ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il linguaggio tra diritto e psicologia. Incontro tra giuristi e psicologi giuridico-forensi [1]
Sommario: 1. Introduzione. Diritto e Psicologia: linguaggi diversi o epistemologie diverse? (A cura di Giuliana Mazzoni) – 2. Le parole del diritto e quelle della psicologia. (A cura di Santo Di Nuovo) – 3. Capacità di intendere e di volere e la criptica nozione di ‘discernimento’. (A cura di Vania Patanè) - 4. L’idoneità a rendere testimonianza. (A cura di Antonietta Curci) – 5. Il danno non patrimoniale. Il danno psichico e il nesso causale. (A cura di Ugo Salanitro) – 6. Modello giuridico e cognitivo del dolo eventuale. (A cura di Giuseppe Sartori) – 7. Esigenze della regolazione giuridica e concetti della psicologia. (A cura di Angelo Costanzo).
1.Introduzione. Diritto e Psicologia: linguaggi diversi o epistemologie diverse? (A cura di Giuliana Mazzoni)
La relazione tra psicologia e diritto è sempre esistita ed è implicitamente intrinseca alla natura e all’oggetto delle due discipline. Mi riferisco al fatto che, se ben si osserva, entrambe si occupano dell’essere umano e dei suoi comportamenti. La psicologia da una lato ha come oggetto lo studio dell’uomo, di cui descrive e spiega, oggi con una molteplicità di dati di ricerca sperimentale, i meccanismi di funzionamento. Partendo dall’osservazione del comportamento individuale e collettivo crea modelli teorici che permettono non solo di spiegare ma anche di predire il comportamento in situazioni che abbiano premesse ben specificate. D’altro canto, anche il diritto, sia pure con obiettivi diversi, fa necessariamente riferimento al comportamento umano (sia individuale sia collettivo), per normarne la accettabilità morale/etica e sociale. Entrambe le discipline presentano quindi la necessita’ di conoscere il principi di funzionamento che sottostanno il comportamento dell’uomo. Similmente, è propria anche di entrambe le discipline una valutazione sia implicita che esplicita sul che cosa si intenda con ‘normalità’ (normalità di un comportamento), e sulla sua accettabilità morale/etica e sociale. Non si parla qui solo del comportamento di pericolosità sociale, ad esempio, ma anche dei tanti comportamenti che possono creare ad una qualche livello nocumento o danno al soggetto, ad altri individui, e a cose.
Questa relazione tra le due discipline è implicitamente assunta e tacitamente accettata, ma viene raramente esplicitata. È vero che il diritto si deve confrontare con una molteplicità di discipline, dalla filosofia alle varie discipline scientifiche che con il diritto interagiscono, e oggi con l’intelligenza artificiale. Tuttavia ritengo importante che anche in questo ambito disciplinare la comprensione di come si debba concettualizzare, e comprendere, il comportamento umano individuale e collettivo diventi oggetto di una riflessione più meno occasionale e maggiormente basata sulle risultanze della ricerca psicologica. Pare, all’occhio dello psicologo, che nel diritto si assuma una concezione relativamente ingenua dell’essere umano e del suo funzionamento, che non tiene conto da quanto si è arrivati a conoscere grazie ai più di cento anni di ricerca sperimentale in psicologia. L’impressione è che diritto e psicologia appartengano a due mondi completamente diversi, con concezioni profondamente diverse dell’essere umano. Si ipotizza che questo possa essere dovuto al fatto che le due discipline hanno fatto propri approcci epistemologici e conoscitivi molto distanti tra loro, l’uno razionale/logico/argomentativo (diritto), l’altro sperimentale (psicologia).
Il convegno che ha dato origine a questo scritto, tenutosi a Catania nel Settembre 2024, è nato proprio come momento di dialogo aperto e costruttivo tra le due discipline sul modo di concepire alcuni costrutti teorici a cavallo tra diritto e psicologia. Il tentativo fatto è quello di iniziare a discutere sul significato rispettivamente attribuito a termini presenti nel diritto (quali idoneità a rendere testimonianza, capacita’ di intendere e volere, danno, dolo), che pero’ hanno importanti valenze e significati psicologici, e rispetto ai quali la scienza psicologica molto ha detto. Questi termini sono impiegati con connotazioni e denotazioni spesso assai diverse nelle due discipline, e ritengo che un chairimento sui differenti modi di intendere possa rappresentare un buon punto di partenza per un avvicinamento anche concettuale tra diritto e psicologia. Mi auguro che questo tentativo si sviluppi in uno scambio piu’ frequente sul significato attribuito a termini presenti e frequentemente impiegati nella giurisprudenza (es nelle norme e nelle sentenze), quali personalità, memoria, attitudine, volontà, intenzione, minore, vittima, comportamento aggressivo, ecc ecc.
I contributi che seguono chiariscono, in modo alternato da parte di giuristi e psicologi, il punto di vista dell’una e dell’altra disciplina. L’augurio e la speranza è che questi contenuti siano oggetto di riflessione, e che da questo articolo possano nascere commenti costruttivi che portino ad un avvicinamento fruttuoso tra psicologia e diritto.
2. Le parole del diritto e quelle della psicologia. (A cura di Santo Di Nuovo)
Nel mio intervento accenno ad alcune ‘parole’ che sia il diritto che la psicologia usano ma con accezioni diverse e potenzialmente contrastanti.
Responsabilità - Nell’accessione giuridica la responsabilità è il fondamento per l’imputabilità, l’attribuzione di colpa, la retribuzione della pena. Colpa e pena vanno attribuite a chi dell’atto deviante è dichiarato responsabile. Su questa base, la legge definisce la “irresponsabilità” del minorenne infraquattordicenne; fra i 14 e i 18 anni perché si ammetta la responsabilità richiede di dimostrare che il minore sia ‘capace di intendere e volere’. Al contrario, dopo i 18 anni va dimostrata l’incapacità per eludere la responsabilità del reo.
In termini psicologici, la responsabilità invece è considerata non un presupposto, ma una meta: far diventare le persone “responsabili” dei propri atti è un obiettivo educativo (e rieducativo). La responsabilità è collegata alla maturità e alla moralità, che non è più, come nel bambino piccolo, un insieme di prescrizioni e di divieti imposti dall’esterno, ma diviene autonoma, in quanto parte del Sé.
Nel sistema giuridico italiano si ammette che la capacità di intendere e volere (e quindi la responsabilità) può essere ridotta o del tutto annullata, da fattori diversi, attribuibili a fonti di incapacità relativa in generale al soggetto, stabilizzate nella sua personalità e quindi persistenti nel tempo (“infermità psichica”) oppure a fonti pertinenti alla specifica azione. La dichiarazione di incapacità parziale è una mediazione tra i due “linguaggi”: le categorie (giuridiche) in cui le persone vengono inserite si intersecano con altre categorie (comportamentali) che aggiungono al giudizio la dimensione della complessità tipiche delle scienze sociali.
Capacità e conseguente responsabilità vanno soppesati di volta in volta in relazione al soggetto in esame, al tipo di atto commesso, al contesto relazionale coinvolto al momento dell’atto medesimo. Il rischio è che nella valutazione giuridica della responsabilità si innestino elementi di idiograficità e di incertezza, possibili divergenze – anche radicali – tra giudici diversi, e questo mina il principio di nomoteticità dell’ordinamento giudiziario.
Pericolosità - Il codice penale distingue il reato commesso (come ‘sintomo’ di devianza in atto) e il reato potenziale (cioè la probabilità di commetterlo) definito come “attitudine alla reiterazione di fatti socialmente allarmanti”, tale da meritare interventi di prevenzione speciale, mediante neutralizzazione o riabilitazione della persona pericolosa.
Le misure di sicurezza – dalla libertà vigilata al trattamento sanitario obbligatorio, indipendenti o aggiuntive alla pena – sono mirate a far tornare (o diventare) la persona socialmente responsabile: obiettivo psicologico ed educativo.
In realtà a questa accezione psicosociale si sostituisce spesso l’accezione che vede le misure di sicurezza nei confronti della persona pericolosa come intervento di “difesa sociale” (peraltro per tempi non definibili a priori).
Tra il sorvegliare e punire di cui parlava Foucault si opta solo per il primo, o si abbina il primo al secondo. La sorveglianza e il controllo sono concetti psicosociali, che però intersecano il diritto, con esiti spesso discutibili.
Danno psichico – Si tratta di una alterazione delle abitudini di vita personale e relazionale che, anche senza patologie medicalmente accertabili (danno biologico), configura un danno non patrimoniale. In casi di danno psichico – derivante da il mobbing, stalking, stress lavoro correlato – va dimostrato il legame causale diretto tra l’evento che causa il danno e la conseguenza che sconvolge la vita del danneggiato: e questo richiede mezzi di prova anche psicologici che dimostrano spesso l’intervento di fattori multicausali.
Il contrasto fra il linguaggio giuridico e quello psicologico deriva da un piano epistemologico: la psicologia immette nel diritto nozioni complesse e non riducibili a causalità lineari, perché reazioni e controreazioni (feedbacks) comportano una causalità circolare o multi-fattoriale, che introduce nelle procedure giudiziarie non certezze ma ulteriori dubbi.
3. Capacità di intendere e di volere e la criptica nozione di ‘discernimento’. (A cura di Vania Patanè)
1. L’imputabilità è la prima condizione per esprimere la disapprovazione soggettiva del fatto tipico e antigiuridico commesso dall’agente e l’ipotesi della libertà di scelta è il presupposto logico dello stesso diritto penale. Tuttavia, parte della dottrina penalistica è portata a negare l’esistenza di una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio: si parla, piuttosto, di una libertà “relativa” o “condizionata” che presenta graduazioni diverse in funzione del livello di intensità dei condizionamenti, anche di natura inconscia, che il soggetto subisce prima di agire: quanto più forte è la spinta dei motivi, degli impulsi, degli istinti, tanto più difficile risulta lo sforzo di sottoporli al potere di autocontrollo. Secondo tale prospettiva, la libertà del volere andrebbe assunta, quindi, non come dato ontologico, scientificamente dimostrabile, ma come contenuto di un’aspettativa giuridico-sociale.
2. Il limite dell’imputabilità è fissato al compimento del quattordicesimo anno. Si tratta di una scelta di politica criminale, sicuramente arbitraria per la sua convenzionalità e la categoria dell’imputabilità minorile sconta tutte le possibili contraddizioni e ambiguità presenti in un giudizio penale fortemente individualizzato, oltre che le difficoltà di convergenza tra un’interpretazione motivazionale del comportamento, propria del codice psicologico, e una valutazione normativa, propria, invece, del paradigma giuridico. Questo rende discrezionale, in misura abnorme, tutto il percorso valutativo, consegnando alle opzioni culturali di ogni singolo magistrato il compito di definire in concreto il significato della capacità, gli ambiti di indagine e le relative metodiche di accertamento. Si utilizzano sempre più i contributi della psicologia dell’età evolutiva, secondo la quale il processo di maturazione non progredisce allo stesso modo rispetto a tutti i comportamenti dello stesso individuo nello stesso periodo, potendo progredire rispetto a determinati schemi comportamentali e ritardare rispetto ad altri, determinando l’esistenza di diversi e differenti livelli di maturità nello stesso individuo e nella stessa fase o stadio di sviluppo.
Attualmente, la responsabilità penale del minore ultraquattordicenne risulta subordinata al concreto accertamento della capacità di intendere e di volere. Invece, il codice Zanardelli poneva il “discernimento” (coscienza del carattere immorale e antigiuridico del fatto) quale condizione necessaria per l’imputabilità del minore a partire dal nono anno di età. In realtà, nonostante le buone intenzioni, la giurisprudenza e la dottrina, individuando nel concetto di maturità il nucleo essenziale della capacità di intendere e di volere del minore (e quindi della sua imputabilità), hanno, di fatto, riportato la situazione alla stessa indeterminatezza che connotava il concetto di discernimento vigente il codice Zanardelli. Concetto, peraltro, ripreso dalla recente l. n. 70 del 2024, che, modificando l’art. 25 del R.D.l. n. 1404 del 1934, prevede la possibilità di applicare misure rieducative, al minorenne che «dia manifeste prove di irregolarità nella condotta o nel carattere, ovvero tiene condotte aggressive…» financo a minori infra-dodicenni, se capaci di discernimento, senza, tuttavia, chiarire il significato preciso da attribuire a tale nozione.
3. Anche l’applicazione di una misura di sicurezza al minore non imputabile ma socialmente pericoloso è radicato non sulla responsabilità ma sulla pericolosità sociale, ossia su opinabili valutazioni prognostiche, fondate, paradossalmente, sulle stesse circostanze indicate nell’art.133 c.p. La conseguenza ha del paradossale, per soggetti non imputabili, come gli infra-quattordicenni, per i quali il giudizio di pericolosità sociale va fondato su quegli stessi elementi che rilevano per la pena e per la sua quantificazione, cioè per quella stessa sanzione penale per la quale sono ritenuti incapaci.
4. L’idoneità a rendere testimonianza. (A cura di Antonietta Curci)
Da tempo la psicologia scientifica ha abbandonato l’idea che la memoria sia un archivio ordinato e fedele degli eventi, anzi è soggetta a varie forme di errori a causa della sua natura ricostruttiva e non riproduttiva. Schachter (2022) definisce questi errori i “sette peccati” della memoria, tre di omissione e quattro di commissione. Gli errori di omissione comprendono la transitorietà, la distrazione e il blocco; gli errori di commissione riguardano l’errata attribuzione, l’effetto bias e credenze, la credenza nella persistenza dei ricordi traumatici e la suggestionabilità[2].
I testimoni di un processo sono chiamati a rievocare esperienze spesso stressanti, a limite traumatiche, in un contesto altamente formalizzato e potenzialmente ostile. La capacità mnestica di un teste è, dunque, un tema di grande rilevanza per la ricerca e le applicazioni forensi. Negli anni Ottanta, si sviluppò negli Stati Uniti un dibattito sull’accuratezza dei ricordi traumatici, che va sotto il nome di memory wars. Da una parte, alcuni ricercatori ritenevano che i traumi producano ricordi indelebili, al punto da lasciare una cicatrice nei tessuti cerebrali; all’altro, utilizzando il paradigma lost-in-the-mall (Loftus e Pickrell, 1995), altri studiosi hanno dimostrato che è possibile impiantare falsi ricordi. Gli studi più recenti sulla memoria autobiografica mostrano come i processi di memoria siano costruttivi e ricostruttivi, in quanto condizionati dalla moltitudine di fattori che intervengono a livello di codifica e di recupero (Conway e Loveday, 2015). L’esperto chiamato a valutare l’idoneità di una persona vulnerabile (es., minore, anziano, persona con disabilità ecc.) deve, pertanto, considerare la sua capacità mnestica declinata su due fronti, “l’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità” (Cass. Pen., Sez. III, n. 8962/1997).
L’esperto, quindi, dovrà ricorrere al proprio bagaglio di conoscenze scientifiche al fine di indagare: a) le capacità cognitive generali del testimone, valutandone la competenza (o l’accuratezza) che riguarda il rapporto tra ciò che è successo e ciò che si ritiene sia successo (realtà oggettiva vs realtà soggettiva); b) la credibilità clinica, che riguarda il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e la motivazione a dichiararlo (realtà soggettiva vs realtà riferita). In questo senso, come anche definito dalle Linee Guida Nazionali per l’Ascolto del Minore Testimone (2010), la valutazione si focalizza sull’accertamento delle capacità cognitive “generali”, come memoria, attenzione, capacità di comprensione e di espressione linguistica, source monitoring, capacità di discriminare realtà e fantasia, verosimile da non verosimile, livello di maturità psico-affettiva ecc.; riguarda, tuttavia, anche le capacità “specifiche”, che corrispondono alle abilità di “organizzare e riferire un ricordo in relazione alla complessità narrativa e semantica delle tematiche in discussione ed all’eventuale presenza di influenze suggestive, interne o esterne, che possono avere agito” . Ciò che il consulente non può fare è estendere la sua valutazione al terreno della decisione giudiziaria ed esprimersi sulla credibilità del teste intesa come attendibilità rispetto ai fatti reato. La scienza cognitiva può supportare la decisione, ma il giudizio finale resta ai giudici. L’intervento dell’esperto può, in certa misura, contribuire alla formazione di quelle “massime di esperienza” (nel caso specifico psicologica) che il giudice usa per fondare il suo convincimento. Ciò che resta imprescindibile è la corretta formazione scientifica dei consulenti, che non si perda nel contrasto tra posizioni o scuole di pensiero, ma che sia in grado di fornire un contributo utile, onesto e oggettivo al giusto processo.
