enorme di famiglie italiane e di relazioni di coppia, ancora normalizzata da molti provvedimenti giudiziari per l’inconsapevole retroterra culturale secondo il quale alle donne spetta pulire la casa, cucinare, occuparsi dei figli, rinunciare al lavoro, essere escluse dalle scelte economiche e finanziarie, adempiere ai cd doveri coniugali di natura sessuale, ubbidire senza porre domande, accettare umiliazioni davanti ai figli, evitare di separarsi sapendo che i bambini saranno per il padre un terreno di guerra con la madre anziché la prole di cui prendersi cura, rinunciare alla propria vita sociale per servire gli uomini di famiglia e quando non lo fanno la re-azione del marito o del compagno sarà ritenuta persino legittima o quantomeno comprensibile, così confondendo la violenza maschile contro le donne, soprattutto quella psicologica, con le liti familiari che ovviamente non costituiscono reato[34].
7. Obiezione sulla contrapposizione tra punizione e prevenzione: non sono alternative ma complementari
7.1. La falsa contrapposizione tra repressione e prevenzione
Un'obiezione ricorrente sostiene che sarebbe preferibile investire nella prevenzione piuttosto che nel sistema punitivo.
Si tratta di una contrapposizione fuorviante, anche perché o viene posta per qualsiasi fattispecie di reato espressiva di precisi ambiti sociali e culturali (omicidi sul lavoro, caporalato, criminalità mafiosa, inquinamento ambientale, corruzione, eccetera), altrimenti rischia di trasformarsi in uno sterile alibi che conduce solo all’immobilismo proprio rispetto ad una criminalità così radicata e strutturale che ha bisogno di decenni e decenni per vedere qualche positivo miglioramento in termini preventivi.
Nel frattempo che facciamo?
A fronte di un delitto che si fonda su una radicata ed ancestrale cultura millenaria, che impone alle donne una condizione di sudditanza rispetto all’ordine maschile sulla quale sono stati costruiti diritto (si pensi allo ius corrigendi o all’acquisizione del cognome del padre e del marito), scienza, religione, filosofia e medicina, è evidente che l’obiettivo prioritario è soltanto la prevenzione. Solo l'intera società deve e può farsi carico di debellare la violenza maschile contro le donne nelle parrocchie, nelle moschee, nelle associazioni sportive, nelle scuole musicali, nelle squadre sportive, negli studi dei pediatri e dei geriatri, in tutte le comunità sociali, nelle chat del calcetto e della scuola, ecc.
Tuttavia, la prevenzione deve andare di pari passo con il contrasto della violenza maschile contro le donne in sede penale, civile e minorile, imponendo allo Stato di assumersi le proprie responsabilità istituzionali. L'una non esclude l'altra: sono strumenti complementari e necessari.
È anche vero che il fenomeno della violenza maschile contro le donne è di tale estensione, in Italia e nel mondo, rispetto a qualsiasi altro, da non potere essere delegato a magistratura e forze di polizia, peraltro a costo zero, perché altrimenti si traduce in un vero e proprio abbandono di responsabilità.
Proprio per questo motivo, la prevenzione non può sostituire la risposta punitiva, ma deve affiancarla. Il legislatore deve farsi carico della prevenzione primaria (educazione, contrasto agli stereotipi, promozione della parità, campagne continue sull’empowerment femminile e sulla violenza maschile contro le donne a tappeto, ecc.); le istituzioni devono garantire la prevenzione secondaria (identificazione precoce dei casi, corretta valutazione del rischio, protezione delle vittime e dei loro figli, presa in carico completa ed empatica) e la risposta sanzionatoria (contrasto giudiziario, punizione dei responsabili).
7.2. Il delitto di femminicidio produce effetti preventivi
Paradossalmente la tipizzazione del femminicidio costituisce il presupposto culturale e concettuale della prevenzione in quanto simbolicamente, anche attraverso il trattamento sanzionatorio aggravato, lo Stato esprime il valore che attribuisce al diritto leso ritenendolo di dannosità sociale superiore ad altri.
Primo effetto preventivo: il confronto pubblico che ha preceduto e sta precedendo l’approvazione di una legislazione penale sui crimini contro le donne in quanto tali ha dato luogo a lunghi dibattiti nelle sedi parlamentari, nei partiti, nell’accademia, nelle istituzioni, nell’avvocatura, nella magistratura, nella società civile, in tal modo raggiungendo tutti coloro che fino a questo momento avevano mostrato uno scarso interesse o taciuto sull’esistenza di una strage, pressochè quotidiana, praticata dagli uomini nei confronti delle donne e del tutto assente dal dibattito collettivo perché ridimensionata a questione privata di strati sociali fragili.
Mi sono sempre chiesta cosa accadrebbe nel nostro Paese se ogni due giorni venisse ucciso un tifoso di una squadra di calcio o un testimone di mafia o un taxista o un abitante di una precisa città. E questo avvenisse senza sosta per anni, per decenni. La morte delle donne per essere nate in un corpo di donne da cui si pretendono obblighi e divieti non crea alcuna sollevazione di massa o indignazione paralizzante o presa seria di consapevolezza o blocco dell’esercizio di tutte le attività. Avviene e basta. Come un destino ineluttabile.
L’aula di giustizia non è sufficiente a fermare tutto questo, soprattutto se non dotata di adeguate risorse, perché è necessario far crescere la coscienza sociale e culturale del Paese, portandolo a misurarsi ovunque con le cause strutturali del fenomeno – lo storico rapporto di forza diseguale tra uomini e donne in ogni ambito e contesto – che tutti vedono ma pochi contrastano efficacemente perché vorrebbe dire partire da sé e dai propri modelli personali e familiari. E per gli uomini, metà del genere umano, rinunciare ai propri privilegi.
Secondo effetto: Aumentare la conoscenza e le informazioni grazie alla raccolta di dati quantitativi e qualitativi, alla casistica giurisprudenziale, sanitaria e sociale; creare operatori e operatrici empatici e competenti formati specificamente sulle cause della violenza e sui suoi traumi, per decrittarne immediatamente i minimi segnali di rischio; sapere cosa sono i centri antiviolenza e indirizzare tutte le donne presso di loro affinchè ricevano accoglienza adeguata, acquisizione di forza e consapevolezza di sé e della natura illecita di quanto subito. In questo modo si interviene per tempo, si evita che i delitti vengano portati a peggiori conseguenze, anche nell'interesse degli stessi imputati, e si crea fiducia nelle istituzioni.
Terzo effetto: Fornire parametri omogenei per identificare il femminicidio e non consentire più che ciascuno – istituzioni, associazioni, operatori, ecc. - includa o escluda l’uccisione di una donna tra i femminicidi sulla base soltanto di propri convincimenti soggettivi (l’uccisione di una donna che si prostituisce da parte di un cliente o della moglie di un uomo interno ad un clan di mafia da parte di un gruppo avverso o di una condomina per ragioni di vicinato o di una nonna uccisa dal nipote per procurarsi il denaro per la droga sono o meno femminicidi ?).
