ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Potere, arte, cultura: una conversazione con Andrea Segre
di Marco Dell’Utri
L’incontro con il regista de La grande ambizione diviene l’occasione per una conversazione a trecentosessanta gradi sul cinema, sul racconto del potere e delle sue ramificazioni e articolazioni. Un dialogo sulla funzione politica dell’arte, sulla creatività della nostalgia e sullo smarrimento del senso dell’umanità della vita. Nel discorso che tocca i temi della tecnica cinematografica si insinua, improvviso, il richiamo alla ‘magia’ del cinema, così come al mistero che anima il risveglio delle energie collettive e l’urgenza di riscoprire il significato e il valore di ciò che è autenticamente ‘popolare’. La vicenda affrontata nel film su Berlinguer diviene quindi l’occasione, non solo per la rievocazione di un periodo storico e di una stagione ricchissima per la storia civile e culturale del nostro paese, ma anche - come un contrappunto - per un’analisi dello stato della politica e della cultura contemporanee. Transfemminismo, climate change, consumismo, pacifismo, populismo, antipatriarcato, razzismo e fascismo divengono, in rapida sintesi, i punti attorno ai quali si annodano i fili di un discorso politico; i titoli o i capitoli di un libro che al lettore curioso è richiesto, nella serena clausura della sua meditazione, di cominciare a scrivere.
Raggiungo Andrea Segre mentre è all’estero, impegnato nella presentazione di un suo documentario (Molecole) di alcuni anni fa.
Un appuntamento non facile da definire: il successo de La grande ambizione ha imposto ad Andrea ritmi serratissimi tra viaggi e spostamenti per la promozione.
E iniziamo col parlare di quello.
AS - Quando c'è un impatto pubblico ampio si finisce per essere un po’ attanagliati, però d'altronde si fanno i film anche per quello.
MD - È la tua prima volta a questo livello di pubblico?
AS - Questi numeri non li ho mai toccati. Anche gli altri film hanno sempre avuto un pubblico. Per quanto non sia ovviamente solo una questione di quantità, anche gli altri film, pur non avendo raggiunto questi numeri, avevano comunque sempre avuto un pubblico. Il massimo raggiunto dagli altri film era stato 100.000 spettatori, 500.000 non era mai capitato
MD - Considerato che sei anche uno scrittore, hai sospeso tutto…
AS - Mi piace molto scrivere; mia mamma era molto preoccupata da piccolo perché pensava che io fossi grafomane. Il tempo della scrittura è un tempo veramente e profondamente ‘antimoderno' e ha necessariamente bisogno di una sospensione.
MD - Ultimamente ho avuto modo di rivedere L'ordine delle cose e Welcome Venice: mi sono sembrati film abbastanza diversi da La grande ambizione e ti volevo chiedere se ci fosse un legame, un filo logico tra i tuoi film, o se invece appartengono ad esperienze tra loro autonome.
AD - Sono abbastanza diversi da quale punto di vista, secondo te? Secondo me hanno tanti elementi che li uniscono, benché ‘Berlinguer’ abbia avuto un suo specifico processo produttivo e una sua relazione con la storia. Tuttavia, il loro nucleo profondo consiste nell’osservare come le persone che vivono schiacciate da meccanismi di potere più forti di loro si relazionano con quei meccanismi, come riescono a conciliare il rapporto tra l'intimo e il politico, perché in fondo anche Berlinguer e il suo popolo vivono un profondo schiacciamento delle loro libertà. Poi c'è chi dice - ed è comprensibile - che fosse necessario bloccare quel progetto di cambiamento perché il rischio che l'Italia potesse finire sotto l’influenza di Mosca era più alto, per cui andava bloccato tutto. Tutto questo ha un suo perché.
MD - Dunque, si può dire che il cuore (o, in ogni caso, la nota ricorrente) del tuo cinema è il rapporto con il potere?
AS - Tu vorresti che il rapporto con un potere che influisce così tanto sulla tua vita fosse qualcos'altro, che la tua vita potesse dire o raggiungere qualcos'altro. Ma quel potere te lo impedisce e tu provi anche a reagire, ma fai molta fatica a contraddirlo. Il funzionario de L’ordine delle cose è chiamato a far funzionare il potere (ovviamente), ma lui capisce che le cose non vanno, che non è bello. Il pescatore di Welcome Venice non sa neanche perché rifiuta il potere che lo sta schiacciando (cioè sa perché, nella misura in cui non sa dove altro cercare un senso alla propria vita), però d'altra parte capisce anche che il fratello che lo contrasta ha un motivo, ha un perché nello stare dentro quel potere economico: non lo fa per cattiveria, lo fa perché funziona così, perché quella casa paterna piena di umidità, puzza di pesce e sofferenza, d’improvviso è diventata la chance di un business. E allora, perché fermarsi? Berlinguer sa che il potere non gli permetterà di realizzare la trasformazione socialista della società - come lui vorrebbe e come tantissime persone lo spingono a fare. Però non si ferma e s’inventa addirittura il compromesso storico che è un profondo tentativo di dialogo con il potere, fino all’iper-potenza (purtroppo non modificabile) che si rivela in occasione dell'uccisione di Moro. A me interessa molto come stanno gli esseri umani che sono incastrati lì dentro, che capiscono quanto sia sbagliata quell'iperpotenza, e che si interrogano sulle possibilità di modificarla. Allora ci rimangono dentro e, mentre ci rimangono dentro, esprimono una contropotenza, producono delle trasformazioni contro quelle potenze pur facendo un’enorme fatica a produrle in maniera strutturale.
MD - La tua analisi delle dinamiche del potere, di queste microfisiche del potere e delle controreazioni che innesca, è molto foucaultiana. In questo senso, secondo me, il tuo cinema è un cinema autenticamente ‘politico’.
AS - Puoi immaginare come si sia sentito Berlinguer quando ha visto le immagini del bombardamento sulla Moneda a Santiago del Cile?
MD - Non c'è dubbio.
AS - Credo che il ragionamento di Berlinguer sia stato molto chiaro: cosa posso fare io? Se continuo a sostenere una politica democratica realmente progressista; se continuo a far crescere il mio potere elettorale; se conquisto (come penso che sia possibile) la maggioranza delle classi medio-basse del paese e arrivo al 50% mi bombardano. Oppure mi ammazzano in un incidente stradale.
MD - Come peraltro si è tentato di far succedere… Insomma, è chiara la prospettiva politica del tuo cinema. Voglio però rispondere alla tua domanda sul perché mi è sembrato che La grande ambizione fosse un film diverso dai due precedenti. Ne L’ordine delle cose e in Welcome Venice mi è parso dominante il sentimento della perdita del senso di umanità (e, verosimilmente, credo ci sia un nesso significativo con la tua impostazione sul potere). Ne L'ordine delle cose, quel funzionario un po’ nevrotico (molte delle tue inquadrature si soffermano sulle sue manie di mettere a posto le cose, appunto ‘in ordine’, come in quel dettaglio della collezione di boccettine) sembra a un certo punto percepire (grazie all’incontro con gli occhi di una giovane migrante) gli automatismi che lo muovono nel gestire l’immigrazione di esseri umani come una qualunque operazione di import-export: e tuttavia, alla fine rinuncia a farsi travolgere da quel sentimento d’affetto (o di solidarietà) profondo e antico. In Welcome Venice, si avverte, nel pescatore, il fatto che la perdita del suo lavoro corrisponde allo smarrimento della sua unica dimensione aggregativa, sociale, ma soprattutto familiare: tu stesso racconti come, attraverso quella trasmissione generazionale di tecniche imparate dal fratello più grande e tramandate al nipote, il pescatore riesca a riallacciare in qualche modo i rapporti con la figlia che erano stati violentemente interrotti nel passato. Insomma, questo sentimento della perdita del senso di un mondo a misura d’uomo ha una sua potente dimensione nostalgica… come si avverte anche nella lingua veneta, che tu conservi nei dialoghi sottotitolati.
AS - Io credo molto nella potenza creativa della nostalgia.
MD - Infatti, mi domandavo se, rispetto a quei due primi film, la riproposizione della storia de La grande ambizione non abbia viceversa costituito, al di là della sua dimensione nostalgica, la ricerca di un rapporto più 'costruttivo’ con la realtà rispetto a quei precedenti.
AS - In effetti, attraverso la proiezione nelle sale de La grande ambizione abbiamo agganciato un'energia che è andata certamente oltre il nostro controllo. Il fatto di 150.000 ventenni che sono venuti a vedere il film era veramente il sogno più alto che uno potesse avere. Io avevo fatto vedere il film a dei ventenni mentre lo montavo: speravo che interagisse con loro, che lo capissero, ma che il film potesse generare una nostalgia creativa in dei ragazzi era veramente una cosa che, se l'avessi programmata, non l’avrei fatta così bene. Sono quelle cose che il cinema fa senza che tu le capisca fino in fondo. Quello che è successo, e che sta succedendo nel rapporto con i giovani, io lo ricollego a quello che io stesso ho sentito mentre studiavo questa storia: io avvertivo che questa vicenda mi parlava dell'oggi, di una mancanza, di una voglia, mi parlava di urgenze a cui non sappiamo più come rispondere, ed è quello che mi mandava avanti. Però non ho programmato di fare un film affinché i ragazzi potessero trarre energia politica da questo film. Non l’ho programmato, ma è successo. Perché il cinema ha la potenza di far succedere delle cose. Poi, se vai a vedere, probabilmente è successo perché io sentivo quelle cose e quindi ho scelto delle immagini che corrispondevano a questo sentire. Non so esattamente qual è l'immagine che è riuscita a far nascere questo tipo di emozione e di energie che poi il film ha scatenato.
MD - È possibile che possa dipendere dalla figura storica di Berlinguer?
AS - È certamente possibile che sia la figura di Berlinguer o il paragone con le figure della politica di oggi. Tuttavia, questa mi appare una spiegazione superficiale: non bastava questo per arrivare a queste cifre. 500.000 sono tante; considera che se ne aggiungono 5-6.000 al giorno, per cui arriveremo a 600/700.000 persone. Questo vuol dire uno su 100. È tanto. È una cifra veramente consistente, soprattutto perché non sono click da tastiera: sono esseri umani che vanno in sala, è molto diverso. È probabile, quindi, che tutto sia dovuto alla combinazione tra la figura di Berlinguer, la potenza creativa straordinaria di Elio (Germano), e però anche l'interazione con i volti, i primi piani del repertorio. Quello credo che abbia avuto una sua specifica potenza. Portarti con gli attori e con un attento lavoro di ricostruzione cinematografica dentro a un mondo, e poi ritrovare lì le facce vere di chi ti guarda e ti dice come stava. Questo forse ha creato questa connessione.
MD - Lì, dal punto di vista tecnico, c’è anche la tua esperienza di documentarista.
AS - Sì. Adesso ancora non lo so. Ma dovrò rivedere il film fra due o tre mesi per capire. Perché quando, dopo due o tre mesi, rivedi quello che hai fatto, allora capisci cosa è successo. Però una cosa su cui ho sempre istintivamente portato la mia attenzione è su cosa dicono gli occhi e i volti delle persone quando stanno zitte, e quelle persone per me sono sia attori che non-attori. Anzi, più sono non-attori, meglio è; perché così non stanno controllando e non stanno filtrando. Gli attori più potenti per me sono quelli che sembra non facciano niente, mentre invece fanno tutto; quelli che, pur sottraendo tutto, hanno un pensiero talmente denso che ti arriva senza usare la faccia per dirtelo. Questo per me è potente; è quello che succede alle persone normali quando agganciano la dimensione cinematografica in maniera inconsapevole; sono i protagonisti dei documentari, che non si difendono dalla telecamera come facciamo noi diventando imbarazzati o falsi.
MD - Maschere…
AS - Si. Sciolgono quelle maschere per una magia che è legata al cinema e che io aiuto nella mia interazione, ovviamente, ma non so esattamente come si crea, non c'è regola precisa con cui si crea, però so sentire quando una persona perde la maschera e vedo nei suoi occhi quello che sta pensando della sua vita. In quel momento io lo vedo immediatamente, torno dalle riprese e dico al montatore «è successo!». E il montatore lo trova, è una cosa che senti sulla pelle.
MD - Un fatto intuitivo.
AD - Questo accesso intuitivo alla profondità è quello che il grandissimo attore sa costruire e che il documentario ti permette di incontrare in maniera magica e imprevedibile. Ma soltanto quando l'hai incontrata il documentario diventa cinema, è quello che in fondo ho cercato nei materiali d'archivio, cioè riguardando i volti dei materiali di archivio insieme a Jacopo Quadri. Noi ci siamo emozionati lì dove non c'era la maschera ma c'erano le persone che ti dicevano perché erano contente o erano tristi di far parte di quell'ideale. E questo è un aggancio emotivo diretto tra individuo e politica che è quello che manca ai ragazzi.
MD - Intendi i ragazzi di oggi?
AS - L’altro giorno ero in piazza a vedere la manifestazione per la Palestina; era piena di ragazzini di vent’anni con bandiere con falce e martello di otto partiti comunisti diversi.
MD - La sensazione è l’insufficienza di un’analisi (come si diceva una volta...), il difetto di una coscienza.
AS - In questo caso sì. Ma anche in questa frase che hai appena detto - e che io condivido - stiamo un po’ tarpando le ali a una cosa che invece costituisce un'espressione importante, una cosa assolutamente nuova che, seppure consideriamo un po’ debole, non è così debole. Nelle due grandi espressioni dei movimenti giovanili di oggi - il climate change e il transfemminismo - c'è una potenza creativa nuova che non esisteva negli anni ’70, perché il femminismo non era ‘transfemminismo’ e non era questione di genere legata a un'identità variabile, ma era un antipatriarcato puro. Chiaramente il transfemminismo di oggi è figlio del femminismo degli anni ’70, così come il movimento contro il climate change è figlio dell'ambientalismo degli anni ’80. Però si avvertono gli elementi di rapporto con l’identità e con il futuro completamente diversi. Questi ragazzi hanno un rapporto nuovo con la volontà di rendere politica la libertà di genere, difficile da ritrovare negli anni ’70; e una volontà di ricollegare la frustrazione di questa libertà ai meccanismi di potere economico. Individuano nel capitale ciò che produce la mancanza di questa libertà e combattono quello che il capitale ha fatto fino ad ora, ossia fingere che il capitale assicuri la libertà di genere attraverso la società dello spettacolo. In alcuni pride c'è ancora questo abbaglio, c'è ancora la Coca-Cola che ti sponsorizza per fare il tuo ballo in libertà. Invece, in Non Una di Meno e nei pride più consapevoli questa falsità è smascherata e raccontata molto bene; nel movimento contro il climate change invece c'è il rapporto con la certezza di un’assenza di futuro che trasforma radicalmente il pensiero politico e che è proprio l'opposto del Sol dell'avvenire.
MD - Siamo in ogni caso dentro la logica del consumo come idea generale: del consumo dei prodotti dell’industria come quello delle risorse fisiche disponibili. A distanza di oltre cent’anni siamo sempre dentro le logiche della volontà di potenza…
AS - Ci sono dei collegamenti. Quello che non ha avuto un suo sviluppo, perché schiacciato dalla violenza devastante del potere, è il pacifismo, rimasto incastrato dentro al conflitto bellico. I movimento pro Pal non fanno pacifismo, per esempio, per quanto io ovviamente capisca bene i motivi della rabbia dei pro Pal.
MD - Si tratta di una rabbia che sembra esprimersi rinnovando le ragioni del conflitto.
AS - Rispetto al mondo di oggi, la guerra fredda, in confronto, è una passeggiata.
MD - La minaccia incombente, non realizzata, trattiene. Oggi, invece, la violenza si agisce, non si minaccia.
AS - Dovrebbe succedere qualcosa che riesca a riaccendere la potenza del pacifismo. È l'unica cosa che può cambiare l'ordine della potenza bellica di questo momento. È la prima volta che tutti i parlamenti di tutte le democrazie occidentali votano senza nessun problema l’aumento del budget bellico per la produzione di armi.
MD - Se non capisco male, Andrea, mi sembra che proprio il congelamento della passione politica - soprattutto nella gran parte delle generazioni più giovani a partire dagli anni ‘80 e ’90 - abbia costituito l’innesco per il recupero degli anni ’70. È possibile affermare che il film su Berlinguer sia anche il film su una società politicamente più appassionata?
AS - Sì. In realtà, dentro agli anni ‘70 del PCI (ma non agli anni ‘70 del Movimento, che è un altro pezzo enorme degli anni ’70) io ho sentito la connessione fra tre mancanze autentiche dell'oggi; cioè fra tre elementi che oggi non si connettono: la comunità, l’ideale e l'organizzazione. Oggi possiamo avere degli ideali, ma non riusciamo a renderli veramente unitari in una comunità ampia; diventano ideali frammentari. Dall'altra parte, anche se questa comunità cresce, si mantiene separata dalla dimensione dell’organizzazione politica e non sa come influire sul mondo. Questo mi ha interessato molto, non la celebrazione di Berlinguer e del PCI in sé.
MD - Questo mi pare fosse abbastanza chiaro. Tuttavia, il richiamo a quel periodo è pur sempre la rievocazione di un’esperienza di sconfitta: alla fine, il potere (l’iper-potere come dici tu) è sempre più potente delle realtà più piccole e frammentate. Mi domando dove il tuo film pensi di individuare le fonti di energia per tornare a imboccare la strada di un’alternativa, o di più alternative.
AS - Io penso che il racconto degli sconfitti del potere - che però sono consapevoli della violenza e che tentano una reazione, per poi essere ancora una volta bloccati - contribuisca a nutrire il potenziale di reazione di chi subisce il potere senza rinunciare a produrre comunque qualche cambiamento. Il fatto che esistano delle energie di opposizione alle clausure del razzismo e della discriminazione, costantemente perseguiti dalle politiche migratorie, ha intanto salvato la vita a tante persone e riesce a costituire spesso un ostacolo alle cadute peggiori. Si tratta di dinamiche del potere che esistono dalla comparsa dell’uomo in poi.
MD - Quando parli del racconto come antidoto, del racconto delle esperienze di sconfitta come testimonianza dovuta dai contemporanei, mi ricordi Walter Benjamin: la necessità, da lui raccomandata, di contrastare la giurisprudenza dei vincitori, la sua evocazione del simbolo dell’Angelus Novus di Paul Klee, l’Angelo della Storia con il viso rivolto alle rovine del passato nell’atto di ricomporre l’infranto, eppure irresistibilmente attratto dalla tempesta (la ‘tempesta del progresso’) che spira dal paradiso. Benjamin e Foucault sono riserve di pensiero politico che hanno attraversato il Novecento, ma che ancora appaiono capaci di enorme ispirazione.
AS - Del resto, anche il PCI in quegli anni produsse una pressione sociale capace di ottenere miglioramenti: non è che quella storia non abbia ottenuto niente.