5. Il danno non patrimoniale. Il danno psichico e il nesso causale. (A cura di Ugo Salanitro)
Va preliminarmente osservato che non vi è impermeabilità tra il diritto e le altre culture, essendo anzi usuale che il diritto assuma nozioni e categorie tratte da altri settori della conoscenza. Tuttavia, la trasmissione non è necessitata e richiede un processo di mediazione, giacché il diritto ha la specifica funzione di risolvere conflitti di interessi, per cui non bisogna stupirsi che il giurista adotti una visione diversa del concetto utilizzato dai processi di conoscenza della realtà diffusi in ambito scientifico e sociale.
Nella sfera del danno psichico, gli psicologi tendono a sostenere che i modelli causali utilizzati dai giuristi non siano appropriati perché caratterizzati da un nesso lineare, inidoneo a leggere le tecniche di concatenazione che spiegano le conseguenze dei traumi sulle condizioni mentali delle vittime, le quali sarebbero piuttosto caratterizzate da un andamento circolare, in cui assume rilevanza la predisposizione naturale. In questa prospettiva, anche quando svolgono attività di consulenza in ambito forense, gli psicologi sembrano essere più attratti dall’idea, che percepiscono più vicina ai modelli di ragionamento scientifico, secondo la quale il danno andrebbe risarcito in modo proporzionale al contributo causale e si sorprendono nel costatare che la maggioranza dei giuristi propende per la tesi secondo la quale, anche in caso di concausa naturale, debba ricadere per intero sull’autore del fatto illecito la responsabilità risarcitoria (all or nothing rule).
In realtà, l’idea di una causalità proporzionale non è legata al mondo della psicologia ed è stata accolta in passato non solo dalla dottrina giuridica, ma anche dalla giurisprudenza di legittimità, sino a essere ripresa da ultimo dalla Cassazione con la sentenza 16 gennaio 2009, n. 975. Oggi, tuttavia, è considerata superata, essendo consolidata (ad esempio, Cass. 24 febbraio 2023, n. 5737) la diversa visione, che affonda le radici nella tradizione, di chi nega che il concorso di una causa naturale possa essere rilevante ai fini della riduzione del risarcimento: visione che trae argomento dagli artt. 1227 e 2055 c.c., i quali sono interpretati quali espressioni di una policy che intende risolvere, a favore del primo, il conflitto tra l’interesse del danneggiato incolpevole a ottenere l’integrale risarcimento del danno e l’interesse del danneggiante, al quale è imputato l’illecito, a non assumere un carico di responsabilità superiore al suo apporto causale.
È rimasto isolato anche il tentativo di tenere conto del contributo della concausa naturale in sede di determinazione del danno, avvalendosi dei poteri equitativi del giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c., nel caso deciso da Cass. 29 febbraio 2016, n. 3893: soluzione che può ritenersi corretta, ma che avrebbe meritato altra argomentazione, poiché si discuteva di una forma di asfissia prenatale provocata da errore medico e produttiva di lesioni cerebrali che incidevano sulla condizione di un neonato già affetto da sindrome di Down. Proprio con riferimento a questa vicenda, infatti, si sarebbe potuto tenere conto che la giurisprudenza e una parte della dottrina articolano il nesso causale in due segmenti con diversi sistemi di regole: oltre al nesso tra il fatto illecito e la lesione, si rinviene una connessione tra la lesione e le conseguenze risarcibili. È in quest’ultima sfera che la giurisprudenza più recente, a partire da Cass. 11 novembre 2019, n. 28986, ha attribuito rilevanza alla preesistenza di una menomazione, sottraendo al danno, calcolato sulla condizione finale della vittima, la quota di risarcimento riferibile alla situazione preesistente.
Tuttavia, non è da questa giurisprudenza che, almeno di regola, si possono trarre argomenti per una riduzione delle conseguenze risarcitorie del danno psichico. Diverso tipo di problema ricorre, infatti, nel caso in cui il danno psichico sia stato provocato da un intervento traumatico illecito che si evolve a causa della predisposizione naturale della vittima: qui non assume rilievo, almeno in via tipica, il nesso causale tra lesione e conseguenza dannosa sulla vita di relazione, ricadendo, piuttosto, tale fatto nel segmento della concatenazione tra illecito e lesione, soggetto, come si è illustrato, alla regola all or nothing.
6. Modello giuridico e cognitivo del dolo eventuale. (A cura di Giuseppe Sartori)
Il dolo eventuale richiede che l'agente, pur non volendo direttamente l'evento, accetti il rischio che esso si verifichi come conseguenza della sua condotta. La sentenza Tyssengroup ha introdotto la teoria del bilanciamento, dove l'agente, dopo aver valutato gli interessi in gioco, accetta consapevolmente l'evento dannoso come prezzo per raggiungere il proprio scopo. La prova del dolo eventuale è indiziaria ed è basata su una serie di fattori come: 1) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa, 2) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente, 3) la durata e la ripetizione dell'azione, 3)il comportamento successivo al fatto, 4) la probabilità di verificazione dell'evento e infine 5) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione.
La sentenza Thyssenkrupp ha quindi spostato l'attenzione dal concetto di "accettazione del rischio" a quello di "accettazione dell'evento", richiedendo una maggiore attenzione alla volontà dell'agente e al suo effettivo processo decisionale. Il dolo eventuale ha come suo elemento centrale la “rappresentazione” delle possibili delle alternative, rappresentazione che è alla base della valutazione della probabilità delle conseguenze.
Le ricerche cognitive rilevanti per il dolo eventuale.
Gli studi cognitivi sfidano la presunzione di razionalità implicita nelle teorie giuridiche del dolo eventuale. Daniel Kahneman ha introdotto i concetti di Sistema 1 e Sistema 2 per spiegare le modalità di pensiero umano. Il Sistema 1 è rapido, automatico e intuitivo, mentre il Sistema 2 è lento, deliberato e analitico. La teoria dell'azione ragionata (TRA) spiega come le decisioni senza pressione temporale siano basate su valutazioni ponderate delle conseguenze e può essere vista come il corrispondente scientifico della teoria del bilanciamento adottata dalla sentenza Thyssenkrupp. Entrambe le teorie (giuridica e scientifica) presuppongono un agente razionale che valuta le conseguenze delle proprie azioni nel caso di decisioni senza pressione temporale. Il modello Tyssengroup, quindi, si può dire abbia una base scientifica quando si applica a processi decisionali che ricadono nell’alveo del sistema 2.
Tuttavia, in situazioni di emergenza o sotto pressione temporale, il cervello tende a usare strategie decisionali semplificate e impulsive (Sistema 1) , mettendo in discussione la capacità del diritto penale di valutare correttamente la volontà e l'intenzionalità dell'agente. Il Sistema 1 è rapido, automatico e intuitivo. Opera in modo inconscio e istintivo, permettendo di prendere decisioni immediate senza un grande sforzo cognitivo. Questo sistema si basa su euristiche, cioè scorciatoie mentali che ci aiutano a navigare nel mondo quotidiano. Ad esempio, riconoscere un volto familiare o reagire rapidamente a un pericolo sono compiti tipici del Sistema 1 così come ogni situazione in cui si reagisce d’impulso ad un pericolo. Tuttavia, proprio per la sua natura automatica, il Sistema 1 può essere soggetto a bias e errori di giudizio. Le scienze cognitive evidenziano come le decisioni umane siano spesso influenzate da fattori emotivi e irrazionali, aprendo nuove sfide per l'accertamento del dolo eventuale e suggerendo un approccio più integrato che tenga conto della complessità dei processi decisionali umani. In breve, quando la decisione avviene sotto pressione temporale, si dimostra empiricamente che manca la rappresentazione delle conseguenze e la loro valutazione del rischio rendendo così empiricamente inapplicabile il modello Thyssenkrupp.
Il contributo delle scienze cognitive alla comprensione del dolo eventuale offre una prospettiva innovativa, sfidando i modelli giuridici razionali. Questo apre nuove opportunità per sviluppare criteri più sofisticati per distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente, promuovendo un approccio ancorato ai dati empirici e scientifici disponibili.
7. Esigenze della regolazione giuridica e concetti della psicologia. (A cura di Angelo Costanzo)
Il linguaggio giuridico si serve sia del linguaggio comune, sia del linguaggio scientifico, sia di propri termini tecnici. Tuttavia, permane una differenza di obiettivi fra la conoscenza (o la terapia) e la regolazione giuridica delle condotte. Accade anche che, utilizzando termini dei quali andrebbe valutata la corrispondenza alle categorie scientifiche, il diritto produca ambiguità o che una condotta sia collocabile in due quadri di riferimento (non teorie compiute) auto-consistenti ma fra loro incompatibili[3].
Una ambiguità è produttiva, se viene risolta. Ma può anche mantenersi essere tollerata e preservata per evitare il palesarsi di incompatibilità disturbanti che richiedano scelte che non si è in grado di affrontare[4].
Del resto, se saperi diversi possono comprendere solo l’oggetto al quale i loro strumenti consentono di accedere, può fra loro stabilirsi un dialogo effettivo, individuando una lingua-franca (o lingua-ponte) per il diritto e le scienze della mente, come strumento di comunicazione tra soggetti di differente lingua-madre dotato di accettabile precisione?
Questo strumento dovrebbe privilegiare la direzione (i termini, i concetti) che va dal diritto alle scienze della mente o la direzione contraria? Chi ne ha proposto l’adozione ha ritenuto che dovrebbe basarsi su concetti neuroscientifici. Ma, presumibilmente, altre branche delle scienze della mente potrebbero proporre soluzioni. Differenti.
In ogni caso, se dei concetti giuridici non risultano abbastanza specifici da consentire una appropriata traduzione in termini dotati di significato per gli scienziati, allora gli esperti non devono fornire ai giuristi e loro opinioni sulla scorta di tali concetti.
In questi ambiti, ci si deve accontentare di una sorta di pidgin (il linguaggio che si forma mescolando lingue di popolazioni differenti, a seguito di migrazioni, colonizzazioni, commerci), che conduce a mere ipotesi su ciò che l’altra parte intendere significare, con rischi per l’adeguato trattamento dei casi giuridici[5].
Anche se non è auspicabile che la definizione dei presupposti della regolazione giuridica rimanga impermeabile alla evoluzione delle conoscenze, il legislatore e i suoi interpreti non sono tenuti a mutare le proprie categorie, perché, nel frattempo vanno emergendo nuove (non sempre consolidate) acquisizioni scientifiche[6].
Intanto, le valutazioni derivanti approccio scientifico a volte entrano surrettiziamente nei processi, travestite da massime di esperienza, con l’uso (più o meno appropriato) di termini mutuati dalle scienze della mente per introdurre opzioni soggettive, facendo leva sulla ambiguità dei significati e sulla facile traducibilità dei concetti utilizzati dallo psicologo in conoscenze diffuse (ma non per questo a tutti comuni).
Invece, le conoscenze specialistiche degli esperti non dovrebbero entrare nei processi per vie surrettizie e neanche attraverso le perizie e le consulenze in sé (che sono solo atti dei periti e dei consulenti), ma acquisite tramite l’esame degli esperti nel contraddittorio tra le parti, con il metodo dialettico, nella linea del razionalismo dialettico che informa la nostra cultura giuridica e che raccomanda di non trascurare i diversi apporti delle scienze e, al contempo, le conoscenze comuni.
[1] Incontro promosso dalla sezione di Psicologia Sperimentale della Associazione Italiana di Psicologia Sperimentale (AIP) e il Centro di ricerca sulla giustizia dei minori e della famiglia “Enzo Zappalà” dell’Università di Catania e svoltosi il 26 settembre 2024 presso il Dipartimento di Giurisprudenza.
[2] Riferimenti bibliografici: Conway, M. A. e Loveday, C. (2015). Remembering, imagining, false memories & personal meanings. Consciousness and Cognition, 33, 574-581.
Loftus, E. F. e Pickrell, J. E. (1995). The formation of false memories. Psychiatric Annals, 25(12), 720-725.
Schacter, D. L. (2022). The seven sins of memory: An update. Memory, 30(1), 37-42.
[3] G. Lolli, Ambiguità. Un viaggio fra letteratura e matematica, Bologna, Il Mulino, 2017, p. 22, 88, 146, 183 ss., 195 ss, 203.
[4] S. Argentieri, L’ambiguità, Torino, Einaudi, 2008, pp.100-113.
[5] J. W. Buckholtz -V. Reyna- C. Slobogin, A Neuro-Legal Lingua Franca: Bridging Law and Neuroscience on the Issue of Self-Control, Working Paper Number 16-32, in: Mental Health Law & Policy Journal.
[6] B., Magro, Scienze e scienza penale. L’integrazione tra saperi incommensurabili nella ricerca di un linguaggio comune, in: Archivio penale, 2019, n, 1, pp. 1-37.
Il bilancio sociale della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo
di Antonello Ardituro
Sommario: 1. Il bilancio sociale come espressione di buona prassi organizzativa degli uffici giudiziari - 2. La prefazione del Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo - 3. La nota metodologica dell’Università Federico II - 4. La struttura del bilancio sociale della DNA.
1. Il bilancio sociale come espressione di buona prassi organizzativa degli uffici giudiziari.
Il 6 dicembre 2024 il Procuratore nazionale Giovanni Melillo ha presentato il bilancio sociale della Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo, riferito al periodo dal 1° luglio 2022 al 30 giugno 2024.
Per la prima volta, dai tempi della sua istituzione, la DNA pubblica un documento che consente di conoscere, con poche descrizioni e molti numeri, un ufficio requirente unico nell’ordinamento giudiziario italiano, che continua ad essere oggetto di interesse ed aspirazione emulativa in numerosi ordinamenti stranieri.
La visionaria intuizione del 1991 di Giovanni Falcone, magistrato a cui è dedicata la sala riunioni della sede di via Giulia a Roma, luogo ideale e fisico ove si realizza la funzione di impulso e coordinamento investigativo declinata dall’art. 371-bis c.p.p., costituisce un modello avanzato e moderno, che la lettura delle pagine del bilancio sociale restituisce in forma immediata e comprensibile tanto agli operatori del diritto, quanto ai cittadini, a cui il documento si rivolge quale strumento di responsabilità, trasparenza e, con termine appropriato, accountability[1].
Il bilancio di responsabilità sociale è considerato una brassi organizzativa, già oggetto del progetto PON 2007-2013 del Ministero della Giustizia, ed individuato come uno dei trentatré modelli di buone prassi dal Consiglio Superiore della Magistratura[2].
Il Consiglio ha evidenziato come le buone prassi organizzative siano innanzitutto espressione coerente di principi costituzionali come quelli del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.), declinato anche sotto il profilo della trasparenza e della rendicontazione, e della collaborazione attiva fra le istituzioni, prime fra tutte quelle giudiziarie ed il Ministro della Giustizia, chiamato dall’art. 110 Cost. ad organizzare i servizi; esse sono altresì declinazione della qualità dell’azione giudiziaria, come evincibile dal vincolo costituzionale del giusto processo e della ragionevole durata (art. 111 Cost.), in particolare con riferimento alle attività degli uffici di Procura, alle prese con l’esigenza di assicurare, pur con risorse limitate, una adeguata risposta all’imponente richiesta di giustizia della collettività, per concretizzare il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.).
Il Bilancio sociale si inserisce in questo quadro di riferimento, come documento di rappresentazione dell’azione dell’Ufficio che esponga, con lo strumento principale dei numeri e delle statistiche, il flusso organizzativo che trae origine dalle risorse disponibili e, passando per l’azione delle diverse articolazioni dell’ufficio, giunge a determinati risultati, consentendo altresì, nel corso stesso della sua redazione e ad una sua lettura attenta, di scorgere criticità, ambiti di miglioramento gestionale ed organizzativo, inefficienze cui porre rimedio.
Esso, caratterizzato dal principio di volontarietà, non essendo imposto da alcuna norma o prescrizione, fonda la sua capacità rappresentativa e la sua stessa autorevolezza di documento di rendicontazione nel rigore del metodo utilizzato, rispetto al quale il contributo di studiosi di accountability colma le carenze che generalmente caratterizzano in questi ambiti il mondo giudiziario.
Invero, per una corretta applicazione metodologica, le fonti di riferimento più immediate cui far riferimento sono il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 17 febbraio 2006, contenente la “Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica sulla rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche”, ed il documento che definisce lo standard di rendicontazione sociale nel settore pubblico elaborato nel 2005 dall’Associazione nazionale per la ricerca scientifica sul Bilancio Sociale (cd. GBS)[3].
Si tratta di fonti non immediatamente riferibili al contesto giudiziario, che ne è sostanzialmente privo, ma che costituiscono riferimenti imprescindibili per l’elaborazione e l’attuazione di un metodo che rispetti indicazioni scientificamente riconosciute.