Quarto effetto: Imporre agli operatori del diritto di accertare quello che non vedono come un delitto, misurandosi con il suo significato. Con l’approvazione della legge avvocatura, accademia e magistratura inizieranno a misurarsi su cosa intendere per atto di odio misogino; per atto di discriminazione sessuale; per atto di prevaricazione; per atto di controllo o possesso o dominio quando esercitati su una donna “in quanto donna”, temi ad oggi poco praticati, di rado studiati, ritenuti di minimale rilievo e tali da non necessitare di adeguati e complessi approfondimenti.
8. Conclusioni
L'introduzione dell'art. 577-bis nel codice penale italiano, lungi dal rappresentare un eccesso di criminalizzazione o una norma simbolica priva di effetti concreti, costituisce:
Le obiezioni di incostituzionalità, panpenalismo e alternatività rispetto alla prevenzione sono dunque infondate.
Il ddl approvato all’unanimità al Senato e a breve in discussione alla Camera, pur con i limiti sistemici espressi nella premessa, soprattutto con riferimento alla fattispecie di femminicidio (e alle connesse aggravanti) rappresenta un passaggio epocale perché conferisce forma giuridica ad un fenomeno criminale millenario, rimuovendone banalizzanti letture intimiste e nominandolo per quello che è: un delitto di potere fondato sulla discriminazione nei confronti delle donne e sulla punizione della libertà femminile.
[1] UNODC (2014) Global Study on Homicide 2013, in www.unodc.org/documents/gsh/pdfs/GLOBAL_HOMICIDE_Report_ExSum.pdf;
[2] Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (2012), Dichiarazione di Vienna sul femminicidio, ONU, New York www.unodc.org/documents/commissions/CCPCJ/CCPCJ_Sessions/CCPCJ_22/_E-CN15-2013-NGO1/E-CN15-2013-NGO1_E.pdf.
[3] I. Boiano, Nominare la violenza maschile contro le donne: diritto penale e giustizia tra conflitto simbolico e responsabilità politica, in Giustizia Insieme, 4 aprile 2025 https://www.giustiziainsieme.it/en/violenza-di-genere/3455-nominare-la-violenza-maschile-contro-le-donne-diritto-penale-e-giustizia-ilaria-boiano
[4] P. Di Nicola Travaglini, Il diritto penale non è un diritto per le donne: il caso della legittima difesa, in Questione giustizia, 19 gennaio 2023; I. Boiano, Nominare la violenza maschile contro le donne, cit.; La criminalità femminile. Un’indagine empirica e interdisciplinare, (a cura di) C. Pecorella, Sesto San Giovanni, 2020.
[5] P. Bourdieu, Il senso pratico, cit., p. 212.
[6] Ad esempio, nel rapporto di valutazione di base sui Paesi Bassi, il GREVIO, nel 2020, ha espresso preoccupazione per il fatto che il termine recentemente utilizzato "violenza nelle relazioni di dipendenza", che "intendeva cogliere le diverse manifestazioni di violenza domestica che qualsiasi individuo può sperimentare [...]", può portare a lacune nella protezione e nel supporto alle donne vittime di violenza perché "le politiche di genere neutro comportano il rischio di interventi da parte di professionisti privi di sensibilità di genere".
[7] S. De Vido, Legal implications of EU accession to the Istanbul Convention, 2025, www.equalitylaw.eu/downloads/6247eu-law-in-light-of-the-istanbul-convention-legal-implications-after-accession; M. Frulli, Ambito di applicazione della Convenzione in Commento alla Convenzione di Istanbul , pag. 98, cit.
[8] P. Di Nicola Travaglini, Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, su Sistema penale 2 maggio 2025 https://www.sistemapenale.it/it/articolo/di-nicola-travaglini-il-femminicidio-esiste-ed-e-un-delitto-di-potere uffa
[9] H. Chinkin- C. Charlesworth, The Boundaries of international law. A feminist analysis, Manchester, 2000.
[10] G. Marinucci, L’abbandono del Codice Rocco: tra rassegnazione e utopia, in La questione crim., 1981, 308; G. Neppi Modona, Tecnicismo e scelte politiche nella ridorma del diritto penale, in Dem. e dir., 1977, 682.
[11] F. Viganò, Diritto penale e diritti della persona, in diritto diseguale monetarioSistema penale, 8 marzo 2023.
[12] G. Fiandaca- E. Musco, Diritto penale, Parte generale, p. 29, cit.
[13] G. FIANDACA-E. Musco, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 31.
[14] Tribunale costituzionale spagnolo sentenze n. 229 del 1992 e n. 59 del 2008.
[15] Tribunale costituzionale spagnolo sentenza n. 45 del 2010.
[16] D. Bonsignore, La politica criminale spagnola sulla violenza di genere vent’anni dopo, in questa Rivista, 17 ottobre 2024.
[17] Detta cifra, peraltro, nel nostro Paese viene quantificata al ribasso perché non tiene conto delle seguenti morti:
— i suicidi conseguenti a maltrattamenti fisici o psicologici;
— le uccisioni dei figli e delle figlie delle donne vittime di violenza;
— le sparizioni di donne;
— le morti come conseguenza dei maltrattamenti;
— le uccisioni di donne in contesti di mafia e criminalità organizzata;
— i casi di grave inabilità in cui è costretta una donna a seguito di violenze efferate (deformazioni del viso e di apparati sensoriali, paralisi, ustioni, traumi psicologici insuperabili, ecc.);
— i casi dei testimoni scampati alle uccisioni della loro madre o sorella o figlia, che li rende “femminicidi in vita”.
[18] P. Di Nicola Travaglini, Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, su Sistema penale 2 maggio 2025 https://www.sistemapenale.it/it/articolo/di-nicola-travaglini-il-femminicidio-esiste-ed-e-un-delitto-di-potere; Justice for Everyone, The jurisprudence and legal lives of Brenda Hale (a cura di) Rosemary C. Hunter, Cambridge 2022; J. F. Lousada Arochena, El Enjuiciamiento de género, cit.; R. Hunter, C. Mc Glynn e E. Rackley, Feminist Judgments: From Theory to Practice, London, 2010; A. Di Martino, Immagini e metodi del sistema penale di fronte ai delitti c.d. di genere (Fra sollecitazioni internazionali ed esperienza interna), in archiviopenale.it, 2022; V. Bonini, La violenza di genere, in V. Bonini, V. Calderai, E. Catelani, A. Sperti, E. Stradella, Diritto e genere nella prospettiva europea, Napoli, 2021, pp. 161 ss.
[19] UN Women and OHCHR, 2014, Latin American Model Protocol for the Investigation of Gender related Killings of Women; UNODC, 2014, Global Study on Homicide 2013.
