ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro
I paragrafi 1 e 7 sono opera di Roberto Giovanni Conti, quelli da 2 a 6 di Mario Serio ma l’intero commento è frutto di piena e ragionata condivisione delle riflessioni ivi svolte.
La prima sezione civile della Corte di Cassazione, interpellata sulla base di un rinvio pregiudiziale effettuato ai sensi dell'art.363 bis c.p.c. dal Tribunale di Roma, ha chiarito con l'articolata sentenza n.33398 del 19 dicembre 2024 quali poteri residuino al Giudice chiamato a pronunciarsi sull'impugnazione del rigetto in via amministrativa della domanda di protezione internazionale relativamente alla conferma o alla smentita nel caso di specie della designazione attraverso uno strumento normativo di un paese come sicuro. Là pronuncia scorre lungo i binari del rigore argomentativo, saggiamente alimentato dalla necessaria affezione a principi fondativi del nostro ordinamento giuridico, già risalenti alla legge abolitiva del contenzioso amministrativa del 1865, e collega la questione ad un versante di rilevanza costituzionale, quale quello della protezione internazionale in funzione sia di garanzia del diritto d'asilo sia in relazione alle insopprimibili garanzie di tutela di diritti fondamentali della persona. Le conclusioni di carattere generale, nitidamente rivolte anche in direzione applicativa concreta, cui la Cassazione è pervenuta corroborano la diffusa linea interpretativa dei giudici di merito che non hanno inteso cedere alla tentazione di risolvere le questioni afferenti alla protezione internazionale riparandosi dietro l'acritica adesione alla designazione di “paese sicuro” ratione temporis affidata ad un atto amministrativo ed hanno, pertanto, rinverdito poteri cognitori incisivi e diretti a scopi di “enforcement” costituzionale. In ultima e rasserenante analisi il tratto della centralità dei diritti e della dignità umani ha il benefico sopravvento su linee ed indirizzi, non giurisprudenziali, che, anche sull'impeto di onde emotive, adottano scale di valori ed obiettivi molto differenti ed altrettanto eterogenei. La stessa sentenza offre un illuminante esempio della proficuità degli esiti del rinvio pregiudiziale di cui all'art.363 bis c.p.c., così contribuendo al consolidamento del proficuo dialogo tra giudici di merito e giudici di legittimità, ancor più fruttuoso se condotto, come in questo caso, sotto l'egida del diritto eurounitario e dei principi costituzionali.
Sommario: 1. La genesi di Cass.n.33398/2024 - 2. Inquadramento dell'oggetto dell’indagine - 3. L’occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art.363 bis c.p.c. - 4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione di paese sicuro in funzione della protezione internazionale - 5. Le linee argomentative della sentenza 33398/2024 della Corte di cassazione nel conflitto tra le possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate in via accelerata ed i loro effetti applicativi - 6. Il senso ampio delle conclusioni decisorie - 7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.
1. La genesi di Cass.n.33398/2024
La sentenza impugnata si inserisce in un panorama giurisprudenziale che aveva espresso indirizzi non uniformi in ordine al potere disapplicativo da parte del giudice ordinario della designazione di paesi sicuri contemplata, in attuazione dall’art. 2 bis d.lgs. n. 25 del 2008, dal d.m. 4 ottobre 2019, poi modificato con d.m. 17/03/2023 e dal d.m.7 maggio 2024, salvo a lasciare il campo al d.l.n.145/2024, convertito con modificazioni dalla l.n187/2024.
Quanto al piano UE, la nozione di Paese sicuro, dapprima introdotta dalla direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 1° dicembre 2005 con gli artt. 29 - disposizione invalidata da Corte giust. UE, 6 maggio 2008, causa C-133/06, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea – 30 e 31, è stata regolata dalla direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 (cd. direttiva procedure) con gli artt.36 e 37, individuando la cornice entro la quale può inserirsi la nozione di Paese di origine sicuro e le conseguenze di tale nozione sulle procedure di valutazione delle domande.
Proprio in forza dell’allegato 1, richiamato dall’art.37 ult. cit., gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta di designare Paesi di origine sicuri, stabilendo che «Un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di “non-refoulement” conformemente alla convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.»
Cass. n.33398/2024 interviene, sollecitata dal Tribunale di Roma, in sede di rinvio pregiudiziale ex art.363 bis, c.p.c., per dare risposta al quesito sollevato dal Tribunale di Roma all’interno di un ricorso per l’ottenimento della protezione internazionale presentato da un cittadino di un paese terzo (Tunisia) inserito nell’elenco dei paesi di origine sicuri.
Il giudice di merito chiedeva alla Corte di cassazione di chiarire se il giudice ordinario avesse titolo per disattendere il decreto ministeriale nella parte in cui stabiliva la designazione di paese sicuro e dunque valutare, anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria ed eventualmente anche in caso di mancanza di contestazione, sulla base di informazioni sui paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, se il paese incluso nell'elenco sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia.
Il dubbio interpretativo rivolto alla Corte di cassazione nasceva dalla constatazione, esternata dal giudice del rinvio, che il complesso contesto normativo, eurounitario e nazionale, era stato oggetto di controversa interpretazione, non solo all’interno del giudizio, ma più in generale anche fra le diverse sezioni distrettuali specializzate e di diversi collegi delle stesse sezioni specializzate.
In questa prospettiva, il Tribunale capitolino evidenziava che l’incertezza appena rappresentata aveva trovato ulteriore implicita conferma in alcuni passaggi motivazionali espressi dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 11399/24, anch’essa resa in sede di procedura di rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Bologna, ove si era ritenuto che le «condizioni che legittimano la procedura accelerata e consentono, quale conseguenza, la deroga al principio (generale) della sospensione del provvedimento della Commissione territoriale» devono essere oggetto di «stretta osservanza della possibilità di azione delle deroghe». Specificava, ancora, il giudice del rinvio che “in tale contesto la Suprema Corte, pur ritenendo di non poter «compiutamente affrontare» la complessa questione aveva dato spazio alla possibilità che il giudice, quando il richiedente contesti la natura “sicura” del paese di origine, o anche d’ufficio, debba, «anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria, comunque valutare detta natura, anche in presenza di inserimento del paese negli elenchi contenuti nei decreti ministeriali a ciò destinati (si tratta peraltro di decreti necessitanti di continuo aggiornamento) ».
Da qui le ragioni poste a sostegno della richiesta di rinvio pregiudiziale correlate, dunque, alla diversità di indirizzi interpretativi sulla questione della sindacabilità del d.m. in ordine alla natura “sicura” dei paesi ed alla pluralità di ricorsi sottesi alla medesima questione oggetto del rinvio. Alla necessità di dare risposta ai dubbi di natura tecnico-giuridica si aggiungevano, secondo il giudice remittente, ragioni «anche di opportunità, del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, che appare nella specie estremamente utile al fine di dare indicazioni alle Sezioni specializzate dei Tribunali distrettuali su una questione controversa e relativa ad un numero assai ampio di cause, anche in ordine alla definizione del giudizio interlocutorio avente ad oggetto l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, quando non siano stati invocati motivi personali che permetterebbero di superare, per il singolo richiedente, la presunzione (juris tantum) di sicurezza del paese ai sensi del comma 5 dell’art 2 bis D.lvo n. 25/2008. »
2. Inquadramento dell'oggetto dell'indagine.
La sentenza cui è dedicato il presente scritto esibisce più di uno spunto di interesse per i giuristi sia perché fornisce una chiara individuazione dei presupposti giustificativi del ricorso all'innovativo strumento del rinvio pregiudiziale alla stessa corte di legittimità previsto dall'art.363 bis c.p.c., nonché dei conseguenti esiti applicativi in termini di posizione del principio di diritto applicabile ai fini della risoluzione del giudizio d'origine, sia perché l'oggetto della controversia che ha innescato il rinvio puntava verso una materia dibattuta, divisiva, manipolata anche a fini estranei ad una disamina da svolgersi esclusivamente in confini tecnici. Del primo aspetto, centrale nella ridefinizione del ruolo della nomofilachia e nella attribuzione di mezzi indiretti per la definizione di giudizi di merito ragionevolmente preclusivi della necessità e dell'utilità di ulteriori ricorsi alla sede di legittimità dirà appresso Roberto Conti; pertanto, l’attenzione delle considerazioni che seguono sarà devoluta alla questione centrale dei rapporti tra definizione in via normativa (prima amministrativa e dal 23 ottobre 2024 legislativa) di un antecedente logico-giuridico (la designazione del paese d'origine come sicuro) per la risoluzione di questioni attinenti al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale del richiedente e poteri istruttori, valutativi e decisori del giudice di merito competente. Del resto, la circostanza che lo stesso giudice di merito rinviante abbia avvertito l'apprezzabile scrupolo di acquisire un criterio vincolante per la decisione della causa testimonia la rilevanza, e l'incertezza, del tema. E proprio l'incertezza, seppur declinata sotto il profilo della concorrenza di più linee interpretative difformi, sta alla base della fruizione dello strumento di recente offerto dall'art.363 bis c.p.c. la cui plausibilità è stata attestata dal provvedimento della prima presidente della corte di cassazione che, nel ritenere soddisfatti i requisiti stabiliti dalla norma da ultimo citata, ha al contempo sottolineata l'assenza di precedenti orientamenti di legittimità e la gravità e complessità interpretativa della questione di cui si sta per dire. Aspetti, questi, di cui ha mostrato piena consapevolezza la Procura Generale presso la stessa corte attraverso una esauriente memoria scritta depositata dalla Avvocata Generale cui ripetutamente ha fatto adesivo riferimento la sentenza in esame.
