Gli atti concorrenziali nella prospettiva delle Sezioni Unite penali. Nota a Cass., S.U. n.13178/2020.
di Maria Cristina Amoroso
Sommario: 1. Le ragioni del contrasto. 2. Le posizioni della giurisprudenza di legittimità. 3. La risposta delle Sezioni Unite. 4. La libertà di concorrenza. 5. Il significato di atti concorrenziali. 6. Il bene giuridico protetto. I caratteri della fattispecie. 7. Conclusioni.
Le Sezioni Unite con la decisione n. 13178, depositata il 28 aprile 2020, hanno posto fine al contrasto delineatosi in tema di illecita concorrenza con minaccia o violenza di cui all’art. art. 513 -bis cod. pen.
Investito dalla Terza Sezione penale, con ordinanza n. 26870 del 19 aprile 2019, del quesito: «se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo la mira teleologica dell’agente», il Supremo Consesso ha affermato il principio di diritto secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente».
1.Le ragioni del contrasto.
Il contrasto prende le mosse dalla palese divergenza tra la ratio della previsione normativa e l’ambito di incidenza della sua tipicità, delineata con tratti identificativi sostanzialmente diversi da quelli preannunciati. Come ricordato dalla Suprema Corte, l’introduzione dell’art. 513 - bis cod. pen. - che sanziona con la reclusione da due a sei anni chiunque nell'esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia - è avvenuta per opera della legge 13 dicembre 1982, n. 646 (cd. Rognoni-La Torre), recante disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale, sulla spinta dell’urgenza, particolarmente sentita in quello specifico momento storico, di prevedere una fattispecie ad hoc per la repressione dei comportamenti tipici della mafia che, quale nuova e illegale “forza imprenditrice”, scoraggiava la concorrenza con esplosione di ordigni, danneggiamenti e violenza sulle persone; condotte rispetto alle quali le tradizionali fattispecie dell’estorsione e della turbata libertà dell'industria o del commercio mal si prestavano ad accordare un’efficace tutela.
Nonostante la dichiarata volontà legislativa, la disposizione non è stata plasmata in relazione ai contesti mafiosi, il riferimento a “chiunque”, sia pure nell'esercizio di un’attività commerciale, industriale o produttiva, ne ha, per certi versi, ridelineato la portata, così come la collocazione della disposizione tra i delitti contro l'economia pubblica, l’industria e il commercio (nel Capo II del Titolo VIII) ha di fatto allontanato l’area della oggettività giuridica della previsione dal complesso delle fattispecie incriminatrici poste a tutela dell’ordine pubblico.
Queste circostanze, unitamente al riferimento contenuto nella fattispecie tipica alla realizzazione di “atti di concorrenza”, senza alcuna ulteriore specificazione, hanno dato vita a letture giurisprudenziali non univoche.
2.Le posizioni della giurisprudenza di legittimità.
Superato un orientamento più risalente nel tempo che aveva inizialmente limitato l’incidenza della disposizione al solo contrasto di forme d’intimidazione mafiosa tese a scoraggiare la regolare dinamica dell’agire imprenditoriale, la giurisprudenza più recente è concorde nell’escludere la necessaria realizzazione della condotta nell’ambito della criminalità organizzata, ma si presenta divisa circa il significato da attribuire alla generica locuzione “atti di concorrenza”.
Spinta dallo sforzo di restituire alla fattispecie una maggiore determinatezza, una parte della giurisprudenza di legittimità, individuata nella tutela della libera concorrenza la ratio della norma, ha ritenuto costituissero “atti di concorrenza” soltanto le condotte concorrenziali tipiche, quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc., desumibili dalle pertinenti disposizioni del codice civile, realizzate con metodi di coartazione volti ad ostacolare la normale dinamica imprenditoriale nei confronti di altri soggetti economici tendenzialmente operanti nello stesso settore.
