ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee?
In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
di Enzo Cannizzaro
Sommario: 1. Premesse - 2. Sugli effetti diretti dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein - 3. Effetti diretti in malam partem? - 4. Effetti diretti e controllo di costituzionalità delle leggi - 5. La contestualizzazione della sentenza Promoimpresa - 6. I limiti del giudicato in relazione al diritto europeo.*
1. Premesse
Ben difficilmente il dibattito aperto dalle due pronunce del Consiglio di Stato n. 17 e 18 del 2021, rese dalla Adunanza plenaria, si sopirà in tempi brevi. Alla discussione accademica, relativa alla linea argomentativa e alle soluzioni adottate dalle due sentenze “gemelle”, si aggiungeranno verosimilmente implicazioni di ampia portata sia sul piano della vicenda amministrativa che su quello concernente i rapporti fra le istituzioni politiche e le istituzioni giudiziarie.
Non tutte queste implicazioni saranno discusse in questo breve scritto, teso prevalentemente a verificare la coerenza fra gli argomenti utilizzati dal Consiglio di Stato e il diritto dell’Unione europea. Proprio il diritto europeo, infatti, ha fornito la base giuridica per molte delle soluzioni riversate nel principio di diritto formulato dall’Adunanza plenaria. E, tuttavia, alla sostanziale correttezza della identificazione e della ricostruzione della normativa sostanziale del diritto europeo operata dalla Adunanza plenaria, taluni dei profili applicativi di essi appaiono controversi.
Come ormai noto, l’Adunanza plenaria ha accertato l’esistenza di un contrasto fra la normativa nazionale, anche di rango primario, la quale ha disposto una proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative e il diritto europeo.
Tale conflitto è stato riferito sia all’art. 49 TFEU che all’art. 12 della direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno, nota con il nome di direttiva Bolkenstein e, dunque, sia alla normativa di rango primario che a quella di rango secondario. Del tutto correttamente, l’Adunanza plenaria ha ritenuto, sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia, e in particolare della sentenza Promoimpresa, che queste disposizioni formulino un divieto agli Stati membri di disporre proroghe automatiche e generalizzate di concessioni su aree demaniali al fine di offrire servizi turistico-ricreativi. Altrettanto correttamente, e sempre sulla base della sentenza Promoimpresa, il Consiglio di Stato ha ritenuto di poter trarre dalle due disposizioni effetti diretti, invocabili, quindi, in un giudizio interno.
Da tali premesse, il Consiglio ha tratto conseguenze radicali. In virtù degli effetti diretti del diritto europeo, tali disposizioni imporrebbero al giudice e alla pubblica amministrazione di disapplicare qualsiasi regola nazionale che abbia disposto una proroga delle concessioni per servizi turistico-balneari, con conseguente decadenza dei diritti creati in capo ai concessionari. L’Adunanza plenaria ha altresì indicato che tali diritti verrebbero meno pur se accertati giudizialmente e pur se, su tale accertamento, si sia formato un giudicato, esistente o anche futuro. Né, su tale fenomeno, prodotto direttamente dalla normativa europea, potrebbe incidere il consolidamento di atti amministrativi.
Peraltro, in considerazione delle conseguenze “socio-economiche” di tale accertamento, il Consiglio di Stato ha ritenuto di poter precisare l’effetto temporale del proprio accertamento, e consentire la produzione di effetti da parte delle norme nazionali di proroga, fino al 31 dicembre 2023.
Valutate nel loro insieme, tali conseguenze sembrano tese a porre rimedio a una situazione di insostenibile divergenza dell’ordinamento nazionale rispetto agli obblighi europei; una situazione creata non già da comportamenti omissivi da parte del legislatore, quanto, piuttosto, da comportamenti attivi, e cioè da leggi e atti amministrativi adottati al fine di impedire la corretta applicazione del diritto europeo da parte delle amministrazioni e dei giudici nazionali.
Da un punto di vista formale, tale divergenza, volutamente creata con il consapevole consenso delle istituzioni politiche nazionali, integra la nozione di conflitto strutturale fra ordinamento strutturale e ordinamento europeo, evocata nell’ultimo paragrafo della sentenza Granital (Corte costituzionale, sentenza n. 170 del 1984). Sarebbe però improprio utilizzare tale nozione, elaborata verosimilmente per conflitto fra i valori e i principi fondamentali dei due ordinamenti, per una divergenza normativa indotta verosimilmente da esigenze molto meno nobili.
Proprio tale constatazione potrebbe spiegare il carattere radicale dell’argomentazione utilizzata e delle soluzioni adottate dalle due sentenze dell’Adunanza plenaria, e l’indiscutibile senso di sollievo che la loro lettura suscita rispetto ad una vicenda che avrebbe dovuta da tempo essere risolta attraverso percorsi politici e istituzionali. E, tuttavia, proprio tale carattere esige altresì una rigorosa indagine giuridica sulla loro coerenza con il sistema del diritto europeo, come sviluppato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. A tale analisi si attenderà, sia pur in maniera sintetica, nei prossimi paragrafi.
2. Sugli effetti diretti dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein
Appare indiscutibile, innanzi tutto, che l’art. 12 della Direttiva Bolkenstein abbia, nel suo contenuto negativo, effetti diretti. Tale disposizione, da un lato, impone agli Stati l’obbligo della selezione del contraente attraverso una procedura competitiva, e, per questo aspetto, assicura agli Stati membri un certo margine di discrezionalità; dall’altro proibisce, invece, proroghe automatiche e generalizzate. In altri termini, per lo meno in relazione all’obbligo negativo che esso impone agli Stati, e cioè quello di non disporre proroghe automatiche e generalizzate, l’art. 12 ha indubbiamente effetti diretti.
Utili elementi in questo senso possono essere tratti altresì dalla sentenza della Corte di giustizia Promoimpresa (14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67/15). Ancorché la Corte non qualifichi l’art. 12 come disposizione produttiva di effetti diretti, essa può essere ragionevolmente interpretata in questo senso. In particolare, al par. 50, la sentenza indica che “una normativa nazionale … che prevede una proroga ex lege della data di scadenza delle autorizzazioni equivale a un loro rinnovo automatico, che è escluso dai termini stessi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123”.
In questo sintetico passaggio, la Corte ha indicato che l’art. 12, par. 2, prevede implicitamente un divieto di rinnovo automatico delle concessioni che rientrino nel suo ambito di applicazione. Or bene, un tale divieto integra un obbligo di non fare il quale, secondo una giurisprudenza risalente addirittura alla celebre sentenza Van Gend en Loos (5 febbraio 1963, causa 26/62), costituisce il paradigma stesso degli effetti diretti.
Ne consegue che il giudice nazionale, anche di ultima istanza, avrebbe potuto autonomamente risolvere la questione interpretativa circa la capacità di produrre effetti diretti da parte dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein senza soggiacere all’obbligo di rinvio pregiudiziale imposto dall’art. 267 TFEU.
3. Effetti diretti in malam partem?
È meno certo, tuttavia, che l’art. 49 TFEU produca a sua volta effetti diretti nella particolare fattispecie presente di fronte al Consiglio di Stato.
Se il divieto di disporre proroghe automatiche e generalizzate trova fondamento nell’art. 12 della Direttiva Bolkenstein, i suoi effetti diretti saranno limitati a quelli che una direttiva può produrre. Come è noto, sulla base di una giurisprudenza consolidata, gli effetti diretti di una direttiva si producono solo nei rapporti verticali, vale a dire nell’ambito di un rapporto giuridico fra individui e Stato. Tale limitazione deriva dall’osservazione che le direttive europee, ai sensi dell’art. 288 TFUE, stabiliscono obblighi di attuazione a carico degli Stati. Di conseguenza, sulla base di un ragionamento logico-formale sviluppato dalla Corte di giustizia per la prima volta nella sentenza Ratti (5 aprile 1979, causa 148/78) uno Stato non potrà opporre il proprio inadempimento ad un individuo che invochi diritti derivanti da una direttiva non attuata.
Sulla base di tale ragionamento, la Corte di giustizia ha non solo escluso gli effetti orizzontali di una direttiva. Essa ha, altresì, limitato l’invocabilità degli effetti diretti di una direttiva nei rapporti giuridici fra Stati e individui. Questi ultimi potranno trarre dalla direttiva posizioni soggettive compiute per opporsi all’applicazione di una legislazione nazionale difforme. Di converso, lo Stato, il quale avrebbe dovuto attuare la direttiva e non lo ha fatto, non potrà invocare la direttiva contro soggetti non tenuti alla sua applicazione.
Ne consegue che l’art. 12 della direttiva Bolkenstein ben potrebbe essere invocato, sia di fronte alla pubblica amministrazione che di fronte al giudice nazionale, da un operatore economico il quale intendesse imporre l’assegnazione una concessione demaniale di servizi attraverso una procedura di selezione competitiva. In risposta all’invocazione della direttiva il giudice avrebbe avuto il dovere di disapplicare le norme italiane le quali, invece di attuare la direttiva e consentire a tale operatore di concorrere all’assegnazione della concessione, hanno disposto una proroga automatica e generalizzata a favore dei concessionari uscenti. Tale costruzione si fonda sull’argomento, sempre ripetuto nella giurisprudenza della Corte, che lo Stato che venga meno al proprio obbligo di attuare una direttiva, non possa trarne vantaggio (giuridico) dal proprio inadempimento. A più forte ragione, tale argomento dovrebbe valere nei confronti di uno Stato che non solo non adempie, ma, al contrario, adotta una legislazione manifestamente difforme rispetto ai propri obblighi.
Di converso, la disapplicazione delle leggi italiane in un giudizio nel quale un operatore invochi la legge interna per opporsi alla pretesa dell’amministrazione statale di mettere a bando una concessione soggetta a proroga farebbe ricadere sui concessionari le conseguenze pregiudizievoli della mancata attuazione della direttiva da parte dello Stato italiano.
Né tale situazione può essere rovesciata alla luce della qualificazione dei concessionari come gestori di poteri pubblici ai sensi della dottrina Foster (sentenza 12 luglio 1990, causa C-188/89). Tale dottrina, precisata recentemente (sentenza Farrell, 10 ottobre 2017, causa C-413/15), è tesa ad evitare che gli Stati, attraverso il trasferimento di funzioni latamente pubbliche a favore di organismi privati, possano sottrarsi all’invocazione degli effetti diretti di una direttiva da parte di individui. Essa, di conseguenza, opera solo allorché un individuo invochi gli effetti diretti di una direttiva nei confronti di un organismo gestore di pubblici poteri e non consente a uno Stato, unico abilitato all’attuazione della direttiva, di invocare una direttiva inattuata nei confronti di tali organismi.
Conviene ora chiedersi se questa conclusione possa mutare se, invece di riferire gli effetti diretti del divieto di proroga alla direttiva Bolkenstein, essi venissero riferiti all’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione. In effetti, si potrebbe pensare che la direttiva, la quale ha proprio lo scopo di attuare la norma primaria del trattato, ne possa mutuare gli effetti. Come è noto le norme dei trattati, qualora dotati di chiarezza e precisione, non incontrano il limite della verticalità e unidirezionalità proprio degli effetti diretti delle direttive.
Tale effetto di mutuazione non appare però del tutto certo. Anzi, proprio nella sentenza Promoimpresa la Corte ha indicato, richiamando consolidati principi giurisprudenziali, come la conformità di una normativa nazionale al diritto europeo in un settore completamente armonizzato debba essere valutata unicamente alla luce della normativa di armonizzazione e non può essere riferita direttamente alla normativa primaria. Dato che, come indicato dalla Corte nei paragrafi 61 e 62, gli articoli da 9 a 13 della direttiva Bolkenstein dispongono una armonizzazione completa, l’invocazione dell’art. 49 TFEU sarebbe consentita solo in riferimento a concessioni che non rientrano nell’ambito dell’art. 12. Né appare incongruo che l’adozione di una direttiva di armonizzazione attragga in via esclusiva il giudizio di conformità rispetto al diritto europeo. Il riferimento esclusivo alla normativa secondaria è fondato sulla constatazione che l’armonizzazione costituisce, grazie al grado di dettaglio delle sue disposizioni, la migliore tecnica normativa per la regolamentazione del mercato interno e, quindi, risulti preferibile per l’attuazione degli obiettivi dei Trattati rispetto al principio del mutuo riconoscimento, il quale riserva un ampio margine di discrezionalità alle autorità amministrative e giudiziarie degli Stati membri. Difatti, la sentenza Promoimpresa conclude che l’art. 49 TFUE può essere utilizzato dal giudice nazionale solo al di fuori dell’ambito di applicazione della Direttiva Bolkenstein.
In una linea argomentativa non considerata dalla Corte, si potrebbe bensì ritenere che l’effetto attrattivo della normativa di armonizzazione si produca solo rispetto agli obblighi più specifici formulati dalla direttiva di armonizzazione rispetto a quelli scaturenti dai trattati e non già rispetto ad obblighi negativi già formulati dai Trattati e semplicemente riaffermati dalla direttiva di armonizzazione. In tale prospettiva, l’art. 49 potrebbe essere invocato al fine di valutare la conformità di una legislazione nazionale la quale non solo non si adegui agli obblighi ulteriori della direttiva Bolkenstein, ma violi l’obbligo di non fare, il quale è fondato direttamente su tale disposizione. Nella giurisprudenza recente, tali obblighi sono stati qualificati come obblighi “di risultato precisi e incondizionati”, un ossimoro difficilmente accettabile a meno che non sia limitato, appunto, agli obblighi di non fare. Peraltro, se questa fosse stata la strada prescelta dal Consiglio di Stato, tale organo avrebbe avuto l’onere di sollevare un rinvio interpretativo alla Corte di giustizia, la quale non si è mai espressa su tale punto con la chiarezza necessaria per sollevare i giudici nazionali di ultima istanza dall’obbligo di rinvio formulato dall’art. 267 TFUE.
4. Effetti diretti e controllo di costituzionalità delle leggi
Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, un giudice nazionale che accerti l’esistenza di un irrimediabile conflitto fra una legge italiana e una direttiva non avente effetti diretti non potrà procedere alla disapplicazione della direttiva ma dovrà deferire la questione incidentale di costituzionalità alla stessa Corte. Tale principio è stato affermato nella storica sentenza Granital (n. 170 del 1984) e più volte ribadito dalla Corte costituzionale. È verosimile ritenere che tale soluzione sia stata adottata dalla Corte costituzionale sulla base del paradigma classico di una direttiva non avente effetti diretti; vale a dire una direttiva le cui disposizione non abbiano chiarezza o precisione, ma lascino un certo margine di discrezionalità agli Stati membri. In questo caso, l’ordinamento italiano sembra predisporre uno strumento di garanzia del diritto europeo che va oltre le esigenze da questo formulato.