3.L'occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 363 bis c.p.c.
Il procedimento principale da cui ha preso le mosse il rinvio pregiudiziale verteva su una materia di frequente ricorrenza e come tale bisognosa di quell'indirizzo chiaro che la corte di cassazione ha finito con l'imprimere. In particolare, il Tribunale di Roma è stato investito dell'impugnazione, da parte di un cittadino proveniente dalla Tunisia, paese definito sicuro dalla normativa vigente al tempo processualmente rilevante, della decisione reiettiva della domanda di protezione internazionale da parte della Commissione territoriale competente. Il provvedimento di rigetto è stato, a propria volta, emesso nell'ambito di un procedimento instaurato ai sensi dell'art.28 ter del d.lgs.25 del 2008 sotto il profilo della manifesta infondatezza della domanda in quanto proposta da persona proveniente da un paese designato come sicuro dal decreto interministeriale del 7 maggio 2024 e priva dell'allegazione di fondati motivi atti a contraddire tale definizione. Anche nell'impugnazione, accompagnata dalla richiesta in via cautelare della sospensione dell'efficacia del provvedimento della commissione territoriale, non erano state profilate specifiche ragioni relative alla compromissione della posizione individuale del richiedente, essendosi, piuttosto, fatto riferimento alla generale situazione del paese d'origine, quale desumibile da circostanze obiettivamente sintomatiche di un'involuzione in senso autoritario delle istituzioni, con conseguente estensione dei loro effetti pregiudizievoli alla generalità dei cittadini.
Il Tribunale di Roma articola il proprio percorso in direzione del rinvio pregiudiziale assumendo come premessa logico-giustificativa il contesto genetico del giudizio, ossia quel particolare procedimento che, in virtù della previsione degli effetti derivanti dall'avvenuta inclusione del paese d'origine del richiedente tra quelli sicuri alla stregua dell'art.2 bis del citato d.lgs.25 del 2008, implica l'utilizzazione di una forma cosiddetta accelerata di definizione dell'istanza. Ora, proprio in questa contrazione procedurale il Tribunale identifica motivatamente una significativa compressione del diritto di difesa: la spiegabile prospettiva, sembra potersi ragionevolmente desumere, è quella dell'aggravamento dell'onere probatorio incombente sul richiedente, solo da assolvere attraverso il superamento della presunzione (seppur relativa) di sicurezza implicata dall'atto normativo. Così impostato lo scenario del giudizio, si rivela del tutto congruo il successivo sviluppo logico della premessa del Tribunale: se l'ostacolo all'accoglimento della domanda va ravvisato nel decreto interministeriale di designazione dei paesi sicuri ed al tempo stesso tale fonte costituisce il parametro decisorio del caso di specie, al giudice va attribuito il compito di intervenire ermeneuticamente sulla stessa, onde coglierne il significato e determinarne il livello di incidenza. In altri termini ciò che occorre è una verifica frontale dell'ambito di efficacia della fonte stessa ed i limiti della sua vincolatività nei confronti del giudice stesso. Lo stesso Tribunale mostra piena conoscenza della fenditura riscontrabile nella stessa giurisprudenza di merito circa i poteri esercitabili in siffatto contesto dal giudice dell'impugnazione, che potrebbe vedersi stretto nella morsa alternativa della sindacabilità, o meno, del testo che designa i paesi sicuri.
Alla luce di questi dilemma il quesito rimesso alla soluzione della corte di cassazione va così riassunto: se, in ogni caso in cui rilevi, ai fini della pronuncia sulla domanda di protezione internazionale sulla quale sia intervenuta una decisione amministrativa di rigetto in esito ad una procedura accelerata per manifesta infondatezza ai sensi dell'art.28 ter del d.lgs. 25Del 2008,la designazione per decreto ministeriale come paese sicuro di quello d'origine del richiedente, il giudice ordinario sia vincolato a tale designazione ovvero gli spetti di esercitare il proprio ordinario potere istruttorio, affiancato dal dovere delle parti di cooperazione istruttoria e dall'accesso ad informazioni sul paese d'origine aggiornato al momento della decisione. E ciò al fine di valutare se il paese incluso nell'elenco sia effettivamente sicuro alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia, che sussista o meno specifica contestazione sul punto da parte del richiedente.
Sull'ammissibilità del sindacato valutativo si è espressa positivamente l’Avvocata Generale.
L'amministrazione dell'Interno ha rilevato in via generale che l'autorità giudiziaria non può sostituirsi alle valutazioni amministrative, tranne che emergano elementi capaci di denunciare l'irragionevolezza della designazione in quanto contraria al diritto comunitario ovvero siano evidenti ragioni di insicurezza del paese d'origine connesse alla situazione personale del richiedente. Si aggiunge, quanto ai profili di insicurezza per così dire di carattere generale, che il sindacato giurisdizionale trova un limite nell'attendibilità delle scelte amministrative, mentre pieno sarebbe il potere cognitorio del Giudice in ordine alla condizione personale del richiedente.
L'esposizione precedente dovrebbe dar sufficientemente conto della drammaticità istituzionale del quesito-accentuata dal contorno ambientale, spesso venato da interferenze polemiche, nel quale ogni vicenda afferente alla regolamentazione dei flussi migratori finisce con il collocarsi-che inevitabilmente si spinge sul territorio della separazione dei poteri dello stato: più esattamente, e giudicando ex post, si sarebbe potuto spingere se, al contrario di quanto per fortuna accaduto in ragione del lungimirante equilibrio della sentenza, la materia fosse stata contaminata da astratti furori ideologici o da rivendicazioni di supremazia, entrambi nemici delle rigorose caratteristiche del giudizio di legittimità.
Tuttavia, il momento stesso della formulazione del quesito comportava una sua così spiccata attrazione nell'alveo di principi sovranazionali e di schietto contrassegno costituzionale che la sua trattazione non poteva sottrarsi al riferimento ad una ben delineata tavola di valori dai quali era impensabile esulassero sentimenti di genuina solidarietà umana, tutti chiaramente ricompresi nella protettiva capsula della Costituzione stessa. Di questo si ha, come si vedrà, irrefutabile conferma nell'ordito della pronuncia.
4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione normativa di paese sicuro in funzione della protezione internazionale.
La prima preoccupazione da cui è stata avvinta la corte di cassazione è stata quella di reperire il fondamento normativo multilivello cui ancorare il proprio modello decisorio. Operazione immancabile non solo per rendere tecnicamente solida la soluzione del quesito, in adempimento della propria funzione di garanzia dell'uniforme applicazione del diritto oggettivo nazionale e, per diretta ricaduta, del sommo principio di eguaglianza tra i cittadini, ma parimenti necessaria per cogliere e disciplinare i nessi interordinamentali suggeriti dalla materia e necessitanti scelte conformi e compatibili con la prospettiva eurounitaria e con gli obblighi internazionalmente assunti dall'Italia.
A dar risposta a tale preoccupazione la sentenza ha atteso traendo il primo passo dalla dichiarazione dell'inglobamento all'interno della Costituzione (il cui disegno non per caso è acutamente definito “personalista” per la rilevanza assegnata al valore del cittadino in quanto persona) dei diritti dello straniero la cui dignità gli dà titolo a trattamenti solidali ed all'accoglienza, costituenti in via diretta suoi diritti fondamentali. Tra di essi si staglia naturalmente il diritto d'asilo nel territorio della Repubblica allorquando a tale cittadino sia impedito l'effettivo esercizio nel suo paese delle medesime libertà democratiche garantite in Italia dalla Costituzione.