[20] A. Rodriguez Alvarez, Perspectiva de género y prueba, Madrid, 2024.
[21] . Libro bianco per la formazione sulla violenza contro le donne, a cura del Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le pari opportunità, novembre 2024, consultabile su
www.pariopportunita.gov.it/media/1qlbact1/libro_bianco_08_web.pdf
[22] Corte EDU, Abdulaziz, Cabales e Balkandali contro Regno Unito, 28 maggio 1985.
[23] A.M. Maugeri, Le “aggravanti” nei confronti degli uomini autori di “violenza di genere” nella disciplina spagnola: possibile strategia politico criminale o strumento di una politica della “sicurezza” discriminatoria? in Jura Gentium, 2016.
[24] La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere della XVIII Legislatura, nella Relazione sulla risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018, ha accertato che il giudice di primo grado in media ha applicato una pena pari a 18 anni e 2 mesi di reclusione (pagg. 35 e ss):
- in un terzo dei casi aveva concesso le circostanze attenuanti generiche;
- la pena è stata quantificata tra 20 e 15 anni di reclusione nel 33,3 percento dei casi e sotto i 15 anni di reclusione nel 13,1% dei casi.
Il giudice di secondo grado ha confermato nel 63% dei casi le pronunce di primo grado e ha applicato una pena media pari a 13 anni e sette mesi di reclusione, rilevandosi una diminuzione media delle pene pari a circa quattro anni e tre mesi.
[25] Corte cost., n. 255/2006.
[26] Nella sent. della Corte costituzionale n. 149/2018 si ricorda «come criterio “costituzionalmente vincolante” quello che esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso” nella materia dei benefici penitenziari (sentenza n. 436 del 1999)».
[27]C. Pecorella, Perché può essere utile una fattispecie di femminicidio, in Sistema penale, 2 giugno 2025, https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/perche-puo-essere-utile-una-fattispecie-di-femminicidio.
[28] P. Di Nicola Travaglini e F. Menditto, 2° ed., Milano, 2024.
[29] F. Menditto, Riflessioni sul delitto di femminicidio, su Sistema penale, 2 aprile 2025, https://www.sistemapenale.it/it/scheda/menditto-riflessioni-sul-delitto-di-femminicidio.
[30] Si vedano i paragrafi 4.6. e seguenti: «Il linguaggio delle sentenze e delle archiviazioni (79 decreti di archiviazione e 118 sentenze) il femminicidio non è contestualizzato, la pregressa condotta violenta dell’autore viene definita «relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta difficile instabile non tranquilla, caratterizzata da conflittualità domestiche, tutt’altro che felice, eccetera» anche a fronte di precedenti denunce per gravi maltrattamenti della vittima; le vittime di femminicidio sono spesso chiamato per nome e gli imputati per cognome; le vittime di femminicidio che svolgono attività prostitute vengono chiamate “prostitute”; la condizione di disagio sociale dell’autore è valorizzata e sembra quasi legittima la re-azione a comportamenti della vittima che viene colpevolizzata «per avere provocato, tradito, accusato, eccetera».
[31] Relazione al ddl 1294 AC divenuto l. n. 168/2023 pagg 29 ss tutti i dati del Ministero dell’interno (Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale della Polizia Criminale - Servizio Analisi Criminale), in occasione della Festa della Donna dell’8 marzo 2023.
[32] A. Massaro, Riflessioni sul disegno di legge in materia di femminicidio, su Sistema penale, 25 giugno 2025, https://www.sistemapenale.it/it/documenti/massaro-riflessioni-sul-disegno-di-legge-in-materia-di-femminicidio
[33] Nel Considerando 15 della Direttiva 2024/1385/UE, del 14 maggio 2024, sulla «lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica», vi è il termine dominio dove si descrivono le mutilazioni genitali femminili come "una pratica vessatoria e di sfruttamento riguardante gli organi sessuali di una donna, ragazza o bambina, attuata allo scopo di mantenere e affermare il dominio su tale donna, ragazza o bambina e di esercitare un controllo sociale sulla sua sessualità";
Nel considerando 11) si menziona il controllo coercitivo come espressivo della violenza domestica soprattutto quando l’autore conviva o abbia convissuto con la vittima ; altre forme di “controllo” sono quello economico (considerando 32 e 39) ; quello che opera attraverso i figli e che incide sul piano psicologico (considerando 39) tale da determinare una vera e propria manipolazione ricattatoria.
Nel Preambolo della Convenzione di Istanbul si usa il termine "dominazione” in senso strutturale quando riconosce che «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini».
Nela Relazione esplicativa della Convenzione di Istanbul al paragrafo 194 si menziona la violenza sessuale come una forma comune «di esercizio del potere e di controllo nelle relazioni abusanti e possono accadere durante la relazione o successivamente alla sua interruzione»;
Al paragrafo 263 si menziona come «potente mezzo di controllo sulle vittime», con aumento del rischio di femminicidio, il possesso di armi da fuoco da parte dell'autore degli atti di violenza.
[34] Su questo tema si è dovuta formare una ricca giurisprudenza di legittimità proprio per il numero significativo di casi derubricati dai giudici di merito come mera conflittualità familiare a fronte di accertate gravissime forme di limitazione dell’autonomia e della libertà femminile, di atti di prevaricazione, di violenze fisiche, di denigrazioni, da parte dell’uomo di famiglia.
«…la confusione tra maltrattamenti e liti familiari avviene quando non si esamina e, dunque, non si valorizza l’asimmetria di potere e di genere, che connota la relazione, di cui la violenza costituisce la modalità più visibile (v., in motivazione, Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., Rv. 285273; Sez. 6, n. 26934 del 12/03/2024, S.). Entro tale prospettiva si è affermato, in particolare, che qualificare, in un contesto di coppia o familiare, l’intimidazione, le minacce, l’isolamento, le lesioni, i danneggiamenti, la sottrazione di risorse economiche, il controllo, l’imposizione di ridurre i rapporti sociali, la coercizione, come espressive di un comune “conflitto” perché determinato da ragioni culturali, religiose o affettive, semmai dietro la banalizzazione giustificatrice della gelosia o di eccessi comportamentali, non solo deforma dati oggettivi, ma viola i principi fondamentali dell’ordinamento, a partire dall’art. 3 Cost. che impone di ritenere le donne in una condizione paritaria, giuridica e di fatto, rispetto agli uomini, perché titolari del diritto alla dignità e alla libertà, cioè diritti umani fondamentali e inalienabili, che non possono subire lesioni o limitazioni, neanche occasionali, in base a costrutti sociali o interpretativi fondati sull’ accettazione e la normalizzazione della disparità di genere, per come proposta ed incoraggiata dal ricorrente. La linea distintiva tra violenza domestica e liti familiari è netta e non consente confusioni.