In questa prospettiva la disposizione è stata ritenuta inapplicabile agli atti di violenza o minaccia non sostanziatisi in comportamenti competitivi nel senso tecnico-giuridico, quand’anche la finalità perseguita dall'agente si fosse identificata con la limitazione della libertà di concorrenza, ferma restando, tuttavia, l’eventuale riconducibilità della fattispecie concreta ad altre ipotesi di reato (quali quelle di estorsione o di concussione); una interpretazione difforme da quella proposta, secondo i fautori di questa tesi, contrasterebbe con la ratio della norma e determinerebbe una inevitabile «violazione del principio di tassatività, a fronte di un enunciato normativo la cui formulazione intende invece isolare, dalla generalità degli atti violenti, gli specifici atti di concorrenza, pur commessi con quella particolare modalità».
Di avviso contrario è, invece, la contrapposta giurisprudenza teleologicamente orientata che contesta l’attribuzione di rilievo alla sola commissione di atti tipici di concorrenza, e ritiene la disposizione applicabile in tutti i casi di realizzazione di attività violente e minacciose che, proprio per le loro caratteristiche di fatto, configurano una concorrenza illecita mirando a controllare le attività commerciali, o comunque a condizionarne il libero esercizio.
Per questa linea ermeneutica alla nozione “atti di concorrenza” va attribuito un significato più ampio di quello desumibile dalle disposizioni del codice civile, in quanto il bene giuridico tutelato consiste non solo nel buon funzionamento dell'intero sistema economico, ma anche nella libertà della persona di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva.
Alle due letture se ne affianca una terza che, nel tentativo di individuare una definizione di “atti di concorrenza” meno restrittiva, ma al contempo più determinata, prospetta la possibilità di attribuire un significato a tale concetto facendo ricorso alla ratio della norma incriminatrice e tenendo conto della più recente normativa italiana ed europea in tema di tutela della concorrenza.
Per tale impostazione gli atti concorrenziali di cui alla fattispecie sono integrati da tutti i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, contenuti ai numeri 1) e 2) dall’art. 2958 cod. civ. ma anche da tutti gli atti inclusi nella disposizione di chiusura di cui al numero 3) dello stesso articolo, secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai princìpi della correttezza professionale idonei a danneggiare l'altrui azienda.
In quest’ottica assumerebbero rilievo sia quei comportamenti che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, risultano “idonei a falsare il mercato” e a consentire l'acquisizione, in danno dell'imprenditore minacciato, di illegittime posizioni di vantaggio senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (come nel caso tipico dell'intimidazione esercitata da parte di un imprenditore nei confronti di un altro, rispetto a lavori appaltati ma rivendicati come propri), sia le condotte contrarie ai principi della correttezza professionale, intese come “qualunque comportamento violento o minatorio” posto in essere nell'esercizio dell'attività imprenditoriale al fine di acquisire una posizione dominante sul mercato non correlata alla capacità operativa dell'impresa o comunque diretto ad alterare l'ordinario e libero rapportarsi degli operatori in una economia di mercato.
3. La risposta delle Sezioni Unite.
Il terzo degli orientamenti esposti viene considerato dalla Sezioni Unite quello maggiormente utile ai fini della risoluzione del quesito.
Del primo si critica l’eccessiva limitazione della potenzialità applicativa e la ridotta capacità di tutela, poichè restringe l'incidenza dell’art. 513- bis cod. pen. ad isolate forme di comportamento competitivo «senza esplorare appieno la possibilità di un’interpretazione che si faccia carico di collocare la norma incriminatrice e il bene giuridico da essa tutelato all'interno di una visione complessiva dei presupposti della libertà di concorrenza nel sistema interno e nella sua più ampia dimensione euro-unitaria» rendendo la norma sostanzialmente inapplicabile se non in casi assai limitati.
Quanto al secondo, si osserva che da un lato esso rischia di rafforzare del tutto impropriamente l'incidenza dell’elemento psicologico del reato poiché, al di fuori di condotte intimidatorie poste in essere nell'esercizio dell’attività concorrenziale, il fine dei comportamenti illeciti dovrà comunque dirigersi verso il contrasto dell’altrui libertà di concorrenza; dall'altro rischia di imporre una rivisitazione del contenuto dell’oggettività giuridica, dal momento che la norma verrebbe a tutelare situazioni ed attività non riconducibili esclusivamente al libero autodeterminarsi dell'imprenditore nella sua attività d'impresa, oltrepassando l’esigenza di protezione della sfera dell'economia pubblica, dell’industria e del commercio, per indirizzarsi di fatto verso la difesa di esigenze proprie dell’ordine pubblico.
