ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione di «Arringhe» (De Frede editore, Napoli, 2025) dell’avvocato Gaetano Iannotta
1. La retorica forense è la disciplina teorica e metodologica che studia i principi, le tecniche e le strutture dell'argomentazione giuridica persuasiva, l'organizzazione del discorso e l'uso delle figure retoriche sulla base della retorica classica applicata al diritto. Si ritiene che essa abbia ha avuto origine a Siracusa nel V secolo a.C. in seguito alla fine della tirannia di Trasibulo (465 a.C.), quando si sviluppò una intensa attività giudiziaria per la restituzione di proprietà espropriate ai cittadini. In questo contesto nacque la figura del ῥήτωρ, cioè colui che doveva persuadere le giurie popolari nei processi, e i primi maestri riconosciuti di questa arte furono Corace e Tisia, che teorizzarono l'arte del discorso giudiziario con metodi e manuali pratici.
Nel quadro teorico della retorica giuridica si inserisce l'eloquenza forense, che è una tecnica con finalità legate alle cause giudiziarie. La sua nascita si colloca in ambito greco con la figura di Egesia di Magnesia (circa nel 250 a.C.), che si ispirò all'eloquenza attica e ebbe come modelli di oratori Carisio e Lisia. Nell'antica Roma, l'eloquenza forense trovò un suo sviluppo maturo e sistematico con il processo formulare romano e figure come Cicerone e Quintiliano diventarono esempi di questa arte, che era legata strettamente al diritto e all'oratoria in tribunale e si esercitava in luoghi, come il tribunale romano, strutturati quasi come teatri per l'ascolto pubblico delle arringhe.
Nel corso dei secoli l'eloquenza forense si è adattata ai mutamenti culturali e alle esigenze locali fino ai tempi recenti.
Nell'Ottocento, in Italia, l’eloquenza forense fu studiata in sedi specifiche, come la Scuola di eloquenza pratica legale promossa durante il periodo napoleonico, e coltivata in corsi specializzati come l'Accademia estemporanea di eloquenza forense a Milano per formare i giovani avvocati all'arte oratoria.
Nel Novecento, lo stile dell'eloquenza forense si è trasformato diventando più lineare, sobrio e essenziale, valorizzando la chiarezza e la brevità in linea con i cambiamenti sociali e culturali1.
Per quel che è dato sapere, attualmente nelle Università italiane l’insegnamento all'eloquenza forense e alla retorica giudiziaria è sporadico. Sia in Italia che in Europa, la retorica giudiziaria è spesso oggetto di attività formative nell'ambito dei corsi di giurisprudenza, ma la denominazione specifica di «Cattedra di eloquenza forense» è più rara e solitamente integrata in corsi più ampi di diritto, argomentazione o comunicazione giuridica2.
2. Autore di molteplici studi, che rivelano la pluralità dei suoi interessi, Gaetano Iannotta, come giurista, ha scritto e curato opere sull'eloquenza forense, Inoltre, è fondatore dell'Accademia di Eloquenza Forense e direttore di una collana di studi dedicata a questa materia.
Nel 2019 ha pubblicato uno studio sulla evoluzione di questa arte [L’eloquenza antica. L’oratore eloquente. Tecniche di argomentazione e persuasione nella difesa penale. Difese penali di Enrico de Nicola3], con una attenzione particolare all'eloquenza forense di Enrico De Nicola, che è sato uno dei più grandi oratori giudiziari italiani per la sua straordinaria capacità di esprimere concetti complessi con parole essenziali e senza artifici, valorizzando la brevità e la forza di ragionamento piuttosto che l'emotività o la retorica vuota e così segnando un cambiamento verso uno stile più sobrio e razionale, ispirato alle forme classiche attiche. Nel 2020 ha tracciato un agile quadro della storia della eloquenza forense in Italia e delle sue diverse articolazioni regionali [L’eloquenza forense in Italia» dedicato a Vincenzo Maria Siniscalchi4].
3. Come avvocato, nel recente «Arringhe» [De Frede editore, Napoli, 2025] , Iannotta offre al lettore sette sue arringhe (con esito positivo per gli imputati) che danno piena prova della sua competenza nell’uso delle tecniche di eloquenza forense moderna fondate su uno stile chiaro, conciso, logico e raziocinante, strumenti che soddisfano una esigenza di rapidità, efficacia e sobrietà consone al contesto giudiziario moderno perché funzionali a una comunicazione che sia intensa e dinamica ma non sacrifichi la profondità e l’acutezza del pensiero giuridico.
Si tratta di arringhe pregevoli sviluppate applicando i canoni tecnici più rilevanti della migliore retorica forense contemporanea:
· la brevità e la chiarezza, che si conseguano sintetizzando efficacemente la causa e i fatti principali, evitando giri di parole e artifici inutili
· l’esposizione dei fatti seguendo il loro ordine naturale, che si consegue raccontando gli eventi nell'ordine in cui si sono svolti per mantenere verosimiglianza e comprensibilità
· l’utilizzo di una logica raziocinante, che consiste nell’usare la ragione e le prove per sostenere le argomentazioni, senza affidarsi a espedienti suggestivi o manipolativi
· l’uso mirato delle figure retoriche classiche, che si realizza evitando ripetizioni (epifore e simili), sottrazioni (preterizioni, reticenze), e mascheramenti (antìfrasi) per enfatizzare o creare effetti di persuasione senza appesantire il discorso
· il ricorso a una introduzione efficace e senza artifici, che serve a preparare l’ascoltatore con un preambolo conciso e diretto, senza mirare a attrarne l’attenzione con tecnicismi o eccessi di stile
· l’approdo a una conclusione persuasiva razionale, cioè a una perorazione fondata sulla logica che riassuma e rafforzi i punti effettivamente dimostrati senza puntare su aspetti emotivi.
I testi riguardano una variegata tipologia di casi giudiziari penali: i reati di disastro aereo e lesioni colpose (In difesa del Colonnello Giuseppe Manzini), di traffico di munizioni e armi da guerra (In difesa di Ivan Vettorazzi), di furto e rapina (In difesa di Lorenzo Decasilliati), di bancarotta fraudolenta, evasione e frode fiscale (In difesa di Giorgio Masetti e In difesa di Brenno Caffari), di tentato omicidio (In difesa di Pietro Petriccione) di resistenza a pubblico ufficiale (In difesa del Dottore Giacomo Grande).
Si tratta di processi svoltisi in diverse sedi giudiziarie d’Italia nel periodo che va dal 1997 al 2003 sicché, oltre alle pregevoli soluzioni giuridiche elaborate (e accolte dai giudici), le arringhe offrono degli scorci interessanti, non soltanto dal punto di vista giudiziario, della società italiana degli ultimi decenni.
4. Per altro verso, con la pubblicazione di «Arringhe» l’Avvocato Iannotta fornisce materia per sollecitare l’incremento di un approccio formativo che può risultare proficuo per i giovani avvocati (ma utile anche per i magistrati).
Al riguardo, vale richiamare quello che l‘Autore ha raccomandato in altro suo scritto5:
«Il giovane deve studiare principalmente le orazioni giudiziarie degli oratori più degni di stima sforzandosi di comprendere lo sviluppo delle idee e l’esame della logica che ha seguito l’oratore.
Se il giovane riuscirà a penetrare nel pensiero e nello spirito dell’oratore da imitare, e a vedere le cose alla stessa sua luce, sarà in grado di discernere le virtù oratorie dai suoi difetti, dopo di che ne emulerà l’aspetto migliore.
Difatti, l’oratore deve all’oratore, come nel passato così nel presente; non è facile trovare la strada delle orazioni mai pronunciate!
Non vi è oratore che non sia stato influenzato da un altro (…).
Leggere e rileggere, se da un lato significa arricchire la propria cultura, dall’altro lato significa assimilare il testo, prendere possesso, raggiungere omogeneità stilistica con esso.
Questo tipo di lettura è chiaramente un’operazione creativa, poiché non è solo acquisizione di conoscenza, ma è già quasi un ricreare (…).
Nell’arte non c’è mai imitazione pura e semplice: l’arte è produttiva ed è proprio il foro a rendere ragione di questa produttività. L’arte nel foro diventa allora essenza produttiva naturale per generare una presenza nuova, una presenza diversa che prima ancora di essere rappresentazione è rinascita di un modello ideale.
Ciò che deve essere chiaro è che lo stile dell’eloquenza forense non è il frutto di una scelta, ma, in astratto, degli scopi che l’ordinamento giuridico di un tempo impone al giudice o all’avvocato e dalla naturale vocazione di chi si dedichi a meglio rendere l’una o l’altra esigenza della funzione penale. È dall’incontro tra i vari aspetti di questa e i vari temperamenti degli uomini che traggono origini le distinzioni tra le scuole e gli stili (…).
E allora potrà definirsi arte solo quell’imitazione forense che si snoderà in tre fasi: bravura nel selezionare i grandi oratori per emularne i pregi; capacità di seguire il principio individuationis per ricavarne uno stile personale; abilità di adeguare il proprio stile al sistema penale del tempo in cui si opera».
5. Gli apporti di Iannotta alla eloquenza forense non sono rilevanti soltanto per il loro valore intrinseco ma anche per le ulteriori osservazioni alle quali invitano.
Sarebbe assai interessante ─ ma richiederebbe una competenza estesa, variegata e necessariamente plurisoggettiva ─ approfondire la conoscenza di quali siano i canoni di eloquenza forense nelle varie aree del mondo, così da utilizzare questa materia come prisma per l’interpretazione di diversi fenomeni culturali fra loro interconnessi.
Valga solo l’accenno a alcuni esempi sparsi: l’insistenza sullo stile conciso, chiaro e efficace dell'eloquenza forense in Francia6; la formalizzazione di questa tecnica come insegnamento universitario moderno, ma con un approfondimento particolare circa tradizione antica in Grecia; l’attenzione alla persuasione delle giurie popolari e non solo dei giudici nei sistemi anglosassoni, la mescolanza di tecniche linguistiche forbite e formali, assieme a varianti più colloquiali a seconda del contesto, in Cina; il particolare stile di comunicazione in ambito legale, in Giappone; l’evocazione di principi religiosi, interpretazioni dottrinali e consuetudini locali nei paesi islamici.
Ma a porre questioni nuove e in una dimensione che non può più essere soltanto nazionale sono soprattutto gli sviluppi futuri dell’eloquenza forense ─ soprattutto in un sistema di comunicazione giudiziaria che vira decisamente verso la forma scritta7 più che orale ─ che, in misura attualmente crescente si serve degli strumenti della intelligenza artificiale.
Il contesto odierno mostra un impoverimento dell'uso della retorica e dell'oratoria tradizionale nei processi civili e penali, a causa di vari fattori: la quantità dei processi e l’allungamento della loro durata, la scarsa formazione specifica in materia di retorica, logica, teoria e psicologia dell’argomentazione.
In questa prospettiva la ricerca della coesione nelle argomentazioni e evitare le fallacie sono elementi minimi fondamentali per gli sviluppi futuri della funzionalità dell'eloquenza forense e della retorica giudiziaria.
Infatti, un discorso coeso facilita la sua comprensione e accettazione da parte del giudice, mentre evitare le fallacie logiche rende l'argomentazione più solida e affidabile8. La spinta (normativa e culturale) verso l'essenzialità nei testi difensivi e nelle arringhe orali rende il processo più rapido e efficiente, pur senza sacrificare la qualità della persuasione, che rimane al centro della retorica giudiziaria.
Allora l'eloquenza forense futura sarà legata alla capacità di costruire argomentazioni efficaci perché coese, evitando fallacie e bias cognitivi.
L’educazione retorica moderna dovrà concentrarsi non solo sulle tecniche specifiche ma anche su modelli performativi e dialettici per rendere la formazione professionale più responsabile e mirata, sottolineando il valore di una retorica che non si limiti a esprimere la posizione parte ma faciliti anche un processo fondato sulla ragionevolezza, rendendo la decisione finale più articolata e nutrita dal confronto con argomentazioni ben strutturate.
La retorica giudiziaria futura dovrà guardare al patrimonio della retorica classica come base per la formazione dell’abilità argomentativa e persuasiva, sfruttando metodi come quello casistico e le strutture articolate del discorso (esordio, narrazione, prova, confutazione, perorazione). Questi modelli antichi offrono una piattaforma solida per l'apprendimento e possono essere adattati alle esigenze moderne.
Inoltre, è prevedibile che l’evoluzione della retorica giudiziaria finisca per includere un uso sapiente delle nuove tecnologie, adattando le tecniche oratorie e persuasive ai contesti digitali (processi telematici, presentazioni multimediali, intelligenza artificiale nel supporto argomentativo).
In questo nuovo contesto, l'evoluzione della eloquenza forense dovrebbe procedere verso la massima efficienza comunicativa con un recupero consapevole delle strutture classiche e un crescente rigore logico. Il rapporto con i nuovi strumenti va, quindi, inteso come una sinergia: l’intelligenza artificiale non può sostituire la capacità persuasiva, emotiva e retorica propria dell’eloquenza in tribunale, ma può supportare l’avvocato automatizzando alcuni compiti ripetitivi, aiutandolo a concentrarsi maggiormente sulla costruzione efficace dell’argomentazione e sull’interazione umana.
In definitiva, è necessario formare un giurista forense (avvocato e magistrato) che conosca retorica, neuroscienze, psicologia e logica e sappia usare queste discipline per costruire un discorso persuasivo e deontologicamente appropriato, sicché l’eloquenza forense classica resta insostituibile nelle attività che richiedono giudizio critico, umanità, capacità di persuasione e interazione diretta, elementi che l’intelligenza artificiale non può replicare.

1S.T. Salvi, Avvocati oratori’. Eloquenza forense e trasformazioni di una professione tra Otto e Novecento, in: Historia et ius, Rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna www.historiaetius.eu - 12/2017 - paper 14, pp.1-26.
2Nell'Università di Urbino è attivo il corso di «Argomentazione giuridica e retorica forense» (anno accademico 2024/2025) che tratta in modo approfondito la retorica e le tecniche argomentative usate dai giuristi e dagli avvocati, con un confronto tra antico e moderno. Si studiano l'organizzazione del discorso, gli elementi persuasivi (logos, pathos, ethos), le figure retoriche, le tecniche di coinvolgimento, la comunicazione non verbale e le fallacie argomentative.
L'Università di Siena offre un corso denominato «Retorica forense», che si propone di approfondire la retorica giudiziaria nell'esperienza greca e romana.
L'Università di Messina ha organizzato in passato un corso di eloquenza forense destinato a sviluppare le competenze retoriche specifiche nell'ambito giuridico.
3Enrico De Nicola [1877-1959] è stato un politico e avvocato italiano di grande rilievo storico e culturale e il primo Presidente della Repubblica Italiana.
4Vincenzo Maria Siniscalchi [1931-2024] è stato un avvocato e politico italiano, dotato di eccellenti capacità oratorie.
5G. Iannotta, Sul miglior stile di eloquenza forense, Diritto di difesa, Rivista della dell’Unione della Camere Penali Italiane, 23 novembre 2023.
6m. Garçon, Sull’oratoria forense, prefazione di A. Altavilla, traduzione di G. Crescenzi, Milano 1957.
7G. Sposito, Dalle parole ai fatti. Il futuro scritto dell’oratoria forense, Ciceroniana On Line VI, 2, 2022, pp. 281-289.
8Su questi aspetti sia consentito rinviare a: A.Costanzo–S.Novani, La logica dell’analisi e della sintesi dei dati processuali, Torino, 2025, parte II, cap. 3.
Medesimo potere, medesima funzione o nessuna delle due? Riflessioni sull’annullamento d’ufficio come strumento di tutela (nota a Corte Costituzionale, 26 giugno 2025, n.88)
di Francesco Volpe
Sommario: 1.- Le diverse tesi circa il fondamento del potere di annullamento d’ufficio. 2.- Il dibattito successivo alla riforma portata nel 2005 alla legge generale sul procedimento. 3.- La nozione assunta di potere giuridico. 4.- Impossibilità d’identificare il potere di annullamento d’ufficio con il potere esercitato nel primo grado di azione amministrativa, ove si muova da una concezione di annullamento inteso come figura complessa di carattere ricostruttivo del regime giuridico demolito dall’attività amministrativa. 5.- Impossibilità di identificare il potere di annullamento d’ufficio con il potere esercitato nel primo grado di azione amministrativo, ove si muova da una concezione di annullamento inteso come strumento idoneo a rimuovere la qualità di atto giuridico dal provvedimento annullato. 6.- Esame dell’ipotesi per cui l’annullamento d’ufficio e l’atto annullato sarebbero accomunati da un’identità di funzione. 7.- Le tesi risalenti a favore del carattere vincolato dell’annullamento d’ufficio. 8.- Maggiore ampiezza della funzione esercitata in sede di annullamento d’ufficio rispetto a quella esercitata con l’atto amministrativo di primo grado. Carattere innominato dell’annullamento d’ufficio e impossibilità d’identificare la funzione del medesimo annullamento con la funzione a cui soggiace l’atto da annullare. 9.- L’annullamento d’ufficio come strumento di protezione di interessi privi di tutela giurisdizionale verso i vantaggi competitivi riconosciuti da un provvedimento amministrativo illegittimo per vizio della funzione. Rilievi sulla costituzionalità della disciplina legislativa dell’istituto.
1. Le diverse tesi circa il fondamento del potere di annullamento d’ufficio.
*La sentenza 26 giugno 2025, n. 88, della Corte costituzionale s’interroga sulla possibilità di riferire il termine per esercitare l’annullamento d’ufficio al caso in cui vengano in rilievo interessi pubblici di particolare consistenza, come sono quelli relativi alla conservazione del patrimonio culturale, escludendo che questo, nel caso concreto, possa sussistere[i].
In questa sede, si prende spunto dalla sentenza per soffermarsi su un suo passaggio che pare interessante da un punto di vista sistematico.
Riferisce, infatti, la pronuncia: «Il riesame del provvedimento, pur mosso da ragioni di legittimità, non costituisce espressione di quel potere già esercitato, bensì di un altro potere riconosciuto in via generale all’amministrazione, quello dell’annullamento d’ufficio».
Viene, in tal modo, ripreso un tema che era assai dibattuto prima della riforma del 2005 alla legge generale sul procedimento, la quale, disciplinando per la prima volta l’istituto, ha esplicitamente previsto il potere delle autorità amministrative di autoannullare i propri atti.
A partire da quella riforma, non è più discutibile, pertanto, che tale potere spetti agli enti pubblici (se mai fosse stato messo in dubbio).
Prima di allora e nel silenzio della legge, invece, se ne cercava un fondamento implicito, che veniva sostenuto sulla scorta di diverse impostazioni.
A suo tempo, Nicola Bassi[ii] ha reso un’accurata ricostruzione del dibattito, riferendo come si siano contrapposti, in materia, due principali schieramenti.
Il primo era quello che riconduceva il potere di annullamento d’ufficio al più generale istituto della c.d. autotutela amministrativa, quale insieme di strumenti che consentirebbero all’amministrazione di attivarsi nell’esercizio di poteri autoritativi, anche quando essi non fossero previsti in modo esplicito dalla legge[iii].
La categoria dell’autotutela, tuttavia, è piuttosto equivoca e raggruppa in sé fenomeni eterogenei, sì che la sua stessa attitudine di giustificare l’esistenza di poteri amministrativi impliciti non è, forse, sempre persuasiva.
In ispecie, se, per autotutela, s’intendesse quella congerie di rimedi che, in determinate circostanze, consentono all’autorità amministrativa di «farsi giustizia da sé»[iv], senza avere la necessità di rivolgersi all’intervento dell’autorità giudiziaria, allora pare lecito ricondurre alla stessa categoria il fenomeno della c.d. esecutorietà degli atti amministrativi, i poteri di polizia demaniale o la possibilità di emettere ingiunzioni di pagamento capaci di valere, di per sé, quale titolo esecutivo, pur senza essere asseverati dal giudice.
Pare meno scontato, invece, che costituisca una vera e propria forma di autotutela (decisoria) l’ipotesi in cui l’amministrazione caduchi un proprio atto, evidentemente sul presupposto che esso possa danneggiarla.
Tanto più appare difficile sostenere tale asserzione, se si considera che il giudice che verrebbe a essere in tal modo sostituito e superato dall’autoannullamento, inteso come forma di autotutela, sarebbe il giudice amministrativo[v].
Davanti a quel giudice, infatti, le pubbliche amministrazioni non possono impugnare i propri provvedimenti[vi]. Nell’autoannullamento, pertanto, non ricorrerebbe nessuno strumento utile a farsi giustizia in sostituzione dell’ordinario rimedio giurisdizionale, perché, a rigore, neppure sussisterebbe l’ipotesi alternativa che si vorrebbe, appunto, superare. Mancando la sostitutività dello strumento, pertanto, non sarebbe neppure possibile parlare di autotutela in senso proprio[vii].
Il secondo schieramento posto a fondamento del potere di autoannullamento, invece, era quello che fondava il potere di annullamento su un’esigenza di tutela degli interessi affidati alle cure della pubblica amministrazione[viii].
A ben vedere, però, anche questa seconda prospettiva non era, forse, del tutto convincente.
La medesima, infatti, pur essendo utile a dimostrare le ragioni dell’atto di secondo grado, non giustificava, in assenza di una norma di legge che lo prevedesse, l’attribuzione del potere.
Adducere inconveniens non est solvere argumentum ed è difficile sostenere che, una volta che la legge abbia affidato un dato interesse alle cure dell’autorità amministrativa, questo debba comportare anche l’attribuzione di tutti gli strumenti necessari a raggiungerlo.
Tanto più questa conclusione sembrava problematica, proprio perché chi sostenne la medesima tesi fu del tutto esplicito nell’affermare che il potere di autoannullamento andrebbe tenuto distinto dal potere esercitato con l’atto di primo grado[ix].
Vi è stata, per la verità, anche una terza impostazione, alla quale lo stesso N. Bassi sembra avere aderito e che, appunto, giustificava l’esistenza del potere di autoannullamento identificandolo nello stesso potere esercitato con l’atto da annullarsi[x].
L’attribuzione del potere di emanare il provvedimento di espropriazione per pubblica utilità implicherebbe, secondo questa tesi, anche l’attribuzione del potere di farlo venire meno. Il potere sarebbe il medesimo, ancorché esercitato in un verso opposto, facendo venire meno tutto ciò che l’atto di primo grado ha costituito.
2. Il dibattito successivo alla riforma portata nel 2005 alla legge generale sul procedimento.
Dopo l’introduzione, nel 2005, dell’art. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241, in ogni caso, il problema del fondamento del potere di autoannullamento è sembrato superato[xi]. Non vi è stata più la necessità di reperirne la fonte, perché il potere di autoannullare gli atti amministrativi, finalmente, è stato positivamente previsto dalla legge.
Che si tratti del medesimo potere, di un potere diverso o di una espressione del principio generale di autotutela, la questione della sua titolarità sembrerebbe essere diventata, in tal modo, secondaria.
Per questi motivi, a partire da quella riforma, il dibattito si è orientato verso altri temi e, più specificamente, verso quelli inerenti all’individuazione dei limiti, funzionali e cronologici, relativi all’esercizio del potere di annullamento di ufficio[xii].
Viceversa, se il problema dell’attribuzione del potere di intervenire in secondo grado è talora riemerso, questo è avvenuto in modo quasi tangente e con riguardo al collegato, ma distinto, tema della c.d. «inesauribilità del potere»[xiii].
In tal senso, però, non si è più discusso circa la norma idonea a conferire il potere di autoannullare e circa l’essenza del potere stesso. L’indagine, piuttosto, si è orientata verso l’esistenza di una diversa norma o di diversi presupposti[xiv] che, a far data da un certo momento, lo possano estinguere.
Oggi, tuttavia, il vecchio problema dell’identificazione del potere di annullamento riemerge nel passaggio che si è citato della sentenza della Corte, la quale è ben ferma nel tenere distinto quel medesimo potere da quello esercitato con l’atto annullato.
Se ne trae, qui, spunto, perché tornare sul tema, sia pure con alcune riflessioni solo impressionistiche, non è forse una mera questione di puntiglio.
In effetti, la definizione di qual sia il potere di annullamento non si limita, forse, ai soli rapporti che corrono tra detta misura e il principio di tipicità dei provvedimenti (così come il problema si era originariamente posto), potendo giustificare alcune conseguenze ulteriori, e sistematiche, persino sul rapporto tra il cittadino e l’autorità.
3. La nozione assunta di potere giuridico.
Per cercare di comprendere se vi sia identità tra il potere di annullamento e il potere esercitato con l’atto da annullarsi, qui si propone, dunque, di seguire un percorso, per così dire, strutturale, muovendo da una preliminare nozione di potere, che s’intende assumere per presupposta.
Si vuole, così, seguirne la definizione classica, quale fu offerta, tra gli altri, da Giovanni Miele[xv], secondo cui il potere è la forza di produrre o di concorrere a produrre effetti giuridici.
Come tale, secondo una prospettiva che già si è cercato di sostenere in altra sede (alla quale si rimanda per gli opportuni richiami di letteratura[xvi]), il potere non è di per sé una situazione giuridica soggettiva[xvii], se per tale s’intende uno strumento di valutazione della conformità o della difformità a legge di un dato comportamento.
Esso, piuttosto, può costituire il contenuto di una situazione giuridica soggettiva (sia essa di libertà, sia essa di doverosità) e si risolve in un giudizio, non tanto di conformità a legge di un comportamento (vale a dire di liceità o di illiceità; di legittimità o di illegittimità), quanto sull’esistenza giuridica del medesimo comportamento.
Il potere, infatti, si esercita con una condotta tipica, che è data dall’atto giuridico. In tanto l’atto giuridico può dirsi esistente in quanto chi lo assume abbia il potere di adottarlo. Viceversa, mancando la forza non può venire a costituirsi l’atto. In assenza della titolarità del potere, il suo esercizio - più correttamente: il simulacro del suo esercizio - si risolve, infatti, in una mera condotta materiale. Detta condotta, quindi, è una mera apparenza di atto giuridico e, di per sé, è incapace di essere fonte di qualsiasi effetto.
Se il potere sussistesse, quella condotta materiale ne costituirebbe la forma (1325 c.c.); in assenza del potere, essa si risolve in una mera modificazione della realtà fenomenica, in quanto tale irrilevante come fonte di modificazione giuridica.
L’atto giuridico, infatti, è, a sua volta, fonte diretta di effetti giuridici (a differenza di quel che in passato veniva definito «fatto giuridico in senso stretto», ma che forse sarebbe più appropriato definire «fattispecie giuridicamente rilevante» o «fattispecie presupposta», che ne è, invece, fonte indiretta, facendo sì che l’atto a cui esso è collegato si attivi nella produzione giuridica[xviii]).
A questi primi rilievi, necessari a impostare le basi da cui ci si muove, può aggiungersi che il potere può assumere varie intensità, secondo il distinto modo con cui la forza che esso esprime è in grado di applicarsi.
Queste diverse intensità non rispondono a canoni di teoria generale del diritto; esse rispondono, piuttosto, a quello che la disciplina di diritto positivo è in grado di escogitare.
Accanto a poteri autoritativi (nel cui canone rientrano anche quelli che danno luogo al provvedimento amministrativo), capaci di imporsi, con i loro effetti, anche sui terzi, indipendentemente dalla loro volontà e nonostante la loro eventuale opposizione, vi sono poteri paritari, in cui la produzione giuridica si verifica solo se due o più distinte forze giuridiche vi collaborino attivamente, in ragione del loro congiunto e coordinato esercizio. In quest’ultima categoria rientra tradizionalmente, dunque, il contratto civilistico o l’accordo di diritto pubblico (art. 11. l. 7 agosto 1990, n. 241).
