In tema di diritto verità giustizia nell’opera di Leonardo Sciascia*
di Antonio Ruggeri
Un fatto è un sacco vuoto.
Bisogna metterci l’uomo,
la persona, il personaggio perché stia su
(Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino 1971)
“Tutto ha inizio sempre da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi, sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono la vita dei popoli, eccetera”.
A scrivere non è Sciascia – come pure si potrebbe pensare – ma Eduardo, l’immenso, inarrivabile Eduardo che confessava come nasceva in lui il germe delle sue “commedie” – come egli stesso le definiva – che però, al tempo stesso, erano anche tragedie con al centro della scena – è ancora Eduardo a parlare – “una folla di diseredati, di ignoranti, di vittime e di aguzzini, di ladri, prostitute, imbroglioni, di creature eroiche e esseri brutali, di angeli creduti diavoli e diavoli creduti angeli”[1]. Ciascuno di essi – per dirla con G. Büchner – è “un abisso, a uno gira la testa se ci guarda dentro”; un abisso la cui profondità – ha opportunamente precisato C.P. Baudelaire – “nessuno ha mai misurato”.
Le parole scritte da Eduardo su di sé mi sono rimaste scolpite nella mente sin da quando le ho lette, ormai quasi cinquant’anni addietro, per la prima volta; e non le ho più dimenticate. Mi sono subito tornate alla memoria non appena avuto in mano il libro che ora si presenta: “un libro prezioso su libri preziosi”, secondo l’efficace giudizio datone da un accreditato studioso[2]. Come per le opere di Eduardo, anche per quelle di Sciascia, non appena iniziata la lettura, non sono riuscito a distaccarmene se non dopo aver raggiunto la fine: inchiodato agli scritti ed ammaliato dalla bellezza della prosa, scarna e colorita allo stesso tempo; e, per queste opere come per quelle, ad ondate mi torna la voglia di riprenderle in mano e rimirarle, ogni volta da una prospettiva diversa, cogliendo sempre spunti dapprima non notati, dai quali hanno quindi origine ed alimento riflessioni nuove, al centro delle quali v’è una umanità dolente, composta perlopiù da persone umili, emarginate, sconfitte, stritolate da meccanismi infernali, efficienti ed inesorabili.
La giustizia è punto di riferimento costante delle pensose e disincantate pagine dello scrittore di Racalmuto come pure del teatro di Eduardo[3]. Folgorante per quest’ultimo è un episodio, dallo stesso raccontato nella introduzione-confessione della raccolta sopra cit., che lo vide giovanissimo varcare per la prima volta la soglia di un tribunale (verosimilmente di Napoli) ed assistere alla celebrazione di un processo a carico di alcuni ragazzi accusati di furto, uno dei quali in un impeto incontenibile di rabbia si ferì alla fronte con le catene ai polsi per essere obbligato a restare pur essendo già stato condannato. Un’esperienza “tremenda” per il giovane Eduardo, come lo stesso la definì, che lo segnò profondamente.
Non avrei saputo trovare titolo migliore di quello dato da Cavallaro e Conti alla loro raccolta[4], col riferimento ai tre termini prescelti e messi in una non casuale – a me pare – consecuzione sistematica: diritto verità giustizia. Termini non separati neppure da una virgola, proprio perché inseparabili, in quanto ciascuno concettualmente ed operativamente inautonomo rispetto agli altri[5].
Il diritto sta in testa perché è in esso che gli altri hanno la loro fonte: la ragion d’essere del primo è, infatti, nella ricerca della verità e, di riflesso, nel raggiungimento e nella somministrazione della giustizia. Il diritto è il mezzo, la verità e la giustizia sono il fine.
Attorno a questi termini ruotano tutti gli scritti qui riuniti, l’ultimo dei quali è di P. Squillacioti, curatore delle opere di Sciascia per Adelphi, seguiti da un’appendice dello stesso Sciascia su La dolorosa necessità del giudicare, nella quale è un’affermazione a tutta prima stupefacente, vale a dire che “la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare”, dal momento che quest’ultimo è “una dolorosa necessità … un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio” (153)[6].
Una buona parte degli scritti si deve alla penna di siciliani, magistrati (come i curatori) e docenti universitari che – come rileva D. Galliani[7] – “hanno più somiglianze che differenze, … l’attenzione alle giuste parole e l’arrovellarsi con estremo puntiglio”[8]. Considero questa scelta non casuale e felice allo stesso tempo. È come per Camilleri: chi più o meglio di un siciliano può coglierne certe sfumature e coloriture del linguaggio? O, appunto, come per Eduardo: certi ammiccamenti, sguardi parlanti anche se non accompagnati da parole, anzi ancora più eloquenti di queste ultime, ebbene chi, più e meglio di un napoletano, può intenderne il profondo, indescrivibile significato?