Nella lunga ed articolata parte motiva della decisione le Sezioni Unite giungono alla soluzione del quesito sviluppando un percorso idealmente frazionabile in più parti. L’incipit è costituito dalla lucida rappresentazione del contesto multilivello relativo alla libertà di concorrenza; la parte centrale è costituita dall’attribuzione al sintagma "atti di concorrenza" di un significato svincolato dall’originario contesto normativo in cui la fattispecie di cui all’art. 513 - bis è stata introdotta e più aderente alla sopravvenuta normativa interna ed euro-unitaria; la terza parte analizza le ragioni e le finalità di tutela che hanno determinato la genesi della norma.
Delineati nei suoi contorni la fattispecie di cui all’art. 513 - bis cod. pen., la sentenza si conclude con la distinzione di tale previsione dai delitti contigui di cui agli artt. 513 e 629 cod. pen.
4. La libertà di concorrenza.
A livello Costituzionale la Corte individua nell’art. 41, primo comma, la disposizione a presidio della tutela della libertà di concorrenza.
Sebbene la disposizione non contenga alcuna menzione in proposito e si limiti ad affermare che l’iniziativa economica privata è libera fatti salvi i limiti espressamente indicati nel secondo comma, il costante processo di integrazione europea, l’incidenza delle numerose regole di concorrenza stabilite dall’Unione europea e la scelta di campo espressa in favore di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” (ex artt. 119 par. l e 120 TFUE, in relazione all'art. 3, par. 3, TUE) hanno impresso a tale principio connotazioni in parte nuove.
La libertà di concorrenza, si evidenzia, è divenuta progressivamente una delle naturali espressioni della libertà di iniziativa economica privata a causa di una pluralità di disposizioni quali l’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sul riconoscimento della libertà d'impresa; gli artt. 3, par. 3 e 21, par. 2, lett. e), TUE; gli artt. 3, par. l, lett. b), 32, lett. c), 34 ss., 101-109, 119, par. l, 120 TFUE, che dettano le norme sostanziali in materia di tutela della concorrenza; e il Protocollo n. 27 allegato ai Trattati, là dove si afferma che «il mercato interno ai sensi dell'articolo 3 del Trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata».
La libertà di concorrenza ha trovato espresso rilievo costituzionale nell’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., introdotto nell'ordinamento a seguito della modifica operata dall'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ne assegna la tutela, nell'ambito della nuova ripartizione delle competenze fra i diversi livelli territoriali di governo, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, che deve esercitarla «nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
La stretta connessione fra libertà dell’iniziativa economica privata e la tutela delle regole della concorrenza, anche nella più ampia dimensione del mercato comunitario, è tema oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale nelle quali da un lato si afferma che la nozione di concorrenza di cui all’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario, dall’altro che attraverso la tutela della concorrenza si perseguono altresì finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta di beni e di servizi.
In ambito europeo il favor per la tutela di questa libertà si manifesta, in particolare, oltre che nell’insieme di divieti posti dai già citati artt. 101 e 102 TFUE (e in precedenza stabiliti negli artt. 81 e 82 TCE) nella affermazione, contenuta nell’art. 16 CDFUE, secondo la quale la libertà d'impresa deve essere esercitata “conformemente al diritto dell'Unione”, così includendovi le regole di diritto derivato che governano in maniera specifica e dettagliata i meccanismi di funzionamento della concorrenza.
Quanto alle pertinenti disposizioni interne, la tutela del mercato concorrenziale è affidata agli artt. 2 e 3 della legge 12 ottobre 1990, n. 287, dal contenuto analogo alle disposizioni europee in tema di intese restrittive della libertà di concorrenza, abuso di posizione dominante e concentrazioni fra imprese; le situazioni vietate sono individuate assumendo quale modello di riferimento il contenuto delle corrispondenti disposizioni dell’ordinamento euro- unitario e l’art. l, comma 4) enuncia espressamente il criterio secondo cui le regole interne vanno interpretate «...in base ai principi dell'ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza».