Lo snodo è brillante e determinante nell'intera economia della sentenza: esso, infatti, crea il raccordo logico preliminare tra la posizione soggettiva dello straniero (del tutto eguagliabile, quanto alla tutela dei diritti fondamentali, a quella del cittadino italiano, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale) e le varie fonti che possano frapporsi alla relativa, piena realizzazione: e naturalmente tra esse, vanno annoverate quelle, sovranazionali o interne, che classificano i paesi d'origine in rapporto alla sicurezza. In particolare, del diritto d'asilo viene rintracciato la sicura sponda internazionale (Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati del 1951) e comunitaria (Direttiva 95 del 2011) ed anche la nozione interna strutturata in termini di protezione sussidiaria e temporanea per chi, pur sprovvisto dei requisiti per essere definito rifugiato, corra rischi di subire gravi danni nel proprio paese. D’altra parte, l'elasticità dell'area di inveramento della protezione internazionale viene felicemente confermata dalla direttiva europea 115 del 2008 che estende le forme tipiche ad ipotesi che gli stati membri ritengano meritevoli per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura.
Ancora una volta la sentenza procede secondo un andamento sillogistico poiché, in perfetta simmetria rispetto alla così delineata condizione giuridica dello straniero, fa discendere una direttamente proporzionale competenza incrementale del giudice nazionale, promosso al ruolo di garante dell'effettività nel singolo caso dei diritti del richiedente asilo che fugge dal proprio paese e cerca legittima protezione nell'ambito dell'Unione europea. Il richiamo all'effettività dei diritti, come contrapposta, per mutuare dall'immaginifica espressione di Rodolfo Sacco, ad un vuoto carattere solamente declamatorio, è argomento finalistico che imbeve di sé l'intera sentenza e ne consolida l'assetto dispositivo finale, dotandolo di un puntello non sradicabile. Non può sembrare antitetica a questa tensione verso la pienezza di tutela degli stranieri che versano nelle condizioni appena descritte l'affermazione secondo cui “Alle istituzioni democratiche e rappresentative, attraverso le quali si esprime la sovranità popolare, spetta il compito di gestire il fenomeno migratorio, disciplinando i flussi anche nei riflessi sulla sicurezza della comunità nazionale, in un quadro di libertà, di giustizia e di cooperazione internazionale fondata sul riconoscimento di valori comuni, assicurando l'efficienza del sistema nazionale di accoglienza e realizzando condizioni materiali di effettiva integrazione di chi ha titolo per restarvi”.
Il passaggio merita di ricevere una particolare riflessione. Per due ragioni principali, entrambe cospiranti verso il risultato di accreditare alla sentenza l'attitudine a soddisfare complessivamente le insistenti aspettative di chiarezza ed autorevolezza che da più e non coincidenti parti attorno ad essa si nutrivano. La prima e preminente consiste nella riaffermazione che la cooperazione internazionale, da attuarsi nel quadro dei valori di libertà e giustizia, fondativi della civiltà di un'esperienza giuridica, debba fondarsi sui cardini dell'efficienza del sistema di accoglienza e sulla conseguente, immancabile aspirazione al risultato della effettiva, vale a dire piena, integrazione delle persone che vi sono ammesse. Viene così spazzato ogni possibile dubbio su consistenza e portata dell'obiettivo fondamentale dell'integrazione intesa quale epilogo dell'accoglienza e non come semplice, stentata eventualità destinata alla perdurante sminuizione della persona e della personalità dello straniero titolare della protezione internazionale. La seconda ragione ha a che vedere con il leale, e davvero mai dubitato, riconoscimento in capo alle istituzioni democratiche e rappresentative della sovranità popolare del compito gestorio del fenomeno migratorio. Va da sé che a determinare la connessione tra le due ragioni non può che ergersi la concreta affermazione, sotto il profilo dell'effettività e pienezza della tutela del richiedente, della dignità della sua posizione, a propria volta frutto dell'applicazione degli indirizzi in materia di immigrazione.
La sequenza razionale della sentenza si dipana attraverso l'approccio alla individuazione della nozione giuridica di paese sicuro alla stregua del diritto europeo e recepita dal legislatore nazionale. Viene così in rilievo l'allegato I alla direttiva europea 2013/32 la quale considera sicuro un paese “se, sulla base dello status giuridico, dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell'articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano e degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Il medesimo allegato illustra anche i criteri corroborativi di tale definizione, attribuendo rilievo alla misura in cui viene offerta la protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti con riguardo alle pertinenti disposizioni legislative e regolamentari, al rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e, infine, all'osservanza del principio del “non refoulment”. A propria volta gli articoli 36 e 37 della direttiva in parola istituiscono il regime cui deve ispirarsi l'esame delle domande di protezione internazionale, fondato sulla presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese d'origine. Essa può essere efficacemente confutata dal richiedente che adduca gravi motivi attinenti alla sua situazione particolare. La ricaduta di tali disposizioni aventi funzioni di cornice negli ordinamenti interni degli stati-membri è nel senso che su di essi grava il dovere di riesaminare periodicamente la situazione nei paesi designati come sicuri e di consultare, in sede di esame delle singole domande di protezione internazionale, fonti di informazione affidabili, comprese quelle fornite da altri stati-membri e da altre competenti e qualificate istituzioni internazionali (EASO,UNHCR,Consiglio d'Europa,etc.).Nell'adempiere i propri obblighi comunitari l'Italia si avvale, sin dal 2018 della facoltà riconosciutale dalla direttiva 2013/32 citata di designare i paesi sicuri attraverso un decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell'Interno e della Giustizia. In sede di conversione nella legge 132 del 2018 del decreto legge 113 dello stesso anno è stata inserita la previsione di cui all'art.2 bis (facente parte della generale previsione dell'art.7 bis) che precisa la nozione di paese sicuro non appartenente all'Unione Europea come quello che, secondo il proprio ordinamento interno, ed in virtù dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, possa dimostrarsi in linea generale e costante estraneo ad atti di persecuzione, di trattamenti inumani o degradanti, pericoli di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale. Valgono anche per il diritto italiano, che li ha espressamente recepiti, i tre indici prima trascritti dall'allegato I della direttiva 2013/32.
L'atto implementativo delle disposizioni generali prima riportate, applicabile in ragione del tempo della sua emanazione alla fattispecie, è il decreto ministeriale del 7 maggio 2024 che comprende la designazione dei paesi in quel momento sicuri: sfugge al perimetro normativo di rilevanza per la sentenza (e, di conseguenza, del presente saggio) il diritto sopravvenuto costituito in particolare dalla legge 9 dicembre 2024 n.187 che ha convertito con modificazioni il decreto legge 11 ottobre 2024 n.145 recante disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela ed assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali.
Con questo retroterra normativo, che attinge ad una concezione eurounitaria del diritto, la Corte di Cassazione si è misurata nell'assolvimento della propria funzione dirimente il rinvio pregiudiziale.
5. Le linee argomentative della sentenza 33398/20224 della corte di cassazione nel conflitto tra espansione e compressione nel conflitto tra possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate con procedura accelerata ed i loro effetti applicativi.
L'incalzare della forza dei vari segmenti integranti la linea di pensiero seguita dalla sentenza non poteva che portare la corte di cassazione a porsi l'interrogativo della rilevanza, nello stretto recinto processuale del caso concreto da cui ha tratto origine il rinvio pregiudiziale, della designazione di un paese come sicuro nell'ottica della delibazione della domanda di protezione internazionale. È del tutto intuitivo, infatti, che a maggiori conseguenze sul piano dell'assetto della generale posizione soggettiva del richiedente derivanti da tale qualificazione debba corrispondere una crescente accuratezza del sindacato giurisdizionale e, ancor prima, un dovizioso soppesamento delle ragioni legittimanti tale attività.
