Un’abitudine contemplativa che ordina le cose in armonia con i suoi contorni e che, per il ritmo di un tempo che scorre diseguale, le rende tuttavia sempre diverse e attraenti, addestrandole ad un ascetismo appagante, ad occasione di complicità tra uomo e natura. È questa la cifra esistenziale di Hiroyama, protagonista pressoché assoluto dell’ultimo (capo)lavoro di Wim Wenders; maturo e meticoloso puliziere dei bagni pubblici di Tokyo, amante di letture e musiche degli anni sessanta, fotografo dilettante d’alberi e fronde, raccoglitore di piccole piantine spontanee, osservatore muto del mondo intorno, senza l’invadenza del curioso né la malizia del giudicante, ma con la gentile intesa di un assenso che silenziosamente mescola generosità e riconoscente stupore per la vita.
La metodicità dei gesti quotidiani - il risveglio e la mattiniera igiene personale, la colazione al distributore meccanico, l’accesso alle pubbliche toilettes costituite da avveniristici prodotti cittadini d’architettura avanzata e la loro accurata pulizia, seguita da altrettanta diligenza nella pulizia personale alle docce popolari di Tokyo, infine la sempre frugalissima cena nel solito locale submetropolitano - non è fuga né rifiuto per Hiroyama, bensì fonte di una pace interiore che s’intuisce inesistente prima d’allora (l’arrivo della benestante sorella esprime a sufficienza i tratti salienti di un turbolento passato), ma che quotidianamente lo allena da anni ad una gioiosa e ormai irrinunciabile solitudine contemplativa. Lo sguardo malinconico di una giovane donna anch’ella in sosta lavoro, seduta su una panchina del parco a consumare come lui un rapido spuntino e i leggiadri volteggi di un anziano alienato dal reale attirano entrambi la sua attenzione, sollecitando una benefica vibrazione d’accordo in un Hiroyama perfettamente incarnato nel volto di Koji Yakuso, superbo interprete di un ruolo intriso di gesti e zeppo di fisicità muta epperò fortemente espressiva. Ed ugualmente attrattive saranno per lui le fronde degli alberi, con le quali contrae un’amicizia fedele e duratura, ritraendole in foto analogiche poi scrupolosamente archiviate al pari dei tanti libri e di musiche conservate ed ascoltate in vecchie cassette stereo sette.
Parla poco o nulla il sessantenne puliziere e anche lì il risparmio di parola, lungi dall’essere ripulsa, ha il pregio di un misticismo ascetico tanto eloquente quanto attrattivo, come il bacio innocente della giovanissima amica di Takashi, suo inquieto ed incostante collega di lavoro, e la tenera complicità della proprietaria del ristorante, esibitasi per lui in una leggiadra versione della storica The House of the Rising Sun (non a caso la casa del sol levante), fanno intendere. Un silenzio inoltre che non esonera Hiroyama da una giocosa comunicazione con un ignoto frequentatore di un bagno pubblico, con il quale da un giorno all’altro scambia un foglietto con su il gioco del tris, in una sequenza filmica davvero deliziosa che, se da un lato rafforza il profilo tutto analogico e ancorato al passato del personaggio, per altro verso ne usa il tratto per puntare ad un picco poetico nel rapporto al caos della modernità in verità adeguatamente riuscito.
Nella placidità del mondo di Hiroyama - che è poi il mondo di Wenders - esiste ancora un’interfaccia, un riflesso di ogni cosa e persona, una somma di entità che generano dalla luce ma che al buio dei nostri sogni possono ricrearsi plasmate a caso, confuse o nitide, mobili o statiche: le ombre. Che non sono il contrario delle cose reali - e qui il messaggio affonda nei temi cari al regista, riallacciandosi all’intera sua produzione artistica - ma il loro complemento esistenziale, la testimonianza muta e incolore della gratificante luminosità del mondo. Un po' come per Hiroyama a ben vedere, che, uscendo da casa, benedice ogni mattino con un soddisfatto sguardo al cielo e al tempo stesso scruta sedotto le ombre nel brulicante bagliore delle fronde degli alberi, le riproduce fotografandole e pure le incarna sognandole ogni notte in sequenze fosche e sovrapposte, come fossero amiche viventi. Ombre come irrinunciabili attributi di perfezione di tutto, che nei “giorni perfetti” di Wenders si agitano fuori e dentro Hiroyama da complici silenziose e quotidiane della sua esistenza.