MD - Al contrario direi: probabilmente la stagione degli anni ‘70 ha coinciso con una parentesi politica in cui, per la prima volta, la Costituzione ha trovato una sua realizzazione concreta. Penso allo statuto dei lavoratori, all’introduzione del divorzio, alla riforma della famiglia, all’aborto, alla riscrittura del governo della scuola in senso partecipativo, al servizio sanitario pubblico, alla riforma delle carceri e all’abolizione degli ospedali psichiatrici, insomma alle grandi conquiste politiche e civili di quegli anni straordinari. Tutto questo mi fa pensare che solo la passione politica - come forma di energia collettiva - è in grado di concepire e realizzare concretamente conquiste autenticamente ‘popolari’, utili alla gente.
AS - Stavo arrivando proprio al termine popolare: il vero punto è che in fondo quello che io racconto è sempre il popolo, cioè il soggetto passivo del potere, tendenzialmente è la classe privilegiata (il cardinale/il re/il grande imprenditore) che tende a passivizzare il suddito/cliente/consumatore e a fargli credere che stando con lui starà meglio.
MD - Sono tecniche antiche…
AS - Nel momento in cui esistono dei movimenti, delle pressioni al cambiamento che invertono questo rapporto e dicono al popolo «no, non devi accettarlo, perché hai altri diritti, altri spazi, altre possibilità, altre felicità», questo produce dei cambiamenti strutturali potenti. Per fare questo ci vogliono convergenze, figure, idee, organizzazioni veramente forti.
MD - Pensi che all’arte spetti questo compito, questo racconto, questa sollecitazione?
AS - L’arte può collaborare. Svelare la sudditanza del popolo e dire che il popolo ha il diritto di prendersi dei diritti anche attraverso la consapevolezza della fatica di rovesciare il potere; credo che l’arte possa aiutare a dire questo. In questo senso, il termine popolare è veramente un termine importantissimo. Quando Berlinguer parla delle «masse popolari» intende questo. «L’alleanza tra le masse popolari» è il sovvertimento dell’ordine delle cose.
MD - Siamo all’esatto contrario del populismo: un sottile crinale che fa una differenza enorme: dove il popolo, da soggetto della trasformazione, ne diviene propriamente l’oggetto.
AS - Qui bisogna fare attenzione: il termine ‘populismo’ viene utilizzato (infiltrato) dal potere per sminuire il ruolo del popolo. La conseguenza delle denunce del populismo facilmente si traduce nell’affermazione secondo cui il popolo è scemo e noi intellettuali di sinistra - utilizziamo pure questa categoria…
MD - …logora…
AS - … sì, logora - cadiamo nel rischio istintivo di dire «quelli che votano Trump sono scemi» perché lui è un populista e usa il popolo come oggetto passivo e loro gli vanno dietro. Tendenzialmente poi il popolo si sente autorizzato a votare Trump e ad essere scemo. Il termine ‘popolare’ sta ricrescendo molto in Francia, ad esempio. Facendo una ricerca per il nuovo documentario che sto pensando di fare ho visto che questo termine (l’azione popolare, l’ecologia popolare, la giustizia popolare, il movimento popolare per le case, il Nuovo Fronte Popolare) sta ritornando con un suo valore e credo che sia molto importante farlo ritornare perché è l’unico vero modo per dire che è lì, in quelli che oggi pensiamo si stiano facendo fregare, che stanno tutte le energie necessarie, non possono stare soltanto nei salotti, nelle università o nelle case dei registi.
MD - Questo è il grande problema: trattiamo, anche qui, temi importanti e delicati entrando in un dialogo utile anche con riferimenti essenziali della nostra storia culturale (Foucault, Benjamin, Klee); e questo, in forme che possono apparire anche molto autoreferenziali (l’intellettuale di sinistra, il radical chic… secondo l’intollerabile linguaggio che gira intorno): non lo vedi il rischio che l’arte e la cultura continuino a rimanere inaccessibili alla maggior parte del popolo? O, addirittura, un interesse specifico a lasciare che il popolo rimanga lontano da una comunicazione artistica o culturale che non sia di mera evasione o di consumo?
AS - Ci sono alcuni segnali di contrasto. Uno su cento inizia a essere popolo. Anche altri segnali come, ad esempio, un film intelligente come Il ragazzo dai pantaloni rosa, ma anche l’exploit dei film di Cortellesi o di Garrone. Comunque c’è una volontà, uno spazio per un cinema, diciamo, di attenzione civile che pone delle domande, che, nel mio caso, è cinema politico e negli altri due casi lo sfiora; un cinema che dice «attenzione, che nel popolo c’è un desiderio di essere attraversati da una consapevolezza e da una voglia di attivazione finora sopite». Ricordiamoci che il 40% delle persone non va a votare. C’è un pezzo molto grande di addormentamento, che tuttavia rimane in attesa. E poi si articola in varie esperienze di piccole comunità frammentate che non si organizzano per diventare politica. Io giro l’Italia con grande piacere con i miei film e in ogni città trovo sempre delle comunità che si organizzano, che tentano un’azione. E queste comunità non sono borghesi.
MD - Se le energie popolari intercettate dal cinema (dall’arte o, comunque, dalla cultura) non riescono a trovare uno sbocco politico in una proposta organica, la responsabilità storica della sinistra è enorme. Comincio a pensare che l’idea che vengano distrutti sistematicamente progetti politici di emancipazione non sia tanto un caso: non sarà che c’è qualcosa che lo rende inevitabile?
AS - Sicuramente la sinistra ha rinunciato a essere autenticamente popolare. Anche il solo fatto che abbiano chiuso più di seimila case del popolo è una follia. Perché l’hanno fatto?
MD - Se non ricordo male quel tuo funzionario che andava in Libia a trattare sull’immigrazione era un funzionario di un governo di sinistra, non era forse la sinistra che pagava la Libia per tenersi la gente?
AS - In quel caso era la sinistra, ma lo hanno fatto tutti. Quando lo ha fatto Minniti erano tutti contenti, perché così si fermava la destra facendo una cosa più cattiva della destra.
MD - Questa è la strada che porta alla distruzione.
AS - Varie persone mi dicevano «perché hai fatto un film contro Minniti?», ma io ho iniziato a farlo ben prima, ho iniziato a scriverlo nel 2014 ed è uscito nel 2017.
MD - In realtà, poi, un film, come qualsiasi opera d’arte, non è mai un resoconto di quello che succede.
AS - Però uscì in contemporanea a quei fatti di cronaca.
MD - Sembrava fatto apposta…
AS - La gente ha pensato che fosse fatto apposta per attaccare Minniti, e anche gente, diciamo, di sinistra mi diceva «ma perché hai fatto un film contro Minniti proprio adesso? L’unica possibilità per fermare la destra…», questo era il ragionamento. Se arrivi a questo punto sei veramente disperato, se arrivi a pensare che mettersi d’accordo con le milizie che ammazzano le persone nei lager è il modo per fermare la destra stai proprio lontanissimo.
MD - Sono quelle idee che lasciano pensare all’UR-fascismo, al ‘fascismo oggettivo’ che va al di là del fascismo storico, di cui parlava Umberto Eco. E che mi pare taglino trasversalmente la destra e la sinistra politica. A me sembra che dietro questi rigurgiti di fascismo (nel rifiuto, in forme anche violente, del cambiamento, della diversità) ci sia un grande rimosso, che solo apparentemente è privato o domestico. Si tratta del rimosso della donna come figurazione della disfunzionalità, della distruzione, della destabilizzazione. Il fatto che la donna pretenda di sottrarsi ai vincoli dei suoi ruoli antichi di madre, moglie e custode del focolare domestico, sembra generare un rifiuto (quasi) istintivo, non sempre consapevole, ma realissimo. Niente aborto, ma anche - contraddittoriamente - niente lavoro possibile per le donne-madri: la società competitiva è inadatta a qualunque inserimento sociale decente della donna. Non parliamo dell’intolleranza nei confronti dell’omosessualità (come si scorge con evidenza nel rifiuto di farne la radice di un progetto di comunità familiare) o dei percorsi di transizione di genere. Mi sembra che al fondo di questa sotterranea (ma riconoscibile) ostilità all’abbandono della famiglia classica vi sia un grande rimosso. La società sembra accettare con riluttanza (quasi con un senso tragico) l’idea che la donna (simbolo antropologico della diversità) possa condividere con l’uomo una nuova idea di soggettività (mi pare che il recentissimo Conclave di Edward Berger - altro regista degli anni ’70 - abbia còlto con una certa precisione questo aspetto). Copernico ha tolto all’umanità la centralità nell’universo; Darwin, la centralità tra le specie animali; Freud la centralità della coscienza. Prima che l’intelligenza artificiale compia la sua quarta rivoluzione, la crisi sembra attraversare l’umanità al suo interno, nell’ultima resistenza del maschio all’idea di non essere più padrone in casa sua. Si tratta cambiamenti antropologici profondissimi e radicali: non pensi che anche il rifiuto di questo cambiamento, la conservazione della società patriarcale (l’ultimo disperato tentativo di salvare qualcosa di un’identità morente), sia uno degli elementi psicologici più profondi di questo ritorno dell’UR-fascismo?
AS - Ci sono delle cose che riconosco. Forse sono ottimista nel vedere la potenza modificante della nuova generazione. E tu dirai: «ma cosa stai dicendo, Giulia Cecchettin è di una nuova generazione ed è stata uccisa dal fidanzato!». Però mi sembra che questo rapporto uomo-donna, che conferma certamente una direzione di presenza di fascismo e di patriarcato dentro alla famiglia e alla società, non abbia spazio dentro alla generazione di mia figlia che ha vent’anni. Mi sembra veramente impossibile che abbia spazio dentro di loro, però forse è un mio ottimismo. È talmente tanto potente la loro necessità di sentire riconosciuta come inestricabile la mia libertà di essere quello che voglio da un punto di vista anche sessuale e di genere che non capisco come possa attecchire questo fascismo maschilista di cui tu parli.
MD - Tuttavia, le proposte politiche di conservazione culturale (non voglio parlare sempre di fascismo) sembrano riscuotere enormi consensi un po’ dappertutto, non solo in Italia: pensa alla Germania, alla Francia, agli Stati Uniti.
AS - Sì, ma non per questa questione, ma per la paura dell’altro.
MD - Ma non si tratta sempre - quanto all’immigrato, allo straniero, così come al disabile, all’omosessuale - di altre figure della diversità, che la donna, da sempre, rappresenta antropologicamente?
AS - In realtà, io credo che sia stata la potenza del movimento dei popoli a fornire occasioni e nuove energie ai fascisti. Quando io presentai il mio primo progetto di documentario sulla Libia in Rai mi dissero: capiamo la tua emozione per questa povera gente, ma è una cosa temporanea di cui pochi si occupano. Era il 2008. Si pensava che fosse un fenomeno transitorio. Non pensavano che fosse l’inizio di una trasformazione globale gigantesca.
MD - La realtà è che se non si acquista questa prospettiva più ampia, se non si comprende che il fenomeno migratorio ha radici storicamente e culturalmente profondissime (benché molto precise), non si riuscirà mai ad elaborare politiche adeguate. Ancora una volta: non sarà che c’è qualcosa che rende inevitabile quest’incapacità?
AS - Essendosi preparati a questa cosa solo con lo sguardo miope dell’umanitario (poveretti, dobbiamo salvarli) - qualcosa che, ovviamente, va comunque tutelato dall’aggressione dei razzisti - saremo sempre deboli e perdenti. Uno dei libri fondamentali dei miei studi è Lo spettacolo del dolore di Luc Boltanski: un libro di socio-semiotica che mi ha illuminato. Nel momento in cui raccontiamo una persona come vittima stiamo facendo la stessa cosa di quando la raccontiamo come nemico; la stiamo passivizzando, oggettivizzando e trasformandola in una cosa utile solo a una nostra direzione morale.
MD - Questo è un po’ l’effetto di quella tradizionale confusione che spesso si fa tra carità e solidarietà.
AS - Aver reagito a questo cambiamento globale gigantesco per cui per mia figlia oggi che io dica «quel bar è gestito da cinesi» o «in trattoria, in cucina c’è un bengalese» non è più una notizia, dieci anni fa lo era. È inevitabile che questo crei scompensi. Aver reagito a questo, non con una progettualità politica di integrazione, ma soltanto attraverso l’umanitarismo di eroi alla Mimmo Lucano o Gino Strada non ha funzionato.
MD - Torno a dire: non posso credere che una forza di sinistra non sia realmente in grado di gestire l’immigrazione in maniera corretta e funzionale a una fruttuosa integrazione (o ‘interazione’ come direbbe Gustavo Zagrebelsky) tra comunità di provenienza culturale e geografica diversa; che non abbia ancora avuto la capacità e le energie morali e culturali per sollecitare studi avanzati e progetti raffinati capaci di fare questo.
AS - L’altro giorno parlavo con il giovane segretario della CGIL di Mestre e lui mi ha raccontato che, quattro anni fa, a un certo punto ha detto: «andiamo alla Fincantieri, troviamo tre operai bengalesi e iniziamo a costruire dei delegati stranieri perché non ha nessun senso che noi siamo a Mestre e non abbiamo delegati stranieri». E tutti gli hanno detto: «ma come farai?». Ebbene, ci è riuscito e oggi hanno cinquecento delegati di venticinque nazionalità diverse. È un lavoro enorme. Ma d’altronde quanto enorme era il lavoro che in passato hanno dovuto fare il movimento operaio e socialista, i sindacati, etc. La sinistra non ha capito che questa trasformazione epocale e irreversibile del movimento dei proletari di tutto il mondo era una cosa di cui occuparsi profondamente e non lasciarla alle ONG o ai santi.
MD - Da quello che dici mi sembra di intuire, nel tuo pensiero, un barlume di ottimismo, che io scorgo nella fiducia (non nell’ordine ma) nella forza delle cose. Alla fine, la ‘forza delle cose’ (per riandare a Simone de Beauvoir) è tale che qualunque ordine non potrà resistere, per cui occorre prepararsi anche politicamente a questo. Sei d’accordo?
AS - Sì. C’è un mio libro che esce in questi giorni si chiama Scritti mediterranei, sono quindici anni di appunti lungo la frontiera di un ragazzo giovane che inizia a muoversi dentro quelle storie e prova a raccontarle. Sono questi diari lungo la frontiera che ho deciso di intervallare con dei momenti di respiro dove racconto la vita di mia figlia più piccola, che ha sei anni e vive all’Esquilino a Roma. Mentre l’Europa e il mondo costruiva la follia antidemocratica e disumana delle politiche migratorie costruendo i germi del fascismo – perché abituare la gente all’idea che sia normale chiudere altri esseri umani in un lager o affondarli per fermarli significa far crescere il germe del fascismo, dire «sì, sappiamo che muoiono, ma così si fermano» è dire che è normale che altri esseri umani per la tua libertà muoiano, quindi trasformandosi in fascisti - nel frattempo, la società in cui cresce mia figlia è inevitabilmente frutto dei movimenti di emancipazione cresciuti in questi anni, perché i movimenti trovano altre strade. Purtroppo, passando attraverso morte e discriminazione, però trovano altre strade e dunque contribuiscono a costruire un cambiamento anche dentro alla violenza e alla fatica del rapporto con il potere. Anche solo il fatto che per mia figlia sia normale giocare al parchetto con bambini di sette nazionalità diverse è un pezzo di quel cambiamento.
MD - È certamente un dato di partenza. Per chiudere con una nota (solo apparentemente leggera) ho letto una battuta di Nanni Moretti secondo cui tu, negli anni Settanta, avresti combattuto il compromesso storico. Mi pare un’affermazione che sembrerebbe addirittura attribuirti un’identità ‘rivoluzionaria’. Peraltro, io credo che oggi Nanni Moretti non girerebbe più Io sono un autarchico o Ecce bombo; oppure, probabilmente, li girerebbe in modo diverso. Che ne pensi?
AS - Non riesco a capire se io lo sminuisco e sbaglio. Io ho visto due elementi positivi in quella provocazione. In primo luogo, che questo è un film non fatto dalla sua generazione, ma dalla nostra. Questo ha aiutato il film. Non è la celebrazione di una cosa che loro hanno vissuto e adesso ci dicono quanto era bella. L’altra parte positiva è che questo film non è fatto da berlingueriani duri e puri, ma da persone che non si sono neanche chieste se io fossi berlingueriano o meno. È un tipo di rapporto diverso con quella storia. Piuttosto, da quello che mi dici (ma anche da quello che mi hanno detto altre persone) devo forse dedurre che lui volesse rimproverarmi la celebrazione di una figura non proprio così edificante?
MD - No, affatto. Io credo che Moretti fosse berlingueriano all’epoca e che fosse piuttosto polemico nei confronti di quella parte della generazione degli anni Settanta che nei suoi film veniva rappresentata – vado per slogan – con quelle posture un po’ bohémien, da rivoluzionari inconcludenti, un po’ oblomoviani, da lui totalmente rigettate. Quindi io penso che Moretti fosse senz’altro berlingueriano. Io, peraltro, me lo ricordo bene Berlinguer: moltissime persone lo consideravano un traditore.
AS - Non so se dalla gran parte delle persone.
MD - Da un bel pezzo sicuramente.
AS - Da un pezzo rilevante soprattutto di generazioni un po’ più giovani di lui, ma da un punto di vista strettamente storico lui ha scritto l’articolo sul Compromesso storico nel ’73 e nel ’75-’76 il PCI ha avuto il massimo storico dei voti. Che la sua idea non fosse perdente è certificato da quello. La bestia che gli si infila in mezzo è Andreotti.
MD - Tu dici Andreotti, ma certamente non solo lui…
AS - Secondo me lì Berlinguer ha sbagliato ad accettare il governo con Andreotti, doveva provare a giocare un po’ più alto; è chiaro che ha avuto paura delle BR che erano entrate, in modo molto violento, anche nel suo mondo. Questo è un altro racconto che in Italia non abbiamo avuto il coraggio di fare. Non abbiamo mai fatto il racconto di chi erano le BR, non quelle di Curcio, ma quelle di Mario Moretti, dal ’75 in poi. Si va dentro alla materia grigia dello stato. Non esiste un film su questo.
MD - Può essere un’idea utile per il tuo lavoro. Le BR furono in primo luogo certamente degli assassini. Autoproclamarsi un’avanguardia rivoluzionaria in una società che pure stava facendo grandi passi avanti sulla strada della democrazia politica - e senza neppure accorgersi della distanza che li separava dalla gente comune - fu ingenuo, miope e, da ultimo, criminale.
AS - L’altro film che non abbiamo mai fatto è il rapporto tra MSI e Ordine nuovo dal ’69 in poi.
MD - E i servizi deviati…
AS - Io penso che il Compromesso storico fosse stato ben capito dal popolo, perlomeno dalle Case del popolo e da un pezzo di mondo cattolico. I comunisti andavano a messa, certo non tutti, ma non c’erano dodici milioni di atei. È questo che ha agganciato la proposta del Compromesso storico a quel risultato elettorale.