Si consuma la prima quando un soggetto impedisce ad un altro, in modo reiterato, persino di esprimere un proprio autonomo punto di vista se non con la sanzione della violenza – fisica, psicologica o economica -, della coartazione e dell’offesa e quando la sensazione di paura per l’incolumità (o di rischio o di controllo) riguarda sempre e solo uno dei due, soprattutto attraverso forme ricattatorie o manipolatorie rispetto ai diritti sui figli della coppia prospettando il loro allontanamento dalla vittima se denuncia o se non soggiace ai volere dell’agente. Mentre ricorrono le liti familiari quando le parti sono in posizione paritaria e si confrontano, anche con veemenza, riconoscendo e accettando, reciprocamente, il diritto di ciascuno di esprimere il proprio punto di vista e, soprattutto, nessuno teme l’altro (Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, cit.; Sez. 6, n. 19847 del 22/04/2022, M.), perché ciò che costituisce il fondamento della relazione sono la riconosciuta e reciproca parità -economica, psicologica, fisica, eccetera - e la piena libertà (Sez. 6, n. 32042 dell’08/07/2024, F.).
Immagine: Marie Petiet, Blanchisseuses, olio su tela, 1882.
L'articolo esplora il tema della mediazione dei conflitti focalizzandosi principalmente sulla chiave di volta: scioglie il conflitto il desiderio di riparare: prezioso per ogni tipo di contenzioso, non solo quello penale.
Valorizza un approccio filosofico-umanistico che integra aspetti etici, teologici, giuridici e psicologici. Offre una trattazione multidisciplinare con esempi concreti, riflessioni teoriche e riferimenti a nomi autorevoli, oltre a un caso pratico reale che illustra i limiti della giustizia formale rispetto alla mediazione riparativa.
Sommario: 1.Introduzione: Il valore della cura nell'era del consumismo - 2. L’insufficienza della giustizia formale: un caso studio - 3. Le radici multidisciplinari del dovere di riparare - 3.1. La riparazione in ambito psicologico: la cura intergenerazionale - 3.2. Prospettive etiche e filosofiche: responsabilità e bene comune - 3.3. Giustizia dialogica e diritto fiduciario - 3.4. Fondamenti teologici: dovere di giustizia e amore - 4. Conclusione: trasformare la crisi in rigenerazione.
1. Introduzione: Il valore della cura nell'era del consumismo
La mediazione dei conflitti, in particolare nel suo modello filosofico-umanistico, trova la sua chiave di volta nel far scattare nei contendenti il desiderio profondo e autentico di riparare.
Il verbo "riparare," rischia di dissolversi nel mondo consumistico contemporaneo, ove la cura e il recupero sono stati soppiantati dalla logica dell'usa-e-getta. Se un tempo si dava nuova vita alle calze smagliate e le scarpe venivano risuolate, oggi le cose vengono gettate e sostituite. Questo progressivo allontanamento dalla pratica di "ridare vita alle cose" si riflette inevitabilmente anche nel vissuto umano e nelle dinamiche relazionali.
Viviamo in un’epoca definita da Zygmunt Bauman come quella delle relazioni "liquide[1] ," caratterizzate dalla tendenza a scartare ciò che non appare più immediatamente utile, anche nelle interazioni tra persone. La conseguenza più grave è l'amnesia rispetto a quelle relazioni che, se trascurate, lasciano nel cuore e nell’anima una voragine—un "buco nero" che ostruisce la crescita autentica e le conquiste umane. Le incomprensioni diventato muri e le differenze diventano distanze come baratri. Ignoriamo il monito di Italo Calvino:” Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori”.
La mediazione si pone l'obiettivo di cucire con cura proprio queste relazioni incrinate.
L’esito delle sedute della mediazione, praticata secondo il modello filosofico-umanistico, non si misura tanto né esclusivamente in base all’accordo formale raggiunto, bensì nella nascita del bisogno autentico di riparare il male e risarcire la dignità lesa. La vera mediazione apre, infatti, lo spazio per il desiderio di cura e ristoro, andando ben oltre la mera contesa giuridica.
2. L’insufficienza della giustizia formale: un caso studio
Il divario tra la giustizia formale e la riparazione umana emerge con chiarezza in recenti episodi. Si pensi al caso di una disputa tra comproprietari in un borgo lombardo, dove la richiesta ostinata di stacco da un contatore d’acqua comune ha trasformato la mediazione in un palcoscenico di sopraffazione e scontro. La parte istante non era assolutamente interessata alla ricerca della verità e di una soluzione rispettosa di Nonostante l'infondatezza della richiesta, la parte convenuta ha dovuto affrontare oneri economici, stress emotivo e la sofferenza dell'ingiustizia percepita.
La mediazione fallisce — come previsto e auspicato dalla parte più aggressiva, che cercava "un giudice a Berlino" piuttosto che il dialogo. Non era assolutamente interessata alla ricerca della verità e di una soluzione rispettosa ma di un modo per imporre il suo volere[2].
Segue ovviamente il ricorso al tribunale che ha prolungato la sofferenza dell’altro proprietario per tre lunghi anni. Quando finalmente si è giunti a una soluzione tecnica e a un accordo, questo è risultato privo di ogni gesto di riconoscimento o scusa. La parte lesa è rimasta gravata da spese e amarezze, senza alcun risarcimento morale, vittima di una giustizia che è stata mera forma senza sostanza.
Questo esempio dimostra perché la mediazione filosofica-umanistica miri a qualcosa di più del diritto: mira alla riparazione, intesa come un atto di responsabilità e umanità che coinvolge sia chi ha commesso il torto sia chi ne ha sofferto, permettendo così la ricostruzione di un tessuto di dignità e relazione. Solo un riconoscimento delle reciproche responsabilità e un risarcimento, anche simbolico, le cosiddette scuse, avrebbero riequilibrato i rapporti e, forse, consentito una ripresa. La chiusura giudiziaria del problema che li opponeva non ha smosso di un centimetro i motivi veri della lite.
La mediazione appartiene alla “restorative justice” (“giustizia che reintegra” di derivazione anglosassone), alternativa alla giustizia di tipo retributivo (la giustizia che stabilisce con una sentenza, in diverso modo, il risarcimento dei danni alla vittima ). Comunque l’accento viene posto sull’azione del riparare. Dove l’applicazione della pena tradizionale potrebbe apparire in relazione sia al destinatario (il reo) che alla vittima, inutile o addirittura controproducente.
La giustizia riparativa processo informale in cui vittima e autore del reato, che si assume pienamente responsabilità del suo comportamento, guidati da un mediatore insieme alla vittima, familiari delle parti in conflitto e alcuni componenti fondamentali delle rispettive comunità di appartenenza decidono collettivamente le modalità con cui gestire la soluzione del conflitto. Guidati da un mediatore si incontrano, discutono sviscerando cause ed effetti del fatto reato.