Il più immediato e consistente effetto che ne discende è quello, cui si è prima fatto cenno, dell'abdicazione al rito ordinario proprio del procedimento amministrativo in favore di quello accelerato che, poggiando su una presunzione di affidabilità dell'elenco ministeriale, contamina di un pregiudiziale alone di manifesta infondatezza la domanda di protezione internazionale: questo si risolve in una indiscutibile compromissione delle facoltà difensive del richiedente, esposto, tra gli altri, all'ulteriore rischio dello svolgimento del procedimento addirittura alla frontiera, al dimidiamento dei termini per l'impugnazione del provvedimento di rigetto (che può essere motivato col semplice riferimento alla provenienza dello straniero da un paese sicuro),alla perdurante efficacia dello stesso pur a fronte dell'impugnazione in sede giurisdizionale (fatta salva la concessione dell'inibitoria in quella sede). È allora evidente che, malgrado l'effetto decongestionante degli adempimenti da adottare nella regolamentazione dei flussi migratori cui tende la normativa interna, essa, da un lato causa la compressione delle posizioni soggettive prima delineate, e, d'altro lato, viene promossa al rango di elemento discriminante ai fini dell'accoglimento della domanda in quanto se il giudice dell'impugnazione fosse dispensato o impedito di effettuare una verifica di congruità della designazione non potrebbe che pervenire in forma acritica e meccanica alla conferma della decisione amministrativa. Già questa conformazione in forma automatica e di pura conseguenzialità materiale (censurata di recente dalla Corte Costituzionale in tema di effetti espulsivi dall'ordine giudiziario di magistrati condannati penalmente per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a due anni) renderebbe sostanzialmente apparente la tutela giurisdizionale e di conseguente spoglierebbe del fondamentale attributo dell'effettività dei diritti assicuratigli la condizione giuridica del richiedente la protezione internazionale in Italia. Si tratta di un argomento efficientista e contemporaneamente finalistico che avrebbe potuto dar luogo, in omaggio all'insopprimibile essenzialità del diritto alla tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive sancito dall'art.113 della Costituzione, ad una risposta affermativa al quesito sottoposto in funzione pregiudiziale dal Tribunale di Roma. Ed è difficile dubitare della forza intrinseca dell'argomento di salda radice eurounitaria e costituzionale al tempo stesso. Altrettanto difficile sarebbe immaginare che alla Cassazione possa essere rimasta nascosta una simile via d'uscita. Ma è anche vero che a molti non solo sarebbe potuta sembrare una sorta di scorciatoia argomentativa povera di quelle considerevoli implicazioni istituzionali, in larga parte influenzate da un dibattito fin troppo effervescente svoltosi fuori dalle aule di giustizia ed all'interno di altre, e sistematiche che la gravità della questione a viva voce suggeriva.
Ed in questa consapevolezza la Cassazione non si è sottratta al quesito di cui in questa sede, abbandonando il vellutato linguaggio curiale della sentenza, si vuole riportare con crudezza l'intima dimensione così condensabile: la lista dei paesi sicuri racchiusa nel DM 7 maggio 2024 (in quanto atto logicamente e cronologicamente antecedente alla domanda di protezione internazionale) è verità intangibile che fuoriesce dall'ordinario circuito proprio della delibazione giurisdizionale, sì da ritagliarsi una nicchia di assertività avalutativa che preclude al giudice qualunque forma di controllo critico in sede di cognizione? Ovvero pienezza dell'attività delibativa e critica del giudice e pienezza ed effettività della posizione del richiedente la protezione internazionale costituiscono un'unità logica e sistematica inscindibile la cui preservazione soltanto può garantire il pieno rispetto della normativa sovranazionale ed interna di rango costituzionale? I corollari conseguenti alla speculare adesione all'una o all'altra delle opzioni ricognitive del compito del giudice dell'impugnazione del diniego di protezione internazionale non hanno bisogno di un'analitica esposizione perché a renderne vivida l'importanza basterebbe far ricorso al dilemma se il pieno esercizio dell'attività giurisdizionale in funzione di sindacato in via incidentale della legittimità dell'azione amministrativa le cui radici risalgono alla legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865 (che, come opportunamente ricordato dalla sentenza, le stesse sezioni unite ritengono estensibile anche alle liti tra privati e pubblica amministrazione, oltre che a quelle interindividuali) possa soffrire un così sensibile depauperamento con le deteriori conseguenze di sistema prima indicate.
La Cassazione non ha volto il proprio sguardo altrove e, attraverso un serie di concatenati ed ordinati passaggi motivazionali, ha saputo pervenire ad una soluzione che, senza in alcun modo mortificare, anzi sublimando, la pienezza della funzione di baluardo garantista della giurisdizione, non ha scosso alle fondamenta il sistema di stabilità e tenuta del sistema democratico fondato sulla separazione dei poteri che una non altrettanto meditata scelta avrebbe potuto-anche contro le intenzioni dell'autore-determinare.
La continuità logica della serrata “ratio decidendi” è tale che anche un'esposizione sommaria non è in grado di farle torto.
Il primo dato, già ragionevolmente valorizzato in tutt'altro che sparute e fragili pronunce di merito, va ravvisato nella sentenza del 4 ottobre 2024 in c 406/2022 con cui la Corte Europea di Giustizia, nello statuire che l'art.37 della direttiva 2013/32 va interpretato nel senso che un paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come paese di origine sicuro per il solo motivo che si avvale del diritto di derogare agli obblighi previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, fa, tuttavia, salva la possibilità per lo stato-membro di valutare se le condizioni induttive di tale designazione interna in concreto accertate siano atte a mettere in discussione tale indicazione. In particolare, secondo la Corte di Lussemburgo, il diritto dell'Unione osta a che un paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro ove talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali della designazione enunciate nell'allegato I qui ripetutamente richiamato. La sentenza della Corte ha cospicuamente lambito il terreno processuale-e lo spunto è stato a piene mani colto dalla Cassazione-quando ha affermato che il giudice dello stato membro, adito per l'impugnazione di un provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale, è tenuto a porre a base della propria decisione tutti gli elementi acquisiti agli atti nonché portati a sua diretta conoscenza al fine di accertare se sia occorsa una violazione delle condizioni sostanziali della designazione di un paese come sicuro, benché la violazione stessa non sia stata espressamente fatta valere a sostegno del gravame.
Quest'ultima statuizione ha autorizzato la Cassazione ad indirizzarsi verso la precisa affermazione del potere-dovere del giudice della protezione internazionale di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi atti a indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale, non solo secondo le allegate condizioni personali del ricorrente, ma anche in base alla situazione generale del paese d'origine considerata rilevante. E quella che la stessa in una precedente pronuncia (25311 del 2020) aveva appropriatamente “doverosa potestà” non cessa di essere attiva per il solo fatto che l'inclusione di un paese tra quelli designati come sicuri sia il mero prodotto di informazioni unicamente vagliate in sede governativa.
Del resto, osserva la sentenza oggetto di commento, il DM del 7 maggio 2024 non gode dell'immunità dal sindacato giurisdizionale perché atto politico: tale carattere, proprio dei soli atti posti in essere da un organo costituzionale nell'esercizio della funzione di governo e, quindi, nell'attuazione dell'indirizzo politico, difetta nel provvedimento amministrativo ricognitivo dei paesi sicuri ed adottato in virtù dell'applicazione dei criteri individuati nella citata direttiva comunitaria del 2013.La disconosciuta natura di atto politico del decreto ministeriale ed il suo riconosciuto carattere di atto amministrativo disapplicabile ne consente la giustiziabilità con il connesso corteo di valutazioni giurisdizionali in ordine ai fatti posti a fondamento della designazione di un paese come sicuro. Là Cassazione lucidamente ricusa di cadere nella trappola che esegeti malevoli avrebbero potuto tenderle chiarendo che in ogni caso il giudice non sostituisce le proprie valutazioni soggettive a quelle espresse nel decreto ministeriale ed orienta il proprio accertamento all'esigenza di verificare che il potere risoltosi nella designazione non sia stato esercitato arbitrariamente o in modo incoerente rispetto ai criteri legittimanti l'inclusione di un paese nella lista di cui ci si occupa. Tale controllo rinviene la propria profonda radice giustificativa nel carattere pregiudiziale che ai fini della decisione dell'impugnazione del rigetto della domanda di protezione internazionale riveste la legittimità del decreto ministeriale, qualificato come antecedente logico-giuridico della domanda stessa. Che l'elusione di tale operazione non possa in alcun modo rientrare nella disponibilità del giudice è conclamato dalla circostanza che al suo cospetto viene il diritto costituzionalmente garantito d'asilo. La costruzione della motivazione della sentenza della Cassazione è congegnata secondo il sistema dei cerchi concentrici e della conseguenzialità argomentativa la cui ulteriore espressione sta nella proposizione secondo la quale la designazione di un paese sicuro non soltanto non è, per le ragioni appena esposte, vincolante per il giudice ma non può costituire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di quel paese, sicché la fondamentale indagine giudiziale deve proprio dirigersi verso il territorio delle condizioni che potrebbero attualmente sorreggere la designazione. Il precipitato logico del percorso decisorio del giudice la cui esplorazione istruttoria abbia deluso le aspettative di conferma della designazione come sicuro del paese d'origine del richiedente è, a giudizio della Cassazione, l'esercizio del potere, di stretto carattere processuale, di disapplicazione nel caso concreto del decreto ministeriale nella parte in cui ha incluso lo specifico paese della cui sicurezza si discute nella lista. La diretta conseguenza della disapplicazione dell’atto si riverbera sui suoi effetti dedotti in giudizio, ossia il diniego di protezione internazionale e, in via di priorità logica, la stessa ammissibilità della procedura accelerata, il cui presupposto-la provenienza del ricorrente da un paese sicuro- viene, in seguito alla penetrante indagine giudiziale, caducato. La sentenza ha cura di precisare che per stimolare tale attività di cooperazione istruttoria non può mancare l'onere di allegazione del ricorrente, specialmente adempiuto mediante la presentazione di una domanda oggettivamente qualificabile come di protezione internazionale. In tal caso, il giudice è chiamato ad accertare in concreto la pericolosità anche di solo una zona circoscritta del paese d'origine nonché la ricorrenza di condizioni afferenti al richiedente che, adeguatamente dedotte e dimostrate, circoscrivano alla sua persona la situazione di insicurezza del suo paese d'origine. Nella diretta misura nella quale il giudice pervenga a tale conclusione alla stregua del materiale probatorio comunque acquisito la sua non sarà attività di disapplicazione della fonte normativa ma dichiarativa della completa fondatezza, e del conseguente accoglimento, della domanda del richiedente, come si conviene ad un ordinario processo di cognizione piena.