MD - Quella società non esiste più.
AS - Quando Berlinguer ha iniziato a fare l’accordo con Andreotti, Moro l’ha fatto rosolare dentro quell’accordo finché poi non si è reso conto che la situazione era troppo grave e ha provato a bloccarla; quella situazione grave era diventata più potente di lui e l’ha ucciso, l’errore è stato quello. Lui doveva alzarsi da quella scena del dialogo con Andreotti e dire «io non ti voto».
MD - Non pensi che fosse un errore non lavorare per la liberazione di Moro?
AS - Era già troppo tardi.
MD - E forse anche pericoloso.
AS - Lui capisce, quando viene sequestrato Moro, che ha sbagliato a cercare il dialogo con Andreotti e quel pezzo di potere: era troppo. Doveva essere il nemico da scardinare per poi convincere pezzi di DC a staccarsi.
MD - Compito immane…
AS - Tanti pezzi di DC si sono staccati e hanno creato delle liste a parte, hanno iniziato a sostenere sindaci socialisti, stava succedendo nel paese. A livello nazionale era un’altra storia.
MD - Non si è mai battuto abbastanza sul ruolo di Craxi nel rapporto tra il PCI e la DC: fu un agente strategico.
AS - Sarebbe un altro film da fare, dopo il ’79, ma non credo che farò un sequel.
Le ultime battute della conversazione con Andrea Segre lasciano emergere un vago sentimento di rammarico per le storie che non sono state (ancora) raccontate e per quelle che (forse) non lo saranno mai.
Davvero il tempo ‘antimoderno’ richiesto dalla scrittura, parrebbe ritagliare i limiti che segnano la forma di ogni possibilità creativa. E tuttavia, rimane ancora il tempo delle brevi sospensioni, dello scarto dalle consuete premure e dell’inattesa fortuna di un incontro.
Immagine: Paul Klee, Angelus Novus, olio e acquerello su carta, 1920, Museo d'Israele, Gerusalemme.
Su Questa Rivista, si veda Berlinguer - La grande ambizione. Recensione di Giovanni Zaccaro.
Non ho letto il libro, ma ho visto il film
Sono ancora tra noi. Recensione a M il figlio del secolo
di Morena Plazzi
Non ho ancora letto M il figlio del secolo di Antonio Scurati, il primo dei quattro libri che ricostruiscono, con grande capacità narrativa, la vita di Benito Mussolini dai primi anni del ventesimo secolo fino a piazzale Loreto.
Ho visto, anzi sto seguendo la serie televisiva attualmente in onda su Sky che tratta dal primo di questi quattro libri, e di questo voglio parlare. Sono arrivata a metà di quella che, più che serie televisiva sarebbe da definire una lunga opera cinematografica che si svilupperà in 8 puntate; ne scrivo ben sicura che non vi siano rischi di “spoilerare” il tragico finale che a tutti è ben noto.
Probabilmente meno nota o meglio meno raccontata è la nascita del fascismo, a partire dai Fasci Italiani di combattimento: un pezzo della nostra storia narrata da Antonio Scurati attraverso la persona di Benito Mussolini e ora tradotta, con un lavoro di regia di qualità decisamente notevole, nelle mirabolanti scene della serie televisiva.
Vengo al punto: non ho letto i libri forse perché li avevano già letti in tanti e quindi ne avevo sentito già tanto parlare, rinviando quindi il momento in cui mi ci sarei impegnata ed anche per questa serie televisiva, pure preceduta da recensioni estremamente positive dopo la proiezione al Festival del Cinema di Venezia, nutrivo qualche dubbio per una campagna promozionale molto incentrata su dichiarazioni di Luca Marinelli, l’attore che interpreta Mussolini, sulla sua difficoltà o chiamiamola così sofferenza nell’affrontare quel ruolo; sentendolo ripetere tante volte mi dava l’idea di una manovra pubblicitaria, un po’ esasperata, che mi induceva più ad allontanarmi che avvicinarmi al prodotto.
Riserve e dubbi che sono stati impetuosamente superati dall'impatto con una esperienza visiva e sonora assolutamente diverse dal solito, non solo perché decisamente superiori nella qualità tecnica ma perché capaci di condurre, attraverso lo strumento tecnico, dritti al pensiero.
E così, pur con la difficoltà che deriva dalla visione di scene esplicitamente violente, ci si ritrova, o almeno è andata così per me, in una rappresentazione della nascita del fascismo impregnata di sangue e scandita dal passo militare delle camice nere; tutto questo accompagnato da un'ambientazione visivamente davvero particolare, con un uso di colori e scenari molto scuri, ma di un nero che vira al giallo, di ombre che prevalgono sulla luce, di inserzioni e di immagini che sembrano d'epoca ma non lo sono, ed altre che sono proprio spezzoni originali, e si sovrappongono perfettamente all’attuale, con un montaggio serrato nell’avvicendarsi di momenti privati e pubblici, a catturare inesorabilmente l'attenzione di chi è spettatore, ma anche risucchiato nel procedere della storia.
Infine, alla fine di tutto, sei per necessità costretto a fermare il pensiero su quello che hai visto, ti vedi forzato a ragionare su quanto davvero sai della nascita del fascismo. Non si può fare altro perché quello che hai appena visto narrare, lo sai, è riproduzione pirotecnica della storia del tuo Paese. I miei nonni abitavano l’Italia, in quegli anni, e ben presto seppero chi erano i fascisti. È la storia delle condizioni che hanno creato e favorito quel regime, di chi ha scelto, pensando fosse tale, il quieto vivere, e di quelli, pochi, che opponendosi caddero.
La serie è in 8 episodi, e si concluderà, tra due settimane, con l’omicidio Matteotti ed il discorso in Parlamento di Mussolini del 3 gennaio 1925[1], la data di nascita del regime fascista. Seguirò questi episodi fino alla fine, non c’è dubbio: assistere alla nascita del regime puntando su figure e personaggi che nella loro eccessività ci spingono a riflettere, seriamente, su quello che accadde, è il filo conduttore di questa serie televisiva.
È impossibile ignorare, in questo racconto, la parola come incitamento alla violenza, l'indifferenza ai destini delle vittime, la spinta ad avanzare, a qualsiasi costo.
Rifulgono, nel racconto, la debolezza, la miopia e l'incapacità della politica ufficiale di leggere e comprendere fino in fondo quello che il movimento fascista stava preparando, benché esso fin dal primo ingresso in Parlamento manifestasse senza censure l’insofferenza per ogni regola democratica, l’avversione per le istituzioni nelle quali era entrata con l’aiuto di Giolitti, immediatamente sfiduciato.
L’ambizione e la sfrontatezza della persona, la carambolesca capacità di dire qualunque cosa ed il suo contrario, il sostegno di un capitale spaventato dai socialisti, la falsa rassicurazione per i timori sorti nella “pancia” piccolo borghese italiana.
Tutto questo, con ritmo incalzante, sottolineato da una colonna sonora che porta la firma di Tom Rowlands (Chemical Brothers) ci arriva attraverso lampi tra luce e buio, attraverso frenetiche conversazioni, nel passaggio dall'italiano forbito, agli inni fascisti, alle espressioni dialettali tra Mussolini e la moglie Rachele.
E poi, quella che i tecnici chiamano “la rottura della quarta parete”, espressione derivata dal teatro dove la quarta parete è immaginata come il confine invisibile tra gli attori sul palco ed il pubblico. Nel cinema questa barriera una volta che viene rotta crea un'interazione diretta fra il protagonista e lo spettatore che viene così investito del pensiero, dei retroscena, dei dubbi financo del protagonista.
Se fosse una storia di sola fantasia (come non pensare al cattivissimo Frank Underwood di House of Cards?) si potrebbe anche correre il rischio di creare un rivolo di simpatia per il protagonista; non è così, non può essere così con il dittatore fascista. Al contrario, è solo l’ulteriore svelarsi del progetto di scalata al potere assoluto, dittatoriale, di Benito Mussolini e questo rende impossibile ogni forma di empatia con l’istrionico Marinelli.
Forse perché lui stesso ti avvisa: «Mi avete amato follemente. Per 20 anni mi avete adorato e temuto come una divinità, e poi mi avete odiato follemente perché mi amavate ancora. Mi avete ridicolizzato. Scempiato i miei resti perché di quel folle amore avevate paura. Anche da morto. Ma ditemi a che cosa è servito. Guardatevi intorno. Siamo ancora tra voi.»
[1] Su questa rivista, nell’anniversario: 3 gennaio 1925. Un triste ricordo che deve illuminare il presente di Enrico Manzon.
Il punteggio equalizzato per l’immatricolazione ai corsi di laurea in Medicina, Chirurgia e Odontoiatria (nota a Cons. di Stato, Sez. VII, 4 ottobre 2024, n. 8005)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. La vicenda giuridica – 2. Le questioni preliminari – 3. L’iter concorsuale – 4. Il punteggio equalizzato - 5. Il diritto allo studio - 6. Il giudizio di primo grado - 7. La decisone del Consiglio di Stato - 8. Considerazioni conclusive
1. La vicenda giuridica
La sentenza in commento interviene sul tema delle modalità d’ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso degli aspiranti medici che, puntualmente, ogni anno, genera un considerevole contenzioso[1].
Nel caso specifico, il Consiglio di Stato si è occupato della questione attinente ai criteri valutativi utilizzati all’interno delle prove d’esame necessarie per accedere ai Corsi di laurea in Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, indette con Decreto del Ministero dell’università e della ricerca del 24 settembre 2022, n. 1107.
Il candidato, in ragione del punteggio ottenuto nella graduatoria unica nazionale, non utile ad immatricolarsi in una delle sedi universitarie prescelte, ha agito in sede d’appello in via principale, dopo che in primo grado l’impugnazione era stata parzialmente accolta (Tar Lazio, sede di Roma, Sez. III, n. 863/2024)[2], pur non disponendo nulla circa la sua ammissione ai corsi di laurea in sovrannumero, oltre a non aver ordinato la ripetizione della prova.
Il giudizio si perfezionava con gli atti di costituzione degli enti resistenti - Ministero dell'Università e della Ricerca, Presidenza del Consiglio, diverse università ed il Consorzio interuniversitario sistemi integrati (Cisia) - e delle parti private che, per quanto di rispettivo interesse, hanno appellato la sentenza di primo grado in via incidentale contestando l’accoglimento del ricorso nel merito e censurando la mancata dichiarazione di inammissibilità per carenza di interesse ad agire, in ragione del mancato superamento della prova di resistenza e per non avere dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero della salute.
2. Le questioni preliminari
Il Collegio, prima di entrare nel merito della vicenda, ha analizzato le questioni preliminari concernenti l’interesse ad agire del ricorrente e la legittimazione passiva delle amministrazioni pubbliche governative diverse dal Ministero dell’Università e della Ricerca.
Tali eccezioni, devolute in secondo grado a mezzo di appelli incidentali, non sono state ritenute fondate. Il Consiglio di Stato ha asserito quanto già disposto dal Tar e, relativamente al primo profilo, ha ritenuto superato il vaglio della prova di resistenza[3], considerata non già un mero adempimento formale quanto piuttosto un vero e proprio onus probandi che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., grava sulla parte ricorrente ed incide sulla sussistenza, o meno, dell’interesse ad agire in giudizio.
Ha poi sottolineato come le censure mosse hanno riguardato non solo i motivi di impugnazione dell’intera procedura concorsuale, ma anche quelli relativi alla prova d’esame. Dunque, dall’accoglimento di una o dell’altra censura si sarebbe certamente ottenuto il medesimo effetto: la reintegrazione del ricorrente nella chance di conseguire il bene della vita perseguito, dato dall’immatricolazione in un corso di laurea a numero programmato nell’anno accademico 2023-2024[4].
Quanto alla censura relativa alla qualità di «pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato», ai sensi dell’art. 41, comma 2, cod. proc. amm., le parti resistenti hanno ritenuto la chiamata in giudizio della Presidenza del Consiglio dei ministri superflua in quanto amministrazione a cui non è ascrivibile una diretta paternità degli atti. Nondimeno, per il secondo decisore, tale considerazione non doveva essere intesa in senso restrittivo, poiché la Presidenza seppur non abbia emanato direttamente gli atti impugnati, ha certamente contribuito a riceverne gli effetti in quanto amministrazione concorrente alla loro formazione o comunque coinvolta nell’iter procedimentale degli stessi, a mezzo di atti presupposti, consequenziali o connessi e utilizzati nella fase programmatoria del fabbisogno professionale del settore sanitario[5]. Da tale base è, poi, stata stabilita l’offerta annua di posti per relativi corsi di laurea, i cui atti sono stati impugnati con il ricorso di primo grado unitamente a quelli della prova di ammissione, con motivi riproposti con l’appello principale.
Inoltre, aggiunge il giudice, le amministrazioni hanno manifestato il proprio interesse a resistere[6] già con la costituzione nel giudizio di primo grado e, poi, con gli appelli incidentali autonomi, il tutto a dimostrazione che le medesime hanno riconosciuto a pieno il ruolo di parte resistente e di essere destinatarie delle domande di annullamento proposte nei loro confronti.
3. L’iter concorsuale
Superati i profili preliminari, conformi al primo grado di giudizio, appare opportuno effettuare una breve disamina della vicenda concorsuale. Nella sentenza oggetto di gravame, il giudice di prime cure, si era espresso per l’illegittimità del criterio posto alla base dell’attribuzione del punteggio previsto dalla normativa concorsuale inserita nel citato decreto d’indizione delle prove. Tale atto ha previsto che per l’anno accademico 2023/2024 l’ammissione dei candidati[7], sarebbe avvenuta a seguito di superamento di apposita prova d’esame cd. TOLC (acronimo di Test OnLine Cisia) quale strumento utile a determinare i punteggi dei candidati da far, poi, confluire nel procedimento di formazione delle graduatorie di accesso ai corsi a numero programmato nazionale. Sono stati ammessi a partecipare ai TOLC, ai fini dell’accesso ai corsi di laurea, i candidati iscritti al quarto o al quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado italiane o quelli che erano in possesso di un diploma rilasciato in Italia da un istituto di istruzione secondaria di secondo grado.
La gestione della procedura selettiva è stata affidata al Consorzio Interuniversitario Sistemi integrati per l’accesso (per l’appunto il Cisia), ovvero organo di orientamento universitario e soggetto giuridico cui deve essere attribuita la paternità del nuovo modello scientifico stante alla base del criterio di selezione per le immatricolazioni. Non a caso le censure più rilevanti mosse dall’appellante, sia in primo che in secondo grado, riguardavano la modalità di attribuzione dei punteggi delle prove che, per tale sessione, si sono caratterizzate per l’utilizzo di un sistema “equalizzato”, predisposto dal Cisia e adottato dal Ministero competente[8].
Vi è da precisare che per l’annualità 2023 le sessioni propedeutiche all’ammissione ai corsi di laurea sono state fissate nel mese di aprile e nel mese di luglio e hanno avuto luogo secondo modalità e tempi definiti dal calendario adottato con decreto della competente Direzione generale del Ministero: ai fini della formazione delle graduatorie di accesso ai corsi di laurea a numero programmato nazionale disciplinati dal predetto decreto è stato utilizzato, su istanza del candidato, il miglior punteggio ottenuto nelle due sessioni disponibili per l’anno accademico 2023/2024.
Per ciascuna sessione dei TOLC la somministrazione dei test è stata effettuata in presenza, presso la sede scelta dal candidato all’atto della iscrizione alla prova. I test sono stati erogati per ciascun candidato, mediante la piattaforma informatica Cisia, in apposite postazioni, predisposte dagli atenei secondo le modalità definite con successivo decreto della competente Direzione generale del Ministero. Successivamente, i candidati hanno presentato la domanda di inserimento in graduatoria, ai sensi della lettera b) dell’art. 5 del citato D.M. n. 1107/2022.
Per quanto riguarda la strutturazione dei quesiti, le prove erogate nelle due sessioni hanno riguardato argomenti relativi alle sezioni di cui all’allegato 1 al D.M. n. 1107/2022[9], il test TOLC è stato sostenuto in una qualsiasi sede scelta dal candidato all’atto dell’iscrizione, anche se diversa da quella in cui il candidato si sarebbe poi immatricolato.
Ricostruito l’iter concorsuale, è d’obbligo analizzare la metodologia utilizzata per il calcolo dei risultati delle prove degli aspiranti medici: il punteggio equalizzato, strumento dichiarato capace di «misura(re) la difficoltà della prova», ed ottenuto secondo il «modello scientifico e il sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati», enunciato nell’allegato 2 al decreto ministeriale richiamato[10].
4. Il punteggio equalizzato
Il MUR con l’introduzione del modello scientifico del sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati[11], si è posto come obiettivo quello di avere un indicatore capace di armonizzare la facilità delle prove[12] e parametrare le risposte fornite in ragione della difficoltà (o facilità) di ciascun quesito[13], estratto da una banca dati previamente formata e composta da 1700 quiz.
L’obiettivo perseguito era quello di porre i candidati in condizioni di parità[14], nella prevista prospettiva della ripetibilità della prova stessa oltre che della diversità dei quesiti che la compongono. A tal proposito, per ogni quesito è stato misurato il relativo livello di difficoltà, attraverso l’attribuzione di un coefficiente di facilità fondato su un criterio di carattere statistico, incentrato sulla media dei punteggi registrati nella prima sessione, ovvero quella di aprile (ridenominata in base alla normativa concorsuale «periodo di calibrazione»). La somma dei coefficienti di difficoltà dei quesiti di cui si è composta ciascuna prova è stata poi sottratta dal valore massimo ottenibile in base alle risposte esatte (50) e il risultato così ottenuto è stato infine aggiunto al punteggio risultante dalle risposte date dal candidato.
Ciò posto, le modalità di funzionamento e di valutazione sono state puntualmente descritte nel D.M. n. 1107/2022 che, nella sezione apposita relativa alla valutazione delle prove con punteggio equalizzato, stabiliva come «Il punteggio che viene assegnato al partecipante, detto punteggio equalizzato, è ottenuto sommando il punteggio ottenuto dal partecipante con le risposte date ai quesiti, detto punteggio non equalizzato, e un numero che misura la difficoltà della prova, chiamato coefficiente di equalizzazione della prova».
È comprensibile come tale meccanismo, utilizzato per la prima volta nella sessione in narrativa e caratterizzato da una forte vocazione matematica, sia stato oggetto di pesanti censure. Non a caso entrambe le difese, di ambo i lati, sono state affiancate da relazione tecnica a sostegno delle diverse tesi. Parte appellante ha contestato la funzione uniformatrice auspicata dall’amministrazione in quanto tale criterio, a suo dire, era stato capace di alterare la par condicio tra i concorrenti[15] venendo meno al suo fine dichiarato di armonizzare la prova.