La direttiva del Ministro della Funzione pubblica delinea un percorso, con indicazioni e linee guida che possono, assumendo i dovuti accorgimenti, orientare agevolmente il processo di redazione del bilancio sociale di un ufficio giudiziario[4].
Particolarmente significativo risulta il riferimento ad alcuni elementi che caratterizzano il bilancio sociale: la volontarietà; la resa del conto degli impegni, dei risultati e degli effetti sociali prodotti; l'individuazione e la costruzione di un dialogo con i portatori d'interesse; la necessità di una nota metodologica, con la quale si chiariscono finalità e contenuti del documento e si fornisce ogni altra informazione utile a contestualizzarne la funzione; il coinvolgimento della struttura di governo ed organizzativa, con la costituzione uno specifico gruppo di coordinamento che presiede le fasi del processo; l’integrazione strutturale del processo di realizzazione del bilancio sociale con le attività di programmazione e controllo, in quanto utile al loro miglioramento[5].
Allo stesso modo, lo standard di rendicontazione sociale nel settore pubblico del gruppo di studio GBS indica le finalità del bilancio sociale, che deve concorrere a: promuovere e migliorare il processo interattivo di comunicazione non auto-referenziale; esporre gli obiettivi di miglioramento ed innovazione; fornire agli organi di governo elementi per la definizione delle strategie e contribuire allo sviluppo della responsabilità sociale; fornire a tutti gli stakeholder un quadro complessivo delle performance economiche e sociali al fine di consentire loro di formarsi un giudizio motivato sul comportamento dell’organizzazione[6]. È consigliata una relazione sociale, che “deve consentire alle diverse categorie di stakeholder la valutazione dei risultati raggiunti nel perseguimento della propria missione, e la valutazione degli impatti generati sul territorio e sul benessere della collettività di riferimento. Deve inoltre consentire la valutazione del processo di rendicontazione, relativamente all’affidabilità, alla rilevanza ed all’attendibilità delle informazioni fornite, alla coerenza dei criteri di selezione e di rappresentazione dei risultati e alla partecipazione di soggetti esterni alla valutazione dei risultati medesimi”.
Il bilancio sociale della Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo è stato redatto nell’ambito di tali indicazioni, attraverso un metodo di lavoro che ha visto un ampio coinvolgimento di personale di magistratura, amministrativo e di polizia giudiziaria ed il contributo di numerose articolazioni dell’ufficio[7], e si popone di essere uno stabile strumento di accountability, finalizzato altresì a costituire occasione di riflessione interna per la programmazione, l’organizzazione e l’attuazione di un governo trasparente ed ampiamente partecipato della mission dell’ufficio, costituita dalle funzioni di impulso e coordinamento investigativo del Procuratore nazionale.
2. La prefazione del Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo.
La prefazione del Procuratore nazionale spiega in poche righe il senso dell’iniziativa, lo spirito ad essa sottesa e la funzione del bilancio sociale della DNA:
L’idea del bilancio sociale muove dalla consapevolezza che la trasparenza dell’organizzazione e la conoscenza delle prassi di un ufficio giudiziario sono elementi essenziali della partecipazione democratica all’amministrazione della giustizia. La diffusione di informazioni qualificate e verificabili sulle attività degli uffici giudiziari partecipa significativamente alla preservazione della fiducia dei cittadini nello Stato. Dunque, l’informazione pubblica su una struttura così delicata e complessa quale la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo è alla base dell’affidamento sociale nel corretto ed efficace esercizio delle sue funzioni e nella trasparenza dell’organizzazione giudiziaria complessivamente interessata dalla sua azione. Come ovvio, i dati le informazioni suscettivi di pubblicazione non possono attenere ai contenuti dell’attività della DNA riferiti a materie oggetto di segreto investigativo.
Il lavoro contiene però informazioni, dati, rappresentazioni grafiche e brevi note esplicative che consentono tanto al cittadino che al lettore qualificato di comprendere meglio la funzione e le scelte della DNA nella promozione e nel coordinamento delle indagini in materia di criminalità organizzata, terrorismo e criminalità cibernetica, nel solco della formidabile idea di Giovanni Falcone.
Questa prima edizione riflette il lavoro svolto e i risultati conseguiti nel biennio dal 1° luglio 2022 al 30 giugno 2024 e mira a dar conto del processo di profonda riorganizzazione in atto, esponendo i risultati raggiunti e le modalità di impiego delle risorse, non solo rifuggendo da ogni rappresentazione enfatica e autocelebrativa, ma facendo emergere, col metodo della rappresentazione per numeri, le perduranti criticità e le difficoltà non superate. Con la presentazione e diffusione di questa edizione, l’esperienza di lavoro del biennio si offre a divenire oggetto ed insieme strumento di una discussione aperta fra gli operatori della giustizia e pubblica con i cittadini.
3. La nota metodologica dell’Università Federico II.
La lettura della nota metodologica, interamente redatta dall’Università, consente di apprezzare ulteriormente i “motivi di fondo della rendicontazione sociale” e “lo standard adottato ed il processo di rendicontazione”, che si riportano l’uno di seguito all’altro:
Secondo dati del Ministero della Giustizia, riferiti al periodo 2015-2022, solo 46 Procure della Repubblica su 140 (33%) e 28 Tribunali su 140 (20%) hanno realizzato un’iniziativa di rendicontazione sociale. Negli Uffici di secondo grado le percentuali sono del 41% per le Corti d’Appello (12 su 29) e del 45% (13 su 29) per le Procure Generali. A ciò deve aggiungersi che si tratta non di rado di esperienze spot, non continuative, quasi mai inserite nella struttura e nei sistemi aziendali degli Uffici giudiziari. Il presente bilancio sociale rappresenta l’esito di un processo e, ancor prima, di una maturata consapevolezza della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, di dare conto della propria attività in modo da riflettere una immagine di Ufficio meno enigmatica e maggiormente fedele alla effettività del quotidiano operato nel contrasto ai più articolati fenomeni di criminalità organizzata, terrorismo e cybercrime. Si tratta anche di un esercizio di introspezione che sembra il naturale coronamento di un più ampio processo di ristrutturazione organizzativa, avviato, in una chiave di semplificazione e innovazione, con l’insediamento del nuovo Procuratore nazionale.
Con questa iniziativa, la DNA intende sia aprirsi alla cittadinanza sia collocarsi lungo il sentiero dello sviluppo sostenibile tracciato dall’Agenda ONU 2030, da un lato ricercando forme innovative di coinvolgimento dei principali interlocutori e dall’altro inscrivendo il complesso agire investigati- vo in una cornice più larga di obiettivi e targets di sostenibilità. In riferimento all’imperativo della sostenibilità, è interessante notare che il presente bilancio contempli sia l’azione di intima riflessione della DNA circa il proprio operato (come l’Ufficio si vede al cospetto dello “specchio della sostenibilità” rappresentato dall’Agenda ONU 2030: Parte Quarta, Paragrafo 4.3) sia come la sua azione – sempre in termini di obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) – è vista dagli stakeholders (Parte Quinta, Paragrafi 5.3 e 5.4).
Sebbene non soggetta all’obbligo di rendicontare socialmente, la DNA ha scelto, pertanto, volontariamente di predisporre il presente bilancio, certificando il punto di inizio di un processo di accountability che si appresta a divenire parte integrante della sua cultura organizzativa.
----- Questo bilancio sociale, il primo nella storia della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, si riferisce al periodo 1° luglio 2022 – 30 giugno 2024 ed è stato redatto considerando la Direttiva Baccini della Presidenza del Consiglio dei ministri del 2006 e lo standard GBS (2013) per la rendicontazione sociale nel settore pubblico, con i dovuti adattamenti in funzione della specifica realtà. La redazione del documento ha visto, in forza di apposita Convenzione Quadro, il contributo dell’Università degli Studi Napoli “Federico II” che ha fornito soprattutto un supporto di ordine metodologico, oltre ad alcuni spunti di riflessione resi necessari dall’evoluzione del processo di reporting.
Al fine di permettere la comparabilità dei dati, è stata condotta – ove possibile – un’analisi per semestri (il secondo semestre del 2022, i due del 2023 e il primo semestre del 2024). Il bilancio sociale è stato sottoposto ad un esame critico da parte di soggetto terzo indipendente. L’analisi è stata svolta secondo quanto indicato nella Nota di commento di esperto e studioso esterno al processo di rendicontazione, inclusa nel presente documento. La selezione degli aspetti da considerare e dei contenuti da rendicontare è stata effettuata attraverso un’attenta analisi delle tematiche rilevanti per la DNA.
Nel dettaglio, il processo di redazione del bilancio si è sviluppato nei seguenti step operativi:
• fase di innesco: necessaria per creare commitment interno e delineare le caratteristiche essenziali del bilancio sociale. In questa prima fase si è costituito il gruppo responsabile della rendicontazione che ha, sin da subito, definito un piano di azione da seguire;
• fase di engagement: rivolta all’individuazione degli stakeholders, secondo criteri di priorità, e alla strutturazione di un dialogo promosso con gli strumenti dell’intervista e del questionario;
• fase di definizione: relativa alla selezione delle tematiche rilevanti e alla loro rendicontazione;
• fase di elaborazione: finalizzata alla raccolta dei dati e alla loro elaborazione statistica e di rappresentazione grafico-tabellare;
• fase di composizione del report: stesura del documento di bilancio, seguita da una discussione prodromica alla sua approvazione.
… Le fonti da cui sono tratti i dati e le informazioni oggetto di elaborazione sono principalmente interne alla DNA. Quando si è fatto affidamento a fonti esterne, è stato puntualmente segnalato.
4. La struttura del bilancio sociale della DNA
Il bilancio sociale è strutturato in cinque parti, per complessivi 16 capitoli.
La Parte Prima inquadra il contesto di riferimento e offre alcuni fondamentali connotati identitari dell’Ufficio; ricorda le origini e l’evoluzione del sistema di contrasto alla criminalità organizzata e l’evoluzione del quadro normativo, con l’introduzione delle nuove competenze in materia di terrorismo (d.l. n. 7 del 18 febbraio 2015, convertito con modificazioni dalla legge n. 43 del 17 aprile 2015) e criminalità cibernetica (d.l. n.105 del 2023, convertito con modificazioni dalla legge n. 137 del 9 ottobre 2023, a cui la successiva legge n. 90 del 28 giugno 2024 ha esteso l’applicabilità di gran parte delle regole processuali proprie dei procedimenti per delitti di mafia e di terrorismo).
Pone l’accento sul ruolo centrale della Banca Dati, prevista dall’art. 117-bis comma 2-bis c.p.p., intesa come il motore dell’attività di coordinamento investigativo della DNA e delle Procure Distrettuali e della quale il 5 febbraio 2023 è stato sottoscritto dal Procuratore nazionale e dai Procuratori distrettuali il primo Regolamento unitario; cita il fondamentale progetto in corso di complessiva reingegnerizzazione della Banca dati, elaborato grazie ad un gruppo di lavoro che ha coinvolto, oltre ai competenti uffici del Ministero della Giustizia, esperti della Banca d’Italia, del Consorzio interuniversitario nazionale per l’informatica (CINI), dell’Università Federico II, e finanziato, in ragione del suo rilievo strategico nel contesto della sicurezza nazionale, con fondi europei nella disponibilità del Ministero dell’Interno.
Approfondisce, poi, le innovazioni organizzative e tecnologiche, per dar conto del profondo processo di rinnovamento operato ed in corso, “in corrispondenza ad obiettive istanze di rafforzamento delle relazioni collaborative con le Procure distrettuali e della stessa effettività delle sue attribuzioni processuali e al programmatico ripudio di ogni visione sovraordinata e autoreferenziale del ruolo del coordinamento investigativo nazionale”. Un intero capitolo è dedicato alla Sicurezza e funzionalità tecnologica, nel quale sono presentati i progetti di innovazione messi in atto anche a seguito delle verifiche eseguite nel quadro dell’ispezione straordinaria richiesta dal Procuratore nazionale nel luglio 2022, e volti a perseguire un’azione di consolidamento infrastrutturale dei sistemi informativi, nonché un’azione di costante monitoraggio dei flussi di dati e informazioni rilevanti per garantire la loro sicurezza e l’integrità, nonché la correttezza e la trasparenza delle attività di raccolta ed elaborazione.
La Parte Seconda presenta i profili organizzativi e le risorse (umane, finanziarie e tecnologiche) dell’Ufficio, descrivendone l’articolazione in sezioni (Cosa nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, Mafie pugliesi, Nuove mafie, Terrorismo), servizi (Cooperazione internazionale, Segnalazione operazioni finanziarie sospette, Ordinamento penitenziario collaboratori e testimoni di giustizia, Misure di prevenzione, Risorse tecnologiche flussi e sicurezza), e numerosi gruppi di lavoro, sia interni all’Ufficio che, declinando il metodo di lavoro condiviso con le Procure Distrettuali, anche in ambito organizzativo, attraverso l’attuazione di gruppi di lavoro congiunti. Illustra la complessa struttura amministrativa, essa stessa oggetto di profonda revisione per effetto della costante collaborazione fra Procuratore nazionale e Dirigente Amministrativo, e descrive numericamente le risorse a disposizione.
La Parte Terza compendia i principali dati rappresentativi dell’azione svolta dalla Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo, fra cui quelli relativi alle attività di impulso e coordinamento investigativo, come le riunioni di coordinamento e le missioni di collegamento presso le Procure Distrettuali; le informazioni relative ai detenuti in regime di 41-bis legge ordinamento penitenziario, ai collaboratori di giustizia, ed al trattamento delle procedure per i benefici premiali dei detenuti per delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis e comma 3-quater, c.p.p. (art. 4-bis o.p.); i dati relativi alle attività di contrasto patrimoniale, fra cui in particolare i flussi relativi alla gestione delle segnalazioni finanziarie di operazioni sospette, il cui servizio è stato radicalmente riorganizzato; le informazioni sulle numerose e qualificate attività di cooperazione internazionale.
La pubblicazione del numero dei procedimenti iscritti nel periodo di riferimento per i delitti di cui agli artt. 416 -bis c.p., 74 dpr 309/90, 270 c.p., 270-bis c.p., 600 c.p., 601 c.p., 602 c.p., consente di avere immediata percezione del grande lavoro compiuto dalle Procure Distrettuali e della costante necessità di assicurare l’effettività del coordinamento investigativo della DNA, in settori criminali fisiologicamente esondanti dagli angusti limiti delle competenze territoriali interne e finanche nazionali.
La Parte Quarta si sforza di dare contezza di alcune performance realizzative dell’Ufficio in chiave sociale, ambientale, culturale e di sostenibilità. Non irrilevante il processo di ristrutturazione edilizia della sede e di ammodernamento degli impianti energetici, in corso grazie alle risorse del PNRR, e quello di incisiva e progressiva dematerializzazione dei fascicoli e delle partiche ammnistrative, attraverso l’adozione di un protocollo informatico e la digitalizzazione dei documenti.
Sotto il profilo culturale si descrive il recupero della parte artistica della sede, in particolare attraverso il restauro della Loggia sita al primo piano e dedicata a Pier Luigi Vigna, il restauro delle arcate rinascimentali e delle superfici in marmo, il richiamo alle opere di altissimo valore storico-artistico nazionale, messe a disposizione dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e dalla Direzione Generale dei Musei del Ministero della cultura.
La Parte Quinta, a cura dell’Università degli studi di Napoli Federico II, contempla gli esiti del processo di mappatura degli stakeholders, interni ed esterni, le cui aspettative e percezioni sono state stimolate attraverso la realizzazione e somministrazione di un questionario. Si tratta di un doveroso coinvolgimento della comunità interna ed esterna all’ufficio che restituisce interessanti ed utili spunti di riflessione.
In Appendice è riportata una “Nota di commento al bilancio sociale”, a cura della Prof.ssa Lara Tarquinio, Ordinario di Economia Aziendale - Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio”, Presidente del Comitato Scientifico del GBS, professionista estranea al lavoro svolto, che riflette sulle caratteristiche del documento pubblicato e non manca di esprimere alcune raccomandazioni e suggerimenti di sviluppo futuro del bilancio sociale della Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo.
[1] Il bilancio sociale della DNA è stato curato da un gruppo di lavoro, composto da magistrati, personale amministrativo e di polizia giudiziaria coordinato, oltre che dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo, dall’autore di questo articolo Antonio Ardituro, collaboratore del PNA nelle attività dell’Ufficio Risorse tecnologiche, flussi e statistica, dalla dirigente amministrativa Marta Costantino, dal prof. Paolo Ricci, ordinario di Public Accountability dell’Università degli studi Federico II di Napoli, e dal dott. Pietro Pavone, Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche della medesima università.