A conclusione di questo compatto itinerario motivazionale così suona il principio di diritto formulato ai sensi dell'art.363 bis c.p.c.:” Nell'ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024 n.158,e alla legge 9 dicembre 2024 n.187,se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da paese designato come sicuro, il giudice ordinario, nell'ambito dell'esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all'art.37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall'autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale. Inoltre, a garanzia dell'effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l'istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l'insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest'ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale”.
6.Il senso ampio delle conclusioni decisorie.
Lo scandaglio gettato nelle profondità tecniche della sentenza ne ha lasciato affiorare un discreto numero di aspetti che ne esaltano l'idoneità a proporsi come stella di orientamento in un orizzonte prima denso di caligine ed impalpabile. Un conciso riassunto ne consente l’enumerazione quanto ai vuoti riempiti ed alle lacune interpretative colmate. Nell'ordine si segnala la necessità della lettura giudiziale della lista dei paesi sicuri in senso dinamico, vale a dire non ossificato al momento della sua emanazione e, pertanto, necessitante la rivalutazione alla luce della situazione in concreto registrabile al momento della decisione sulla richiesta di protezione internazionale nel paese d'origine del ricorrente in ordine alle garanzie di rispetto dell'assetto democratico e di correlata tutela dei diritti fondamentali dei suoi cittadini. Egualmente è da dirsi con riguardo alla chiaramente affermata esigenza dell'esame da parte del Giudice di tutte circostanze che possano provocare un negativo impatto sulla persona, la sua sicurezza, le sue libertà essenziali. Ora, questa rasserenante prospettiva è, a propria volta, il diretto risultato di una duplice ricostruzione del sistema della protezione internazionale in chiave comunitaria e domestica lodevolmente effettuata dalla Cassazione. In primo luogo, infatti, si è escluso il carattere vincolante dell'elenco dei paesi sicuri per il Giudice dell'impugnazione del provvedimento di diniego della protezione chiesta dal cittadino straniero e si è, di conseguenza, riespanso un autonomo potere valutativo indirizzato verificare se le risultanze istruttorie largamente acquisibili in una diffusa logica di cooperazione istruttoria valgano a sostenere la plausibilità e la permanente legittimità della scelta originaria di inclusione di un paese terzo tra quelli sicuri. Il riconoscimento del potere rivalutativo in sede giurisdizionale si prefigge l'obiettivo di garantire al richiedente la piena effettività della tutela di quegli stessi diritti fondamentali che la nostra Costituzione-in questo assolutamente assecondata dal diritto eurounitario-attribuisce ai cittadini italiani e, collateralmente, a conseguire l’ottenimento dell’asilo. Ed infatti, la l'esercizio del potere sindacatorio mira all'esito della caducazione nel caso concreto del provvedimento amministrativo del quale sia stato dimostrato il disallineamento rispetto alle specifiche condizioni oggettive la cui ricorrenza rende legittima la designazione di paese sicuro. La tecnica della disapplicazione in via incidentale del provvedimento, fedele ad una tradizione ottocentesca mai tramontata, che la Cassazione ha senza indugi sposato, si rivela il mezzo più felice dal punto di vista sistematico. In secondo luogo, la sentenza compie una provvida incursione nel campo processuale consentendo al Giudice, in un certo senso costringendolo, ad allargare non soltanto il materiale probatorio utilizzabile ma anche le modalità di acquisizione. Esse, infatti, possono prescindere dall'allegazione da parte del ricorrente delle circostanze utili al conseguimento dell'ambito bene della vita, ossia la protezione internazionale (ferma, comunque, restando l'esigenza che tale aspirazione venga chiaramente rappresentata). Si assiste, così, ad una rimodulazione costituzionalmente orientata dei poteri istruttori del Giudice, ispirandoli alla finalità di concretizzazione di diritti fondamentali che una concezione asfittica della fase giudiziale dei procedimenti di protezione internazionale allontanerebbe dalla meta. La specialità della materia si riflette, pertanto, secondo il disegno della Cassazione, nella specializzazione delle linee portanti del relativo giudizio: né ostacoli sarebbe stato possibile opporre a questa ariosa prospettiva in considerazione della premessa dichiarata dell'operazione: la garanzia della piena effettività dei diritti riconosciuti in ambito eurounitario al migrante.
Per concludere questa sintetica analisi retrospettiva della sentenza va ricordato che l'intero telaio che attorno ad essa è stato concepito non ha mai disdegnato di perseguire il fine della armonia del sistema, in maniera plateale individuata nella ribadita inalienabilità del potere amministrativo di designazione dei paesi sicuri e nella riaffermata insostituibilità del suo esercizio. Perché il Giudice, nel procedere alla doverosa verifica di legittimità sugli esiti della valutazione effettuata dall'amministrazione, non si surroga ad essa né le usurpa attribuzioni, ma si limita-né potrebbe ometterlo-al controllo dell'esercizio non arbitrario né capriccioso di tale potere.
Ora, proprio quest'ultima osservazione aiuta a formulare un giudizio completo su significato, portata, effetti della sentenza. Per giungere a tale risultato occorre in primo luogo prendere le mosse dal clima e dalle aspettative che circondavano la pronuncia, cui veniva impropriamente affidato il compito di arbitrare una contesa tra poteri dello Stato. Contesa, in effetti, mai nemmeno adombrata per l'intuitiva ragione che l'intima ragion d'essere della giurisdizione è quella di dirimere, con i mezzi propri dell'ordinamento giuridico, controversie, giammai di provocarle, tanto meno in funzione antagonista di altri poteri. È evidente la distorsione prospettica che si annida nel pensiero secondo cui l'affermazione del momento giurisdizionale espresso attraverso un provvedimento del Giudice corrisponda nelle intenzioni o negli effetti ad un attentato alle altrui sfere di attribuzioni (e, ove anche in concreto si desse luogo ad una siffatta, temuta ipotesi sarebbe risolutivamente proponibile il conflitto di attribuzioni davanti la Corte Costituzionale). Di questo pericolo di dannoso fraintendimento ha mostrato di essere responsabilmente conscia la Cassazione nella propria ponderata sentenza. Essa non sembra destinata ad esser relegata negli angusti spazi propri dei giudizi esclusivamente tecnici, magari spogli di un intento animatore. Ed invero, la pronuncia assolve una funzione che nelle sue più elevate manifestazioni è immanente nelle giurisdizioni di vertice dei sistemi di common law, quella di additare con chiarezza un orientamento rappresentativo di una “policy”, ossia di un modo di intendere l'ordinamento giuridico nel suo complesso e nelle sue molteplici sfaccettature alla luce dei principi socialmente accettati e secondo lo spirito del tempo. E non di abusiva interpretazione del proprio ruolo si tratta, ma di un modo di ravvivare il diritto accostandolo alla realizzazione dei valori alla cui tutela esso è preposto, a partire da quelli di matrice costituzionale. E dato che la materia cui sono dedicate queste riflessioni è quella dei diritti umani, val la pena rievocare il pensiero del compianto Lord Bingham of Cornhill, autentico paladino del liberalismo giudiziario inglese, che nella sua opera finale dedicata alla Rule of law enfaticamente proclamava la necessità che gli ordinamenti giuridici (non solo quelli della famiglia anglo-americana) dovessero assicurare adeguata tutela ai diritti umani fondamentali. La chiosa sgorga con naturalezza: a tale ambizioso traguardo non possono che cospirare operazioni di “policy” quale quella meritoriamente compiuta dalla sentenza esaminata che si propone come utile antidoto alle degenerazioni di un dibattito talvolta esondato dagli argini della sana dialettica istituzionale.
7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.