Ancora, vi sono atti che riescono a produrre effetti unilateralmente sui terzi, ma che si distinguono da quelli autoritativi propriamente detti, perché, pur essendo caratterizzati dalla stessa forza, godono, tuttavia, di un minor valore, cioè di una minore attitudine a resistere alle sollecitazioni a sé esterne. Anch’essi, dunque, sono in grado di produrre i propri effetti indipendentemente dall’assenso dei loro destinatari, ma i medesimi effetti, pur quando si siano già prodotti, possono venir meno se vi si opponga la semplice volontà contraria del loro destinatario (senza che sia necessario l’intervento di una autorità terza - il giudice - che li caduchi).
Così è, nel diritto civile, per il legatario che volesse rinunciare alla relativa istituzione (art. 649 c.c.).
Altrettanto sembra valere, nel diritto amministrativo, per il c.d. atto amministrativo paritetico. La determinazione dell’indennità di esproprio fa sorgere, in capo al suo destinatario, il diritto al pagamento della somma di denaro, secondo l’ammontare stabilito con la medesima. Ma è sufficiente che l’espropriando vi si opponga (sia pure entro i termini di legge), perché la determinazione perda i propri effetti. Prova ne sia che il connesso giudizio di opposizione alla stima, quale si celebra davanti alla Corte d’appello, non riguarda la validità in sé dell’atto di determinazione dell’indennità, ma concerne l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto all’indennità e l’accertamento del suo ammontare (che, in astratto, potrebbe risultare anche inferiore a quello precedentemente determinato dall’autorità amministrativa[xix]).
Questi, peraltro, sono solo alcuni esempi della diversa intensità del potere. Se ne potrebbero, invero, indicare ulteriori categorie (si pensi, ad esempio, all’aggiudicazione di un appalto, che non produce effetti, se impugnata, fino alla trattazione della domanda cautelare o al caso, non del tutto equiparabile, in cui la contestazione giurisdizionale di un certo atto - come avviene per le sanzioni disciplinari dei Consigli di disciplina forensi o degli Ordini delle professioni sanitarie o, nei giudizi di responsabilità, per le sentenze di condanna in primo grado della Corte dei conti - non produce effetti in pendenza dell’impugnazione).
In un certo senso, la diversa intensità del potere dipende dalla fantasia del legislatore, che può descriverla come gli sembra più congruo.
Il legislatore, tuttavia, non può modificare la nozione di potere in sé, perché, questa sì, è una categoria propria della teoria generale e che, in quanto tale, dal diritto positivo è presupposta. Essa raggruppa, quindi, tutte le forze giuridiche, indipendentemente dalla loro diversa intensità.
Resta così un ultimo aspetto da indicare, in questa estrema sintesi, per definire la nozione di potere giuridico che s’intende seguire. Vale a dire il modo con cui sia possibile distinguere un potere da un altro.
Se, tuttavia, si assume che il potere è la forza di produrre effetti giuridici, la soluzione è scontata: le forze si differenziano tra di loro in ragione dei diversi effetti che esse sono in grado di produrre.
Il potere correlato al provvedimento di espropriazione per pubblica utilità, pertanto, s’identifica perché il suo esercizio comporta la perdita del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) in capo a un dato soggetto e perché ne comporta il trasferimento ad altri; il potere esercitato con il permesso di costruire s’identifica perché esso attribuisce in capo a taluno lo ius aedificandi[xx]; il potere a cui riferisce la licenza di porto d’arma si distingue perché esso riconosce a chi ne sia destinatario il diritto soggettivo di tenere con sé un’arma anche nei luoghi pubblici.
4. Impossibilità d’identificare il potere di annullamento d’ufficio con il potere esercitato nel primo grado di azione amministrativa, ove si muova da una concezione di annullamento inteso come figura complessa di carattere ricostruttivo del regime giuridico demolito dall’attività amministrativa.
Date queste premesse, si può, a questo punto, verificare se il provvedimento di espropriazione sia lo stesso potere che viene esercitato quando quell’espropriazione venga autoannullata.
A giudizio di chi scrive - in sostanziale accordo con quanto evidenziato dalla Corte costituzionale - la risposta non può che essere negativa.
Naturalmente, anche al fine di giustificare tale asserzione, occorre stabilire delle (ulteriori) premesse e indicare che cosa si debba intendere per annullamento.
È noto che, secondo la teoria comunemente accettata, l’annullamento costituirebbe una sorta di ammissione reale di carattere negativo.
L’annullamento sarebbe, appunto, reale perché non inerirebbe a un soggetto, ma a una cosa: l’atto giuridico da annullare.
L’annullamento sarebbe per di più una ammissione negativa, perché esso (anziché fare acquistare) farebbe perdere al suo oggetto (vale a dire, l’atto giuridico), una qualità (o una rilevanza) giuridica.
Per effetto dell’annullamento, l’atto annullato perderebbe, dunque, la qualità stessa di atto e quindi di fonte diretta di effetti giuridici[xxi]. Un tanto, per di più, avverrebbe con conseguenze retroattive, sicché si dovrebbe dire dell’atto, una volta annullato, che esso non è mai esistito.
La caducazione degli effetti prodotti da quell’atto sarebbe, così, una conseguenza indiretta di tale operazione. Se, infatti, a causa dell’annullamento, si dovesse ritenere l’atto come non mai esistito, esso non potrebbe aver prodotto alcun effetto giuridico neppure per il passato.
Si ritiene, però, che detta nozione di annullamento non possa essere accettata.
A renderla problematica, infatti, è proprio quel carattere di retroattività che essa implica.
Anzi, per essere più precisi, è proprio il concetto stesso di retroattività a risultare ambiguo.
Come è stato, in un certo qual modo, già notato in letteratura[xxii], infatti, il concetto di retroattività è metaforico e, per quanto pare doversi sostenere in questa sede, non può essere concepito alla stregua di una vera produzione di effetti giuridici nel passato.
Non che tale produzione non sia concepibile, in una realtà (quale è quella del mondo del diritto) solo razionalistica e puro frutto della mente umana[xxiii]. In quanto tale, la ragione ben può concepire, che, in un mondo di fantasia, si possano alterare anche i fatti del passato.
Il punto è che quel mondo di fantasia, che è appunto il diritto, vale a regolare condotte umane, perché solo questo, a ben vedere, è lo scopo applicativo dell’intero sistema giuridico.
E le condotte umane, a loro volta, non si muovono che in un verso: dal presente verso il futuro, qualunque sia il significato proprio di tempo, di presente e di futuro[xxiv].
Pertanto, se davvero l’annullamento dell’espropriazione per pubblica utilità dovesse restituire il diritto di proprietà anche per il passato (sia pure attraverso il meccanismo del venir meno della rilevanza, propria dell’atto annullato, di fonte diretta di effetti giuridici), si dovrebbe concepire, allora, che davvero il soggetto che abbia subito la medesima espropriazione, una volta reintegrato nel suo diritto, potrebbe tornare indietro nel passato e goderne.
Perché questo è il diritto di proprietà nella sua essenza (come ogni altro diritto soggettivo in senso proprio). Esso è un diritto di godimento, una libertas agendi, che si attua primariamente attraverso facoltà, vale a dire attraverso comportamenti materiali[xxv].
Ma se questa è l’essenza del diritto soggettivo, allora non è possibile sostenere che l’annullamento dell’espropriazione ne restituisca la titolarità nel passato, perché in praeteritu non vivitur. L’uomo non può più godere, in quel passato ormai irrimediabilmente trascorso, del bene e del diritto sacrificati dal provvedimento amministrativo (quando pure quest’ultimo sia stato annullato).
Né ha senso avanzare che il diritto verrebbe restituito dall’annullamento per il passato alla stregua di una mera potenzialità, quasi a significare che, se il destinatario del provvedimento annullato fosse davvero in grado di tornare indietro nel tempo, allora egli potrebbe effettivamente godere del diritto ripristinato.
L’irrealizzabilità di questa prospettiva rende non praticabile anche questa ipotesi, cosicché sembra più economico affermare che chi è stato espropriato e veda poi annullato il relativo provvedimento non ottiene l’effettiva restituzione del diritto per il tempo che è stato.
Cosa intendiamo sostenere, pertanto, quando diciamo che l’annullamento sarebbe retroattivo?
Sembra, a parere di chi scrive, che questo sia un modo sintetico, ma metaforico, per affermare che, una volta pronunciato l’annullamento (e da quel momento in poi), chi è stato destinatario degli effetti di un determinato provvedimento amministrativo si debba trovare nella stessa situazione giuridica in cui egli si sarebbe trovato se il provvedimento caducato non fosse stato mai emanato.
Il che si risolve in un duplice effetto dell’annullamento: per il futuro (avendo sempre a mente l’esempio dell’annullamento dell’espropriazione), la proprietà viene, effettivamente e giuridicamente, restituita (sì che all’«espropriato-annullato» è consentito di tornare a godere del bene).
Quanto al passato, invece, vengono riconosciute quelle medesime situazioni giuridiche soggettive che oggi spetterebbero a chi ha subito l’espropriazione se egli non fosse mai stato espropriato e, tra queste, in primo luogo, il diritto soggettivo all’eventuale risarcimento del danno.
Si tratta, dunque, di situazioni giuridiche soggettive diverse da quelle su cui ha inciso il provvedimento di primo grado e, per di più, si tratta di situazioni giuridiche di tipo dipendente, che si definiscono tali perché la loro esistenza trova normalmente titolo nel fatto di essere già titolari di un diritto presupposto.
Nel caso in esame, detto «diritto-titolo» è il medesimo diritto che è stato, appunto, sacrificato dal provvedimento amministrativo di primo grado.
In ragione dell’annullamento, tuttavia, queste situazioni dipendenti trovano un titolo alternativo (ai fini costitutivi della loro esistenza) nell’annullamento stesso (sicché esse, nel processo, vengono definite alla stregua dei diritti patrimoniali consequenziali).
Da tutto questo sembra lecito inferire che gli effetti dell’annullamento sono disomogenei e non unitari.
Quanto agli effetti per il futuro, l’annullamento opera facendo davvero venir meno gli effetti dell’atto annullato (ma non l’atto stesso, la cui esistenza giuridica rimane conservata), sì da restituire il diritto eliminato dall’atto di primo grado.
Quanto al passato, l’annullamento si sostituisce al medesimo diritto estinto dall’atto amministrativo di primo grado (rectius: si sostituisce al fatto di essere titolari del diritto estinto), quale titolo alternativo (ma equipollente) per la produzione del complessivo regime che, rispetto a quel diritto, è normalmente collegato e dipendente, ma che, proprio per questo motivo, se ne distingue.
Se si vuole concordare su questa ricostruzione, è giocoforza riconoscere che il potere esercitato con l’annullamento non può essere lo stesso potere esercitato (sia pure in senso contrario) con l’atto da annullarsi, perché gli effetti che ne derivano sono, almeno parzialmente, diversi.
Se, più in particolare, si può sostenere che vi sia identità di effetti per il futuro (l’annullamento, a tal fine, restituisce il diritto che l’atto annullato ha estinto), altrettanto non può dirsi per i cosiddetti effetti retroattivi, i quali si risolvono nell’attribuzione, nel tempo presente, di situazioni giuridiche diverse da quelle su cui il provvedimento di primo grado ha inciso.
In un certo senso, guardando sempre al passato, l’annullamento non ha carattere demolitivo dell’atto di primo grado.
Esso si risolve, se mai, in una complessa operazione di ricostruzione del regime che, piuttosto, è stato proprio l’atto amministrativo di primo grado a demolire[xxvi].
E, per ragioni di identità strutturale tra le due figure, tale conclusione deve ripetersi anche con riguardo all’annullamento giurisdizionale, con tutto ciò che questo implica, in termini istituzionali, circa l’incidenza della sentenza del giudice amministrativo sulla sfera del Potere Esecutivo.
5. Impossibilità di identificare il potere di annullamento d’ufficio con il potere esercitato nel primo grado di azione amministrativo, ove si muova da una concezione di annullamento inteso come strumento idoneo a rimuovere la qualità di atto giuridico dal provvedimento annullato.
Una analoga conclusione, circa la distinzione tra il potere di annullamento e il potere esercitato con l’atto annullato dovrebbe essere raggiunta, peraltro, anche se s’intendesse seguire la tesi classica e persistere nel sostenere che l’annullamento eliminerebbe una qualità giuridica, rendendo, per il passato, nullo un atto fino a quel momento esistente.
Seguendo tale ipotesi, in effetti, è ancora più semplice negare che sussista identità tra i due poteri, perché essi si dimostrano essere integralmente distinti.
Dire, infatti, che l’annullamento impedisce all’espropriazione di essere considerata tale non equivale a dire che l’annullamento incide direttamente sui diritti dell’espropriato o del beneficiario. Tali diritti, come si è detto, vengono incisi dall’annullamento solo in via indiretta, attraverso la preliminare eliminazione del provvedimento e, più precisamente, della qualità giuridica che lo identifica come tale.
Di contro, è sui diritti dell’espropriato e del beneficiario che si riflette direttamente l’atto di primo grado, il quale, per poter così agire, dà per presupposta la propria esistenza (e quindi la propria rilevanza di atto), sulla quale esso non è in grado di incidere, perché ne costituisce l’espressione e perché non può darsi causa da sé.
La rilevanza giuridica dell’atto (cioè, la sua esistenza), a ben vedere, dipende dalla norma (di relazione) attributiva del potere di emanarlo. Ma altro è attribuire un potere e affermare che con il suo esercizio una determinata condotta vale come atto; altro è considerare le conseguenze giuridiche che dall’esercizio di quel potere derivano. Unificare i due piani equivale a confondere la causa con l’effetto[xxvii].
Anche seguendo questo percorso, pertanto, il potere di annullare l’atto e il potere esercitato con l’atto annullato non potrebbero identificarsi, perché si dovrebbe ugualmente concludere che i due atti producono conseguenze giuridiche totalmente diverse: il primo opererebbe su qualità giuridiche proprie dell’atto che ne è oggetto; il secondo opererebbe, invece, sul regime sostanziale dei suoi destinatari[xxviii].
6. Esame dell’ipotesi per cui l’annullamento d’ufficio e l’atto annullato sarebbero accomunati da un’identità di funzione.
Per quanto fin qui sostenuto, è, a questo punto, possibile ipotizzare che, quando si è affermato (in ossequio al principio del contrarius actus) che i due poteri coinciderebbero, si sia inteso, in realtà, sostenere una cosa piuttosto diversa.
In effetti, la terminologia tecnica (negli studi amministrativistici, in particolare) non è sempre assistita da una fortunata omogeneità, il che rende, talvolta, difficoltoso il dialogo tra chi si occupa della disciplina. Questo, talvolta, rende necessario, come si è ritenuto opportuno operare anche nel presente studio, chiarire preliminarmente a che cosa ci si riferisca, quando si impiegano determinati concetti.
Se, dunque, pare lecito ammettere una sorta di contaminazione terminologica, allora non è azzardato valutare che, quando si parla di identità tra l’annullamento e l’atto annullato, si voglia riferirsi più che al concetto proprio di potere, a quello, distinto eppure non troppo lontano, di funzione.
Vale a dire, allo scopo doveroso a cui quel potere è preordinato e che è definito dalla legge in forma ora del tutto rigida e predeterminata (quando il provvedimento sia integralmente vincolato), ora delegata (ma pur sempre non libera, quando l’atto debba essere preceduto da una qualche forma di discrezionalità, sia nella forma pura, sia nella forma tecnica, il cui risultato, attraverso la figura dell’autolimite, costituisce la funzione del caso concreto)[xxix].
Se si ammette questa ipotesi, il problema dell’identità tra i due provvedimenti si trasferisce dal piano del rispetto del principio di tipicità (che sottintende identità di poteri) a quello del rispetto del principio di nominatività (che sottintende, appunto, identità di funzione).
In questo senso, l’identità tra i due atti si tradurrebbe, altresì, nel considerare che gli stessi (doverosi) interessi affidati alla cura della pubblica amministrazione con il potere di emanare l’atto di primo grado si ripresenterebbero, per tornare a essere presi in considerazione, quando l’autorità amministrativa procedesse ad autoannullarlo.
Così come una espropriazione di pubblica utilità perseguirebbe, se legittima, la funzione di realizzare un’opera pubblica, allo stesso modo l’autoannullamento, eliminando l’espropriazione illegittima, perseguirebbe (in senso contrario) la stessa funzione e gli stessi interessi. In particolare, perseguirebbe lo scopo d’impedire la realizzazione di un’opera pubblica, quando essa non fosse sostenuta dai crismi della legalità e quindi non fosse normativamente giustificata.
Se, pertanto, si accettasse questa diversa prospettiva, sembrerebbero, allora, pertinenti le già riferite impostazioni che collegavano il potere di autoannullamento alla cura degli interessi affidati all’autorità amministrativa e, in un certo senso, anche quelle che riconducevano l’istituto nel fenomeno dell’autotutela.
Ma, vale ribadire, tale adesione viene qui protestata non senza le opportune specificazioni, perché entrambe le tesi contribuiscono a evidenziare i motivi dell’autoannullamento, ma non riescono a dimostrare che a identità di funzione debba corrispondere anche identità di potere esercitato.
7. Le tesi risalenti a favore del carattere vincolato dell’annullamento d’ufficio.
Tuttavia, anche questa conclusione, che sposta l’identità dal potere alla funzione, è forse meno certa di quel che, ad un primo scrutinio, potrebbe sembrare.
Secondo la tradizione, Enrico Guicciardi (il fondatore della scuola a cui ci s’ispira) sosteneva, nelle conversazioni con i suoi allievi diretti[xxx], che il primo e assorbente interesse, di cui l’autorità amministrativa avrebbe dovuto tenere conto in sede di annullamento d’ufficio, sarebbe stato quello del rispetto della legalità della propria azione. Pertanto, egli escludeva che l’autoannullamento potesse essere discrezionale. Se illegittimo, l’atto avrebbe dovuto essere autoannullato, senza tener conto di nessun altro rilievo.
La tesi, peraltro, non era affatto nuova, posto che era stata avanzata, per diretta conseguenza applicativa del principio di legalità, anche da Vincenzo Romanelli[xxxi].
Nella medesima tesi, peraltro, non si deve ravvisare una semplice, e quasi retorica, esaltazione del normativismo. Ad essa sottostanno, forse, ragioni di garanzia indiretta dei privati. Per il momento, però, non si ritiene opportuno approfondire la questione, che verrà, invece, affrontata a breve, giacché essa concorrerà a formare le conclusioni a cui s’intende pervenire.
Per chi seguisse una tale concezione, in ogni caso, non sarebbe difficile affermare che vi sia identità di funzione tra l’atto annullato e l’atto di annullamento.
Poiché non è dato ingresso, al momento della assunzione del provvedimento di secondo grado, ad interessi esogeni rispetto a quelli da considerarsi in occasione dell’emanazione dell’atto di primo grado, le finalità perseguite con entrambi gli atti non potrebbero essere diverse.
Secondo la costruzione di Guicciardi e di Romanelli, non si potrebbe ipotizzare un atto che, ponendo rimedio a una illegittimità già compiuta, sia in grado di esorbitare dalla funzione assegnata all’autorità amministrativa. In effetti, il ripristino della legalità implica di per sé anche il rispetto della norma che detta la funzione del provvedimento e non è concepibile che l’amministrazione che, così intenda agire, se ne possa distaccare.
Per converso, il divieto di autoannullare un provvedimento legittimo sarebbe ugualmente coerente con una concezione identitaria della funzione tra i due atti, giacché, se il provvedimento di primo grado non fosse viziato, esso, per necessità, perseguirebbe correttamente la funzione amministrativa istituzionale, cosicché, a caducarlo, si finirebbe per impedire che la medesima venga correttamente perseguita.
8. Maggiore ampiezza della funzione esercitata in sede di annullamento d’ufficio rispetto a quella esercitata con l’atto amministrativo di primo grado. Carattere innominato dell’annullamento d’ufficio e impossibilità d’identificare la funzione del medesimo annullamento con la funzione a cui soggiace l’atto da annullare.
Già ai tempi in cui E. Guicciardi esponeva queste idee era, tuttavia, prevalente la tesi opposta, favorevole alla discrezionalità dell’autoannullamento[xxxii].
Questa diversa opinione, oggi, non può più essere contestata, perché anch’essa è stata recepita dal diritto positivo il quale, all’art. 21 nonies della legge sul procedimento, stabilisce (come ben si sa) che l’autoannullamento può essere pronunciato solo «sussistendone le ragioni di interesse pubblico» e «tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati».
A circoscrivere il potere di annullare, compaiono, così, diversi interessi privati, potenzialmente contrapposti e, in particolare, quello del destinatario degli effetti favorevoli dell’atto (sì da doversi ravvisare una sorta di tutela dell’affidamento).
Compare, inoltre, un interesse pubblico, il quale non è necessariamente coincidente con l’interesse pubblico primario a cui sovrintende l’atto di primo grado.
Questo interesse, infatti, viene definito pubblico dalla legge perché esso è, genericamente, di utilità per l’autorità amministrativa e non perché esso coincida con la finalità a cui deve rispondere l’atto di primo grado[xxxiii].
Se diversamente fosse, invero, non vi sarebbe la necessità di prevederne la valutazione giacché essa, in un parametro di valutazione della legittimità generale dell’atto di primo grado, dovrebbe essere assunta in re ipsa: un annullamento che non ne tenesse conto sarebbe, infatti, esso stesso invalido per eccesso di potere.
Attraverso la necessità di tenere conto di questi interessi, privati e pubblici, si è, così, compiuta un’implementazione della funzione propria dell’atto di annullamento, che porta a considerare questa medesima funzione più estesa di quella a cui è consegnato il provvedimento di primo grado. Detta funzione, infatti, è il risultato di una valutazione discrezionale, la quale deve considerare una congerie di interessi di per sé non valutabili in primo grado.
Si potrebbe, anzi, rilevare che siffatta estensione della funzione perseguita con l’annullamento è forse fin troppo ampia. Non solo in quella parte in cui si rende necessario tenere conto dei, quasi sempre individuabili, interessi dei privati. Ma soprattutto per quel che attiene alla necessità di tenere conto di interessi pubblici i quali, per il modo generico con cui essi vengono normativamente descritti, potrebbero avere il contenuto più vario e indeterminato[xxxiv].
Di fatto, il potere di annullamento rischia di essere, quindi, un provvedimento che non risponde al principio di nominatività, perché i fini a cui esso sovrintende sono rappresentati da interessi pubblici non puntualmente predeterminati dalla legge o comunque non facilmente ricostruibili sulla sua scorta.
Per tutte queste ragioni, diventa difficile sostenere che, anche sotto il profilo funzionale, si possa parlare di identità tra l’atto di primo e l’atto di secondo grado.
In effetti, l’atto di primo grado potrebbe persino risultare vincolato sotto ogni profilo, cosicché, perché la sua funzione sia correttamente perseguita, l’autorità amministrativa sarebbe tenuta a verificare solo l’esistenza dei presupposti di fatto rigidamente e obiettivamente dettati dalla legge.
Non di meno, nel secondo grado dell’azione amministrativa, l’azione muterebbe e da vincolata diventerebbe discrezionale. Non varrebbe più, dunque, l’ossequio dell’unico fine predeterminato in ogni suo aspetto dalla legge, ma s’imporrebbe una diversa funzione, data dal risultato di una valutazione comparativa tra questo medesimo fine e il generico interesse pubblico a cui l’art. 21 nonies si riferisce.
Pertanto, l’atto di primo grado totalmente vincolato, ove fosse emanato in difetto dei suoi presupposti di legge, potrebbe pur essere disfunzionale. Non di meno, se, in sede di riesame, dovesse prevalere il contrapposto e indeterminato interesse pubblico, esso non sarebbe annullato. Con il che, in definitiva, la stessa azione amministrativa nel suo complesso (quale risulterebbe dalla sommatoria dell’atto di primo grado e della decisione di non autoannullare) si rivelerebbe assunta in difformità dallo scopo per il quale la legge ha attribuito l’originario potere provvedimentale.
A non diverse conclusioni si dovrebbe, peraltro, pervenire quando pure l’atto di primo grado fosse, già in partenza, discrezionale. Ugualmente, in sede di riesame, assumerebbero rilievo interessi pubblici (e privati) diversi da quelli considerati dalla legge in occasione del suo primo intervento di amministrazione attiva, sì che, anche in tal caso, la funzione dell’atto di annullamento risulterebbe più ampia, e comunque distinta, da quella propria dell’atto da annullare.
Per quanto esposto, la funzione in concreto, viene, quindi, a mutare nel secondo grado dell’azione amministrativa.
Ivi, essa è il risultato, necessariamente, di una valutazione discrezionale in senso proprio (e quindi di una valutazione comparativa di interessi) ed è, per di più, il risultato di una valutazione discrezionale diversa da quella prevista ai fini dell’emanazione dell’atto di primo grado, come tale capace d’influenzare in modo altrettanto diverso gli scopi che l’amministrazione è chiamata in concreto a perseguire.
A causa di queste considerazioni, ci si dichiara, dunque, concordi con la sentenza della Corte costituzionale da cui ha preso spunto questo intervento anche per quanto concerne quel suo ulteriore passaggio in cui si dichiara che l’autoannullamento è assoggettato «a regole specifiche, quanto a presupposti, a disciplina procedimentale e a portata della discrezionalità di cui la funzione di autotutela è espressione».
9. L’annullamento d’ufficio come strumento di protezione di interessi privi di tutela giurisdizionale verso i vantaggi competitivi riconosciuti da un provvedimento amministrativo illegittimo per vizio della funzione. Rilievi sulla costituzionalità della disciplina legislativa dell’istituto.
Vi è, a questo punto, motivo per interrogarsi sulle ricadute della conclusione che ha portato a negare la non identità – sia di potere, sia di funzione - tra l’atto di annullamento e l’atto annullato.
A parere di chi scrive, dette conseguenze attengono al profilo delle tutele, perché è con esse (e con il sottostante principio di legalità) che si confronta l’introduzione di un provvedimento amministrativo sostanzialmente innominato, quale è oggi l’annullamento d’ufficio.
Le medesime conseguenze, tuttavia, non si colgono quando il provvedimento di primo grado abbia contenuto sfavorevole per il suo destinatario, per tale intendendosi il provvedimento che miri a demolire un preesistente diritto o, più generalmente, una preesistente situazione di vantaggio (quale è il caso, a cui è stato fatto più volte riferimento, di un provvedimento di esproprio).
In questa ipotesi, in effetti, l’ampliamento della funzione, che è propria dell’autoannullamento, non pregiudicherebbe in nessun modo le sorti di detto soggetto, ma solo per un motivo: perché a costui spetterebbe, comunque, la tutela giurisdizionale. Se, perciò, questa fosse invocata nel termine, l’atto viziato dovrebbe essere, in via di principio, annullato dal giudice in ragione della sua semplice illegittimità e senza tenere conto di emergenti, ulteriori e generici interessi pubblici o privati. L’annullamento giurisdizionale, infatti, non soffre, per sua natura, di alcun ampliamento di funzione.