Ciò che non esclude affatto l’istituto della pena, ma ne modifica e chiarisce il profilo di utilità sociale mediante azioni di reale riconoscimento della vittima, riparazione dell’offesa nella sua dimensione globale, autoresponsabilizzazione del reo, coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione, rafforzamento degli standard morali e contenimento dell’allarme sociale.
Ma è riduttivo ascrivere questo concetto solo alla mediazione penale. È il nocciolo di ogni mediazione che tratti il cuore del conflitto (le ferite e le offese relazionali) e il conflitto con il cuore (con la comprensione, il riconoscimento, il racconto di sé, la rielaborazione, la crisis e la catarsi). Qualunque sia l’oggetto del contendere, nella lite la persona viene coinvolta e travolta nei suoi vissuti più profondi, nelle sue vulnerabilità, nelle sue paure, nella sua dignità. Sono queste le ferite relazionali che è doveroso, e possibile, sanare o almeno curare.
Si annoverano quindi numerose e diversificate forme operative a elevato grado di flessibilità, in relazione al tipo e all’intensità del conflitto da affrontare, ma sempre resta fermo il senso del non giudicare ma di promuovere e vigilare sulla riparazione.
3. Le radici multidisciplinari del dovere di riparare
Il valore del riparare è un concetto universale, oggetto di riflessione oltre che da parte giuristi, anche dei teologi, filosofi, e psicologi.
3.1. La riparazione in ambito psicologico: la cura intergenerazionale
In ambito psicologico, la riparazione si traduce anche nella cura intergenerazionale. La psicogenealogia[3] insegna che eventi traumatici o dinamiche familiari irrisolte possono essere trasmesse inconsciamente, influenzando il benessere dei discendenti. In questa logica la riparazione psicologica è dunque il processo di presa di coscienza e guarigione delle ferite emotive che attraversano le famiglie. Il discendente "ripara" quando riconosce queste "eredità invisibili" e interrompe le catene di sofferenza attraverso l'elaborazione terapeutica e simbolica. L'obiettivo è duplice: liberare la persona dal peso emotivo degli antenati e permetterle di costruire un’identità più libera e autentica.
3.2. Prospettive etiche e filosofiche: responsabilità e bene comune
Il concetto di riparazione è centrale nell'etica delle relazioni, come dimostrato dai contributi di Paolo Bettineschi e Salvatore Natoli.
Paolo Bettineschi definisce la riparazione come un impegno etico profondo di presenza e responsabilità[4]. Richiede l’adesione attiva di entrambe le parti (chi ha causato il male e chi lo ha subito) in un processo di manifestazione e riconoscimento reciproco. Non è mera compensazione materiale, ma un'etica che integra memoria, fiducia e cura, rigenerando ciò che è stato ferito, coinvolgendo anche la dimensione esistenziale e l'ambiente.
Salvatore Natoli colloca la riparazione in un contesto politico e sociale[5]. La vede come un imperativo morale finalizzato alla costruzione del bene comune. Sottolinea la necessità di un'etica della pietas, vista come il legame umano fondamentale per la cura e la salvezza della specie. La riparazione diviene un compito etico e politico concreto per la giustizia sociale e la riconciliazione.
3.3. Giustizia dialogica e diritto fiduciario
Tommaso Greco introduce la prospettiva giuridico-fiduciaria[6], dove la riparazione richiama la giustizia dialogica. Essa non è né mero perdono né condanna, ma la ricostruzione della fiducia attraverso la responsabilità e la tutela del bene comune. Greco sostiene che il diritto si fonda sulla fiducia tra le persone. La riparazione, in questo quadro, è un atto che rinnova la relazione sociale, in cui la mediazione funge da ambiente per sperimentare questa "etica relazionale".
3.4. Fondamenti teologici: dovere di giustizia e amore
Nella teologia cristiana, e in particolare nella tradizione cattolica, la riparazione ha radici profonde: è un dovere fondamentale di giustizia e amore verso Dio e il prossimo, espressione della riconciliazione comunitaria spezzata dal peccato. Il credente è chiamato a riparare l'offesa fatta a Dio con le proprie colpe, unendo i propri atti di zelo e sacrificio all'azione redentrice. La riparazione, in questo senso, non riguarda solo l'offensore ma anche l'Offeso, cioè Dio e si manifesta in tre forme concrete: 1. Affettiva: preghiere e partecipazione ai sacramenti. 2. Effettiva: azioni quotidiane ispirate alla carità e alla giustizia.3. Afflittiva: sofferenze e tribolazioni accettate in unione a quelle di Cristo. La riparazione è quindi un percorso spirituale di conversione e giustizia, distinta concettualmente dall'espiazione (l'atto salvifico di Cristo, a cui l'uomo partecipa) e dalla penitenza (il sacramento e mezzo pratico per la soddisfazione e la correzione).
4. Conclusione: trasformare la crisi in rigenerazione
Da queste diverse angolazioni emerge un quadro convergente sull'essenziale: riparare è un atto che plasma sia la persona che la società, richiedendo il riconoscimento del danno, la disponibilità al cambiamento e l'inclusione di chi ha subito l'offesa in un percorso di recupero.
Nel percorso della mediazione filosofico-umanistica, il vero valore della pratica si incarna in questa tensione vitale al riparare. Non si tratta di un nostalgico ritorno al passato o di una rinuncia al conflitto, ma di una sfida contemporanea: trasformare la crisi in rigenerazione, la lacerazione in cura e l'offesa in responsabilità condivisa. In un tempo dominato dall'effimero, la mediazione chiama al coraggio di interrompere questa deriva e di riscoprire, con consapevolezza e passione, la forza di riparare, rigenerando non solo le cose, ma soprattutto le relazioni e, in definitiva, noi stessi.
[1] Zygmunt Bauman e la teoria delle "relazioni liquide": Bauman Z., Liquid Love: On the Frailty of Human Bonds, Polity Press, 2003.
[2] Storiella o metafora delle interazioni umane? Si racconta che due uomini stavano litigando. La discussione era: “Una fetta di pane cade con il lato imburrato sopra o sotto?”. Il primo disse: “Con il lato imburrato sotto, ovviamente”. Il secondo: “Con il lato imburrato sopra”. “Facciamo la prova”, disse il primo, “e vedrai che ti sbaglierai!”. Così la fetta di pane fu ben imburrata e lanciata in aria. Ricadde con il lato imburrato sopra. “Ho vinto!”, disse il secondo. “Solo perché io ho commesso un errore”, disse il primo. “Quale errore?”, riprese il secondo. “Ovviamente ho imburrato il lato sbagliato”, rispose il primo.
La persona che litiga non cerca la verità ma la conferma delle proprie convinzioni.
[3] Anne Ancelin Schützenberger, Gli Antenati e noi: Scoprire i numeri simbolici nelle storie familiari, Mondadori, 1991
[4] Paolo Bettineschi, Etica del riparare, Morcelliana 2021
[5] Salvatore Natoli, Etica della pietà, Laterza, 2010.