La sentenza che si commenta ha fra gli altri pregi quello di avere ancora una volta dissipato i possibili dubbi che aleggiano attorno all’istituto del rinvio pregiudiziale “interno” ed alla sua a volte ventilata vocazione alla sterilizzazione del ruolo del giudice di merito in favore di una prospettiva “cassaziocentrica”, tutta ricamata attorno ad un’immagine verticistica del giudice di ultima istanza che tutto domina in maniera asfissiante all’interno della giurisdizione a scapito del giudice di merito, confinato nell’alveo di un comprimario della giurisdizione, tutto proteso a trovare il bandolo delle matasse, spesso complesse, allo stesso demandate, con un comodo “r-invio” alla Corte della soluzione da adottare.
Già altre volte abbiamo provato ad evidenziare la centralità dello strumento introdotto con la riforma Cartabia nel processo civile sulla via dell’effettività della tutela giurisdizionale e della riconquistata centralità del dialogo fra merito e legittimità, altresì cogliendo i profili di collegamento con il rinvio pregiudiziale “esterno” alla Corte di Giustizia (V., volendo, R. Conti, I rapporti tra rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, in Il diritto tributario nella stagione delle riforme Dalla legge 130/2022 alla legge 111/2023, a cura di E. Manzon e G. Melis, Pisa, 2024, 97 ss).
Quel che preme in questa prima riflessione alla sentenza n.33398/2024 sottolineare è la circostanza che il giudice di legittimità, oltre a darsi carico di fornire l'interpretazione del dato normativo interno alla luce dei canoni anche fissati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, indossa i panni di un interprete particolarmente qualificato nel panorama della giurisdizione nazionale chiamata ad occuparsi delle controversie in tema di immigrazione. Questo fa valorizzando il senso ed il significato della sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea resa il 4 ottobre 2024 che, come noto, ha costituito uno dei punti di forte contrapposizione fra politica e magistratura in ordine alla rilevanza delle eccezioni personali ai fini della esclusione della natura sicura del paese di origine. E lo fa riportando i termini del confronto ermeneutico nell’unico campo suo proprio, appunto costituito dall’agorà giurisdizionale, ormai stabilmente popolata da attori che, pur svolgendo diverse funzioni, sono tutti consapevoli del ruolo di ciascuno di essi.
Primo fra tutti il giudice di merito che ha sollevato il rinvio pregiudiziale. Un giudice fortemente responsabile, consapevole allo stesso modo della centralità della sua posizione rispetto al governo della lite innanzi allo stesso pendente, ma altresì conscio delle ricadute che la decisione del singolo caso poteva riprodursi concentricamente tanto sul carico di contenzioso omogeneo pendente nel medesimo plesso giurisdizionale quanto su quello di altre sezioni specializzate sparsi nel territorio nazionale.
Un giudice di merito che, dunque, “decide di non decidere” non già in una defatigante prospettiva, ma al contrario si colloca consapevolmente in un anfiteatro al cui interno potersi confrontare a viso aperto ed in modo diretto che la Corte di cassazione, vista non come austero ed implacabile controllore della correttezza del suo dire, ma come compagno di viaggio “insieme” al quale percorrere un cammino, tracciare una linea, offrire chiarezza, stimolare ragionamenti. Al punto che la soluzione finale scolpita nel principio di diritto è realmente frutto condiviso ed equi ordinato, originato del cooperante sforzo ermeneutico di remittente e decisore finale al quale spetta, per funzione, il compito di mettere a frutto i dubbi, raccogliere gli stimoli del remittente e riportarli a sistema in modo che esso torni utile ad una giustizia capace di mostrarsi tanto efficiente ed efficace quanto “giusta”, a tutti i livelli nei quali viene quotidianamente amministrata.
Tutto questo in un incedere nel quale ragionare secondo i canoni della contrapposizione piramidale nel senso che ci ha consegnato la storia – e che pure viene perpetuato in tempi recenti dal titolo di apertura che compare aprendo il sito internet della Corte di cassazione, indicata come “Il vertice italiano della giurisdizione ordinaria” - deve fare i conti con un tempo presente profondamente modificato, nel quale i nessi di collegamento fra i vari protagonisti della giustizia si avvertono anch’essi soggetti a processi di notevole trasformazione, governati da logiche diverse.
Se si condivide questa prospettiva si ha ragione di comprendere quanto la dimensione verticistica che spesso viene, non sempre in buona fede, rappresentata quando si delinea il ruolo del giudice di legittimità sia destinata inesorabilmente a cedere il passo verso un’altra più realista concezione del ruolo della legittimità, al centro di un crocevia di rapporti istituzionali interni alle giurisdizioni nazionali e sovranazionali che la stessa mostra di governare offrendo un volto tanto cooperante e discorsivo quanto autorevolmente pacificatore, in piena coerenza con una prospettiva pienamente condivisa (a pena di autoreferenzialità sia consentito il rinvio a Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021; La funzione nomofilattica delle Sezioni Unite civili vista dall’interno (con uno sguardo all’esterno), 11 gennaio 2024, apparsi su questa Rivista).
Il provvedimento in rassegna, certo, avvantaggia notevolmente chi predilige la prospettiva qui caldeggiata in ordine alle relazioni fra le Corti, forte di una trama argomentativa sulla quale nulla di più va e può essere aggiunto a quanto rappresentato da Mario Serio.
Ma non può non collegarsi, e non solo per ragioni di ordine temporale, a quel fil-rouge di provvedimenti interlocutori, inaugurato da Cass.n.34898/2024, che lo stesso Collegio della prima sezione civile ha esitato alla vigilia del nuovo anno, questa volta sulla non meno martoriata e limitrofa questione della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro essere effettuata, attraverso un decreto ministeriale, con eccezioni di carattere personale.
Provvedimenti sui quali non è qui il caso di soffermarsi, se non per coglierne la naturale continuità di senso, l’unicità della prospettiva, l’orizzonte comune al cui interno si collocano, ancorché scolpito da una “non decisione motivata” della Corte di cassazione.
L’apparente ossimoro dell’espressione appena utilizzata, se riferita ad un provvedimento di un giudice di ultima istanza è, infatti, ancora una volta conferma tangibile di quanto il ruolo della Corte di cassazione si dispieghi in triangolazioni sempre più complicate che tendono, anzi, spesso a suggerire figure geometriche ancora più complesse, nelle quali il giudice di legittimità si confronta con diritti viventi interni – provenienti tanto dal giudice di merito quanto dalla Corte costituzionale - e sovranazionali, sempre più animati e vivificati dalla giurisprudenza delle Corti di Lussemburgo e Strasburgo, in un incedere che tende a superare gli angoli e si propone come naturalmente circolare.
Un orizzonte nel quale il “non decidere” della Cassazione in quella vicenda, nell’attesa della pronunzia della Corte di Giustizia UE, collegato però all’ipotesi di lavoro sulle questioni controversie idealmente consegnata alla Corte di Lussemburgo, si pone in parallelo alla richiesta di rinvio pregiudiziale “interno” del Tribunale di Roma qui commentata e si colloca come momento alto della giurisdizione nazionale non meno di quello espresso con il principio di diritto scolpito da Cass.n.33398/24. Pronunzie che appaiono animate da un profondo senso di “rispetto” verso i compagni di viaggio- le parti del procedimento, il giudice di merito dei provvedimenti impugnati, la Corte di Giustizia UE investita in procedimenti limitrofi di alcune delle questioni controverse – conducendo il giudice di legittimità a mostrare, anche in tale occasione, il suo volto cooperante, tanto dialogante quanto fermo nel voler ribadire il circuito giuridico nel quale i profili controversi devono muoversi.
Un volto che si mostra, dunque, in parallelo con quello del Tribunale capitolino che aveva attivato il rinvio pregiudiziale “interno” nella questione sulla disapplicazione e sui poteri del g.o., tanto quanto quello degli altri giudici di merito che, a loro volta, avevano proposto in autonomia altri rinvii pregiudiziali “esterni”, rivolti alla Corte di Giustizia UE sul tema designazione paesi sicuri- eccezioni personali. Posizioni, queste ultime, di dichiarato ascolto, attento verso gli altri attori della giustizia, tanto quanto di costruttivo apporto di ragionamenti, riflessioni offerte in una prospettiva non decisoria ma, per l’appunto, cooperante.
Tornando dunque al provvedimento qui esaminato emerge la encomiabile “responsabilità” del tribunale remittente, tutt’affatto improntata ad esigenze di placido e deferente ossequio al dictum della Cassazione, qualunque esso sia, ma al contrario consapevole di essere motore propulsivo di una decisione della Cassazione che, fondata sulle questioni messe sul tappeto, avrebbe potuto e dovuto porsi come chiarificatrice di una questione estremamente controversa e divisiva, tanto in ambito giurisdizionale che in agoni sempre più interessati dalla “parola” del giudice su tali temi anche se a fini che qui non interessa indagare.