È difficile sostenere che tale meccanismo, se pure non imposto dal diritto europeo, sia ad esso contrario. Nella situazione paradigmatica di un individuo che invochi una direttiva per opporsi a una legge nazionale confliggente, esso realizza in maniera anche più forte il principio ispiratore della intera giurisprudenza della Corte di giustizia sugli effetti diretti di una direttiva; vale a dire la piena efficacia del diritto europeo.
Questo meccanismo, tuttavia, potrebbe risultare contrario al diritto europeo in una situazione diversa, nella quale gli individui fondino le proprie posizioni soggettive in una legge nazionale contraria al diritto europeo. In tal caso, esso altererebbe il principio che consente solo agli individui, e non agli organi statali, di invocare gli effetti diretti della direttiva al fine di far valere le posizioni giuridiche di vantaggio da essa prevista. Come indica la sentenza Popławski (24 giugno 2019, Causa C-573/17) “se chiara, precisa e incondizionata, una disposizione di una direttiva non consente al giudice nazionale di disapplicare una disposizione del suo diritto interno ad essa contraria se, in tal modo, venisse imposto un obbligo aggiuntivo a un singolo”. Un eguale principio dovrebbe valere anche qualora il giudice, invece di disapplicare la direttiva, promuova la dichiarazione di incostituzionalità della legge ad essa contraria.
5. La contestualizzazione della sentenza Promoimpresa
Come spiegare, allora, alla luce di tali considerazioni, le conclusioni della sentenza Promoimpresa, la quale ha chiaramente indicato che l’art. 12 della direttiva 2006/123 “osta” a un regime di proroga automatica e generalizzata delle concessioni demaniale per fini turistico-ricreative?
La spiegazione più ovvia è quella che fa leva sulla osservazione che la Corte di giustizia ha semplicemente accertato l’esistenza di un conflitto normativo fra i due regimi, senza però indicarne le conseguenze giuridiche, non richieste dal giudice a quo. Al di là di tale risposta, formale ma corretta, conviene aggiungere che la disapplicazione di leggi confliggenti con norme europee aventi effetti diretti costituisce solo una delle possibili conseguenze, ancorché quella forse più vistosa, del conflitto fra leggi e direttive europee. La conseguenza maggiormente rilevante nei rapporti istituzionali è, infatti, l’obbligo dello Stato di abrogare la normativa nazionale contraria ad una direttiva, e produrre certezza giuridica per i cittadini. La Corte di giustizia ha chiarito che tale obbligo permane indipendentemente dagli eventuali effetti diretti di una direttiva. Esso permane, e anzi si rafforza, pur qualora la normativa nazionale sia disapplicata dai giudici nazionali ovvero dalla pubblica amministrazione. Ciò in quanto la presenza di una legge contraria alla direttiva costituisce un ostacolo alla uniforme applicazione della direttiva nell’ordinamento nazionale interessato. A più forte ragione, tale obbligo permane qualora la direttiva non possa produrre effetti diretti.
Di conseguenza, appare ragionevole interpretare la sentenza Promoimpresa alla luce della pregressa giurisprudenza della Corte di giustizia nel senso, cioè, che l’art. 12 della direttiva Bolkenstein osti, evidentemente, a una legislazione nazionale che disponga una proroga automatica e generalizzata di concessioni di servizi, ma che il compito di attuare la direttiva, eliminando la legislazione ad essa contraria, spetti agli organi centrali dello Stato, i soli sui quali incombe tale obbligo. L’inadempimento di tale obbligo potrà, di conseguenza, essere sanzionato attraverso una procedura di carattere sistemico, quale la procedura di infrazione, la quale correttamente farà ricadere sullo Stato le conseguenze della propria azione e non già sugli individui non tenuti ad attuare la direttiva.
6. I limiti del giudicato in relazione al diritto europeo
Nella seconda parte delle due sentenze, nonché nel principio di diritto, l’Adunanza plenaria indica che la disapplicazione della legge nazionale confliggente con l’art. 12 della direttiva Bolkenstein non possa trovare ostacoli nell’esistenza di un giudicato che abbia, in ipotesi, consolidato la situazione giuridica dei concessionari.
Tali conclusioni sono enunciate con molta rapidità, per modo che non è agevole identificare con esattezza il fondamento. Le due sentenze sembrano indicare che il carattere relativo dei giudicati che abbiano accertato il diritto dei concessionari si fondi su una sopravvenienza normativa data dalla sentenza Promoimpresa. Tale pronuncia avrebbe chiarito il contenuto e gli effetti del diritto europeo e, per tanto, essa costituirebbe un fatto idoneo a relativizzare l’effetto di un giudicato pronunciato in un rapporto di durata e fondato sull’equilibrio normativo preesistente.
Se tale ricostruzione fosse esatta, occorrerebbe interrogarsi sulla sua compatibilità con i principi e le regole dell’ordinamento europeo. Vengono in rilievo, in particolare, due ordini di obiezioni.
Il primo è dato dalla qualificazione di una sentenza interpretativa della Corte di giustizia come una sopravvenienza normativa. In una giurisprudenza meno recente, la Corte di giustizia ha, invero, accolto l’idea che talune conseguenze giuridiche possano essere prodotte nell’ordinamento europeo ad opera di una propria sentenza interpretativa. Ad esempio, nella sentenza Roquette frères (28 settembre 2000, causa C-88/99), la Corte ha indicato, precisando la giurisprudenza Emmott (21 luglio 1991, causa C-208/90), che il legislatore nazionale non può far decorrere il termine per la decadenza per l’invocazione di diritti previsti da una direttiva prima della data in cui la Corte ha accertato con sentenza interpretativa la natura di effetti diretti di tale direttiva. Tale precisazione è stata operata, tuttavia, alla luce della premessa che solo gli individui potessero invocare la direttiva a proprio vantaggio. La produzione di conseguenze giuridiche da parte di una sentenza interpretativa è, quindi, limitata all’ambito applicativo della dottrina degli effetti diretti delle direttive. È difficile ritenere che una sentenza interpretativa possa fuoriuscire da tale ambito e produrre effetti pregiudizievoli verso gli individui che le direttive non possono produrre.
Un secondo ordine di considerazioni si pone su un piano più generale e concerne l’esistenza stessa di una dottrina della sopravvenienza normativa come limite al giudicato nazionale. Le celebri dottrine Lucchini (18 luglio 2007, causa C-119/05) e Kühne (13 gennaio 2004, causa C-453/00), menzionate dalle due sentenze dell’Adunanza plenaria, sono imperniate sull’idea che le norme nazionali che stabiliscono la definitività delle decisioni giudiziarie e amministrative possano venir meno solo in circostanze eccezionali, legate alla violazione dell’obbligo dei giudici nazionali di promuovere un rinvio pregiudiziale di validità (Lucchini) ovvero di interpretazione (Kühne) alla Corte di giustizia (sia consentito rinviare, in proposito, al mio libro Il diritto dell’integrazione europea, IV ed., Torino, 2020, p. 351). Nella vicenda Lucchini, una sentenza definitiva che aveva accertato il diritto di un individuo a ricevere un aiuto di Stato contrario alla normativa europea sarebbe dovuto venir meno in quanto il giudice aveva definito il giudizio senza l’applicazione di una decisione dell’Unione sulla compatibilità dell’aiuto con il mercato comune e senza promuovere un rinvio pregiudiziale di validità obbligatorio ai sensi della dottrina Foto Frost. In Kühne il carattere definitivo di una decisione della pubblica amministrazione sarebbe dovuto venir meno sol perché confermato dal giudice di ultima istanza, il quale avrebbe dovuto sollevare un rinvio pregiudiziale di interpretazione, ai sensi della dottrina CILFIT, al fine di consentire la revisione di un orientamento interpretativo della Corte di giustizia.
In ambedue le ipotesi, il venir meno di un giudicato formatosi in difformità dal diritto europeo non solo non era legato ad una sopravvenienza normativa. Al contrario, esso è dipeso dalla circostanza che i giudici non avessero promosso tale “sopravvenienza”, vale a dire una sentenza della Corte di giustizia che avrebbe ben potuto impedire la formazione di tale giudicato a causa del suo contrasto con il diritto europeo.
Analogamente, nella vicenda in esame, la circostanza che l’Adunanza plenaria abbia adottato soluzioni innovative alla luce del diritto europeo senza promuovere un rinvio pregiudiziale potrebbe indebolire l’autorità formale e l’autorevolezza sostanziale del suo principio di diritto.
* Vedi su questa Rivista, i precedenti interventi di F. Francario, Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità e di R. Dipace, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 8) Il prigioniero coreano, recensione al film di Dino Petralia
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema, si veda l'Editoriale]
Tra crudezza e rivelazione l’opera di Kim Ki Duk racconta il muro intercoreano nella travagliata vicenda di un povero pescatore del nord, Nam Chul-Woo, rassegnatamente sereno nella sua umilissima vita personale e familiare, trovatosi a valicare involontariamente il confine d’acqua tra le due Coree per un guasto all’elica della sua barca (“È tutto ciò che possiedo”, dirà ad una sentinella del regime, finendo per sconfinare così in un mondo tanto opposto quanto ignoto).
Un muro segnato nell’acqua dunque, tanto più insidioso per il rischio di trasgressione quanto così visibile ai fucili che daranno poi termine alla storia e alla vita dell’onesto pescatore. Onesto si! e null’altro, dato che le colpe di marca ideologica delle quali da una parte e dall’altra sarà fatto bersaglio prescindono dai fatti, fondandosi loro stesse sulla feroce matrice del pregiudizio e del preconcetto ideologico.
Infatti, catturato come spia dai sudcoreani per quell’improvvido sconfinamento Nam viene sottoposto a torture verbali e fisiche nell’intento di guadagnare un’ammissione confessoria da tenere luogo di condotte non provate e del tutto inesistenti; restituito infine al suo Nord, anche lì il pescatore viene trattenuto dalle guardie del regime e costretto a sottoporsi ad un febbrile itinerario inquisitorio nella convinzione di un avvenuto tradimento.
Una doppia prigionia, per opposte ragioni ma con un’unica verità volutamente ignorata da un verdetto unanime in entrambe le sponde, sia nel mezzo che nel fine; una prigionia sospettosa e violenta la sudcoreana, neppure scalfita da quella vibrazione di apparente contraddittorio che a tratti l’esperto regista fa emergere nelle figure del superiore gerarchico e del giovane poliziotto, affidatario del povero pescatore e suo ostinato protettore; una prigionia altrettanto violenta e letale quella nordcoreana, edificata sul bisogno di mantenersi immuni da ogni contaminazione capitalistica, sia pure episodica e casuale.
Il dipinto dei contrasti tra le due realtà bene risalta nell’efficace sintesi comportamentale di Nam e del suo tenace rifiuto di aprire gli occhi al cospetto di una scena urbana – quella del centro di Seul - della quale avrebbe dovuto poi rendere giustificazione al suo regime d’appartenenza non appena di rientro al nord; ed anche nell’incredulo suo disorientamento, una volta aperti gli occhi per necessità di movimento, innanzi ad un mondo troppo eterogeneo e distante dal suo modello esistenziale, così diverso da far rischiare una seduzione di cui in verità sembra consentito cogliere un qualche flebile cenno.
Sullo sfondo tutta l’insensatezza e dissennatezza di un contrasto ideologico armato sul medesimo territorio asiatico, microcosmo filmico del duplice asse capitalistico e totalitario che ancora oggi nel mondo alimenta i suoi seguaci e i suoi muri e che l’abile Kim, tutt’altro che debuttante, proietta con formidabile maestria nella scena finale del doppio orsacchiotto - consunto e sdrucito quello del nord, colorato e semovente quello del sud - ripreso tra le mani della figlioletta di Nam che ad entrambi sorride grata quale prodromo di speranza.
Il termine dei motivi aggiunti in materia di contratti pubblici e l’incertezza della Corte Costituzionale (nota a Corte Cost. 28 ottobre 2021, n. 204) di Antonella Mirabile
Sommario. 1. Premessa: la questione del termine di impugnazione in materia di appalti pubblici. – 2. Il contesto normativo. – 3. La questione rimessa alla Corte Costituzionale e le motivazioni a sostegno del rigetto. – 4. Considerazioni conclusive.
1.- Premessa: la questione del termine di impugnazione in materia di appalti pubblici.
La Corte Costituzionale, su ordinanza di rimessione del Tar Puglia - Lecce[1], con la sentenza del 28 ottobre 2021, n. 204 è tornata ad affrontare la questione relativa al termine di impugnazione degli atti delle procedure di gara per l’affidamento di contratti pubblici di appalto e di concessione di lavori, servizi e forniture[2].
Le questioni attinenti al termine decadenziale di impugnazione hanno, in generale, da sempre sollevato molteplici riflessioni dottrinali[3].
Con riguardo, poi, alla materia dei contratti pubblici la questione ha sollecitato molteplici pronunce[4] e l’interesse dottrinale[5] a fronte anche della accelerazione dei termini previsti per tale rito speciale.
La Consulta, con la sentenza in commento, sembra aver dato la stura all’interpretazione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 12/2020, sancendone in via definitiva la conformità all’articolo 24 della Costituzione.
Tale pronuncia merita, tuttavia, di essere analizzata criticamente poiché, come si avrà modo di evidenziare nel prosieguo, il dato testuale dell’articolo 120, comma 5, c.p.a., oltre che la vigente disciplina sostanziale, in assenza del necessario intervento legislativo, lasciano tutt’ora aperte alcune questioni di compatibilità con il diritto europeo e, in particolare, con la direttiva 2007/66/CE, le quali vanno ad incidere non solo sugli aspetti processuali, ma anche e, soprattutto, su quelli sostanziali.
2.- Il contesto normativo.
Per comprendere appieno i termini della questione esaminata dalla Consulta nella sentenza in commento è necessario preliminarmente chiarire il relativo contesto normativo.
La materia dei contratti pubblici ha una spiccata matrice europea ed è anzi pressoché la sola materia nella quale il legislatore europeo si è spinto a disciplinare non solo gli aspetti sostanziali, ma anche quelli processuali.
Con le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE (le c.d. “direttive ricorsi”), così come modificate dalla direttiva 2007/66/CE e dalla direttiva 2014/23/UE, il legislatore europeo è andato a disciplinare, in tale materia, gli aspetti relativi alla proposizione di ricorsi al fine precipuo di garantirne l’effettività della tutela e, in questo modo, assicurare il rispetto della normativa sostanziale da parte degli Stati membri, dando di fatto vita ad una giurisdizione di tipo oggettivo[6].
Uno degli elementi centrali nella disciplina europea, tanto sostanziale quanto processuale, è rappresentato dalla necessità di garantire un notevole aumento delle garanzie di trasparenza e non discriminazione in tale materia. Per far sì che tali garanzie avessero effetti concreti, il legislatore europeo ha ritenuto che dovessero essere previsti mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di loro violazione[7].