[2] Con delibera del 7 luglio 2016, il Consiglio Superiore della Magistratura pubblicò il primo manuale ricognitivo delle buone prassi degli uffici giudiziari; nel manuale, il Bilancio di responsabilità sociale è indicato come modello n. 4 della Macroarea n.1, nell’ambito della più generale categoria della governance collettiva.
[3] L’Associazione nazionale per la ricerca scientifica sul Bilancio Sociale è stata istituita nell’ottobre del 2001 e dichiara la sua missione nello “sviluppo e diffusione della ricerca scientifica inerente al bilancio di sostenibilità e ai diversi aspetti attinenti alla sua rappresentazione”, rivolgendo, attraverso la partecipazione di accademici e professionisti, la sua azione verso il mondo delle imprese, della pubblica amministrazione e del terzo settore. Ha pubblicato un primo documento nel 2001, relativo allo standard GBS per la redazione del bilancio sociale delle imprese, poi aggiornato con la versione 2013, nel rispetto delle indicazioni assunte dalla commissione Europea per un modello di rendicontazione di responsabilità sociale per le imprese dell’UE. Nel 2005 ha pubblicato un documento sul bilancio sociale nel settore pubblico.
[4] Ne indica la strada la stessa definizione proposta: Il bilancio sociale è definibile come il documento, da realizzare con cadenza periodica, nel quale l'amministrazione riferisce, a beneficio di tutti i suoi interlocutori privati e pubblici, le scelte operate, le attività svolte e i servizi resi, dando conto delle risorse a tal fine utilizzate, descrivendo i suoi processi decisionali ed operativi. … Il bilancio sociale serve a rendere conto ai cittadini in modo trasparente e chiaro di cosa fa l'amministrazione per loro. Rispetto al bilancio tradizionale, che riporta dati economico-finanziari difficilmente comprensibili dal cittadino, il bilancio sociale deve dunque rendere trasparenti e comprensibili le priorità e gli obiettivi dell'amministrazione, gli interventi realizzati e programmati, e i risultati raggiunti.
[5] Secondo la direttiva, il bilancio sociale, dopo una presentazione iniziale del documento ed una nota metodologica sul processo di rendicontazione, contiene informazioni relative ai seguenti ambiti: Valori di riferimento, visione e programma dell'amministrazione, con cui l'amministrazione esplicita la propria identità attraverso i valori, la missione e la visione che orientano la sua azione, chiarisce gli indirizzi che intende perseguire e le priorità di intervento; l'amministrazione rende conto del proprio operato nelle diverse aree di intervento e dei risultati conseguiti in relazione agli obiettivi dichiarati; risorse disponibili e utilizzate: l'amministrazione da conto delle risorse utilizzate, delle azioni poste in essere e dei risultati conseguiti con la loro gestione.
[6] In particolare, ciò significa dare conto dell’identità e del sistema di valori e della loro declinazione nelle scelte, nei comportamenti gestionali nonché nei risultati e negli effetti, indicando lo scenario e il contesto di riferimento, il sistema di governance e l’assetto organizzativo; i principi e i valori di riferimento che ispirano la missione, gli obiettivi e i comportamenti; le strategie e le politiche.
[7] Si tratta di un metodo di lavoro, ulteriormente affinato e consolidato, già sperimentato in due edizioni del bilancio sociale della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli: le edizioni 2018-2019 e 2020-2021 pubblicate dall’allora Procuratore Melillo, con la medesima collaborazione dell’Università Federico II di Napoli.
Diamanti di Ferzan Özpetek
Recensione di Dino Petralia
Una lunga tavola imbandita con sapore di scampagnata apre l’ultimo lavoro di Özpetek, per chiudersi poi allo stesso modo in un balzo temporale che corre tra una didascalica riunione del regista con i suoi attori e un pranzo comunitario in bilico tra celebrazione e dopolavoro. Nel mezzo una trama esteticamente perfetta, calibrata su un acquerello caratteriale pressoché tutto al femminile, dove le pulsazioni esistenziali di ogni protagonista ruotano in un girotondo di accadimenti familiari di potenza e riscatto intorno ad un binomio anch’esso al femminile, le sorelle Alberta e Gabriella Canova, titolari di una sartoria romana specializzata in costumi di cinema e teatro; donne entrambe lacerate da un abisso sentimentale a diverso titolo responsabile di un dolore immanente e virale.
Non è necessario vedersi quando ci si vuole bene, è il manifesto esistenziale che Özpetek proietta sull’intera sequenza filmica, frammentandolo nel racconto delle difficoltà relazionali del figlio adolescente della capo sarta Nina, nel riconoscente amore della modista Paola verso il compagno turco da tempo lontano e sublimato al centro nell’ormai eterna assenza di Amelia, figlia di Gabriella, morta in un incidente stradale, e nell’irrisolto legame parigino tra Alberta, indurita dal vuoto sentimentale, e l’imprenditore Cavani. Una frammentazione emotivamente ricercata e pulviscolare, quella del regista, non solo di privazioni e dolore, ma anche di riscatti e rinascite di donne, in cui a far da contraltare si muovono figure maschili violente e meschine, ridicole e comunque perdenti, ma ancor peggio sorde e cieche del loro intorno. Ma di quel proclama altrettanto vero è tuttavia anche il contrario; ed è lo stesso regista a rimarcarlo nell’esaltazione della solidale comunità artigianale della sartoria e del microcosmo affettivo, intriso di bisogno di vicinanza, proprio delle due sorelle. Una prossimità ancora una volta tutta al femminile, espressione di una potenza dominante pronta a deflagrare, capace di scardinare il disagio e neutralizzare il tormento, a patto di una soluzione eticamente risolutrice, benefica e pacificante, o pronta ad esplodere tra le pieghe di un talento nascosto, tanto sorprendente quanto provvidenziale, quello di Beatrice, nipote post sessantottina della ricamatrice Eleonora, svelatasi geniale modista. Quella stessa vicinanza conviviale, anticipata in esordio e magnificata alla fine, risolutiva pure dell’eterna frizione tra teatro e cinema, impersonata dalle due rispettive primedonne, che fa da sfondo nel contemporaneo impiego delle sarte di Casa Canova nella realizzazione dei distinti costumi di scena.
E quanto ai costumi, azzeccata allegoria del raffinato scenario esistenziale, è la realizzazione dell’abito della protagonista del film curato dalla premiata ma rabbiosa costumista Bianca Vega a campeggiare nel finale; un costume volutamente ricco e sontuoso, destinato a simboleggiare, così riepilogando e sintetizzando i passaggi rivoluzionari di ogni singola artigiana e delle loro titolari, come in un collier di diamanti, l’importanza e la preziosità del riscatto femminile, qui celebrato da Özpetek in forma di primato.
Difficile distinguere infine il tratto recitativo del ricco cast di note e provette attrici, valendo per tutte la menzione dell’ottima prova di Vanessa Scalera (l’isterica Vega) e di Mara Venier (la cuoca Silvana), entrambe assai versate in ruoli complessi per sguardi e coloriture di quella umanità di donna, travolgente e protettiva, loro imposta dal copione.
I malfunzionamenti dei sistemi informatici della Giustizia
Il presente contributo analizza il sistema delle deroghe al deposito telematico obbligatorio nel processo penale, disciplinato dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p., introdotti dalla riforma Cartabia (D.Lgs. 150/2022). L'analisi si concentra sulle eccezioni al principio generale, distinguendo tra deroghe strutturali previste dall'art. 111-bis c.p.p. e deroghe funzionali disciplinate dall'art. 175-bis c.p.p., con l'obiettivo di delineare un quadro sistematico della materia anche alla luce delle recenti innovazioni normative, evidenziandone l'impatto operativo e le implicazioni per il sistema giustizia. La digitalizzazione del processo penale, introdotta dalla riforma Cartabia (D.Lgs. 150/2022), ha segnato un'importante innovazione nel sistema giudiziario italiano. Tuttavia, l'implementazione di questa rivoluzione normativa ha incontrato numerosi malfunzionamenti applicativi e sfide infrastrutturali.
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il Principio Generale del Deposito Telematico - 3. Le Deroghe Strutturali Ex Art. 111-bis c.p.p. – 3.1. Atti Non Digitalizzabili (comma 3) - 3.2. Atti Personali (comma 4) - 3.3. Profili operativi delle deroghe strutturali - 4. Le Deroghe Funzionali Ex Art. 175-bis c.p.p. - 4.1. Malfunzionamenti Tecnici (comma 1) - 4.2. Impossibilità di Funzionamento (comma 4) – 5. Profili procedurali comuni alle deroghe funzionali - 6. Profili Operativi delle Deroghe – 7. La giurisprudenza di legittimità: il rigore nell'accertamento dei presupposti derogatori. I principi della Cassazione in tema di deroghe al deposito telematico [i] - 8. Considerazioni Conclusive
1. Introduzione
La digitalizzazione del processo penale ha ricevuto un decisivo impulso con la riforma Cartabia (D.Lgs. 150/2022), che ha sancito l’obbligo di deposito telematico per atti, documenti e richieste. Tale rivoluzione normativa, prevista dall’art. 111-bis c.p.p., ha lo scopo di rendere il sistema giudiziario più efficiente e trasparente.
La disciplina è stata successivamente integrata dal D.M. 206/2024 e dal D.Lgs. 31/2024 che hanno delineato un'implementazione graduale del principio: dal 1° gennaio 2025 l'obbligo si applica agli uffici di primo grado (GIP, tribunale ordinario, procura) mentre dal 2027 si estenderà agli altri uffici giudiziari.
Il sistema delineato dalla riforma si fonda su alcuni requisiti essenziali: la certezza, anche temporale, dell'avvenuta trasmissione e ricezione degli atti; l'identificazione certa di mittente e destinatario; il rispetto della normativa sulla firma digitale e sulla gestione dei documenti informatici.
Tuttavia, la complessità tecnologica e le sfide infrastrutturali hanno richiesto l’adozione di deroghe specifiche per garantire la continuità del servizio giudiziario e tutelare i diritti delle parti coinvolte. Tali deroghe sono disciplinate dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p., che definiscono rispettivamente deroghe strutturali e funzionali al principio generale del deposito telematico.
2. Il Principio Generale del Deposito Telematico
L’art. 111-bis c.p.p., introdotto dalla riforma Cartabia, stabilisce che il deposito di atti e documenti nel processo penale debba avvenire esclusivamente per via telematica, salvo quanto previsto dall’art. 175-bis c.p.p. La norma mira a garantire certezza, trasparenza e celerità nella gestione documentale, imponendo standard di sicurezza elevati, come la firma digitale e l’identificazione sicura di mittente e destinatario.
Nonostante il potenziale miglioramento nell’efficienza del sistema giudiziario, la transizione digitale ha incontrato diverse difficoltà tecniche e organizzative, tra cui malfunzionamenti informatici, carenze infrastrutturali e resistenze culturali. Per affrontare tali sfide, il legislatore ha previsto deroghe specifiche che consentono il deposito in formato cartaceo in casi particolari.
3. Le Deroghe Strutturali Ex Art. 111-bis c.p.p.
Le deroghe strutturali previste dall’art. 111-bis c.p.p. sono connesse alla natura degli atti o alla qualità dei soggetti coinvolti nel processo. Esse si articolano in due principali categorie: atti non digitalizzabili e atti personali.
3.1. Atti Non Digitalizzabili (comma 3)
La prima deroga riguarda gli atti e i documenti che, per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere acquisiti in copia informatica. La Relazione illustrativa al D.Lgs. 150/2022 fornisce alcuni esempi significativi di questa categoria:
La necessità di preservare il valore probatorio di tali documenti impone la loro acquisizione in formato originale, con successiva digitalizzazione tramite procedure dedicate[2].
3.2. Atti Personali (comma 4)
La seconda deroga, recentemente modificata dal D.Lgs. 31/2024, concerne gli atti che le parti e la persona offesa dal reato compiono personalmente. Questa previsione risponde a una duplice ratio:
Gli uffici giudiziari devono quindi predisporre procedure per l’acquisizione cartacea di tali atti, assicurando la loro successiva digitalizzazione e inserimento nel fascicolo telematico[3].
3.3. Profili operativi delle deroghe strutturali
L'applicazione pratica delle deroghe ex art. 111-bis c.p.p. è stata dettagliata dal D.M. 206/2024 che ha previsto specifiche modalità operative per la gestione degli atti non telematici. In particolare, l'applicativo PPT (APP) prevede apposite funzionalità per l'acquisizione al fascicolo informatico degli atti depositati in formato cartaceo.
Per gli atti non digitalizzabili, la valutazione sulla necessità di acquisizione in formato analogico spetta al magistrato, che deve darne atto a verbale e disporre contestualmente la loro acquisizione in formato digitale mediante l'apposita funzione a cura dell'ausiliario. Questo meccanismo garantisce la coesistenza tra esigenze di digitalizzazione e necessità di preservare l'originalità di determinati documenti.
Per gli atti personali delle parti, gli uffici giudiziari devono predisporre adeguate procedure per l'acquisizione e la gestione dei depositi cartacei, garantendo la loro successiva digitalizzazione e inserimento nel fascicolo informatico, secondo le specifiche tecniche fornite dalla circolare ministeriale.
4. Le Deroghe Funzionali Ex Art. 175-bis c.p.p.
L'art. 175-bis c.p.p. introduce ulteriori deroghe all'obbligo di deposito telematico, che possiamo definire "funzionali" in quanto legate a impedimenti tecnici o cause di forza maggiore che rendono temporaneamente impossibile l'utilizzo del sistema informatico. Le deroghe funzionali disciplinate dall’art. 175-bis c.p.p. si applicano in presenza di impedimenti tecnici o cause di forza maggiore che rendono temporaneamente impossibile l’utilizzo del sistema informatico. Queste deroghe si suddividono in due principali categorie: malfunzionamenti tecnici e impossibilità di funzionamento.
4.1. Malfunzionamenti Tecnici (comma 1)
La prima ipotesi derogatoria opera quando si verifica un malfunzionamento dei sistemi informatici certificato dal Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati (DGSIA). Il comma 1 dell’art. 175-bis c.p.p. prevede che, in caso di malfunzionamento dei sistemi informatici, il deposito possa avvenire in formato cartaceo. Il malfunzionamento deve essere certificato dal Direttore Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (DGSIA) e pubblicato sul Portale dei Servizi Telematici). L'attestazione del malfunzionamento deve essere pubblicata sul Portale dei Servizi Telematici secondo le procedure stabilite dal D.M. 206/2024.
Tra le principali tipologie di malfunzionamento rientrano:
Il Tribunale di Milano, nel suo Protocollo PCT, ha elaborato una classificazione dei malfunzionamenti basata sulla loro gravità e durata:
4.2. Impossibilità di Funzionamento (comma 4)
Il comma 4 dell’art. 175-bis c.p.p. disciplina i casi in cui cause di forza maggiore, come black-out elettrici, disastri naturali o incendi, impediscono il funzionamento dei sistemi informatici. Questa fattispecie si distingue dal malfunzionamento tecnico per la sua natura emergenziale e imprevedibile. In tali situazioni, l’impossibilità deve essere attestata dal dirigente dell’ufficio giudiziario[5].
Le cause di forza maggiore tipicamente includono:
In questi casi, l'impossibilità deve essere attestata dal dirigente dell'ufficio giudiziario, secondo le modalità specificate dal D.M. 206/2024.
5. Profili procedurali comuni alle deroghe funzionali
Per entrambe le ipotesi di deroga funzionale (malfunzionamento e impossibilità), il D.M. 206/2024 prevede:
Il sistema delle deroghe delineato dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. rappresenta un equilibrato compromesso tra diverse esigenze:
6. Profili Operativi delle Deroghe
Le deroghe disciplinate dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. sono accompagnate da procedure operative specifiche per la gestione del cosiddetto “doppio binario”. In particolare, il D.M. 206/2024 prevede:
Queste misure assicurano la continuità del servizio giudiziario e riducono l’impatto dei malfunzionamenti sullo svolgimento delle attività processuali[6].
7. La giurisprudenza di legittimità: il rigore nell'accertamento dei presupposti derogatori. I principi della Cassazione in tema di deroghe al deposito telematico[ii]
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42873/24 della Seconda Sezione Penale, ha fornito rilevanti precisazioni interpretative in materia di deroghe al deposito telematico ex art. 175-bis c.p.p., con particolare riferimento ai presupposti di legittimità delle attestazioni di malfunzionamento.
La Suprema Corte con la sentenza indicata ha chiarito che il presupposto per l’operatività della deroga agli obblighi di redigere l’atto o il documento in formato digitale e di depositarlo con modalità telematiche è costituito esclusivamente, nel caso di malfunzionamento “certificato”, dalla certificazione del direttore generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, e, nel caso del malfunzionamento “non certificato”, dall’attestazione del dirigente dell’ufficio giudiziario. Anche qualora la certificazione o l’attestazione fossero adottate in assenza dei presupposti, cioè in assenza di un effettivo malfunzionamento dei sistemi o del sistema, tale da non consentirne l’efficace utilizzo, non risulterebbe comunque compromessa, alla luce del disposto del comma 3 dell’art. 175 bis c.p.p., la validità (e/o l’ammissibilità e/o la ricevibilità) dell’atto che, sulla base delle suddette certificazione o attestazione, è stato redatto in forma di documento analogico e depositato con modalità non telematica.