I personaggi di Sciascia, anche quando sono calati in un contesto affollato di persone (ed anzi, ancora più in siffatte circostanze), sono sempre, naturalmente e tragicamente, soli, maledettamente soli: con se stessi, persino all’interno della loro famiglia[9]. E così è anche – non casualmente – per quelli di Eduardo[10].
La famiglia, per il siciliano come pure per il napoletano (e il meridionale in genere), prende il posto dello Stato, che è lontano, assente e non di rado avversario, armato del suo apparato di leggi e di organi vessatorio nei riguardi del singolo. Tra Stato e mafia non c’è talora distinzione alcuna, perché la seconda non è esterna e nemica del primo bensì dentro di esso[11]. Con lucida, spietata consapevolezza, Sciascia mette a nudo e disvela una verità che è già nei Vangeli[12], rilevando che “tutto quello che vogliamo combattere fuori di noi è dentro di noi; e dentro di noi bisogna prima cercarlo e poi combatterlo”[13]. Proprio per ciò, è impresa improba sradicare la mafia una volta per tutte, dal momento che – è da temere –, al pari del peccato, essa accompagnerà e segnerà a fondo la storia di ciascun essere umano e dell’intera umanità fino alla fine del mondo. Perché la mafia, oltre (e prima ancora) che essere un’organizzazione o – romaniamente – un ordinamento giuridico, è un abito mentale e, allo stesso tempo, un fenomeno ormai profondamente radicato e diffuso nel corpo sociale, dunque endemico, come il covid-19 che da anni ormai ci affligge ed inquieta. La guerra combattuta dallo Stato contro di essa appare perciò essere senza fine, pur rinnovandosi nei mezzi e nelle manifestazioni, malgrado il nobile sacrificio di quanti si sono esposti in prima linea per essa, anche a costo della loro stessa vita: sempre a testa alta e schiena diritta, come i giudici R. Livatino, la cui memoria mi è particolarmente cara, G. Falcone, P. Borsellino e tanti, tanti altri prima e dopo di loro.
Forse, questo rassegnato giudizio è frutto della mia “sicilianità”[14], del disincanto con cui chi ha la mia età vede le cose del mondo, con un mix di realismo e pessimismo, con un sentimento altalenante che conosce, sì, anche punte di ardimentoso ottimismo alimentate dal cuore e però inframezzate a foschi e soffocanti pensieri di una ragione indomita e crudele.
Lo sconsolato giudizio che Sciascia mette in bocca a Diego La Matina, facendogli dire che “dunque Dio è ingiusto”[15], è rivelatore dell’intera Weltanschauung dello scrittore siciliano: se “Dio è ingiusto”, il mondo è sbagliato, irrecuperabile e, perciò, lo è la società nella quale ogni individuo recita, come a teatro, la propria parte, spesso improvvisando le battute, e tuttavia pur sempre consapevole che le cose cambiano col tempo solo in apparenza, allo scopo – come diceva il Principe Salina ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – di far restare tutto come prima.
Il siciliano è un solitario per vocazione, pur avvertendo – ed è una contraddizione apparente – un disperato bisogno di stare sempre con altri; il mondo non cambia perché la sua è una battaglia sovente condotta con metodi donchisciotteschi, indirizzata verso bersagli sbagliati, ombre e non corpi reali. Afflitto da pregiudizi ancestrali, piace a me dire: autentici crampi mentali, di cui non sa o non vuole liberarsi, è fatalmente condannato ad essere un perdente, anche (e, forse, soprattutto) quando cerca giustizia o si rivolge, per averla, a coloro che sono istituzionalmente deputati a somministrarla. Aspetta che le cose cambino dall’alto, come nelle antiche tragedie, per effetto della discesa dal cielo di un deus ex machina, il solo in grado di mettere ogni cosa al giusto posto dopo che gli uomini le hanno confusamente mescolate e non sanno più rimetterle in ordine. Non ha ancora maturato dentro di sé la consapevolezza che il mutamento non può venire dall’alto se prima non muove dal basso, dal corpo sociale e, prima ancora – come si diceva –, dal di dentro di ciascuno dei suoi componenti e da tutti assieme.
Come giustamente segnala N. Lipari[16], v’è in Sciascia “un continuo stimolo alla responsabilità personale, all’impossibilità di delegare ad altri, pur nei condizionamenti imposti dalla storia, la ricerca della verità e quindi l’attuazione della giustizia”.