A diverse conclusioni, invece, si deve pervenire quando il provvedimento di primo grado sia favorevole alle sorti del destinatario, senza che vi sia nessun altro soggetto leso in modo diretto dalla sua emanazione.
L’aspetto su cui s’intende richiamare l’attenzione attiene proprio al carattere diretto con cui un provvedimento favorevole è in grado di danneggiare i terzi.
Per meglio intendersi, il rilascio a favore di Tizio di una concessione di un bene pubblico o il provvedimento di aggiudicazione di un appalto ben potrebbe pregiudicare direttamente Caio, se questi ambisse a ottenere per sé i medesimi provvedimenti.
In questa circostanza, a Caio sarebbe ugualmente riconosciuta la tutela giurisdizionale (perché, non troppo diversamente dal caso dell’espropriazione [xxxv], il provvedimento sarebbe per lui sfavorevole) e il rimedio che l’ordinamento riconoscerebbe non sarebbe confinato nella speranza di ottenere dalla pubblica amministrazione un autoannullamento del provvedimento illegittimo, ma risiederebbe, ancora una volta, nella possibilità di ottenere la caducazione dal giudice sulla base di stretti parametri di legittimità.
Anche in questa ipotesi, pertanto, l’ampliamento della funzione esercitata in occasione dell’atto di riesame non sembra in grado di pregiudicare l’esistenza di una protezione del terzo.
A diverse conclusioni, invece, si deve pervenire quando un provvedimento sia favorevole in termini assoluti; quando, cioè, esso non leda nessun altro soggetto in modo diretto, personale e attuale.
Si pensi, ad esempio, al permesso edilizio con cui si autorizzi la costruzione di un condominio senza che vi sia nessuno che, avanzando questioni di vicinitas, possa dolersene. Allo stesso modo, nel caso in cui fosse rilasciata un’autorizzazione illegittima all’esportazione di un bene vincolato, non vi sarebbe nessun soggetto che, vantando una lesione diretta a un proprio bene della vita, possa contestarlo.
Più in generale, in tutte queste ipotesi (come in altre affini), non vi sarebbe nessuno che avrebbe titolo, interesse e legittimazione per impugnare il provvedimento di cui altri verrebbe a giovarsi. Pertanto, non vi sarebbe neppure nessuno che potrebbe ottenere l’annullamento giurisdizionale dell’atto sulla base di una rigida ed esclusiva applicazione del diritto.
Questo, tuttavia, non significa che dall’emanazione di quel provvedimento favorevole non possano ugualmente emergere delle lesioni a soggetti terzi.
Si tratta, tuttavia, di lesioni indirette e più sfuggenti, alle quali la legge, per ragioni di economia del sistema, non riconosce protezione giurisdizionale, quand’anche esse fossero generate contra legem.
Non di meno, queste lesioni esistono e non possono essere del tutto trascurate.
Come si è ritenuto di sostenere in un precedente studio[xxxvi] - salvi i casi degli esoneri (a proposito dei quali preesiste non già un divieto, ma un dovere di attivarsi positivamente) e quelli delle pseudoautorizzazioni (che, attribuendo al privato un potere civilistico a lui altrimenti non imputabile, non presuppongono un divieto, giacché non ha nessun senso vietare quel che neppure può essere posto in essere) - ogni provvedimento amministrativo favorevole presuppone un divieto generale stabilito dalla legge, rispetto al quale il medesimo provvedimento agisce in deroga e a favore di un singolo e individuato soggetto.
In tanto ha senso concepire un permesso di costruire, in quanto esista un preliminare divieto, stabilito con atto normativo generale, che impedisca a chiunque di edificare; in tanto ha senso autorizzare l’esportazione di un’opera d’arte, in quanto esista un divieto, altrettanto generale, di tenere tale condotta.
In assenza di questo preliminare divieto, non vi sarebbe, di contro, alcun bisogno di un provvedimento che intervenga autorizzando il singolo, perché l’attività sarebbe per tutti, ab origine, lecita.
Ma, se così è, si deve allora riconoscere che il rapporto tra il presupposto divieto legislativo e l’atto amministrativo capace di derogarvi è complesso e che il confine con la possibilità di suscitare posizioni di ingiustificato privilegio è presidiato solo dal rigido rispetto della funzione amministrativa che sottostà al provvedimento favorevole, sul postulato che la disciplina di legge che regola l’emanazione del medesimo provvedimento sia essa stessa giustificata e non irragionevole (art. 3 Cost.).
Se la deroga amministrativa fosse, dunque, assunta in modo legittimo e, soprattutto, in stretto ossequio alla funzione, essa sarebbe giustificata e il danno indiretto (se pure esistente) che subirebbero tutti coloro sui quali continuerebbe a gravare il divieto non potrebbe essere ritenuto meritevole di nessuna tutela, perché esso, per definizione, sarebbe avvenuto secundum ius.
Se, invece, così non fosse e se la deroga a favore del singolo fosse assunta in modo disfunzionale, allora essa si trasformerebbe in un ingiustificato privilegio a favore di quell’unico soggetto autorizzato rispetto a tutti gli altri che al medesimo, e presupposto, divieto generale continuano, invece, a soggiacere.
In questo rilievo, a ben vedere, riposa gran parte della differenza tra uno Stato di diritto e uno Stato assoluto. Il primo si fonda, a parità di condizioni e quindi di ragioni, su un’equivalenza di regime tra tutti i consociati; il secondo, invece, favorisce gli uni rispetto agli altri in ragione dell’arbitrio del principe.
Il privilegio ingiustificato a cui ora si fa cenno, peraltro, non si risolve solo in un’odiosa disparità di trattamento.
Quel soggetto che godesse di un’illegittima autorizzazione amministrativa (o di un altrettanto illegittimo titolo sostitutivo e di c.d. semplificazione) potrebbe, infatti, compiere quello che tutti gli altri soggetti non possono fare (in quanto a loro vietato).
E tutto questo si tradurrebbe, quanto meno, in un’alterazione dei mercati, o, se si preferisce, delle prospettive dei singoli.
In altri termini, quel soggetto illegittimamente autorizzato verrebbe a godere contra legem di un vantaggio competitivo, tale da consentirgli di prevalere, successivamente, su eventuali concorrenti, anche solo futuri o potenziali.
Chi abbia ottenuto illegittimamente il permesso edilizio che gli consentisse la costruzione di un condominio – senza che nessuno abbia titolo per impugnarlo giurisdizionalmente – potrà, con il ricavato della vendita delle varie unità immobiliari, consolidarsi sul mercato e far propri i mezzi, anche economici, per riuscire più facilmente a imporsi anche in successive operazioni immobiliari o commerciali, a scapito dei competitori che dovessero, in quel momento, entrare con lui in contatto.
La lesione verso la generalità (intesa come somma di singoli individui), che verrebbe in tal modo a delinearsi non potrebbe, tuttavia, trovare tutela giurisdizionale, perché essa sarebbe diffusa e indeterminata.
Ne segue che l’unica sede in cui detta protezione può trovare una sorta di, pur minimo, riconoscimento è proprio quella interna alla stessa pubblica amministrazione e nei poteri di riesame che a questa sono riconosciuti[xxxvii].
Si tratta di una tutela minima, se ne conviene, perché essa è affidata a una rivalutazione della medesima autorità amministrativa, tanto nel caso in cui questa agisca d’ufficio, tanto in quello in cui agisca su impulso di un privato[xxxviii].
Pure, questa è l’unica tutela che oggi sussiste, perché anche la prospettiva (peraltro discutibile) che il provvedimento favorevole sia disapplicabile in sede di sindacato del giudice penale è confinata dall’esistenza, nel caso concreto, di una fattispecie penalisticamente rilevante[xxxix] e dai limiti in cui detta disapplicazione può trovare esplicazione, per lo più circoscritti a una sorta di fraudolenta collusione tra il beneficiato e gli amministratori.
Emerge così un ulteriore scopo – forse, effettivamente, lo scopo principale - a cui sovrintende il potere di annullamento d’ufficio.
Esso si pone, invero, come un, pur debole, presidio posto a tutela di quelle lesioni che sono prive di protezione giurisdizionale e che possono gravare sugli individui a causa degli ingiustificati vantaggi che il rilascio di un provvedimento, favorevole e illegittimo, in capo ad altri suscita. Vantaggi che, alterando le pari opportunità dei consociati, finirebbero, in difetto anche di questa tutela, per creare ingiustificate, e del tutto irrimediabili, disparità di trattamento[xl]. Come, peraltro, è già stato notato, l’annullamento d’ufficio, compromettendo l’atto di primo grado, incide sulla stabilità dei mercati: questo è indubbio[xli]. Tuttavia, questa sua attitudine non implica che esso leda o, comunque, non protegga i mercati stessi, la cui stabilità è un valore, a modo suo, relativo, ove essa sia frutto di posizioni indebitamente raggiunte. Se mai, pertanto, l’annullamento d’ufficio può contribuire a proteggere i mercati dalle proprie stesse distonie.
Si devono, così, rivalutare le già riferite opinioni di Romanelli e di Guicciardi, riconoscendo a loro un più profondo valore.
Lo stretto rispetto della legittimità - e di null’altro - che queste impostazioni invocavano risultava posto a tutela, a ben vedere, non tanto di uno sterile formalismo, quanto di interessi che, diversamente, non riuscirebbero a trovare nessuna protezione.
In altri termini, il potere di autoannullamento non deve essere confrontato solo con un generico e multiforme interesse pubblico alla stabilità dell’azione amministrativa o con l’affidamento del destinatario dell’atto annullato, ma anche con le aspettative di tutela dell’indifferenziata generalità dagli ingiustificati vantaggi competitivi attribuiti a un singolo.
Tanto più tali aspettative, peraltro, meritano protezione, perché esse coincidono con la funzione a cui sottostà l’atto amministrativo favorevole, la quale potrebbe risultare tradita, quando esso fosse stato illegittimamente emanato.
Tanto premesso, le conclusioni a cui sembra di doversi pervenire sono, a questo punto, consequenziali.
Una volta ancorato il potere di annullamento d’ufficio a una così ampia valutazione discrezionale, non resta che ammettere che anche questa debole forma di tutela della generalità indifferenziata è sostanzialmente decaduta o che, per lo meno, essa risulta fortemente indebolita.
Il provvedimento di primo grado potrebbe risultare del tutto illegittimo e del tutto irragionevole, ma, se non si riuscisse a superare l’ostacolo dell’innominato interesse pubblico all’annullamento (o quello dei contrapposti interessi privati), il medesimo provvedimento permarrebbe in vita e persisterebbe anche la correlata disparità di trattamento che esso avrebbe suscitato.
Con questo, non si vuole negare che - a fronte di talune illegittimità formali che nel primo grado di amministrazione attiva non siano state in grado d’incidere sul risultato provvedimentale, comunque inevitabile - un annullamento d’ufficio potrebbe risultare incongruo.
Da questo punto di vista, pertanto, l’estensione (art. 63, comma 1, d.l. 31 maggio 2021, n. 77) all’istituto dei limiti stabiliti dall’art. 21 octies, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241, è forse più giustificata di quanto non sia l’applicazione diretta dei medesimi limiti all’annullamento giurisdizionale[xlii].
Ma, almeno nelle ipotesi in cui la ragione d’illegittimità riposi sul vizio della funzione, l’atto di riesame dovrebbe risultare doveroso[xliii], per proteggere dalle lesioni indirette che l’atto di primo grado è in grado di cagionare sulla sommatoria dei singoli individui che compongono la generalità[xliv].
Alla luce di queste considerazioni, dunque, si deve forse riflettere sulla ragionevolezza della soluzione a cui lo stesso legislatore ha dato seguito nel 2005, con l’ampliamento, in tal modo introdotto, della funzione dell’atto di secondo grado.
Detta soluzione impedisce l’annullamento dell’atto viziato anche nei casi in cui il provvedimento di primo grado sia viziato dall’eccesso di potere.
Anzi, proprio perché nelle ipotesi dell’art. 21 octies, comma 2, cit. l’annullamento è precluso in via generale, gli ulteriori limiti all’annullamento previsti dall’art. 21 nonies sembrano riferirsi anche ai casi in cui il provvedimento di primo grado possa risultare viziato sotto il profilo funzionale. Quando, invece, una tale conclusione dovrebbe ritenersi esclusa, per le ragioni appena sostenute.
In definitiva, impedire l’autoannullamento di un provvedimento viziato da eccesso di potere consente all’autorità amministrativa di agire in difformità dalla sua funzione e di stabilizzare gli effetti della sua disfunzionale azione.
L’irragionevolezza che viene così a emergere porta, pertanto, a chiedersi se la disciplina dell’art. 21 nonies, creando il descritto deficit di tutela, sia, prima ancora che opportuna, del tutto conforme al dettato costituzionale.
Una tale evenienza, tuttavia, sembra essere stata esclusa dalla stessa sentenza della Corte da cui ha preso lo spunto questo studio, perché essa ha negato l’illegittimità dell’art. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241, sia pure sotto il ristretto, ma collegato, profilo dell’inderogabilità del termine entro cui agire in secondo grado.
Eppure, proprio le premesse da cui questa sentenza muove (circa la non identità di potere e funzione) forse avrebbero dovuto portare ad opposti risultati.
Su un piano più generale, invece, si ritiene che sia più aderente alla Costituzione un dettato normativo che renda doveroso l’annullamento d’ufficio nei casi in cui l’atto di primo grado sia viziato per eccesso di potere, quando pure vi si oppongano altri interessi, pubblici o privati.
* È dovuto un ringraziamento a Giancarlo Capelli e a Antonio Cassatella per gli utili spunti alla formazione di questo studio che sono derivati dal confronto con loro.
[i] Già si riscontrano, a tale riguardo, i primi commenti: G. Strazza, La Corte costituzionale definisce i limiti dell’annullamento d’ufficio (nota a prima lettura a Corte costituzionale 26 giugno 2025 n. 88), giustiziainsieme.it, 2025.
[ii]N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001, 379, s. Una non meno accurata ricostruzione dell’istituto, tuttavia, è stata fornita anche da M. Allena, Potere pubblico e autotutela amministrativa - I rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nello specchio dell’annullamento d’ufficio, Torino, 2018, 15 s.
[iii]È scontato il richiamo a F. Benvenuti, voce Autotutela (dir. amm.), Enc. dir., IV, Milano, 1959, 453. In tempi più recenti, il tema è stato ripreso, seguendo la medesima prospettiva, da M. Silvestri, Potere pubblico e autotutela amministrativa
I rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nello specchio dell’annullamento d’ufficio, Torino, 2021.
[iv] G. Licugnana, Profili evolutivi dell’autotutela amministrativa, Padova, 2004, 37, ha tuttavia proposto, in tempi più recenti, una nozione di autotutela leggermente diverso, alla stregua di un potere per la risoluzione di un conflitto, avente ad oggetto un interesse giuridicamente rilevante, da parte dello stesso titolare di quell’interesse.
[v] Il problema è stato colto anche da M. Allena, Potere pubblico, cit., 16 s., ancorché l’A. arrivi a conclusioni contrarie a quelle qui esposte, giacché ne inverte, se ben si è inteso, lo stesso ragionamento sottostante: poiché l’autorità amministrativa non può rivolgersi al giudice, allora le deve essere riconosciuto il potere di autoannullare i propri atti.
[vi]Con l’eccezione, forse, del caso in cui l’autorità amministrativa intenda eccepire la nullità di un proprio provvedimento, secondo quanto previsto dall’art. 31, u.c., c.p.a., e ove si voglia ravvisare in tale eccezione una sorta di sostanziale domanda giudiziale. Si consideri, in ogni caso, anche l’art. 33, comma 2, del testo unico del 1924, secondo il quale «Col preventivo assenso scritto di coloro ai quali il provvedimento direttamente si riferisce, può invece provocare la decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Ma se essi si rifiutino, si intenderà che vi abbiano rinunziato» (abrogato dal codice del 2010), a cui ha dava esecuzione l’art. 5 del regolamento del 1907 («Ove, entro trenta giorni da quello della notificazione dell'invito che sia stato fatto all'interessato, a termini dell'art. 25 11 della legge, questi non risponda all'autorità che ne ha promosso il consenso, s'intende che egli abbia rinunziato al diritto di ricorrere alla sezione giurisdizionale competente. Qualora l'interessato dichiari di accettare che l'affare sia deferito alla decisione della sezione predetta, l'autorità, entro trenta giorni dopo tale dichiarazione, invia gli atti alla segreteria della sezione stessa, dandone comunicazione agli interessati in forma amministrativa. Nel termine di altri trenta giorni dopo pervenuti gli atti alla segreteria, le parti possono presentare istanze, memorie e documenti»).
[vii] Questo si può sostenere, nonostante la stessa legge sul procedimento riconduca espressamente l’annullamento d’ufficio al genere dell’autotutela. Così, all’art. 14 quater, co. 2 («Le amministrazioni i cui atti sono sostituiti dalla determinazione motivata di conclusione della conferenza possono sollecitare con congrua motivazione l'amministrazione procedente ad assumere, previa indizione di una nuova conferenza, determinazioni in via di autotutela ai sensi dell'articolo 21-nonies. Possono altresì sollecitarla, purché abbiano partecipato, anche per il tramite del rappresentante di cui ai commi 4 e 5 dell'articolo 14-ter, alla conferenza di servizi o si siano espresse nei termini, ad assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi dell'articolo 21-quinquies») e all’art. 20, co. 3 («Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies»). Ancora una volta, le classificazioni operate dal legislatore non possono essere ritenute vincolanti per l’interprete.
[viii]S. Romano – G. Miele, voce Annullamento degli atti amministrativi, Noviss. Dig. it., I, 1, Torino, 1957, 644.
[ix]S. Romano – G. Miele, voce Annullamento, cit., 642.
[x]G. Coraggio, Annullamento d’ufficio degli atti amministrativi, Enc. giur., 1988, II, 4; A. Contieri, Il riesame del provvedimento amministrativo, Napoli, 1991, 83, ma, a ben vedere, anche la prevalente manualistica.
[xi] R. Chieppa, voce Provvedimenti di secondo grado, Enc. dir. Ann., II -2, Milano, 2008, 914, s. Secondo M. Trimarchi, Stabilità del provvedimento e certezze dei mercati, Dir. amm., 2016, 358, anzi, l’esplicita previsione dei provvedimenti di revoca e annullamento, contenuta nella legge sul procedimento, è indice di autonomia e distinzione dei poteri esercitati in primo grado.
[xii]Ci si permette soprattutto, di segnalare, tra i molti, gli studi di C. Napolitano, Autotutela amministrativa: riflessioni su una figura ancipite, Foro amm. – CdS., 2012, 2946 s.; G. Manfredi, Il tempo è tiranno: l’autotutela
nella legge Madia, Urb. e app., 2016, 5 s; C. P. Santacroce, Annullamento d’ufficio e tutela
dell’affidamento dopo la legge n. 124 del 2015, Dir. e proc. amm., 2017, 1145, s.; Id. Tempo e potere di riesame: l’insofferenza del giudice amministrativo alle «briglie» del legislatore, federalismi.it, 2018
[xiii]M. Trimarchi, L'inesauribilità. del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018, 145 s. 199 s. Il tema, peraltro, è stato affrontato dallo stesso A. anche nel saggio Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, P.A. – Persona e Amministrazione, 2017, 192 s.
[xiv]L’indagine si è arricchita di recente anche grazie agli studi che si sono interessati dei poteri di secondo grado diversi dall’annullamento e, in particolare, del potere di riforma, la cui titolarità (benché sia agevole sostenere che vada identificata nel potere esercitato in primo grado, giacché la modificazione dei suoi effetti sembra esserne effettiva esplicazione) sembrerebbe essere ostacolata, secondo una certa prospettiva, dagli effetti preclusivi dell’atto di primo grado alla riedizione del potere (questo, a sua volta, in ragione della impossibilità di riconoscere all’amministrazione una funzione abrogativa dei propri atti analoga a quella che riguarda gli atti normativi. Pertanto, la riforma presupporrebbe un annullamento degli effetti prodotti con l’atto di primo grado e solo in seguito a questa operazione, definita «complessa» il potere potrebbe tornare ad essere esercitato. V., così, N. Berti, La modifica dei provvedimenti amministrativi, Torino, 2022, 165 s.; Id., Riforma e modificazione del provvedimento amministrativo, in Dialoghi di diritto amministrativo lavori del laboratorio di diritto amministrativo 2022-2023, a cura di Flaminia Aperio Bella, Andrea Carbone, Enrico Zampetti, Roma, 2024, 80.
[xv] G. Miele, Potere, diritto soggettivo e interesse, Riv. dir. comm., 1944, 116; G. Miele, Principi di diritto amministrativo, Padova, 1953, 45, s. Ma, già prima, E. Garbagnati, La sostituzione processuale nel nuovo codice di procedura civile, Milano, 1942, 116.
[xvi] F. Volpe, Norme di relazione, norme d’azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 23 s.
[xvii]Contra, però, v. A. Motto, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 13 s. e, nella disciplina amministrativistica, A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo- I. Situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento, Torino, 2020, soprattutto 57 s.
[xviii] F. Volpe, Norme di relazione, cit., 111 s.
[xix] La giurisprudenza ravvisa dei limiti alla possibilità di pervenire a un accertamento dell’indennità secondo un ammontare inferiore a quello indicato nella determinazione amministrativa, ragionando tuttavia, in termini di ultrapetizione: se il giudice accertasse un ammontare inferiore violerebbe il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, perché la domanda dell’opponente è di per sé diretta a ottenere un riconoscimento più favorevole di quanto già assegnatogli. Così, ad esempio, Cass., I., 6 giugno 2019, 15414; Cass., I, 23 maggio 2014, n. 11503. Il che implica che, nel caso in cui il beneficiario dell’espropriazione introducesse una contrapposta domanda riconvenzionale, la possibilità che l’indennità sia inferiore a quella determinata potrebbe concretizzarsi.
[xx] Chi scrive riconosce la provocatorietà dell’esempio, persuaso come egli è (F. Volpe, Considerazioni sulla tutela dello jus aedificandi, Le Regioni, 1994, 222, s.) che, non potendosi distinguere tra titolarità e esercitabilità di una situazione giuridica soggettiva, non si possa più ritenere che lo ius aedificandi sia tutt’ora parte del contenuto del diritto domenicale.
[xxi]Anche in questo caso, il riferimento è scontato: E. C. Bartoli, L'inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, 32, s.; Id., voce Annullabilità e annullamento, Enc. dir., II, 1958, 496. Il richiamo all’ammissione reale con effetti negativi, invece, è una rilettura operata da chi scrive della teoria di E.C.B.
[xxii]R. Quadri, Dell’applicazione della legge in generale, Commentario del codice civile (a cura di A. Scialoja – G.
Branca), Bologna – Roma, 1974, 81 s.
[xxiii] L’asserzione meriterebbe, da sola, una trattazione monografica per le questioni che essa implica e ci si limita qui a riferirla in questi troppo ristretti termini. Tuttavia, si è persuasi che il diritto sia una realtà immaginaria, costruita dalla mente dell’uomo. L’atto giuridico, il diritto soggettivo, l’effetto giuridico, la legge, il termine, le condizioni - tutti i concetti, insomma, propri della teoria generale del diritto - non esistono, infatti, nella realtà fenomenica. Quanto meno, essi non sono percepibili in modo empirico. Come tali, essi sono solo il frutto dell’immaginazione umana che ne congettura l’esistenza in una realtà complessiva che è anch’essa frutto di immaginazione. A questa realtà di fantasia, peraltro, si riferiscono modelli di funzionamento che si ispirano alla realtà fenomenica. Parliamo, così, di produzione degli effetti (il che implica un rapporto di causalità); parliamo di tempo di svolgimento delle fattispecie giuridiche; parliamo di esistenza delle singole categorie, estendendo a questi concetti un significato assai simile a quello che siamo soliti riferire a quel che cogliamo con i sensi e con la ragione della realtà che ci circonda. Ma si tratta pur sempre di traslitterazioni e di metafore, a cui ricorriamo, a parere di chi scrive, essenzialmente per due motivi. In primo luogo, perché questo ci agevola nella costruzione del pensiero giuridico, perché vi applichiamo schemi mentali consueti. In secondo luogo, perché questo mondo di fantasia che il diritto deve poi essere utilizzato come strumento di qualificazione di condotte umane. Cosicché, in questo meccanismo applicativo, i modelli epistemologici e descrittivi generali sono di indiscutibile aiuto, perché più adatti a riferirsi alla realtà fenomenica a cui essi sono destinati a essere ricondotti.
[xxiv] Sono questi i temi su cui si è concentrata buona parte della metafisica degli ultimi due secoli, grazie agli apporti di Kierkegaard, Bergson, Heidegger (per citare solo alcuni dei filosofi più noti).
[xxv]Si consentirà di limitare i richiami allo studio del proprio maestro: F. Gullo, Provvedimento e contratto nelle concessioni amministrative, Padova, 1968, 42 s.
[xxvi] Una obiezione a questa ricostruzione potrebbe essere quella di considerare che essa non è in grado di applicarsi all’annullamento del rifiuto di provvedimento amministrativo favorevole. L’obiezione stessa viene contraddetta, tuttavia, dalla tesi, che sembra più convincente, secondo la quale l’annullamento (giurisdizionale) di un atto di rifiuto non sarebbe in realtà un vero e proprio atto di caducazione (giacché non sembra possibile ricondurre al rifiuto alcuna capacità di produrre effetti giuridici propri, da sé discendenti in quanto atto giuridico), ma si risolverebbe in un accertamento della perdurante esistenza (e del perdurante inadempimento) dell’obbligo di pronunciarsi sull’istanza che il privato abbia sollevato per ottenere il rilascio del provvedimento. Sul punto, da ultimo, S. Florian, L'azione di adempimento tra rifiuto di provvedimento e silenzio dell'amministrazione, Torino, 2022, 3 s. e passim.
[xxvii]Si rinvia a F. Volpe, Norme di relazione, cit., 80 s., per un più compiuto sviluppo del ragionamento.
[xxviii] La tesi dell’identità di potere sembra essere, tuttavia, stata ripresa, da ultimo, da A. Cassatella, L’attività di secondo grado, in Trattato di diritto amministrativo, 2- Attività, a cura di F. Caringella, R. Chieppa e B.G. Mattarella, Milano, 2025, 1096, nota 26, il quale, pur non contestando che il potere di annullamento si atteggi in modo diverso dal potere esercitato con l’atto di primo grado, ritiene che la norma attributiva sia la stessa, dipendendo la diversa conformazione della forza dalle necessarie contingenze dovute all’intercorso passaggio del tempo (e dell’emanazione del primo atto). Se ben si è compreso, tuttavia, questa tesi si inserisce nel solco di quella piùà generale tendenza che collega la titolarità del potere alla cura di un dato interesse, sicché a identità di interesse deriva anche identità di potere.
[xxix] Per non doversi ripetere quanto alla tesi qui esposta, ci si permette di rinviare ai propri precedenti studi: F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell'atto amministrativo, Dir. amm., 2008, 4, 791 s.; F. Volpe, Il principio di nominatività, in Studi sui principi del diritto Amministrativo (a cura di M. Renna e F. Saitta), Milano, 2012, p. 349 s.
[xxx]Ma, a ben vedere, non solo nelle conversazioni private: E. Guicciardi, L’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato dei tribunali, ora in Studi di giustizia amministrativa, Torino, 1968, 391.