Nella stessa ottica le previsioni della legge 11 novembre 2011, n. 180, hanno inteso definire lo statuto delle imprese e dell’imprenditore al fine di assicurare lo sviluppo della persona attraverso il valore del lavoro, sia esso svolto in forma autonoma che d’impresa e al contempo garantire la libertà di iniziativa economica privata in conformità agli articoli 35 e 41 della Costituzione.
La Corte fa riferimento anche alle disposizioni civilistiche volte ad assicurare l’ordinato e corretto svolgimento della libertà di concorrenza impedendo, sul piano giuridico, il determinarsi di situazioni di monopolio e quasi - monopolio ( 2596 cod. pen.) ovvero comportamenti illeciti che di fatto alterino o, addirittura, stravolgano il regolare funzionamento del mercato attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale (artt. 2598- 2601 cod. civ.).
Tra le previsioni del codice civile le Sezioni Unite si soffermano, in particolare su quella contenuta al n. 3 dell’art. 2598, secondo la quale si considera concorrenza sleale «ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda».
Rifacendosi ai principi enunciati dalle Sezioni Civili, le Sezioni Unite affermano che il carattere residuale della norma rispetto alle condotte tipizzate nei numeri 1) e 2) impone la necessità di esaminare caso per caso se il comportamento allegato costituisce illecito, dia esso luogo, o meno, anche a violazione di norme pubblicistiche. La disposizione, pertanto, appare riferibile a qualsiasi atto che, alla luce dei principi fondamentali e delle previsioni nazionali ed europee in tema di mercato concorrenziale, risulti contrario ai canoni di etica professionale generalmente accettati e seguiti nel mondo degli affari, ovvero nello specifico settore cui appartengono le attività imprenditoriali in rapporto concorrenziale e che al contempo sia idoneo a recare danno all’altrui azienda.
5. Il significato di “atti concorrenziali”.
Alla luce di quanto rappresentato, le Sezioni Unite affermano che la nozione di “atti concorrenziali” va inquadrata sia con riferimento al superiore divieto di ordine costituzionale posto dall'art. 41, secondo comma, Cost. - secondo cui qualsiasi forma di competizione concorrenziale riconducibile alla libera estrinsecazione dell'iniziativa economica privata non può svolgersi “in modo da recare danno” ad una serie di situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate (come i diritti di libertà, sicurezza e dignità umana) - sia tenendo conto dell'esigenza di rispetto dei limiti stabiliti dalla legge ordinaria (ex art. 2595 cod. civ.) per lo svolgimento della libera concorrenza risultanti dal raccordo fra diversi livelli della normativa euro-unitaria, e delle disposizioni contenute nel codice civile nella legislazione speciale (in primo luogo, nella legge n. 287 del 1990).
Nel definire l’ambito di operatività della fattispecie di cui all’art. 513 - bis cod. pen., la Suprema Corte specifica che il soggetto attivo e quello passivo del reato devono trovarsi in una dinamica concorrenziale e pertanto, almeno tendenzialmente, offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare, anche in via succedanea, lo stesso bisogno dei consumatori o, comunque, bisogni complementari o affini, tenendo conto del fatto che il rapporto di concorrenza si instaura anche fra operatori che agiscono a livelli economici diversi (ad es.: produttore-rivenditore o grossista dettagliante), coinvolgendo «tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni».
La delimitazione dei soggetti attivi o passivi del reato non va intesa in senso meramente formale, in quanto non occorre la qualità di commerciante, industriale o produttore, ma semplicemente l'espletamento in concreto di attività che si inseriscono nella dinamica commerciale, industriale o produttiva a prescindere dai requisiti di professionalità ed organizzazione tipici della figura civilistica dell'imprenditore e fatte salve, le ipotesi di compartecipazione criminosa dell'extraneus a conoscenza della qualità di intraneus del soggetto agente.
Infine, non si ritiene necessario che gli atti di concorrenza illecita siano necessariamente diretti nei confronti dell'imprenditore concorrente, potendo essere rivolti anche nei confronti di terzi.