5. Il diritto allo studio
Compresi i principali profili di merito attinenti alla metodologia utilizzata per la scelta dei candidati
più validi, di natura strettamente tecnica e forse poco utile a far comprendere, in tale sede, gli interessi posti in gioco, è necessario descrivere la più ampia cornice del diritto allo studio[16], ove deve essere calata la presente vertenza.
Il punto cardine della materia, a livello nazionale, è certamente quello rinvenuto all’interno del dettato costituzionale pacificamente individuato nell’art. 34 Cost., che sancisce come «la scuola è aperta a tutti», e prosegue con la previsione dell’obbligatorietà e gratuità dell’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni (co. 2) e del diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi (co. 3) e chiude gravando la Repubblica del compito di rendere effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso (co. 4) [17].
Ai fini del presente commento occorre soffermarsi, in particolar modo, sul co. 3 dell’art. 34 Cost., ove si configura un sistema utile a garantire la meritocrazia dei più capaci, aldilà della propria condizione di partenza[18] al fine di garantire il principio d’uguaglianza, in ossequio all’art. 3 Cost., co. 2, oltre quanto previsto all’art. 9, co. 1, ove è dichiarato che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica».
Ulteriori disposizioni costituzionali vengono, poi, richiamate dallo stesso Tar Lazio nella sentenza di primo grado e poi riformata dalla pronuncia in commento: «Tali previsioni non soltanto attuano il principio personalistico (art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”), ma si rivelano funzionali all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà richiamati dal medesimo art. 2, in vista dello svolgimento da parte di ciascuno “secondo le proprie possibilità e la propria scelta, [di] un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Il tutto in ossequio a quanto previsto ed avallato dalla Corte Costituzionale, la quale nel 2002 ha fatto proprio il principio di “diritto allo studio” inteso come «il diritto di studiare, nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o di arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale e professionale, è d'altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli artt. 2, 3 e 4 della Costituzione»[19] e sempre nella stessa sentenza, ha anche chiarito quelli che devono essere i criteri per accedere all’istruzione superiore[20] .
Anche a livello sovranazionale le considerazioni restano ferme e univoche, il diritto all’istruzione è sancito dall’art. 2 del protocollo addizionale alla CEDU, secondo cui «il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno». Sul punto la Corte EDU[21] ha, allora, precisato che il suddetto diritto non è assoluto, potendo essere sottoposto a limitazioni, purché queste siano prevedibili e perseguano un obiettivo legittimo capace di azionare un filtro utile a garantire l’ingresso soltanto a quei soggetti adatti ad assicurare un elevato livello di professionalità.
Anche la Corte di Giustizia si è occupata dei corsi universitari a numero chiuso, nello specifico caso Bressol (C-73/08), nell’ambito di una controversia insorta nell’ordinamento belga relativamente alle restrizioni previste per l’accesso di studenti stranieri ai corsi di formazione medica e paramedica, caratterizzate dalla previsione di un livello massimo di studenti ammissibili stabilito per decreto, nonché dall’estrazione a sorte, da parte degli istituti interessati, ai fini dell’ingresso nel predetto contingente. In quella sede la Corte si era limitata a stabilire il principio generale per cui «Le restrizioni all’accesso ai detti studi, introdotte da uno Stato membro, devono essere [...] limitate a quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti e devono consentire un accesso sufficientemente ampio per i detti studenti agli studi superiori», demandando al giudice del rinvio la mera verifica delle modalità «di selezione degli studenti non residenti si limiti all’estrazione a sorte e, in tal caso, se tale modalità di selezione fondata non sulle capacità dei candidati interessati, bensì sull’alea, risulti necessaria ai fini del raggiungimento degli obiettivi perseguiti». Nel caso sottoposto alla Corte di Giustizia, da cui prende le mosse il Tar Lazio per la decisione di primo grado, poi appellata, è certamente lampante l’elemento aleatorio, che ben si identifica con la scelta di estrarre “a sorte” i candidati da selezionare. Nondimeno, il giudice di primo grado, partendo da tale massimo concetto di alea ha delineato tutta una serie di argomentazioni utili a ritenere la procedura de qua afflitta da elementi aleatori o quantomeno discutibili, tale da viziarne il meccanismo di selezione.
Chiarito, dunque, il quadro nazionale e sovranazionale, entro il quale il giudice amministrativo è stato chiamato ad operare, è necessario soffermarsi sulle previsioni del caso, in primo e secondo grado, della sentenza in commento.
6. Il giudizio di primo grado
L’accoglimento del ricorso da parte del Tar e poi riformato dal secondo giudicante, partiva dal presupposto che, nel contesto di principio poc’anzi richiamato, un sistema di selezione dei più meritevoli da ammettere ai corsi superiori ma caratterizzato da elementi fortemente aleatori avrebbe avuto come conseguenza quella di smentire il dettato costituzionale che garantisce, ai capaci e meritevoli, l’accesso agli studi superiori.
Nella sentenza impugnata, il primo giudice, in riferimento all’alea si era espresso nettamente a sfavore del meccanismo equalizzato, in quanto a suo dire questo non era in grado di soddisfare le esigenze selettive poiché presentava: «elementi di alea che, da un lato, non sono giustificati da esigenze oggettive della selezione e, dall’altro, non consentono un ordinamento degli aspiranti sulla base della sola performance, essendo la relativa posizione influenzata, in maniera anche significativa e determinante l’accesso ai corsi di laurea, dall’attribuzione di un fattore di parametrazione del punteggio che limita, in modo per ciascuno diverso, il punteggio massimo raggiungibile e che mina, pertanto, la par condicio tra i candidati».
Ulteriori spunti sono emersi dalla relazione tecnica depositata dal Cisia in primo grado, dalla quale il giudice aveva estratto gli aspetti principali del criterio equalizzato quali: «una banca dati composta di 1.700 quesiti quindi, sarebbero (in base a quanto affermato da Cisia, ancorché vi sia agli atti obiettiva evidenza) state composte prove (intese come insieme di quesiti da sottoporre ai candidati) valutate ex ante analoghe in termini di difficoltà assegnata dagli esperti e identiche per struttura; all’esito della prima sessione di esami è stato calcato il coefficiente di equalizzazione dei singoli quesiti, e quindi delle prove, sottraendo dal numero dei quesiti, 50, la somma dei punteggi medi (arrotondati ai centesimi) ottenuti dai quesiti nel periodo di calibrazione. Il punteggio equalizzato è, quindi, ottenuto sommando il punteggio grezzo, dato dalla sommatoria del risultato ottenuto sulla base delle risposte esatte (1 punto), omesse (0 punti) o errate (-0,25 punti), e il coefficiente di equalizzazione; il coefficiente di equalizzazione è stato calcolato sottoponendo ciascun quesito a una popolazione, suddivisa in cluster, analoga alla popolazione nazionale iscritta al test;- il coefficiente calcolato al termine della sessione di aprile è stato utilizzato anche per la determinazione del punteggio equalizzato nella sessione di luglio».
In virtù di tali assunti era arrivato a convincersi del fatto che le prove somministrate ai candidati non erano omogenee quanto a difficoltà complessiva individuata attraverso il coefficiente di equalizzazione. Il tutto veniva, invece, smentito dalla resistente Cisia che affermava come la tendenziale omogeneità delle prove sarebbe stata assicurata attraverso un duplice criterio: il primo, attinente all’attribuzione di un livello di difficoltà ai quesiti componenti le prove, determinato in base a una valutazione ex ante; successivamente, tale primo gradiente di difficoltà veniva corretto attraverso il metodo statistico, sulla base delle percentuali di successo nelle risposte effettivamente riscontrate nel corso della prima sessione di aprile cd. periodo di calibrazione.
La difesa delle resistenti non aveva convinto appieno il Tar che, sulla base di tali presupposti, si era persuaso per l’inomogeneità delle prove quanto a difficoltà complessiva individuata attraverso il coefficiente di equalizzazione, che aveva precluso la possibilità di raggiungere il «punteggio massimo conseguibile», a causa di un «fattore, non controllabile dal candidato, di premialità o penalizzazione suscettibile, di per sé, di influenzare l’accesso o l’esclusione dai corsi», oltre che di porre lo stesso candidato «in una situazione di partenza diversa l’uno dall’altro e del tutto affidata al caso».
Di conseguenza, il vaglio di legittimità del sistema equalizzato non risultava superato e pertanto ne seguiva l’annullamento di tutti quegli atti connessi e consequenziali al citato D.M di indizione delle prove, ivi compresi i bandi di concorso per l’accesso ai corsi di laurea e della graduatoria unica nazionale del concorso per l’ammissione al Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e in Odontoiatria e Protesi Dentaria per l’anno accademico 2023/2024. Tuttavia, come anticipato in premessa, l’accoglimento risultava parziale in quanto escludeva la caducazione degli atti posti in essere in esecuzione degli atti annullati e, in particolare, delle immatricolazioni già avvenute e di quelle in via di perfezionamento per il succitato anno accademico, negando così l’immatricolazione in soprannumero dei candidati utilmente collocati in graduatoria, per non essere stato dimostrato «un nesso di implicazione diretta tra l’adozione del meccanismo di equalizzazione e la mancata ammissione ai corsi per quanto riguarda parte ricorrente». Inoltre, non veniva prevista alcuna ripetizione della prova, rispetto alla quale è stato considerato ostativo l’aspetto organizzativo e venivano esclusi gli effetti invalidanti nei confronti delle immatricolazioni «già avvenute e di quelle in via di perfezionamento» sulla base della graduatoria annullata nonché degli eventuali scorrimenti[22].
Ciò posto, il candidato rimasto escluso in sovrannumero, proponeva appello al secondo giudice che ripercorreva il primo grado di giudizio.
7. La decisone del Consiglio di Stato
Come precedentemente esposto, la sentenza di primo grado ha giudicato illegittimo il modello scientifico che presiedeva al sistema di attribuzione del punteggio equalizzato, sulla cui base veniva definito l’ordine di graduatoria.
Tuttavia, il Consiglio di Stato ha rinvenuto elementi in senso contrario, direttamente ricavabili dal sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati. Si è, infatti, evidenziato come lo strumento era stato concepito in funzione della «ripetibilità delle prove» prevista dalla normativa concorsuale, per cui il fatto che ogni candidato avrebbe potuto partecipare ad una doppia sessione di test legittimava l’utilizzo di una formula astrattamente capace di “migliorarsi” tra una sessione e l’altra.
Il giudice ha, poi, ricostruito la forbice dell’intervallo numerico entro il quale il meccanismo operava[23], tale elaborazione ha consentito al giudicante di demolire l’assunto del Tar circa l’esito della prova demandata «ad un fattore non controllabile dal candidato e pertanto non dipendente dalle sue capacità, a causa del diverso coefficiente di equalizzazione applicabile a ciascuna prova».
L’equalizzazione, dunque, avrebbe garantito la giusta parametrazione dei quesiti operata su base statistica e gli scostamenti di punteggio rispetto al massimo ottenibile sarebbero stati frutto di un «fondamento razionale in un inoppugnabile e non contestato sistema di misurazione della difficoltà dei quesiti avente base statistica».
In estrema sintesi la procedura è stata ritenuta salvabile poiché in linea con il principio di parità, garantito da un sistema di formazione del punteggio finale capace di tener conto del potenziale fattore di alterazione della parità di trattamento dei candidati, insito nell’estrazione causale dalla relativa banca dati di quesiti di diverso livello di difficoltà e dunque nel potenziale differente livello di difficoltà di ciascuna prova nel suo complesso.
Il Collegio ha visto, in senso opposto al Tar, nel coefficiente di equalizzazione una vera e propria funzione omogenizzante utile a garantire il riequilibrio del diverso livello difficoltà della prova e di correzione della casualità insita nel suo meccanismo di formazione; il tutto in coerenza con i canoni di par condicio, di selezione imparziale a stampo meritocratico che sul piano della legittimità amministrativa regolano il funzionamento dei pubblici concorsi.
Viene, poi, respinto energicamente l’automatismo secondo il quale «qualsiasi equalizzazione comporterebbe una distorsione», anzi ne viene sottolineata la funzione correttiva svolta dal coefficiente rispetto al diverso livello di difficoltà delle prove sostenute.
Vengono, poi, superate le ulteriori contestazioni di carattere tecnico di parte appellante, supportate dalla relazione prodotta, ma smentite dalle controdeduzioni del Cisia. Esse riguardavano rispettivamente le scelte di: impostare l’equalizzazione a livello dei singoli quesiti; limitare la rilevazione (il c.d. periodo di calibrazione) alla sola sessione di aprile e non anche a quella di luglio; ridurre l’ampiezza della banca dati; impostare il sistema di calcolo dei coefficienti di difficoltà dei quesiti con arrotondamento alla seconda cifra decimale. Tutte considerazioni che non hanno trovato presa nel giudizio di appello.
Ancora, ritenute inammissibili, sono state le ulteriori censure riproposte con l’appello principale, ex art. 101, comma 2, cod. proc. amm., relative alla scelta dell’amministrazione di non aver somministrato quesiti differenti per ognuna delle due sessioni, non scongiurando il rischio di una fuga di domande tra la prima e la seconda sessione di prove. Il rischio palesato era quello di attribuire un vantaggio ai partecipanti delle rispettive prove ledendo la par condicio, sulla base del criterio di pericolo astratto[24]. Tuttavia, il ricorrente non avendo specificato la sessione di suo interesse è decaduto dalla possibilità di approfondimento di una eventuale lesione del suo interesse legittimo.
Il giudice, poi, rinviene nella possibilità dei candidati di scegliere a quale sessione partecipare un importate appiglio in termini di equità di trattamento. Il fatto che l’art. 8, comma 2, del decreto ministeriale del 24 settembre 2022, n. 1107, aveva previsto tale circostanza è utilizzata del giudicante per escludere qualsiasi forma di illegittimità relativa ai coefficienti di facilità dei quesiti, calcolati unicamente al termine della sessione di aprile, sulla base delle risposte fornite dai candidati che vi avevano partecipato, e non anche in base agli esiti delle prove della sessione di luglio.
Sempre inammissibili sono state ritenute le censure relative alla ripartizione del tempo a disposizione dei candidati (90 minuti) in base alle 4 sezioni in cui era articolata la prova, raccolte all’interno del d.d. n. 1925/2022, che aveva previsto che «ogni sezione ha un tempo prestabilito, al termine del tempo di una sezione il candidato deve procedere e avviare la successiva (…); il candidato può utilizzare tutto il tempo assegnato a ciascuna sezione o chiuderla in anticipo rinunciando al tempo residuo»[25]. Tuttavia, di tali aspetti, secondo il Collegio non sono state prodotte le allegazioni utili a dimostrare il pregiudizio del ricorrente[26].
Infine, sono state ritenute generiche ed infondate le censure relative al preteso sottodimensionamento dei posti a disposizione per l’immatricolazione nei corsi di laurea a numero programmato per l’anno accademico in contestazione[27], poiché attinenti a profili di carattere discrezionale, ai sensi dell’art. 3, comma 2, della legge 2 agosto 1999, n. 264[28]. Il giudice ha ribadito come la valutazione relativa ai posti da mettere a bando risponda ad esigenze di tipo organizzativo, non sindacabili in sede giurisdizionale e non ascrivibili ad alcun sintomo di eccesso di potere, ha poi troncato la censura mossa, anche, in ragione dello sforzo numerico compiuto dall’amministrazione che si è adoperata a bandire 19.544 posti per l’anno accademico 2023-2024, quando, in realtà, in sede governativa, ne erano stati ritenuti sufficienti 18.133[29].
In definitiva, il Consiglio di Stato ha sancito che il meccanismo di attribuzione dei punteggi utilizzato è risultato coerente con i canoni guida di imparzialità e parità di condizioni che sul piano della legittimità amministrativa presiedono al funzionamento dei concorsi pubblici: la sentenza non lascia spazio alcuno circa la validità del sistema di equalizzazione dei punteggi.
8. Considerazioni conclusive
La pronuncia in commento si è adoperata per legittimare l’operato delle amministrazioni coinvolte circa l’utilizzo di un innovativo sistema di calibrazione dei punteggi, demolito in primo grado e energicamente riabilitato in secondo.
Le considerazioni del Consiglio di Stato, seppur ampliamente motivate, attengono principalmente ad aspetti tecnici circa le modalità di funzionamento del metodo equalizzatore estratti dalla relazione presentata dal Consorzio Interuniversitario Sistemi Integrati per l’Accesso, poiché tali erano i principali profili di merito portati dinanzi all’attenzione del giudicante.
Tuttavia, mettendo da parte i profili tecnici, supra analizzati, e legittimati dal massimo organo della giustizia amministrativa, in tale sede sorge spontaneo spostare l’attenzione sulle finalità del sistema, orientato ad assicurare l’effettività del diritto allo studio e la selezione dei più capaci e meritevoli.
Se è vero che la necessità del filtro all’ingresso sia utile a garantire una scrematura degli aspiranti medici e che questo, per come descritto, sia compatibile con la normativa nazionale ed europea, non è da sottovalutare l’aspetto relativo alla somministrazione di quiz a batteria quale strumento (aldilà del metodo utilizzato per il calcolo del punteggio) potenzialmente dannoso nei confronti di tutti quegli studenti contraddistinti da una mancanza di prontezza e di caratteristiche necessarie al superamento di una prova di tale impostazione che risulta, tra l’altro, lontana dal profilo umanistico dei corsi di laurea degli aspiranti medici.
Ciò posto, appare pretestuoso pensare che soltanto chi sia in grado di cimentarsi con successo in una selezione così asettica sia poi effettivamente coincidente con quel soggetto che, con maggiore probabilità, raggiungerà con successo la conclusione del percorso di studi e potrà, in prospettiva, maggiormente contribuire al progresso della società, visto anche l’aspetto umano che deve caratterizzare il futuro medico.
Ovviamente, per chi scrive, tali motivazioni non devono indurre ad abbandonare il criterio della capacità e del merito che deve sempre guidare l’amministrazione nella configurazione dei sistemi di accesso ai corsi a numero programmato, in modo che siano assicurati l’imparzialità e il buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.) in un contesto caratterizzato dall’esigenza di assicurare l’equilibrio di bilancio (artt. 81 e 97 Cost.).
Tuttavia, il contenzioso legato al sistema d’ingresso ai corsi di medicina non è certo novità dell’ultima sessione[30]. Il ricorso giurisdizionale, spesse volte in doppio grado di giudizio, è quasi divenuto passaggio obbligatorio per il candidato che voglia avere un’ulteriore possibilità di immatricolazione al corso di laurea ambito. Tale aggiuntiva chance confluisce in una richiesta economica alla famiglia utile a garantire all’aspirante medico, che non sia nella condizione economica di presentare un ricorso individuale, la partecipazione come candidato-ricorrente ad azioni massive di tutela giurisdizionale in forma collettiva, organizzate da professionisti che raggruppano tutti quegli interessi comuni agli esclusi e che tentano di cristallizzare le medesime ragioni all’interno di un singolo atto capace di tutelare contemporaneamente diversi interessi e, allo stesso tempo, di abbattere i costi della giustizia amministrativa.