La pronuncia trae origine da una peculiare fattispecie: il GIP del Tribunale di L'Aquila aveva dichiarato inammissibile una richiesta di archiviazione depositata in forma cartacea, nonostante il Procuratore della Repubblica avesse previamente attestato il malfunzionamento del sistema informatico per i procedimenti relativi a "ignoti seriali", disponendo il deposito analogico fino al 31 maggio 2024.
La Suprema Corte ha rilevato la duplice abnormità del provvedimento di inammissibilità:
a) Sul piano strutturale, per l'esercizio di un potere non attribuito dall'ordinamento processuale, essendo l'accertamento del malfunzionamento riservato al dirigente dell'ufficio giudiziario ex art. 175-bis comma 4 c.p.p.;
b) Sul piano funzionale, per aver determinato una stasi irrimediabile del procedimento, precludendo sia il deposito telematico (stante il malfunzionamento attestato) sia quello cartaceo (per effetto dell'inammissibilità dichiarata).
Di particolare rilievo appare il principio secondo cui il sindacato giurisdizionale non può estendersi alla valutazione dei presupposti del malfunzionamento, qualora questo sia stato formalmente attestato dall'autorità competente secondo la normativa regolamentare.
La pronuncia evidenzia come il sistema delle deroghe ex art. 175-bis c.p.p. si fondi su un delicato equilibrio tra:
Questo pronunciato fornisce preziose indicazioni operative per l'applicazione delle deroghe, consentendo di enucleare precise direttive operative per l'applicazione delle deroghe al deposito telematico:
a) L'attestazione del malfunzionamento costituisce atto amministrativo riservato, sottratto al sindacato del giudice;
b) Il provvedimento derogatorio deve indicare con precisione:
c) Durante la vigenza della deroga, il deposito con modalità alternative costituisce diritto per l'utente e non può essere fonte di inammissibilità o altra sanzione processuale;
d) Il sistema delle deroghe deve sempre garantire la prosecuzione dell'attività processuale, evitando situazioni di stasi procedimentale.
La pronuncia della Corte di Cassazione n. 42873/2024 si pone quale baluardo interpretativo nel contesto delle deroghe disciplinate dagli articoli 111-bis e 175-bis c.p.p.
Gli Ermellini hanno evidenziato, con dovizia argomentativa l'assoluta imprescindibilità del rispetto dei presupposti applicativi per l'emanazione di provvedimenti attestanti il malfunzionamento, ribadendo che:
La Corte ha altresì chiarito che, pur in presenza di certificazioni o attestazioni adottate in assenza di effettivi presupposti, la validità degli atti depositati in formato analogico non viene compromessa. Tale conclusione si fonda sull'interpretazione sistematica del comma 3 dell'art. 175-bis c.p.p., che tutela l'affidamento delle parti sulla regolarità dei provvedimenti amministrativi emessi.
L'importanza della pronuncia, per quanto qui di interesse, risiede nell'equilibrio che essa traccia tra il rigore richiesto per l'emanazione di provvedimenti ex artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. e la necessità di salvaguardare la validità degli atti processuali. La Corte sottolinea che il rispetto dei presupposti applicativi non solo garantisce la trasparenza e l'efficacia del sistema telematico, ma rafforza altresì la certezza del diritto processuale.
Gli Ermellini invitano alla scrupolosa osservanza di protocolli condivisi e alla tempestiva formazione degli operatori giudiziari, affinché le deroghe non si traducano in prassi discrezionali o arbitrarie. Questo approccio mira a consolidare la fiducia delle parti nel sistema e a promuovere un'applicazione uniforme delle disposizioni normative.
Il sistema delle deroghe introdotto dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. è un esempio emblematico di bilanciamento tra modernizzazione tecnologica e tutela delle garanzie processuali. Sebbene la digitalizzazione rappresenti una necessità ineludibile, è fondamentale preservare i principi fondamentali del giusto processo, garantendo che le deroghe siano applicate con rigore e trasparenza.
Le future evoluzioni normative e giurisprudenziali dovranno continuare a rafforzare questo equilibrio, promuovendo soluzioni innovative e sostenibili per affrontare le sfide della transizione digitale nel sistema giustizia.
8. Considerazioni Conclusive
Il sistema delineato dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. rappresenta un approccio equilibrato alla transizione digitale del processo penale. Le deroghe strutturali e funzionali garantiscono flessibilità, consentendo di affrontare le sfide tecnologiche e infrastrutturali senza compromettere i diritti delle parti.
La riforma Cartabia segna un passo significativo verso la modernizzazione del sistema giustizia, ma richiede un impegno continuo per migliorare l’affidabilità dei sistemi informatici e promuovere la formazione del personale. Solo attraverso un’implementazione efficace e sostenibile si potranno cogliere pienamente i benefici della digitalizzazione, assicurando un equilibrio tra efficienza tecnologica e tutela dei diritti processuali[7].
[1]: Relazioni DGSIA (Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati)
[2]: Relazione illustrativa al D.Lgs. 150/2022
[3]: Decreto Legislativo n. 31/2024
[4]: Protocollo PCT del Tribunale di Milano
[5]: Decreto Ministeriale n. 206/2024
[6]: Circolari operative del Ministero della Giustizia
[7]: Relazioni illustrative al D.Lgs. 150/2022
[i] Cass. pen., Sez. II, 6 novembre 2024, n. 42873
[ii]Cass. pen., Sez. II, 6 novembre 2024, n. 42873
Bibliografia
1. D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, art. 6, comma 1. : Codice di procedura penale, art. 111-bis, comma 2. : Codice di procedura penale, art. 111-bis, comma 3. : Codice di procedura penale, art. 111-bis, comma 4. : D.Lgs. 19 marzo 2024, n. 31, art. 2, comma 1, lettera a). : Codice di procedura penale, art. 175-bis, comma 1. : Codice di procedura penale, art. 175-bis, comma 4. : D.M. 206/2024, art. 1. : Circolare ministeriale sull'applicativo PPT (APP).
2. https://servicematica.com/anm-numerosi-malfunzionamenti-app-penale-mancano-assistenza-e-doppio-binario / Anm: “Troppi malfunzionamenti, l’app penale è un fallimento”
4. Processo penale telematico: il Ministero della Giustizia ... - Altalex https://www.altalex.com/documents/news/2024/12/12/processo-penale-telematico-ministero-giustizia-difende-app
5. I pilastri del sistema giudiziario Italiano: struttura e funzionamento, https://www.venturassociati.com/il-sistema-giudiziario-italiano/
6. Portale europeo della giustizia elettronica - Sistemi giudiziari nazionali; https://e-justice.europa.eu/16/IT/national_justice_systems?ITALY
7. Riforma della Giustizia, https://www.italiadomani.gov.it/it/Interventi/riforme/riforme-orizzontali/riforma-della-giustizia.html
Utilizzo di sistemi automatizzati in assenza di sorveglianza umana. AGCOM e Meta: la storia infinita (nota a TAR Lazio, sez. IV, 24 gennaio 2024, n. 1393)
di Lorenza Tomassi
Sommario: 1. Premessa; 2. I fatti controversi; 3. La ricostruzione del quadro normativo: la distinzione tra hosting provider attivo e passivo; 4. La configurazione come hosting provider passivo in virtù dell’utilizzo di sistemi automatici di verifica; 5. Considerazioni critiche: i punti deboli dell’attuale inquadramento giuridico; 6. Riflessioni di carattere generale: i rischi connessi all’assenza di sorveglianza umana rispetto all’uso di sistemi automatici anche alla luce dell’IA ACT.
1. Premessa
Nella infinita querelle tra Agcom e le c.d. Big Tech (i.e. Meta Platforms e Google)[i], interviene una nuova pronuncia del giudice amministrativo che, oltre a confermare orientamenti già espressi, consente, almeno a parere di chi scrive, di spostare la riflessione sotto un profilo diverso, legato all'uso di sistemi automatizzati, in sostituzione dell'uomo, ai fini della verifica dei contenuti pubblicati sulle loro piattaforme.
Come si avrà modo di approfondire in questa sede, infatti, sembrerebbe che la sostituzione dell'uomo con la “macchina” nell’assolvimento delle funzioni di vigilanza rispetto ai contenuti immessi[ii], giustificherebbe l'assenza di responsabilità da parte della società che ospita il contenuto, anche qualora sia accertata, in una fase successiva, la natura illecita dello stesso.
Lungi dal voler affrontare la questione in chiave civilistica[iii], tale assunto rappresenta lo spunto per riflettere, ancora una volta, in che termini l’uso di sistemi automatizzati, capaci di sostituire l'uomo nell’assolvimento delle sue funzioni, possa essere consentito senza correre il rischio di generare dei coni d'ombra in cui venga meno la riferibilità dell'operato della macchina all'uomo[iv].
Da qui, la questione se l’intelligenza artificiale sia davvero strumentale all'uomo e, come tale, trasferisce su quest’ultimo sempre la responsabilità del suo operato o, diversamente, se non sia da considerarsi sostitutiva, generando zone franche rispetto al regime della titolarità delle azioni o delle operazioni da essa compiute.
2. I fatti controversi
A seguito di una attività di monitoraggio avviata d’ufficio, l’AGCOM rilevava come, in più occasioni, nel periodo di maggio 2022, Facebook aveva ospitato contenuti “sponsorizzati” e, dunque, a pagamento, idonei a promuovere e pubblicizzare attività di gioco e scommesse online con vincite in denaro[v].
Ne conseguiva, da parte dell’Autorità, un atto di contestazione (n. 6/22/DSDI - Proc 8/FDG) nei confronti di Meta Platforms per la violazione dell’art. 9, rubricato “Divieto di pubblicità giochi e scommesse”, del d.l. n. 87 del 2018 (c.d. Decreto Dignità), in base al quale è disposto il divieto di qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, compresi i social media.
La stessa disposizione, al comma successivo, dispone che sono responsabili dell’illecito il “committente”, il “proprietario del mezzo o del sito di diffusione”, il “proprietario del mezzo o del sito di destinazione” e “l’organizzatore della manifestazione, evento o attività”. Si tratta quindi di un divieto generale che introduce per l’ordinamento italiano una responsabilità oggettiva in capo ad una pluralità di soggetti tutti egualmente responsabili.
Meta procedeva, di conseguenza, a rimuovere i contenuti contestati, riconoscendo la violazione delle normative del Servizio Facebook e, altresì, manifestava la propria disponibilità ad instaurare un dialogo con l’autorità stessa affinché quest’ultima potesse segnalare in modo più agevole eventuali e presunte violazioni della disposizione sopra richiamata.
Ciononostante, la società rilevava che l’atto di contestazione si poneva manifestamente in contrasto con le previsioni della Direttiva 2000/31/EC, cd. Direttiva E-Commerce, recepita nell’ordinamento nazionale con il D. Lgs. n. 70/2003, c.d. Decreto E- Commerce. In particolare, evidenziava la società che, ai sensi degli artt. 14 e 15 della Direttiva, trasposti, rispettivamente, negli artt. 16 e 17 del Decreto E-Commerce, gli hosting providers, come Facebook, “(i) non possano essere ritenuti responsabili della correttezza delle informazioni caricate sulla piattaforma e (ii) non possano essere soggetti ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che gli utenti trasmettono o memorizzano, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite”.
Ulteriormente, la società sosteneva che, nonostante in capo ad essa ricorresse un onere di rimozione dei contenuti vietati, una volta portati a sua conoscenza, ciò non determina un onere di verifica e ispezione rispetto a tutti i contenuti pubblicati sulla piattaforma di cui è gestore. Proprio l’assenza di tale obbligo, qualificherebbe Meta come Hosting provider passivo che lo esonera dalla responsabilità dei contenuti, anche quelli lesivi, diffusi per il suo tramite.
Emerge così che le parti in causa ritengono sussistere l’applicazione di due disposizioni differenti.
Secondo Meta, infatti, nel caso controverso non dovrebbe trovare applicazione la disciplina recata dall’art 9 del Decreto Dignità, ma piuttosto, quella espressa nella Direttiva 2000/31/CE, c.d. Direttiva E- commerce, recepita nel nostro ordinamento attraverso il D.lgs. n. 70/2003, c.d. Decreto E-commerce, che esclude proprio la responsabilità degli hosting provider per i contenuti caricati da terzi sulle loro piattaforme[vi].
Di parere contrario, invero, si pone l’Agcom che, richiamando il Decreto Dignità, ritiene sussistere una responsabilità oggettiva scaturita dal divieto assoluto di diffusione su qualunque mezzo, anche i social media, di “qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta” relativa al gioco di azzardo.
Non troverebbe applicazione, poi, secondo l’autorità il decreto E- commerce dal momento che lo stesso esclude il suo campo di applicazione ai giochi d'azzardo, che implicano una posta pecuniaria, i giochi di fortuna, compresi il lotto, le lotterie, le scommesse i concorsi pronostici e gli altri giochi come definiti dalla normativa vigente, nonché quelli nei quali l'elemento aleatorio è prevalente” (art. 1, comma 2, lett. g), d.lgs. n. 70/03)[vii].
In particolare, da parte dell’Autorità vi sarebbero due considerazioni ulteriori che confermano la colpevolezza della società: in primo luogo i contenuti contestati erano “sponsorizzati”, vale a dire delle inserzioni pubblicizzate da Meta previo pagamento di utenti business. In secondo luogo, poi, rispetto a queste inserzioni pubblicitarie, il caricamento sulla piattaforma non è immediato ma, al contrario, sono necessarie ventiquattro ore affinché la società intermediaria possa verificare se il contenuto rispetti le norme pubblicitarie della piattaforma[viii]. Tale controllo avviene generalmente attraverso tecnologie automatizzate ma, in alcuni casi non specificati, è richiesto il controllo da parte di persone fisiche.
La combinazione di tali considerazioni ha, quindi, indotto ulteriormente l’autorità a ritenere che Meta fosse a conoscenza del contenuto ospitato e, pertanto, con delibera n. 422/22/CONS, ha sanzionato la società al pagamento di 750 mila euro, cui ha fatto seguito l’impugnazione del provvedimento da parte della società sanzionata.
Da qui, il giudizio in commento.
3. La ricostruzione del quadro normativo: la distinzione tra hosting provider attivo e passivo
Nell’accogliere il ricorso presentato da Meta Platforms, annullando la sanzione comminata da AGCOM, il giudice amministrativo si è principalmente soffermato sul regime della responsabilità degli hosting provider secondo quanto stabilito dalla direttiva 2000/31/CE, c.d. direttiva e-commerce e dalle successive modifiche.
In questa sede, pare opportuno dare conto dell’evoluzione del quadro normativo di riferimento al fine di comprendere quali sono state le logiche che hanno ispirato il legislatore nel corso degli anni.
La direttiva sull’ e-commerce risale al 2000, vale a dire un’epoca in cui la rete non aveva ancora assunto quella posizione così centrale che riveste oggi. Per queste ragioni, la ratio del legislatore europeo era stata, sin dall’inizio, volta a configurare un quadro giuridico entro il quale favorire lo sviluppo della libera circolazione dei servizi elettronici[ix]nonché le misure ivi previste si limitavano, evocando il principio di proporzionalità, “al minimo necessario” per raggiungere l’obiettivo del buon funzionamento del mercato interno[x].
All’interno della direttiva, i prestatori di servizi vengono distinti a seconda che l’attività svolta sia di semplice trasporto (c.d. mere conduit)[xi], di memorizzazione temporanea delle informazioni (c.d. caching)[xii] o di hosting[xiii], intesa come memorizzazione permanente delle informazioni[xiv]. Meta, nella fattispecie incriminata, svolge una attività di hosting dal momento che la propria piattaforma prevede la memorizzazione definitiva delle informazioni caricate.
Sulla base di queste condizioni, la direttiva prevedeva una generale disciplina di esonero della responsabilità in capo ai prestatori di servizi in qualità di hosting provider, la cui attività era di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, e che si limitava, così, alla memorizzazione delle informazioni trasmesse[xv]. Rispetto a tale tipologia di servizio, l’art. 14 escludeva la responsabilità nei casi in cui i fornitori di servizi non fossero stati a conoscenza delle attività illecite che avvengono tramite i propri servizi ed a condizione che, avutane conoscenza, agivano immediatamente per rimuovere i contenuti illeciti. Tale regime si combinava, poi, con quanto disposto dal successivo articolo 15, in cui era sancita l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza.