[xxxi] V. M. Romanelli, L'annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939, 262 s. Ne dà conto anche G. Manfredi, Annullamento doveroso?, P.A. – Persona e amministrazione, 2017, 387; 391.
[xxxii] Vi è chi, di recente, ha operato un’accurata ricostruzione storica del dibattito, sicché pare opportuno richiamare al già citato studio di G. Manfredi, Annullamento doveroso?, cit., 386, c.
[xxxiii]L’idea di fondo, pertanto, è che l’autorità amministrativa possa tornare sui propri errori, ma solo se serve a qualcosa. Se non dovesse servire – a qualunque cosa dovesse servire – l’azione, benché illegittima, va lasciata così com’è.
[xxxiv] Spunti in questo senso si possono ricavare anche dallo studio di A. Cioffi, Annullamento d’ufficio e libertà economiche, 2016, a suo tempo riportato nel sito istituzionale AIPDA e in diritto-amministrativo.org: «Il secondo cambiamento è nella natura dell’interesse. In questo caso, l’interesse non è più l’interesse pubblico specifico dell’amministrazione. È un’entità diversa: è interesse generale (…). L’interesse generale è diverso, perché è un’esigenza che non appartiene all’amministrazione, ma assume il peso di un’esigenza imperativa e di carattere generale. È il “motivo imperativo di interesse generale”. È tipico del diritto europeo e discende dal diritto civile francese».
[xxxv] Per il vero, una differenza sussiste. Mentre, nel caso dell’espropriazione, il carattere sfavorevole discende in via diretta dalla perdita del diritto preesistente, nel caso dell’aggiudicazione, il provvedimento si dimostra sfavorevole verso l’offerente postergato non perché questi subisca la perdita di un diritto, ma perché l’attribuzione di un vantaggio esclusivo ad altri gli preclude, indirettamente, la possibilità di ottenerlo per sé. Dal punto di vista del solo offerente postergato, l’aggiudicazione, dunque, non è troppo dissimile a un rifiuto di provvedimento favorevole, pertanto. Ma essa si distingue dal rifiuto in senso proprio, perché non si esaurisce nel negare un vantaggio, aggiungendo un effetto giuridico ulteriore a favore di terzi. Per questo motivo, il rifiuto (dell’aggiudicazione) verso il postergato è atto giuridico in senso proprio e, come tale, può essere, altrettanto propriamente annullato.
[xxxvi]F. Volpe, Ammissioni e autorizzazioni, Torino, 2018, 11 s.
[xxxvii] Il punto sembra essere stato, implicitamente, colto anche da M. Silvestri, Potere pubblico, cit., 29 s., quando l’A. osserva che il progressivo allargamento della legittimazione processuale ha comportato un arretramento dell’istituto dell’annullamento d’ufficio.
[xxxviii]M. Allena, L’annullamento, cit., 56 s.; N. Acquarelli, Contro la doverosità dell’annullamento d’ufficio, Dir. pubb., 2022, 371 s.
[xxxix]Una tale prospettiva, invece, è esclusa quando la condotta assoggettata a titolo amministrativo sia, in sua assenza, sanzionata amministrativa, ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, stante che, in tale ipotesi, la sanzione è comminata direttamente, dall’autorità amministrativa, alla quale non po' essere riconosciuto il potere previsto dalla L.A.C. di disapplicare un provvedimento proprio o di altro ente pubblico.
[xl] Si potrebbe opporre (e, in effetti, mi è stato opposto in una conversazione sul tema di questo studio) che esistono altri interessi non protetti pienamente, ma che pure verrebbero lesi dall’annullamento e che non sono ricollegabili all’interesse proprio di chi si sia avvantaggiato direttamente degli effetti dell’atto favorevole. Riprendendo l’esempio di chi abbia ottenuto un permesso di costruire illegittimo che consenta all’imprenditore di erigere un condominio illegittimo, se è vero che il vantaggio competitivo che costui acquista sul mercato non merita forse protezione, altrettanto potrebbe non dirsi per chi abbia acquistato le unità immobiliari che si vadano o siano state costruite. In altri termini, anche dagli effetti contra ius che taluno gode possono sorgere situazioni giuridiche dipendenti e, per così dire, sempre incolpevoli. Sicché, avendo riguardo a queste posizioni, potrebbe sembrare non infondata una limitazione del potere di autoannullamento. L’obiezione non è priva di valore, ma a parere di chi scrive essa deve essere superata a fronte del fatto che, da un lato, i titolari di queste situazioni dipendenti, talvolta, godono di altre protezioni giurisdizionali (quali ad esempio potrebbero essere date, sempre nell’esempio posto, dalla risoluzione del contratto o dalla tutela risarcitoria o quanti minoris); per altro verso, è capostipite di queste diverse situazioni dipendenti una loro genesi illegittima. Il che non si può ripetere per chi abbia a subire il danno della miglior posizione competitiva di cui altri goda. Dovendosi, dunque, confrontare le une con le altre, pare poziore quella che riconosce maggior evidenza a chi possa vantare una posizione secundum legem.
[xli] M. Trimarchi, Stabilità cit., passim e 356.
[xlii]Anche in questo caso, si consenta, per brevità di argomentazione circa le proprie tesi, di rinviare al proprio precedente studio F. Volpe, La non annullabilità dei provvedimenti amministrativi illegittimi, Dir. proc. amm., 2008, 319.
[xliii]Una conclusione simile forse può leggersi anche nella tesi sostenuta da M. Allena, L’annullamento, cit., 141 s.: «In ogni caso, comunque, la discrezionalità dell’amministrazione non dovrebbe porsi in (addirittura, dichiarato) contrasto con le scelte legislative, ma dovrebbe essere sempre funzionale a una migliore attuazione di queste ultime, risolvendosi essa nel «potere di apprezzare in un margine determinato l’opportunità di soluzioni possibili rispetto alla norma amministrativa da attuare. La valutazione discrezionale sarebbe, cioè, pur sempre operata sulla base degli interessi protetti dalle norme specificamente violate che attribuiscono il potere di primo grado o, comunque, ne regolano l’esercizio». Rispetto a questo A., tuttavia, la tesi qui avanzata muove da un presupposto diverso. Vale a dire sul fatto che l’interesse pubblico considerato dall’art. 21 nonies non coincida con la funzione dell’atto di primo grado.
[xliv] La conclusione potrebbe sembrare simile a quella proposta da M. Allena, L’annullamento cit., 15, s, secondo cui vi sarebbe una sorta di necessità dell’annullamento d’ufficio, quando vi ricorrano ragioni di interesse pubblico, a sua volta da intendersi come l’interesse pubblico a cui soggiace l’atto di primo grado e, quindi, come distinto da un indifferenziato interesse pubblico, di qualsiasi tipo esso possa essere. In tal caso, infatti, secondo l’A. (152), i due presupposti per l’autoannullamento (dato dalla presenza dei vizi sostanziali di legittimità e dalla sussistenza dell’interesse, finirebbero per coincidere. Rispetto a quella tesi, tuttavia, vi sono alcune distinzioni e si ritiene di segnalarne ameno una. Essa è data dall’ipotesi in cui l’atto, originariamente viziato per eccesso di potere, riesca, per ragioni sopravvenute, a perseguire con i suoi effetti la finalità istituzionale in un momento successivo a quello della sua emanazione. Secondo quel che qui si sostiene, il provvedimento dovrebbe essere autoannullato e eventualmente potrebbe essere riemanato, con perdita tuttavia, degli effetti retroattivi. Secondo la tesi proposta dall’A., se ben si è inteso, all’autoannullamento non si dovrebbe dare corso.
Sommario: 1. Premessa - 2. Le questioni - 3. L’intervento del legislatore- 4. Le motivazioni del legislatore – 5. Le reazioni - 6. Il dictum della Corte Costituzionale - 7. La rilevanza e attualità delle questioni - 8. La riserva di discrezionalità legislativa - 9. Il carattere manipolativo della pronuncia richiesta - 10. Un corollario dell’accoglimento dell’eccezione -11. La violazione dell’art.117 -12. Conclusioni.
1. Premessa
Con la sentenza n.142 del 31.7.2025, deliberata il 24.6.2025 all’esito di pubblica udienza, la Corte Costituzionale (Presidente Amoroso, Giudice est. Navarretta) si è pronunciata, con apprezzabile tempestività, sulle questioni di legittimità costituzionale in tema di cittadinanza proposte dalle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE di quattro Tribunali[1].
Le questioni vertevano sulla legittimità costituzionale della normativa in materia di trasmissione della cittadinanza italiana iure sanguinis, così come interpretata alla luce del diritto vivente rappresentato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione[2].
Le disposizioni denunciate erano l’art. 4 del precedente codice civile approvato con regio decreto 25.6.1865, n. 2358, l’art. 1 della precedente legge sulla cittadinanza del 13.6.1912, n. 555, in quanto ancora applicabili ratione temporis, e soprattutto l’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 5.2.1992, n. 91 recante “Nuove norme sulla cittadinanza”.
2. Le questioni
In estrema sintesi, i Tribunali rimettenti avevano ritenuto violati gli artt. 1, secondo comma, e 3 della Costituzione, sotto il profilo della irragionevolezza e non proporzionalità. I Tribunali di Bologna, di Milano e di Firenze avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale anche in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente agli obblighi internazionali e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, con riguardo all’art. 9 del Trattato sull’Unione europea e all’art. 20 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Il Tribunale di Roma e quello di Milano avevano anche ritenuto la disciplina in questione lesiva dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento rispetto a vari termini di raffronto.
Era stato il Tribunale di Bologna a prendere l’iniziativa nel novembre del 2024 con un articolato provvedimento e poi nel corso dei primi mesi del 2025 si erano accodati gli altri giudici rimettenti.
I Tribunali avevano illustrato la peculiarità della situazione italiana[3] caratterizzata, specie alla fine del 19° e nel corso del 20° secolo, da un massiccio fenomeno migratorio in uscita: fra il 1870 e il 1970 circa 27 milioni di cittadini italiani avevano lasciato l’Italia e di questi circa la metà non vi aveva più fatto ritorno, con la conseguenza che i loro discendenti presumibilmente tenderebbero a superare il numero dei cittadini che risiedono in Italia. Ciononostante, pur in siffatto contesto, l’ordinamento italiano, a differenza di altri Stati, non aveva reagito, ponendo limiti al riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis. La situazione si era poi aggravata per l’avvento di tecnologie che agevolavano la ricostruzione della linea di discendenza e soprattutto per il carattere attrattivo della cittadinanza italiana, tenuto conto delle gravi crisi economiche che hanno interessato i Paesi verso i quali si era prevalentemente rivolto il fenomeno migratorio. Inoltre la cittadinanza italiana offre lo status di cittadino dell’Unione europea e la possibilità di trasferirsi in qualunque Paese dell’Unione (in particolare in quelli di lingua spagnola o portoghese parlata nei Paesi sudamericani di emigrazione) e di evitare il visto d’ingresso negli Stati Uniti d’America, tenuto conto delle politiche fortemente restrittive inaugurate dall’amministrazione Trump.
V’era da aggiungere la constatazione dell’inerzia e dello stallo dei consolati all’estero con la conseguente incontrollata proliferazione delle richieste di accertamento della cittadinanza dinanzi ai tribunali italiani, inondati da una marea montante di controversie.
Infine, secondo i Tribunali rimettenti, l’art. 1, secondo comma, Cost. implica una stretta coincidenza fra popolo e sovranità che veniva alterata da una disciplina normativa che attribuiva la cittadinanza a decine di milioni di persone prive di un effettivo collegamento (il c.d.«genuine link») con l’Italia.
3. L’intervento del legislatore
Il legislatore, che pur nell’avvicendarsi dei governi e delle legislature era rimasto lungamente inerte dinanzi al problema, forse paralizzato dalla estrema difficoltà nel porre mano a una autentica polveriera di interessi contrastanti, con il d.l. n.36 del 28.3.2025, successivamente convertito, con modificazioni, con la legge n.74 del 23.5.2025, ha raccolto lo stimolo lanciato dall’ordinanza bolognese del novembre 2024, per incidere sull’automatica correlazione fra cittadinanza e status filiationis, nel caso di soggetti nati all’estero e in possesso di altra cittadinanza.
In particolare, l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito, ha aggiunto alla legge sulla cittadinanza n. 91 del 5.2.1992 un nuovo art. 3-bis, il quale prevede che «in deroga agli articoli 1, 2, 3, 14 e 20 della presente legge, all’articolo 5 della legge 21 aprile 1983, n. 123, agli articoli 1, 2, 7, 10, 12 e 19 della legge 13 giugno 1912, n. 555, nonché agli articoli 4, 5, 7, 8 e 9 del codice civile approvato con r.d. n. 2358 del 1865, è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all’estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza, salvo che ricorra una delle seguenti condizioni».
Le lettere a), a-bis) e b) indicano nella presentazione alle autorità competenti della domanda di accertamento della cittadinanza, corredata dalla necessaria documentazione, «entro le 23:59, ora di Roma, […] del 27 marzo 2025» il discrimine che separa la persistente applicabilità della pregressa disciplina dall’operatività delle nuove condizioni richieste per l’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis. Queste sono, in particolare, indicate dalle lettere c) e d), che stabiliscono che la cittadinanza italiana si acquista attraverso il vincolo di filiazione se l’ascendente di primo o di secondo grado possiede, o possedeva, al momento della morte, esclusivamente la cittadinanza italiana; oppure, se il genitore o il genitore adottivo è stato residente in Italia per almeno due anni continuativi successivamente all’acquisto della cittadinanza italiana e prima della data di nascita o di adozione del figlio.
Sono state poi stabilite, all’art. 1, commi 1-bis e 1-ter, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito[4], varie condizioni per consentire al figlio minore di un genitore italiano, che non rientri nelle previsioni dell’art. 3- bis, di acquisire la cittadinanza.
Nel caso, poi, di acquisto o riacquisto della cittadinanza da parte del genitore, la fattispecie acquisitiva dello status civitatis a favore del figlio minore richiede la residenza di quest’ultimo in Italia, legale e continuativa, protratta per due anni o, qualora il figlio abbia meno di due anni, a partire dalla nascita[5]. Infine, sono state estese al discendente del cittadino italiano le norme che operano per il discendente di chi ha perso la cittadinanza italiana[6].
4. Le motivazioni del legislatore
L’intervento legislativo[7] è stato così giustificato: «In sintesi, quindi, è oggi necessario che il legislatore intervenga per introdurre nella disciplina dell’acquisto della cittadinanza un bilanciamento dei valori costituzionali aderente alle esigenze della realtà sociale attuale. Il “popolo” individuato dall’articolo 1 della Costituzione come detentore della sovranità non può essere un’entità indeterminabile, sciolta da ogni vincolo con il territorio nazionale su cui si esercita la sovranità. Al contempo, un diritto tendenzialmente universale di cittadinanza con pienezza di diritti civili e politici - attivabile in qualsiasi momento a discrezione di una platea di decine di milioni di persone nate e cresciute all’estero e cittadini di altri Stati ai quali devono vincoli di fedeltà - non assicura parità di trattamento con le persone che, vivendo e lavorando nel territorio nazionale, partecipano appieno al complesso di diritti e di doveri nel quale si sostanzia una società democratica. Il carattere fondamentale di questi principi, radicati negli articoli 1 e 3 della Costituzione, giustifica la limitazione della natura imprescrittibile, attualmente riconosciuta dalla giurisprudenza al diritto a far valere la cittadinanza acquistata in virtù di automatismi di legge, quando tale status è rimasto dormiente per l’inattività degli interessati e dei loro ascendenti, derivante da un legame più forte con altro Stato. In altri termini, la giustiziabilità senza limiti della cittadinanza iure sanguinis di persone viventi presuppone che sia giustiziabile senza alcun limite anche l’accertamento della cittadinanza degli ascendenti da cui il ricorrente dichiara di derivare il diritto di cittadinanza, anche se tali ascendenti non sono mai stati preventivamente riconosciuti come cittadini. Il risultato è che attribuisce a posteriori lo stato di cittadino a persone da lungo tempo decedute e che in vita non hanno mai ritenuto di esercitare diritti e doveri inerenti a tale stato. La giustiziabilità all’infinito dello stato di cittadinanza di generazioni passate trasforma lo stato di cittadino in una situazione che può essere attivata in qualsiasi momento da parte di una platea indefinita di persone nate e residenti all’estero e in possesso della cittadinanza di altri Paesi con i quali hanno vincoli di cultura e di fedeltà palesemente più stretti rispetto a quelli che possono avere con l’Italia. Conferire a questa platea vastissima di persone lo stato di cittadini allo stesso modo di persone nate e residenti in Italia o comunque in possesso della sola cittadinanza italiana e quindi effettivamente vincolate al territorio e alla cultura del nostro Paese confligge con principi elementari di ragionevolezza, configurando un trattamento identico di situazioni marcatamente differenziate. Conseguentemente, l’illimitata giustiziabilità di situazioni passate ampiamente esaurite nella loro portata pratica (qual è l’attribuzione post mortem dello stato di cittadinanza o comunque l’attribuzione della stessa a persone che non hanno esercitato né eserciteranno mai diritti e doveri ad essa inerenti) comporta una modalità irragionevole di formazione del “popolo” cui spetta la sovranità a mente dell’articolo 1 della Costituzione e, conseguentemente, del corpo elettorale che tale sovranità esercita con le modalità proprie di un ordinamento democratico qual è quello italiano. È quindi necessario intervenire per limitare la giustiziabilità all’infinito di situazioni passate, ponendo ad esse dei limiti che tengano adeguatamente conto dell’obiettiva rilevanza del decorso di lunghi periodi di tempo senza che siano avvenuti contatti con l’Italia volti a stabilire in maniera anche formale i vincoli giuridici cui è assoggettato il cittadino.»
5. Le reazioni
Lo ius superveniens ha determinato forti reazioni da parte delle comunità di discendenti di italiani residenti all’estero e ha suscitato un impatto fortemente divisivo, seppur in modo trasversale rispetto alle tradizionali contrapposizioni ideologico-politiche; vi sono state anche severe critiche mosse sia dagli esperti consultati nelle audizioni in sede parlamentare[8], sia in dottrina[9] .
La maggior parte delle censure ha riguardato la natura decadenziale di massa del provvedimento e la retroattività penalizzante della nuova disciplina. Molti commentatori, pur ritenendo per varie ragioni (annacquamento del concetto di popolo italiano, sovraccarico degli uffici consolari e dei tribunali, responsabilità dello Stato italiano nei confronti dell’Unione europea) che i tempi fossero maturi per un intervento restrittivo in tema di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis ai discendenti di italiani nati all’estero in difetto di un legame effettivo con l’Italia e così condividendo l’an del provvedimento, hanno preso le distanze dal quomodo, stigmatizzando le modalità con cui la scure della perdita della cittadinanza italiana, sin allora riconosciuta dal diritto vivente, era stata decretata.
Non è mancato anche un invito alla riflessione, cauto e misuratissimo, del Presidente della Repubblica, evidentemente consapevole della delicatezza dei temi innescati dal d.l. 36/2025 che ha auspicato, apparentemente in termini di valutazione di opportunità, «una meditata considerazione - ed eventualmente anche qualche riconsiderazione - dei temi che si sono aperti».[10]
6. Il dictum della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza in commento a fine luglio 2025 e, dopo aver dichiarato inammissibili gli interventi di due associazioni di giuristi:
a) ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 del codice civile del 1865 e dell’art. 1 della precedente legge sulla cittadinanza del 13.6.1912, n. 555 in riferimento agli artt. 1, secondo comma, e 3 della Costituzione, quest’ultimo sotto il duplice profilo sia della irragionevolezza e non proporzionalità sia della irragionevole disparità di trattamento, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente agli obblighi internazionali e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, questi ultimi con riguardo all’art. 9 del Trattato sull’Unione europea e all’art. 20 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea;
b) ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 5.2.1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), in riferimento agli artt. 1, secondo comma, e 3 Cost., quest’ultimo sotto il profilo della irragionevolezza e non proporzionalità, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli obblighi internazionali e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, questi ultimi con riguardo all’art. 9 TUE e all’art. 20 TFUE;
c) ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento.
La prima impressione suscitata dalla sentenza è che la Corte, ben consapevole della particolare delicatezza delle questioni provocate dal d.l. 36 del 2025 e in particolare dall’art.3-bis della legge n.91 del 1992 da esso introdotto, nel frattempo investito da una raffica di eccezioni di illegittimità costituzionali nei giudizi in corso dinanzi alle sezioni specializzate dei Tribunali italiani, già sfociate nella rimessione della questione ad opera del Tribunale di Torino sotto molteplici profili[11], abbia inteso rispondere alle questioni in modo puntuale e completo, ma, con la stessa prudenza mostrata dal Presidente della Repubblica, abbia evitato con attenta cura di anticipare considerazioni relative al d.l. 36 del 2025 e alla sua legge di conversione, a meno che non fossero indispensabili a sorreggere il decisum, sì da pregiudicare il meno possibile la prossima decisione.
Obiettivo di queste brevi note «a prima lettura» è quello di mettere a fuoco le affermazioni della Consulta suscettibili di orientare in qualche misura la prossima decisione, riguardante direttamente le innovazioni apportate dal d.l. 36 del 2025, poiché non appare seriamente immaginabile che i principi scanditi con la sentenza n.142 del 2025 verranno rinnegati o rimodulati di qui a qualche mese.
Ci si soffermerà, pertanto, solo su alcune delle statuizioni e delle relative argomentazioni contenute nella sentenza che in questa prospettiva appaiono significative.
7. La rilevanza e attualità delle questioni
La prima affermazione importante della Corte Costituzionale può essere colta nella decisione di considerare attuali e rilevanti le questioni proposte dai Tribunali nonostante il sopravvenire della nuova disciplina introdotta dal d.l. 36/2025 e dalla relativa legge di conversione.
La soluzione potrebbe sembrare financo ovvia e banale dal momento che la nuova disciplina non riguarda, alla luce di quanto disposto dall’art.1 del decreto, le domande amministrative e le domande giudiziali proposte entro il 27.3.2025 e che, conseguentemente, la disciplina previgente in tema di attribuzione automatica per nascita della cittadinanza ai discendenti di cittadini italiani nati all’estero, senza alcun limite, della cui legittimità costituzionale si era dubitato con le ordinanze di rimessione, continua ad applicarsi ratione temporis ai procedimenti amministrativi e giudiziali in corso prima dell’entrata in vigore del decreto.
L’art.3- bis così inserito nel corpo della legge 5.2.1992 n.91 alle lettere a), a-bis, e b) infatti esonera dalle misure restrittive le ipotesi in cui:
«a) lo stato di cittadino dell'interessato è riconosciuto, nel rispetto della normativa applicabile al 27 marzo 2025, a seguito di domanda, corredata della necessaria documentazione, presentata all'ufficio consolare o al sindaco competenti non oltre le 23:59, ora di Roma, della medesima data;
a-bis) lo stato di cittadino dell'interessato è riconosciuto, nel rispetto della normativa applicabile al 27 marzo 2025, a seguito di domanda, corredata della necessaria documentazione, presentata all'ufficio consolare o al sindaco competenti nel giorno indicato da appuntamento[12] comunicato all'interessato dall'ufficio competente entro le 23:59, ora di Roma, della medesima data del 27 marzo 2025;
b) lo stato di cittadino dell'interessato è accertato giudizialmente, nel rispetto della normativa applicabile al 27 marzo 2025, a seguito di domanda giudiziale presentata non oltre le 23:59, ora di Roma, della medesima data;».
Così spiega al proposito, assai stringatamente, la Corte Costituzionale: «Stante tale quadro normativo di riferimento, la nuova disciplina, al di là delle assonanze rispetto a quanto prospettato nelle ordinanze di rimessione, non si riverbera sulla rilevanza delle questioni sollevate dalle stesse. Tutte le controversie oggetto dei giudizi principali sono state, infatti, introdotte sulla base di domande giudiziali presentate prima del 27 marzo 2025, sicché – ai sensi dell’art. 3-bis, comma 1, lettera b), della legge n. 91 del 1992, introdotto con l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito – resta applicabile ai giudizi a quibus la pregressa disciplina, cui si riferiscono le odierne censure. Non sussistono, dunque, i presupposti per restituire gli atti ai rimettenti.»
L’affermazione è ineccepibile e ci si potrebbe fermare lì. Vien da osservare, però, che la Corte ha evitato di giudicare rilevante lo ius supervemiens - forzatamente non considerato dai rimettenti - anche nella parte in cui, con la disciplina transitoria, ha inteso preservare le richieste di riconoscimento della cittadinanza oggetto di procedimenti amministrativi o giudiziari in corso al 27.3.2025 con una scelta evidentemente intrisa di discrezionalità; così facendo, ha mostrato di ritenere che la discrezionalità del legislatore si potesse estendere anche alla giustapposizione ratione temporis di due sistemi normativi assai differenti.
Per le stesse ragioni la Corte ha ritenuto che non ricorressero le condizioni per rimettere dinanzi a sé stessa questioni di legittimità costituzionale relativa alla nuova disciplina: e cioè perché essa non doveva essere applicata nel giudizio costituzionale, né sussisteva un «rapporto di presupposizione» fra la stessa e quella dedotta dal giudice a quo, tale per cui l’intervento solo su quest’ultima non avrebbe permesso comunque di rimuovere il vulnus, né sussistevano i presupposti della particolare urgenza o l’esigenza di evitare che la Corte fosse tenuta ad applicare leggi incostituzionali.
8. La riserva di discrezionalità legislativa
Particolarmente importanti – ed è forse il passaggio centrale della pronuncia - sono le osservazioni della Corte dedicate nel § 11 e sottoparagrafi, al rigetto dell’eccezione di inammissibilità.
Era infatti stato eccepito che la materia era riservata alla discrezionalità del legislatore, dimodoché l’eventuale accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale avrebbe determinato una violazione dell’articolo 70 Cost. in relazione al detentore della funzione legislativa, dell’articolo 71 Cost. in relazione ai soggetti titolari di iniziativa legislativa e dell’articolo 134 Cost. in relazione alle funzioni della Corte Costituzionale.
Ancor più significativo è il fatto che la Corte avrebbe anche potuto esimersi dal delibare l’eccezione, decretando, come ha fatto, l’inammissibilità delle questioni per altra ragione equi-ordinata (la necessità di un intervento manipolativo a rime non obbligate da parte sua) e facendo così applicazione del principio generale della «ragion più liquida», pur se dal punto di vista della coerenza logico-giuridica era effettivamente prioritario valutare l’esistenza del potere della Corte Costituzionale di intervenire e solo dopo stabilire se vi erano i presupposti per farlo.
La Consulta ha scelto di seguire l’ordine logico delle questioni e, così facendo, ha colto l’occasione per proclamare la sussistenza di limiti ben precisi al potere discrezionale del legislatore in tema di cittadinanza, derivanti dalla Carta Costituzionale e dal diritto dell’Unione europea.
Sembra naturale sottolineare: pour cause e da registrare a futura memoria in vista del prossimo giudizio incidentale promosso dal Tribunale subalpino.
La Corte, pur riconfermando che il legislatore gode di ampia discrezionalità nella disciplina dell’attribuzione della cittadinanza[13], ha tenuto a ribadire che tuttavia le norme dettate in materia, non diversamente da altre discipline connotate da elevata discrezionalità, «non si sottraggono per questo al giudizio di costituzionalità, in quanto devono pur sempre essere compiute secondo canoni di non manifesta irragionevolezza e di proporzionalità rispetto alle finalità perseguite (tra le altre, sentenze n. 88 del 2023, n. 194 del 2019, n. 202 del 2013 e n. 245 del 2011)». come era stato affermato con la sentenza n. 25 del 2025[14] e con la sentenza n. 195 del 2022[15].