Orbene, la ricostruzione logico giuridica operata dalla Corte di Cassazione, finemente rappresentata da Mario Serio nei paragrafi precedenti, fissa dei paletti in tema di disapplicazione e di poteri del giudice in tema di protezione del richiedente asilo anche in caso di mancata contestazione della designazione di paese sicuro contemplata dal decreto ministeriale- di questo occupandosi il quesito pregiudiziale- e si inscrive come esempio virtuoso di cooperazione fra giudice di merito, di legittimità e Corte di giustizia UE che dà il senso di quanto sia diventato complesso, articolato e partecipato il diritto vivente del tempo presente.
La Cassazione, pur consapevole dell’interferenza del rinvio pregiudiziale “interno” sollevato dal Tribunale di Roma rispetto all’interpretazione del diritto eurounitario alla quale era indubitabilmente chiamata, con piena consapevolezza esclude la necessità di rinviare a sua volta la questione alla Corte di giustizia, ravvisando nel quadro del diritto vivente del giudice di Lussemburgo elementi di chiarezza tali da giustificare i risultati interpretativi poi espressi nel principio di diritto.
E ciò fa ricavando dal diritto vivente della Corte di giustizia alimento importante al suo ragionamento, al cui interno si fa egli stesso interprete parlante e voce della Corte di giustizia UE. Un lavorio ermeneutico, quello della Cassazione, al quale l’operatore del diritto attento, sia esso o meno giudice dell’immigrazione, non può dedicare un’attenzione epidermica.
Viene in tal modo scritta una pagina importante sulla strada del dialogo costruttivo fra merito e legittimità, capace di dimostrare le potenzialità e la ricchezza del dialogo a distanza voluto dal legislatore della riforma processuale civile con l’introduzione del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione da parte del giudice di merito (art.363 bis c.p.c.). Non già, dunque, per coltivare l’idea della sovra ordinazione piramidale della giustizia, quanto quella della fiducia reciproca e cooperazione che può rendere al meglio i suoi frutti se si approfondiscono in una chiave di crescita comune le conoscenze tanto delle tecnicalità giuridiche quanto dei rispettivi ruoli di sostanza svolti all’interno della giurisdizione.
In conclusione, lo strumento del rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione si conferma costituire strumento di grande utilità per rafforzare il legame ed il dialogo fra merito e legittimità, facendolo forse definitivamente uscire dalle sacche aride di un suprematismo giudiziario della Cassazione sul merito che è ormai la storia ad avere definitivamente emarginato, ponendo il giudice di legittimità in un circuito a sua volta condensato da spinte interne e sovranazionali che possono essere messe a profitto solché tutti i protagonisti si orientino verso un esercizio della giurisdizione sempre più carico di contenuti, sempre più cooperante e collaborativo, al netto delle caratteristiche proprie di ciascun attore della giustizia che rimangono e devono rimanere inalterate.
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro, Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi, Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri, La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, secondo una prospettiva “interna” e di diritto dell’Unione Europea di Marcella Cometti, Un giudice a Roma. Gli immigrati, il governo e la protezione dello stato di diritto di Cataldo Intrieri, Immigrazione, rimpatri e incolumità del richiedente asilo. Intervista a Rita Russo di Paola Filippi.
Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro
I paragrafi 1 e 7 sono opera di Roberto Giovanni Conti, quelli da 2 a 6 di Mario Serio ma l’intero commento è frutto di piena e ragionata condivisione delle riflessioni ivi svolte.
La prima sezione civile della Corte di Cassazione, interpellata sulla base di un rinvio pregiudiziale effettuato ai sensi dell'art.363 bis c.p.c. dal Tribunale di Roma, ha chiarito con l'articolata sentenza n.33398 del 19 dicembre 2024 quali poteri residuino al Giudice chiamato a pronunciarsi sull'impugnazione del rigetto in via amministrativa della domanda di protezione internazionale relativamente alla conferma o alla smentita nel caso di specie della designazione attraverso uno strumento normativo di un paese come sicuro. Là pronuncia scorre lungo i binari del rigore argomentativo, saggiamente alimentato dalla necessaria affezione a principi fondativi del nostro ordinamento giuridico, già risalenti alla legge abolitiva del contenzioso amministrativa del 1865, e collega la questione ad un versante di rilevanza costituzionale, quale quello della protezione internazionale in funzione sia di garanzia del diritto d'asilo sia in relazione alle insopprimibili garanzie di tutela di diritti fondamentali della persona. Le conclusioni di carattere generale, nitidamente rivolte anche in direzione applicativa concreta, cui la Cassazione è pervenuta corroborano la diffusa linea interpretativa dei giudici di merito che non hanno inteso cedere alla tentazione di risolvere le questioni afferenti alla protezione internazionale riparandosi dietro l'acritica adesione alla designazione di “paese sicuro” ratione temporis affidata ad un atto amministrativo ed hanno, pertanto, rinverdito poteri cognitori incisivi e diretti a scopi di “enforcement” costituzionale. In ultima e rasserenante analisi il tratto della centralità dei diritti e della dignità umani ha il benefico sopravvento su linee ed indirizzi, non giurisprudenziali, che, anche sull'impeto di onde emotive, adottano scale di valori ed obiettivi molto differenti ed altrettanto eterogenei. La stessa sentenza offre un illuminante esempio della proficuità degli esiti del rinvio pregiudiziale di cui all'art.363 bis c.p.c., così contribuendo al consolidamento del proficuo dialogo tra giudici di merito e giudici di legittimità, ancor più fruttuoso se condotto, come in questo caso, sotto l'egida del diritto eurounitario e dei principi costituzionali.
Sommario: 1. La genesi di Cass.n.33398/2024 - 2. Inquadramento dell'oggetto dell’indagine - 3. L’occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art.363 bis c.p.c. - 4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione di paese sicuro in funzione della protezione internazionale - 5. Le linee argomentative della sentenza 33398/2024 della Corte di cassazione nel conflitto tra le possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate in via accelerata ed i loro effetti applicativi - 6. Il senso ampio delle conclusioni decisorie - 7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.
1. La genesi di Cass.n.33398/2024
La sentenza impugnata si inserisce in un panorama giurisprudenziale che aveva espresso indirizzi non uniformi in ordine al potere disapplicativo da parte del giudice ordinario della designazione di paesi sicuri contemplata, in attuazione dall’art. 2 bis d.lgs. n. 25 del 2008, dal d.m. 4 ottobre 2019, poi modificato con d.m. 17/03/2023 e dal d.m.7 maggio 2024, salvo a lasciare il campo al d.l.n.145/2024, convertito con modificazioni dalla l.n187/2024.
Quanto al piano UE, la nozione di Paese sicuro, dapprima introdotta dalla direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 1° dicembre 2005 con gli artt. 29 - disposizione invalidata da Corte giust. UE, 6 maggio 2008, causa C-133/06, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea – 30 e 31, è stata regolata dalla direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 (cd. direttiva procedure) con gli artt.36 e 37, individuando la cornice entro la quale può inserirsi la nozione di Paese di origine sicuro e le conseguenze di tale nozione sulle procedure di valutazione delle domande.
Proprio in forza dell’allegato 1, richiamato dall’art.37 ult. cit., gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta di designare Paesi di origine sicuri, stabilendo che «Un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di “non-refoulement” conformemente alla convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.»
Cass. n.33398/2024 interviene, sollecitata dal Tribunale di Roma, in sede di rinvio pregiudiziale ex art.363 bis, c.p.c., per dare risposta al quesito sollevato dal Tribunale di Roma all’interno di un ricorso per l’ottenimento della protezione internazionale presentato da un cittadino di un paese terzo (Tunisia) inserito nell’elenco dei paesi di origine sicuri.
Il giudice di merito chiedeva alla Corte di cassazione di chiarire se il giudice ordinario avesse titolo per disattendere il decreto ministeriale nella parte in cui stabiliva la designazione di paese sicuro e dunque valutare, anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria ed eventualmente anche in caso di mancanza di contestazione, sulla base di informazioni sui paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, se il paese incluso nell'elenco sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia.
Il dubbio interpretativo rivolto alla Corte di cassazione nasceva dalla constatazione, esternata dal giudice del rinvio, che il complesso contesto normativo, eurounitario e nazionale, era stato oggetto di controversa interpretazione, non solo all’interno del giudizio, ma più in generale anche fra le diverse sezioni distrettuali specializzate e di diversi collegi delle stesse sezioni specializzate.