In questa lotta impari dell’individuo contro il “sistema”, lo sconfitto, pur sapendo di essere tale, tiene ugualmente alla salvaguardia della propria dignità, dimostrando così di essere uomo di “tenace concetto”[17], che può essere libero unicamente se riesce ad esserlo da se stesso[18]; e in ciò vedo in Sciascia e nei suoi personaggi un’idea di dignità e di diritto fondamentale in genere connotata e nella sua essenza pervasa da una componente deontica indisponibile, quale a mia opinione risulta in modo fermo e chiaro rimarcata nella Carta costituzionale[19].
Lo sconfitto, infatti, è per vocazione giusto, col fatto stesso di ricercare la giustizia e, dunque, di mettere in moto la macchina preposta per la sua amministrazione. Nell’orizzonte culturale dello scrittore siciliano, non conta però tanto l’esattezza del giudizio (e, dunque, il raggiungimento della verità) quanto – come fa notare G. Mammone[20] – “il fatto che il giudizio, corretto o sbagliato, abbia avuto luogo … In altre parole, non è il giudice che tramite il processo tutela l’individuo per evitargli l’ingiusta condanna, ma è l’individuo che – innocente o colpevole, non importa – sottoponendosi al processo legittima il giudice ed i suoi apparati, comunque egli decida, anche (e soprattutto) se incorra in errore sulla colpevolezza”. L’individuo, poi, reagisce, quando e come può, alle ingiustizie che ha davanti agli occhi e che spesso patisce, magari abbandonandosi a scatti di collera o ad apprezzamenti frutto di non distaccato giudizio, come quello del cap. Bellodi a difesa dello stato d’eccezione.
Dunque, al fondo, la fiducia nello Stato non viene del tutto meno, tant’è che sovente l’individuo ricorre ai suoi organi per avere giustizia, andando tuttavia incontro a cocenti delusioni, che lo obbligano a fare i conti con una realtà discosta dal verum jus e, anzi, ad esso frontalmente, irriducibilmente ostile.
La giustizia, nel contesto culturale in cui l’amara riflessione di Sciascia si situa, richiudendosi ed imprigionandosi però in se stessa, appare essere più forte della verità, “che si può solo immaginare, ma non raggiungere, in quanto perennemente appannata da verità costruite e manipolate”[21].
Cambiano gli scenari, nel passaggio da uno scritto all’altro, ma ricorrente è l’“atmosfera di ovatta silenziante”[22], dominata sovente da figure femminili che nel regno domestico giocavano (e giocano…) un ruolo di prima grandezza, seppur in apparenza sottomesse al dominus, in un ambiente sociale ancora fortemente segnato da una strutturale diseguaglianza dei sessi. I dialoghi fra gli attori sulla scena assai di frequente non sono – come dire? – realmente comunicativi, appesantiti e deviati dal loro solco da “reciproche chiusure mentali” e “ostilità incrociate”[23].
Malgrado la cappa soffocante che, al pari dell’aria afosa di piena estate, opprime i siciliani, obbligati a vivere in un contesto segnato da atavici preconcetti ma del quale non saprebbero fare a meno, come i pesci fuori dell’acqua, e malgrado le ripetute, inesorabili sconfitte, i personaggi di Sciascia caparbiamente perseguono la verità e la giustizia assieme, non l’una disgiunta dall’altra bensì l’una all’altra inscindibilmente legate e – come si diceva poc’anzi – facendole entrambe poggiare sul diritto quale strumento privilegiato al servizio dell’uomo, dei suoi più avvertiti bisogni, della sua dignità appunto.
Per questo, il messaggio dell’uomo di Racalmuto resta, al fondo, venato da ottimismo, al di là e contro ogni apparenza, pur nelle interne lacerazioni e vere e proprie contraddizioni che affliggono l’autore, i suoi personaggi, il contesto sociale in cui vivono. In tutta la sua opera – segnalano opportunamente i curatori[24] – “l’anelito per la giustizia” si pone quale “l’autentico pendant delle innumerevoli ‘ingiustizie’” sparse qua e là nelle pagine che ci ha lasciato.
Il lascito morale di maggior pregio che è da esse pervenuto a noi e che – si può esserne certi – seguiterà a trasmettersi anche dopo di noi sta non già nell’idea del (non) possibile raggiungimento della meta – verità e giustizia assieme, veicolate dal diritto – bensì nel fatto in sé, eticamente significante, del cammino verso di essa, nella tensione morale che lo anima e sorregge, non facendo mai venir meno la speranza di poter giungere fino in fondo.