La questione relativa al termine per proporre ricorso, in particolare, è stata presa in esame dalla direttiva 2007/66, soprattutto con riferimento alla necessità di avere un termine certo per superare una delle criticità riscontrate nell’applicazione delle direttive ricorsi, vale a dire «l’assenza di un termine che consenta un ricorso efficace tra la decisione d’aggiudicazione di un appalto e la stipula del relativo contratto»[8].
La previsione di un termine certo per proporre il ricorso, difatti, ha una valenza non solo processuale, ma anche e soprattutto di natura sostanziale.
Proprio a partire dalla riforma del 2007, per ovviare agli effetti lesivi e irreversibili della immediata stipulazione del contratto a seguito dell’aggiudicazione, è stato introdotto il c.d. stand still period[9], vale a dire un termine «sospensivo»[10] tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto. Questo termine dilatorio è stato previsto proprio per «concedere agli offerenti interessati sufficiente tempo per esaminare la decisione d’aggiudicazione dell’appalto e valutare se sia opportuno avviare una procedura di ricorso»[11].
Il termine per proporre il ricorso, sia nelle direttive, sia nella giurisprudenza della Corte di Giustizia[12], dovrebbe cominciare a decorrere dalla comunicazione dell’aggiudicazione solo se tale comunicazione contiene le motivazioni specifiche che hanno determinato tale scelta, di modo che l’interessato possa rendersi conto degli eventuali vizi della procedura e dell’aggiudicazione e, quindi, decidere in maniera consapevole se impugnare o meno la decisione ad esso sfavorevole.
Nell’ordinamento italiano, fino al recepimento della direttiva del 2007, con il d.lgs. 53/2010, ai sensi dell’art. 23-bis della l. Tar, anche al rito abbreviato per le controversie inerenti le procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture si applicava il termine di impugnazione generale di 60 giorni, decorrenti dalla notifica del provvedimento ovvero dal momento della piena conoscenza o, nel caso degli atti per i quali non era richiesta la notifica individuale, dalla scadenza del termine della pubblicazione nell'albo.
Con il recepimento[13], ad opera del d.lgs. 53/2010, della direttiva del 2007 è stato modificato l’articolo 245 del d.lgs. 163/2006 (di seguito “primo codice appalti”) sugli strumenti di tutela. Con tale modifica, pur continuandosi ad applicare il rito abbreviato di cui all’art. 23-bis della l. Tar, veniva prevista, al comma 2-quinquies, la riduzione del termine di impugnazione a 30 giorni, decorrenti dalla comunicazione degli atti ai sensi dell’art. 79 del medesimo codice ovvero con riferimento all’impugnazione dei bandi o degli avvisi, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di cui all’art. 66, comma 8.
Il d.lgs. 53/2010, peraltro, introduceva proprio all’art. 79 una forma di accesso informale agli atti di gara stabilendo, al comma 5-quater[14], che i partecipanti alla gara entro 10 giorni dal ricevimento delle previste comunicazioni[15] potessero prendere visione ed estrarre copia della documentazione semplicemente recandosi presso gli uffici dell’amministrazione.
Sempre nel 2010, con il d.lgs. 104/2010 e, quindi, con l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo (di seguito c.p.a.) le norme di carattere processuale sono confluite in quest’ultimo e, pertanto, per la disciplina dei giudizi in materia di contratti pubblici le disposizioni di riferimento sono confluite negli articoli 119 e 120 e seguenti, mantenendo di fatto la configurazione di un rito abbreviato comune ad altre materie con la peculiarità della riduzione del termine di impugnazione a 30 giorni[16].
Per la determinazione del dies a quo il c.p.a. rinviava e, tutt’ora rinvia, alla disciplina sostanziale delle comunicazioni e pubblicazioni di cui detto sopra, salvo il criterio residuale - «negli altri casi» - della decorrenza dalla conoscenza dell’atto.
Già in questa fase di relativa chiarezza normativa, la dottrina[17] e la giurisprudenza[18] ravvisavano delle perplessità riguardo, essenzialmente, la sussistenza di una sorta di onere di ricorrere “al buio”, vale a dire prima di avere la piena conoscenza degli eventuali vizi della procedura.
Per contemperare, quindi, la necessità di garantire l’effettività della tutela e, al contempo, la certezza del diritto, si era andata consolidando in giurisprudenza una interpretazione di tali disposizioni maggiormente garantista, la quale distingueva, per l’individuazione del termine e del dies a quo, a seconda della completezza ed esaustività della comunicazione di aggiudicazione ex art. 79 del primo codice appalti, arrivando a consentire un incremento del termine di impugnazione di massimo 10 giorni, pari ai giorni necessari per poter avere una piena conoscenza degli atti tramite l’accesso informale di cui all’art. 79, comma 5-quater[19].
Qualora, poi, l’accesso fosse stato illegittimamente rifiutato o dilazionato per causa dell’amministrazione, il termine avrebbe cominciato a decorrere solo dalla data in cui l’accesso era stato effettivamente consentito[20].
L’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016 (secondo codice contratti pubblici) ha complicato ulteriormente il quadro normativo[21]. Difatti, pur abrogando integralmente il primo codice e, quindi, anche le norme alle quali l’art. 120, comma 5 c.p.a. rinviava per determinare il termine di impugnazione, il legislatore non è intervenuto a modificare tale ultima disposizione normativa in modo tale da coordinare i testi normativi e, quindi, consentire di individuare in maniera certa il termine di impugnazione e il momento della sua decorrenza.
Peraltro, a fronte del mancato coordinamento legislativo, ulteriore elemento di complicazione è venuto dal fatto che sia stata abolita dal nuovo codice la procedura di accesso informale che prima era prevista dall’art. 79, comma 5-quater[22] e che, come visto, aveva consentito alla giurisprudenza di estendere il termine di impugnazione fino a 40 giorni.
Come ormai di sovente accade, ancora una volta è stata la giurisprudenza a doversi fare carico delle mancanze del legislatore[23].
Al riguardo, si sono venuti a formare due distinti ed opposti orientamenti giurisprudenziali. Un primo, rimanendo nel solco della giurisprudenza che si era consolidata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016, ha ritenuto che il richiamo all’art. 79 del primo codice dei contratti dovesse, ora, intendersi rivolto all’art. 76 e che a fronte del diverso contenuto delle due norme comunque si sarebbe dovuta riconoscere ai ricorrenti una dilazione temporale da determinarsi in 15 giorni, quale termine previsto dal nuovo codice per la comunicazione delle ragioni dell’aggiudicazione su istanza dell’interessato[24].
Il secondo orientamento, al contrario, ha ritenuto che l’abrogazione dell’art. 79 del primo codice abbia reso irrilevante il richiamo ad esso contenuto nell’art. 120, comma 5, c.p.a.. Questo avrebbe comportato che il termine di 30 giorni dovrebbe decorrere dalla comunicazione di aggiudicazione o, in sua mancanza, dalla conoscenza dell’aggiudicazione che l’interessato abbia acquisito aliunde. L’effettività della tutela, secondo questa interpretazione, sarebbe fatta salva dalla possibilità di proporre motivi aggiunti qualora la conoscenza dei vizi dell’aggiudicazione sia avvenuta in un momento successivo rispetto alla comunicazione[25].
Nel quadro, tutt’altro che chiaro determinato dal mancato necessario coordinamento legislativo, venivano chiamate - tra l’altro a distanza di un mese l’una dall’altra - a sciogliere tale questione sia la Corte costituzionale sia l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[26].
L’Adunanza Plenaria, pur segnalando al Consiglio dei Ministri la necessità di una modifica legislativa, si è comunque pronunciata con la sentenza del 2 luglio 2020, n. 12 andando a delineare i principi di diritto da seguire nell’interpretazione dell’immodificato disposto dell’art. 120, comma 5 c.p.a., i quali di fatto rimangono nel solco dell’interpretazione giurisprudenziale antecedente al d.lgs. 50/2016.
In particolare, la Plenaria ha affermato i seguenti principi di diritto: «a) il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016;
b) le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale;
c) la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta;
d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29 del decreto legislativo n. 50 del 2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione;
e) sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati».
3.- La questione rimessa alla Corte Costituzionale e le motivazioni a sostegno del rigetto.
Per quanto riguarda la Corte Costituzionale la sentenza 28 ottobre 2021, n. 204, oggetto di commento in questa sede, è stata sollecitata dal Tar Puglia, Lecce, con particolare riferimento al termine per la proposizione di motivi aggiunti.
Il Tar Lecce ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 5, c.p.a. nella parte in cui tale norma faceva (e fa tutt’ora) decorrere il termine di trenta giorni per la proposizione dei motivi aggiunti dalla ricezione della comunicazione dell’aggiudicazione di cui all’art. 79 del d. lgs. n. 163/2006, per contrasto con il diritto di difesa e il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 della Costituzione, «poiché equiparando il termine per la proposizione dei motivi aggiunti a quello per la proposizione del ricorso, impedisce di fatto la tutela giurisdizionale della parte ricorrente avverso i vizi di legittimità del provvedimento di aggiudicazione rivelati dagli atti e dai documenti successivamente conosciuti».
Nel caso oggetto di giudizio, difatti, la società ricorrente, a seguito della comunicazione di aggiudicazione di un appalto di servizi a favore della controinteressata, datato 29 maggio 2019, impugnava tempestivamente, con ricorso ex art. 120 c.p.a, gli esiti di tale gara.
Fin dal 30 maggio 2019 la ricorrente chiedeva di accedere agli atti di gara, accesso che la stazione appaltante consentiva solo il 15 luglio successivo.
A seguito dell’accesso, la società ricorrente proponeva ricorso per motivi aggiunti notificandolo in data 31 luglio 2019.
Tali motivi aggiunti, secondo il Tar Lecce, in applicazione del disposto, ritenuto incostituzionale, dell’art. 120, comma 5, c.p.a., sarebbero stati tardivi poiché anche per essi il dies a quo di decorrenza del termine di impugnazione sarebbe stato il 29 maggio, quale data della comunicazione di aggiudicazione.
Il Tar, difatti, riteneva di essere vincolato all’applicazione di tale disposizione nell’univoco senso espresso dalla lettera della stessa, la quale riconnetterebbe la decorrenza del termine, sia per il ricorso principale sia per i motivi aggiunti, alla sola ricezione della comunicazione di aggiudicazione inviata agli operatori concorrenti alla gara ai sensi dell’abrogato art. 79 del d.lgs. n. 163 del 2006.
Tuttavia, dal momento che i vizi da porre a base dei motivi aggiunti ben potrebbero essere conosciuti solo in data successiva a tale ricezione, in forza dell’accesso agli atti di gara, tale regime processuale sarebbe palesemente in contrasto con l’art. 24 Cost., perché, comportando la decorrenza del termine per la proposizione dei motivi aggiunti in un momento antecedente alla effettiva cognizione del vizio, impedirebbe “di fatto” la tutela giurisdizionale.
Il giudice a quo riteneva di non poter operare una interpretazione costituzionalmente orientata dal momento che «se è vero che il giudice deve interpretare le leggi in conformità ai principi costituzionali, applicando direttamente la Costituzione, quando ciò sia tecnicamente possibile - e, quindi, potendo (o meglio dovendo) trovare un significato meno prossimo alla “lettera” della legge ove questo assicuri maggiore conformità alla “lettera” e allo “spirito” della Costituzione e rimettendo la decisione alla Corte costituzionale ove non sia possibile un’interpretazione “adeguatrice” - ciò non significa, però, che la cosiddetta “lettera” possa essere travalicata attraverso l’interpretazione, al punto di pervenire ad una vera e propria “disapplicazione” del testo normativo».
La Corte Costituzionale, tuttavia, ha ritenuto non fondata la questione sollevata dal Tar Lecce.
In primo luogo, ha ritenuto che non sussistesse alcuno ostacolo alla praticabilità dell’interpretazione adeguatrice di tale disposizione, come dimostrato dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Difatti, il richiamo all’articolo 79 del d.lgs 163/2006 contenuto al comma 5, dell’art. 120 c.p.a., oggi da riferirsi all’art. 76 del d.lgs. 50/2016, non sarebbe riferito solo alla comunicazione di aggiudicazione, ma anche a tutte le informazioni successive. Il rinvio al testo integrale della disposizione e, dunque anche alle attività conseguenti alla (eventuale) richiesta di accesso, consentirebbe di «ricondurre nel cerchio delle interpretazioni compatibili con la lettera della legge, secondo il contesto logico-giuridico al quale pertiene la norma, la lettura che impone una dilazione temporale, correlata all’esercizio dell’accesso nei quindici giorni previsti attualmente dall’art. 76 del vigente “secondo” cod. dei contratti pubblici (e, in precedenza, ai dieci giorni indicati invece dall’art. 79 del “primo” cod. contratti pubblici)»[27].
Sia consentito, tuttavia, rilevare sin da ora, come la Corte Costituzionale non abbia correttamente letto la pronuncia della Plenaria[28], laddove è stato evidenziato dai giudici di Palazzo Spada come l’articolo 76 del nuovo codice dei contratti non preveda una forma di accesso informale ai documenti, bensì la mera comunicazione, su richiesta scritta dell’offerente, della motivazione della decisione assunta.
Il termine di 15 giorni contenuto nell’art. 76, comma 2 è stato, difatti, creativamente[29] e in maniera non del tutto chiara[30] utilizzato dalla Plenaria per individuare, da un lato, un termine entro il quale l’amministrazione dovrebbe rispondere all’accesso informale ex art. 5 del d.P.R. n. 184 del 2006 , per poter conseguentemente applicare la dilazione del termine di impugnazione ovvero per individuare comportamenti dell’amministrazione aggiudicatrice idonei ad impedire l’accesso agli atti e, quindi, idonei a far decorrere il termine solo dal momento della conoscenza di tali atti e, dall’altro lato, sembra essere stato utilizzato per individuare il termine entro il quale l’operatore economico debba instare per accedere agli atti.
La Consulta ha, poi, affermato che contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo l’abrogazione dell’articolo 79 non rappresenta un ostacolo all’applicabilità dell’articolo 76 dal momento che «la lettera della legge, per la parte in cui dispone un rinvio ad una disposizione successivamente abrogata, non è un ostacolo, ma al contrario il punto di partenza che onera l’interprete del compito di assegnare alla norma il significato che essa acquisisce, a seguito dell’abrogazione della disposizione oggetto di rinvio»[31].
Il riferimento all’articolo 76 sarebbe comunque da riferirsi secondo la Corte non solo al secondo comma, ma anche al primo. Si confermerebbe in questo modo l’articolata interpretazione prospettata dall’Adunanza Plenaria secondo la quale il termine inizierebbe a decorrere dalla comunicazione di aggiudicazione, fatto salvo il meccanismo della dilazione temporale.
Per queste ragioni non vi sarebbe, contrariamente a quanto affermato dal giudice a quo, «alcun impedimento letterale o logico ad adottare l’interpretazione della norma censurata propugnata dalla giurisprudenza amministrativa maggioritaria, avvallata dalla Adunanza plenaria».