[6] Greco T., Il diritto fiduciario e la giustizia dialogica, Giuffrè, 2015; la legge della fiducia, Laterza 2023
Immagine: Paul Troger, L'Armonia tra Religione e Scienza, Affresco della Seitenstetten Abbey (Austria), 1735.
È ormai da più di un secolo - vale a dire dalla dichiarazione del Ministro degli Esteri britannico Balfour del 1917, in cui appare per la prima volta in un documento diplomatico il concetto di un “focolare” (home) ebraico in Palestina - che va avanti quella che lo scrittore israeliano Amos Oz ha definito anni fa una tragedia in senso greco, una situazione cioè in cui entrambe le parti in conflitto hanno valide ragioni da far valere a sostegno del proprio punto di vista, con la conseguenza che è maledettamente difficile venirne a capo. Matassa che, se non trattata, rischia di degenerare sempre di più, come l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 dimostra tristemente, con il pericolo che la violenza diventi la cifra inevitabile ed eterna della vita di quei due popoli.
Proviamo a capire come si è arrivati al punto in cui siamo. A mio parere, la migliore chiave di lettura è la parabola storica delle posizioni assunte nel tempo dalle due parti contrapposte rispetto alla possibile soluzione dei due Stati. Credo che si possano individuare tre fasi principali:
PRIMA FASE (1947-1978)
Nel 1947, l’ONU – con la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale - propone la creazione di uno Stato palestinese e di uno Stato ebraico, ma i Palestinesi e i Paesi arabi vicini non accettano tale soluzione e, per annientarlo, decidono di attaccare Israele (più disposto, viceversa, a seguire l’impostazione onusiana, a parte qualche frangia estremista). Gli Israeliani prevalgono e avviene l’esodo, per lo più forzato, di circa 750.000 Palestinesi dalle loro case (cd. Nakba, cioè catastrofe). In questo trentennio hanno luogo altre tre guerre (1956, 1967 e 1973), nonché gravi episodi di terrorismo (come l’uccisione di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972). Israele riesce ad accaparrarsi vaste parti di territorio, vale a dire la striscia di Gaza (che era sotto amministrazione egiziana), la Cisgiordania (che era sotto controllo giordano) e l’intera città di Gerusalemme (la cui parte orientale era in mano ai Giordani), da allora denominati dall’ONU “Territori Occupati” (definizione non accettata da Israele) con tutti gli obblighi giuridici connessi a tale situazione.
SECONDA FASE (1978-1995)
I Palestinesi – intanto organizzatisi formalmente nell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a partire dal 1964 e guidati dal carismatico leader laico Arafat – cominciano ad accettare l’idea di rinunciare alla distruzione dello Stato israeliano e di vivere in due entità statuali distinte, tanto che – passando per gli Accordi di Camp David del 1978 (che portano alla pace tra Israele e l’Egitto) e la prima Intifada (rivolta) palestinese del 1987 - si arriva agli Accordi di Oslo del 1993. Questo è il momento di massima vicinanza ad una possibile risoluzione del conflitto, dato che essi prevedono, insieme al reciproco riconoscimento politico tra l’OLP (in rappresentanza del popolo palestinese, pur ancora privo di uno Stato) e Israele, alcuni principi negoziali basati sul ritiro israeliano da aree della Striscia di Gaza e della Cisgiordania e sul diritto palestinese all'autogoverno attraverso la nascita dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Si giunge dunque faticosamente all’accettazione del diritto all’esistenza di Israele e si pongono le premesse per la creazione di un vero Stato palestinese. Purtroppo, il meccanismo negoziale messo in piedi non ha successo, a causa del sabotaggio degli estremisti di entrambe le parti (soprattutto l’assassinio, da parte di un fanatico sionista di destra, del Premier israeliano Yatzik Rabin nel 1995, artefice degli Accordi di Oslo insieme ad Arafat).
TERZA FASE (1995-2025)
Prevalgono a poco a poco in entrambi gli schieramenti coloro che si oppongono alla soluzione delle due entità statuali, decisi invece ad instaurare il proprio Stato su tutto il territorio conteso dal fiume Giordano al mare. Tale cambio di atmosfera fa naufragare anche due successivi importanti tentativi (arenatisi in particolare sulla questione del ritorno dei rifugiati nelle loro case in Israele e sullo status di Gerusalemme): uno al Vertice di Camp David del 2000 , in cui un Arafat improvvidamente rigido, forse anche per timore di essere assassinato dagli estremisti islamici, rifiuta le offerte negoziali del Premier israeliano Ehun Barak; l’altro con riferimento all’“Iniziativa di pace araba” elaborata dai Sauditi nel 2002, malauguratamente non accettata da Israele, anche perché spaventato dalla maggiore violenza della seconda Intifada palestinese iniziata nel 2000 e poi proseguita fino al 2005. In sostanza, dal 1996 in poi comincia a farsi gradualmente strada nella dirigenza israeliana la nuova idea che non sia più necessario accettare uno Stato palestinese accanto ad Israele (vale a dire la formula “terra in cambio di pace”) e che si debba invece puntare ad uno Stato ebraico inglobante anche i “Territori Occupati” (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme) privando i Palestinesi di un loro territorio, in parte spingendoli ad emigrare in Giordania, in parte assorbendoli in uno Stato a guida ebraica. Tale nuovo approccio si è appunto incarnato nel Premier Benjamin Netanyahu, in carica dal 1996 al 1999, poi dal 2009 al 2021 e infine dal 2022 a oggi. Netanyahu ha basato la sua strategia su una massiccia e inarrestabile politica di nuovi insediamenti illegali di coloni nei territori occupati e su un’ambigua tolleranza nei confronti della fazione islamista radicale palestinese di Hamas (nata negli anni Ottanta e rafforzatasi nel tempo, fieramente contraria a ogni ipotesi di compromesso con Israele e impadronitasi di Gaza dopo l’abbandono della striscia da parte israeliana nel 2005), allo scopo di indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese (al potere in Cisgiordania) e così vanificare la soluzione dei due Stati, accettabile solo per quest’ultima fazione. In pratica, Netanyahu ha alimentato la divisione tra i gruppi palestinesi per poter dire che la dirigenza palestinese non era d’accordo sugli obiettivi da raggiungere e dunque indisponibile per un negoziato serio. Si è al tempo stesso illuso di poter gestire indefinitamente Hamas - consentendo tra l’altro il passaggio di ingenti fondi del Qatar verso la striscia di Gaza – nella convinzione che tale fazione si sarebbe accontentata di arricchirsi e di governare la striscia senza creargli problemi reali, diventando così la sua polizza assicurativa contro la soluzione dei due Stati. In questo modo, mirava a far apparire l’opzione di un solo e grande Stato a controllo ebraico come l’unica soluzione realisticamente possibile. Ma la sua parallela strategia di allacciare relazioni con i Paesi arabi scavalcando i Palestinesi (tramite gli Accordi di Abramo del settembre 2020, favoriti dalla prima Amministrazione Trump e stipulati con le monarchie degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, nonché il graduale avvicinamento all’Arabia Saudita ) ha fatto comprendere ad Hamas e al suo sponsor ideologico iraniano che tale evoluzione rischiava di provocare la loro emarginazione nel mondo musulmano (a vantaggio dell’Autorità Nazionale Palestinese guidata dal vecchio leader Abu Mazen) e il consolidamento definitivo della posizione di Israele nella regione, rendendone impossibile la cancellazione. Si è pertanto verificato un cortocircuito che il 7 ottobre 2023 ha fatto scoppiare tutto il meccanismo in mano a Netanyahu, rivelando il fallimento del suo progetto politico. Hamas – verosimilmente assistita tecnicamente dall’Iran e da Hezbollah – si è preparata nell’ombra per due anni, mentre il Premier israeliano si cullava nell’erronea certezza di avere sterilizzato il gruppo estremista, abbassando di conseguenza la guardia nei suoi confronti (anche perché la sua attenzione era rivolta in quel momento alle massicce proteste interne contro la riforma giudiziaria da lui caldeggiata per evitare i processi relativi alle gravi accuse di corruzione rivoltegli in patria). In realtà, ha semplicemente ottenuto il risultato di incattivire i miliziani terroristi di Hamas, spingendoli a radicalizzarsi e disumanizzarsi sempre di più, come dimostra il comportamento incredibilmente barbaro adottato nel corso del loro feroce attacco.