In tal senso appare opportuno effettuare una riflessione sull’utilità del modello a “quiz” per l’accesso ai corsi di studi, destinati alla formazione del personale medico e quindi, in definitiva, alla spiegazione di meccanismi atti ad assicurare, attraverso l’individuazione delle risorse umane da destinare al settore sanitario, l’attuazione del diritto fondamentale alla salute (art. 32 Cost.), risultando del tutto evidente che una selezione influenzata da fattori casuali delle suddette risorse non potrebbe in alcun modo ritenersi confacente all’obbligo della Repubblica, costituzionalmente sancito, di tutelare tale diritto.
L’accesso ai corsi di laurea in commento va, poi, analizzato nella prospettiva d’ingresso dei futuri medici all’interno degli organici della pubblica amministrazione[31], notoriamente segnati da gravi carenze: basti pensare al blocco del turn overche sin dai primi anni 2000[32], e poi con maggiore intensità dal 2010, ha contribuito alla costante riduzione del numero dei dipendenti pubblici e al progressivo invecchiamento della forza lavoro impiegata[33]. Il quadro è stato notevolmente aggravato dalle successive politiche di austerity seguenti alla crisi del 2008 che hanno, di fatto, sancito un pesante blocco assunzionale[34]. Tali politiche hanno visivamente segnato i più giovani i quali hanno scontato un pesante sbarramento all’accesso del mondo lavorativo, ivi compresi i camici bianchi. Il risultato ottenuto è stato quello di un ritardo nel ricambio generazionale, con logico deterioramento della qualità delle competenze e delle professionalità a servizio dell’amministrazione[35], il tutto in un momento cruciale poiché coincidente con il processo di transizione digitale[36]. Negli anni più recenti, a partire dalla legge delega n. 124/2015, il legislatore ha tentato di spezzare il trend negativo delle assunzioni pubbliche introducendo elementi di innovazione, superando il concetto di «dotazione organica» in favore della più ponderata nozione di «piani di fabbisogno del personale»[37], la quale, per come accennato anche nella sentenza in commento, è demandata a scelte discrezionali. Nell’opera di riassetto organizzativo il legislatore con il decreto legislativo n. 75 del 2017 ha operato modifiche sostanziali al decreto legislativo 165 del 2001 (agli artt. 6[38] e 6-ter[39]) implementando la disciplina dei piani fabbisogni di personale e, con la l. 56/2019, ha poi previsto che le amministrazioni nella redazione del piano del fabbisogno debbano tener conto anche «dell’esigenza di assicurare l’effettivo ricambio generazionale e la migliore organizzazione del lavoro, nonché, in via prioritaria, di reclutare figure professionali con elevate competenze»[40].
Tale breve ricostruzione è valida per rimarcare come gli interventi normativi dell’ultimo decennio siano orientati verso una rotta capace di rimpolpare le maglie dell’amministrazione, tuttavia, nel sistema di accesso alle professioni sanitarie, tale fine viene ostacolato dalle difficoltà generate dai meccanismi d’accesso. Gli studenti, in spesse occasioni, hanno attuato sistemi evasivi del sistema nazionale dei test, tramite iscrizione ad università dell’Ue maggiormente permissive in termini di entrata, per poi rientrare all’interno del sistema nazionale con il riconoscimento degli esami conseguiti all’estero[41] o, in ipotesi più estreme, abbandonando definitivamente la penisola e permanendo stabilmente ove si sono condotti gli studi esteri.
Ancora, numerosi medici, già affermati, hanno deciso di abbandonare il sistema nazionale per recarsi in paesi arabi, ove è garantito un altissimo livello di welfare oltre che a tutta una serie di vantaggi dal punto di vista retributivo e di qualità degli ambienti del lavoro[42].
Tali forti rigidità all’ingresso del sistema non appaiono, in definitiva, in linea con quelle che sono le reali esigenze del Paese; d’altro canto, il sistema a numero chiuso garantisce una maggiore qualità degli insegnamenti che, come già ribadito, attengono a beni di rango primario.
È allora auspicabile una riforma del sistema e, in tal senso, l’esecutivo ha preso atto di tali criticità e proprio lo scorso novembre è stata discussa in Senato la riforma dell’accesso a Medicina, Odontoiatria e Veterinaria. Il disegno mira a potenziare il SSN, incrementando il numero e la qualità dei professionisti sanitari e a tale scopo ha delegato il Governo ad introdurre un accesso libero al primo semestre dei corsi di laurea, eliminando quindi lo sbarramento all’ingresso, con un’ulteriore selezione per il secondo semestre, basata su esami e una graduatoria nazionale di merito.
Secondo la nuova impostazione, dunque, la selezione avverrà al termine di un primo semestre comune a tutti gli iscritti e solo dopo tale periodo verrà stabilito chi potrà proseguire in ragione degli esami svolti e del conseguimento dei relativi crediti negli insegnamenti ritenuti cruciali per il prosieguo del percorso universitario. Attualmente il provvedimento è nelle mani della Camera, successivamente, serviranno alcuni provvedimenti attuativi da parte del ministero e l’auspicata modifica al sistema d’accesso sarà operativa già dal 2025/26 soltanto se l’iter approvativo verrà ultimato prima dell’estate 2025, in caso contrario l’attuazione slitterà certamente al 2026[43].
[1] Tra le questioni più significative che hanno visto intervenire il Giudice amministrativo si segnala in particolare quella relativa all’anonimato delle prove, che ha originato le pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 20 novembre 2013, nn. 26, 27 e 28 con riferimento alla modalità di ammissione per l’a.a. 2010/2011, e della Sez. VI, n. 15/2015 per l’a.a. 2014/2015. Sul tema dell’anonimato nelle prove di concorso, il giudice amministrativo ha stabilito come questi sia corollario del principio costituzionale di uguaglianza nonché di quelli del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, la quale deve operare le proprie valutazioni senza lasciare alcuno spazio a rischi di condizionamenti esterni e dunque garantendo la par condicio tra i candidati; tale criterio, costituendo applicazione di precetti costituzionali, assume una valenza generale ed incondizionata, mirando esso in sostanza ad assicurare la piena trasparenza di ogni pubblica procedura selettiva e costituendone uno dei cardini portanti. Qualora l’Amministrazione si discosti in modo percepibile dall’osservanza delle norme in materia di anonimato delle prove scritte di concorso, si determina una illegittimità di per se rilevante e insanabile, venendo in rilievo una condotta già ex ante implicitamente considerata come offensiva in quanto appunto connotata dall’attitudine a porre in pericolo o anche soltanto minacciare il bene protetto dalle regole stesse; mutuando la antica terminologia penalistica, può affermarsi che la violazione dell’anonimato da parte della commissione nei pubblici concorsi comporta una illegittimità da pericolo c.d. astratto e cioè un vizio derivante da una violazione della presupposta norma d’azione irrimediabilmente sanzionato dall’ordinamento in via presuntiva, senza necessità di accertare l’effettiva lesione dell’imparzialità in sede di correzione.
[2] In senso opposto alla sentenza in commento, invece, la vicenda riguardante l’ammissione relativa all’anno accademico 2018/2019. In quell’occasione il Tar aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto per l’annullamento del D.M. 337/18 (ovvero il bando che definiva le modalità per l’accesso al corso di laurea in medicina e chirurgia e al corso di odontoiatria e protesi dentaria per l’a. a. 2018/2019). Tuttavia, in secondo grado, la decisione veniva totalmente ribaltata sulla scorta di un duplice profilo attinente: “da un lato, quella di consentire agli Atenei, sotto il profilo organizzativo, la possibilità di garantire un’offerta formativa compatibile con le proprie risorse strumentali e umane, dall’altro, quella di assicurare l’accesso al predetto corso ai soggetti in possesso delle cognizioni tecniche e delle capacità attitudinali necessarie per la proficua frequenza di corsi universitari di così elevato livello formativo”. Cons. Stato, Sez. VII, n. 8213/2022.
[3] Per tale superamento si intende quel bisogno effettivo di tutela giurisdizionale e, come tale, rilevante quale condizione dell’azione ex art. 100 c.p.c., nel senso che l’annullamento degli atti gravati deve risultare idoneo ad arrecare al ricorrente un’effettiva utilità. Sul punto per consolidata giurisprudenza nelle controversie relative alla contestazione dei risultati di un concorso pubblico non può prescindersi - ai fini della verifica della sussistenza di un concreto ed attuale interesse al ricorso - dalla c.d. prova di resistenza, dovendo, infatti, il ricorrente principale dimostrare (o comunque quantomeno fornire un principio di prova in ordine al) la possibilità di ottenere un collocamento in graduatoria in posizione utile in caso di eventuale accoglimento dei motivi di ricorso proposti, essendo altrimenti inammissibile la domanda formulata. Infatti, il candidato, che impugna i risultati di una procedura concorsuale, ha l'onere di dimostrare il suo interesse, attuale e concreto, a contestare la graduatoria, non potendo egli far valere, quale defensor legitimitatis, un astratto interesse dell'ordinamento ad una corretta formulazione della graduatoria, se tale corretta formulazione non comporti per lui alcun apprezzabile risultato concreto. (ex multis, C.G.A., 4 marzo 2019, n. 201; Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2019 n. 5837; sez. IV, 2 settembre 2011, n. 4963 e 20 maggio 2009, n. 3099; sez. III, 5 febbraio 2014 n. 571).
[4] Sul punto Cons. Stato, VII, 26 giugno 2023, nn. 6237 e 6238.
[5] V. nota n. 28.
[6] V. Cons. Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 22.
[7] Per candidati si intendono i soggetti dei Paesi UE e dei Paesi non UE di cui all’art. 39, comma 5, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nonché dei Paesi non UE residenti all’estero ai corsi laurea magistrale a ciclo unico di medicina e chirurgia, odontoiatria e protesi dentaria e medicina veterinaria in lingua italiana di cui all'articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 2 agosto 1999, n. 264.
[8] Ai sensi dell’art. 6, c. 4, D.M. n. 1107/2022, infatti, è stato previsto che: “Al candidato che ha sostenuto il test TOLC è assegnato un punteggio c.d. “equalizzato” che è ottenuto sommando il punteggio conseguito dal candidato con le risposte fornite ai quesiti 8 (punteggio c.d. “non equalizzato”) e un numero che misura la difficoltà della prova denominato “coefficiente di equalizzazione della prova”. L’attribuzione del punteggio non equalizzato avviene come segue: - 1,00 punti per ogni risposta esatta; - meno 0,25 punti per ogni risposta errata; - 0 punti per ogni risposta omessa. Il modello scientifico e i criteri di valutazione delle prove secondo il coefficiente di equalizzazione sono disciplinati nell’Allegato 2, che costituisce parte integrante del presente decreto.”
[9] Nello specifico riguardavano: competenze di lettura e conoscenze acquisite negli studi, biologia, chimica, fisica, matematica e ragionamento.
[10] Ai sensi dell’allegato 2 del D.M. n. 1107 del 24 settembre 2022, Modello scientifico e sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati, questi viene descritto come: “Il nuovo sistema di accesso prevede un cambiamento sostanziale rispetto al modello previgente ed ha l’obiettivo di realizzare una selezione in ingresso equa ed efficace, che garantisca pari opportunità di accesso, ripetibilità delle prove e possibilità di attingere a strumenti di miglioramento della preparazione iniziale. Coerentemente con tale obiettivo, il nuovo modello di selezione ed accesso costituirà altresì un efficace strumento di orientamento che supporterà i partecipanti nella scelta consapevole del proprio percorso formativo. La predisposizione e la custodia dei quesiti è conseguente agli obiettivi posti alla base del modello scientifico. Elemento essenziale del modello, garantito dal CISIA, è costituito dal costante monitoraggio e dall’analisi dei risultati al fine di migliorare nel tempo la capacità orientativa e la capacità predittiva del test. Più nel dettaglio le prove saranno composte da quesiti la cui effettiva difficoltà sarà determinata a valle dell’erogazione. I punteggi assegnati ai partecipanti sono calcolati introducendo un coefficiente di equalizzazione che tiene conto delle difficoltà misurate dei singoli quesiti e rende equa la comparazione di tutte le prove sostenute, anche se composte da quesiti diversi e svolte in momenti diversi. Ne consegue che i quesiti presenti nelle prove devono necessariamente costituire una banca dati riservata non pubblica, di proprietà del CISIA, progressivamente alimentata e aggiornata, in grado di soddisfare l’esigenza di migliorare e mantenere nel tempo la qualità della selezione. Anche in presenza di una banca dati riservata, è possibile comunque garantire tutti gli elementi di trasparenza attraverso la comunicazione dei criteri e dei singoli argomenti con cui si costruisce il test e delle procedure attraverso le quali si garantisce l’analoga difficoltà/selettività dei test sostenuti e la pubblicazione di esercitazioni molto simili al test per argomenti e difficoltà. In casi motivati sarà comunque garantito l’accesso secondo modalità stabilite dagli Atenei e dal CISIA.”
[11] Il punteggio equalizzato della prova (𝑃𝑒𝑞) di ogni partecipante si ottiene sommando al punteggio non equalizzato della prova (𝑃𝑛𝑒) il coefficiente di equalizzazione della prova (𝐶𝑒𝑞). V. Decreto Ministeriale n. 1107/2022, all. 2.
[12] Si definisce coefficiente di facilità di una prova (𝐶𝑑𝐹𝑃) la somma dei coefficienti di facilità dei 𝑘 quesiti (𝐶𝑑𝐹𝑖) che la compongono. V. Decreto Ministeriale n. 1107/2022, all. 2.
[13] Si definisce coefficiente di facilità (CdF) di un quesito erogato il valor medio dei punteggi ottenuti per quello specifico quesito dagli 𝑁partecipanti ai quali il quesito è stato somministrato durante il periodo di calibrazione. V. Decreto Ministeriale n. 1107/2022, all. 2.
[14] V. nota successiva.
[15] Le norme relative alla condizione di parità che deve essere sempre garantita in sede concorsuale sono rinvenibili nei canoni dell’art. 97 della Costituzione; nei principi di cui all’art. 1 della L. 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) in relazione ai generali canoni volti a guidare l’intera attività amministrativa; nella disciplina di dettaglio del D.P.R. 9 maggio 1994, N. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi).
[16] Interessante ricostruzione sul tema del diritto allo studio - nel quadro dei principi costituzionali fondamentali, della giurisprudenza costituzionale, nonché della più recente legislazione statale e regionale – è effettuata da M. ROSINI, Capacità, merito e carenza di mezzi. Riflessioni critiche sul diritto allo studio, in Federalismi, 2022.
[17] Autorevoli commenti dell’art. 34 Cost.: M. BENVENUTI, Articolo 34, in F. CLEMENTI, L. CUOCOLO, F. ROSA, G.E. VIGEVANI (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Bologna 2021, p. 238ss.; Q. CAMERLENGO, Art. 34 Cost., in S. BARTOLE, R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova 2008, p. 341ss; A. POGGI, Art. 34, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, Torino 2006, p. 704ss.; B. CARAVITA, Art. 33 e 34, in V. CRISAFULLI, L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova 1990, p. 232; S. CASSESE, A. MURA, Art. 33 e 34, in M. BESSONE, L. MONTUSCHI, D. VINCENZI AMATO, S. CASSESE, A. MURA, Rapporti etico-sociali. Commentario della Costituzione, diretto da G. Branca, Roma 1976, p. 252 ss.
[18] F. GRANDI, L’accesso ai più alti gradi dell’istruzione (il diritto allo studio attraverso la lente del principio personalista), in M. DELLA MORTE (a cura di), La dis-eguaglianza nello Stato costituzionale, Quaderni del Gruppo di Pisa, Napoli 2016, p. 61.
[19] Corte cost. 29 maggio 2002, n. 219, punto 4 del Considerato in diritto.
[20] Per il giudice della legalità costituzionale delle leggi: “Il diritto allo studio comporta non solo il diritto di tutti di accedere gratuitamente alla istruzione inferiore, ma altresì quello – in un sistema in cui "la scuola è aperta a tutti" (art. 34, primo comma, della Costituzione) – di accedere, in base alle proprie capacità e ai propri meriti, ai "gradi più alti degli studi" (art. 34, terzo comma): espressione, quest’ultima, in cui deve ritenersi incluso ogni livello e ogni ambito di formazione previsti dall’ordinamento”. Con la conseguenza che “Il legislatore [...] può regolare l’accesso agli studi, anche orientandolo e variamente incentivandolo o limitandolo in relazione a requisiti di capacità e di merito, sempre in condizioni di eguaglianza, e anche in vista di obiettivi di utilità sociale”, Corte cost. cit., n. 219 ripresa dalla più recente Corte cost. 19.3.2021, n. 42.
[21] Nei punti 48 e 49 della sentenza 2 aprile 2013 Tarantino e altri c. Italia: “48. The Court further considers that these restrictions conform to the legitimate aim of achieving high levels of professionalism, by ensuring a minimum and adequate education level in universities running in appropriate conditions, which is in the general interest. 49. As to the proportionality of the restrictions, firstly in relation to the entrance examination, the Court notes that assessing candidates through relevant tests in order to identify the most meritorious students is a proportionate measure to ensure a minimum and adequate education level in the universities”.
[22] Cfr. ex multis: T.A.R., Lazio, Roma, III n. 18980/2023; T.A.R. Lazio, Roma, III, n. 11328/2021, pagg. da 17 a 19; T.A.R. Lazio, Roma, III, 7 giugno n. 7358/2022; Cons.St., VI, n. 2296/2022; Cons. St., VI, n. 2302/2022, p. 3.2.
[23] V. punti nn. 10 e 11 della sentenza in nota.
[24] V. nota n. 1.
[25] Art. 4, comma 7, lett. b, del decreto direttoriale del 30 novembre 2022, n. 1925, recante la definizione delle modalità di svolgimento della prova d’esame.
[26] Si è anche tentato di specificare come il meccanismo avrebbe inciso sulla posizione di tutti i partecipanti in ragione di un palesato interesse astratto alla mera legalità amministrativa, non coerente con le caratteristiche di giurisdizione di tipo soggettivo quale quella amministrativa. Cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 13 aprile 2015, n. 4.
[27] Per l’anno accademico 2018/2019 si era invece stabilito come “Considerato che l’aumento dei posti complessivi nelle Università italiane per detti corsi di laurea, disposto sia pur a partire dell’a. acc. 2019/2020, è indizio serio e non revocabile in dubbio della fondatezza della censura sul sottodimensionamento dei posti fin qui resi disponibili, compresi quelli per cui è causa, cosa, questa, che non smentisce, ma rende l’accesso programmato ai corsi medesimi fondato su numeri dell’offerta formativa, al contempo più realistici in sé ed adeguati ai prevedibili fabbisogni sanitari futuri”. Cons. Stato, sez. VI, ord. 25 luglio 2019 n. 3784.