In particolare, deve ritenersi non consentita l’adozione di criteri attributivi della cittadinanza connotati in termini discriminatori ovvero manifestamente irragionevoli e sproporzionati.
Quanto alla censura sollevata in riferimento agli artt. 1, secondo comma, e 3 Cost., e al denunciato mancato rispetto della nozione di popolo, la Corte Costituzionale ha inteso rammentare che la Costituzione non dà una definizione di popolo e si limita a delineare tratti della cittadinanza, peraltro dispiegati nella complessità del testo costituzionale, per associare la cittadinanza primariamente alla partecipazione politica e ai diritti politici e riferire ai cittadini la titolarità di diritti e di doveri (fra i quali il dovere di difesa della Patria; quello di concorrere alle spese pubbliche e il dovere di fedeltà); il tutto, peraltro, in un contesto i cui principi fondamentali garantiscono a ciascuna persona i diritti inviolabili e lo stesso principio di eguaglianza e riferiscono taluni doveri di solidarietà anche a non cittadini. Infine – ha proseguito la Corte - la Costituzione richiama l’idea di cittadinanza quale appartenenza a una comunità che ha comuni radici culturali e linguistiche, ma, al contempo, disegna una comunità aperta al pluralismo e che tutela le minoranze ed evoca una correlazione fra cittadinanza e territorio dello Stato, in quanto luogo che riflette un comune humus culturale e la condivisione dei principi costituzionali.
Proprio per la complessità dei riferimenti costituzionali alla cittadinanza al legislatore spetta un margine di discrezionalità particolarmente ampio per individuare i presupposti per l’acquisizione dello status e tuttavia la Corte ha rivendicato il potere di accertare – attraverso la valutazione dei canoni di non manifesta irragionevolezza e sproporzione – che le norme che regolano l’acquisizione dello status civitatis non facciano ricorso a criteri del tutto estranei ai principi costituzionali e a quei molteplici tratti che nella Carta connotano la cittadinanza.
La Corte Costituzionale ha rafforzato queste considerazioni alla luce del diritto dell’Unione europea, richiamando ampiamente la giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di vincoli imposti in materia di cittadinanza dal diritto dell’Unione europea, e in specie dall’art. 9 TUE e dall’art. 20 TFUE.
La Corte ha così rammentato che «la determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza rientra, in conformità al diritto internazionale, nella competenza di ciascuno Stato membro»[16] e che tuttavia la competenza degli Stati membri «deve essere esercitata nel rispetto del diritto dell’Unione»[17]. La Corte ha inoltre evidenziato che in una prima fase la Corte di Giustizia ha censurato discipline statali che determinavano la perdita dello status civitatis nei confronti di uno Stato membro e, di riflesso, nei confronti dell’Unione europea e non consentivano «in nessun momento, un esame individuale delle conseguenze determinate da tale perdita, per gli interessati, sotto il profilo del diritto dell’Unione»[18], mentre recentemente ha esteso il proprio sindacato anche alle norme attributive della cittadinanza, rilevando che «l’esercizio della competenza degli Stati membri in materia di definizione dei requisiti per la concessione della cittadinanza di uno Stato membro non è, alla stregua della loro competenza in materia di definizione delle condizioni di perdita della cittadinanza, illimitato»[19], puntualizzando che la cittadinanza europea si fonda «sui valori comuni contenuti nell’articolo 2 TUE e sulla fiducia reciproca che gli Stati membri si accordano quanto al fatto che nessuno di essi eserciti tale competenza in un modo che sia manifestamente incompatibile con la natura stessa della cittadinanza dell’Unione» ed esigendo che le norme statali in materia di cittadinanza non debbano essere esercitate in un modo manifestamente incompatibile con la natura stessa della cittadinanza dell’Unione.
Tutto ciò ha condotto la Consulta a ritenere infondata l’eccezione diretta a escludere, in radice, in ragione della discrezionalità del legislatore, l’ammissibilità di una censura che contesti l’estraneità di una disciplina sulla cittadinanza rispetto ai principi costituzionali e alle norme del TUE e del TFUE, come interpretate dalla Corte di giustizia UE.
9. Il carattere manipolativo della pronuncia richiesta
Era stato eccepito inoltre che la Corte Costituzionale non potesse con un intervento manipolativo di sistema sostituirsi al legislatore nel decidere una pluralità di presupposti, perché essa avrebbe , da un lato, dovuto stabilire gli elementi di collegamento con ordinamenti giuridici stranieri, in presenza dei quali si indebolirebbe irrimediabilmente la funzione propria dello ius sanguinis e, dall’altro, avrebbe dovuto indicare, in maniera combinata e sistematicamente correlata, i criteri di collegamento con l’ordinamento giuridico italiano in mancanza dei quali il vincolo di filiazione non potrebbe più svolgere la funzione sua propria di far acquisire la cittadinanza.
Questa eccezione è stata accolta dalla Corte nel § 12 della sentenza, ove ha preliminarmente constato che giudici rimettenti non avevano contestato che il vincolo di filiazione, quale presupposto acquisitivo della cittadinanza, sia in quanto tale privo di corrispondenza con i tratti identificativi dello status civitatis nel testo costituzionale, così come nelle fonti dell’Unione europea; in altre parole, le censure non ponevano in discussione l’idea secondo cui, in generale, l’appartenenza a una comunità familiare, che è parte della comunità statale, possa implicare l’appartenenza anche a quest’ultima. Ciò di cui dubitavano i giudici a quibus era invece che, in presenza di elementi di collegamento fra il richiedente l’accertamento della cittadinanza italiana e ordinamenti giuridici stranieri e in assenza di elementi di collegamento con l’ordinamento giuridico italiano in aggiunta allo ius sanguinis, il vincolo di filiazione potesse risultare sufficiente alla funzione di fondamento della cittadinanza.
La Corte ha affermato che le era stato richiesto un intervento manipolativo oltremodo complesso, implicante un ventaglio quanto mai ampio di opzioni e scelte intrise di discrezionalità con incisive ricadute a livello di sistema. E ciò sia quanto all’individuazione di profili di correlazione con l’ordinamento giuridico straniero, in presenza dei quali la funzione attributiva dello status civitatis propria dello status filiationis risulterebbe indebolita, sia quanto alla scelta, fra i tanti tratti identificativi della cittadinanza, di quello o quelli idonei a dare sufficiente dimostrazione della circostanza che, nonostante la presenza di elementi di collegamento con l’ordinamento giuridico straniero, l’appartenenza al nucleo familiare continui a svolgere la sua funzione giustificativa di una appartenenza anche alla comunità statale.
La Corte ha quindi ritenuto che le fosse stato inammissibilmente richiesto di sostituirsi al legislatore nel valutare se valorizzare il legame culturale e linguistico con la comunità statale, tenendo conto della condizione dei cittadini residenti all’estero, o, viceversa, prediligere un collegamento con il territorio.
L’accoglimento dell’eccezione non ha consentito alla Corte Costituzionale di accertare la violazione dei principi costituzionali per limitarsi all’emissione di una c.d. «sentenza monito», chiusa con il rigetto o la dichiarazione di inammissibilità, ma accompagnata dalla formulazione di un avvertimento al legislatore affinché prevenga una futura possibile dichiarazione di incostituzionalità, provvedendo a modificare la norma in questione.
La teoria della «pronuncia a rime obbligate» consente l’intervento «manipolativo» solo quando la norma aggiunta dalla Corte sia direttamente ricavabile dal disposto costituzionale; secondo questo orientamento, ispirato a uno scrupoloso rispetto del principio di legalità, la denuncia della violazione deve presupporre l’individuazione di un tertium comparationis che fornisca al contempo le «rime obbligate» per sopperirvi. In altri casi, la Corte Costituzionale (in materia penale, con le sentenze n.222 del 2018 e n.236 del 2016) ha seguito un diverso e più elastico approccio, non reputando necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista da una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis e reputando invece sufficiente, per consentire il sindacato e l’intervento della Corte che il sistema nel suo complesso offra alla Corte precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti immuni da vizi di illegittimità, ancorché non costituzionalmente obbligate, che possano sostituirsi alla previsione dichiarata illegittima, e ciò al dichiarato fine di consentire di porre rimedio immediatamente al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta protetti dalla norma incriminatrice incisa dalla pronuncia.
10. Un corollario dell’accoglimento dell’eccezione
È forse possibile cogliere un’implicazione ulteriore che consegue all’accoglimento dell’eccezione di inammissibilità scaturente dal carattere manipolativo dell’intervento richiesto, comportante una pluralità di scelte discrezionali, e alla correlativa decisione della Corte di non emettere alcun monito al legislatore relativamente alla disciplina precedente alle modifiche introdotte con il d.l. 36/2025 e tuttora applicabile ai procedimenti amministrativi e giudiziari già instaurati entro il 27.3.2025.
Vale a dire, l’intervento legislativo del 2025 non può trovare giustificazione nell’esigenza di eliminare un vulnus costituzionale in atto: non infrangeva la Costituzione la disciplina attributiva della cittadinanza italiana senza limiti sulla base dello ius sanguinis agli italo-discendenti nati all’estero, cristallizzata nel principio di diritto secondo cui « In tema di diritti di cittadinanza italiana, nel sistema delineato dal codice civile del 1865, dalla successiva legge sulla cittadinanza n. 555 del 1912 e dall'attuale l. n. 91 del 1992, la cittadinanza per fatto di nascita si acquista a titolo originario "iure sanguinis", e lo "status" di cittadino, una volta acquisito, ha natura permanente, è imprescrittibile ed è giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadino italiano; ne consegue che a chi richieda il riconoscimento della cittadinanza spetta di provare solo il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione, mentre incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell'eventuale fattispecie interruttiva.»[20].
11. La violazione dell’art.117.
La Corte di Giustizia ha ritenuto inammissibile, per mancata individuazione della norma internazionale interposta al parametro, la questione di legittimità costituzionale che lamenta la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli obblighi internazionali[21] poiché i Tribunali rimettenti non avevano specificato quale sia la fonte del diritto internazionale lesa, dalla quale discenderebbe il mancato rispetto di obblighi internazionali.
Giova precisare che il Tribunale di Torino con l’ordinanza del 25.6.2025 ha integrato la denuncia non solo con riferimento sia agli artt. 9 TUE e 20 TFUE, che istituiscono e regolano la cittadinanza europea come status che si aggiunge a quello di cittadino di uno Stato membro, ma anche all’art. 15, comma 2, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10.12.1948, ai sensi del quale “nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza”, e all’ art. 3, comma 2, del Quarto Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ai sensi del quale “nessuno può essere privato del diritto di entrare nel territorio dello Stato di cui è cittadino”.
Il Tribunale rimettente, in ordine alla giustiziabilità della violazione del diritto internazionale pattizio dinanzi alla Corte Costituzionale, ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale che trova la sua sintesi nelle sentenze n. 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale; con specifico riferimento alla violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione a norme di diritto dell’Unione Europea –giustiziabili anche mediante la proposizione di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE – il Tribunale ha invocato il principio della c.d. «alternatività dei rimedi» e la stessa recentissima pronuncia della Corte Costituzionale n. 7 del 2025. In quella sede la Consulta ha ribadito che allorché il giudice rilevi una incompatibilità tra una legge nazionale e una norma di diritto dell’Unione dotata di effetto diretto e la questione abbia altresì «un “tono costituzionale”, per il nesso con interessi o principi di rilievo costituzionale», il giudice italiano ha sempre – accanto alla possibilità di disapplicare, nel caso concreto, la legge nazionale, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in caso di dubbio sull’interpretazione o sulla validità della norma rilevante dell’Unione – l’ulteriore possibilità di sollecitare l’intervento della Corte Costituzionale, affinché rimuova la legge nazionale ritenuta incompatibile con il diritto dell’Unione.
Dunque, quanto alla nuova disciplina restrittiva contenuta nell’introdotto art.3-bis della legge 91 del 1992, l’eccezione è stata proposta in modo più completo e articolato con l’ordinanza torinese che la Consulta dovrà a breve esaminare.
12. Conclusioni
In estrema sintesi, dalla lettura della sentenza 142/2015 si possono trarre le seguenti indicazioni per delimitare il perimetro in cui presumibilmente si muoverà la decisione della Consulta sulla legittimità costituzionale dell’art.3-bis introdotto nel corpo della legge sulla cittadinanza dal d.l. 36/2025:
a) l’ampia discrezionalità che compete al legislatore in materia di cittadinanza, sia in base alla Carta costituzionale sia in base al diritto dell’Unione, non è insindacabile ed è soggetta al controllo della Corte Costituzionale, oltre che della Corte di Giustizia;
b) le norme di legge in tema di attribuzione e revoca della cittadinanza debbono rispettare i parametri della ragionevolezza e proporzionalità e i principi generali dell’ordinamento costituzionale ed europeo;
c) la pregressa disciplina, basata sull’attribuzione della cittadinanza iure sanguinis senza limiti temporali agli italo-discendenti nati all’estero, tuttora applicabile ratione temporis alle richieste amministrative o giudiziarie presentate a tutto il 27.3.2025, non è in contrasto con la Costituzione;
d) le disposizioni restrittive introdotte con il d.l. 36/2025 e relativa legge di conversione 74/2025 non hanno la funzione di riparare un vulnus costituzionale in atto.
Sembra dunque possibile prevedere che la Corte Costituzionale valuterà in concreto la disciplina restrittiva apportata dal d.l. 36/2025 per verificare se essa, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore ordinario, rispetti i parametri della ragionevolezza e proporzionalità e i principi generali dell’ordinamento costituzionale ed europeo, incluso il principio dell’affidamento.
Pare improbabile che la Corte Costituzionale si avventuri nella valutazione in questa prospettiva dei singoli parametri prescelti dal legislatore del 2025 per ravvisare o escludere il legame effettivo dei discendenti dei cittadini italiani emigrati con la comunità nazionale, per le stesse ragioni, che seppur in direzione opposta, l’hanno indotta a ritenere «manipolativo» e dunque non consentito l’intervento sulla disciplina pregressa, tuttora applicabile alle richieste ante 28.3.2025.
Si può ragionevolmente ipotizzare che la sorte dell’art.3-bis sarà decisa in relazione alla retroattività della disciplina penalizzante per cui «è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all'estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza, salvo che ricorra una delle seguenti condizioni», senza che la legge consenta un esame individuale delle richieste e soprattutto senza che sia previsto un termine per «manifestarsi»[22] a favore di coloro, che, seppur «dormienti»[23], sino al 27.3.2025 potevano considerarsi cittadini italiani ed europei secondo il diritto vivente.
È possibile che la soluzione sia proprio quella di una parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale, come auspica l’ordinanza del Tribunale di Torino, nella parte in cui l’art.3-bis non prevede un termine perentorio e ultimativo per proporre l’istanza e manifestarsi, mentre gli interessati sono considerati «non avere mai acquistato la cittadinanza italiana» (sanzione questa in cui sembra assai difficile non scorgere una decadenza o una revoca implicita o mascherata).
La Relazione non si sofferma sulla valutazione di una soluzione del genere e la spiegazione forse si può intuire alla luce di quanto si legge nel preambolo del decreto, ove si giustifica l’adozione della decretazione d’urgenza[24] con il rilievo «Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure per evitare, nelle more dell'approvazione di una riforma organica delle disposizioni in materia di cittadinanza, un eccezionale e incontrollato afflusso di domande di riconoscimento della cittadinanza, tale da impedire l'ordinata funzionalità degli uffici consolari all'estero, dei comuni e degli uffici giudiziari».
E tuttavia sembra assai difficile negare che si dovrà registrare comunque un eccezionale e incontrollato afflusso di domande di riconoscimento della cittadinanza idoneo a intasare gli uffici giudiziari, stimolato dalla necessità di reagire giudizialmente nei confronti della nuova disciplina, gestito e organizzato, anche in modalità collettive, dalle comunità degli italiani residenti all’estero e dagli studi legali specializzati, volto a provocare l’intervento della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia dell’Unione.
Certamente dovrà essere valutata in questa prospettiva la possibilità di riacquisto della cittadinanza disciplinato dall’art.4 delle legge 5.2.1992 n.191, come modificato dal d.l. 36/2025, secondo cui « Lo straniero o l'apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono o sono stati cittadini per nascita, diviene cittadino: a) se presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara preventivamente di voler acquistare la cittadinanza italiana; b) se assume pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all'estero, e dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana; c) se, al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiara, entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana.»
V’è da dire peraltro[25]: a) che si tratta di un meccanismo di riacquisto e non di eccezione alla decadenza; b) che esso prevede condizioni implicanti scelte di vita penetranti e invasive, anche onerose economicamente; c) che esso non opera senza limiti, ma solo a favore di chi possa vantare almeno un nonno italiano per nascita (anche se non richiede che il nonno avesse solo la cittadinanza italiana), sì da escludere per esempio, colui che possa vantare solo bisnonni italiani.
Problemi analoghi e ancor più complessi pone il comma 1 bis del novellato art.4 quanto ai minori la cui trattazione eccede gli scopi di queste brevi note.
L’introduzione di un termine perentorio per richiedere la cittadinanza non sembra implicare un’attività manipolativa non consentita.
Il comma 1 ter dell’art.4 della legge 191 del 1992, inserito dall'articolo 1, comma 1, della legge 23.5.2025, n. 74, in sede di conversione, prevede per la dichiarazione a favore dei minori straniero o apolide, del quale il padre o la madre sono cittadini per nascita prevede il termine del 31.5.2026.
L’ordinamento prevede numerose disposizioni che assegnano un termine di un anno, reputato ragionevole, per reagire a un effetto penalizzante (ad esempio: art.1168, primo comma, e 1170, primo comma, in tema di azioni possessorie); lo stesso ordinamento processuale potrebbe offrire indicazioni per coniare un termine semestrale plasmato per analogia ai termini di impugnazione ex art.327 c.cp.c.
Lo stesso giudice ordinario non si è trattenuto talora dal ricavare, in via analogia legis o iuris, termini per l’esercizio di una certa attività: ad esempio le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[26] hanno affermato che in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall'art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa.
È in questo senso la proposta contenuta nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Torino, secondo cui « La dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 3-bis legge n. 91/1992 nei termini sopra prospettati consentirebbe inoltre di conservare l’effetto utile della riforma legislativa – che persegue l’intento di dare concreta attuazione nel nostro ordinamento al principio internazionale del “legame effettivo” (o “genuine link”, ribadito da ultimo dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza del 29.4.2025, causa C-181/23) – eliminando le sole conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’applicazione retroattiva (cioè a tutte le persone già nate) della nuova normativa. Attesa la natura derogatoria dell’art. 3-bis legge n. 91/1992, infatti, una volta eliminati i periodi che espressamente ne prevedono l’applicazione retroattiva, resterebbe un’unica interpretazione costituzionalmente orientata della nuova normativa in materia di cittadinanza: quella dell’applicabilità dell’art. 3-bis cit. soltanto alle persone nate successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 36/2025, valendo – in assenza di un’espressa previsione di retroattività – la regola generale di cui all’art. 11 delle preleggi, alla stregua della quale “la legge non dispone che per l’avvenire”. In questa prospettiva, la dichiarazione di incostituzionalità parziale dell’art. 3-bis cit. potrebbe anche essere accompagnata da un intervento di tipo manipolativo-additivo della Corte Costituzionale, con previsione di un meccanismo di diritto intertemporale che garantisca la possibilità (a tutte le persone già nate alla data di entrata in vigore del d.l. n. 36/2025) di presentare una domanda di riconoscimento della cittadinanza entro termini ragionevoli, in applicazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia UE nella menzionata sentenza 5.9.2023, C-689/21.»
Una soluzione di tal genere realizzerebbe un equilibrio ragionevole fra le opposte soluzioni, forse accettabile per tutti gli interessi coinvolti: si ripristinerebbe l’attribuzione della cittadinanza alla luce di un legame effettivo manifestato attivamente e controllato giudizialmente; si chiuderebbe per il futuro la porta alle propagazioni ad infinitum di una discendenza per sangue ormai priva di nessi effettivi con la comunità nazionale; si attenuerebbero grandemente le recriminazioni degli italo-discendenti verso la madrepatria; forse anche il vero obiettivo del legislatore del 2025, che non poteva non rendersi conto dei complessi scenari che si sarebbero realizzati e delle possibili correzioni in corso d’opera, potrebbe dirsi raggiunto.
[1] Le questioni erano state proposte dapprima dal Tribunale di Bologna (ordinanza del 26.11.2024), e poi dal Tribunale di Roma (ordinanza del 21.3.2025), dal Tribunale di Milano (ordinanza del 3.3.2025) e dal Tribunale di Firenze (ordinanza del 7.3.2025); le ordinanze erano state iscritte rispettivamente al n. 247 del registro ordinanze 2024 e ai numeri 65, 66 e 86 del registro ordinanze 2025, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, numeri 4, 16 e 18 dell’anno 2025.
[2] Da ultimo, Cass. Sez. U., 24.8.2022, n. 25317 e n.25318.
[3] Per un quadro efficace dei problemi attuali in tema di cittadinanza alla vigilia delle novità normative del 2025, B. NASCIMBENE, Cittadinanza: riflessioni su problemi attuali di diritto internazionale ed europeo, Riv. dir. ent. priv. proc. 2025,1.
[4] Disposizioni che integrano l’art. 4 della legge n. 91 del 1992 con i commi 1-bis e 1-ter.
[5] Art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito, che integra l’art. 14, comma 1, della legge n. 91 del 1992.
[6] Art. 1, comma 1-bis, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito, che estende il raggio operativo dell’art. 4, comma 1, della legge n. 91 del 1992; nonché art. 1-bis, comma 2, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito, che integra l’art. 9, comma 1, della legge n. 91 del 1992
[7] L’esposizione delle ragioni sottostanti all’intervento normativo e la spiegazione delle sue modalità sono contenute nella amplissima ricostruzione, storica e giuridica, operata con la relazione illustrativa del decreto legge n.36/2025 e della legge di conversione n.74/2025.
[8] Si vedano gli interventi di R. CALVANO, S .LAGANÀ, C. PANZERA, E. GROSSO nel corso dell’audizione dinanzi alla I Commissione Affari costituzionali Senato della Repubblica, in https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/documenti/57165_documenti.htm.
[9] G. BONATO, Il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025: la “Grande Perdita” della cittadinanza italiana, Iudicium, aprile 2025.
[10] Parole pronunciate dal Presidente Sergio Mattarella in occasione del ricevimento al Quirinale il 17.6.2025 del Consiglio Generale degli Italiani all'Estero, in occasione della 47ª Assemblea Plenaria. Il discorso è stato pubblicato sul sito ufficiale della Presidenza della Repubblica.
[11] Ordinanza 25.6.2025 del Tribunale di Torino in causa n.r.g. 6648/2025.
[12] La lettera a-bis, aggiunta in sede di conversione, risponde a una logica di buon senso, rispettosa dei diritti del cittadino come pure delle esigenze organizzative della Pubblica Amministrazione, evitando l’applicazione dello ius superveniens sfavorevole a coloro che risultano essersi tempestivamente attivati senza che la P.A. abbia ancora potuto esaminare le loro istanze. Cfr, per analoga soluzione, l’art.7, comma 2, del d.l. 10.3.2023 n.20 (cosiddetto «decreto Cutro»), convertito con modificazioni dalla legge 5.5.2023 n.50
[13] Come aveva fatto poco prima con la sentenza n. 25 del 2025.
[14] Con tale sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge 5.2.1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), introdotto dall’art. 14, comma 1, lettera a-bis), del decreto-legge 4.10.2018, n. 113, convertito, con modificazioni, nella legge 1.12.2018, n. 132, nella parte in cui non esonera dalla prova della conoscenza della lingua italiana il richiedente affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti dall’età, da patologie o da disabilità, attestate mediante certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica.
[15] Con tale sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 5.2.1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), nella parte in cui non esclude, dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del procedimento di cui al successivo art. 7, comma 1.
[16] Corte di giustizia, sentenza 7.7.1992, causa C-369/90, Micheletti e altri.
[17] Corte di giustizia, grande sezione, sentenze 29.4.2025, causa C-181/23, Commissione europea contro Repubblica di Malta, punti 42, 95 e 98; 5.9.2023, causa C-689/21, Udlændinge- og Integrationsministeriet, punto 30; 18.1.2022, causa C-118/20, JY, punto 49; 2.3.2010, causa C-135/08, Rottmann, punto 45, oltre alla citata sentenza Micheletti.
[18] Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 17.3.2019, causa C-221/17, Tjebbes e altri, nonché le già citate sentenze Udlændinge e Rottmann.
[19] Sentenza Malta sopra citata. Il caso riguardava un programma di naturalizzazione che concedeva la cittadinanza maltese a seguito di pagamenti o investimenti effettuati in quello Stato, assimilabile a una commercializzazione della concessione dello status di cittadino di uno Stato membro e conseguentemente di cittadino dell’Unione.
[20] Cass. Sez. U., 24.8.2022, n. 25317.
[21] La violazione dell’art.117 Cost, in relazione agli obblighi scaturenti dall’art. 9 TUE e dall’art. 20 TFUE è invece stata scrutinata dalla Corte.
[22] Questa l’efficace terminologia utilizzata nella Relazione illustrativa.
[23]Anche qui la terminologia è ripresa dalla Relazione illustrativa.
[24] Anche questa oggetto di severe critiche.
[25] Anche ammesso che il riferimento a coloro che sono stati cittadini italiani si riferisca chi poteva essere considerato italiano secondo la disciplina previgente
[26] Cass. Sez. U., 15.7.2016, n. 14594.
A questo link si può consultare la sentenza in oggetto.
Immagine: C. R. Cockerell, Il sogno del professore, 1848. Via didatticarte.
La vita è una sola: perdere per possedere
Jacopone da Todi
Sommario: 1. Dimensioni del dolore: la memoria e l’oblio – 2. Diritto solitario, relazionale, istituzionale - 3. Forza e Ragione – 4. Progresso o Ciclo? – 5. Razionalità strumentale ed immaginazione – 6. Democrazie e nuova tecno- economia – 7. Tecnica ed epistocrazia – 8. Paideia democratica – 9. Tecnica: emancipazione od oppressione? – 10. Regolazione.
Per navigare nella difficile contemporaneità in trasformazione è necessaria qualche bussola.
Possiamo provare a formulare un lessico minimale aiutandoci con la filosofia e la poesia ma anche con le riflessioni del pensiero giuridico e delle scienze sociali.
1. Dimensioni del dolore: la memoria e l’oblio
La prima parola che soccorre è la parola dolore.
Il rapporto con il dolore dice molto della società; è essenziale per comprenderla.
La nostra società - è stato detto da Byung – Chul Han[1] - è una società senza dolore. Una società algofobica. Questo è stato vero per lungo tempo. Ora è molto meno vero. Ma al ritorno del dolore (e della storia) tendiamo a reagire, d’istinto, in Europa, con grandi rimozioni. Non si accetta la dimensione tragica dell’esistere. Non si accetta la distruzione. Si punta – per mancanza di coraggio – all’autodistruzione.[2]
Byung Chul Han si è proposto un’ermeneutica del dolore.