6. Il bene giuridico protetto. I caratteri della fattispecie.
Relativamente al bene giuridico protetto dalla norma, le Sezioni Unite considerano tale non solo la tutela di un più ampio interesse al corretto funzionamento del sistema economico, inteso come bene finale, ma anche la protezione di un diverso interesse, da intendersi quale bene strumentale, più direttamente inerente ad una esigenza di garanzia della sfera soggettiva della libertà di ciascuno di autodeterminarsi nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva.
In sintesi, tenuto conto della normativa euro-unitaria e nazionale, le Sezioni unite concludono che la fattispecie ex art. 513 - bis cod. pen. è riferibile a tutti i comportamenti competitivi, sia attivi che impeditivi della libertà altrui, connotati dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, idonei a favorire, o a consentire, l’illecita acquisizione, in pregiudizio del concorrente minacciato o coartato, di posizioni di vantaggio ovvero di predominio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell'organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva, pur non essendo necessaria la reale intimidazione del soggetto passivo ovvero un’effettiva alterazione degli equilibri di mercato.
La delineata tipicità della fattispecie in esame, conclude la Corte, consente di distinguerla agevolmente dal contiguo reato di cui all’art. 513 cod. pen., che contempla l’uso della violenza sulle cose per impedire o turbare l’esercizio di un’industria o un commercio e prevede quale alternativa il ricorso a mezzi fraudolenti per le medesime finalità; e di ritenerla non assorbita nella più grave fattispecie di estorsione trattandosi di norme con diversa collocazione sistematica e preordinate alla tutela di beni giuridici diversi, sicché, ricorrendo gli elementi costitutivi di entrambi i delitti è configurabile il concorso formale.
Nel caso di specie le Sezioni Unite hanno ritenuto che la condotta violenta nei confronti dell’operatore economico concorrente, attivo nella medesima zona territoriale, esercitata con calci, pugni e sputi per farlo desistere dallo svolgimento delle operazioni di spurgo e sversamento di rifiuti prodotti da una clinica sanitaria e nello screditarne l’immagine commerciale, rivendicando una sorta di competenza esclusiva nella zona, integra la fattispecie di cui all’art. 513 - bis cod. pen.
7. Conclusioni.
Le Sezioni Unite Guadagni hanno compiutamente elaborato una nozione penalistica di “atti concorrenza”, andando forse oltre l’interpretazione data a tale concetto dall’orientamento pur espressamente condiviso.
Il passo ulteriore compiuto dalla decisione in commento sembra, infatti, essere l’abbandono della prospettiva caratterizzante il terzo orientamento “intermedio” che, pur facendo riferimento alla necessità di attribuire alla previsione contenuta nel numero 3 dell’art. 2598 cod. civ. una lettura più moderna alla luce del contesto normativo e nazionale ed europeo, ha comunque sempre attribuito a tale disposizione un “ruolo chiave” nell’interpretazione dell’art. 513-bis., anche quando ha comunque chiarito che «nel momento in cui una disposizione prevista dall'ordinamento giuridico per disciplinare un fenomeno in campo civile sia utilizzata a fini ermeneutici per dare significato ad un concetto utilizzato in ambito penale, salvo una diversa indicazione normativa, detta disposizione non possa essere riduttivamente letta secondo l'ermeneusi seguita nell'applicazione giurisprudenziale in quello specifico settore del diritto (nella specie, civile), che - per definizione - è destinato a regolare il rapporto o l'accadimento sotto un'ottica completamente diversa da quella penalistica».
Le Sezioni Unite sembrano aver considerato la citata disposizione civilistica solo uno dei molteplici tasselli dell’articolato sistema normativo di diritto comunitario e nazionale cui far ricorso ai fini di una corretta lettura dell’art. 513 - bis cod. pen.
Interrotta la necessaria consequenzialità fra gli atti di concorrenza sleale ex art. 2598 cod. civ. e le condotte punite ex art. 513-bis cod. pen., sarà particolarmente interessante monitorare la futura applicazione della disposizione al fine di verificare se il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite arricchirà la casistica degli “atti di concorrenza” di nuove tipologie.