Il potere, da chiunque sia esercitato, è, sì, sopraffazione dei deboli da parte dei forti, che lo detengono stabilmente e se ne avvalgono sovente per fini inconfessabili, devianti dal diritto, dalle sue leggi, dai principi o valori cui esse s’ispirano. Ciò nondimeno, è intimamente avvertito e caparbiamente coltivato dai personaggi sciasciani il bisogno di non deviare dalla retta via della ricerca ansiosa, appassionata e allo stesso tempo sofferta, della verità e della giustizia, costi quel che costi; di farlo dunque – come efficacemente rileva G. Luccioli[25] – “con una tensione morale e secondo un percorso che esige il pagamento di un prezzo alto in termini di isolamento e di solitudine, e tuttavia indispensabile per disvelare le false apparenze che spesso nascondono la realtà dei fatti”.
Sciascia come Eduardo – per tornare, per l’ultima volta, ad un accostamento già fatto – volgono costantemente il loro sguardo amorevole e compassionevole, autenticamente solidale, verso l’uomo, le sue debolezze come pure le sue virtù, incoraggiandolo sempre a non piegarsi ed a non gettare la spugna, malgrado si senta stordito ed incerto sulle gambe come un pugile che sta per essere sconfitto sul ring. E rivolgono un fermo monito a chi invece, per sua fortuna o per merito, non è stato sconfitto nella vita (o, comunque, è stato segnato meno di altri) a mostrarsi tollerante verso le debolezze degli umili e degli oppressi e, allo stesso tempo, ad impegnarsi senza risparmio di forze – ciascuno secondo le proprie capacità ed inclinazioni, il giudice come pure lo studioso (e pur se rosi dal dubbio[26]) – per dare voce ai diritti degli ultimi, ormai afoni ed incapaci di far sentire la propria.
Gli autori di questa encomiabile raccolta lo hanno fatto: per quel che vale il mio giudizio, egregiamente.
* Presentazione di Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L. Cavallaro e R.G. Conti, Cacucci, Bari 2021. Lo scritto è stato illustrato in occasione di un incontro dedicato all’opera ora richiamata, svoltosi a Palermo il 7 maggio 2022. Avverto che, in mancanza di diversa indicazione, da quest’opera sono tratti i riferimenti degli scritti di seguito richiamati.
[1] I riferimenti sono tratti dalla Nota introduttiva de I capolavori di Eduardo, I, Einaudi, Torino 1973, VII s.
[2] A. Pugiotto, Legge e letteratura, l’abbraccio sotto il segno di Sciascia, in Il Riformista, 4 novembre 2021, 9.
[3] Su La giustizia secondo Leonardo Sciascia v. il confronto svoltosi tra A. Rapomi Colombo, L. Carassai, P. Astorina, G. Fiandaca, F. Izzo, teletrasmesso da Radio radicale il 7 aprile 2018 (e disponibile anche on line); v., inoltre, ex plurimis, U. Apice, La collusione dei poteri nel Contesto di Leonardo Sciascia, in Il Quotidiano Giuridico, 10 gennaio 2020; A. Centonze, La giustizia e la ricerca della verità giudiziaria secondo Leonardo Sciascia, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 29 febbraio 2020, e, nella stessa Rivista, A. Apollonio, Il magistrato di Sciascia: eroe e anti-eroe tra “verità” e “giustizia”, 8 gennaio 2021, e G. Tona, Sciascia, i giudici e il danno da eccessiva professionalità, 11 dicembre 2021; A. Mittone, Sciascia e la giustizia, in Doppio zero (www.doppiozero.com), 12 aprile 2021. Infine, E. Amodio - E.M. Catalano, La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale, Sellerio, Palermo 2022.
[4] Di quest’ultimo, v., inoltre, l’ampia illustrazione delle ragioni che lo hanno portato a dare alla luce, in collaborazione con L. Cavallaro, l’opera che ora si presenta: v., dunque, di R. Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, Cacucci, 2021, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 2 settembre 2021. Non mi permetto di far luogo ad alcuna chiosa alle esaurienti spiegazioni addotte da uno dei curatori dell’opera qui presentata; mi limito solo a far richiamo di una indicazione di un’autorevole dottrina, secondo cui il risveglio dell’attenzione per l’opera di Sciascia, segnatamente da parte dei giuristi, può essere visto come il “sintomo di un bisogno di fare autocoscienza, di un’esigenza di autoanalisi e riflessione sollecitati dalla accresciuta consapevolezza della condizione di crisi in cui non da ora versa il pianeta-giustizia” [G. Fiandaca, Leggere Sciascia in procura. Un atto di autocoscienza per la giustizia in crisi, in Il Foglio (www.ilfoglio.it), 6 novembre 2021].