La Corte, superato lo “scoglio” dell’impedimento letterale – che a giudizio di chi scrive avrebbe dovuto essere maggiormente approfondito e della cui superabilità si dubita fortemente[32] - è venuta ad esaminare la conformità al disposto dell’art. 24 Cost. del termine di proposizione dei motivi aggiunti.
A questo proposito, la Consulta ha osservato che «prevedere che il termine di decadenza per proporre i motivi aggiunti maturi, nonostante il vizio non fosse conoscibile mediante l’impiego della ordinaria diligenza, comporterebbe una arbitraria e irragionevole compressione del diritto di agire (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2019 e n. 94 del 2017)».
Una previsione di questo tipo sarebbe in contrasto anche con il diritto europeo il quale invece «esige che il termine per proporre ricorso decorra dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della illegittimità che intende denunciare (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 28 gennaio 2010, in causa C-406/08, Uniplex, UK, Ltd, e ordinanza 14 febbraio 2019, in causa C-54/18, Cooperativa Animazione Valdocco S.C.S. Impresa sociale Onlus), formulando così una regola che, in tale settore, concerne sia il ricorso principale, sia la proposizione di motivi aggiunti».
La Corte ha, quindi, ritenuto che l’interpretazione dell’art. 120, comma 5 avallata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sia compatibile con l’art. 24 Cost. e con il diritto UE poiché «assicura, mediante il meccanismo della cosiddetta dilazione temporale per i casi di accesso tempestivamente soddisfatto dall’amministrazione, che il termine per proporre i motivi aggiunti, pur decorrendo, per l’ipotesi prevista dalla disposizione censurata, dalla data di comunicazione dell’aggiudicazione, sia ugualmente pieno.
Parimenti, per il caso in cui l’amministrazione, invece, neghi l’accesso o lo procrastini con condotte
dilatorie, il termine, secondo tale lettura esegetica, decorre, quanto ai vizi non percepibili innanzi, dalla data di effettiva conoscenza degli atti di gara, sicché con ciò si assicura alla parte ricorrente di poter usufruire dei trenta giorni assegnati dall’art. 120 cod. proc. amm. per articolare le proprie censure in giudizio».
4.- Considerazioni conclusive.
Il giudizio sulla pronuncia in commento non può essere di certo positivo.
Essa rappresenta l’ennesima occasione persa per modificare una norma assolutamente non chiara e del pari per sanzionare un legislatore non solo inerte, ma di fatto assolutamente non intenzionato ad intervenire per rendere l’imprescindibile coordinamento legislativo a distanza di ormai ben 5 anni dalla avvenuta abrogazione del d.lgs. 163/2006 ad opera del d.lgs. 50/2016.
Difatti, come ricordato, il Consiglio di Stato, ha doverosamente segnalato al Consiglio dei Ministri tale mancanza di coordinamento, ai sensi dell’art. 58 del R.D. 444/1942[33], evidenziando la necessità che venisse disposta «una modifica legislativa ispirata alla necessità che vi sia un ‘sistema di termini di decadenza sufficientemente preciso, chiaro e prevedibile’, disciplinato dalla legge con disposizioni di immediata lettura da parte degli operatori cui si rivolgono le direttive dell’Unione Europea»[34]. Tuttavia, a distanza di più di un anno dalla segnalazione del Consiglio di Stato e a fronte di molteplici interventi normativi (l’ultimo dei quali con d.l. 77/2021 c.d. “semplificazioni bis”, convertito, con modificazioni, nella legge 108/2021), intervenuti sia sulla disciplina sostanziale di cui al d.lgs. 50/2016 sia su quella processuale, risulta evidente l’intento del legislatore di scoraggiare i ricorsi in materia di contratti pubblici, anche sotto il profilo dei termini di impugnazione[35].
Il termine di impugnazione di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a., nonostante e anche a causa dell’interpretazione creativa del giudice amministrativo, continua ad essere tutt’altro che preciso, chiaro e prevedibile come invece richiederebbe la pacifica giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo la quale - come correttamente rilevato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato - «gli Stati membri hanno l’obbligo di istituire un sistema di termini di decadenza sufficientemente preciso, chiaro e prevedibile, onde consentire ai singoli di conoscere i loro diritti ed obblighi (Corte di Giustizia, 14 febbraio 2019, in C-54/18, punto 29; 7 novembre 1996, in C-221/94, punto 22; 10 maggio 1991, in C-361/88)».
Nell’interpretazione dell’Adunanza Plenaria n. 12/2020, così come avallata dalla Corte Costituzionale, né il termine stesso né il momento da cui tale termine comincerebbe a decorrere si può dire chiaro, preciso o prevedibile.
A seconda del comportamento più o meno diligente delle parti il termine di impugnazione può, difatti, variare dai 30 ai 45 giorni.
L’art. 76 del nuovo codice dei contratti pubblici, a differenza dell’art. 79 del primo codice[36], non prevede un contenuto minimo della comunicazione di aggiudicazione né, tantomeno, un termine entro il quale esercitare l’accesso informale alla documentazione di gara.
Ne consegue che, secondo l’interpretazione accolta dal Consiglio di Stato e dalla Corte Costituzionale, il termine di 30 giorni comincerà a decorrere dalla comunicazione di aggiudicazione solo se l’amministrazione, pur in assenza di un referente normativo, sarà stata autonomamente diligente nel rendere una comunicazione quanto più completa possibile e, parimenti, se sarà stata altrettanto diligente nel pubblicare i propri atti sul profilo committente, così come disposto dall’art. 29.
In tutti gli altri casi, che, ovviamente, come accade nel nostro sistema sono e saranno la norma, il termine sarà dilazionato di al massimo 45 giorni, senza che tuttavia ciò sia chiaramente evincibile dalla disposizione legislativa.
Il termine dilazionato di 45 giorni, nell’interpretazione in commento, sembrerebbe poter essere concesso agli operatori economici solo nel caso in cui questi si attivino tempestivamente per accedere agli atti[37].
Non è chiaro, però fino a quando possa considerarsi tempestiva l’istanza d’accesso né sotto quale forma debba essere presentata.
Non vi è norma alcuna che preveda il termine entro il quale gli interessati debbano richiedere di accedere alla documentazione di gara come, invece, era previsto nella vigenza dell’art. 79 e risulta poco chiara anche la statuizione della Plenaria sul punto, la quale sembrerebbe rinviare al termine di 15 giorni di cui all’art. 76, comma 2[38]. Tale termine, tuttavia, nella chiara lettera della disposizione è imposto, più che all’operatore economico, all’amministrazione per fornire le (sommarie) informazioni ivi elencate.
In ordine, poi, alla effettiva praticabilità della soluzione accolta dalla Plenaria, secondo la quale a seguito della mancata previsione di un accesso informale agli atti di gara si debbano applicare le disposizioni generali sull’accesso informale di cui all’art. 5 del d.P.R. n. 184 del 2006[39], si deve considerare che tale disposizione esclude la possibilità dell’accesso informale nel caso in cui siano individuabili dei controinteressati, prevedendo che l’amministrazione, in questi casi, inviti l’interessato a presentare una richiesta formale di accesso.
Risulta evidente, quindi, come tale disposizione non possa applicarsi in pressoché nessun caso in subiecta materia, poiché la documentazione idonea a consentire la valutazione circa la proponibilità o meno del ricorso – e a cui fa riferimento la stessa Plenaria, poiché non soggetta a pubblicazione ai sensi dell’art. 29 – è generalmente rappresentata dalla documentazione di gara o dalle giustificazioni rese in sede di verifica di anomalia dell’offerta dall’aggiudicatario e, eventualmente, da altri concorrenti.
Le stazioni appaltanti, qualora venga loro richiesto di accedere in maniera informale, non potranno fare altro che invitare gli interessati a presentare una istanza di accesso formale ai sensi dell’art. 53 del codice per il quale, tuttavia, l’amministrazione ha, quale termine di riscontro, quello generale di 30 giorni di cui all’art. 25 della l. 241/1990.
In tali casi, potrebbe non essere applicabile il termine dilazionato di ulteriori 15 giorni, così come vorrebbe la giurisprudenza creativa del Consiglio di Stato. Questo poiché, salvo che gli operatori economici non facciano immediatamente accesso agli atti, non ci sarebbero da un punto di vista tecnico i 15 giorni dalla comunicazione di aggiudicazione.
Difatti, la stazione appaltante, una volta ricevuta l’istanza di accesso – che dovrà necessariamente essere formale – dovrà, ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006, comunicare ai controinteressati la presentazione di tale richiesta. I controinteressati avranno, a loro volta, 10 giorni per opporsi all’accesso motivando e comprovando che le informazioni fornite nell’ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima costituiscono segreti tecnici o commerciali.
Solo in caso di mancata opposizione, quindi trascorsi già almeno 10 giorni dalla istanza di accesso, l’amministrazione potrà ostendere la documentazione richiesta.
Viceversa, l’amministrazione dovrà valutare, facendo così trascorrere ulteriore tempo, l’effettiva sussistenza dei rilevati segreti tecnici o commerciali e, quindi, o negare l’accesso ovvero consentirlo solo con riferimento ai documenti nei quali non sono contenuti tali segreti tecnici o commerciali.
In questo modo, gli operatori economici vengono, di fatto, onerati a richiedere immediatamente l’accesso agli atti per poter realmente fruire della dilazione temporale riconosciuta dalla giurisprudenza.
Dal momento, poi, che la giurisprudenza amministrativa sembra aver collegato la decorrenza del termine di trenta giorni dal momento di effettivo accesso agli atti al comportamento tenuto dall’amministrazione, nei casi in cui l’accesso avvenga dopo più di 15 giorni dalla comunicazione di aggiudicazione (e quindi non si possa applicare il termine dilazionato), per individuare il momento di decorrenza del termine dovrà valutarsi caso per caso se il comportamento tenuto dall’amministrazione sia da considerarsi dilatorio o diligente, con tutto ciò che ne comporta in termini di certezza.
In conseguenza di ciò, qualora non siano riscontrabili vizi della procedura né dalla comunicazione di aggiudicazione né dagli atti pubblicati nel profilo committente ai sensi dell’art. 29, gli operatori economici, nell’incertezza di quale possa essere l’effettivo termine di impugnazione, potrebbero sentirsi costretti, al fine di non decadere dalla possibilità di impugnare gli atti di gara, a dover esperire, ancora una volta, un ricorso “al buio”.
La Plenaria rispetto a tale questione è stata abbastanza tranchant nell’escludere la necessaria previa proposizione di un ricorso “al buio”.
Tuttavia, anche in relazione a tale aspetto ha affermato in maniera non chiara che rileverebbe il «tempo necessario per accedere alla documentazione presentata dall’aggiudicataria, ai sensi dell’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’», il quale, tuttavia, come detto sopra, stando al tenore letterale di tale disposizione, non sarebbe compatibile con la dilazione massima di 15 giorni garantita giurisprudenzialmente.
Ulteriore profilo di incompatibilità con il diritto europeo è, a parere di chi scrive[40], rappresentato dal mancato coordinamento del termine creato giurisprudenzialmente con quello di stand still sostanziale.
La direttiva 2007/66, come ricordato al paragrafo 2, ha collegato in maniera pressoché inscindibile il termine per presentare ricorso al termine dilatorio tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto (c.d. stand still).
E questo era proprio il perno della riforma del 2007[41].
Il quadro attuale, delineato dal mancato intervento legislativo e dalla giurisprudenza creativa del Consiglio di Stato, ha comportato e comporta un disallineamento tra il periodo di stand still, individuato dall’art. 32, comma 9 del nuovo codice appalti in 35 giorni dalla comunicazione di aggiudicazione e l’incerto termine di impugnazione che, come abbiamo visto, può arrivare anche a 45 giorni (se non oltre in caso di comportamento dilatorio dell’amministrazione).
Questo comporta che trascorsi 35 giorni l’amministrazione, salvo che non provveda prima in via d’urgenza, ben possa sottoscrivere con l’aggiudicatario il contratto, con tutto ciò che ne potrebbe derivare in termini di effettività della tutela.
Alla luce delle considerazioni di cui sopra non si può, pertanto, dire che la sentenza della Corte Costituzionale in commento abbia definitivamente chiuso la questione.
Solo un concreto intervento legislativo potrebbe sanare le incongruenze che si sono venute a creare nel nostro sistema[42].
L’intervento, tuttavia, non dovrebbe riguardare il solo articolo 120 c.p.a., ma dovrebbe andare a dare maggiore consistenza anche alle norme di carattere sostanziale.
In particolare, sarebbe auspicabile, per favorire la celerità e garantire la stabilità del rapporto nel più breve tempo possibile, l’individuazione puntuale della forma e degli elementi essenziali della comunicazione di aggiudicazione.
Inoltre, a fronte della digitalizzazione delle gare, per tutelare l’interesse degli eventuali concorrenti pretermessi di esaminare la documentazione della aggiudicataria e, quindi, consentigli di assicurarsi una rapida piena conoscenza degli eventuali vizi della gara e, allo stesso tempo, per tutelare l’interesse alla riservatezza dell’aggiudicatario, dovrebbe essere previsto che la documentazione dell’aggiudicataria, eventualmente epurata degli elementi oggetto di obbligo di segretezza, sia obbligatoriamente pubblicata in una area riservata, accedibile tramite apposite credenziali indicate nella comunicazione di aggiudicazione[43].
Nel caso, poi, in cui la documentazione per qualsiasi motivo non sia disponibile in formato elettronico, dovrebbe essere reintrodotto un sistema di accesso informale così come previsto nell’art. 79 del primo codice dei contratti. Dovrebbe, quindi, in tali casi, essere indicata già nella comunicazione di aggiudicazione la data entro la quale è possibile accedere tramite visione ed estrazione di copia alla documentazione di gara e far quindi decorrere il termine di impugnazione da tale momento.
Il tutto, infine, dovrebbe essere coordinato con il termine di stand still.
Si dubita, tuttavia, che a questo punto, dopo l’intervenuto avvallo della Consulta, il legislatore intervenga sua sponte per sanare le incongruenze del sistema.
Probabilmente ormai solo l’avvio di una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea potrà sollecitare il nostro legislatore insipiente ed inerte.
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[1] Tar Lecce, sez. III, ordinanza 2 marzo 2020, n. 297.
[2] L’ultima pronuncia della Corte Costituzionale sui termini di impugnazione in materia di contratti pubblici aveva avuto ad oggetto il rito super-accelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis c.p.a., sentenza 18 dicembre 2019, n. 271.