Nei medesimi termini si poneva, a livello nazionale, il D.lgs. n. 70/2003, adottato in attuazione della direttiva, negli artt. 16 e 17, oggi definitivamente abrogati dal D.lgs. n. 50/2024.
La scelta di sottrarre l’hosting provider a un generale dovere di controllo preventivo, a cui facesse seguito l’attribuzione di un regime di responsabilità per i contenuti illeciti ospitati, ha ben presto evidenziato i suoi limiti, in ragione principalmente dal repentino sviluppo tecnologico che ha mutato profondamente il rapporto tra utenti e piattaforme[xvi]. Anche la letteratura sul tema ha, a più riprese, riconosciuto l’obsolescenza dalla disciplina recata nella direttiva e-commerce, ritenendo necessario un ripensamento della stessa[xvii]. In particolare, è emersa l’esigenza di fornire adeguate forme di tutela rispetto ai diritti degli utenti che “navigano” in rete ma che, più propriamente, sapesse cogliere i rischi specifici, connessi a questa nuova realtà virtuale, in cui le piattaforme offrono innumerevoli servizi[xviii].
Su questi presupposti è stato adottato, nel 2022, il Digital Service Act, vale a dire il nuovo regolamento sui servizi digitali, UE 2022/2065[xix], nel quale si evidenzia che un comportamento responsabile e diligente da parte dei prestatori di servizi intermediari è essenziale per un ambiente online sicuro, prevedibile e affidabile, in cui i diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea siano efficacemente tutelati e l'innovazione sia agevolata, contrastando la diffusione di contenuti illegali online e i rischi per la società che la diffusione della disinformazione o di altri contenuti può generare[xx].
Nonostante i buoni propositi, la normativa prevista al suo interno, pur introducendo nuovi obblighi in materia di trasparenza[xxi], è stata strutturata sulla falsa riga della precedente, sollevando, in dottrina, le medesime criticità osservate in precedenza. Permane, infatti, all’art. 6, un generale esonero dalla responsabilità degli hosting per i contenuti “caricati” dai terzi, e altresì, si estende tale esenzione nelle ipotesi in cui i providers svolgano di propria iniziativa attività volte a individuare e a rimuovere contenuti illegali memorizzati dagli utenti[xxii].
All’interno di questo quadro normativo si colloca la sentenza in esame che, aderendo a consolidati orientamenti europei e nazionali[xxiii], si è soffermata sulla distinzione tra hosting provider attivo e hosting provider passivo, ricavata principalmente in via interpretativa del dato normativo di cui si è appena dato conto[xxiv].
Secondo i giudici, si configura come hosting provider passivo, il prestatore di servizi che svolge una mera attività di prestazioni di servizi di ordine principalmente tecnico e automatico che non si traduce in una attività di controllo delle informazioni trasmesse né tantomeno questo determina la conoscenza delle informazioni stesse. Rispetto, quindi, ai contenuti immessi, il prestatore rimane pressoché neutrale[xxv], con la conseguenza che l’attività svolta non gli consente di sapere se si sia in presenza di attività illecite o meno.
Ne consegue, quindi, che l’hosting provider passivo può essere considerato responsabile dei contenuti illeciti ospitati nei soli casi in cui non li abbia rimossi una volta che ne sia venuto a conoscenza.
Al contrario, l’hosting provider attivo manipola le informazioni che sono inserite sulla propria piattaforma e, come tale, esercita una funzione di controllo in piena conoscenza dei contenuti memorizzati. Il controllo e la conoscenza determinano, conseguentemente, la sussistenza della responsabilità dell’hosting in ordine alle informazioni immesse.
I giudici riconoscono che il fine perseguito da tale legislazione è quello di evitare che il provider venga considerato attivo per il solo fatto di promuovere di propria iniziativa delle forme di controllo dei contenuti memorizzati dagli utenti e che possa, conseguentemente, essere indotto a non adottare alcun sistema diretto a prevenire l’immissione di contenuti illegali nella rete, stante la responsabilità che gli verrebbe imputata in virtù di tale condotta.
4. La configurazione come hosting provider passivo in virtù dell’utilizzo di sistemi automatici di verifica
Poste queste premesse, il giudice si è, quindi, domandato se il sistema di controllo di cui Meta disponesse sia tale da conferirgli la natura di hosting provider attivo, attribuendogli la responsabilità dei contenuti immessi o, al contrario, aderendo a consolidata giurisprudenza[xxvi], la natura tecnica ed automatica dei suoi meccanismi sia tale da conferirgli un ruolo neutrale rispetto a tali informazioni.
Su tali aspetti, i giudici hanno in primo luogo osservato nella sentenza de qua che i sistemi utilizzati dalla società sanzionata sono principalmente automatici, con la conseguenza che il controllo manuale, da parte di una persona fisica, da cui dipende il riconoscimento della responsabilità, avviene solo in ipotesi residuali rispetto, peraltro, a un numero di contenuti certamente esiguo se si considera la mole di inserzioni che Facebook ospita ogni giorno.
L’intervento umano, secondo quanto sostenuto da Meta, verrebbe richiesto proprio dal software, seppur non chiarendo in base a quali meccanismi e presupposti, tanto nei casi di verifica manuale delle inserzioni quanto ai fini del miglioramento e dell’addestramento del sistema automatizzato utilizzato per le predette finalità.
Sulla base di questi presupposti, perciò, i giudici hanno negato la natura di hosting provider attivo alla società ricorrente, giacché l’attività svolta dal gestore è avvenuta in via del tutto automatizzata tale da non consentire alla stessa la manipolazione e, quindi, la conoscenza dei dati memorizzati sulla propria piattaforma.
Deve essere osservato, poi, che secondo i giudici una manipolazione dalle informazioni si avrebbe, oltre all’ipotesi dell’intervento della persona fisica, anche nei casi in cui il sistema automatizzato procedesse a rifiutare la condivisione del contenuto, perché contrario agli Standard della community. In questo modo, il prestatore verrebbe declinato in termini di hosting provider attivo dal momento che la sua attività sarebbe funzionale ad impedire la condivisione di contenuti illeciti e, quindi, la fruizione di questi agli utenti.
Qualora, al contrario, l’attività svolta dal software sia volta nel senso di accogliere una inserzione, non essendoci alcuna manipolazione, verrebbe a mancare il ruolo attivo su cui fondare la responsabilità del gestore. Trattandosi di un accertamento tecnico ed automatico, il gestore, come nel caso de qua, non può venire a conoscenza del contenuto illegale creato dall’utente e, di conseguenza, non ha la possibilità di attivarsi per rimuoverlo.
Nelle considerazioni dei giudici, tale interpretazione troverebbe conferma nel fatto ulteriore che AGCOM non sarebbe stata in grado di provare che il caso controverso riguarderebbe una di quelle limitate ipotesi in cui al controllo automatizzato abbia fatto seguito l’intervento manuale della persona fisica, c.d. revisione umana, tale da giustificare il passaggio da passivo ad attivo dell’hosting provider.
In definitiva, dunque, non essendo stato provato da parte dell’autorità l’intervento del funzionario umano da cui dipende la conoscenza effettiva da parte di Meta dei contenuti illeciti ospitati, i giudici hanno accolto il ricorso, annullando, di conseguenza, la sanzione di Agcom imposta nei confronti della società ricorrente[xxvii].
5. Considerazioni critiche: i punti deboli dell’attuale inquadramento giuridico.
La sentenza in commento, pur aderendo a precedenti ormai consolidati nel nostro ordinamento, rappresenta il presupposto, come si anticipava in premessa, per riflettere sulla opportunità e sulla adeguatezza del quadro normativo in riferimento all’utilizzo di sistemi automatizzati per l’esercizio di attività di controllo dei contenuti immessi nella rete ma, più in generale, per indagare sul rapporto che intercorre tra l’uomo e la macchina qualora quest’ultima svolga funzioni prima esercitate dall’uomo.
Deve essere osservato in primo luogo, che, a parere di chi scrive, sebbene l’orientamento espresso dai giudici sia coerente con il quadro normativo di riferimento, quest’ultimo risulta essere ancora non del tutto aderente ai mutamenti e al consolidamento che ha assunto l’intelligenza artificiale, ormai, a livello globale, negli ambiti più disparati.
Come visto, l’esenzione della responsabilità del soggetto che utilizza i sistemi automatizzati di controllo può essere invocata ogniqualvolta questo non sia a conoscenza degli illeciti ammessi per il tramite di tali sistemi.
Ciononostante, non può farsi a meno di notare che la disciplina recata in tale contesto presenti alcune debolezze. Come è emerso, il prestatore del servizio rimane passivo nei casi in cui l’inserzione, pur dal contenuto illecito, venga pubblicata a seguito del controllo automatico; al contrario, qualora dallo stesso controllo automatico emerga il rifiuto del caricamento dell’inserzione sulla piattaforma, allora il prestatore assume le vesti di hosting provider attivo. Ciò troverebbe giustificazione nel fatto che, secondo costante orientamento dai giudici, in questo secondo caso si è verificata una manipolazione del contenuto da parte dell’internet service provider.
Tale assunto, a parere di chi scrive, presenta alcune criticità. Deve essere evidenziato, infatti, che tanto nei casi in cui il contenuto sia ammesso, quanto in quelli in cui ne sia disposto il divieto, il prestatore non opera alcuna attività di manipolazione del dato. In entrambi i casi, il dato resta immutato dal momento che l’attività svolta non “arricchisce” la fruizione dei contenuti[xxviii]. A mutare, invero, è la capacità del sistema automatizzato di controllo di rilevare un potenziale illecito. L’attività posta in essere dal sistema, sia in caso di ammissione che di diniego di condivisione dell’inserzione, è la medesima, sostanziandosi in un meccanismo automatico e passivo di controllo. In entrambe le attività, di fatto, non si è verificata nessuna revisione da parte della persona fisica che, come visto, per espressa previsione legislativa e costante orientamento dei giudici, rappresenta il presupposto per qualificare l’hosting provider come attivo e a cui faccia seguito l’applicazione del regime della responsabilità.
A fronte di questo, la scelta di distinguere la natura dell’hosting provider a seconda se il contenuto sia stato ammesso o vietato, trova la sua ragion d’essere, almeno a parere di chi scrive, nella volontà legislativa di prevedere un regime di favore nei casi in cui il prestatore di servizi non sia stato in grado, attraverso l’uso di un sistema automatizzato, di riconoscere un illecito.
E questo mette in luce due questioni ulteriori: l’una, relativa alla capacità dei sistemi di autoapprendimento di riconoscere la violazione delle norme e, l’altra, relativa alla riferibilità dell’attività realizzata da tale modello all’uomo, che, in questo specifico caso, coincide con la società di intermediazione.
Rispetto alla prima, deve osservarsi che nel dibattito scientifico, i modelli di autoapprendimento, c.d. machine learning, vengono esaltati per la loro capacità intrinseca di auto apprendere dalla loro esperienza. Detto diversamente, tali sistemi dovrebbero essere in grado, allenandosi sulla elevata quantità di dati immessi, di generare degli output che non scaturiscono da comandi precedentemente prescritti dal data scientist ma che, al contrario, sono generati da una autonoma capacità del modello di combinare le variabili al suo interno. Questo, operando secondo regole statistiche, dovrebbe rendere una determinazione che dovrebbe essere, tra quelle possibili, quella più probabile.
In questi termini si colloca anche il recente Regolamento sull’Intelligenza Artificiale secondo cui i sistemi di intelligenza artificiale si distinguono dai tradizionali software per la loro capacità inferenziale, intesa come abilità di generare output, quali previsioni o decisioni, che possono influenzare gli ambienti fisici e virtuali[xxix].
Questa caratteristica propria del sistema dovrebbe consentirgli una costante capacità di adattamento ai mutamenti del dato normativo e alla sua successiva applicazione sul piano pratico. Ciò vuol dire, dunque, che un sistema di autoapprendimento adeguatamente allenato dovrebbe essere capace di riconoscere quando una fattispecie soddisfi le caratteristiche di una violazione disciplinata a livello normativo[xxx].
Ciononostante, non sono pochi i casi in cui l’AGCOM sanzioni gli internet service provider perché i sistemi di controllo e monitoraggio di cui dispongono non sono in grado di riconoscere una violazione commessa dagli utenti[xxxi]. Il che solleva non poche perplessità da un lato, circa la capacità di questi modelli di saper interpretare il dato normativo applicato alle esperienze pratiche e, dall’altro lato, con riguardo alla capacità degli utilizzatori di addestrare tali modelli.
Nel caso in commento, infatti, la fattispecie incriminata conteneva evidenti elementi (quali, ad esempio, il richiamo di vincite di ingenti somme di denaro) sulla pubblicità relativa al gioco d’azzardo che un modello adeguatamente addestrato, si ritiene, avrebbe dovuto riconoscere.
Evidenza, tra l’altro, confermata dal fatto che, una volta intervenuto il funzionario fisico, si è provveduto a rimuovere immediatamente l’inserzione, stante il suo contenuto chiaramente illecito.
Una volta in più sembrerebbe, quindi, che l’apporto umano, nell’interpretazione delle norme, sia ancora essenziale e questo induce a indagare con cautela l’impianto normativo attualmente in vigore, in cui, di fatto, non si imputano a nessuno i costanti errori commessi dai modelli automatici di controllo.
È chiaro che rispetto all’elevato numero di contenuti che la rete e le singole piattaforme ospitano ogni giorno diventa arduo, se non impossibile, garantire un controllo efficiente, specie se questo fosse delegato ad una persona fisica; ciononostante, tali condizioni non possono rappresentare il presupposto per giustificare l’assenza di forme adeguate di controllo e, altresì, per non ricondurre la riferibilità delle azioni esperite per il tramite di modelli automatizzati all’uomo. Se così fosse, il rischio è che, come correttamente osservato in dottrina, la rete diventi un “far web”, dal momento che la difficoltà di “controllare” dia luogo ad una zona d’ombra, il c.d. cyberspazio, in cui la violazione delle norme e dei diritti fondamentali sarebbe difficilmente accertabile per le ragioni sinora esposte[xxxii].
Da qui se ne può trarre una ulteriore riflessione, vale a dire valutare l’opportunità di rendere responsabile il soggetto che utilizza tali modelli, non tanto per le violazioni commesse da parte di terzi quanto piuttosto per l’evidente incapacità o obsolescenza dei sistemi utilizzati di comprendere e prevenire eventuali violazioni. Di fatto, lo stato di sviluppo di questi sistemi automatizzati dipende non solo dalla capacità stessa del modello di auto apprendere dalla propria “esperienza” ma, principalmente, dipende dalla tipologia del modello utilizzato, da come questo viene programmato dal data scientist e dalla quantità e dalla qualità dei dati immessi[xxxiii]; operazioni queste che discendono da scelte organizzative umane e, come tali, a questi imputabili.
Se nel vigente quadro normativo, l’orientamento è quello di non caricare eccessivamente di responsabilità gli hosting provider per violazioni commesse da terzi, si ritiene che l’attribuzione, invero, della titolarità degli errori commessi da un sistema automatizzato di monitoraggio può rappresentare un giusto compromesso. In questo modo di operare, infatti, il soggetto utilizzatore di sistemi di autoapprendimento sarebbe continuamente sollecitato ad aggiornare e a migliorare i sistemi di cui fa utilizzo, nonché ricondurrebbe la titolarità delle operazioni commesse dal modello artificiale a chi ne fa uso, riducendo i rischi di generare potenziali zone franche, sottratte al rispetto del diritto[xxxiv].
6. Riflessioni di carattere generale: i rischi connessi all’assenza di sorveglianza umana rispetto all’uso di sistemi automatici anche alla luce dell’AI Act
La disciplina appena analizzata consente, altresì, di inquadrare le riflessioni sin qui esposte in una prospettiva di sistema, specie con riferimento all’utilizzo di modelli di autoapprendimento per l’assolvimento di determinate funzioni in sostituzione dell’uomo.
Deve essere messo in evidenza che, non solo i più recenti interventi dello stesso giudice amministrativo[xxxv], ma anche quelli legislativi[xxxvi], sono orientati a riferire l’utilizzo dell’intelligenza artificiale alla persona fisica.
Applicata al potere pubblico, infatti, l’intelligenza artificiale è stata interpretata in funzione principalmente servente e strumentale alla attività realizzata dal funzionario umano[xxxvii].
In questo senso, i giudici amministrativi hanno configurato le tecnologie, nell’esercizio dell’attività amministrativa, alla stregua “di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere”[xxxviii]. Da questi presupposti ne consegue che l’utilizzo delle tecnologie “impone un controllo umano del procedimento, in funzione di garanzia (cd. human in the loop), in modo che il funzionario possa in qualsiasi momento intervenire per compiere interlocuzioni con il privato, per verificare a monte l’esattezza dei dati da elaborare, mantenendo il costante controllo del procedimento”[xxxix].