[28] Nello specifico la norma individua “la valutazione dell'offerta potenziale, al fine di determinare i posti disponibili di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1, è effettuata sulla base: a) dei seguenti parametri: 1) posti nelle aule; 2) attrezzature e laboratori scientifici per la didattica; 3) personale docente; 4) personale tecnico; 5) servizi di assistenza e tutorato; b) del numero dei tirocini attivabili e dei posti disponibili nei laboratori e nelle aule attrezzate per le attività pratiche, nel caso di corsi di studio per i quali gli ordinamenti didattici prevedono l'obbligo di tirocinio come parte integrante del percorso formativo, di attività tecnico-pratiche e di laboratorio; c) delle modalità di partecipazione degli studenti alle attività formative obbligatorie, delle possibilità di organizzare, in più turni, le attività didattiche nei laboratori e nelle aule attrezzate, nonché dell'utilizzo di tecnologie e metodologie per la formazione a distanza.”
[29] G. GENTILE, Il reclutamento pubblico: aspetti organizzativi, modelli di selezione e nuovi assetti, Giappichelli Editore, 2023, p. 27 e ss., ove si sottolinea come la programmazione del fabbisogno di personale costituisce il momento strategico in cui le amministrazioni pubbliche danno vita alla mappa delle professionalità che, poi, troveranno un concreto riscontro nel momento della redazione del bando di concorso. Sul tema tra i tanti, S. GASPARRINI, Conoscere per reclutare, in Giorn. dir. amm., 2021, p. 337 ss.; G. VECCHI, Fabbisogni e change management nella PA: per un reclutamento selettivo basato su progetti di riorganizzazione, in U. CARABELLI, L. ZOPPOLI (a cura di), Rinnovamento delle PA e nuovo reclutamento, in Riv. giur. lav., Quad. 6, 2021, p. 21 ss.; H. BONURA, Pianificazione e analisi dei fabbisogni, in Il lavoro pubblico, a cura di G. AMOROSO, V. DI CERBO, L. FIORILLO, A. MARESCA, Collana «Le fonti del diritto italiano», Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019, p. 321 ss.; M. ESPOSITO, Sisifo unchained? La pianificazione delle risorse umane nel lavoro pubblico: antiche questioni (irrisolte) e nomenclature “di seconda mano”, in Lav. pubbl. amm., 3, 2018, p. 67; A. RICCOBONO, La nuova disciplina sugli organici tra opportunità e occasioni mancate, in Il lavoro alle dipendenze della P.A. dopo la “Riforma Madia”, a cura di A. GARILLI, A. RICCOBONO, C. DE MARCO, A. BELLAVISTA, M. MARINELLI, M. NICOLOSI, A. GABRIELE, Cedam, Padova, 2018, p. 21 ss.; M. D’ONGHIA, Organizzazione degli uffici e superamento delle dotazioni organiche, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI, L. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commento alle innovazioni della XVII legislatura (2013-2018) con particolare riferimento ai d.lgs. n. 74 e 75 del 25 maggio 2017 (c.d. Riforma Madia), cit., p. 77 ss.
[30] Cfr. note nn. 1 e 2.
[31] Sul tema, A. MARRA, I pubblici impiegati tra vecchi e nuovi concorsi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1, 2019, p. 233 s.; S. PEDRABISSI, Il procedimento concorsuale nel prisma dei saperi necessari alla Pubblica Amministrazione, in Var. tem. dir. lav., 1, 2020, p. 127 ss.; A. BOSCATI, Dalle esigenze dell’organizzazione alle modalità di reclutamento: punti critici della disciplina vigente e possibili interventi di riforma, in U. CARABELLI, L. ZOPPOLI (a cura di), Rinnovamento delle PA e nuovo reclutamento, in Riv. giur. lav., Quad. 6, 2021, p. 55; S. GASPARRINI, Conoscere per reclutare, in Giorn. dir. amm., 2021, p. 337 ss.
[32] Il blocco delle assunzioni ha inizio formalmente con l’art. 19 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002) per poi proseguire con più vigore dal 2010.
[33] Cfr. RAPPORTO INAPP 2021, Lavoro, formazione e società in Italia nel passaggio all’era post Covid-19, maggio 2021, p. 98, relativamente all’innalzamento dell’età media dei dipendenti pubblici (da 44,8 a 50,72) e all’incidenza del numero dei dipendenti pubblici rispetto alla popolazione (il più basso d’Europa con il 5,5%, rispetto all’8,4% della Francia, al 5,8% della Germania, e al 6,7% della Spagna). V. anche RAGIONERIA GENERALE DELLO STATO, La distribuzione per classi di età e andamento dell’età media nel periodo 2003-2019, 2020; CORTE DEI CONTI, Relazione sul costo del lavoro pubblico 2020, in www.cortedeiconti.it; FORUM PA, Lavoro pubblico 2021, giugno 2021, in www. forumpa.it; CAMERA DEI DEPUTATI – SERVIZIO STUDI XVIII LEGISLATURA, Concorsi, limiti assunzionali e dotazioni organiche nella P.A., 22 luglio 2022. In chiave comparata con gli apparati pubblici europei, v. anche R. REALFONZO, A. VISCIONE, Costi ed efficienza dell’amministrazione pubblica italiana nel confronto internazionale, in Riv. giur. lav., I, 2015, p. 497 ss.
[34] Conseguentemente è scaturita una diminuzione di unità di personale, ma anche una contrazione della spesa pubblica per stipendi di 1,8 miliardi di euro in dieci anni tra il 2008 e il 2018 (Fonte: EUROSTAT). Negli anni successivi allo sblocco del turn over, i dati aggregati per comparto hanno evidenziato significative diversità all’interno dell’apparato del pubblico impiego: a fronte di una diminuzione costante del numero dei dipendenti nelle Funzioni Centrali e Locali, si è invece assistiti, dal 2018, ad una crescita delle assunzioni nel comparto sanità, cfr. COMITATO SCIENTIFICO PER LA VALUTAZIONE DELL’IMPATTO DELLE RIFORME IN MATERIA DI CAPITALE UMANO PUBBLICO, Rapporto 2022, p. 11
[35] M. D’ONGHIA, La centralità della pianificazione dei fabbisogni e del sistema di reclutamento per una pubblica amministrazione efficiente, in Var. tem. dir. lav., 1, 2020, p. 76.
[36] Sul tema L. ZOPPOLI, P. MONDA, Innovazioni tecnologiche e lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Dir. rel. ind., 2, 2020; C. ACOCELLA, A. DI MARTINO, Il rinnovamento delle competenze nell’amministrazione digitale, in Riv. di Digital Politics, 1-2, 2022, p. 93 ss.; S. STACCA, La selezione del personale pubblico al tempo delle tecnologie digitali, paper presentato al Convegno AIPDA 2019, aipda.it.
[37] Si v. R. GUIZZARDI, Come cambia il rapporto tra dotazione organica, fabbisogno triennale e assunzioni a seguito dell’entrata in vigore della riforma della PA, in Aziendaitalia – Il Personale, n. 6/2017, pp. 333-338. Per una analisi sul superamento delle dotazioni organiche si V. anche M. D’ONGHIA, Organizzazione degli uffici e superamento delle dotazioni organiche, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Cit., p. 77 e ss; A. BOSCATI, Il reclutamento riformato, in A. BOSCATI, A. ZILLI (a cura di), Il reclutamento nella p.a. dall’emergenza alla nuova normalità, cit., p. 64
[38] L’art. 6, d.lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 4, d.lgs. n. 75/2017 (in attuazione della direttiva generale posta dall’art. 17, comma 1, lett. q) della legge delega n. 124/2015 e volta ad un «progressivo superamento della dotazione organica come limite alle assunzioni».
[39] Con le Linee di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da parte delle PA previste dall’art. 6-ter – adottate con decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze il 9 maggio 2018 – sono stati elaborati i «criteri che le pubbliche amministrazioni devono seguire nella elaborazione del Piano Triennale». Sul punto V. G. GENTILE, Il reclutamento del personale pubblico, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commento alle innovazioni della XVII legislatura (2013-2018) con particolare riferimento ai d.lgs. nn. 74 e 75 del 25 maggio 20 17 (c.d. riforma Madia), Torino, 2018, p. 95 e ss.
[40] La cd. “Legge concretezza” all’art. 3, legge 19 giugno 2019, n. 56, fa riferimento a «figure professionali con elevate competenze in materia di: a) digitalizzazione; b) razionalizzazione e semplificazione dei processi e dei procedimenti amministrativi; c) qualità dei servizi pubblici; d) gestione dei fondi strutturali e della capacità di investimento; e) contrattualistica pubblica; f) controllo di gestione e attività ispettiva; g) contabilità pubblica e gestione finanziaria» (per un commento, cfr. V. TALAMO, Il pubblico impiego, in Giorn. dir. amm., 2, 2019, p. 176; B.G. MATTARELLA, La concretezza dell’amministrazione e quella della legge, in Giorn. dir. amm., 6, 2019, pp. 714-718; A. ZILLI, Alla ricerca dell’efficienza delle pp.aa., tra concorrenza, mille proroghe e bilancio, in Lav. giur., 3, 2020, p. 226 ss.).
[41] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, Sent. n. 2746/2015, ove il giudice stabiliva che “È illegittima la delibera con la quale il Consiglio di Corso di laurea in medicina e chirurgia di una università italiana respinge l’istanza avanzata da studenti iscritti al primo anno di studi di Facoltà di medicina di una università straniera, volta ad ottenere il trasferimento presso l’università italiana con iscrizione ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia con la motivazione che tali studenti, provenendo da università straniere, non avrebbero superato in Italia l’esame di ammissione al corso di laurea in medicina e chirurgia, requisito essenziale previsto dal manifesto degli studi (L. n. 264/1999)”. Confermando la sentenza del Tar Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 37/2014; in senso conforme Cons. Stato n. 2744/2015.
[42] Dati analizzati dall'Associazione dei medici di origine straniera in Italia (Amsi) e l'Unione medica euro mediterranea (Umem): dei 450 professionisti della sanità italiani e dei 50 europei residenti in Italia che nell’ultimo trimestre hanno iniziato a programmare un lavoro nei Paesi del Golfo, 250 sono medici specialisti, 150 sono infermieri e 100 sono medici generici, fisioterapisti, farmacisti, podologi e dietisti, 2023.
[43] Come anche riportato in www.ilsole24ore.com/art/test-d-ingresso-medicina-addio-piu-dopo-l-ok-senato-riforma-AGijpPRB .
Legittimazione del creditore-cessionario ad agire in via esecutiva per crediti deteriorati acquistati in blocco. La cessione dei crediti come componente di un titolo esecutivo complesso
Mettiamo a disposizione delle lettrici e dei lettori questo provvedimento del Tribunale di Brindisi, che sperimenta un’innovativa ricostruzione della cessione dei crediti in blocco dei crediti deteriorati, fenomeno di rilievo anche penale, per le sue possibili interferenze con fenomeni di riciclaggio del denaro di provenienza illecita da parte della criminalità organizzata.
La quaestio iuris attiene all'idoneità o meno della negoziazione massiva dei crediti a radicare la legittimazione all'esecuzione immobiliare del creditore-cessionario, evidenziando come la stessa possa essere inquadrata quale componente di un titolo esecutivo complesso e a formazione progressiva.
Coerentemente con tali premesse ricostruttive, essa dovrebbe rispettare le forme che, in virtù del chiaro disposto dell’art. 474 c.p.c., consentono l’azionabilità di un qualunque titolo esecutivo. Ragione per cui dovrebbe essere rivestita della forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e ciò a pena di nullità.
Il provvedimento si sofferma, altresì, su una tematica di particolare attualità e logicamente pregiudiziale, ovvero quella relativa all’ammissibilità di un titolo esecutivo c.d. complesso di formazione stragiudiziale. Vi si evidenzia come non vi siano preclusioni logiche o giuridiche perché il titolo esecutivo si concretizzi in una successione di atti giuridici, convergenti a delineare il contenuto dell’obbligo.
D’altronde, nell’ipotesi di titoli esecutivi di formazione giudiziale, per principio interpretativo consolidato, in dottrina, si ritiene che, nell’ipotesi che un’ordinanza o una sentenza venga riformata, a fronte della successione delle regole di giudizio avutasi con riguardo ai rapporti fra le parti, ciascuna consacrata da un diverso titolo giudiziale, il titolo legittimante all’esecuzione non rimanga necessariamente quello originario e ciò in quanto la suddetta pluralità di atti di natura giudiziaria concorre nel delineare la regolamentazione del diritto di procedere in executivis dell’opposta.
Orbene, una conclusione diversa, ovvero che diversificasse, per le due ipotesi (titoli giudiziali, da un lato e titoli stragiudiziali, dall’altra) la logica di ricostruzione del titolo, si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., oltre che con quello di ragionevolezza che, nato dall’alveo proprio del primo, ha finito per acquisire autonomia operativa e valenza generale.
Concorso a diverso titolo nel medesimo fatto storico: nota a Cass. Sez. Un. 11.7.2024 n. 27727.
di Giusy Alessandra Annunziata
È possibile la diversificazione dei titoli di reato tra chi abbia partecipato alla realizzazione di un medesimo fatto storico? In particolare, è ammissibile che quest’ultimo venga imputato a norma del comma primo o del comma quarto dell’art. 73 D.P.R. 309/1990 a un concorrente, e a norma del comma quinto del medesimo articolo a un altro concorrente? Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 27727 dell’11 luglio 2024, hanno risposto affermativamente. Sebbene il recente approdo non sembri a prima lettura “rivoluzionario”, conviene esaminare la “querelle” tornando al momento in cui tutto è cambiato, ovvero al decreto legge del 23 dicembre 2013, n. 146, quando il comma quinto dell’art. 73 T.U. Stup. è diventato un reato autonomo.
Sommario: 1. Breve excursus sul comma quinto dell’art. 73 D.P.R. 309/1990: non più circostanza attenuante ma reato autonomo - 2. Concorso di norme o concorso di reati? Le Sezioni Unite n. 51063/2018 - 3. Il concorso di persone a diverso titolo nel medesimo fatto storico: l’orientamento a favore e l’orientamento contrario - 4. La memoria dell’Avvocato Generale - 5. Le Sezioni Unite n. 27727 dell’11 luglio 2024 - 6. Conclusioni.
1. Breve excursus sul comma quinto dell’art. 73 D.P.R. 309/1990: non più circostanza attenuante ma reato autonomo.
Con la legge n. 162 del 26 giugno 1990 (più nota come Iervolino-Vassalli), il legislatore ha introdotto, per la prima volta, un’inedita fattispecie, finalizzata ad attenuare il trattamento sanzionatorio previsto per le condotte descritte nei commi precedenti del medesimo articolo. Nella sua prima formulazione, infatti, il comma 5 dell’art. 71 (poi divenuto comma 5 dell’art. 73, nel testo unico n. 309/1990), prevedeva che: “Quando, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 2.582 (lire cinque milioni) a euro 25.822 (lire cinquanta milioni) se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’articolo 14, ovvero le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 (lire due milioni) a euro 10.329 (lire venti milioni) se si tratta di sostanze di cui alle tabelle II e IV”.
La nuova fattispecie è stata considerata una circostanza attenuante a effetto speciale, e non una fattispecie autonoma di reato, sin dalle sue prime interpretazioni[1]. Il legislatore ha confermato, poi, tale orientamento, eliminando ogni dubbio con la modifica del testo della lettera h) dell’art. 381 c.p.p., introdotta con il d.l. n. 247/1991, convertito in l. n. 314/1991, che espressamente ne definiva la natura circostanziale ai fini dell’esclusione dell’arresto obbligatorio in flagranza[2].
Con l’entrata in vigore della legge (Fini-Giovanardi) n. 49/2006, la disciplina della lieve entità ha subito importanti modifiche, ma la sua natura giuridica è rimasta invariata.
Tutto cambia, invece, con il d.l. n. 146 del 2013, convertito in l. n. 10 del 2014, mediante il quale la lieve entità ha assunto natura di fattispecie penale autonoma. A seguito di tale intervento, la norma così prevedeva: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000”.
Fino a quando la lieve entità era considerata una circostanza oggettiva a effetto speciale, non si ponevano dubbi circa la possibilità di applicare la stessa solo ad alcuni concorrenti nel medesimo fatto storico, in base alle qualità soggettive degli stessi e in base al rilievo della loro condotta rispetto alla realizzazione della fattispecie di reato. Tanto in virtù del principio consolidato in base al quale attenuanti e diminuenti possono avere riconoscimento differenziato tra coimputati a seconda della specifica posizione personale, senza determinare alcuna disparità di trattamento. Spetta al giudice, infatti, verificare la sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge e riconoscerle, in presenza dei relativi presupposti, in favore della persona che le invoca[3].
Occorre precisare che la novella nasce dall’esigenza del legislatore italiano di adeguarsi ai dettami della sentenza della Corte EDU “Torreggiani e altri c. Italia”[4], che prescriveva l’adozione di incisive riforme per ridurre la presenza, fra la popolazione carceraria, dei soggetti tossicodipendenti, spesso detenuti a seguito della commissione di reati in materia di stupefacenti di contenuta gravità, assicurando migliori condizioni di vita penitenziaria. Per tale via, infatti, si consente, nel rispetto dei principi di cui all’art. 27 Cost., l’accesso a riti speciali e a forme di espiazione extramurarie a coloro che abbiano commesso reati connotati da minima offensività. Si attribuisce al giudice la possibilità di effettuare un giudizio complessivo che tenga conto sia delle circostanze che accomunano il soggetto agente agli altri concorrenti nel medesimo fatto storico, sia di quelle che lo differenziano dagli stessi, sottraendo tale giudizio al bilanciamento ex art. 69, comma 4, c.p.,
L’art. 73, comma 5, del T.U. Stup. (D.P.R. n. 309/1990), attualmente dispone: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a cinque anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329. Chiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da euro 2.500 a euro 10.329, quando la condotta assume caratteri di non occasionalità”.
A conferma della qualificazione del comma quinto come fattispecie autonoma di reato, si pone, innanzi tutto, la relazione di accompagnamento alla legge di conversione che mette in evidenza come si tratti di una fattispecie corredata da un proprio peculiare e autonomo trattamento sanzionatorio[5]. Inoltre, l’art. 2 del decreto del 2013 testualmente recita: “Modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità”, sottolineandone la natura di “delitto” autonomo, appunto. Se non fosse una fattispecie autonoma di reato, non si spiegherebbe, peraltro, l’“incipit” della norma che impone una clausola di riserva relativamente indeterminata (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato…”). Come evidenziato a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità, anche la tecnica di formulazione della norma può costituire un indice ermeneutico in tal senso. Si tratta, infatti, di una norma che prevede, non solo un autonomo trattamento sanzionatorio, ma anche una propria circostanza attenuante (la “non occasionalità”). Oltre al fatto che il ricorso alla locuzione “chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo”, in sostituzione della previgente “quando…i fatti previsti dal presente articolo”, rivela una chiara scelta del legislatore nel voler qualificare il comma quinto come un’autonoma fattispecie di reato.