[3] In letteratura sul tema si vedano, tra gli altri, E. Cannada Bartoli, Decorrenza dei termini e possibilità di conoscenza dei vizi, in Foro amm., 1961, I, 1085; S. Baccarini, La comunicazione del provvedimento amministrativo tra prassi e nuove garanzie, in Dir. proc. amm., 1994, 1, 8; V. Caianiello, voce Termini, III) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., vol. XXXV, Roma, 1997, 1; R. Politi, Decorrenza del termine per l'impugnazione del provvedimento in sede giurisdizionale e conoscenza della motivazione dell'atto: spunti di riflessione, in TAR, 1999, 2, 133; R. Damonte, Conoscenza del provvedimento amministrativo e termini di proposizione del ricorso al giudice amministrativo, in Riv. giur. edil., 2000, 1, 1135; F. Ceglio, La piena conoscenza e la decorrenza del termine per la proposizione del ricorso, in Giorn. dir. amm., 2003, 5, 495; A. Reggio D'aci, La piena conoscenza del provvedimento amministrativo e la decorrenza del termine per la sua impugnazione, in Urb. e app., 2007, 11, 1367; L. Ferrara, Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi, in Foro amm. TAR, fasc.4, 2008, pag. 1193; D. De Pretis e F. Cortese, Stabilità e contendibilità del provvedimento amministrativo: percorsi di diritto comparato, in G. Falcon (a cura di), Forme e strumenti della tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi nel diritto italiano, comunitario e comparato, Padova, 2010, 331 ss.; G. Falcon e D. De Pretis (a cura di), Stabilità e contendibilità del provvedimento amministrativo nella prospettiva comparata, Padova, 2011, A. Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012; F. Saitta, Tutela risarcitoria degli interessi legittimi e termine di decadenza, in Dir. proc. amm., 2017, 1191 ss., 1219 ss.; M. Ramajoli, Riflessioni critiche sulla ragionevolezza della disciplina dei termini per ricorrere nel processo amministrativo, in Federalismi.it, 17/2018 (anche in F. Francario, M. A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, 183 ss.); S. Martino, Termine di decadenza e la sua decorrenza: regole, applicazione, prospettive, in Principio di ragionevolezza, ult. cit. 223 ss..
[4] Sotto la vigenza del d.lgs. 163/2006, ex multis, si vedano ordinanza Cons. Stato, sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 790 di rimessione della questione relativa alla decorrenza del termine di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a indipendentemente dalla piena conoscenza dei plichi contenenti le offerte; Cons. Stato, Ad. plen., 20 maggio 2013, n. 14, la quale tuttavia non decideva la questione relativa ai termini in attesa della pronuncia della CGUE su analoga questione sollevata dal Tar Bari, con ordinanza 23 marzo 2013 n. 427; CGUE, Idrodinamica Spurgo, 8 maggio 2014 nella causa C-161/13. Con riferimento all’abrogato rito super accelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., si vedano a titolo esemplificativo l’ordinanza di remissione alla CGUE del Tar Piemonte, Sez. I, 17 gennaio 2018, n. 88 e la conseguente sentenza Cooperativa Animazione Valdocco, CGUE, Sez. IV, 14 febbraio 2019, nella causa C-54/18; nonché le ordinanze di rinvio della questione di legittimità costituzionale del Tar Bari, Sez. III, 20 giugno 2018 n. 903 e 20 luglio 2018, n. 1097 e la conseguente sentenza della Corte Costituzionale, con sentenza 18 dicembre 2019, n. 271.
[5] Si vedano tra i più recenti M. Lipari, La decorrenza del termine di ricorso nel rito superspeciale di cui all’art. 120 co. 2-bis e 6-bis, del CPA: pubblicazione e comunicazione formale del provvedimento motivato, disponibilità effettiva degli atti di gara, irrilevanza della “piena conoscenza”; l’ammissione conseguente alla verifica dei requisiti, in www.giustizia-amministrativa.it; M.A. Sandulli, L'Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela, in questa Rivista, luglio 2020; S. Rosati, La disciplina nazionale sulla decorrenza del termine di impugnazione dell'aggiudicazione, tra (in)certezze legislative e orientamenti giurisprudenziali, in Ildirittoamministrativo.it, luglio 2020; M. Santini, L'Adunanza plenaria sulla decorrenza del termine per l'impugnazione degli atti di gara, in Urb. app., 2020, 509 ss.; F. Gaspari, Decorrenza del termine per ricorrere, piena conoscenza dell'atto lesivo e giusto processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2020, 389 ss.; E. Lubrano, La decorrenza del termine nel processo-appalti (dalla conoscenza della motivazione e degli atti endoprocedimentali) dopo la Adunanza plenaria n. 12/2020: un principio da estendere a tutti i settori del processo amministrativo, in Federalismi.it, 27, 2020; M. Ferrante, Il dies a quo per l'impugnazione degli atti di gara, in Giorn. dir. amm., 2021, 90 ss.; L. Bertonazzi, La decorrenza del termine per ricorrere contro l’aggiudicazione, in Dir. proc. amm., 2021, 609 ss. Nonché, proprio con riferimento alla sentenza in commento, M.A. Sandulli, Per la Corte costituzionale non c’è incertezza sui termini per ricorrere nel rito appalti: la sentenza n. 204 del 2021 e il creazionismo normativo dell’Adunanza Plenaria, in Federalismi.it, 26, 2021.
[6] Non essendo questa la sede per soffermarsi sulla dicotomia tra giurisdizione soggettiva e giurisdizione oggettiva, sia consentito rilevare come vi sia un dibattito ancora aperto non solo a livello dottrinale, ma anche tra Corte di Giustizia e Consiglio di Stato che riguarda in maniera particolare la materia dei contratti pubblici. Si richiama a tal proposito l’ampia letteratura sul tema, con particolare riferimento alla querelle tra Corte di Giustizia e Consiglio di Stato sui ricorsi incidentali c.d. escludenti e sull’interesse strumentale. A. Romano Tassone, Sui rapporti tra ordinamento europeo ed ordinamenti statali in materia di tutela processuale, in Dir. amm., 2012, 491; B. Marchetti, Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir. proc. amm., 2014, 99 ss. A. Bartolini, L’Adunanza plenaria ritorna sul ricorso incidentale escludente - una decisione poco europea, in Giornale Dir. Amm., 2014, 10, 932; L. Ferrara, L’Adunanza plenaria ritorna sul ricorso incidentale escludente - un errore di fondo?, ibidem, 918; E. Follieri, Individuazione negli interessi protetti dell'ordine di trattazione dei motivi reciprocamente escludenti, in Giur. it., 2014, 2255; Id., Due passi avanti e uno indietro nell'affermazione della giurisdizione soggettiva, in Giur. it., 2015, 2192; V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2014, 341; M. Ramajoli, Legittimazione a ricorrere e giurisdizione oggettiva, in V. Cerulli Irelli (a cura di), La giustizia amministrativa in Italia e in Germania: contributi per un confronto, Torino, 2017; M. Silvestri, Le condizioni dell'azione nel rito in materia di contratti pubblici, in Dir. Proc. Amm., 2017, 937; F. Cortese, Amministrazione e giurisdizione: poteri diversi o poteri concorrenti?, in P.A. Persona e Amministrazione, 2/2018, 99 ss G. Tropea, Il ricorso incidentale escludente: illusioni ottiche, in Dir. Proc. Amm., 4, 2019,1083; Id., Il ricorso incidentale nel processo amministrativo, Napoli, 2007.
[7] Il considerando n. 3 direttiva 89/665/CEE afferma che «l'apertura degli appalti pubblici alla concorrenza comunitaria rende necessario un aumento notevole delle garanzie di trasparenza e di non discriminazione e che occorre, affinché essa sia seguita da effetti concreti, che esistano mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che recepiscano tale diritto»
[8] Il testo tra virgolette è relativo al considerando n. 4 della direttiva 2007/66/CE.
[9] Tra i primi commenti sulla direttiva ricorsi si vedano G. Greco, La direttiva 2007/66/CE: illegittimità comunitaria, sorte del contratto ed effetti collaterali indotti, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 5, 2008, 1029; A. Bartolini, S. Fantini, La nuova direttiva ricorsi, in Urb. e app., 2008, 10, 1093, i quali sottolineano come «il perno della nuova proposta ruota intorno alla cd. clausola stand still, consistente nell'introduzione di un termine sospensivo, operante tra il momento dell'aggiudicazione e quello della stipula del contratto: in altre parole, la possibilità di stipulare il contratto viene congelata per un certo periodo di tempo decorrente dal momento dell'aggiudicazione. In tal modo viene data la possibilità, alle imprese che si ritengono lese nelle proprie situazioni soggettive, di avviare utilmente una procedura di ricorso in una fase in cui le violazioni possono essere ancora corrette. Ad assicurare detto enforcement viene introdotto un articolato sistema sanzionatorio (privazione degli effetti del contratto e sanzioni alternative), da irrogare nel caso in cui le amministrazioni e gli enti aggiudicatori procedano alla stipula del contratto nel periodo di stand still oppure all'affidamento diretto al di fuori delle ipotesi consentite dal diritto europeo dei contratti».
[10] Previsto dall’art. 2-bis della direttiva 89/665/CE, così come modificata dalla direttiva 2007/66/CE. A tal proposito, pur se la traduzione italiana parla di «termine sospensivo», sarebbe stato preferibile parlare piuttosto di termine dilatorio. Ad ogni modo, la direttiva del 2007 individua due tipologie di stand still, per la classificazione delle quali in termini di «sospensione sostanziale» e «sospensione processuale», cfr. A. Bartolini - S. Fantini, La nuova direttiva ricorsi, cit. In questa sede prenderemo in considerazione solo quella «sostanziale».
[11] cfr. considerando n. 6.
[12] Il riferimento è in particolare, tra le altre, alla sentenza Uniplex CGUE, sez. III, 28. 1. 2010 - causa C-406/08 nella quale è stato chiaramente statuito che: «il termine per proporre un ricorso diretto a far accertare la violazione della normativa in materia di aggiudicazione di appalti pubblici ovvero ad ottenere un risarcimento dei danni per la violazione di detta normativa decorra dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della violazione stessa». La CGUE ha affrontato la questione anche con riferimento al diritto italiano nel caso Idrodinamica Spurgo, sez. V, 8 maggio 2014, C-161/13.
[13] Sul tema del recepimento della direttiva 2007/66 si vedano A. Bartolini, S. Fantini e F. Figorilli, Il decreto legislativo di recepimento della direttiva ricorsi, in Urb. app., 6, 2010, 638; D. Galli, Il recepimento della direttiva ricorsi tra nuovi e vecchi problemi, in Giorn. dir. amm., 9, 2010, 893; M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”: il nuovo processo super-accelerato in materia di appalti e l’inefficacia “flessibile” del contratto, in Federalismi.it, 7, 2010; R. De Nictolis, Il recepimento della direttiva ricorsi nel codice appalti e nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it; F. D’Angelo, Il recepimento della direttiva ricorsi 2007/66/ce in Francia ed in Italia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2, 2012, 349.
[14] Il comma 5-quater statuiva che: «Fermi i divieti e differimenti dell'accesso previsti dall'articolo 13, l'accesso agli atti del procedimento in cui sono adottati i provvedimenti oggetto di comunicazione ai sensi del presente articolo è consentito entro dieci giorni dall'invio della comunicazione dei provvedimenti medesimi mediante visione ed estrazione di copia. Non occorre istanza scritta di accesso e provvedimento di ammissione, salvi i provvedimenti di esclusione o differimento dell'accesso adottati ai sensi dell'articolo 13. Le comunicazioni di cui al comma 5 indicano se ci sono atti per i quali l'accesso è vietato o differito, e indicano l'ufficio presso cui l'accesso può essere esercitato, e i relativi orari, garantendo che l'accesso sia consentito durante tutto l'orario in cui l'ufficio è aperto al pubblico o il relativo personale presta servizio».
[15] In particolare, le comunicazioni che la stazione appaltante era tenuta ad effettuare ai sensi dell’art. 79, comma 5, del d.lgs. 163/2006 erano: l’aggiudicazione definitiva, i provvedimenti di esclusione, la decisione di non aggiudicare l’appalto o concludere un accordo quadro, l’avvenuta stipulazione del contratto con l’aggiudicatario.
[16] A tal proposito F. Figorilli, Tratti peculiari del rito speciale in materia di appalti, in B. Sassani - R. Villata (a cura di), Il Codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, 1027 afferma che «all’esito dell’entrata in vigore del c. proc. amm., dette innovazioni hanno trovato una loro collocazione più puntuale nell’ambito di un quadro sistematico di regole che, nel nostro, caso danno vita ad un regime doppiamente derogatorio rispetto a quelle previste, da un lato, per il rito ordinario e, dall’altro lato, dal rito abbreviato disegnato, come detto, dall’art. 119 c. proc. amm».
[17] Si vedano a titolo esemplificativo le perplessità espresse in particolare da M. Ramajoli, Il processo in materia di pubblici appalti da rito speciale a giudizio speciale, in G. Greco, M. Antonioli (a cura di), Il sistema della giustizia amministrativa negli appalti pubblici in Europa, Milano, 2010, 127, la quale evidenziava come il legislatore si limitasse «a richiedere la mera conoscenza degli atti e non invece la piena conoscenza ai fini della decorrenza dei termini risulta in contrasto con la scelta garantista»
[18] Si veda la giurisprudenza citata nella prima parte della nota 4.
[19] Si vedano ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 28 agosto 2014, n. 4432; Sez. V, 5 febbraio 2018, n. 718; Sez. III, 3 luglio 2017, n. 3253; Sez. V, 27 aprile 2017, n. 1953; Sez. V, 23 febbraio 2017, n. 851; Sez. V, 13 febbraio 2017, n. 592; Sez. V, 10 febbraio 2015, n. 864.
[20] Si vedano ex multis, Cons. Stato, sez. III, 22 luglio 2016, n. 3308; sez. III, 3 marzo 2016, n. 1143; sez. V, 7 settembre 2015, n. 4144; sez. V, 6 maggio 2015, n. 2274; sez. III, 7 gennaio 2015, n. 25; sez. V, 13 marzo 2014, n. 1250.
[21] Oltre alle questioni indicate in questa sede, il d.lgs. 50/2016 aveva introdotto al comma 2-bis il rito c.d. super accelerato (poi abrogato dal decreto-legge n. 32/2019, convertito in legge n. 55/2019), prevedendo in capo ai partecipanti alle gare per l’affidamento di contratti pubblici l’onere di immediata impugnazione non solo dei provvedimenti di esclusione ma anche di quelli di ammissione degli altri concorrenti, precludendo, poi, in sede di impugnazione dell’aggiudicazione di proporre censure rivolte alla carenza dei requisiti di partecipazione degli altri concorrenti.
[22] La procedura di accesso informale prevista all’ prevista dall’art. 79, comma 5-quater del primo codice dei contratti non è, difatti, oggi riscontrabile né all’art. 76, omologo dell’art. 79 del primo codice, né all’art. 29, riguardante la trasparenza delle gare in generale, né all’art. 53, sull’accesso.