La prima notazione è la tendenza a vivere come anestetizzati. Evitando i conflitti.
Anche la politica evita i conflitti dolorosi, vive di pura creazione del consenso a basso costo, mediante un massivo uso dei mezzi di comunicazione di massa e la costruzione di narrazioni rassicuranti che hanno preso il posto delle ideologie novecentesche.
La politica è segnata dall’idea della mancanza di alternative. Della accettazione dell’esistente e della pura logica dell’amministrazione che tradisce l’ambizione costituzionale di un suo primato come sfera capace di fornire gli orizzonti di sviluppo della vita sociale.
Essa si abbandona alle imposizioni di sistema e sposa la linea dell’adesione alla c.d. nuova oggettività della quale si è avuto modo di discorrere con Sergio Foà, fatta di dominio della tecnica e di leggi economiche che appaiono inderogabili dal corpo sociale.[3]
Evita conflitti e confronti dolorosi, si affida al sistema mass mediatico per la diffusione di narrazioni rassicuranti che tengono il posto delle vecchie ideologie novecentesche al fine della creazione del consenso, funziona ormai analogamente a qualsiasi altro prodotto da vendere sul mercato della società affluente.
Una politica senza conflitto e senza speranza destinata a consegnare l’Europa ad un destino di irrilevanza in un mondo che rivaluta la forza, la politica agonistica ed il coraggio del dolore.
Le strategie di occultamento della sofferenza sono molteplici e finiscono per atrofizzare i processi di civilizzazione.
Determinano ovviamente non la fine della sofferenza ma l’impossibilità del suo riconoscimento e quindi il deperire delle politiche di inclusione.
La sofferenza; il negativo sono i passaggi essenziali ed ineludibili della dialettica hegeliana del riconoscimento (descritta nella Fenomenologia dello Spirito) e della evoluzione della coscienza infelice verso più progressive forme di comunità; si tratta – crocianamente - della dinamica della religione della libertà ed alla fine di ogni percorso emancipativo moderno.
L’approdo ad un mondo irenico è stato connaturato all’esperienza ordoliberale e ne ha costituito il tratto caratterizzante. Robert Kagan ha parlato di Venere e Marte a proposito di Europa ed America, la prima persa nel sogno kantiano della pace perpetua e la seconda gendarme del mondo hobbesiano.[4]
Il brusco risveglio legato alle nuove politiche della destra americana costringe l’UE a fare i conti con il ritorno della storia e del dolore.
Il riarmo sostituisce il Green Deal e ne fa naufragare le prospettive, peraltro esso, pur necessario per la sovranità europea e la possibilità di conservazione di uno spazio di Rule of Law esemplare nel quadro globale, sembra realizzato in un quadro emergenziale e non sufficiente coordinato che rischia di penalizzare le funzioni di integrazione sociale dello Stato già compromesse da anni ed anni di austerità finanziaria dovute alla crisi fiscale dello Stato ed all’incapacità di decidere una fisionomia del Welfare meno irrealistica di quella basata sull’idea che i diritti fondamentali (tutti e di tutti) non abbiano e non debbano avere un costo che li condiziona.
L’anestetizzazione universale investe anche la cultura.
La coscienza infelice di Hegel e del romanticismo è ormai inattingibile.
Si vuole solo un intellettuale compiacente.
“L’economicizzazione della cultura e la culturalizzazione dell’economia – dice ancora Byung Chul Han - si rafforzano a vicenda. Si abbatte cosí la separazione tra cultura e commercio, tra arte e consumo, tra arte e pubblicità. Gli stessi artisti vengono messi sotto pressione affinché s’impongano come marchi. Diventano conformi al mercato, compiacenti. La culturalizzazione dell’economia riguarda anche la produzione. La produzione post-industriale, immateriale, s’impossessa delle modalità della pratica artistica. Dev’essere creativa. La creatività come strategia economica consente però solo delle variazioni dell’Uguale. Non ha accesso al completamente Altro. Le manca la negatività della rottura, che fa male. Dolore e commercio si escludono a vicenda”.
È in corso una potente reazione i cui esiti non sono noti.
Quindi dolore del risveglio nella storia e nel conflitto.
Dolore della scoperta dell’ineluttabilità del costo economico dei diritti sociali.
Dolore di una politica responsabile chiamata a fare scelte difficili, di per sé mutilanti.
Dolore delle tante guerre in corso (guerra mondiale a pezzi diceva Papa Francesco).
Il filosofo che ha tematizzato il dolore come percorso di conoscenza è stato Aldo Masullo, il suo pensiero fuori dagli schemi andrebbe recuperato.[5]
E qui la questione del dolore si intreccia a quella della memoria e dell’oblio.
Alla questione dell’identità che tiene banco.
L’identità porta conflitto ed essa è fondata a volte su un’ossessione mnestica, sulla nostra incapacità di lasciare andare e di dimenticare (nelle esperienze individuali ed in quelle collettive).
Sulla trappola identitaria ha scritto, di recente, Yascha Mounk:
“Al posto dell’universalismo, certi settori della società statunitense stanno rapidamente adottando una forma di separatismo progressista. Scuole e università, fondazioni e alcune aziende sembrano essere convinte di dover incoraggiare attivamente le persone a vedersi come “soggetti razzializzati”[6].
Ed ancora per spiegare l’essenza della c.d. trappola identitaria:
“Siamo capaci di grande coraggio e altruismo quando si tratta di aiutare i membri del nostro gruppo, ma anche di terribile indifferenza e crudeltà di fronte agli individui che consideriamo membri di un altro gruppo. Qualsiasi ideologia con un minimo di decenza deve proporre una soluzione per attenuare gli effetti negativi di tali conflitti. Un problema cruciale della sintesi identitaria è che non lo fa. Gli esseri umani avranno sempre la tendenza a distinguere tra “noi” e “loro”.[7]
Non è casuale che al centro dei conflitti vi sia il diritto di esistenza delle piccole patrie o la secolare questione della convivenza fra Israele e la Palestina con le correlative ossessioni identitario securitarie che rendono assai complessa la via della pace.
La nostra società ha insistito oltre che sulla rimozione del dolore, anche sull’importanza della memoria, ma questo produce un effetto sicuramente non voluto e paradossale: la tendenza a non dimenticare il male, a non dimenticarlo mai.
Tale tendenza può portare a conflitti infiniti o a paci provvisorie (fondate sul mero cessate il fuoco come nel caso della guerra turco-cipriota, terribile storia dell’ultimo muro d’Europa).
La comprensibile tendenza a non dimenticare il male in definitiva non ci salvaguarda necessariamente dal suo ritorno se non si accompagna alla pratica di una perenne filosofia del dialogo.[8]
Gli antichi conoscevano l’importanza del fiume Lete. Lete, dal greco λανθάνω (lanthano), significa infatti essere nascosto, dimenticare, ed è il fiume dell’oblio della mitologia greca e romana. Esso appare inoltre nel Faust goethiano e in diversi scritti di Baudelaire.
Gli Orfici ritenevano che il fiume Lete fosse quello in cui le anime non dovessero bere né bagnarsi, proprio per non dimenticare il passato, arrivando, col tempo, a diventare più sagge.
Anche Platone definisce Lete (o Amelete) il fiume dell’oblio del mito di Er, narrato nel libro X de La Repubblica.
Ma il fiume Lete più famoso della letteratura è certamente quello virgiliano del VI libro dell’Eneide: «Le anime che per fato devono cercare un altro corpo, bevono sicure acque e lunghe dimenticanze sull’onda del fiume Lete» (En., VI 714-715). Anche in questo caso il fiume è l’abbeveratoio delle anime che devono dimenticare prima di reincarnarsi nel tentativo di purificarsi.
Saper dimenticare a volte è importante quanto ricordare.
Rawls separa talvolta la pretesa di giustizia dalla pretesa di pace: c’è qualche saggezza in questa sua posizione.[9]
Rawls individua cinque tipologie di popoli, in posizione decrescente rispetto alla possibilità di immaginarli come partner in una posizione originaria con i quali raggiungere un accordo giusto.
Popoli liberali: sono strutturati secondo le istanze liberal-democratiche e sono in grado di offrire equi termini di collaborazione ad altri popoli.
Popoli decenti: pur non avendo una struttura analoga a quella liberal-democratica, mantengono al proprio interno un qualche modello di consultazione (elezioni, o comunque diritto di scelta in generale), prevedono un sostanziale rispetto dei diritti umani e sono non aggressivi nei confronti degli altri popoli. La decenza è qui intesa come criterio empirico, piuttosto che derivante da un argomento teorico: Rawls fa l’immaginario esempio del popolo del Kazakistan, facendoci intuire un riferimento ai popoli emergenti che avviavano la democratizzazione dopo l’uscita dall’URSS, oppure ancora alle popolazioni islamiche dei vari "-stan" (Afghanistan, Pakistan...).
Assolutismo benevolo: in questa condizione gli stati, pur rispettando i diritti civili, politici e sociali, non prevedono forme consultive e negano quindi in parte o del tutto la partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive.
Popoli svantaggiati: sono quei popoli in cui a causa di sfavorevoli condizioni economiche e assenza di condizioni minime di sussistenza non riesce a consolidarsi una struttura politica riconoscibile, cioè non sono in grado di sviluppare istituzioni liberal-democratiche o decenti. Nei confronti di questi popoli, secondo Rawls, i popoli più fortunati (definiti “popoli bene ordinati”) hanno un dovere di assistenza. I popoli che si trovano in condizioni migliori devono cioè aiutare i popoli svantaggiati affinché entrino nelle condizioni in cui possono sviluppare delle istituzioni politiche. Questo dovere di assistenza è basato però su un principio meno oneroso del principio di differenza.
Popoli fuorilegge: non rispettano i diritti umani e sono aggressivi nei confronti degli altri popoli, destabilizzando con il loro comportamento gli stati appartenenti alle quattro precedenti categorie.
La varietà delle condizioni di vita dei diversi popoli non consente di perseguire la pace giusta secondo i canoni occidentali liberal-democratici ma costringe a strategie più complesse, anche e primariamente dialogiche.
Per raggiungere principi sicuri per il governo del mondo l’ordinamento internazionale deve prendere «gli uomini come sono, e le leggi come possono essere» e far convergere lentamente le diversità senza esasperarle con gesti di forza.
2. Diritto solitario, relazionale, istituzionale
La seconda parola è diritto.
Ma quale diritto?
Il diritto dei tre tipi di pensiero giuridico lo sappiamo è normativista secondo la lectio di Kelsen, decisionista secondo la lectio di Schmitt, istituzionale secondo la lectio di Santi Romano.
Pluralità di ordinamenti, pluralità di istituzioni nello stesso ordinamento.
Il diritto inscritto nella separazione dei poteri costituzionale è quello che vive nelle sue dimensioni istituzionali pluralistiche, negli organi costituzionali, nella amministrazione, nella giurisdizione, nella politica e negli organi di garanzia variamente articolati, e poi nel centro e nelle periferie del potere.
Ma qui forse sta emergendo un’altra valenza dell’esperienza giuridica.
Un diritto senza gli altri, un diritto puramente relazionale, ed infine un diritto istituzionale sempre meno centrale.
Il diritto automatico è quello legato ad esperienze solitarie dell’uomo connesso in rete. Il diritto dei contratti automatizzati.[10] Il diritto degli smart contracts, il diritto del lavoro disciplinato da remoto per chi è in smart working. Il diritto di uso dell’intelligenza artificiale formato dal produttore o da fonti eteronome che sono destinate sempre più ad occuparsi del rapporto uomo – macchina.[11]
Il diritto relazionale è tutto il diritto ordoliberale di matrice europea che ha recepito la lex mercatoria dagli anni novanta dello scorso secolo fino a questi anni di svolta - mediante l’operatività delle direttive di armonizzazione delle legislazioni e mediante la riduzione della rilevanza della dimensione organizzativa a favore di quella contrattuale e di mercato.
Il diritto istituzionale è ormai per lo più solamente un freno di emergenza: la vicenda del golden power è significativa – si potrebbe dire paradigmatica - in proposito; si tratta di intervenire solo per interessi strategici come definiti dal d.l. n. 21 del 2012 e successive modificazioni, per tutelare l'interesse nazionale in settori e filiere strategiche, per evitare che finiscano in mano straniera, ed evitare che le aziende bersaglio cadano vittima di operazioni finanziarie ostili. Il mercato fa il resto, secondo una logica di diritto privato.
Tutto il diritto pubblico è leggibile nel prisma dell’art. 2043 cod. civ. con ciò la sua patrimonializzazione è inevitabile come anche il declino delle finalità di “cura” della coesione sociale legate al diritto amministrativo ed all’interesse pubblico che lo ispira, lo muove e lo pervade o dovrebbe pervaderlo.[12]
La sorte ed il destino della Rule of Law ed anche la sua qualità stanno inscritte dentro il rafforzamento o l’indebolimento della logica istituzionale, romaniana, dell’esperienza giuridica.
Stanno dentro la capacità di comprendere ed accettare il grado di sofferenza che comporta ogni esperienza giuridica, nello strutturarsi delle novità storiche, per accertarle e per governarle, superando la dura oggettività luhmanniana[13] in forme di comunità capaci di restaurare un immaginario sociale alla Castoriadis[14].
Questo è il compito di chi progetta il diritto, mentre il compito di chi lo applica è quello di chinarsi sulle singolarità sofferenti, per far sentire loro che il pati il patire è sempre un patire comune.
È quello che – spiritualmente – tenta Natalino Irti nel suo recente, alto e nobile, lavoro che indagando il sottosuolo dell’esperienza giuridica, vede il diritto come salvagente dalla spietatezza del mondo oggettivo della tecnica dispiegata.[15]
3. Forza e Ragione
È il tema della guerra risorgente.
Ma anche del declino di quello che Kojève chiamava lo sguardo del terzo. Lo spazio della giurisdizione e della mediazione.
Mediazione è quella del Parlamento che perde peso rispetto al potere del Governo, mediazione è quella della Corte Costituzionale che, di fronte alla complessità della post-modernità ed agli effetti di bilancio delle proprie sentenze, è costretta a rivolgere moniti al Legislatore, talvolta inascoltati, così rivelando spazi inediti di impraticabilità del controllo di costituzionalità, mediazione è quella dei giudici comuni che a volte seguono tuttavia percorsi ispirati a logiche troppo differenziate come quelle seguite dalla giurisprudenza civile ed amministrativa impegnate da sempre sui nodi del riparto con una mentalità retrospettiva che non vede che tutt’intorno il mondo cambia implacabilmente ed a velocità sostenuta in fondo facendo emergere che il nuovo potere non è nello Stato ma come ha notato Luigi Ferrajoli nei “poteri privati selvaggi” (ammirevoli per creatività ma bisognosi di limiti a salvaguardia dei public goods).
Mediazione è quella dell’ONU, sempre più contestata a favore dello scontro e del concerto fra logiche di pura potenza.
Mediazione è quella del sistema delle Corti internazionali che, scosse da crisi e contestazioni violente, scoprono la loro ineffettività ed i limiti di quel processo che è stato chiamato “tribunalizzazione del mondo”[16].
4. Progresso o Ciclo?
Sono note le parole di Walter Benjamin su Klee:
C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede un’unica catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine, e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre quel che è andato in frantumi. Ma una tempesta spira dal paradiso; ed essa investe le sue ali con tanta violenza, che egli non può più richiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente verso il futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui sino al cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso.
Il moderno all’altezza di tempo di Benjamin – tempo del modernismo reazionario analogo, secondo Irti, al tempo che stiamo attraversando – manteneva ferma l’idea di progresso[17] ma la concettualizzava in forma di tempesta.
È stato notato a proposito di questo passo che “il passato, la storia, su cui si concentravano i suoi occhi disvelatori, non ingannati dalle false prospettive degli uomini, era solo un irrimediabile accumulo di rovine, che arrivava sino al cielo. Il progresso – l’idea che Benjamin vedeva disastrosamente smentita – era nient’altro se non l’ininterrotto precipitare della catastrofe verso il cuore imperscrutabile della tempesta. Esso non veniva completamente negato: il movimento in avanti rimaneva, inarrestabile; ma era ridotto all’effetto della pura e scarnificata violenza della bufera, in attesa di un riscatto – o almeno di un significato – che non arrivava.”[18]
Ormai questa vicenda si è consumata.
Il «progresso» – la parola allora ancora familiare e carica di promesse, ereditata dal pensiero ottocentesco – veniva ridotto a una fuga senza fine e senza senso che non smetteva di trascinarci attraverso un oceano di rovine: verso non si sa dove, ammesso pure che un dove esistesse, e fosse umanamente percepibile.
Ora – nel tempo della tecnica dispiegata e del raggiungimento di una nuova soglia antropologica - appare una parola moralmente vuota anche se la capacità di fare dell’uomo, nella scienza, nelle tecnologie dell’informazione, nel dominio della natura, nella medicina, sta raggiungendo una potenza inusitata.
L’idea dominante, nell’interpretazione dei fatti sociali, è di tipo biologico: la storia del vivente e della specie umana non è dissimile dalla parabola della vita individuale, c’è un nascita, uno sviluppo, una crescita, l’inevitabile declino e la morte.
Ciò è predicabile dell’uomo come individuo e come specie ossia come collettività umana. La storia delle civilizzazioni è la storia del loro formarsi e declinare. Non ci sono garanzie di progresso né crociane religioni della libertà.
A fronte del presentarsi del limite naturalistico (pandemia, crisi climatica, problemi energetici, sviluppo dell’atomo) ritornano in auge dottrine apocalittiche.
Si rileggono gli antichi: Esiodo, Eraclito, Lucrezio, Democrito, Polibio.
Si rivaluta l’idea – vichiana – di circolarità del tempo.
Tutta la modernità, dal Rinascimento in poi – l’«età nuova» nel cammino d’Europa – si era venuta costruendo intorno a ben diverse attitudini. Si era fondata sulla convinzione che l’operare incessante degli uomini – la produttività della loro fatica, della loro intelligenza, del loro lavoro quotidiano – creasse le basi per un mutamento, costante e verso il meglio, dei nostri modi di vita, almeno nella parte di mondo che abitiamo: una regione privilegiata (si riteneva), chiamata a edificare una civiltà senza eguali, che avrebbe elaborato una misura e una regola in grado di imporsi in tutti gli angoli della Terra[19].
Il Moderno è quindi giunto a compimento, in forma tragicamente disumanizzante: si impone quindi un ritorno spinoziano alla Natura oltre che la riscoperta di una dimensione di trascendenza immanente senza la quale non è nemmeno pensabile una progettualità sociale che superi la mera gestione amministrativa.
Il nostro tempo è il tempo della disillusione[20].
Certo il cerchio e la linea non sono oggetto di contrapposizione assoluta come nota sempre A. Schiavone: “Santo Mazzarino – uno dei maggiori antichisti del Novecento – aveva dimostrato in modo definitivo come un’opposizione così frontale (quella fra tempo ciclico e tempo progressivo) non potesse reggere, e come le due immagini – il circolo e la linea – in realtà si fossero sovrapposte e intersecate in maniera assai più frastagliata tra antico e moderno: ed è una ricostruzione cui resta poco da aggiungere. Ma ciò nonostante, rimane indubbio che l’enfasi sulla direzione del tempo – sull’esistenza di un vettore della storia, per così dire – sia appartenuta specificamente ai caratteri della modernità occidentale[21], e si sia congiunta, fin dalla cultura del Rinascimento, all’elaborazione di un’idea fondamentalmente ottimistica del rapporto fra passato e avvenire.”
Qui si apre una contraddizione:
“Da una parte l’accumularsi degli sviluppi impetuosi dell’intelligenza tecnologica e scientifica, e della sua proiezione trasformatrice sulla realtà di ogni singola vita; e dall’altra, … il prodursi corrispondente di una sempre maggiore difficoltà nel mettere in campo una progettualità culturale e sociale, e una razionalità politica e di governo – sia nell’ordine geopolitico, sia all’interno dei singoli Stati.
E tutto questo proprio mentre ce ne sarebbe stato più che mai bisogno, per tener dietro al precipitare dei mutamenti, e riuscire a controllarli e padroneggiarli per il meglio. Oppure, in altri termini, se vogliamo usare una formula più breve e sintetica: l’aprirsi di uno squilibrio crescente fra potenza (tecnica) da un lato, ormai in grado in più modi perfino di distruggere lo stesso pianeta; e razionalità (civile e politica) dall’altro. Fra la capacità indotta dalla tecnica e dall’economia capitalistica di creare innovazione, ricchezze, opportunità, ma anche inauditi pericoli e dissimmetrie: di moltiplicare, insomma, il carattere ambivalente delle proprie potenzialità; e la corrispondente incapacità di dirigere quei processi secondo scelte razionali globali. Di indirizzarli cioè verso obiettivi che non fossero solo di massimizzazione dei profitti e di soddisfazione smisurata di interessi particolari, politici o economici, nazionali o di classe”.
L’occidente si è autocompreso come il luogo dell’eterno tramonto (e dell’eterna rigenerazione), ma agli occhi di chi ha visto un altro mondo ed un altro tempo, è evidente che ormai non si tratta di crisi ma di declino per mancanza di un pensiero politico adeguato alla trasformazione in corso[22].
Suggestiona anche l’ipotesi della Fine della storia che ha antesignani nobili – prima di Francis Fukuyama – in Eric Weil e Alexandre Kojève [23].
Ivi si cita la nota della nota all’Introduzione alla lettura di Hegel redatta da Kojève dopo un viaggio in Giappone, nella quale si afferma, con argomento paradossale, che “ Gli Stati Uniti hanno già raggiunto lo stadio del comunismo marxista, visto che praticamente tutti i membri di una società senza classi, possono appropriarsi fin d’ora di tutto ciò che desiderano, senza per questo lavorare più di quanto gli piace.”
Alla luce di questa intuizione lancinante potremmo dare una lettura più chiara della simpatia fra Trump e Putin e della convergenza progressiva dei sistemi verso un modello neo-imperialista ed in fondo comunista nel senso dell’imposizione della legge dell’universale godimento disalienato (al di là del pensiero sulla fine della democrazia riportabile al paleo-libertarianismo che smantella lo Stato, il paradigma che muove verso la convergenza dei sistemi nell’economia-mondo, è l’oggettività funzionalistica – assicurata in Occidente dal mercato - totalmente deregolato – che regge la società dei consumi, traguardata anche dalle società dell’Oriente con le sue autocrazie paternalistiche).
Per Kojève del 1968 i russi ed i cinesi sono degli americani ancora poveri ed il futuro post- storico è l’eterno presente del Giappone, caratterizzato da un ethos snobistico e totalmente formalizzato ed aggiungeremmo noi dalla scomparsa del diritto come lo abbiamo conosciuto (istituzionale e relazionale) e della storia umana.
Un’eco di questa visione appare nelle letture che della crisi dell’Occidente fornisce Aldo Schiavone.
Circolarità e linearità del tempo hegelianamente coincidono, ma senza più lotta, conflitto, dinamiche del riconoscimento e del desiderio, senza più avvenire, senza più futuro.
La liberazione marxiana dalla storia di oppressione e dominazione si fa alle spese del Soggetto.
C’è il rischio che la disalienazione data dal un lavoro liberato mediante le macchine coincida con l’alienazione costituita dai gruppi di potere che progettano le macchine e dispongono dei moderni entitlements su di esse.
5. Razionalità strumentale ed immaginazione
È noto l’incipit della Dialettica dell’illuminismo di Adorno ed Horkeimer .
“L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”.
Le riflessioni di Heidegger sulla questione della tecnica sono consonanti con quelle dei francofortesi.
La fonte primigenia del sogno illuminista era la generalizzazione dello scambio contrattuale come meccanismo fondante l’economia di mercato che richiede un uomo calcolante; indirizzato dall’utile, capace di organizzare imprese, giustificate dal nesso rischio/profitto.
La scissione fra borghese e cittadino faceva il resto: consentendo all’uomo guidato nella sfera economica dal self interest di ispirarsi ad un interesse generale nell’esercizio del diritto di voto, da esercitarsi secondo regole di prudenza e non di forza (ed è l’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali).
Questo processo si sviluppa parallelamente al costituzionalismo moderno e istituisce il weberiano diritto calcolabile dei codici della recezione del diritto romano borghese.
Con il tempo tuttavia la radicale infondatezza del potere sovrano emerso dalla rivoluzione borghese, la scomparsa del sacro e la morte di Dio, disvelano la natura nichilistica del progetto Moderno, la irredimibile mancanza di ubi consistam, la sua dolente arbitrarietà, la sua minaccia per la nuda vita.
Il diritto dei codici si dissolve in leggi particolari che seguono la frammentazione sociale (in quello che è stato descritto come passaggio dallo status al contratto).
La tecnica giuridica come ogni tecnica si mostra manipolabile all’infinito ed unica forma e manifestazione della volontà di potenza, che sconta su di sé l’impossibilità di limitare finalisticamente le possibilità dello sviluppo tecnologico che da strumento diviene fine.
Così si attua il rovesciamento della razionalità strumentale, unico motore del modo di produzione essendo la tecnica, in assenza di Dio la tecnica viene divinizzata.
Lo scontro fra gli umanesimi (liberale, socialista, nazifascista con i tratti disumanizzanti propri di questi tentativi – ove totalitari - di forgiare un uomo nuovo) consuma, secondo la lectio heideggeriana della Lettera sull’umanesimo, durante le due guerre mondiali e, possiamo notare noi contemporanei, con la Guerra Fredda, ogni possibilità di eterodirigere la tecnica.
La tecnica autoreferenziale domina il modo e condiziona ormai l’autonomia del politico, al quale resta ben poco fra diritto sovranazionale, lex mercatoria ed automatismi macchinistici.
Il politico è così confinato nella sfera della mera comunicazione di narrative finalizzate alla coesione sociale (per lo più ormai securitaria nel declino delle funzioni di integrazione sociale dello Stato dovuto al definanziamento dei servizi pubblici) e riceve da altre sfere gli input necessari alla edificazione di costruzioni sociali.
Declina – con la morte delle ideologie – ogni forma di immaginario sociale.
J Dewey cede il passo a W. Lippmann, l’educazione alla manipolazione, la società paleo libertaria che disvela un mondo totalitario, post-nazista, è quella in cui gli apparati informativi, privatizzati, ma integrati negli apparati politici, condizionano le masse senza – ordinariamente – ricorrere alle politiche violente delle esperienze totalitarie non liberali.
Ripristinare l’immaginario sociale è necessario per riprendere le fila del progetto moderno tirandolo fuori dalle secche delle ideologie contemporanee imperniate sull’impossibilità di concepire destini generali [24].
Partita difficile, ma da giocare per non mettere a rischio l’autodeterminazione dell’uomo ed evitare la sua riduzione, già in corso, ad “homo consumens”, a consumatore manipolato e manipolabile.
6. Democrazie e nuova tecno-economia
Un altro nodo fondamentale è costituito dal rapporto fra le democrazie nazionali e la nuova tecno-economia globale.[25]
Carlo Galli[26] ha ricordato che il disagio della democrazia è cosa antica, è lo “spaesamento” di Tocqueville di fronte alla democrazia americana, al continente che aboliva i ruoli sociali della vecchia società feudale, alla dichiarazione di Whitman “Sono vasto. Contengo moltitudini”, ma è anche la critica di Ortega[27] – padre del pensiero libertario – che analizza, come farà anche Canetti la questione della massa apatica, inerte, informe, e ad essa contrappone orgogliosamente l’individuo “Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo (io sono io e la mia circostanza e se non salvo questa non salvo neppure me) che si trova nelle Meditaciones del Quijote.