Al momento della conversione del decreto legge n. 146/2016, peraltro, si modificarono anche altre norme, contenenti autonome fattispecie di reato, estranee al 73, comma 5, T.U. Stup. La legge di conversione, infatti, ha provveduto anche alla modifica della predetta lettera h dell’art. 380 c.p.p., sostituendo il riferimento alla “circostanza” di cui all’art. 73, comma 5, T.U. Stup., con quello ai “delitti” previsti dalla medesima disposizione. È stato aggiunto analogo riferimento anche nell’art. 19, comma 5, D.P.R. 448/1988, in materia di condizioni per l’applicabilità delle misure cautelari agli imputati minorenni[6].
Descritta la natura di fattispecie autonoma di reato dell’art. 73, comma 5, T.U. Stup.[7], si è posto il problema di valutare se sia possibile che più concorrenti nel medesimo fatto storico possano rispondere a diverso titolo di reato, ovvero a norma del comma primo o quarto, alcuni, e a norma del comma quinto, altri. La questione non è di poco conto se solo si considerino le conseguenze in punto di trattamento sanzionatorio: il minimo edittale previsto dalle ipotesi dei commi 1 e 4 dell’art. 73 (rispettivamente sei e due anni di reclusione, a seconda che si tratti di droghe c.d. “pesanti” o “leggere”) e quello, sensibilmente più mite, previsto dalla ipotesi “lieve” del comma 5 (sei mesi di reclusione)[8].
Rilevanti conseguenze, inoltre, si verificano in ordine al termine di prescrizione del reato, ridotto di quasi due terzi e al regime di applicabilità delle misure precautelari e cautelari.
2. Concorso di norme o concorso di reati? Le Sezioni Unite n. 51063/2018.
Occorre brevemente delineare, a questo punto, i rapporti che sussistono tra le fattispecie di cui al comma primo e al comma quarto dell’art. 73, T.U. Stup., e la fattispecie di lieve entità, così come delineati dalle Sezioni Unite con sentenza n. 51063 del 9 novembre 2018.
Con ordinanza n. 23547/2018 era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: “se la diversità di sostanze stupefacenti, a prescindere dal dato quantitativo, osti alla configurabilità dell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990 e, in caso negativo, se tale reato possa concorrere con le fattispecie previste ai commi 1 e 4 del medesimo art. 73 d.P.R. cit.”.
Nella motivazione di questa importante sentenza, si provvede, innanzi tutto, a specificare che il comma quinto dell’art. 73, T.U. Stup., concorre con ognuno dei primi quattro commi del medesimo articolo. Si tratta, tuttavia, di un concorso solo apparente di norme posto che “il suddetto comma 5, isolando…una specifica classe di fatti (quelli comunque tipici, ma di lieve entità), si pone in rapporto di specialità unilaterale con le altre disposizioni menzionate, essendo indiscutibile che, qualora dovesse venire meno, i medesimi fatti tornerebbero a ricadere nell’ambito di incriminazione di queste ultime”.
A proposito della clausola di riserva espressa, che sembra sovvertire il criterio della prevalenza della fattispecie unilateralmente speciale, unico criterio pacificamente condiviso in giurisprudenza, rendendo apparentemente sempre inapplicabile il comma 5 dell'art. 73 in favore delle norme "generali" contenute nei precedenti commi del medesimo articolo, le Sezioni Unite precisano che occorre valorizzare la volontà del legislatore storico e la sua scelta di trasformare la fattispecie da circostanza attenuante in reato autonomo, al fine di garantire una più effettiva ed espansiva applicazione del più temperato regime sanzionatorio previsto per i fatti di lieve entità.
Tanto consente di ritenere che, qualora il legislatore, nel configurare una fattispecie come speciale rispetto ad altre più gravi, preveda altresì una clausola di riserva relativamente indeterminata, intende far operare i due criteri su piani distinti, ovvero sottrarre la relazione di specialità all'ambito di operatività della clausola di riserva. Si può, dunque, concludere che la suddetta clausola sia stata introdotta per “disciplinare l'eventuale o futuro concorso con altre fattispecie più gravi, ma diverse da quelle contenute nell'art. 73 T.U. STUP., con le quali già si instaura una relazione di genere a specie”[9].
A proposito del primo quesito posto dall’ordinanza di rimessione, la Cassazione ha precisato che la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all'art. 73, comma 5, .T.U. Stup., in quanto, coerentemente con l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, “è necessario procedere ad una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla suddetta disposizione al fine di determinare la lieve entità del fatto”.
Venendo, poi, alle precisazioni circa il rapporto tra il comma quinto e i precedenti commi, in particolare modo il comma primo e il comma quarto, del medesimo articolo, le Sezioni Unite hanno messo in evidenza come, successivamente alle modifiche introdotte con la l. del 2014, l’art. 73 T.U. Stup., si atteggia a norma mista cumulativa in quanto è una disposizione che prevede più norme incriminatrici autonome cui corrispondono distinte fattispecie di reato.
Ognuno dei primi cinque commi, invece, contiene una norma a più fattispecie, atteso che, in ciascuno di essi, vengono tipizzate modalità alternative di realizzazione di un medesimo reato[10]. Il fatto, poi, di prevedere autonome norme incriminatrici non esclude una possibile interferenza tra le stesse che andrà risolta alla luce del principio di specialità. Il rapporto tra il comma primo e il comma quarto del medesimo articolo, invece, in ragione della specialità reciproca e bilaterale che li caratterizza, sarà sempre ricondotto al concorso di reati, anche nel caso in cui le diverse fattispecie venissero poste in atto con un’unica condotta.
Le condotte consumate in contesti diversi e non aventi per oggetto il medesimo quantitativo di stupefacente o di una sua partizione, realizzano fatti autonomi. Pertanto, qualora uno degli stessi possa essere qualificato di lieve entità, i reati rispettivamente integrati concorrono e, sussistendone i presupposti, possono essere unificati ai fini e ai sensi dell'art. 81 c.p., anche a prescindere dalla omogeneità o eterogeneità delle sostanze che ne costituiscono l'oggetto. La consumazione in tempi diversi, ma in unico contesto di più condotte tipiche, inevitabilmente diverse tra loro, in riferimento al medesimo oggetto materiale, inteso nella sua identità naturalistica, integra invece un unico fatto di reato, atteso che quelle contenute nei commi 1 e 4 dell'art. 73 T.U. Stup. sono norme miste alternative. La loro eventuale convergenza con la disposizione del comma 5 sull'unico fatto configurabile determina, poi, un concorso apparente tra norme incriminatrici che deve essere risolto in favore di quest'ultimo, qualora il fatto medesimo venga ritenuto di lieve entità.
Occorre, da ultimo, precisare, quanto all’applicabilità del comma quinto dell’art. 73, T.U. Stup., che lo stesso “prevede un'unica figura di reato, alternativamente integrata dalla consumazione di una delle condotte tipizzate, quale che sia la classificazione tabellare dello stupefacente che ne costituisce l'oggetto. La detenzione nel medesimo contesto di sostanze stupefacenti tabellarmente eterogenee, qualificabile nel suo complesso come fatto di lieve entità ai sensi dell'art. 73, comma 5, del d. P.R. n. 309 del 1990, integra un unico reato e non una pluralità di reati in concorso tra loro”.
3. Il concorso di persone a diverso titolo nel medesimo fatto storico: l’orientamento a favore e l’orientamento contrario.
Fatte queste doverose premesse e ripercorsa la giurisprudenza che costituisce lo sfondo su cui si innesta la sentenza a Sezioni Unite dell’11 luglio 2024, è d’uopo dar conto dei principali orientamenti formatisi in materia.
La questione della configurabilità, a fronte di un medesimo fatto di reato in materia di traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, di un concorso di persone con titoli differenziati, trae origine dalla ricostruzione dogmatica del concorso eventuale di persone nel reato nonché dalla natura unitaria o differenziata del fatto di reato realizzato plurisoggettivamente.
A proposito della diversità materiale delle singole condotte poste in essere dai concorrenti nel medesimo reato, sono stati elaborati due principali modelli di disciplina dell’istituto del concorso eventuale di persone nel reato.
A giudizio dei sostenitori del primo orientamento e in adesione alla teoria della così detta “fattispecie plurisoggettiva eventuale”, si è ritenuto che l’ordinamento giuridico debba affiancare alle singole fattispecie di reato mono-soggettive, un’autonoma e distinta fattispecie plurisoggettiva per ciascuno dei concorrenti nel medesimo fatto storico, data dalla combinazione delle norme di parte speciale con quelle sul concorso di persone nel reato. Dette fattispecie hanno in comune il medesimo accadimento materiale e si differenziano, però, per l’atteggiamento psichico, che è quello proprio del singolo compartecipe, e per taluni caratteri estrinseci che attengono solo alla condotta dell’un compartecipe e non anche dell’altro.
Sarebbe, dunque, possibile, sostenendo questa tesi, ascrivere il medesimo fatto storico, a un concorrente, a norma del comma primo o quarto dell’art. 73, T.U. Stup., e, a un altro, a norma del comma quinto del medesimo articolo, laddove, tenuto conto dei mezzi, della quantità di sostanza stupefacente, delle modalità e delle circostanze dell’azione, il contesto complessivo nel quale si colloca la condotta risulti essere differente per ciascuno dei correi[11].
L’art. 110 c.p. svolgerebbe, per tale via, una funzione meramente disciplinatoria e non incriminatrice, essendo le condotte dei singoli concorrenti già, di per sé, tipiche. Tanto consentirebbe di calibrare l’imputazione sulla persona del colpevole e non sul fatto tipico del concorso, nel rispetto dei principi di cui all’art. 27, comma 1, Cost.
A conferma di ciò si richiama, innanzi tutto, l’orientamento di legittimità sull’art. 112, ultimo comma, c.p., in cui la Suprema Corte ha sostenuto che, non specificando il predetto articolo le ragioni per cui un concorrente non è imputabile o non è punibile, sembra ammettere la configurabilità del concorso di persone anche in caso di non punibilità relativa, ovvero nel caso di una punibilità per un titolo diverso di reato che, insieme a quello degli altri concorrenti, contribuisce a determinare l’offesa tipica[12].
Inoltre, anche gli artt. 116 e 117 c.p. confermerebbero tali assunti, ammettendo una diversificazione dei titoli al di fuori dell’ambito di applicazione degli stessi. Le disposizioni di tali articoli, infatti, hanno la funzione di “aggravare” la responsabilità per uno o più concorrenti, in deroga al principio di colpevolezza. La giurisprudenza, tuttavia, ha evidenziato che detta disciplina, da un lato, non può comportare una “parificazione” in mitius a vantaggio di uno dei concorrenti, né, dall’altro, può “parificare” la responsabilità in peius per taluni di essi. L’effetto “parificatorio” generato dall’art. 117 c.p., infatti, vale solo per le ipotesi dallo stesso contemplate, ovvero solo quando il concorrente, così detto extraneus, non abbia la consapevolezza delle condizioni o delle qualità personali di quello intraneus, o dei rapporti fra questi e l’offeso. Quando il mutamento del titolo di reato è dovuto, invece, a circostanze diverse rispetto a quelle evidenziate, la parificazione della responsabilità tra i diversi concorrenti non può aversi, né ai sensi dell’art. 110 c.p., né ai sensi dell’art. 117 c.p. Sarà semmai applicabile, in presenza dei presupposti ivi indicati, l’art. 116 c.p. Quest’ultimo, peraltro, ugualmente produce l’effetto “parificatorio” solo nelle ipotesi espressamente previste. Al di fuori di esse, dunque, sussiste una naturale e possibile differenziazione dei titoli di reato per i concorrenti nel medesimo fatto storico[13].
Inoltre, quanto all’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, non potrebbe comunque operare il criterio di “parificazione” fissato dall'art. 117 c. p., perché la differenziazione tra i reati dipende non dalle condizioni o dalle qualità personali del colpevole, o dai rapporti fra il colpevole e l'offeso, bensì dai mezzi, dalle modalità e dalle circostanze dell'azione. Senza considerare, inoltre, che l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 116 c. p. non è automatica, ma richiede, appunto, l'accertamento, in concreto, dei relativi presupposti.
In ultimo, a sostegno del predetto orientamento, si richiamano le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità in una sentenza del 2018 sul neonato reato di autoriciclaggio. All’indomani, infatti, dell’introduzione della predetta fattispecie penale nel nostro ordinamento, con l. n. 186 del 2014, si era posta la questione del tipo di reato contestabile all’extraneus che avesse posto in essere una condotta sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 648bis c.p., in concorso con l’autore del delitto presupposto. In tale ipotesi, la Suprema Corte aveva concluso nel senso che fosse configurabile una responsabilità a diverso titolo di reato tra più concorrenti nel medesimo fatto storico[14].
Per di più, se non si condividesse la predetta differenziazione di responsabilità, si concluderebbe per equiparare le condotte dei singoli correi, in senso sfavorevole per alcuni di essi.
L’orientamento opposto, invece, non ritiene condivisibili tali assunti in quanto lo stesso codice penale aderisce al modello unitario del fatto tipico. Nell’art. 110 c.p., infatti, si fa riferimento a “medesimo reato” facendo salvo solo quanto previsto dalle disposizioni degli articoli seguenti.[15]
D’altronde, dal punto di vista storico, anche la Relazione del Guardasigilli sul progetto del Codice Rocco sembra andare in tal senso dal momento in cui sottolinea che “(…) Il criterio di un’eguale responsabilità per tutte le persone, che sono concorse nel reato, è in diretta dipendenza del principio che si è accolto nel regolare il concorso di cause nella produzione dell’evento, principio in forza del quale tutte le condizioni, che concorrono a produrre l’evento, son cause di esso (…) Sussiste bensì un’ulteriore specificazione della scientia maleficii [del concorrente] in rapporto alle diverse specie di reato, commesso da più persone, ma tale specificazione è imposta dal carattere unitario conferito dalla legge al titolo del reato, di cui i vari partecipi sono chiamati a rispondere. È indiscutibile, infatti, che, per aversi l'istituto del concorso, è necessario che tutti rispondano dello stesso reato (…). Si è anzi autorizzati a formulare il principio generale che la scientia maleficii debba atteggiarsi, per la necessità di tener ferma l’unità del reato commesso dai partecipi, in relazione all’elemento psicologico del reato, di cui i partecipi debbono rispondere: dolo nel reato doloso, colpa nel reato colposo, volontarietà nelle contravvenzioni”[16].
A conferma di tale orientamento, si richiamano proprio le disposizioni seguenti rispetto all’art. 110 c.p., ovvero gli artt. 116 e 117 c.p. richiamati anche dall’opposta tesi. Questi ultimi, infatti, in quanto norme eccezionali, confermano che la regola generale è quella della parificazione della responsabilità dei singoli concorrenti nel medesimo fatto storico[17].
Per di più, si evidenzia che la fattispecie di lieve entità discende da un giudizio obiettivo e globale della fattispecie realizzata dai correi, che non può portare a differenziazioni in base a elementi estrinseci rispetto alle singole condotte o in base all’elemento psicologico.
D’altronde, sottolineano ancora i sostenitori di questo orientamento, che, condividendo l’opposta tesi, si produrrebbe un effetto parificatorio non solo verso l’alto ma anche verso il basso. È tutta una questione, dunque, di valutazione case by case che, tra l’altro, può essere effettuata anche semplicemente differenziando il trattamento sanzionatorio, alla luce dei canoni di cui agli artt. 113 e 114 c.p. che espressamente lo consentono[18].
4. La memoria dell’Avvocato Generale.
A favore della necessaria diversificazione dei titoli di reato, si è espresso anche l’Avvocato Generale della Corte di Cassazione[19]. Tanto allorquando la ricostruzione delle rispettive condotte, il contesto complessivo nel quale esse si collocano, nonché il grado di offensività concreta da esse apprezzabile, rivelino inequivoci caratteri differenziali tali da giustificare una diversa qualificazione del titolo di reato in capo ai concorrenti.
Si evidenzia, infatti, che l’argomento storico, per quanto significativo, non può svolgere un ruolo di supremazia dal punto di vista interpretativo. A distanza di quasi cento anni, occorre verificare se le affermazioni contenute nella Relazione del Guardasigilli siano, tuttora, espressione del tempo e dell’evoluzione del diritto. Il richiamo è al “‘valore’ della colpevolezza, [ed alla] sua insostituibilità (…) come essenziale requisito subiettivo (minimo) d'imputazione uno specifico rapporto tra soggetto (…) e fatto considerato nel suo disvalore antigiuridico”, nonché al principio di concreta offensività, che si pone “come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice (…) nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto”[20].
È necessario, allora, chiedersi che cosa si deve intendere per unità del reato alla luce dei suddetti principi. Questa “può variamente essere concepita, e precisamente: a) come “eguale punibilità estesa a tutti i concorrenti (sia per quanto riguarda l’an che il quantum della pena)”; b) come eguale “titolo di responsabilità (sub specie di elemento soggettivo doloso, colposo, preterintenzionale)”; c) come “identità del nomen iuris della fattispecie attribuita ai colpevoli” (…) o, che dir si voglia, come unità (del titolo) del reato (“unità della qualificazione giuridica”), ancorché eventualmente con diverso titolo di imputazione; d) come unità, infine, di concorso nel fatto: limitata, cioè “all'esigenza che i partecipi contribuiscano alla stessa offesa tipica sotto un profilo essenzialmente causale, senza che ciò comporti alcuna conseguenza in ordine alla punibilità, al titolo di reato e alla forma dell'elemento psicologico” (…)”.
È evidente che solo l’ultimo di tali significati è compatibile con un’interpretazione diversificata dei titoli di reato. La prima delle soluzioni indicate è da scartare in quanto esclusa dalle norme di diritto positivo e dai principi basilari della moderna civiltà penalistica, primi fra tutti quello di colpevolezza e della modulazione personalizzata della pena. La seconda è ugualmente da ripudiare poiché tale concezione di unitarietà è stata definitivamente abbandonata dalla giurisprudenza maggioritaria[21]. La terza concezione di unità obbliga al confronto con gli artt. 116 e 117 c.p. che, in quanto richiamati da entrambi gli orientamenti, non risultano essere comunque dirimenti. È indubbio, pertanto, come le disposizioni in questione rappresentino acuta deroga rispetto a caposaldi di garanzia del diritto penale, quale colpevolezza ed offensività in concreto, fino a costituire un vulnus intollerabile in un sistema penale ispirato ai valori costituzionali più sopra richiamati. In conseguenza, è ben difficile ipotizzare l’estensione di tali ipotesi eccezionali o, peggio, edificare addirittura una regola sulla base di tali eccezioni. Tra l’altro, l’art. 117 c.p. non potrebbe comunque essere applicato alla fattispecie di concorso in esame che si colloca al di fuori di tutte le ipotesi ivi previste. Né, tantomeno, conclude l’Avvocato Generale, potrebbe essere richiamato l’art. 116 c.p. visto che, nel caso di specie, non si discute di concorrenti anomali.