[23] Il rapporto tra certezza del diritto e crisi del diritto legislativo è affrontato efficacemente da F. Francario, Il diritto alla sicurezza giuridica. Note in tema di certezza giuridica e giusto processo, in Id. (a cura di), Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, Napoli, 2019, 3 ss; il quale a pag. 19 osserva come «nell’età contemporanea, caratterizzata dal fenomeno della globalizzazione e dalla profonda crisi della politica, gli spazi lasciati liberi dal legislatore tendono ad essere quasi naturalmente occupati dalla giurisdizione. L’incapacità, l’impossibilità o la rinuncia del legislatore a prevenire la soluzione dei conflitti tra interessi fa sì che la definizione dei medesimi sia sempre più spesso demandata ad un giudice che tende così a diventare nomoteta. […] E’ quanto sta avvenendo anche nel nostro Ordinamento, che, al fine di garantire il rispetto del principio della certezza del diritto, tende a rendere vincolante l’efficacia del precedente giudiziale attraverso una ibridazione della regola dello stare decisis con quella della nomofilachia. Il problema che rimane tuttavia aperto è che, in mancanza di un insieme di regole previamente ordinate in un sistema logicamente coerente, l’intelligenza del giudice rimane incontrollabile ed esposta all’arbitrio (e diventa così solo fonte di ulteriore incertezza) se rimane libera di creare essa stessa le regole che è tenuta ad applicare al caso concreto».
[24] Cons. Stato, Sez. V, 10 giugno 2019, n. 3879; Sez. V, 27 novembre 2018, n. 6725; Sez. V, 20 settembre 2019, n. 6251; Sez. V, 2 settembre 2019, n. 6064; Sez. V, 13 agosto 2019, n. 5717, Sez. III, 6 marzo 2019, n. 1540; Sez. III, 6 marzo 2019, n. 1540.
[25] Cons. Stato, Sez. V, 28 ottobre 2019, n. 7384; Sez. IV, 23 febbraio 2015, n. 856; Sez. V, 20 gennaio 2015, n. 143.
[26] Cons. Stato, Sez. V, 2 aprile 2020, ord. n. 2215, la quale, peraltro, non ha dato atto della pendenza della questione costituzionale sulla medesime norma oggetto di remissione alla Plenaria.
[27] cfr. l’ultimo periodo del punto 4.1.
[28] Il riferimento è ai punti 24 e 25 dell’Adunanza Plenaria n. 12/2020.
[29] Sulla “creatività” della Plenaria si veda in particolare L. Bertonazzi, cit., il quale afferma che «l’Adunanza plenaria ha vistosamente travalicato il confine tra interpretazione e produzione del diritto, essendo pervenuta a fissare un precetto generale e astratto che, nel vigente assetto costituzionale, solo il legislatore ha titolo per porre, se del caso a seguito di una sentenza additiva di principio della Corte costituzionale». Di tale avviso è anche M. A. Sandulli, Per la Corte costituzionale non c’è incertezza sui termini, cit. la quale affronta in maniera assolutamente critica il creazionismo giurisprudenziale riproposto anche dalle recentissime Adunanze plenarie, nn. 17 e 18/2021 in tema di concessioni balneari.
[30] Nel secondo periodo del punto 27 della motivazione in diritto della Adunanza plenaria n.12/2020, difatti, si afferma che l’individuazione della «data oggettivamente riscontrabile» continua a dipendere «dal rispetto delle disposizioni sulle formalità inerenti alla ‘informazione’ e alla ‘pubblicazione’ degli atti, nonché dalle iniziative dell’impresa che effettui l’accesso informale con una ‘richiesta scritta’, per la quale sussiste il termine di quindici giorni previsto dall’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’, applicabile per identità di ratio anche all’accesso informale». Dalla formulazione non è chiaro se il termine di 15 giorni sia da riferire alla richiesta scritta dell’operatore economico, considerando che nell’art. 79 del primo codice dei contratti il termine di 10 giorni era imposto a quest’ultimo. Ovvero se debba riferirsi al termine per il rilascio della documentazione da parte della stazione appaltante, considerando che l’art. 76, comma 2, impone tale termine all’amministrazione per fornire la motivazione della sua scelta.
[31] cfr. punto 4.2.
[32] A questo proposito si condividono pienamente le considerazioni di M.A. Sandulli, op. ult. cit., secondo la quale «la Corte avrebbe dovuto forse farsi carico di verificare se tale strada era (anche) consentita dalla legge, perché, in caso contrario, nessuna “proposta interpretativa” è davvero tale e può quindi dirsi “costituzionalmente conforme” e, nel caso in cui si riferisce alle regole processuali, lede anche il diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost.».
[33] L’art. 58 dispone testualmente che: «Quando dall'esame degli affari discussi dal Consiglio risulti che la legislazione vigente è in qualche parte oscura, imperfetta od incompleta, il Consiglio ne fa rapporto al Capo del Governo».
[34] cfr. punto 21 dell’Adunanza Plenaria n. 12/2020.
[35] Molteplici sono infatti gli ostacoli che da diversi anni il legislatore frappone per deflazionare di fatto il contenzioso in materia di appalti pubblici. A tal proposito si veda l’elencazione esemplificativa che offre in questa rivista M.A. Sandulli, L'Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela, cit.
[36] Tale disposizione, a seguito delle modifiche del 2010 e in applicazione della diretta 2007/66, al comma 5-bis prevedeva che la comunicazione di aggiudicazione fosse «accompagnata dal provvedimento e dalla relativa motivazione contenente almeno gli elementi di cui al comma 2, lettera c), […] l’onere può essere assolto nei casi di cui al comma 5, lettere a), b) e b-bis) mediante l’invio dei verbali di gara e, nel caso di cui al comma 5, lettera b-ter), mediante richiamo alla motivazione relativa al provvedimento di aggiudicazione definitiva, se già inviata».
[37] Nella parte finale del punto 30 della motivazione in diritto dell’Adunanza Plenaria si può leggere che i principi dalla stessa enunciati sarebbero conformi con le esigenze di celerità dei procedimenti di aggiudicazione «fermi restando gli obblighi di diligenza ricadenti sulle imprese, di consultare il ‘profilo del committente’ ai sensi dell’art. 29, comma 1, ultima parte, dello stesso codice e di attivarsi per l’accesso informale, ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 184 del 2006, da considerare quale ‘normativa di chiusura’ anche quando si tratti di documenti per i quali l’art. 29 citato non prevede la pubblicazione (offerte dei concorrenti, giustificazioni delle offerte)».
[38] Vedi a questo proposito quanto già detto a pagina 10 e alla nota 30.
[39] L’articolo 5 del Regolamento sull’accesso ai documenti amministrativi dispone che: «Qualora in base alla natura del documento richiesto non risulti l'esistenza di controinteressati il diritto di accesso può essere esercitato in via informale mediante richiesta, anche verbale, all'ufficio dell'amministrazione competente a formare l'atto conclusivo del procedimento o a detenerlo stabilmente./2. Il richiedente deve indicare gli estremi del documento oggetto della richiesta ovvero gli elementi che ne consentano l'individuazione, specificare e, ove occorra, comprovare l'interesse connesso all'oggetto della richiesta, dimostrare la propria identità e, ove occorra, i propri poteri di rappresentanza del soggetto interessato. /3. La richiesta, esaminata immediatamente e senza formalità, è accolta mediante indicazione della pubblicazione contenente le notizie, esibizione del documento, estrazione di copie, ovvero altra modalità idonea./4. La richiesta, ove provenga da una pubblica amministrazione, è presentata dal titolare dell'ufficio interessato o dal responsabile del procedimento amministrativo ed è trattata ai sensi dell'articolo 22, comma 5, della legge./5. La richiesta di accesso può essere presentata anche per il tramite degli Uffici relazioni con il pubblico./6. La pubblica amministrazione, qualora in base al contenuto del documento richiesto riscontri l'esistenza di controinteressati, invita l'interessato a presentare richiesta formale di accesso».
[40] E come evidenziato anche da L. Bertonazzi, cit.
[41] Si rimanda sul punto alla nota 8.
[42] Si rammenta, infatti, che «deve infatti essere mantenuta salda la distinzione tra attuazione dei valori costituzionali, riservata al legislatore, che è l’unico titolare del potere di bilanciamento degli interessi della società, in nome dell’investitura popolare, e l’applicazione dei valori costituzionali, affidata invece ai giudici» M. Ramajoli, cit., 3.
[43] In maniera simile alla previsione dell’art. 29 nella vigenza del rito superaccelerato ovvero a quanto disposto in relazione alle esclusioni ed ammissioni da comma 2-bis dell’art. 76.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 12) Il ponte di Piero Calamandrei (una storia fiorentina)
di Giuliano Scarselli
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Sommario: 1. La distruzione dei ponti fiorentini ad opera dei nazisti nella notte tra il 3 e il 4 agosto del 1944 e il ponte di Santa Trinita a Firenze - 2. Piero Calamandrei non era a Firenze quella notte, vi rientrerà il 28 agosto 1944 - 3. L’idea di una nuova rivista per la ricostruzione morale del paese - 4. L’idea di chiamare quella rivista Il Ponte - 5. Il dovere morale di ricongiungere la libertà individuale con la giustizia sociale attraverso la politica, l’economia, l’arte e la letteratura - 6. La ricostruzione del Ponte di Santa Trinita come era e dove era - 7. Una curiosità e gli auguri per le prossime feste.
1. La distruzione dei ponti fiorentini ad opera dei nazisti nella notte tra il 3 e il 4 agosto del 1944 e il ponte di Santa Trinita a Firenze
La notte tra il 3 e il 4 agosto del 1944 i tedeschi in fuga, per ritardare il sopraggiungere delle forze alleate e dei partigiani, fecero saltare tutti i ponti di Firenze.
Evitarono solo il bombardamento del Ponte Vecchio, ma egualmente distrussero tutte le vie adiacenti a quel ponte: Via Por Santa Maria, Via dei Bardi, Via Guicciardini, Borgo San Jacopo, “e le più antiche e care torri della Firenze di Dante”[1].
Cadeva, così, con le bombe naziste, il Ponte di Santa Trinita, tra Via Tornabuoni e Piazza Frescobaldi.
Su ordine di Cosimo I dei Medici, il Ponte di Santa Trinita veniva costruito da Bartolomeo Ammannati tra il 1567 e il 1571, su un disegno di Michelangelo.
Veniva costruito in pietra forte, di colore bruno giallogno, con una moderna linea a tre arcate, che Michelangelo aveva già avuto modo di mettere in pratica nelle tombe delle Cappelle medicee e nella scalinata del vestibolo della Biblioteca Laurenziana; una curva che costituiva da una parte una innovazione estetica, in grado di anticipare la successiva moda del barocco, e dall’altra una notevole resistenza statica, visto che in passato quel ponte, sotto la forza del fiume, era già più volte crollato: nel 1259, sotto il peso della folla che assisteva ad uno spettacolo sull’Arno, nel 1333 sotto la spinta di una grande piena, e ancora nel 1557, sempre a causa di una alluvione.
Il Ponte di Santa Trinita doveva poi la sua eleganza anche ai piloni di sostegno, e soprattutto alle quattro statue allegoriche aggiunte nei quattro angoli, che raffigurano le quattro stagioni, collocate sul ponte nel 1608, in occasione delle nozze tra Cosimo II dei Medici e Maria Maddalena d’Austria: un gioiello fiorentino.
Quella notte, fu una notte terribile per i fiorentini e la città.
Gli abitanti delle strade interessate dai bombardamenti furono avvertiti nelle 24 ore precedenti, e furono messi al riparo nel vicino Palazzo Pitti, già residenza dei Granduchi e del Re Vittorio Emanuele II.
Gli altri, terrorizzati e disperati, rimasero chiusi nelle loro case.
Tra questi, sia consentito il ricorso, mia madre, che abitava non lontano da ponte vecchio, e che era, nel ’44, una ragazzina di diciotto anni.
Fa parte delle immagini che ancora oggi io ho di lei, la sua narrazione di quella notte, fatta di rumori assordanti, di una paura fortissima e indescrivibile, e di una rabbia profonda, una rabbia vissuta come indelebile; la rabbia di una vecchia fiorentina, la quale, come tutti i vecchi fiorentini, considerava una ferita fatta a sé, una ferita fatta alla città.
2. Piero Calamandrei non era a Firenze quella notte, vi rientrerà il 28 agosto 1944
Quella notte, Piero Calamandrei non era a Firenze.
Il 12 settembre 1943 i tedeschi avevano requisito la sua casa del Poveromo, in Versilia, e Piero Calamandrei decideva allora, con la moglie Ada, di spostarsi a Treggiaia, un piccolo paese nella provincia di Pisa, esclusa l’idea di vivere a Firenze in un momento così drammatico e tumultuoso.
Successivamente, e precisamente il 17 ottobre 1943, Piero e Ada si spostavano di nuovo, e si trasferivano a Collicello, in Umbria, e rimanevano lì nove mesi, sino a luglio del 1944.
Successivamente, per raggiungere il figlio Franco, che nel frattempo, e in gran segreto, si era sposato a Roma il 13 giugno “con una fanciulla che si chiama Maria Teresa” (così nel diario del 1 luglio 1944)[2], Piero Calamandrei, sempre insieme alla moglie, raggiungeva Roma; ciò avveniva l’8 luglio 1944, e la permanenza romana si sarebbe protratta per quasi due mesi.
Quella notte, quindi, Piero Calamandrei si trovava a Roma.
Nel diario, al 3 agosto 1944, Piero Calamandrei niente annotava su Firenze; al 4 agosto scriveva: “Notizia che gli alleati sono nei sobborghi di Firenze”; al 5 agosto scriveva di aver avuto, in mattinata, un colloquio con il monsignor Barbieri del Laterano, e poi: “Gli alleati hanno occupato la parte sud di Firenze fino all’Arno. Saltati i ponti, compreso quello di Santa Trinita! Il ponte vecchio ostruito……..Crollato il palazzo Guicciardini per ostruire l’accesso al ponte vecchio…….Tutta la notte, nel dormiveglia, ho pensato a Firenze”; il 6 agosto di nuovo scriveva: “Sono andato a trovare Orlando a Montecitorio”.
Indiscutibilmente, dunque, in quei giorni, Piero Calamandrei si trovava a Roma, e Firenze era solo qualcosa che turbava i suoi sogni.
L’11 agosto iniziava la Battaglia di Firenze per la sua liberazione.
Piero Calamandrei scriveva nel suo Diario fatti relativi ai rischi di scissione del partito d’azione (“Colloqui con La Malfa per evitare la scissione del Partito d’azione”), e solo il 12 agosto annotava: “Notizie che vi sarebbe in città (Firenze) una vera e propria guerra civile tra fascisti e patrioti”; per poi aggiungere: “Ieri sera pareva che l’ing. Cidonio ci portasse oggi in auto ad Amelia (paese tra Umbria e Lazio): all’ultimo momento dice che la macchina si è guastata”.