Con tale asserzione Ortega intende sottolineare l’importanza della singolarità (indicata da Irti[28] come il fulcro della vita del diritto nel tempo del declino della democrazia e del dispiegarsi della tecno-economia).
Ortega sente l'unicità della vita di ogni essere umano, non trasferibile (nessuno può vivere al posto mio) e determinata da circostanze spaziali e temporali: nasco in un determinato tempo e luogo e, in conseguenza di ciò, ne sarò condizionato, l’etica è sempre circostanziale. Irti consegna al giurista il messaggio di Ortega e conferma la professione di fede nel diritto privato, concepito in un’ottica ormai non solo dommatica e normativista, ma pienamente personalista e con un fondo libertario.
Il disagio della democrazia è soggettivo ed oggettivo secondo C Galli: è disagio del cittadino, ripulsa rabbiosa o rassegnata, ed è disagio oggettivo, strutturale per le tante promesse non mantenute della democrazia e la sua crisi dovuta alle trasformazioni del mondo, in fondo possiamo dire, alla privatizzazione del mondo (visibile nelle piattaforme, nelle moderne infrastrutture comunicative, nelle reti, nei cavi, nei satelliti che non sono in gran parte di proprietà degli Stati che ne dipendono e così la proprietà pubblica è recessiva come ha ben rilevato in tante sedi Paolo Maddalena [29]).
Il Moderno (la democrazia degli Stati nazionali) sfocia nel Globale (dell’economia) e la democrazia deperisce perché essa è legata ad una precisa dimensione territoriale e nazionale (di qui la reazione antiglobalista e sovranista che è un tentativo naturale – forse illusorio e destinato al fallimento ma soprattutto, a parere di chi scrive, destinato ad aprire nuove contraddizioni perché non è a livello nazionale o micro-regionale che possono governarsi i problemi del Globale– di opporsi alla strutturazione globale economica del mondo, frantumandolo istituzionalmente e – come vedremo – recuperandone la varietà delle identità chiuse in se stesse e violentate dalle trasformazioni che tuttavia restano là nella loro dimensione sovranazionale).
Un altro punto è la crisi dell’autonomia del politico: studiata a fondo ed intrecciata all’esaurimento del Novecento, dei suoi scontri ideologici, della classica forma partito di massa (sostituita dai partiti personalistici più dipendenti da risorse finanziarie private e tesi a veicolare nelle scelte pubbliche – o in quel che ne rimane- imperativi di efficienza provenienti dal sistema economico ispirato da finalità di costante aumento della produzione e della produttività, dimentiche dei temi dei limiti naturali allo sviluppo) .
L’autonomia del politico che è e non può che essere un potere che freni le spinte della tecno-economia ma che, per ragioni legate ai segnalati processi di de-culturazione delle masse e di aspirazione al privato benessere, non ha più capacità di indirizzo delle forze economiche verso pubblici interessi o obiettivi di pubblico bene.
Il popolo si presenta sempre più in forma astratta, non realmente partecipata, nei partiti prevalgono chiusure oligarchiche e la natura organizzativa si impone su quella associativa, anche a causa della mancata attuazione – in Italia - dell’art. 49 Cost. attraverso una legge che assicuri e disciplini la democrazia interna dei partiti (il partito era per Gramsci il moderno principe, collettivo, non personale).
Tutto ciò incide anche sulla salute della Costituzione e del costituzionalismo.[30]
Da questa crisi profonda nasce la critica radicale di Hans Hermann Hoppe che qui si cita perché è ideologo di riferimento dell’attuale amministrazione americana, insieme ad altri autori.[31]
Si tratta di un’analisi economica sociologica, tributaria della scuola austriaca di cui costituisce una radicalizzazione, che definitivamente ritiene che le monarchie – statistiche economiche alla mano – abbiano operato meglio delle democrazie nel governo dell’economia, nel mitigare le c.d. preferenze temporali al consumo immediato dei beni (lo Stato patrimoniale privato accresce il valore del patrimonio nell’interesse del sovrano, non punta solo sull’acquisizione dei redditi dei governati, mantiene una bassa tassazione, non fa guerre di annientamento, non dissolve i costumi privati familiari).
Le democrazie vengono criticate quindi come fattori di de-civilizzazione, perché ricorrono ad un eccesso di tassazione espropriativa della proprietà privata, per politiche sociali e redistributive, alla fine disincentivando il risparmio, il lavoro, l’intrapresa.
Nel finale l’autore, scettico sulla possibilità di tornare alla legittimazione a divinis delle monarchie, propone un puro e semplice smantellamento dello Stato.
7. Tecnica ed epistocrazia
Un’altra parola chiave è epistocrazia.
È ragionevole chiedere correzioni epistocratiche della democrazia sostiene Sabino Cassese nella prefazione al libro di Brennan contro la democrazia.[32]
Il fondatore del diritto pubblico italiano, uno studioso che è stato attivo anche come uomo politico per più di trent’anni, Vittorio Emanuele Orlando, riteneva che l’elezione fosse una designazione di capacità: un gruppo ristretto di elettori indicava quelli che riteneva capaci di gestire problemi collettivi. Chi votava sceglieva non solo kràtos, ma anche aretè ed episteme, non solo forza, ma anche virtù e competenza.
Grosso modo tutte le teorie elitarie del potere (da Machiavelli a Pareto, fino a Sartori) vedono nella democrazia niente altro che un metodo per scegliere le élites non certo per garantire la sovranità popolare.
La crescente complessità della società dell’informazione, dei suoi flussi comunicativi, delle sue interrelazioni e dei correlativi processi decisionali determina la tentazione di passare da un regime di primato della politica, come pensiero della totalità sociale e del benessere generale ad un regime basato sul primato della conoscenza e della scienza.
Per Brennan - che riprende ed aggiorna la tradizione elitista - la democrazia è discutibile e non merita alcuna difesa.
Egli avanza le seguenti considerazioni:
“– alla maggior parte delle persone la partecipazione politica non apporta beneficio alcuno. Al contrario, non fa bene per niente perché tende piuttosto a istupidirci e corromperci. Ci trasforma in nemici nell’arena civile e ci dà motivo di odiarci l’un l’altro;
– i cittadini non possiedono un diritto fondamentale a votare o a concorrere per incarichi pubblici. Il potere politico, perfino nell’infima quantità implicata dal diritto di voto, deve avere una sua giustificazione. Il diritto di voto non è come le altre libertà civili, ad esempio la libertà di parola, di culto o di associazione;
– sebbene ci possano essere forme di governo intrinsecamente ingiuste, la democrazia non è l’unica forma di governo intrinsecamente giusta.
Un suffragio illimitato, eguale, universale – in cui ciascun cittadino ha automaticamente diritto a esprimere un voto – è per molti versi, a una prima analisi, moralmente discutibile. Il problema … è che il suffragio universale incentiva la maggior parte degli elettori a prendere le decisioni politiche in condizioni di ignoranza e irrazionalità, imponendo queste scelte a persone innocenti. Un suffragio illimitato, uguale e universale sarebbe giustificato soltanto se non potessimo concepire un sistema che funzioni meglio.”
Sintetizza con scetticismo la condizione dell’uomo liberale:
“Il liberalismo filosofico è quella concezione secondo cui ogni individuo possiede una sua dignità, fondata su ragioni di giustizia, che gli garantisce tutta una serie di libertà e diritti, i quali non possono essere calpestati alla leggera, nemmeno per perseguire un bene sociale più grande.
Questi diritti sono come delle briscole: impediscono agli altri di sfruttarci, di interferire con la nostra vita o di farci del male, anche nel caso in cui ciò arrecasse loro beneficio.
Nel discorso americano contemporaneo alle volte utilizziamo la parola liberal per indicare chi è di sinistra, ma in filosofia politica il termine si riferisce a coloro che pensano che la libertà sia il valore politico fondamentale. Solitamente i liberal sostengono, sulla scia di Mill, che dovremmo lasciare che le persone compiano scelte sbagliate finché non fanno del male che a sé stesse.”
E qui si arriva al fulcro dell’argomentazione critica contro la democrazia:
“Giustificare la democrazia richiede un lavoro ancora più grande (di quello relativo alla giustificazione dei diritti): dobbiamo spiegare perché alcune persone hanno il diritto di imporre cattive decisioni agli altri. In particolare, per giustificare la democrazia abbiamo bisogno di spiegare perché è legittimo imporre su persone innocenti decisioni prese in modo incompetente.”
Ma l’epistocrazia cosa comporta?
Per Brennan si tratta di questo:
“Epistocrazia significa governo di coloro che sanno. Più precisamente, un regime politico è epistocratico nella misura in cui il potere politico è formalmente distribuito secondo le competenze, la capacità e la buona fede di agire sulla base di quelle capacità. Aristotele obiettò a Platone (che sosteneva la necessità del governo dei re filosofi) che, anche se il governo dei re filosofi è il migliore, nessun re filosofo esisterà mai.
Semplicemente, le persone reali non sono abbastanza sagge o buone da occupare quel ruolo, né, a differenza di quanto riteneva Platone, possiamo educarle in modo che ci assicuri che diventino sagge o buone.
Aristotele aveva ragione: provare a fare di qualcuno un re filosofo è un’impresa disperata. Nel mondo reale, governare è troppo difficile perché qualcuno ci riesca da solo. Peggio ancora, se nel mondo reale affidassimo a una certa carica il potere discrezionale di un re filosofo, quel potere attirerebbe il tipo sbagliato di persone – persone che ne abuserebbero per i propri scopi.
Ma l’argomento a favore dell’epistocrazia non si regge sulla speranza che esista un re filosofo o una casta di guardiani. Ci sono molte altre possibili forme di epistocrazia che si presenta quindi come una sorta di correttivo alla democrazia:
– suffragio ristretto: i cittadini possono legalmente acquisire il diritto di voto e concorrere per le cariche pubbliche solo se giudicati competenti (attraverso qualche sorta di processo) e/o sufficientemente ben informati. Questo sistema ha un governo rappresentativo e istituzioni simili alle democrazie moderne, ma non assegna a tutti il potere di votare. Ciononostante il diritto di voto è diffuso, forse altrettanto che in una democrazia;
– voto plurimo: al pari che in una democrazia, ogni cittadino ha un voto. Ma alcuni cittadini, quelli che sono giudicati (attraverso qualche processo legale) più competenti o meglio informati, hanno voti addizionali. Fu Mill, ad esempio, a difendere un regime di voto plurimo. Come discusso poc’anzi, egli pensava che la partecipazione politica avrebbe nobilitato le persone. Era preoccupato, tuttavia, che molti cittadini fossero incompetenti e troppo poco istruiti per fare scelte intelligenti nella cabina elettorale. Perciò propose di dare più voti alle persone più istruite;
– suffragio per sorteggio: i cicli elettorali si susseguono normalmente, tranne per il fatto che nessun cittadino ha automaticamente diritto di voto. Subito prima delle elezioni migliaia di cittadini sono sorteggiati per diventare pre-elettori. I pre-elettori possono poi guadagnarsi il diritto di voto, ma solo se partecipano a esercitazioni per l’acquisizione di competenze, ad esempio dei forum di discussione con altri cittadini;
– veto epistocratico: tutte le leggi sono sottoposte a una procedura democratica tenuta da un corpo democratico. Tuttavia un corpo epistocratico, riservato a pochi membri, conserva il diritto di veto sulle regole stabilite dal corpo democratico;
– voto soppesato o governo per oracolo simulato: tutti i cittadini possono votare, ma devono al contempo essere sottoposti a un test delle conoscenze politiche di base. I loro voti sono soppesati sulla base delle loro conoscenze politiche oggettive, magari con un controllo statistico relativo all’influenza di etnia, reddito, sesso e/o altri fattori demografici.
Vi sono tre principi a favore dell’epistocrazia:
Principio di verità: ci sono risposte corrette a(d almeno alcune de)lle questioni politiche.
Principio di conoscenza: alcuni cittadini possiedono maggiori conoscenze a proposito di queste verità, o sono più affidabili di altri nello scoprirle.
Principio di autorità: quando alcuni cittadini possiedono maggiori conoscenze o sono più affidabili, è lecito assegnare loro autorità politica su quelli che hanno una conoscenza minore.
Potrebbe rifiutarsi il terzo principio – quantomeno nel nomen - perché autoritario, ed accettare un principio antiautorìtario così formulato:
Principio di antiautorità: quando alcuni cittadini sono moralmente irragionevoli, ignoranti o politicamente incompetenti, è lecito non consentire loro di esercitare autorità politica sugli altri. O impedendo loro di detenere il potere o riducendo il potere che hanno al fine di proteggere persone innocenti dalla loro incompetenza.
Il mondo dominato dalla tecnica rende queste riflessioni drammaticamente attuali o impone di prendere sul serio J. Dewey se vogliamo rilanciare l’utopia democratica.
La crisi dei partiti e la crisi della partecipazione politica, il difficile rapporto fra economia e democrazia stanno incidendo profondamente sulle radici del potere costituzionale come concepito in Occidente, la competizione con le società autoritarie asiatiche fa il resto.
Il potere politico nella società tecnocratica tende ad essere distribuito in modo diseguale.
Il ruolo degli ingegneri informatici come progettisti sociali è solo la punta dell’iceberg.
Naturalmente non è desiderabile tale ineguaglianza nella dotazione dei diritti politici.
Brennan affronta questo tema ed osserva pragmaticamente che: “anche se tempo addietro molte persone sono state escluse dal potere politico per ragioni sbagliate, ora potrebbero esserci buone ragioni per escluderne dal potere altrettante o per assegnare loro una porzione di potere più piccola.”
La linea delle correzioni epistocratiche poi non comporta affatto meno Stato. Comporta farsi carico del problema della partecipazione consapevole.
“Per esprimere un voto davvero consapevole bisognerebbe saperne di più su ciò che un candidato difende, su ciò che ha fatto in passato e su ciò che intende fare in futuro. Un elettore bene informato dovrebbe essere in grado di valutare se le politiche preferite dal candidato sarebbero in grado di promuovere, o finirebbero per impedire, il verificarsi degli obiettivi che l’elettore sostiene. Ad esempio, supponiamo che io sappia che i candidati Smith e Colbert vogliono entrambi migliorare l’economia, ma Smith attraverso il libero scambio, mentre Colbert attraverso il protezionismo. Non posso fare una scelta ragionata fra i due senza sapere se è più probabile che l’economia si giovi del libero scambio o del protezionismo. Per saperlo, però, dovrei studiare economia. O supponiamo che entrambi i candidati Friedman e Wilson vogliano ridurre il crimine nei quartieri difficili, ma Friedman interrompendo la guerra alla droga, mentre Winston intensificandola. Anche qui, per esprimere un voto consapevole dovrei saperne di criminologia, di economia e sociologia del mercato nero, e di storia del proibizionismo.”
Penso che quest’esempio sintetizzi bene il serio problema posto dall’epistocrazia.
Preferirei tuttavia, prima di abbandonare il terreno dell’uguaglianza dei diritti politici, che si prendesse davvero sul serio la massima einaudiana “conoscere per deliberare” nella democrazia rappresentativa classica, ravvivando nello stesso tempo le visioni del mondo che hanno avuto un valore orientativo generale nella storia del Novecento, mediante una riforma della forma partito che garantisca una maggiore osmosi fra società civile e politica.
La crisi della politica si combatte con più società civile e con partiti meno oligarchici e più osmotici.
8. Paideia democratica
Già si è detto del nesso fra educazione e democrazia.
Lontano tuttavia appare il ruolo della scuola ipotizzato da J. Dewey che nella sua opera “Democrazia e educazione” porta a compimento i suoi fondamentali interessi per le questioni educative e per la teoria della democrazia, già preannunciata nel fondamentale saggio del 1888 The Ethics of Democracy.
L’educazione, per John Dewey, non è solo il luogo espresso nella scuola, che è considerata il «laboratorio della democrazia», così come il filosofo l’aveva teorizzata nel periodo della scuola-laboratorio di Chicago (1896-1903), ma è il senso stesso della democrazia intesa come «a way of life», un modo di vivere.[33]
Egli teorizzò un’educazione democratica per una democrazia che non si risolvesse semplicemente nel diritto di voto, ma si realizzasse ponendo tutti in condizioni eguali nella lotta contro le difficoltà della vita.
Non può esserci scuola democratica se non in una società democratica, e non può esserci società democratica se non con una scuola democratica, che educhi i giovani al significato profondo della partecipazione, della socialità e della corresponsabilità.
La crisi dei rapporti umani e l’incapacità di relazionarsi attraverso legami solidi e strutturati, impone di considerare nuove prospettive di pratica educativa nella società postmoderna, con l’obiettivo di proporre una idea altra circa il progetto di costruzione del cittadino responsabile, fondato sull’educare alla cittadinanza democratica.
Questa illuminata ma – non lo si nega - utopistica prospettiva umanistica sta o cade con l’idea dell’empatia quale fondamentale istinto dell’animale uomo, con la marginalizzazione delle spinte verso la logica della forza e della competizione esasperata, con la rivitalizzazione di quel che resta del progetto costituzionale di Stato sociale.
E se la scuola è stata criticata, e ben a ragione, dalle visioni convivialiste dell’educazione, promosse da I.Ilich, non è per abbatterla ma per aprirla ed arricchirla, facendone prayica sociale diffusa che vivifica le istituzioni.
La ragione alta della permanenza del diritto amministrativo contemporaneo con la sua funzione al di là del mero diritto privato non risiede tanto nel recupero – pur necessario – dell’autorità della decisione o anche del ruolo dell’istituzione, quanto piuttosto nel dispiegarsi delle sue caratteristiche di diritto della cura, della cucitura del legame sociale, attraverso il riesercizio del potere dopo l’annullamento dei provvedimenti connotati da vizi di legittimità.
E ciò importa non perdere la centralità della logica del servizio pubblico – anche immediatamente realizzato dal privato sociale - quale centro della giurisdizione amministrativa, affermato dalle riforme Bassanini e dalla legge n. 205 del 2000 seguita poi dal codice del processo amministrativo e dal consolidamento della giurisdizione esclusiva.
La lotta per la democrazia – scrive Kelsen – è storicamente una lotta per la libertà politica, cioè per la partecipazione del popolo all’attività legislativa ed esecutiva». In questa lotta si incontra la questione dell’educazione quale presupposto non formale della democrazia procedurale[34].
Collaborazione alla formazione della volontà dello Stato, dunque, non mero consenso. E che alla formazione della volontà statale si possa solo “partecipare”, secondo Kelsen, è già l’inevitabile torsione realistica della promessa di autonomia che l’ideale della libertà viene a contrarre in quanto autodeterminazione politica.
Se infatti è pur vero che democrazia e parlamentarismo non sono la medesima cosa e che una democrazia senza parlamento è concepibile (come fu per la democrazia degli antichi) oggi il Parlamento è comunque la forma che la democrazia tende ad assumere nello Stato moderno.
Il parlamentarismo si rivela quindi l’unica possibile forma reale in cui l’idea di democrazia possa essere attuata nell’odierno contesto sociale.
Alla sorte del parlamentarismo è quindi legata la sorte della democrazia, ma la sorte del parlamentarismo è legata alla costruzione di quello che Guido Calogero chiamava un “buon democratico” (nell’ABC della democrazia) onde evitare la degenerazione oligarchica dei partiti e del parlamentarismo e la conseguente disaffezione dei cittadini.
La democrazia, e in genere la politica, non è una cosa che stia per conto proprio, come una stella o un pezzo di pane.
La democrazia – diceva G. Calogero - è una maniera di comportarsi, un modo di agire di Caio o di Tizio o di Sempronio rispetto a Sempronio o a Tizio o a Caio o al loro gruppo unito. Non c’è la democrazia o la non-democrazia, c’è l’uomo che agisce più o meno democraticamente. La domanda “Che cosa è la democrazia?” si risolve perciò in quest’altra domanda: “che cosa debbo fare per essere un buon democratico?”
La logica parlamentare, contrapposta agli interessi corporati, considera la volontà politica come il prodotto insuperabile della dialettica partitica, di quelle formazioni collettive e intermedie, cioè, che raccolgono e interpretano le uguali volontà dei singoli individui.
Pur fatte salve le tendenze autocratico-aristocratiche che Roberto Michels così bene aveva rilevato e descritto nella sua Soziologie des Parteiwesens[35], Kelsen è ben fermo nel ritenere come il destino della democrazia non sia in nessun modo separabile dalla sopravvivenza del pluralismo partitico.
«L’ostilità alla formazione dei partiti e quindi, in ultima analisi, alla democrazia», scrive Kelsen, «serve – consciamente o inconsciamente – a forze politiche che mirano al dominio assoluto degli interessi di un solo gruppo e che, nello stesso grado in cui non sono disposte a tener conto degli interessi opposti, cercano di dissimulare la vera natura degli interessi che esse difendono sotto la qualifica di “interesse collettivo”, “organico”, “vero”.
Il pluralismo partitico si mantiene vivo osteggiando la natura oligarchica dei moderni partiti schiavi dei finanziamenti privati che hanno consentito l’emersione dei soggetti economico imprenditoriali che tendono ad assumere ruoli apertamente politici oscurando una caratteristica del liberalismo che consiste nella separazione (non solo dei poteri ma anche) della politica dall’economia e dell’economia dalla cultura.
La cultura non deve seguire solo la logica di mercato ma deve trovare un contesto istituzionale nel quale vivere e prosperare in modo autonomo, favorendo la cittadinanza attiva, al limite esperendo anche spazi di anarchica e feconda convivialità che non neghino la centralità della scuola ma la vivifichino.
L’essenza della democrazia è nel pluralismo e nel dialogo, nel metodo parlamentare, e la premessa di un buon dialogo è l’apertura all’Altro, la capacità di ascolto, il lascito che, sul piano del messaggio cristiano ci ha lasciato Papa Francesco fra le sue ultime parole.
9. Tecnica: emancipazione od oppressione?
La centralità della questione della tecnica ha connotato il dibattito nell’epoca novecentesca delle guerre mondiali, pensiamo alle parole di Ernst Jünger ne “I prossimi Titani” egli nel rifiutare il Kulturpessimissmus della cultura della decadenza, coglie nelle due guerre mondiali, come guerre di materiali, condotte per forza di innovazioni tecniche, uno scontro fra potenze industriali.
Si ricorda la necessità di un attivismo eroico e la frase di Marx secondo il quale non sarebbe stata più concepibile l’Iliade dopo l’invenzione della polvere da sparo. La guerra si presenta nel suo aspetto di puro annientamento.
Rivolta contro i popoli.
La tecnica – secondo Jünger – è “la magica danza che il mondo contemporaneo balla”.
Egli definisce la nostra come una società massificata che necessita per questo di élite molto ristrette destinate a svolgere una funzione importantissima, nel senso che quanto più cresce la massificazione tanto più grande è la forza ed il valore spirituale di quei pochi capaci di sottrarvisi.
Del secolo nel quale siamo immersi Jünger non aveva una visione troppo positiva. Un medioevo molto propizio per la tecnica ma sfavorevole per lo spirito e la cultura.
Un’epoca di Titani: il Titano che riposa nel grembo della Terra in Pane e Vino di Hölderlin.
“L’uomo sostiene l’empito dei Numi, in epoche alcune. Indi, ritorna la vita un sogno che li sogna.... Pure, giova l'error, siccome il sonno giova.
E la Notte e il Dolore hanno potenza d’ irrobustir gli uomini, insino a quando non sia cresciuta nelle bronzee culle una stirpe d’ Eroi: gagliardi cuori simili, in forza, ai Numi.”
Nell’evo medio della tecnica – dice Jünger – i poeti potranno dormire, si sveglierà il Titano.
Le figure del Lavoratore, uomo all’altezza della tecnica che la usa nella vita quotidiana e dell’Anarca che si rifugia nel mondo interiore, nel mondo delle Lettere, sono le tipologie d’uomo che Jünger immagina nell’età che ormai stiamo vivendo.
L’elemento anarchico che ribolle nel fondo dell’umano viene visto come fattore di liberazione ma anche di dissoluzione.
L’Anarca è anche il grande solitario, il santo stilita, l’eremita, l’uomo che a che la vita è perdere per possedere. Il non possessivo. Il povero votato allo Spirito.
Per Jünger lo Stato mondiale – non la federazione di Stati del Kant della Pace perpetua – è il punto verso il quale tende l’organizzazione politica dell’umanità fra tanti conflitti.
La tecnica in quanto fenomeno universale cosmopolitico spinge inesorabilmente verso la globalizzazione, prepara lo Stato mondiale anzi in un certo senso lo ha già realizzato.
Non è detto – per Jünger – che all’apparire dello Stato mondiale gli Stati particolari scompariranno solo che diverranno realtà politiche di secondo piano.
Il mondo si sta riorganizzando secondo una logica che rivela il senso di questa transizione, una logica che allo Stato nazione sostituisce Imperi multinazionali (Stati Uniti, Russia, Cina).[36]
Da questa ristrutturazione politica della spazialità normativa dipenderà il valore emancipativo od oppressivo della tecnica, dominata da poteri privati, da imprese multinazionali che svolgono di fatto una funzione pubblica e che più che mai necessitano di essere conformate dalla politica per poter salvaguardare una dimensione sociale che protegga i public goods, per non essere i poteri selvaggi che finirebbero per divorare se stessi.
10. Regolazione
Centrale sarà la regolazione ed anche la partecipazione dei privati a queste attività.
Centrale sarà il PPP in epoca di risorse scarse fino alla creazione di un debito europeo.
Centrale sarà mantenere i servizi pubblici e farli evolvere nel nuovo contesto delle reti tecnologiche.
Fabrizio Cafaggi[37] ha distinto tre modelli di attività regolatorie partecipate da privati.
tre diverse modalità di coinvolgimento dei privati nei processi regolativi:
1) Un primo, forse più noto, che si traduce nella consultazione dei soggetti interessati, in particolare dei regolati selezionati discrezionalmente dal regolatore pubblico ovvero in forza di veri e propri diritti di partecipazione (è il modello delle attuali amministrazioni indipendenti ; autorità legittimate dalla tecnica).
2) Un secondo, in cui i soggetti privati, organizzati in veri e propri sistemi di autoregolazione o regolazione privata, svolgono la propria attività indipendentemente e separatamente dal regolatore pubblico ma adottando qualche forma di coordinamento diretto (attraverso accordi) o indiretto (attraverso il ruolo del giudice che trasferisce alcuni standard, definiti in sede autoregolamentare, al regolatore pubblico ovvero impone alla regolazione privata l’applicazione di alcune garanzie proprie dei procedimenti regolativi pubblici derivanti dai principi di imparzialità e trasparenza).
3) Un terzo, in cui regolatori pubblici e privati cooperano nell’ambito di un processo regolativo unitario, svolgendo, congiuntamente o in modo coordinato, le funzioni tipiche della regolazione.
In quest’ambito si distinguono co-regolazione, delega di regolazione e riconoscimento dell’autoregolazione da parte del regolatore pubblico.
Nel diritto della futura deregolazione che sta prendendo sempre più piede nel mondo della nuova oggettività il secondo ed il terzo modello rimpiazzeranno il primo.
Il diritto della regolazione sarà sempre più un diritto misto pubblico-privato.
Il diritto antitrust dovrà essere rivisto introducendo misure strutturali in luogo delle mere sanzioni pecuniarie.