Da questi richiami emerge che la tutela dell’interesse pubblico, bilanciato con altri interessi individuali, non può essere “spersonalizzata”; vuol dire, al contrario, che l’amministrazione rimane sempre il soggetto titolare del potere conferito dal legislatore e, come tale, l’attività istruttoria o decisoria condotta da un modello automatizzato, sarà sempre ad essa riferita, salvaguardando così le pretese di chiunque entri in contatto con l’amministrazione “artificiale”[xl].
In questo modo di operare, il risultato computazionale non coincide mai con il risultato finale ma, piuttosto, rappresenta il presupposto istruttorio su cui fondare la determinazione finale assunta dal funzionario persona fisica. Quest’ultimo potrà decidere di aderire alle risultanze rese dal sistema automatico e, quindi, di fatto, sovrapponendo il risultato computazionale con quello finale o, al contrario, potrà discostarsene, giungendo ad una determinazione nuova. In entrambi i casi si tratta, come evidente, di scelte volitive umane e, come tali, imputabili alla persona fisica che le avrà rese.
Questo impianto trova conferma nella stessa legge sul procedimento amministrativo, la l. n. 241/1990, laddove, all’art. 6, attribuisce al responsabile del procedimento, persona fisica, diversi compiti volti principalmente ad assicurare un corretto e partecipato svolgimento della attività istruttoria e decisionale. Tra questi rileva, in particolare, il divieto, per chi assume la decisione finale, di discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.
In questi termini si colloca, più in generale, anche l’articolo 22 del Regolamento generale sulla protezione dei dati, che riconosce un limite intrinseco all’uso di modelli automatizzati, laddove si impone che l'interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona[xli].
Ma tutto ciò sembra trovare definitiva conferma nel più recente Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale che prevede, per i sistemi classificati ad alto rischio[xlii], un obbligo di sorveglianza umana[xliii].
Tale obbligo impone che i sistemi di IA siano sviluppati e utilizzati come strumenti al servizio delle persone, nel rispetto della dignità umana e dell'autonomia personale, e funzionano in modo da poter essere adeguatamente controllati e sorvegliati dagli esseri umani[xliv]. A tale principio il regolamento dedica una apposita disposizione, l’art. 14, in cui è stabilito che tali sistemi sono progettati e sviluppati, anche con strumenti di interfaccia uomo-macchina adeguati, in modo tale da poter essere efficacemente supervisionati da persone fisiche durante il periodo in cui sono in uso.
Nello specifico, la disposizione prevede alcune accortezze nei confronti della persona fisica a cui è affidata la sorveglianza umana. In questo senso, l’articolo dispone in primo luogo che la persona in questione deve essere messa nella condizione di poter comprendere correttamente le capacità e i limiti pertinenti del sistema di IA ad alto rischio ed essere in grado di monitorarne debitamente il funzionamento[xlv], al fine principale di evitare che si faccia un eccessivo affidamento sull'output prodotto dal sistema di (c.d. distorsione dell'automazione)[xlvi]. Con la ulteriore conseguenza, quindi, che la persona che sorveglia il sistema deve poter essere in grado di interpretare correttamente l'output del sistema di IA ad alto rischio[xlvii]. Questo vuol dire che, non solo, il sorvegliante umano deve ignorare, annullare o ribaltare l’output quando secondo proprie valutazioni ciò si rende opportuno[xlviii] ma, altresì, che deve intervenire sul sistema, anche arrestandolo, quando ragioni di funzionamento lo richiedono[xlix].
Da questi richiami normativi, seppur sommari, emerge con tutta evidenza che i modelli di intelligenza artificiale, pur nella consapevolezza legislativa di essere capaci di funzionare in via del tutto autonoma, devono essere affiancati e monitorati sempre dalla persona fisica che resta il titolare del potere attribuito dal legislatore e, come tale, titolare anche dell’attività svolta per il tramite di tali modelli.
Se è vero, infatti, che la tecnologia e l’automatizzazione possono apportare notevoli benefici in termini di riduzione dei tempi istruttori e decisionali, rispetto soprattutto a procedure seriali, come lo è potenzialmente la fattispecie in esame, è altrettanto vero che va verificato se, a tale modo di operare, non faccia seguito una potenziale compressione dei diritti fondamentali.
In altri termini, va verificato se questi modelli intelligenti siano capaci di rilevare eventuali violazioni di legge.
Allo stato attuale sembra che le tecnologie, dalle più semplici alle più evolute, abbiano, in più occasioni, dimostrato una scarsa capacità di tutelare gli interessi coinvolti. Questo si è verificato, ad esempio, nelle procedure di reclutamento del personale docente, ove l’algoritmo utilizzato non è stato in grado di combinare correttamente i punteggi dei candidati, unitamente alle preferenze espresse[l]; è avvenuto nelle ipotesi di concessione del mutuo bancario, ove sistemi predittivi hanno generato, per il richiedente, un punteggio negativo (c.d. scoring) sulla capacità di ripagarlo, senza indicare sulla base di quali elementi tale punteggio fosse stato ottenuto e l’incisività di ogni variabile[li]; così come nelle ipotesi delle prenotazioni dei c.d. “riders” nel caso Deliveroo, in cui l’algoritmo Frank ha favorito le prenotazioni per i riders con un punteggio più elevato, a discapito di riders con un punteggio più basso[lii]; o nei casi in cui sulle piattaforme digitali non siano stati rimossi contenuti chiaramente discriminatori[liii].
Negli esempi richiamati, occorre osservare, l’errore del sistema è dipeso tanto da un errore “umano”, inteso come incapacità di programmare il sistema e di monitorarne l’utilizzo, quanto dalla c.d. “black box” del modello che non permette di risalire al procedimento istruttorio al fine di verificare come le variabili inserite al suo interno siano state combinate tra loro.
Queste condizioni evidenziano come la tecnologia, semplice o evoluta che sia, per poter trovare un suo positivo spazio, ha bisogno in primo luogo di persone capaci di programmarla correttamente e successivamente di intervenire sul modello quando ciò si rende opportuno.
L’intervento umano, infatti, dovrebbe essere previsto in ogni fase di utilizzo e, quindi, dal momento di costruzione del modello sino all’adozione della determinazione finale, al fine quantomeno di ridurre gli errori e correggere il sistema quando questo lo renda possibile.
Non sembra, pertanto, essere coerente con tale quadro la disciplina prevista per gli hosting provider.
Seppur novellata di recente, infatti, permane una grave lacuna sul regime della responsabilità delle decisioni assunte per il tramite di sistemi automatici di apprendimento[liv]. La disciplina ricostruita con la sentenza in commento, infatti, sembra favorire uno spazio entro il quale le azioni commesse per il tramite di strumenti di intelligenza artificiale non siano riconducibili a nessuno, collocando lo strumento non in via strumentale all’uomo, ma in una funzione ad esso sostitutiva. Con la naturale conseguenza che, eventuali violazioni normative, come di fatto si verifica, non sono imputabili a nessuno e restano, perciò, non sanzionabili.
[i] Per una ampia e aggiornata ricostruzione sul tema v., per tutti, A. ZURZOLO, La nuova frontiera della regolazione delle piattaforme digitali: le sanzioni contro Google e Meta, in Dir. Mer. Tecn., 22 febbraio 2023.
[ii] Il dibattito è particolarmente accesso in ambito amministrativo. In argomento sia consentito rinviare a L. TOMASSI, M. INTERLANDI, La decisione amministrativa algoritmica, in A. Contieri (a cura di), Approfondimenti di diritto amministrativo, ES, Napoli, 2022. V., ex multis, G. GALLONE. Riserve di umanità e funzioni amministrative, Milano, Cedam, 2023; G. AVANZINI, Decisioni amministrative e algoritmi informatici, ES, Napoli, 2019, A. DI MARTINO, Tecnica e potere nell’amministrazione per algoritmi, ES, Napoli, 2023; M.C. CAVALLARO, G. SMORTO, Decisione pubblica e responsabilità dell’amministrazione nella società̀ dell’algoritmo, in Federalismi.it, n.1/2019; M. D’ANGELOSANTE, La consistenza del modello dell’amministrazione ‘invisibile’ nell’età della tecnificazione: dalla formazione delle decisioni alla responsabilità per le decisioni, in S. Civitarese Matteucci, L. Torchia (a cura di), La Tecnificazione, Firenze, 2016.
[iii] In tal senso si rimanda, ex multis, a G.M. RICCIO, La responsabilità civile degli internet providers, Giappichelli, Torino 2002.
[iv] M. OLIVETTI, Diritti fondamentali e nuove tecnologie, in Journal of institutional studies, n.2/2020, 396 ss., mette in evidenza che internet e il diritto non sono, tra loro, due entità mutuamente estranee e malgrado l’autonomia del cyberspazio o del mondo «virtuale», che è certamente portatore di codici di comportamento da esso stesso generati (ed intrinsecamente connessi con la sua dimensione tecnica), la pretesa estrema, avanzata da alcuni operatori di tale mondo, secondo la quale esso sarebbe portatore di una normatività autonoma (una sorta di lex informatica, che richiamerebbe la ben nota lex mercatoria), o addirittura di una rivendicazione (anarchica) di esenzione dalla normatività generata dalle istituzioni del mondo «reale», si rivela insostenibile, proprio in quanto lo stesso fenomeno di Internet presuppone una serie di meccanismi regolativi, che rendono possibili le attività svolte mediante esso.
[v] Su questa vicenda v. anche A. ZURZOLO, La nuova frontiera della regolazione delle piattaforme digitali: le sanzioni contro Google e Meta,op. cit., 41 ss.
[vi] Su questi argomenti v. F. DI IORIO, La responsabilità dell’hosting provider nella vendita on line di biglietti sui mercati secondari (nota a Sentenza Consiglio di Stato, Sez. VI, 05/12/2023, n. 10510), in questa rivista, 28 marzo 2024.
[vii] La sanzione comminata da Agcom, inoltre, faceva leva su una precedente pronuncia del giudice amministrativo, in cui si osservava che non esiste una puntuale normativa comunitaria sul gioco d’azzardo online e sulla relativa pubblicità, con la conseguenza che gli Stati membri hanno il diritto di determinare le modalità di organizzazione e regolamentazione a livello nazionale dell'offerta di servizi di gioco d'azzardo online, nonché il diritto di applicare tutte le misure che considerano necessarie contro i servizi di gioco d'azzardo illegali. Cfr. Tar Lazio, sez. III ter, 28 ottobre 2021, n. 11036, par. 8.3.1.
[viii] Ciò trova conferma anche negli Standard della community resi pubblici al seguente link: https://transparency.meta.com/it-it/policies/community-standards.
[ix] Cfr. Considerando 8 Direttiva 2000/31/CE.
[x] Cfr. Considerando 10 Direttiva 2000/31/CE.
[xi] Cfr. art. 12.
[xii] Cfr. art. 13.
[xiii] Cfr. art. 14.
[xiv] Sulla disciplina della responsabilità civile e delle diverse figure v., ex multis, G.M. RICCIO, La responsabilità civile degli internet service providers, op.cit.; G. PONZANELLI, Verso un diritto uniforme per la responsabilità degli internet service providers, in Danno e resp., 2002, p. 5 ss.; V. ZENO ZENKOVICH, Profili attivi e passivi della responsabilità dell’utente in Internet, in A. PALAZZO, U. RUFFOLO (a cura di), La tutela del navigatore, Milano, 2002; F. DI CIOMMO, Evoluzione tecnologica e Regole di responsabilità civile, Napoli, 2003; M. GAMBINI, La responsabilità civile dell’internet service provider, Napoli, 2006;
[xv] M. GAMBINI, Gli hosting providers tra doveri di diligenza professionale e assenza di un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni memorizzate, in www.costituzionalismo.it, n.2/2011, 2 ss., riconduce l’assenza di una generale responsabilità degli Internet service providers al fatto che, diversamente, ciò condurrebbe ad un aumento eccessivo dei costi dei servizi offerti e di selezione degli operatori, con la conseguenza che solo quelli economicamente più forti potrebbero continuare ad operare. Senza considerare che il riconoscimento della responsabilità degli intermediari avrebbe conseguenze negative anche rispetto all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali degli utenti e, in primo luogo, della libertà di manifestazione del pensiero.
[xvi] Sulla centralità della rete v., in particolare, L. FLORIDI, The online manifesto, Being human in a hyperconnected era, Springer, Londra, 2014. Sulla evoluzione che ha interessato la rete negli ultimi anni v. G. CORASANITI, Regolazione, autoregolazione, sovraregolazione della rete: dal “far” web al “fair” web, in Diritto di Internet, Gli atti digitali di “gli stati generali del diritto di internet”, luiss 16, 17, 18 dicembre 2021, il quale osserva che la rete ha perso gran parte delle sue caratteristiche originarie “trasformandosi da luogo di sperimentazione a luogo della speculazione, da laboratorio globale a vero e proprio mercato globale”.
[xvii] O. POLLICINO, Tutela del pluralismo nell’era digitale: ruolo e responsabilità degli Internet service provider, in Consulta Online, 2014,mette in evidenza che la disciplina recata dalla direttiva del 2000 ha evidenziato i suoi limiti nel momento in cui la dimensione partecipativa della rete si è sempre più estesa, al punto da mettere in discussione la tenuta dell’inquadramento degli internet service provider così come previsto nella direttiva e- commerce. L’A. osserva che la rete, nella sua dimensione attuale, sfuma i confini tra produzione di contenuti e prestazioni di servizi e ciò conduce a interrogarsi sulla presunta estraneità degli ISP rispetto ai contenuti ospitati, su cui si basa principalmente la disciplina europea. F. DONATI, Verso una nuova regolazione delle piattaforme digitali, in Rivista della Regolazione dei mercati, n. 2/2021, 238 ss., osserva che la crescente rilevanza assunta dalle piattaforme online le identifica come grandi centri di potere che esercitano una crescente influenza su aspetti importanti della vita di milioni di persone. Ciò impone, pertanto, una regolazione chiara e precisa e che faccia fronte ai rischi a cui gli utenti vengono esposti. A. PIROZZOLI, La responsabilità dell’internet service provider. il nuovo orientamento giurisprudenziale nell’ultimo caso Google, in Rivista AIC, n. 3/2012, 7, sostiene che la disciplina recata dalla direttiva sia incompleta e impreca, specie laddove l’intenzione del legislatore sia quella di sottrarre agli hosting provider una responsabilità troppo gravosa che avrebbe potuto provocare sgradite conseguenze sulle scelte economiche e sugli investimenti dei gestori di servizi, oltre che indirizzarli verso un’indiscriminata selezione di contenuti all’ombra del timore che potessero rivelarsi lesivi dei diritti degli utenti. Nei medesimi termini v. anche G. D’ALSONSO, Verso una maggiore responsabilizzazione dell’hosting provider tra interpretazione evolutiva della disciplina vigente, innovazioni legislative e prospettive de jure condendo, in Federalismi.it, n. 2/2020, 115 ss., il quale rileva che “la disciplina europea si caratterizza per l’assenza di chiarezza di certe regole, derivante dalla necessità di contemperare interessi contrapposti, quali: da un lato, la salvaguardia dell’indipendenza della rete, comunemente definita come «marketplace of ideas» – dal momento che, caratterizzandosi per l’assenza di limiti, l’immediatezza e l’economicità, assurge a luogo quanto più libero di circolazione di idee ed informazioni-, e dunque la libertà di espressione e la protezione della privacy dei cibernauti; dall’altro lato, l’interesse a non rinunciare del tutto al controllo sui contenuti pubblicati sulle piattaforme digitali e a proteggere i soggetti che potrebbero essere danneggiati da contenuti illeciti”. Lo stesso mette in dubbio, inoltre, la circostanza entro la quale un hosting provider sia effettivamente al corrente di un fatto illecito, verificatosi nello spazio che intermedia.
[xviii] La stessa Commissione europea, ad esempio, già a partire dalla COM (2017) 555 (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni “Lotta ai contenuti illeciti online. Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online” stabiliva una serie di orientamenti e principi affinché le piattaforme online intensifichino la lotta contro i contenuti illegali online in cooperazione con le autorità nazionali, gli Stati membri e i portatori d'interessi pertinenti. Su questi presupposti, la commissione sollecitava l'attuazione di buone pratiche per prevenire, individuare, rimuovere e disabilitare l'accesso a contenuti illegali al fine di garantire l'efficace rimozione di contenuti illegali, una maggiore trasparenza e la tutela dei diritti fondamentali online. In altri termini, tale misura sollecitava l’azione di misure proattive volte a individuare, rimuovere o disabilitare l'accesso a contenuti illegali.