Le ragioni di quel viaggio si scoprono in una lettera dell’agosto ’44, che Piero Calamandrei inviava a Egidia e Ciro Polidori: “Due giorni fa un tale mi aveva fatto sperare di portarci ad Amelia (quindi la lettera dovrebbe essere, esattamente, del 13 agosto 1944), così vi avremmo visto. A Firenze non credo che ci si potrà andare in auto altro che dopo due o tre settimane dopo la liberazione completa”[3].
Nel Diario, il 18 agosto annotava; “che a Firenze nella parte nord sono rientrati i tedeschi con carri armati uccidendo e facendo prigionieri molti patrioti. Intanto ricorro a Ruffini per avere il permesso di andare a Firenze dal colonnello Schmtt del Comitato di Controllo; mi risponde che in questo momento è assolutamente impossibile. Nel pomeriggio vado al Risorgimento Liberale a conferire con il giornalista Bruno Romani, tornato a Firenze il 13. Fa una descrizione terrificante di Firenze”.
Piero Calamandrei era dunque in pena per non poter raggiungere la sua città: “Vi era stata una manovra per avere sindaco il Corsini. Se avesse saputo il mio desiderio di andare a Firenze mi ci avrebbe portato”.
Poi il 21 agosto: “Sono avvilitissimo per l’impossibilità di trovare un mezzo per fuggire da Roma”; e il 22 agosto ricordava il dramma del ponte di Santa Trinita scrivendo: “Parla Scarfoglio, il tedescofilo, rimpiangendo la caduta del ponte Santa Trinita; dice: Quando lo vidi l’ultima volta, mi venne la voglia di inginocchiarmi lì sul ponte, per pregare Iddio che lo risparmiasse”.
Si arrivava al 26 agosto: “Pare che mi sia stato dato il permesso di tornare a Firenze colla macchina che ha portato Codignola: partenza domani”.
Sarebbe partito per Firenze, invece, il 28 agosto, a mezzogiorno.
Scriveva: “Viaggio Roma – Firenze. Viterbo rasa al suolo; Bolsena Radicofani: un autobus di Roma in cima. Carri armati rovesciati. Nei casolari deserti e crollati si vedono le macchine che trebbiano il grano”.
E poi infine, il 31 agosto, annotava: “Si torna dal Ponte S. Trinita: difficoltà a portar la bicicletta sulla passarella”.
3. L’idea di una nuova rivista per la ricostruzione morale del paese
La rivista Il Ponte, rivista di politica, economia e cultura, così recitava il sottotitolo, fu il frutto di una idea che a Piero Calamandrei venne dopo che la città fu liberata dei nazisti.
La ragione della nascita della rivista era quella di risalire dall’abisso nel quale il fascismo e il nazismo avevano fatto cadere l’uomo.
Il forte desiderio della creazione di questa nuova rivista Piero Calamandrei lo aveva infatti manifestato in più di una lettera dopo il suo rientro a Firenze.
Solo a titolo di esempio ricordo qui quanto scriveva a Pietro Pancrazi il 16 dicembre 1944: “La rivista bisogna farla a tutti i costi…….un nome che potrebbe andar bene: Il Ponte; bisogna infonderci dentro questa po’ di disperata vitalità che ancora ci rimane”; sempre a Pietro Pancrazi, 18 dicembre 1944: “Il Ponte, se ti piacesse, potrebbe significare non solo la continuità tra il passato e l’avvenire, non solo ricostruzione sul vuoto per passar di là, ma anche passaggio dalla regione all’Italia e all’Europa”.
Alla fine, Piero Calamandrei riusciva a realizzare il suo sogno; la rivista, infatti, vedeva la luce con il suo primo numero nell’aprile del 1945.
Piero Calamandrei, di nuovo, spiegava le ragioni e le ambizioni della nuova rivista nell’editoriale: “Il fascismo e il nazismo, con tutti i loro orrori, sono stati la espressione mostruosa dello spengersi nelle coscienze della fede dell’uomo……..e la sconfitta militare delle forze fasciste non è la conclusione, ma la premessa per la costruzione di una società libera”.
Su questa premessa, dunque, Piero Calamandrei: “invitava a collaborare al PONTE tutti coloro che sentono, come noi sentiamo, che la sorte del mondo dipende da questa ricostruzione morale. La nostra non sarà una rivista di partito o di scuola; ma in tutti gli articoli che vi saranno pubblicati, qualunque ne sia l’argomento, politico o economico, storico o giuridico, filosofico o letterario, il PONTE cercherà la presenza vivificatrice di questo interesse morale”.
E aggiungeva che ciò costituiva tributo doveroso di ognuno: “a migliaia di uomini coerenti che hanno testimoniato la verità delle loro idee coll’esser pronti a morire per esse, ed hanno rivendicato il valore della vita coll’esser pronti a sacrificarla”.
E poi un’immagine: “Chi si metta in cammino per le devastate campagne toscane incontra ad ogni passaggio di fiume o di torrente squadre di operai che lavorano a ricostruire arcate distrutte………..invitiamo gli amici che provano questo stesso angoscioso bisogno di sentirsi operai del lavoro che ricomincia, a portarci la loro pietra”.
4. L’idea di chiamare quella rivista Il Ponte
Parimenti, Piero Calamandrei, nell’editoriale di quel primo numero, spiegava altresì le ragioni per le quali la rivista prendeva il nome de Il Ponte.
Norberto Bobbio sosteneva che l’idea del ponte veniva a Piero Calamandrei “dalla pena per i ponti di Firenze distrutti dai tedeschi in fuga”[4].
Ciò è senz’altro vero, poiché rientrato a Firenze dopo la liberazione, e preso atto con sgomento e dolore della situazione nella quale la città si trovava, di cui la distruzione dei ponti ne era un momento centrale, Piero Calamandrei certamente immaginava che Il Ponte fosse il simbolo tra passato e futuro, tra distruzione e ricostruzione; e certamente il ponte di Santa Trinita, il principale ponte fiorentino distrutto dai tedeschi, costituiva la prima, e direi la fondamentale, immagine di quel costrutto.
Lo confessa lo stesso Piero Calamandrei riferendosi al ponte Santa Trinita: “Non posso dimenticare la prima visione di quella rovina, come mi apparve la mattina del 29 agosto, appena potei rientrare a Firenze”[5].
E in più di un momento, infatti, Piero Calamandrei manifestava preoccupazione per il ponte di Santa Trinita.
A Egidia e Ciro Polidori, il 13 agosto 1944 scriveva: “Il nostro ponte S. Trinita è ridotto ai tronconi dei pilastri”.
In uno scambio epistolare con Gaetano Salvemini egli poi si preoccupava soprattutto per la sua ricostruzione.
In una lettera del 9 novembre 1944: “Ho comunicato a Pieraccini (Gaetano Pieraccini, 1864 – 1957, il nuovo sindaco di Firenze, nominato dal Comitato toscano di liberazione nazionale) quanto mi domandi sui ponti straziati. E’ difficile dare una risposta, non dico precisa, ma anche approssimativa. Ai prezzi di oggi la ricostruzione del ponte S. Trinita potrebbe richiedere (dicono i tecnici) circa sessanta milioni”. E nella lettera del 2 febbraio 1945: “Spero che a quest’ora avrai ricevuto la risposta affermativa alla generosa proposta concernente la ricostruzione del ponte S. Trinita. Pieraccini, consultato l’ufficio tecnico, mi dice che è difficilissimo, quasi impossibile, calcolare ora con qualche esattezza ciò che la ricostruzione potrà costare; ma tutti sono convinti che un milione di dollari sarà sufficiente, forse più che sufficiente. Grazie, dunque, per Firenze, naturalmente alla cosa per ora non è stata data alcuna pubblicità”. E ancora, rivolgendosi alle università brasiliane quale rettore dell’Università di Firenze, il 20 maggio 1945 comunicava loro che: “La bestiale furia tedesca ha fatto saltare i ponti, che erano miracoli di leggiadria”, ma “Il ponte a Santa Trinita lo rifaremo”[6].
Da tutto questo, dunque, il nome da dare alla rivista: “Il nostro programma è già tutto nel titolo e nell’emblema della copertina; un ponte crollato, e tra i due tronconi delle pile rimaste in piedi una trave lanciata attraverso, per permettere agli uomini che vanno al lavoro di ricominciare a passare”.
Infine, accanto al dolore, anche la gioia di una vita nuova che si schiudeva, la speranza di un futuro che doveva essere luminoso.
Piero Calamandrei, nell’ultima annotazione del suo Diario, che porta la data del Maggio 1945, così infatti descriveva questi sentimenti: “Lo scampanio mi coglie in piazza del Duomo: la gente si ferma, ascolta un istante il campanone, e poi capisce. Tutti capiscono e si mettono a correre, ridendo, gesticolando. Anche il sole al tramonto, razzando dalle aperture delle strade, si mescola alla festa. Caro signor colonello Fuch, i ponti li avete fatti saltare, ma l’oro di queste sere, che in maggio non si trova che qui, non siete riuscito a rubarlo. M’avvio anch’io trascinato dal fiume di gente che ingrossa da tutte le porte. Dunque è finita: siamo arrivati, vivi, alla pace. LA PACE. Arrivo dove la gente sembra più in tripudio: dalle finestre bei ragazzoni ridenti salutano colle mani i dimostranti, e per ringraziarli lanciano qualcosa su di loro. In via del Proconsolo, tutti son fermi a capo all’insù, a guardare la Martinella che suona dalla torre del Bargello. Dalla soglia di una botteguccia un vecchio, in gabbanella da artigiano, guarda anche lui verso la torre, e commenta: “Ma chi ce li rende questi trenta anni?”
5. Il dovere morale di ricongiungere la libertà individuale con la giustizia sociale attraverso la politica, l’economia, l’arte e la letteratura
Il compito assegnato a Il Ponte da Piero Calamandrei credo debba riassumersi in due momenti: a) ricostruzione morale del paese; b) ricongiungimento delle libertà individuali alla giustizia sociale.
Questo obiettivo andava perseguito con gli strumenti della cultura; e la cultura, nello spirito della rivista, andava oltre la politica e il diritto, e doveva necessariamente investire anche l’economia, l’arte, la letteratura.
Dal 1946, infatti, la rivista divenne di “politica e letteratura”, secondo quegli intenti che Piero Calamandrei aveva non a caso annunciato a Piero Pancrazi anni prima anche nelle lettere sopra richiamate.
La letteratura, infatti, dopo il diritto e la politica, costituiva l’altro grande amore di Piero Calamandrei, e con la rivista Il Ponte egli meglio poteva così soddisfare e concretizzare questa sua passione, e dare alla letteratura quella funzione che, a suo parere, essa doveva avere.
Nella lettera del 5 dicembre 1945 ancora Piero Calamandrei scriveva a Piero Pancrazi che: “La letteratura deve riacquistare la dignità di un lavoro fatto sul serio, di una sofferenza dentro l’umanità, non di un sollazzo ozioso alla barba dell’umanità che soffre”.
Letteratura al servizio della politica (e politica intesa nel suo più alto significato), rivolta a quella borghesia fiorentina prima, e italiana poi, che, sensibile ad un rinnovamento morale e civile dell’Italia, era più di cultura umanistica che scientifica.
In fondo, Piero Calamandrei, nel pensare alla rivista, pensava a sé stesso, alla sua formazione, ai suoi piaceri dello spirito, alle sue esigenze di uomo di politica e di cultura; e non poteva essere altrimenti[7].
La rivista Il Ponte, in questi termini, quanto meno al suo sorgere, e per tutto il periodo in cui Piero Calamandrei ne fu il direttore, rappresentava un po’ la sua anima, e riuniva le persone che gli erano vicine nel Partito d’azione, al fine di divulgare quelle idee di libertà individuale e di giustizia sociale alle quali tanto Piero Calamandrei teneva.
Ancora nel primo editoriale egli diceva infatti di essere: “alla ricerca di archi politici che aiutino la libertà individuale a ricongiungersi con la giustizia sociale”.
Nella rivista, così, volle al suo interno Alberto Bertolino, un economista, poiché Piero Calamandrei aveva ben presente l’importanza dell’economia per una società più retta ed equa sotto il profilo sociale, e volle ovviamente a sé, oltre a Pietro Pancrazi, Vittorio Branca, Enzo Enriques Agnoletti e Corrado Tumiati per le sue battaglie sulle libertà e la letteratura.
Piero Calamandrei condurrà queste battaglie con la rivista fino alla sua morte, avvenuta nel 1956.
Dal 1957, e per successivi trent’anni fino al 1986, la rivista sarà poi diretta da Enzo Enriques Agnoletti, che la porterà avanti nel segno della continuità (seppur spostandola, a mio sommesso parere, un po’ a sinistra).
6. La ricostruzione del Ponte di Santa Trinita come era e dove era
Su idea di un antiquario fiorentino, Luigi Bellini, già nel 1948 fu creato a Firenze il comitato “Come era e dove era”.
Il comitato voleva la ricostruzione del ponte di Santa Trinita eguale a come Bartolomeo Ammannati lo aveva edificato, ed esattamente nello stesso punto e con le stesse caratteristiche, eguale financo nei minimi particolari.
Il comitato “Come era e dove era” avrebbe altresì svolto un ruolo economico poiché, a quelle condizioni, era disponibile ad aggiungere fondi privati a quelli previsti dallo stanziamento ministeriale per la ricostruzione del ponte.
In questo contesto, il Comitato Toscano di liberazione nazionale incaricava l’architetto Riccardo Gizdulich di dirigere le operazioni di recupero dei frammenti del ponte, un’attività che avrebbe impegnato tecnici e volontari per più di un anno; e parimenti l’amministrazione comunale affidava ad un ingegnere, Emilio Brizzi, lo studio della ricostruzione del ponte.
Un primo progetto di ricostruzione veniva redatto da Riccardo Gizdulich e da Piero Melucci tra il 1947 e il 1949; un ulteriore progetto veniva realizzato da Emilio Brizzi nel 1949.
Nel 1950 entrambi i progetti venivano però respinti dal Consiglio superiore dei lavori pubblici.
Si discuteva, soprattutto, sull’esigenza di utilizzare o meno il cemento armato per adattare il ponte alle necessità del traffico moderno; polemiche di rilievo addirittura internazionale, visto che nella discussione interveniva anche Andrè Chastel, con un articolo apparso su Le Monde nel 1951.
Nel febbraio del 1952 l’appalto veniva affidato alla ditta Fratelli Ragazzi di Milano, ma lo stesso veniva bloccato dopo qualche mese dal comitato “Come era e dove era”, che minacciava di ritirare i fondi raccolti se i lavori si fossero realizzati con l’uso del cemento armato.
Si arrivava, così, al giugno del 1952, quando il Comune di Firenze affidava definitivamente l’incarico della ricostruzione del ponte a Emilio Brizzi per gli aspetti strutturali e a Riccardo Gizdulich per quelli estetici e formali.
