Parthenope
Perla di mare e fiamma di vulcano, Napoli si sveste e si riveste d’incanto e d’obbrobrio allo sguardo di un occhio galleggiante tra acqua di sale e sangue, che scruta con scandaglio estetico e fuori da ogni spoglio morale le incrostazioni antropologiche di un popolo frastagliato di identità e diversità, tradizione e trasgressione, godimento e afflizione. E se, come si dice, è vero che ogni singolo napoletano come la geometria dei frattali replica allo stesso modo su scala diversa l’originale complessivo di cui è parte, incarnando ciascuno un’icona del tutto, è anche vero che Parthenope, col suo mito universale di bellezza e seduzione, è la migliore candidata a rappresentarne l’archetipo più espressivo, l’emblema sinottico, il florilegio di vizi e virtù in cui l’intera città si rispecchia con l’orgoglio di rivedersi ogni volta così mutante e così uguale.
La rassegna dei suoi simboli diventa allora la vera trama di un film incarnato da una Parthenope ricomposta in un prodotto di sfolgorante ma sfuggente bellezza e di assoluta inafferrabilità.
Dal grande armatore all’oro e al sangue di San Gennaro, dal divismo estenuato e polemico dell’attrice napoletana emigrata al nord al rigido contesto universitario e fino ai rituali di superstizione e di camorra, è proprio tra aristocratiche sontuosità, isole del bel mondo e caverne suburbane che si snoda l’itinerario antropologico in cui si muove l’occhio curioso di Sorrentino in cerca di risposte a domande che non sa fare, ma che sente impellenti; quesiti che puntualmente ricorrono come incubi di un irrisolto rapporto con la città natale, come un intimo grumo ossessivo non si sa se sedotto dal mistero o abbindolato dalla truffa di un popolo che sopravvive illeso; e tuttavia immenso come il suo mare e carico di fascino come il suo vulcano quiescente.
“Com’è enorme la vita, ci si perde dappertutto” recita Céline in esordio al film; ed è proprio questa enormità che deve indurci a “vederla” la vita e non a giudicarla; questi i termini del sintomatico patto siglato da Parthenope e dal prof. Marotta, che li condurrà ad un idillio professionale foriero di successo per la donna. La medesima enormità del mostro umano generato dall’accademico, da questi poi mostrato a Parthenope, che col suo sorriso beffardo, candido e non sofferente riassume dall’inizio alla fine l’orrenda grandiosità di una Napoli opaca e indimenticata.
Il vigore espressivo del film, superbamente sostenuto nel suo contorno recitativo da un Silvio Orlando assolutamente perfetto e da maschere vibranti di solida teatralità, impersonate da Luisa Ranieri (Greta Cool), Isabella Ferrari (Flora Malva) e Peppe Lanzetta (il vescovo Tesorone), emerge in tutta la sua forza estetica nel debutto della sfavillante Celeste Della Porta (Parthenope giovane) e in una sempre efficace Stefania Sandrelli (Parthenope adulta), ma risalta alla pari da una felice e coerente scelta musicale, non a caso incentrata sulla splendida “Era già tutto previsto” di Cocciante e ancor di più nel battito sincrono ed ossessivo dell’iniziale Exodus (Excerpt No. 1) della Polish Radio National Symphony Orchestra, sinonimo timbrico della fobica pulsazione di vitalità di una città comunque eterna.