A quel punto, Israele si è trovato di fronte a uno dei dilemmi più difficili della tormentata storia del Paese. Da un lato, aveva la necessità di riaffermare con forza la propria credibilità di deterrenza sia di fronte ai nemici (per intimorirli) sia di fronte ai propri cittadini (per rassicurarli), dall’altro doveva tutelare la propria immagine internazionale. Poteva scegliere una via mediana, atta a dimostrare la propria forza in maniera ragionevole e proporzionata (per esempio con bombardamenti di alcuni giorni come rappresaglia immediata e poi omicidi mirati dei capi politici e militari di Hamas), chiedendo al contempo il supporto dell’ONU per negoziare uno scambio tra i circa 200 ostaggi israeliani e i prigionieri palestinesi nelle proprie carceri, preservando in qualche modo il ruolo di vittima aggredita. Viceversa - anche per l’interesse personale di Netanyahu ad una guerra lunga, che gli consentisse di rinviare i processi a suo carico e restare in sella – il Governo estremista da lui guidato ha scelto una reazione del tutto sproporzionata facendo migliaia di vittime civili (con altissima percentuale di bambini) e ricorrendo addirittura all’arma della fame. Israele è così caduta in pieno nella trappola di Hamas, che aveva posto in essere azioni particolarmente odiose proprio per provocare Tel Aviv e spingerla ad un comportamento bellicoso ed aggressivo che avesse l’effetto di isolarla sul piano mondiale, facendola apparire come uno Stato violento e inumano, incurante di macchiarsi di crimini di guerra e contro l’umanità, se non addirittura di genocidio (spetterà alla Corte di Giustizia Internazionale, su impulso del Sudafrica e di altri Paesi, decidere formalmente se ricorrono gli estremi per configurare tale gravissimo reato, come peraltro recentemente ritenuto da una Commissione indipendente nominata dall’ONU).
Dopo i tragici fatti del 7 ottobre 2023 e dei mesi successivi, che hanno incendiato il Medio Oriente (con l’estensione delle ostilità anche a Libano, Siria, Yemen e Iran), appare ormai chiaro che la “madre di tutti i problemi” era e rimane la questione israelo-palestinese, frettolosamente archiviata una dozzina di anni fa nell’illusione che sarebbe svaporata da sola come per magia. Pertanto, per risolvere il “puzzle” mediorientale, si deve ripartire dalla ricerca di una definitiva soluzione politica di tale annosa questione. La maggior parte dei Governi di tutto il mondo ha indicato la formula dei due Stati come la soluzione auspicabile dello spinoso problema. Ma tale approccio, che resta senza dubbio lo sbocco più razionale ed equo, si scontra al momento con due ordini di difficoltà: la continua erosione del territorio che andrebbe spartito per via negoziale, a causa dell’espansione degli insediamenti illegali dei coloni in Cisgiordania; la radicalizzazione delle due popolazioni, che sembrano mostrare al momento meno fiducia nella possibilità di una convivenza pacifica fianco a fianco, a causa di un radicato processo di disumanizzazione della controparte. D’altro canto, le soluzioni alternative a quella dei due Stati sarebbero:
-uno Stato unico binazionale, con pari diritti per ebrei e palestinesi, che , pur idealmente valida, appare ancor meno realizzabile dei due Stati, alla luce della aumentata diffidenza reciproca tra le due popolazioni, senza contare che gli Israeliani sarebbero destinati a perdere la partita demografica nel lungo termine;
-uno Stato unico di natura ebraica, con i Palestinesi cittadini di serie B, che esporrebbe Tel Aviv a serie accuse di “apartheid”, con probabili conseguenti pesanti sanzioni da parte della comunità internazionale (senza dimenticare il già citato futuro problema demografico) Tanto più che la vicenda di Gaza ha fatto cadere per la prima volta il tabù sinora imperante della tolleranza e impunibilità di qualsivoglia azione israeliana, derivante dalla drammatica vicenda della Shoah, aprendo la strada a provvedimenti punitivi recentemente adottati da vari Stati, nonché al riconoscimento, seppure simbolico, dello Stato palestinese da parte di un rimarchevole numero di Paesi occidentali);
-uno Stato ebraico senza i Palestinesi di Gaza e Cisgiordania, espulsi e trasferiti nei Paesi vicini, che costituirebbe una seconda Nakba (cacciata) dopo quella del 1948 (sogno del Governo di estrema destra di Netanyahu), con tutti gli strascichi di odio che ne conseguirebbero, perpetuando un clima di violenze e attentati nell’area;
-una Confederazione composta da Israele, Giordania e neonato Stato palestinese (inclusivo di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est), ipotesi che sta acquistando un certo favore tra gli osservatori, in quanto intermedia tra l’opzione dei due Stati e quella dello Stato unico binazionale. Tale formula consentirebbe in sostanza di soddisfare, da un lato, l’esigenza di auto-determinazione dei Palestinesi e, dall’altro, la necessità di sicurezza di Israele, garantita da un controllo congiunto insieme alla Giordania sulla nuova entità palestinese, al fine di prevenirne una deriva estremista ed aggressiva. Ma è tutto da appurare se le tre parti in causa siano convinte della bontà di tale approccio…
In questo intricato quadro, si è adesso inserito con prepotenza il fattore Trump al suo secondo mandato, con il suo stile dirompente ed eccentrico rispetto al comportamento politico a cui il mondo si era abituato negli ultimi 80 anni. Il nuovo Presidente USA sta infatti inoculando nel contesto mondiale una massiccia dose di aggressività spiazzante e pragmatismo affaristico, prestandosi ad accuse di pericoloso disprezzo del diritto interno e internazionale.