[xix] Tale Regolamento fa parte, assieme al Digital Market Act (Regolamento (UE) 2022/1925), del Digital Services Package che si pone due principali obiettivi: 1) creare uno spazio digitale più sicuro in cui siano tutelati i diritti fondamentali di tutti gli utenti dei servizi digitali; 2) creare condizioni di parità per promuovere l'innovazione, la crescita e la competitività, sia nel Mercato unico europeo che a livello globale.
[xx] Considerando 3, Regolamento UE 2022/2065.
[xxi] Ad esempio, già con l’adozione del Regolamento 2019/1150/UE, che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online, l’art. 3, rubricato “Termini e Condizioni” indica in modo puntuale le misure a cui tali soggetti sono tenuti a conformarsi al fine di assicurare trasparenza in ogni fase della contrattazione con gli utenti che si interfacciano nel portale. Ugualmente, il Regolamento UE 2022/2065, al considerando 48 i fornitori di piattaforme online di dimensioni molto grandi e di motori di ricerca online di dimensioni molto grandi dovrebbero fornire le loro condizioni generali nelle lingue ufficiali di tutti gli Stati membri in cui offrono i loro servizi e dovrebbero altresì fornire ai destinatari dei servizi una sintesi concisa e facilmente leggibile dei principali elementi delle condizioni generali. Tali sintesi dovrebbero individuare gli elementi principali dei requisiti in materia di informazione, compresa la possibilità di derogare facilmente alle clausole opzionali. Nel considerando successivo, si impone ai prestatori di servizi intermediari di rendere pubblica una relazione annuale in un formato leggibile elettronicamente, in merito alla moderazione dei contenuti da loro intrapresa, comprese le misure adottate a seguito dell'applicazione e dell'esecuzione delle loro condizioni generali. Nel considerando 66, invero si statuisce che la Commissione dovrebbe mantenere e pubblicare una banca dati contenente le decisioni e le motivazioni dei fornitori di piattaforme online quando rimuovono le informazioni o limitano in altro modo la loro disponibilità e l'accesso alle stesse.
[xxii] Cfr. Art. 6, Regolamento UE 2022/2065: “I prestatori di servizi intermediari non sono considerati inammissibili all’esenzione dalla responsabilità prevista agli articoli 3, 4 e 5 per il solo fatto di svolgere indagini volontarie o altre attività di propria iniziativa volte ad individuare, identificare e rimuovere contenuti illegali o a disabilitare l’accesso agli stessi, o di adottare le misure necessarie per conformarsi alle prescrizioni del diritto dell’Unione, comprese quelle stabilite nel presente regolamento”.
[xxiii] In Corte di giustizia UE, 12 luglio 2011, C-324/09, L'Orèal c. eBay International, par. 114, la Corte ha precisato che, affinché il prestatore di un servizio su Internet possa rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 14 della direttiva 2000/31, è necessario che egli sia un «prestatore intermediario» nel senso che questo si limita ad una fornitura neutra del servizio, mediante un trattamento puramente tecnico e automatico dei dati forniti dai suoi clienti. Tale impostazione conferisce al prestatore un ruolo passivo tale per cui non è a conoscenza dei dati che ospita. Nei medesimi termini si esprime la corte nella pronuncia Corte di Giustizia UE 23 marzo 2010, da C-236/08 a C-238/08, Google c. Luis Vuitton, par. 114 secondo cui al fine di verificare se la responsabilità del prestatore del servizio di posizionamento possa essere limitata ai sensi dell’art. 14 della direttiva 2000/31, occorre esaminare se il ruolo svolto da detto prestatore sia neutro, in quanto il suo comportamento è meramente tecnico, automatico e passivo, comportante una mancanza di conoscenza o di controllo dei dati che esso memorizza. Nei medesimi termini v. anche Corte di Giustizia UE, 7 agosto 2018, Cooperatieve Vereniging SNBREACT U.A. c. Deepak Mehta, C-521/17, par. 47; Corte di Giustizia UE, 23 marzo 2010, Google France e Google, da C-236/08 a C-238/08, par. 113 e Corte di Giustizia UE, del 15 settembre 2016, Mc Fadden, C-484/14, par. 62. Nel nostro ordinamento, sulla falsariga di quella europea, si segnala Cass. Civ., Sez. I civ., Ord. 13 dicembre 2021 n. 39763, in cui i giudici hanno accolto la nozione di hosting provider attivo, così come declinata in sede di giustizia europea, riferendola a tutti quei casi che esulano da un’attività di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, in cui l'internet service provider (ISP) non conosce, né controlla, le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali fornisce i suoi servizi, e ha affermato che tali limitazioni di responsabilità non sono applicabili nel caso in cui un prestatore di servizi della società dell'informazione svolge un ruolo attivo. Si può quindi parlare di hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato, quando sia ravvisabile una condotta di azione, nel senso ora richiamato; gli elementi idonei a delineare la figura o indici di interferenza, da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l'effetto di completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati. Così anche Cass. civ., Sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708. In sede di giustizia amministrativa, altresì, si segnala la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. VI, 13 settembre 2022 n. 7949, che ha aderito a quanto sinora ricostruito, riconoscendo due tipi di hosting provider: a) l’hosting provider “passivo”, il quale pone in essere un'attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono né controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi; b) l’hosting provider “attivo”, che si ha quando, tra l'altro, l'attività non è limitata a quanto sopra indicato ma ha ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa.
[xxiv] Il regime delle limitazioni della responsabilità è escluso dalla giurisprudenza sulla base del Considerando 42 della Direttiva E-commerce, il quale dispone che “le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l'attività di prestatore di servizi della società dell'informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell'informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”
[xxv] Vi è chi ha messo in dubbio la natura neutrale degli Internet Service Provider, così come riscostruita dai giudici. In T. SCANNICCHIO, N.A. VECCHIO, I limiti della neutralità: la Corte di giustizia e l’eterno ritorno dell’hosting attivo, in MediaLaws, n.1/2019, 256 ss., si osserva che “la figura dell’hosting c.d. “attivo” è frutto di uno sviluppo giurisprudenziale praeter legem, senza alcun dato positivo che riesca a chiarire i termini del discrimen rispetto al suo omologo “passivo”, con il rischio concreto di dar luogo a un’interpretatio abrogans della normativa vigente, essendo (quasi) sempre possibile rinvenire, nell’attuale modello di provider, quel quid pluris che neutralizzerebbe l’esonero di responsabilità”.
[xxvi] Vedi nota 23.
[xxvii] Per questioni di completezza va precisato che, al momento in cui si scrive, la sentenza de qua è stata appellata da Agcom e, su impulso di questa, il Consiglio di Stato ha emesso una ordinanza cautelare che sospende l’efficacia della sentenza di primo grado. Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, ord. 23 agosto 2024, n. 1974.
[xxviii] Come si evince nella già citata Corte di Cassazione, 19 Marzo 2019, n. 7708 si può parlare di hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato, quando sia ravvisabile una condotta di azione, che abbia, in sostanza, l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati.
[xxix] Cfr. considerando 12, Regolamento (UE) 2024/1689.
[xxx] Su questi argomenti, indagati in una prospettiva tecnica, v. C. D’URSO, I profili informatici nella valutazione della responsabilità̀ dell’Hosting Provider, in Riv. It. Inf. Dir., n.1/2021, in part. 84 ss. V. anche S. LAVAGNINI, La responsabilità degli Internet Service Provider e la nuova figura dei prestatori di servizi di condivisione online (art. 17), in Id (a cura di) Il diritto d’autore nel mercato unico digitale, Giappichelli, 2022, 228, che mette in evidenza come i principali hosting provider abbiano adottato sistemi tecnologici di riconoscimento dei contenuti (quantomeno quelli di tipo musicale o audiovisivi), definiti come sistemi di c.d. content id recognition. Questi strumenti rendono possibile l’identificazione dei contenuti postati dagli utenti, in modo tale che sia possibile per il sistema, ad ogni istanza di ricarica da parte degli utenti stessi, riconoscere il contenuto ed impedirne il successivo ricaricamento. In pratica, i titolari dei diritti forniscono al provider o a terzi fornitori dei servizi tecnologici di riconoscimento dei file di riferimento delle opere di loro titolarità, i metadati che descrivono il contenuto e l’azione che essi desiderano attuare nel momento in cui il sistema di Content ID trova una corrispondenza appropriata. Queste azioni possono essere il blocco del contenuto, che quindi non viene messo a disposizione del pubblico, la sua monetizzazione, che avviene generalmente associando il contenuto ad un contenuto pubblicitario, ovvero il semplice tracciamento statistico (con il quale il contenuto viene mantenuto a disposizione a titolo gratuito, ma raccogliendo i dati relativi alle sue utilizzazioni).
[xxxi] Vedi nota 23.
[xxxii] L’espressione è di G. CORASANITI, Regolazione, autoregolazione, sovraregolazione della rete: dal “far” web al “fair“web, op. cit.
[xxxiii] Sulla funzione dei dati v. G D’ACQUISTO, Qualità dei dati e intelligenza Artificiale: intelligenza dai dati e intelligenza dei dati, in F. Pizzetti (a cura di), Intelligenza Artificiale, protezione dei dati personali e regolazione, Torino, 2018; V. BERLINGÒ, Il fenomeno della datafication e la sua giuridicizzazione, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., n.3/2017; G. CARULLO, Gestione, fruizione e diffusione dei dati dell'amministrazione digitale e funzione amministrativa, Milano, Giappichelli, 2018; M. FALCONE, La funzione conoscitiva nella rivoluzione dei dati, in R. CAVALLO PERIN (a cura di), L’amministrazione pubblica con i big data: da Torino un dibattito sull’intelligenza artificiale, Torino, 2021.
[xxxiv] Del resto, in questi termini, si era espressa anche la Commissione europea nella già richiamata COM (2017) 555 (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni “Lotta ai contenuti illeciti online. Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online”, in cui osservava che le piattaforme online dovrebbero inoltre garantire il continuo aggiornamento dei loro strumenti, al fine di assicurare la individuazione di tutti i contenuti illegali, in linea con le tattiche e il comportamento mutevoli dei criminali e degli altri soggetti coinvolti nelle attività illecite online.
[xxxv] Tar Lazio, sez. III bis,10 settembre 2018 n. 9230; Tar Lazio, sez. III bis, 10-13 settembre 2019, n. 10964; Consiglio di Stato, sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270; Consiglio di Stato, sez. VI, del 4 febbraio 2020, n. 881; Tar Campania, sez. III, del 14 novembre 2022, n. 7003.
[xxxvi] Cfr. Regolamento (UE) 2024/1689 e, a titolo esemplificativo, a livello nazionale, il D. lgs. n. 36/2023, Codice dei contratti pubblici, che all’art. 30, c.3, lett. c) rubricato “Uso di procedure automatizzate nel ciclo di vita dei contratti pubblici” cristallizza il principio di non esclusività della decisione algoritmica, per cui nel processo decisionale è necessario un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatizzata.
[xxxvii] M.C. CAVALLARO, Imputazione e responsabilità̀ delle decisioni automatizzate, in Erdal, n. 1-2/2020,70 ss., secondo cui “spetta quindi all’amministrazione, e in particolare al responsabile del procedimento ovvero all’organo competente all’adozione dell’atto finale, il dovere di verificare l’attendibilità del risultato fornito dal software per scongiurare il rischio di un errore della macchina ed eventualmente correggere la soluzione. Il responsabile del procedimento deve quindi monitorare la procedura automatizzata, per assicurare la trasparenza, la conoscibilità e la partecipazione da parte del privato: al termine della procedura, l’organo competente alla decisione può conformarsi alle risultanze dell’istruttoria che si sostanzia in un algoritmo, e in tal caso ne assumerà la relativa responsabilità”.
[xxxviii] Consiglio di Stato, sez. VI, del 4 febbraio 2020, n. 881.
[xxxix] Cfr. Tar Campania, sez. III, del 14 novembre 2022, n. 7003.
[xl] In tal senso sia consentito rinviare a L. TOMASSI, M. INTERLANDI, La decisione amministrativa algoritmica, op. cit. In questi termini v. S. CIVITARESE MATTEUCCI, «Umano troppo umano». Decisioni amministrative automatizzate e principio di legalità, in Dir. Pubb. n.1/2019,22, che enuclea il principio antropomorfico in base al quale il potere decisionale è sempre riferito ad un atto intenzionale umano; R. ROLLI. F. D’AMBORSIO, La necessaria lettura antropocentrica della rivoluzione 4.0, in Pa persona e amministrazione, n.1/2021, 587 ss., secondo cui non solo “il controllo umano diviene così garanzia del fondamentale principio di «autonomia umana»” ma, ulteriormente, riconosce che l’imputabilità giuridica della decisione e la eventuale e connessa responsabilità amministrativa devono essere necessariamente attribuiti al titolare del potere decisorio. In tal senso v. anche G. GALLONE, Riserve di umanità e funzione amministrativa, op. cit., 65 ss., che pur riconoscendo l’assenza di una formale consacrazione della “riserve di umanità” nello svolgimento delle funzioni amministrative, sostiene sia una prospettiva implicitamente accolta e consacrata all’interno del nostro ordinamento. Tra le varie argomentazioni a sostegno di tale prospettiva l’autore richiama il binomio “imputazione – organo” in base al quale l’attività amministrativa ha sempre coinciso con l’attività umana dal momento che l’ente pubblico esercita le sue funzioni per il tramite un funzionario persona fisica che assume la posizione di organo.
[xli] Cfr. art 22, Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016. In argomento v. F. PIZZETTI, Intelligenza artificiale, protezione dei dati e regolazione, Torino, Giappichelli, 2018.
[xlii] All’interno del considerando 48, Regolamento (UE) 2024/1689, sono considerati ad alto rischio, tutti quei sistemi di Intelligenza artificiale che possono produrre effetti negativi sui diritti fondamentali protetti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Tali diritti comprendono il diritto alla dignità umana, il rispetto della vita privata e della vita familiare, la protezione dei dati personali, la libertà di espressione e di informazione, la libertà di riunione e di associazione e il diritto alla non discriminazione, il diritto all'istruzione, la protezione dei consumatori, i diritti dei lavoratori, i diritti delle persone con disabilità, l'uguaglianza di genere, i diritti di proprietà intellettuale, il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, i diritti della difesa e la presunzione di innocenza e il diritto a una buona amministrazione.
[xliii] Art 14, Regolamento (UE) 2024/1689.
[xliv] Cfr. considerando 27, Regolamento (UE) 2024/1689.
[xlv] Cfr. art 14. c.4, lett. a).
[xlvi] Cfr. art 14. c.4, lett. b).
[xlvii] Cfr. art 14. c.4, lett. c).
[xlviii] Cfr. art 14. c.4, lett. d).
[xlix] Cfr. art 14. c.4, lett. e).
[l] Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270.
[li] Cfr. Corte di Giustizia Ue, sentenza C-634/21 Schufa Holding, 7 dicembre 2022.
[lii] Cfr. Trib. Ord. Bologna, sez Lavoro, ord. Del 31 dicembre 2020, in cui è stato rilevato che alcuni rider hanno visto penalizzate le loro statistiche indipendentemente dalla giustificazione della loro condotta e ciò per la semplice motivazione, espressamente riconosciuta da Deliveroo, che la piattaforma non conosce e non vuole conoscere i motivi per cui il rider cancella la sua prenotazione, realizzando una discriminazione indiretta che pone “una determinata categoria di lavoratori (in questo caso quelli che prendono parte ad iniziative sindacali di astensione dal lavoro) in una posizione di potenziale svantaggio”.
[liii] Cfr. Corte di Cassazione pen., Sez. III, 17 dicembre 2013, n. 5107.
[liv] Sulla esigenza di riforma v. T. SCANNICCHIO, N.A. VECCHIO, I limiti della neutralità: la Corte di giustizia e l’eterno ritorno dell’hosting attivo, op.cit., 258 ss., in cui si riflette se l’esenzione di tali intermediari, fondata sulla loro asserita “neutralità” – dopo numerose e contraddittorie sentenze in materia - costituisca ancora la soluzione regolatoria ottimale ovvero se sia opportuno prendere atto del suo superamento, modulando di conseguenza anche la relativa disciplina. In questo senso gli autori ribadiscono un ruolo degli Internet service provider assolutamente non neutro, così mai neutre sono anche le scelte di policy: la costruzione normativa compiuta con la direttiva 2000/31, infatti, non rappresentava la constatazione di una realtà tecnologica, bensì l’espressione di un preciso favor per gli ISP, scegliendo di coniugare il generale esonero di responsabilità ex ante con un (minimale) meccanismo di notice-and-take-down, oggi probabilmente meritevole di venire riformato.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.