Tali assunti non sarebbero, peraltro, messi in dubbio da una recente sentenza delle Sezioni Unite[22]. Quest’ultima, sulla scia dei precedenti maggioritari, ha affermato che, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio; qualora il terzo agente - seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c. p. nella previsione dell'art. 393 stesso codice - inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c. p.
Conclusione, questa, legittimata dal doppio presupposto che il reato di cui agli artt. 392 e 393 c.p. non sono ‘di mano propria’, ma solo ‘reati propri’ e che la loro differenza rispetto all’estorsione è tracciata dal diverso confine dell’elemento soggettivo, non già da quello della materialità del fatto, pur se caratterizzati da una materialità “non esattamente sovrapponibile”. Per contro, “risulta determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l'interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.
In questa ipotesi specifica, l’art. 110 c.p. continua a svolgere la sua funzione tipizzante. Ben diverso è il caso in cui, sotto l’art. 110 c.p., vengano in rilievo due diverse condotte tipiche quali quelle delineate nei commi 1 e 4 dell’art. 73 T.U. Stup. e comma 5 della medesima disposizione, tra le quali esiste, ab origine, una diversità materiale di condotta e, dunque, una tipizzazione ontologicamente autonoma di fattispecie e che dunque non abbisognano del legame concorsuale per ‘ottenere’ reciproca qualificazione normativa.
5. Le Sezioni Unite n. 27727 dell’11 luglio 2024.
Nella sentenza a Sezioni Unite dell’11 luglio 2024, n. 27727, la Corte Suprema, dopo aver ripercorso gli orientamenti più sopra esaminati, ha messo in chiaro, sin da subito, un concetto fondamentale ovvero che la concezione monistica del concorso di persone non è messa in dubbio in quanto il dettato legislativo e l’argomento storico non ammettono argomentazioni contrarie. Pur tuttavia, la nozione di “concorso” non è conclusa e implica un concetto di relazione che va riempito con un preciso termine di riferimento, individuato dal legislatore nel “reato”, come confermano sia l’art. 110 c.p. sia le disposizioni successive allo stesso che parlano di “cooperazione nel delitto”, di “commettere un reato”, di “reato commesso” etc.
Tali concetti vanno, però, coniugati con la moderna lettura dei principi di colpevolezza e di offensività alla luce anche dei più recenti approdi della Corte Costituzionale. Tanto sembra andare nella direzione di una maggiore personalizzazione della responsabilità penale.
A questo punto, occorre, però, calare tali considerazioni nel contesto della normativa di riferimento e, in particolare, dell’art. 73, comma 5, T.U. Stup., che ha subito svariate modifiche, come si è visto, nel corso degli anni. Il problema, infatti, sorge nel momento in cui, è bene ricordarlo, il comma quinto diventa un’autonoma fattispecie di reato[23].
A tal proposito, la Cassazione specifica che la soluzione alla questione deve tener conto dei caratteri strutturali dell’art. 73, considerato che lo stesso disciplina ben 22 diverse condotte, tra loro alternative, come specificato nella sentenza del 2018 precedentemente esaminata. Dunque, posto che, in caso di realizzazione da parte dello stesso soggetto di più condotte tra quelle alternativamente delineate dall’art. 73 T.U. Stup., prevale quella che contiene logicamente le altre, a diverse conclusioni si deve pervenire allorquando le diverse e alternative condotte siano poste in essere da plurimi soggetti concorrenti.
Sul punto la giurisprudenza consolidata riconosce la possibilità di una diversa qualificazione giuridica delle condotte dei concorrenti[24]. Il reale perimetro del contrasto concerne, invece, quelle ipotesi, come quella in esame, in cui la contestazione ponga a carico dei concorrenti, spesso in termini generici, la medesima condotta tipica.
A tal proposito, le Sezioni Unite concludono nel senso che, in relazione al delitto di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. Stup., il medesimo fatto ascritto a diversi imputati può essere contestualmente suscettibile di qualificazioni giuridiche diverse, quando, all’esito di una valutazione complessiva, emerga che le condotte di alcuni compartecipi esprimono un diverso grado di disvalore oggettivo e soggettivo. Dunque, quando il contributo fornito da uno dei coimputati si caratterizza per mezzi, modalità e/o altre circostanze, rivelatore di un più tenue livello di offesa ai beni giuridici protetti, per lui solo potrà intervenire la derubricazione del fatto nell’ipotesi lieve di cui all’art. 73, comma 5, T.U. Stup.
Detta affermazione, peraltro, non mette in discussione la persistente validità, in termini sistematici generali, della concezione unitaria del reato concorsuale, in quanto le norme di cui al primo e al quarto comma, da un lato, e quella di cui al quinto comma dell’art. 73, dall’altro, si pongono tra loro in rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., nel senso che le prime due hanno carattere di norma generale e la terza di norma speciale.
Dunque, qualora il medesimo fatto, contestato a diversi imputati in concorso tra loro, contenga elementi tali da fare ritenere integrata solo per taluni la fattispecie di cui all’art. 73 comma 5, T.U. Stup. e per altri quella di cui all’art. 73, comma 1, T.U. Stup., si versa al di fuori di un’ipotesi di concorso nel medesimo reato, essendosi in presenza di due reati diversi legati tra loro da un rapporto di specialità nei termini appena ricordati.
Occorre, infine, esaminare quali, tra gli elementi tipici specializzanti presenti nella fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, T.U. Stup., possono essere valutati in senso diversificato per i concorrenti nel medesimo fatto.
Non hanno rilievo in tal senso “quantità e qualità delle sostanze”, normalmente uguali per tutti i concorrenti; sono valorizzabili, invece: “mezzi, modalità e circostanze dell’azione”.
Sotto tale profilo la Corte ha affermato che potranno essere adeguatamente considerate le finalità dell’attività delittuosa, ad esempio una cessione occasionale, ovvero lo stato di tossicodipendenza del reo che si ponga in “rapporto diretto” con la condotta. Al contrario, l’aspetto relativo alla tossicodipendenza non dovrebbe assumere pregnante rilievo in presenza di sistematiche cessioni operate in favore di un indiscriminato novero di acquirenti[25].
Sono stati, invece, ritenuti del tutto irrilevanti e non valorizzabili l’eventuale comportamento collaborativo serbato post delictum[26] e i precedenti penali dell’imputato[27], che non afferiscono all’azione la cui “lievità” si intende apprezzare, a meno che non si evidenzi un collegamento oggettivo tra i fatti criminosi per i quali la persona è già stata condannata con sentenza irrevocabile e quelli oggetto del nuovo giudizio.
Potrà e dovrà essere valutato, invece, se l’attività di spaccio sia stata svolta in un contesto di tipo organizzato. A diverse conclusioni, si dovrà e si potrà pervenire in relazione a quei soggetti che, pur consapevoli della natura organizzata dell’attività delittuosa, non abbiano fatto parte dell’associazione ex art. 74 T.U. Stup., tenuto anche conto del numero di volte in cui ciascun imputato ha partecipato a tali condotte[28].
6. Conclusioni.
La “trepidante” attesa per la decisione con cui le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi in tema di unitarietà o differenziabilità del reato plurisoggettivo, è stata forse tradita dalla sostanziale riaffermazione della posizione tradizionalmente invalsa.
Chi sperava nella risoluzione dell’annoso e intenso dibattito, generato dall’istituto in esame non può che restare deluso dalla sentenza in commento, modulata (e non poteva d’altronde essere altrimenti) solo ed esclusivamente sulle fattispecie delineate dal T.U. Stup., rimesse all’esame delle Sezioni Unite.
Non risulta vulnerata la lettura unitaria del reato plurisoggettivo che, anzi, trova nuova linfa e conferma in una sentenza che non risolve le divergenze ermeneutiche sedimentatesi nel tempo.
Non può peraltro non evidenziarsi l’intrinseca contraddittorietà di una soluzione che, da un lato, proponga di mantenere l’ideale monistico del reato plurisoggettivo e, dall’altro, consenta, nonostante ciò, di differenziare i titoli di reato dei concorrenti nel medesimo fatto storico. Delle due, l’una: o si ritiene che l’argomento letterale e quello storico svolgano un ruolo assorbente, unificando le fattispecie concorsuali sotto tutti i punti di vista, sia in melius che in peius; o si propende per la soluzione opposta, consentendo, tra le altre cose, la diversificazione dei titoli di reato in nome dei principi di colpevolezza e di offensività.
La sentenza in esame, dunque, sembra rispondere più a logiche di politica criminale; quelle stesse che, nel lontano 2013, ispirarono il legislatore a considerare il comma quinto come una fattispecie autonoma di reato, per adeguarsi ai dettami della sentenza Torreggiani.
D’altronde, a sommesso avviso della scrivente, gli stessi presupposti da cui traggono origine i principi di diritto appaiono precari, atteso che le stesse Sezioni Unite ritengono che la trasformazione della fattispecie del quinto comma da circostanza attenuante oggettiva a effetto speciale a titolo autonomo di reato operata dal legislatore del 2013, sembrerebbe maggiormente calibrata sull’ipotesi della realizzazione monosoggettiva che non sulla eventualità che la condotta tipica sia frutto di un’attività in concorso ponendo, pertanto, problemi di compatibilità con la disciplina del concorso di persone nel reato.
Non a caso la sentenza conclude quasi con un invito a una migliore formulazione dei capi di imputazione: trovandosi in ipotesi di specialità, infatti, si esorbita dal contesto di concorso nel reato.
Per tutte le considerazioni sin qui esposte non sembra che il principio affermato dalle Sezioni Unite essere generalizzato oltre alle fattispecie espressamente esaminate nel caso di specie, né la si può ritenere risolutiva rispetto al dibattito che al quesito stesso era sotteso, prevedibilmente destinato ad un ulteriore e più decisivo approfondimento.
[1] Ex multis: Cass. Sez. Un. n. 9148/1991, secondo cui la norma configura una circostanza attenuante a effetto speciale, e non un titolo autonomo di reato, essendo correlata a elementi (quali i mezzi, la modalità, le circostanze dell’azione, la qualità e la quantità delle sostanze) che non mutano, nell’obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dell’articolo, ma attribuiscono a esse una minore valenza offensiva.; Cass. Sez. Un. n. 17/2000; Cass., n. 4240/1997, in cui si affermava a chiare lettere che il comma quinto dell’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 “era, pacificamente, una circostanza attenuante (oggettiva e ad effetto speciale) e non era una norma incriminatrice autonoma, con la conseguenza di entrare nel giudizio di bilanciamento”; Cass. Sez. Un., n. 35737/2010 in cui si confermava che “il D.P.R. n. 309 del 1990. art. 73, comma 5, configura una circostanza ad effetto speciale e non un reato autonomo, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Suprema Corte, essendo correlata ad elementi (i mezzi, la modalità, le circostanze dell'azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non mutano, nell'obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dell'articolo, ma attribuiscono ad esse una minore valenza offensiva”.
[2] Vedi Insolera, Spangher e altri, “I reati in materia di stupefacenti” (2019), p. 281, in cui si mette in evidenza come la ratio del comma 5 Art. 73 T.U. Stup. consistesse “nella necessità di garantire ragionevolezza all'impianto sanzionatorio delle norme destinate a reprimere il traffico illecito di sostanze stupefacenti”.
[3] Cass. n. 10233/1987; Cass. n. 3866/1977.
[4] Corte EDU, 8.1.2013 (ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09; 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10), Torreggiani e altri c. Italia.
[5] Si legge, infatti, testualmente: “a fronte di ipotesi di allarme sociale generalmente contenuto, quali, a titolo esemplificativo, quelle riconducibili al cosiddetto ‘piccolo spaccio di strada’, che, in base all’esperienza giudiziaria, nella maggior parte dei casi è praticato dagli stessi consumatori, si ritiene ragionevole e conforme al principio di proporzionalità della pena, prevedere una fattispecie di reato con una disciplina sanzionatoria autonoma rispetto alle ipotesi tipizzate nei primi quattro commi dell’art. 73 del Testo Unico”.
[6] È bene, peraltro, ricordare che, nelle more della conversione in legge del suddetto decreto, la Corte Costituzionale (sent. n. 32/2014) ha dichiarato l’incostituzionalità, per eccesso di delega, della legge Fini-Giovanardi, facendo tornare in vigore la previgente normativa contenuta nella l. n. 162/1990 (l. Iervolino-Vassalli). Per l’effetto, è stata ripristinata la differenziazione tra le cd. droghe leggere e le cd. droghe pesanti precedentemente eliminata con l. n. 49 del 2006, di conversione del d.l. n. 272 del 2005.
[7] Ex plurimis, sentt. Cass. n. 11110/2014; n. 5143/2014; n. 9892/2014; n. 36078/2017; n. 30238/2017.
[8] A. Morelli, “Diversi titoli di reato per un medesimo fatto concorsuale? Il rompicapo della disciplina del concorso eventuale di persone nel reato: osservazioni a margine di Cass., Sez. III, ord. n. 20563 del 12 maggio 2022”, in Archivio Penale n. 1 del 2023, p. 3.
[9] Le riflessioni sin qui svolte sul comma quinto dell’art. 73 T.U. Stup. sono state, poi, interamente riprese e condivise dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27727/2024.
[10] Tanto viene confermato dalla giurisprudenza di legittimità che esclude la configurabilità di una pluralità di reati nel caso di realizzazione da parte dello stesso agente, nel medesimo contesto e con riguardo allo stesso oggetto materiale, di più condotte tra quelle descritte dalle singole disposizioni (Cass. n. 9477/2009; n. 7404/2015; n. 22549/2017).
[11] Cass. n. 16598/2020; n. 2157/2018; n. 20234/2022; n. 19626/2021 in cui si era concluso che lo stesso fatto storico, integrante le ipotesi di cui all’art. 73 cit., poteva essere declinato ai sensi del comma primo, per un concorrente, e qualificato invece in termini di fatto di lieve entità, per altro concorrente, valorizzando il contesto in cui quest’ultimo operava, l’occasionalità della condotta rispetto a quella professionale dell’altro, la rilevanza del suo contributo nell’economia complessiva del fatto.
[12] Cass. n. 2157/2018.
[13] Cass. n. 7624/1981 e n. 3557/1965.
[14] Cass. n. 17245/2018, in cui si diceva che “l’art. 648ter.1 c.p. prevede e punisce come reato unicamente le condotte poste in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo-presupposto, in precedenza non previste e non punite come reato. Diversamente,…., le condotte concorsuali poste in essere da terzi estranei per agevolare la condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto, …., conservano rilevanza penale quale fatto di compartecipazione previsto e punito dall’art. 648bis c.p. più gravemente di quanto non avverrebbe in applicazione delle norme sul concorso di persone nel reato, ex artt. 110 e 117 c.p. e art. 648ter.1 c.p.”.
[15] Cass. n. 30233/2021; n. 34413/2019; n. 13898/2020 in cui la Corte ha specificato che non era possibile la diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto storico sul mero presupposto che, in relazione a taluni correi, il singolo episodio si iscriva in un programma criminoso di stampo associativo come reato-fine.
[16] Relazione, cit., in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, I, 1929, pp. 165 e 171.
[17] Cass. n. 37732/2022 e n. 7098/2022.
[18] Cass. n. 34413/2019.
[19] Memoria P.G. della Corte di Cass. per l’ud. del 14.12.2023 in proc. Rg. n. 27140/2023.
[20] Corte cost., n. 364/1988 e n. 207/2023.
[21] “Non sussistono preclusioni, né normative né concettuali, alla riconducibilità dell'istituto del c.d. concorso doloso al delitto colposo al combinato disposto dell'art. 110 cod. pen. e delle singole norme incriminatrici di parte speciale che vengono, di volta in volta, in questione con riferimento all'illecito colposo. Ed invero il dolo dell'atto di concorso di persone nel reato ai sensi dell'art. 110 cod. pen. assume come oggetto la condotta tenuta e la sua connessione con quella degli altri compartecipi e come proprio contenuto strutturale la coscienza e volontà di contribuire alla realizzazione del fatto di reato. Non è necessario il c.d. previo concerto dato che il concorso può instaurarsi senza alcuna determinazione preventiva e la volontà di concorrere può essere anche unilaterale. L'autonomia della posizione di ciascun concorrente rende, dunque, ammissibile il concorso doloso nel delitto colposo. Ed invero, posto che l'esecutore della fattispecie monosoggettiva può anche agire senza dolo, senza con ciò escludere la responsabilità degli altri concorrenti, ne deriva a fortiori che può agire con colpa. Si tratta di una partecipazione non solo causalmente rilevante ma anche tipica rispetto agli eventi concreti previsti dal combinato disposto dell'art. 110 cod. pen. con le norme di parte speciale” (cfr. sent. Cass. 7032/2019).
[22] Cass. Sez. Un., n. 29541/2020.
[23] A tal riguardo, le Sezioni Unite specificano che si tratta dell’unica ipotesi di lieve entità trattata come fattispecie autonoma di reato. Gli artt. art. 648, co. 4, c. p., l’art. 5 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, gli artt. 609-bis co. 3 c. p., 311 c. p., 323-bis c. p., vengono, invece, qualificati come fattispecie circostanziali.
[24] “Soccorre la natura di reato a più condotte tipiche in cui si sostanzia l’ipotesi delittuosa disciplinata dall’art. 73 T.U. stup., cosicché si può ritenere possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale. Solo in questo caso sarà possibile attribuire alle condotte poste in essere dai coimputati nell’ambito di un medesimo contesto una diversa qualificazione giuridica” (Cass. n. 30233/2021). E, nello stesso solco, Cass. n. 6648/2022, Pintore non mass., afferma che “è possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale”. Conseguenzialmente, come afferma Cass. 22212/2021, Comes, non mass, “la condotta del venditore, soggetto dotato di maggiori contatti e canali di approvvigionamento, il quale svolge professionalmente e reiteratamente la sua attività, può essere ritenuta più grave, mentre quella dell’acquirente, in quanto limitata a quantitativi singoli, più sporadica nel tempo e sganciata da stabili rapporti con i grandi canali di approvvigionamento della criminalità organizzata, può essere qualificata di minore gravità”.
[25] Cass. n. 16028/2018, secondo cui “lo stato di tossicodipendente può rilevare sole se si accerti che lo spaccio non ha dimensioni ragguardevoli, sì da fare apparire verosimile che l’imputato ne destini i proventi all’acquisto di droga per uso personale”; Cass. n. 44697/2013.
[26] Cass. n. 3616/2018.
[27] Cass. n. 13120/2020.
[28] Aceto A., “Stupefacenti: lo stesso fatto può essere qualificato lieve per un imputato ed escluso per l’altro”, in www.ilquotidianogiuridico.it, 2024.
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