Il fisco dovrà essere ripensato in epoca di declino del lavoro subordinato classico di tipo salariato.
Il Lavoratore jüngeriano sarà sempre più un ingegnere. La massa dei disoccupati creati dalla tecnica dovrà essere protetta mediante politiche redistributive se non si vuole militarizzare la società.
La forza e la coscienza comunque si scontreranno nel teatro della storia come ha descritto Stefan Zweig in Castellio contro Calvino. Il tipo del letterato ed il tipo dell’ingegnere si contenderanno il campo dei nuovi dilemmi etico-giuridici.
Nuovi linguaggi matematizzanti e basati su regolarità statistiche ambiranno a sostituire il diritto di impronta storico umanistica.
L’uomo del sottosuolo descritto da Irti ciononostante tenterà sempre di riemergere.
Il giurista ha il compito storico di far sopravvivere in questa difficile condizione il sogno del Soggetto moderno, facendo, insieme alla politica che deve sapere recuperare la sua autonomia, la sua parte nel far sì che la storia umana non abbia fine e non finisca il desiderio e la dinamica – talvolta conflittuale ma sempre transitoriamente – del riconoscimento.
Solo così all’era del Kratos dispiegato succederà un nuovo momento di riconoscimento empatico dovuto alla grande energia di Eros, che, come insegnano Eraclito ed il Platone del Simposio[38], è da sempre la vera forza civilizzatrice quando unita alla necessaria temperanza.
[1] Byung -Chul Han La società senza dolore, perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Torino, 2021.
[2] Carlo Baldini, uno straordinario poeta italiano scomparso troppo presto, ha profeticamente costruito con ironia il proprio Manuale di autodistruzione, cfr. C. Baldini, Manuale di autodistruzione, Roma, 1998 narrando di una relazione d’amore tossica. Egli ha invitato a “non sentirsi troppo utili”, e soprattutto, in modo antibeckettiano, a non considerare il fallimento come un titolo di merito. Ha cantato la meta di “un’esistenza frustrata ed inoffensiva, animata da piccoli rancori, ma privi di risvolti antisociali, caratterizzata da respiri brevi e poco profondi”. Un ritratto del Nessuno dei nostri tempi. Un antieroe. Un antiUlisse. Qui si tocca il tema di una possibilità rinascita dal Soggetto moderno, tema dal quale tutto dipende.
[3] S. Foà, G. Montedoro Dialogo sulla nuova oggettività. Napoli 2024.
[4] R. Kagan Paradiso e potere. Europa ed America nel nuovo ordine mondiale, Milano 2003.
[5] Ne “Il Tempo e la Grazia” Masullo distingue tra l’esperienza intesa come «attraversamento» e l’esperienza intesa come «senso vissuto». Nel primo caso si attraversa una «prova» e si può sedimentarla in uno stabile giudizio su ciò che è stato provato. Siamo nel campo del «semantico». Nel secondo caso l’esperienza è patire: «soffrire», provare, sperimentare una trasformazione. Siamo ne campo del «patico», dell’affettivo.
Tra l’esperienza che produce una rappresentazione, una significazione a posteriori di ciò che è stato vissuto, introducendo una cronologia, e il vissuto che è senso in se stesso (un «significato» senza codici conoscitivi, un conoscere che non è rappresentare, concepire ma vissuto puro che esperisce il mondo), Masullo colloca la vita sul versante di quest’ultimo:
«Ma la vita smembrata in una successione cronologica di momenti isolati non è più vita così come un racconto cinematografico risolto nella molteplicità dei fotogrammi che formano la pellicola non è più né cinema né racconto. La vita non come sequenza di posizioni spaziali sostituentisi le une alle altre “nel tempo”, ma appunto come vita vissuta non è nel tempo, non è una sequenza cronologica, bensì è “il” tempo».
La vita non è nel tempo, nella successione cronologica di fatti o stati d’animo. La vita è il tempo vissuto: un tempo continuo che scorre, ma non passa. Si potrebbe dire che la vita è nel «tempo inattuale» (l’unico in cui possiamo davvero dirci «contemporanei»): essere insieme nel passato e nel presente, convivere con le implicazioni del futuro già germogliate nella nostra esperienza.
[6] Mounk, Yascha. La trappola identitaria: Una storia di potere e idee del nostro tempo (p.12). Milano, Feltrinelli Editore. Edizione del Kindle.
[7] Mounk, Yascha. La trappola identitaria: Una storia di potere e idee del nostro tempo (p.21). Milano, Feltrinelli Editore. Edizione del Kindle.
[8] G. Calogero Filosofia del dialogo, Brescia. 2015-2020.
[9] J. Raws Il diritto dei popoli, Torino, 2002.
[10] A. Azara Gli automi nel diritto privato: dal distributore automatico al fenomeno della tokenizzazione Il foro napoletano, 2/2022.
[11] Su cui I. McEwan Macchine come me, Torino, 2020. E si pensi al Regolamento sull’AI.
[12] G. Montedoro, Il diritto pubblico fra ordine e caos, Bari 2018.
[13] Su cui S. Foà e G. Montedoro dialogo sulla nuova oggettività, Napoli, 2024.
[14] Sul tema si conta di tornare in un prossimo lavoro sulla decisione in corso di elaborazione.
[15] N. Irti Sguardi nel sottosuolo, Roma 2025.
[16] Si tratta di un problema noto come problema della Teodicea ossia del problema filosofico della giustificazione di Dio. Se c’è Dio perché c’è il male? Scomparso Dio la storia umana si è eretta – a Norimberga – a giudice e ci h a regalato il diritto internazionale che usiamo. I limiti di questa operazione secolare che ha portato all’espansionismo giudiziario ora in crisi ed anche pericolosamente contestato (con il rischio di buttare il bambino con l’acqua sporca) sono evidenti ed intrinseci alla questione del nichilismo giuridico e di un mondo che, rimasto senza dimensione trascendente dopo aver superato l’oscurità della teologia politica, non riesce più nemmeno a concepire una dimensione di progresso umano che non sia legata alle macchine ed all’oggettività economica. Cfr. su questi temi, ma in prospettiva ottimista rispetto alle opportunità emancipatorie offerte dalla tecnica A. Schiavone, Occidente senza pensiero, Bologna, 2025 che guarda come molti alla liberazione dal lavoro umano e stigmatizza il ritardo del pensiero giuridico politico alla Hobbes ed a la Locke. Sulla tribunalizzazione del mondo come esito della Teodicea nel tempo secolare O. Marquard A. Melloni, La storia che giudica la storia che assolve, Bari, 2008.
[17] Sull’idea di progresso J. Bury Storia dell’idea di progresso Napoli 2018.
[18] A. Schiavone. Progresso (Parole controtempo) . Società editrice il Mulino, Spa. Edizione del Kindle.
[19] Ancora A. Schiavone op. ult. cit.
[20] Nel 1936 Georges Friedmann – uno studioso importante, tra i fondatori della sociologia del lavoro in Europa – poteva pubblicare un saggio, peraltro assai acuto, intitolato La crise du progrès. Esquisse d’histoire des idées: 1895-1936: una scelta impensabile fino al 1914 (in verità Georges Sorel aveva scritto già nel 1908 Les illusions du progrès:
Si avviava in tal modo una linea di interpretazioni che, sia pure con molte differenze, sarebbe arrivata sino a Raymond Aron, con il suo Les désillusions du progrès. Essai sur la dialectique de la modernité, apparso molto più tardi, nel 1969 E lo stesso lavoro di John Bagnell Bury, The Idea of Progress. An Inquiry into its Origin and Growth, del 1920, prima citato nell’edizione italiana, pur non ostile nei riguardi del concetto esaminato, non mancava di prenderne le distanze, allontanandosi da ogni nozione che non fosse nello stesso tempo problematica e relativizzante.
[21] Le Goff, voce «Progresso/reazione», in Enciclopedia, a cura di R. Romano, Torino, Einaudi, 1980, vol. XI, pp. 198-230 .
[22] N. Irti Sguardi nel sottosuolo, Roma, 2025 nota poeticamente con toni che ricordano la situazione esistenziale dell’uomo dostoevskjano. che altro ormai non resta che la libertà di “dire no” alla tirannia di qualsiasi apparato.
“Qui l’uomo incontra se stesso nella propria sostanza individuale e indistruttibile.
Il bosco è dappertutto; non c’è uno spazio appositamente dedicato all’esercizio della libertà. Ciò che conta è la decisione individuale, il rifiuto di lasciarsi ridurre a funzione tecnica. L’individuo se ne sente protetto; sfugge, gli sembra di sfuggire, al controllo tecnologico del mondo di sopra, in una sfera “privata”, che è, appunto, “priva”, ossia libera e spoglia di tutte le verifiche – quantitative, statistiche, numeriche – indagini di mercato e attribuzioni di “rating”. Ciascuno si stima e valuta per ciò che è, si confronta con altri (se vuole e crede), e può toccare brividi di esaltazione o cupi abissi di nullità. A codesto stato profondo corrisponde il diritto della singolarità e identità: che non significa soltanto – come appare da nostre notazioni – delle piene ed energiche particolarità, ma anche del disperdersi, frantumarsi, annichilirsi. Né sorgono fremiti di rivolta contro il mondo di sopra, il quale è vissuto (vissuto, più che ragionato) come una necessità incontestabile, una natura artificiale, posta accanto alla natura del nascere e morire, e, al pari di essa, forte del suo essere e del suo eterno ritorno. La seconda “natura”, fatta dall’uomo con fabbriche e mercati, apparati tecnologici e intelligenze artificiali, sta e si svolge al di sopra del livello stradale, ed ha il timbro di una inesorabile meccanicità, di un ossessivo funzionare. Contro di essa si sono levate insurrezioni cruente, dolorosi e lirici abbandoni, utopie e passioni liberatorie; ma essa sta lì, indulgente spettatrice, consapevole d’una sua intima volontà, mirante al domani. L’individuo o ne scampa al tutto, ritornando in quella che fu chiamata umanità di lusso; o la rifiuta con un gesto camusiano di disperato orgoglio; o vi entra per il vincolo di competenze e di prestazioni funzionali. Ma sempre si affaccia e si sporge nel sottosuolo, sicuro o illuso di trovare o ritrovare sé stesso, perché dentro gli preme l’ansioso demone dell’identità, di un io che possa dire io. Chiamare il diritto alla protezione dell’io nulla ha da vedere con il senso dello Stato, o consimili moti dell’animo: è il semplice uso di un rimedio, di quel poco o molto che lo “stare” insieme e l’organizzato convivere possono ancora offrire. Un diritto “usato”, ma non avvertito né considerato nelle sue connessioni istituzionali. Come uno schermo difensivo che per caso si trovi a nostra disposizione.
[23] Sul tema cfr.. M. Filoni L’azione politica del filosofo. La vita ed il pensiero di Alexandre Kojève, Torino, 2022 in particolare il capitolo 7 Fine della storia.
[24] Si tratta di un richiamo al libro di C. Castoriadis L’istituzione immaginaria della società Milano 2022.
Cornelius Castoriadis nato ad Istanbul nel 1922; cofondatore del gruppo e della rivista dell’estrema sinistra francese “Socialisme ou Barbarie”; economista all’OCSE; psicanalista e Directeur d’études all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, Castoriadis può essere senza dubbio annoverato fra i più importanti pensatori del secondo Novecento. Ad aver dialogato con lui, non a caso, troviamo intellettuali del calibro di Claude Lefort, Jürgen Habermas, Paul Ricœur o ancora Edgar Morin. Molti altri pensatori contemporanei ne sono ancora direttamente influenzati; è il caso, per esempio, di Serge Latouche, di Pierre Lévy, di Slavoj Žižek. Il suo pensiero è, inoltre, sempre più al centro del dibattito accademico attuale, dato soprattutto il rinnovato interesse scientifico per il concetto di “istituzione”
I destini generali sono menzionati da G. Mazzoni Destini Generali, Bari Roma, 2015.
[25] Su questo tema cfr. C. Iannello Lo stato del potere. Politica e diritto al tempo della post-libertà, Milano, 2025.
[26] C. Galli Il disagio della democrazia, Torino, 2011.
[27] La massa moderna – che per Canetti è superamento della paura di essere toccati e quindi anche potenza comunitaria e rivoluzionaria, ma con rischio totalitario, ed ha i suoi antecedenti naturalistici nelle mandrie, nei campi di grano, nelle abetaie esposte al vento, nel volo degli stormi degli uccelli, nei cori delle chiese medievali - crede che il progresso sia qualcosa di irreversibile: questo progresso va in realtà mantenuto; la politica richiede mediazione e ragionamento, mentre l'uomo-massa concepisce la politica solo come azione diretta. Non rispetta, cioè, chi discute, non è disposto a mettere in gioco le proprie idee.
La novità politica in Europa consiste nel venir meno delle discussioni, nel superamento della democrazia liberale come democrazia discutidora: questo è il regime che piace all'uomo-massa, un regime che attesta una verità sulla quale convenire facilmente.
A tutto questo si contrappone il liberalismo: lo scopo della politica dovrebbe essere quello di rendere possibile la convivenza, attraverso la discussione; bisogna avere il diritto di dissentire. Prima vengono gli individui, poi la collettività. Il liberalismo è “il più nobile appello che sia risuonato nel mondo” in quanto convive con l'avversario, accetta l'avversario e gli dà cittadinanza politica; è un bene, infatti, che esista un'opposizione. La massa, invece, odia a morte ciò che gli è estraneo: non dà cittadinanza politica a chi ha opinioni dissenzienti. Concezione dialogica che si ritrova anche in G. Calogero L’Abc della democrazia. Milano, edizione di Kindle.
Noi viviamo per Ortega nell'epoca del “signorino soddisfatto”: pensa a tutto lo Stato, lui non deve badare a nulla, si deve limitare ad essere conformista. Tale individuo è un “bambino viziato”: dà per scontati benessere e progresso, crede che la vita non necessiti di competizione e che non sia necessario che i migliori debbano emergere. Il progresso non è una cosa facile, la massificazione, invece, induce a ritenerlo. Lo Stato è il maggior pericolo per chi vuole uscire dal coro: non è più un mezzo (come nella concezione liberale) ma è ormai diventato un fine.
L'uomo-massa riceve dallo Stato tutto e ciò lo induce all'omologazione e alla mancanza di attivismo; rischia di dimenticare che lo Stato non può risolvere tutti i problemi, l'individuo-massa sbaglia perché “delega in bianco”. Lo Stato assorbe anche la società civile e l'individuo non ha più uno spazio dove far crescere e dimostrare le proprie capacità. Massa e Stato si identificano e mettono a rischio la nuda vita con le loro pretese crescenti ed oggettive. Oggi allo Stato dobbiamo sostituire o aggiungere – per capire – le forze oggettive della tecnica e delle dinamiche di mercati oligopolistici.
[28] Irti Sguardi nel sottosuolo Roma, 2025 ove si incontra il seguente passo per descrivere lo stato del diritto attuale – confinato nel sottosuolo dalla tecno-economia, ed afflitto da intrinseca contraddizione fra esigenza di ordine ed anarchismo dell’Io: “sullo strato più alto, il diritto urta contro la funzionalità degli apparati, che esigono e tollerano soltanto competenze tecniche; ed invece nel sottosuolo il piccolo io vuole e disvuole, lo teme e invoca a protezione, lo chiama e insieme lo respinge.
Il frenetico vitalismo del sottosuolo, o il suo nascondersi negli anfratti della vita, non sono terreno propizio per l’ordine totale delle norme. Certo immoralismo o a-moralismo è incompatibile con qualsiasi disciplina giuridica, che appare come violenza sopraffattrice e impositrice.”
[29] P. Maddalena La rivoluzione costituzionale. Alla riconquista della proprietà pubblica, Sant’Arcangelo di Romagna, 2020.
[30] AAVV La domanda inevasa. Dialogo tra economisti e giuristi sulle dottrine economiche che condizionano il sistema giuridico europeo a cura di L. Antonini Bologna, 2016, ove il saggio di M. Luciani Il costituzionalismo e l’economia dal divampare della crisi ad oggi che ben a ragione critica gli eccessi del neo costituizionalismo o costituzionalismo dei diritti che fa perdere di vista l’importanza della dimensione dello Stato (che, tuttavia, sta, o cade, con l’autonomia del politico e con l’intreccio delle politiche statuali alla dimensione istituzionale sovranazionale, l’unica in grado di governare la complessità della tecno- economia globale). Sull’importanza della costituzione economica europea fra gli altri AAVV La costituzione economica: Italia Europa, a cura di C. Pinelli e T. Treu, Bologna 2010 (si era tuttavia in un’altra fase storica).
[31] H.H. Hoppe, Democrazia . il dio che ha fallito, Macerata, 2005.
[32] J. Brennan Contro la democrazia, edizioni del Kindle.
[33] L’educazione ha quattro dimensioni secondo Giuseppe Spadafora A proposito di Democracy and Education di John Dewey. Le premesse per la scuola democratica del futuro in Scuola democratica, n. 3 del 2016.
Le dimensioni sono adattamento, socializzazione, direzione, crescita.
In primo luogo è una «necessità della vita», nel senso che rappresenta un processo di continuo auto rinnovamento ed è, di conseguenza, un fenomeno naturale, al pari del mangiare, del bere e del riprodursi.
Essa si sviluppa attraverso la trasmissione e la comunicazione di valori da una generazione all’altra (Dewey, 1916: 7).
Il secondo significato dell’educazione, collegato al precedente, è quello della «funzione sociale». Ciò significa che l’individuo, adattandosi continuamente all’ambiente, diventa sempre più specifico alle sue situazioni di vita e sempre più diverso e caratterizzato nei confronti degli altri individui, così come era stato intuito dal filosofo nel testo del 1896 sull’Arco Riflesso.
Mentre l’individuo si sta adattando all’ambiente, egli rappresenta una parte di una dimensione sociale più complessiva, che è formata dalle tradizioni pregresse e dalla costante azione di scambio che egli sviluppa nel suo ambiente sociale.
La scuola, in questa prospettiva, è ritenuta un ambiente speciale che coordina la famiglia, la scuola e la società nel sistema complessivo culturale e politico. Una funzione sociale senza una specifica direzione non ha senso.
La ‘direzione ‘è il terzo modo di intendere l’educazione ed è un modo significativo, in quanto pone con chiarezza il problema dei valori verso cui necessariamente bisogna tendere per essere educati. È questo un problema che Dewey affronta e definisce con maggiore chiarezza in Experience and Education del 1938, ma che ha proprio nel concetto di ‘direzione ‘un antecedente fondamentale. La direzione democratica deve tendere allo sviluppo di empatia e capacità di dialogo.
Il quarto modo di intendere l’educazione è la ‘crescita ‘che presenta due aspetti caratteristici e fondamentali: l’educazione non ha altro sviluppo se non all’interno di se stessa, proprio perché il processo educativo rappresenta un processo continuo e progressivo, sia dal punto di vista biologico con le varie fasi della crescita (growth), sia dal punto di vista dell’azione intenzionale dell’individuo nell’ambiente in cui vive (growing) (Dewey, 1916: 55).
[34] H. Kelsen, La democrazia (1927), in Il primato del parlamento, Milano, 1982, p. 32. Cfr. anche Federico Lijoi Parlamentarismo ed educazione alla democrazia. Riflessioni su Hans Kelsen La cultura n. 2 del 2011.
[35] R. Michels, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie: Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens, Leipzig 1911. Lijoi precisa, al proposito, che “la difesa kelseniana del parlamentarismo non lesina suggerimenti di riforma per migliorarne il meccanismo rappresentativo: referendum legislativo sulla deliberazione parlamentare (non sulla legge già in vigore), maggiore spazio all’iniziativa popolare, proposta di un controllo permanente sui deputati da parte di gruppi di elettori organizzati in partito politico, abolizione dell’immunità parlamentare” (cfr. H. Kelsen, Il problema del parlamentarismo, cit., pp. 178 ss.). Mi soffermo sull’ultimo problema per notare che il conflitto di interessi è stato regolato a proposito delle amministrazioni e delle cariche d Governo ma non coinvolge i parlamentari e lo scudo immunitario per loro previsto dalla Costituzione che li vuole rappresentanti della Nazione mentre purtroppo le cronache consegnano all’opinione pubblica lo spettacolo di notevoli intrecci fra mondo economico e mondo politico, intrecci sempre esistiti ma che attualmente arrivano al contemporaneo svolgimento di attività economiche parallele all’attività politica . Senza arrivare all’abolizione dell’immunità sarebbe opportuno pensare ad una normativa costituzionale o regolamentare parlamentare dei conflitti di interesse.
[36] La transizione alla forma imperiale è stata vista lucidamente anche da Kojeve. Cfr. M. Filoni, op. ult. cit. pag. 230 Il progetto imperiale di un’Europa Latina. Oggi forse di uno spazio politico europeo in grado di fronteggiare gli Imperi nascenti che tendono ad operare al di fuori delle regole internazonali riconosciute finora secondo una logica di pura potenza.
[37] F. Cafaggi Un diritto privato europeo della regolazione? Coordinamento tra pubblico e privato nei nuovi modelli regolativi in Politica del diritto, n. 2 del 2004.
[38] Su Eros come forza fondante il diritto Kelsen L’amor platonico, Bologna 1985, pag. 47 ove si trova il seguente passo: “Educare gli uomini con l’amore, amarli educandoli e fare della loro comunità una comunità fondata sull’amore: questo fu l’anelito di una vita (quella di Platone) i cui obiettivi consisterono nel formare l’uomo e nel riformare la società.” Il bene comune e la giustizia sono l’unica giustificazione del dominio dell’uomo sull’uomo. Quindi la paideia è condizione della politeia.
Eros non è quindi – soggiunge Kelsen – l’attrazione che spinge l’uno verso l’altro due esseri di diverso sesso, ma di una sorta di φιλία che nasce da un impulso omoerotico represso (Kelsen pone a fondamento della civilizzazione il governo temperato dell’amore omosessuale – diffuso fra gli antichi e liberato nella modernità - perché i più forti impulsi etici nascono dalla consapevolezza di inclinazioni devianti). Ma – prescindendo dalle opinioni datate di Kelsen sull’Eros omosessuale deviante – resta nel Simposio la lezione di temperanza che Socrate impartisce ad Alcibiade, esemplare episodio di paideia antica, nel quale si esprime la sublimazione dell’Eros che è la fonte di ogni incivilimento.
Immagine: particolare da Paul Klee, Angelus novus, olio su tela e acquerello su carta, 1920.
In occasione della nomina del Primo Presidente della Cassazione riteniamo sia utile offrire alla lettura il discorso tenuto dal consigliere Antonello Cosentino all'adunanza plenaria del 4 settembre 2025.
Il discorso dà conto del ruolo della Cassazione nel nostro Paese e di come Pasquale D'Ascola ne incarni il profilo più adatto a presiederla, non solo per il ventennale esercizio delle funzioni di legittimità ma soprattutto per la sua innata attitudine al dialogo con l'accademia e l'avvocatura.
"Dalla Cassazione passa, prima o poi, tutta cronaca e tutta la storia del nostro Paese. La Cassazione orienta la giurisprudenza e orienta il paese", ciò riesce bene se si valorizza l'ascolto e il confronto.
La redazione
"Grazie Signor Presidente,
prima di tutto vorrei ringraziarLa per l’onore che ci regala presenziando a questa seduta del Consiglio, come sempre Ella fa quando il Consiglio è chiamato a pronunciarsi su questioni di particolare rilevanza.
Rivolgo un saluto grato e, se mi permettete, affettuoso alla Prima Presidente Margherita Cassano; questo Plenum l’ha già salutata, tributando il giusto riconoscimento ad una personalità e ad un percorso professionale davvero straordinari; ma anche oggi, nell’ultimo Plenum a cui Ella partecipa, non posso non ringraziare la Presidente Cassano per averci sempre aiutato - e parlo solo dell'attività svolta nel CSM, perché di tutto il resto ci saranno poi altre sedi per parlare - a portare il livello del dibatto consiliare oltre la routine burocratica e a sollevare lo sguardo verso i principi etici e giuridici che debbono guidare l’azione del CSM e l’azione dei magistrati.
La Cassazione è un ufficio di rilevanza strategica nella geografia giudiziaria del Paese.
Lo è perché, da sola, gestisce parte significativa, molto significativa, dei flussi di affari che compongono il contezioso civile e penale nazionale, come del resto abbiamo toccato con mano in occasione delle recenti delibere prese da questo Plenum per potenziare la capacità del nostro apparato giudiziario di raggiungere gli obbiettivi imposti all'Italia dai vincoli del PNRR.
Lo è perché è l’ufficio di vertice del sistema delle impugnazioni; in tale veste, tra l’altro, interlocutore necessario, e non meramente eventuale, della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Lo è perché giudice di ultima istanza, in quanto tale custode ultimo dello jus litigatoris, “organo supremo della giustizia”, secondo la lapidaria definizione dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario.
Ma la Cassazione non è soltanto un ufficio di rilevanza strategica nella geografia giudiziaria; è un ufficio di rilevanza strategica nella geografia culturale del Paese.
La Cassazione orienta la giurisprudenza e la giurisprudenza orienta la vita.
Dalla Cassazione passa, prima o poi, tutta cronaca e tutta la storia del Paese.
Dalla Cassazione passa il mutamento della società italiana, e chiunque abbia avuto la fortuna di lavorare in Cassazione lo sa.
In questa prospettiva la nomina del primo presidente della Corte di cassazione non può esaurirsi in una valutazione legata ad un approccio formalistico.
Nel caso in esame, lo dirò fra breve, la valutazione che mi induce ad esprimere il mio consenso per la proposta di nomina del dott. D’Ascola è una valutazione fortemente ancorata ai dati di testo unico.
Ma qui c'è anche un tema di modello culturale.
Il dott. Mogini è un magistrato che ha raccolto una stima enorme in tutte le funzioni che ha svolto nel corso della sua lunga esperienza giurisdizionale. Come sempre accade, quando si tratta di nominare gli apicali di legittimità, è una scelta fra eccellenze. Ciò detto, i criteri indicatori fissati dal testo unico sono, a mio avviso, assolutamente univoci. Il presidente D'Ascola ha più esperienza di legittimità, più esperienza di presidenza di sezione, più esperienza di titolarità di una sezione, è presidente aggiunto della Corte.
Ma, al di là di questo, il presidente D'Ascola ha attraversato il lungo e in largo l’intera storia del diritto civile del Paese; ha interloquito per decenni con l'Avvocatura; ha costruito, in continuo dialogo con l'Accademia - e penso ad Andrea Proto Pisani, penso a Sergio Chiarloni, penso a Giorgio Costantino - la trama degli osservatori del processo civile, la trama del dialogo tra magistratura e avvocatura. Il dottor D'Ascola ha lavorato fortemente sulla formazione dei magistrati, quando ancora quasi nessuno (a parte la presidente Cassano e pochi altri) lo faceva (la formazione fatta dal CSM, non quella, fatta 15 anni dopo, dalla Scuola Superiore della magistratura); è stato uno dei pionieri del dialogo continuo tra giurisprudenza e Accademia; le sue sentenze, soprattutto quelle delle sezioni unite, sono commentatissime, studiatissime, dibattutissime.
La sua nomina, in questo momento, rappresenta, a mio avviso, la definizione di un modello di magistrato immerso nella realtà del giudizio, nel rapporto con l'Accademia, nel rapporto con la società.
E penso che sia il profilo giusto per la presidenza della Corte di cassazione".
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