Il ponte di Santa Trinita doveva di nuovo essere quello di Bartolomeo Ammannati.
Il nuovo progetto veniva ultimato nel gennaio del 1954 e il 21 aprile del 1955 si apriva il cantiere.
I lavori duravano 3 anni, ovvero fino a gennaio 1958, e terminavano con la ricollocazione, dove erano e come erano, delle quattro statue tardo-cinquecentesche delle Stagioni, che, seppur danneggiate dalle esplosioni, si era riusciti a ricomporle interamente.
Il 16 marzo 1958 si teneva l’inaugurazione ufficiale del ponte di Santa Trinita,
Quello stesso giorno nel cinema Odeon, posto dietro Piazza del Duomo, veniva proiettato il film della ricostruzione del ponte, con il commento dello stesso architetto Riccardo Gizdulich.
Una festa per i fiorentini, alla quale, però, Piero Calamandrei non potè partecipare.
La sua vita, infatti, si fermava il 27 settembre 1956, a seguito di alcune complicazioni per un intervento chirurgico.
E pensare che solo due anni prima della sua morte, ovvero nel 1954, Piero Calamandrei aveva scritto ancora sul Ponte Santa Trinita[8]: “Dicevano che fosse il ponte più bello del mondo, certo è che a ripensarlo oggi com’era, a rivederne oggi la riproduzione su qualche vecchia stampa, ci accorgiamo che quei tre archi erano in realtà un’arcata sola. La flessuosa lievità di una linea unica; ma quale potenza di solidità statica. Gli altri ponti bastò minarli ai piloni, il ponte di Santa Trinità no, alla prima esplosione, scrollò appena le spalle, e restò in piedi. Allora quei manigoldi dovettero ricominciare da capo, lavorarono alla disperata tutta la notte ad avviluppare in una gabbia esplosiva l’intera arcata, e solo così, vicina all’alba, riuscirono a farlo saltare.
Il ponte di Santa Trinita umanizzato: “Questo affannarsi notturno di ombre spietate contro il ponte che resisteva, somiglia ad una scena di tortura: anche il più bel ponte del mondo, colpevole di aver resistito, fu condannato a perire di morte lenta, sotto i supplizi dei torturatori tedeschi”.
7. Una curiosità e gli auguri per le prossime feste
Un’ultima curiosità.
Al centro del ponte, sui due lati dello stesso, uno che guarda ed est, verso ponte vecchio, e l’altro che guarda ad ovest, verso le Cascine, sono state poste, sotto le spallette del ponte, le sculture di due teste di caprette.
A sporgersi, le due caprette si notano, ma impossibile sarebbe rilevare che le due caprette non sono affatto dello stesso umore, perché una è sorridente e l’altra è imbronciata; i loro musi sono infatti rivolti completamente verso l’acqua e gli unici che possono incrociare il loro sguardo sono i canottieri e i renaioli che attraversano l’Arno.
La capretta imbronciata è quella rivolta verso ponte vecchio, che sembra preoccupata a guardare l’arrivo del fiume, che con le sue piene ha creato in tanti momenti danni alla città e ai fiorentini; e l’altra capretta sorridente è invece quella che guarda a valle, sollevata e confortata dal fatto che ormai il fiume è invece passato senza fare danni.
Ebbene, è con questa immagine di speranza e serenità che credo la rivista Giustizia Insieme voglia fare gli auguri a tutti i suoi lettori per le prossime feste; auguri ai quali, ovviamente, mi permetto di aggiungere i miei personali.
[1] Così espressamente CALAMANDREI, Uomini e città della resistenza, Laterza, 2006, 136.
[2] Diario, 1933 – 1945, La nuova Italia editrice, Firenze, 1982, II.
[3] Lettere, 1915 – 1958, La nuova Italia editrice, Firenze, 1968, II.
[4] Il ponte, di aprile 1975, n. 4.
[5] CALAMANDREI, Uomini e città della resistenza, cit., 194.
[6] CALAMANDREI, Uomini e città della resistenza, cit., 143.
[7] Così l’attuale direttore de Il Ponte, MARCELLO ROSSI, Il ponte di Piero Calamandrei, in Processo e democrazia, Pisa, 2019, 158.
[8] Il Ponte del settembre 1954; Vedilo anche in CALAMANDREI, Uomini e città della resistenza, cit., 192 e ss.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 3) Migranti, ponti e muri dalla Polonia al continente latino-americano
di Tania Groppi
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Foto in copertina di Valentina Carlino
“Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”.
Le parole di Papa Francesco, pronunciate ormai diversi anni fa, nel maggio del 2016, nel ricevere il premio Carlo Magno, risuonano immediatamente di fronte ai muri che i governi innalzano, o desiderano innalzare, alle frontiere dell’Europa. Muri che, peraltro, si limitano a materializzazione quei confini “naturali” che, nel Mediterraneo, gli Stati proteggono, senza bisogno di costruire barriere, dalle fragili imbarcazioni dei migranti, con le loro navi da guerra o con l’intervento, pagato a caro prezzo, di utili paesi “amici”.
La dinamica è la stessa, ed è basata su distanze e divisioni. Da un lato, popoli in fuga: dalla miseria, dai raccolti perduti, dall’ingiustizia e dalla corruzione, a volte dalla repressione, persone che cercano una vita migliore, inseguono una speranza. In mezzo, trafficanti di esseri umani, o dittatori spietati, che li sfruttano e li strumentalizzano, per profitto economico o a scopi politici. Dall’altro lato, popoli impauriti: che mirano a difendere un benessere e una pace che considerano meritati, costruiti col sudore di intere generazioni, da godere per sé e i propri figli, senza doverli spartire con estranei, con i “lontani”. A questa spinta, involutiva ed egoistica, non è estranea la stessa Unione europea, che, essendo una proiezione degli Stati membri e continuando ad operare attraverso procedure che dipendono dalla volontà di questi, difficilmente potrebbe avere un diverso atteggiamento.
Ecco qua una miscela esplosiva, che da molti anni è sotto i nostri occhi, senza che si trovi soluzione. In Europa, in Nordamerica, e di recente anche in America latina, specie sotto la spinta delle vicende del Venezuela e di Haiti. Una miscela che svela le drammatiche carenze e contraddizioni della democrazia costituzionale che si è cercato di creare nel Secondo dopoguerra, come forma di Stato di carattere inclusivo, volta a dar voce, a livello nazionale e sullo scenario internazionale, a tutti gli esseri umani, anche a quelli considerati per secoli come privi di ogni valore e dignità, quali i lavoratori, le donne, i disabili, i bambini, i nativi e poi, via via, minoranze di ogni tipo.
La credibilità delle nostre democrazie si scontra, come un macigno, con i diritti di questi popoli in cammino. E con essa quella dell’ordinamento internazionale basato sulle Nazioni Unite, e dell’ordinamento europeo. Lo scontro, sempre visibile per chi vuole vedere, in ogni naufragio, in ogni assideramento, in ogni centro di detenzione di migranti, in ogni separazione familiare, diventa clamoroso quando coloro che vengono lasciati affogare, morire di freddo, suicidarsi in detenzione, coloro che vengono strappati alle loro famiglie e ai loro affetti, sono proprio quelli che, a parole, si vorrebbero difendere in quanto fedeli alleati dell’Occidente o adepti dei suoi valori: profughi afghani, bambini siriani, donne kurde o somale (già, ma chi si ricorda ancora della Somalia?).
È evidente che l’unica soluzione possibile, almeno alla luce dei principi che ispirano la democrazia costituzionale, è quella dell’accoglienza. È evidente che l’unico modo per superare questa tormentosa contraddizione, svuotando al tempo stesso il potere di ricatto degli intermediari dei traffici di vite umane, sarebbe un capovolgimento totale di prospettiva. Un capovolgimento che partendo dal valore infinito di ogni singola vita umana, spingesse gli Stati e le organizzazioni internazionali ad andare a cercare ogni singolo migrante in difficoltà, in mare o in terra, con scialuppe o autobus, e accoglierlo con bevande calde e abiti puliti, anzi, lavandogli i piedi stanchi, per avviarlo poi a un percorso di realizzazione umana.
Purtroppo, è anche evidente che il tempo di una simile “metanoia” non è giunto, e che la sovranità degli Stati - un ultimo lembo di sovranità, quando oramai è del tutto svanita riguardo alle altre grandezze, e finanza ed economia corrono su ben diversi binari - continua ad esercitarsi sul territorio impedendovi, in modo selettivo, l’accesso alle persone.
Che fare nel frattempo? Come continuare a gettare ponti, ponti che sollecitino soprattutto un cambiamento culturale all’interno delle nostre società, senza di che qualsiasi altra iniziativa, specialmente sul piano normativo, sarà vana? Penso che chiunque creda nella dignità di ogni persona umana abbia, ogni giorno, nella concretezza della vita e degli incontri, molteplici opportunità per contribuire a diffondere una cultura dell’accoglienza.
Vorrei cogliere l’opportunità di questo spazio per condividere due iniziative di cui ho fatto esperienza in questi mesi, iniziative accademiche, che lasciano sempre aperto l’interrogativo sulla effettiva capacità di seminare. Ma tant’è.
La drammatica situazione dei migranti al confine tra Polonia e Bielorussia, ha spinto, il 18 novembre 2021, un gruppo di 77 professoresse e ricercatrici di diritto costituzionale a scrivere una lettera dura ed accorata ai presidenti delle istituzioni europee e dei governi degli Stati membri, invitandoli ad agire, nel rispetto dei valori fondanti dell’Unione europea e del diritto europeo. Alla lettera ha aderito, esprimendo il suo supporto, anche l’Associazione italiana dei costituzionalisti. Le studiose hanno deciso di non lasciare senza seguito le parole del Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, pronunciate il 15 novembre proprio nell’ambito della inaugurazione di un anno accademico, quello della Università di Siena. «È sorprendente il divario tra i grandi principi proclamati e il non tener conto della fame e del freddo cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione», aveva detto il presidente. A questi principi si richiama la lettera, che esprime “sconcerto” di fronte alla “contraddizione tra i principi sui quali si fonda l’Unione europea e la mancanza di volontà politica di tradurli in azioni”. Sconcerto ancora più evidente se solo si comparano le “solenni affermazioni di solidarietà nei confronti di donne e uomini che perdono la libertà, come nel caso dell’Afghanistan, e il rifiuto di accoglierli”. La lettera chiede “alle istituzioni europee e ai governi degli Stati membri di rimanere fedeli alla volontà dei fondatori dell’Unione europea e di rispettare il diritto europeo, ponendo immediatamente in essere concrete misure di solidarietà ed accoglienza”, nonché “di incrementare gli sforzi politici per difendere i diritti umani universali laddove calpestati e fermare la tratta degli esseri umani”.
Inoltre, la sfida delle migrazioni, in Europa e in America latina, è stata al centro del primo incontro in presenza del Progetto REMOVE (Repensando la migración desde la frontera de Venezuela: nuevo programa académico en movilidad humana y convivencia en la Comunidad Andina) che si è svolto sulla frontiera tra Colombia e Venezuela, a Cucuta, il 2 e 3 dicembre 2021. REMOVE è un Capacity Builing finanziato dall’Unione Europea nel quadro delle azioni Erasmus “Key Action 2: Cooperation for innovation and the exchange of good practices. Capacity Building in the field of higher education”. Fanno parte del progetto, coordinato dall’Università di Bologna, le Università europee di Cadiz, Castilla La Mancha, Siena e Science Po-Paris e le Università latinoamericane del Rosario, Libre (Colombia), UASB, FLACSO (Equador), Nacional de Trujillo e PUCP (Perù). Si tratta di un progetto che mira principalmente a sviluppare un’offerta formativa interculturale e inclusiva che promuova la creazione di un quadro giuridico comune all’interno della Comunità andina a tutela dei diritti dei migranti. Proprio per sottolineare questa finalità, l’incontro di avvio del Progetto si è svolto a Cúcuta, una città nella parte nord-orientale della Colombia, al confine col Venezuela. Cúcuta rappresenta il primo canale di uscita della popolazione venezuelana che lascia il proprio Paese, la cui prima regione di approdo è proprio la provincia colombiana del Norte de Santander. Basti pensare che, secondo i dati diffusi dall’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, al 2020, erano circa 5,9 milioni i venezuelani in fuga. Colombia e Perù sono i Paesi che ospitano la maggioranza di essi.
Osservare la crisi migratoria venezuelana dalla frontiera della Colombia, uno Stato fragile, che, ciò nonostante, sta accogliendo al momento un numero smisurato di profughi (si pensi che nell’ospedale di Cúcuta, su 30 bambini che nascono ogni giorno, 27 sono venezuelani), getta una nuova luce anche sulla situazione europea. Nel senso che mostra come l’incontro/scontro con l’altro, con l’inatteso, con lo straniero, con l’extrasistemico, è una grande spinta per le società e gli Stati a guardarsi dentro, rivelando contraddizioni e debolezze. Così, l’arrivo di rifugiati che chiedono assistenza e lavoro, spinge i paesi latinoamericani a interrogarsi sull’effettività di questi stessi diritti per i propri cittadini e sui passi ancora da compiere per realizzare i luminosi principi iscritti nelle proprie costituzioni. Non solo spinta ad acquisire una consapevolezza, dunque: l’irrompere dell’extrasistemico è anche un potente vettore per innescare un cambiamento.
Quel cambiamento che, sempre, implica un esodo, una uscita da sé per andare incontro all’altro, nel riconoscimento di una comune umanità che non può essere imbrigliata da muri e barriere. Un lungo cammino. Come ha scritto Norberto Bobbio, un ideale come quello dei diritti dell’uomo rovescia completamente il senso del tempo, perché si proietta sui tempi lunghi, e solo alcuni “segni premonitori” possono farci presagire l’esito, secondo la kantiana visione profetica della storia (N. Bobbio, I diritti dell’uomo, oggi, in Id., L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. 269). Segni anche piccoli. “Dopo tutto, dove iniziano i diritti umani?”, si chiese Eleanor Roosevelt in uno dei suoi ultimi discorsi alle Nazioni Unite, il 27 marzo 1953. Per rispondere che iniziano “nei piccoli luoghi vicino casa – così vicini e così piccoli da non potersi individuare su nessuna mappa del mondo. Eppure, essi sono il mondo delle singole persone: il quartiere in cui si vive, la scuola che si frequenta, la fabbrica, la fattoria o l’ufficio in cui si lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cercano uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti. In assenza di interventi organizzati di cittadini per sostenere chi è vicino alla loro casa, guarderemo invano al progresso nel mondo più vasto. Quindi noi crediamo che il destino dei diritti umani è nelle mani di tutti i cittadini in tutte le nostre comunità” (citato da M. A. Glendon, Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la dichiarazione universale dei diritti umani, trad. it. Liberilibri, Macerata, 2001, p. 408).
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