[5] Lo spiega con esemplare chiarezza lo stesso R. Conti, nello scritto da ultimo cit., § 3: “l’assenza della virgola non è frutto di disattenzione ma, al contrario, ricerca di un’unità di senso tra i valori che tali espressioni incarnano”.
[6] Ferma opportunamente l’attenzione su questo passo, rivelatore della personalità di S., T. Groppi, Di fronte al potere. Considerazioni sul volume “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, a cura di Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, Cacucci Editore, Bari, 2021, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 8 gennaio 2022. Quanto, poi al rapporto tra il giudice e il contesto sociale in cui esercita il munus affidatogli, giova non scordare ciò che lo stesso Sciascia ha al riguardo rimarcato, in un passo tratto da A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989, 80, opportunamente evidenziato anche da G. Fiandaca, Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare, nella stessa Rivista, 16 febbraio 2022: “quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur sempre rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia – che non può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”.
[7] Il tenace concetto per tenere alta la dignità dell’uomo. Su “Morte dell’inquisitore”, 47 ss. (e 48, per il riferimento testuale).
[8] Diverso è, nondimeno, l’angolo prospettico dal quale la realtà è osservata o – se si preferisce altrimenti dire – l’animus che ispira la osservazione stessa. Fanno tuttavia eccezione i magistrati che sono anche autori di scritti scientifici. Non saprei, ad ogni buon conto, dire se indossino questa seconda loro veste sopra la prima ovvero al posto di questa, diversamente dagli studiosi che non hanno familiarità con la pratica giuridica e le sue esigenze. Svolgimenti sul punto, qui non specificamente interessante, in altri luoghi.
[9] La “naturale e tragica solitudine del siciliano” è efficacemente resa, con magistrali pennellate linguistiche, da N. Irti, “Il giorno della civetta” e il destino della legge, 17 ss. e 21, per il riferimento testuale.
[10] Forse, la più emblematica rappresentazione di questo stato d’animo, peraltro sovente in modo esplicito e con sconsolata amarezza dichiarato, è in Sabato, domenica e lunedì.
[11] Ancora N. Irti, cit., 17.
[12] “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo” (Mc, 7, 1-8, 14-15, 21-23).
[13] Il riferimento è in N. Lipari, Diritto e letteratura in “Todo modo”, 98.
[14] … o – per dirla con lo stesso L. Sciascia – “sicilitudine” (Sicilia e sicilitudine, ora richiamato anche da R. Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, cit.).
[15] Il riferimento è in D. Galliani, cit., 62.
[16] N. Lipari, cit., 103. Rimarca il punto anche T. Groppi, nello scritto sopra cit.
[17] V., nuovamente, D. Galliani, cit., spec. 64.
[18] Ancora N. Lipari, cit., 106.
[19] Ho ripetutamente insistito sul punto, a mio giudizio di cruciale rilievo: di recente, ad es., nel mio Il referendum sull’art. 579 c.p.: inammissibile e, allo stesso tempo, dagli effetti incostituzionali, in AA.VV., La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p., a cura di G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 1/2022, 194 ss.
[20] Giustizia e individuo da Kafka a “Il contesto”, 85 s.
[21] G. Luccioli, Il sopravvento della superstizione sulla verità e sulla giustizia: “La strega e il capitano”, 125.
[22] … secondo l’efficace descrizione datane da M. Serio, Luoghi, ragione giuridica, sentimento e impegno didattico: la società siciliana di “A ciascuno il suo”, 65 ss. (e 66, per il riferimento testuale).
[23] Ancora M. Serio, cit., 67.
[24] Introduzione, 12.
[25] … nello scritto sopra già richiamato, 127.
[26] … che poi – come si sa – è la cifra identificante, la più genuinamente espressiva sia dell’attività del giudicare che della ricerca scientifica, per loro statuto non inquinate da preorientamento alcuno. Ancora G. Luccioli, op. et loc. ult. cit., lucidamente avverte del significato del dubbio “come abito mentale del giudice … atteggiamento dello spirito che attraverso il rifiuto di facili certezze tende a sottoporre le emergenze del processo allo spietato controllo della logica, vivendo in modo incessante l’inquietudine della ricerca”. Un “abito mentale” ed una “inquietudine” che – posso testimoniare per il mio personale vissuto – sono propri, pur nella diversità dei ruoli e delle responsabilità, altresì degli studiosi.