Ciò detto, va ammesso che il suo caparbio attivismo sta smuovendo le acque sia nel conflitto ucraino (con scarsi risultati per il momento), sia nel conflitto israelo-palestinese, dove è invece riuscito ad ottenere – tramite il suo Piano di Pace in 20 punti e pressioni mai viste prima sulle parti - una tregua che ha fermato o quantomeno ridimensionato la furia omicida a danno della popolazione di Gaza, consentendo al tempo stesso la liberazione degli ostaggi israeliani e la scarcerazione dei prigionieri palestinesi. Ai fini pratici, poco importa se le motivazioni hanno le proprie radici prevalentemente nel suo narcisismo patologico (aspirazione al Premio Nobel per la Pace) e nella sua avidità venale (contratti lucrosi con i ricchi Paesi del Golfo). Naturalmente, la tregua è solo il primo e più facile passo del Piano proposto, che prevede nelle fasi successive il disarmo di Hamas (vero e spinosissimo nodo del problema) e un’articolata “governance” della striscia, non esente tra l’altro da critiche di neo-colonialismo (un “Board” internazionale guidato dal Presidente Trump, un Comitato di gestione con tecnocrati palestinesi e una forza militare multinazionale di stabilizzazione, propedeutici al subentro a data non stabilita di un’Autorità Nazionale Palestinese rinnovata). Purtroppo, l’Amministrazione Trump maneggia gli strumenti diplomatici in maniera goffa e spesso improvvisata, per cui l’esito positivo del suo tentativo è tutt’altro che certo e la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro, tanto più che la seconda fase del suo Piano sta procedendo troppo lentamente, con il rischio che Hamas riconsolidi il suo potere sul terreno, divenendo più rigida, e i Ministri israeliani estremisti convincano Netanyahu a riprendere la guerra. Ma in realtà – dato l’immobilismo della precedente Amministrazione USA e la ormai inesistente influenza europea nell’area – l’azione di Trump è l’unico elemento di speranza presente sul tavolo, anche perché è riuscito a porre i Paesi arabi della regione di fronte alle proprie responsabilità, spingendoli ad andare oltre le semplici dichiarazioni ideologiche di principio per rendersi disponibili ad impegnarsi in prima persona, soprattutto facendo una effettiva pressione su Hamas.
A ben vedere – anche se l’attuale tentativo di Trump dovesse malauguratamente fallire - la responsabilizzazione dei Paesi del Golfo (in particolare Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), spalleggiati da Egitto e Giordania, potrebbe costituire un cambio di paradigma utile e forse cruciale nel medio e lungo termine, in vista di ulteriori tentativi di soluzione del problema. Sono infatti proprio questi i Paesi che possono godere della fiducia di entrambe le parti e in grado di andare incontro a molti dei loro concreti interessi. Sono in realtà gli unici attori capaci di spingere i due contendenti ad individuare un meccanismo di convivenza (auspicabilmente la creazione di due entità indipendenti, ovvero soluzioni creative che vi assomiglino) sufficiente a rassicurare Tel Aviv quanto alla sua sicurezza e i Palestinesi quanto alla loro auto-determinazione.
Da una parte, Israele - tramite i Paesi del Golfo - può anzitutto ottenere il riconoscimento generalizzato del proprio diritto ad esistere da parte degli Stati che la circondano (sulla scia della già menzionata "Iniziativa di pace araba " proposta nel 2002 proprio da Riyadh, dato il ruolo di leadership anche religiosa svolto dall’Arabia Saudita). Questo fortissimo e prioritario interesse può convincere Tel Aviv ad accettare una qualche forma di entità palestinese, considerato che tale sviluppo costituisce la "conditio sine qua non" di Riyadh per aderire agli Accordi di Abramo (in quanto le masse arabe e islamiche non perdonerebbero un tradimento della causa palestinese), spianando appunto la via della definitiva normalizzazione tra Israele e mondo arabo/islamico. In secondo luogo, ciò aprirebbe la strada ad un aumento esponenziale dei rapporti economici di Tel Aviv con i Paesi della regione, dal punto di vista commerciale, tecnologico e turistico, regalando ad Israele una supremazia pacifica di fatto, con benefici per tutti. Inoltre, i Paesi del Golfo hanno un proprio vitale interesse alla pace e alla stabilità nell’area, unica condizione che consente loro di prosperare grazie alla produzione energetica, agli investimenti esteri, ai trasporti marittimi ed aerei, nonché al turismo proveniente da tutto il mondo. Da ultimo , si creerebbe un vasto fronte politico di contenimento del comune avversario Iran. In conclusione, solo il Golfo può offrire un pacchetto così ricco e appetibile a Tel Aviv.
Dall’altro lato, i Palestinesi possono trovare nei Paesi del Golfo – appoggiati da Amman e Il Cairo - dei mediatori in cui avere piena fiducia, condividendone la stessa mentalità, fattore che facilita il dialogo e la comprensione reciproca. Infine, la potenza di fuoco finanziaria di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti rappresenta una forte garanzia per la sopravvivenza di una futura entità palestinese (aiuti cruciali che verrebbero sicuramente condizionati ad un’attitudine pacifica nei confronti di Israele). Gli Emiri del Golfo sono anche gli unici a poter imporre il necessario cambio nella leadership palestinese, facendo emergere personalità più oneste e carismatiche (magari convincendo Tel Aviv a liberare Marwan Barghuthi, il cd. “Mandela” palestinese), favorendo al tempo stesso un‘evoluzione politica più moderata di Hamas (non eliminabile tout court, godendo nei sondaggi dell’appoggio di almeno un 20% dei consensi).
Se invece, nonostante tutti i vantaggi sopraelencati di un compromesso ragionevole, a Tel Aviv dovessero prevalere su ogni altra cosa gli impulsi messianici e irrazionali al possesso della terra (con la cacciata di tutti i Palestinesi da Gaza e Cisgiordania) e/o la parte palestinese non fosse capace di elaborare – sotto una leadership più credibile - una posizione unitaria incentrata sul diritto di Israele alla propria esistenza, il ciclo di violenza non si interromperebbe, condannando all’instabilità tutto il Medio Oriente. Episodi traumatici come quello del 7 ottobre 2023 - se non ancora peggiori – rischierebbero di ripetersi all’infinito, imponendo una condizione di timore e orrore perpetuo. E questo non è certamente ciò che le due popolazioni, israeliana e palestinese, meriterebbero. Spetterà peraltro a loro decidere i propri destini al momento in cui – in un prossimo futuro – avranno la possibilità di recarsi alle urne per scegliere i rispettivi rappresentanti.
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