In questa prospettiva, il Tribunale capitolino evidenziava che l’incertezza appena rappresentata aveva trovato ulteriore implicita conferma in alcuni passaggi motivazionali espressi dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 11399/24, anch’essa resa in sede di procedura di rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Bologna, ove si era ritenuto che le «condizioni che legittimano la procedura accelerata e consentono, quale conseguenza, la deroga al principio (generale) della sospensione del provvedimento della Commissione territoriale» devono essere oggetto di «stretta osservanza della possibilità di azione delle deroghe». Specificava, ancora, il giudice del rinvio che “in tale contesto la Suprema Corte, pur ritenendo di non poter «compiutamente affrontare» la complessa questione aveva dato spazio alla possibilità che il giudice, quando il richiedente contesti la natura “sicura” del paese di origine, o anche d’ufficio, debba, «anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria, comunque valutare detta natura, anche in presenza di inserimento del paese negli elenchi contenuti nei decreti ministeriali a ciò destinati (si tratta peraltro di decreti necessitanti di continuo aggiornamento) ».
Da qui le ragioni poste a sostegno della richiesta di rinvio pregiudiziale correlate, dunque, alla diversità di indirizzi interpretativi sulla questione della sindacabilità del d.m. in ordine alla natura “sicura” dei paesi ed alla pluralità di ricorsi sottesi alla medesima questione oggetto del rinvio. Alla necessità di dare risposta ai dubbi di natura tecnico-giuridica si aggiungevano, secondo il giudice remittente, ragioni «anche di opportunità, del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, che appare nella specie estremamente utile al fine di dare indicazioni alle Sezioni specializzate dei Tribunali distrettuali su una questione controversa e relativa ad un numero assai ampio di cause, anche in ordine alla definizione del giudizio interlocutorio avente ad oggetto l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, quando non siano stati invocati motivi personali che permetterebbero di superare, per il singolo richiedente, la presunzione (juris tantum) di sicurezza del paese ai sensi del comma 5 dell’art 2 bis D.lvo n. 25/2008. »
2. Inquadramento dell'oggetto dell'indagine.
La sentenza cui è dedicato il presente scritto esibisce più di uno spunto di interesse per i giuristi sia perché fornisce una chiara individuazione dei presupposti giustificativi del ricorso all'innovativo strumento del rinvio pregiudiziale alla stessa corte di legittimità previsto dall'art.363 bis c.p.c., nonché dei conseguenti esiti applicativi in termini di posizione del principio di diritto applicabile ai fini della risoluzione del giudizio d'origine, sia perché l'oggetto della controversia che ha innescato il rinvio puntava verso una materia dibattuta, divisiva, manipolata anche a fini estranei ad una disamina da svolgersi esclusivamente in confini tecnici. Del primo aspetto, centrale nella ridefinizione del ruolo della nomofilachia e nella attribuzione di mezzi indiretti per la definizione di giudizi di merito ragionevolmente preclusivi della necessità e dell'utilità di ulteriori ricorsi alla sede di legittimità dirà appresso Roberto Conti; pertanto, l’attenzione delle considerazioni che seguono sarà devoluta alla questione centrale dei rapporti tra definizione in via normativa (prima amministrativa e dal 23 ottobre 2024 legislativa) di un antecedente logico-giuridico (la designazione del paese d'origine come sicuro) per la risoluzione di questioni attinenti al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale del richiedente e poteri istruttori, valutativi e decisori del giudice di merito competente. Del resto, la circostanza che lo stesso giudice di merito rinviante abbia avvertito l'apprezzabile scrupolo di acquisire un criterio vincolante per la decisione della causa testimonia la rilevanza, e l'incertezza, del tema. E proprio l'incertezza, seppur declinata sotto il profilo della concorrenza di più linee interpretative difformi, sta alla base della fruizione dello strumento di recente offerto dall'art.363 bis c.p.c. la cui plausibilità è stata attestata dal provvedimento della prima presidente della corte di cassazione che, nel ritenere soddisfatti i requisiti stabiliti dalla norma da ultimo citata, ha al contempo sottolineata l'assenza di precedenti orientamenti di legittimità e la gravità e complessità interpretativa della questione di cui si sta per dire. Aspetti, questi, di cui ha mostrato piena consapevolezza la Procura Generale presso la stessa corte attraverso una esauriente memoria scritta depositata dalla Avvocata Generale cui ripetutamente ha fatto adesivo riferimento la sentenza in esame.
3.L'occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 363 bis c.p.c.
Il procedimento principale da cui ha preso le mosse il rinvio pregiudiziale verteva su una materia di frequente ricorrenza e come tale bisognosa di quell'indirizzo chiaro che la corte di cassazione ha finito con l'imprimere. In particolare, il Tribunale di Roma è stato investito dell'impugnazione, da parte di un cittadino proveniente dalla Tunisia, paese definito sicuro dalla normativa vigente al tempo processualmente rilevante, della decisione reiettiva della domanda di protezione internazionale da parte della Commissione territoriale competente. Il provvedimento di rigetto è stato, a propria volta, emesso nell'ambito di un procedimento instaurato ai sensi dell'art.28 ter del d.lgs.25 del 2008 sotto il profilo della manifesta infondatezza della domanda in quanto proposta da persona proveniente da un paese designato come sicuro dal decreto interministeriale del 7 maggio 2024 e priva dell'allegazione di fondati motivi atti a contraddire tale definizione. Anche nell'impugnazione, accompagnata dalla richiesta in via cautelare della sospensione dell'efficacia del provvedimento della commissione territoriale, non erano state profilate specifiche ragioni relative alla compromissione della posizione individuale del richiedente, essendosi, piuttosto, fatto riferimento alla generale situazione del paese d'origine, quale desumibile da circostanze obiettivamente sintomatiche di un'involuzione in senso autoritario delle istituzioni, con conseguente estensione dei loro effetti pregiudizievoli alla generalità dei cittadini.
Il Tribunale di Roma articola il proprio percorso in direzione del rinvio pregiudiziale assumendo come premessa logico-giustificativa il contesto genetico del giudizio, ossia quel particolare procedimento che, in virtù della previsione degli effetti derivanti dall'avvenuta inclusione del paese d'origine del richiedente tra quelli sicuri alla stregua dell'art.2 bis del citato d.lgs.25 del 2008, implica l'utilizzazione di una forma cosiddetta accelerata di definizione dell'istanza. Ora, proprio in questa contrazione procedurale il Tribunale identifica motivatamente una significativa compressione del diritto di difesa: la spiegabile prospettiva, sembra potersi ragionevolmente desumere, è quella dell'aggravamento dell'onere probatorio incombente sul richiedente, solo da assolvere attraverso il superamento della presunzione (seppur relativa) di sicurezza implicata dall'atto normativo. Così impostato lo scenario del giudizio, si rivela del tutto congruo il successivo sviluppo logico della premessa del Tribunale: se l'ostacolo all'accoglimento della domanda va ravvisato nel decreto interministeriale di designazione dei paesi sicuri ed al tempo stesso tale fonte costituisce il parametro decisorio del caso di specie, al giudice va attribuito il compito di intervenire ermeneuticamente sulla stessa, onde coglierne il significato e determinarne il livello di incidenza. In altri termini ciò che occorre è una verifica frontale dell'ambito di efficacia della fonte stessa ed i limiti della sua vincolatività nei confronti del giudice stesso. Lo stesso Tribunale mostra piena conoscenza della fenditura riscontrabile nella stessa giurisprudenza di merito circa i poteri esercitabili in siffatto contesto dal giudice dell'impugnazione, che potrebbe vedersi stretto nella morsa alternativa della sindacabilità, o meno, del testo che designa i paesi sicuri.
Alla luce di questi dilemma il quesito rimesso alla soluzione della corte di cassazione va così riassunto: se, in ogni caso in cui rilevi, ai fini della pronuncia sulla domanda di protezione internazionale sulla quale sia intervenuta una decisione amministrativa di rigetto in esito ad una procedura accelerata per manifesta infondatezza ai sensi dell'art.28 ter del d.lgs. 25Del 2008,la designazione per decreto ministeriale come paese sicuro di quello d'origine del richiedente, il giudice ordinario sia vincolato a tale designazione ovvero gli spetti di esercitare il proprio ordinario potere istruttorio, affiancato dal dovere delle parti di cooperazione istruttoria e dall'accesso ad informazioni sul paese d'origine aggiornato al momento della decisione. E ciò al fine di valutare se il paese incluso nell'elenco sia effettivamente sicuro alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia, che sussista o meno specifica contestazione sul punto da parte del richiedente.
Sull'ammissibilità del sindacato valutativo si è espressa positivamente l’Avvocata Generale.
L'amministrazione dell'Interno ha rilevato in via generale che l'autorità giudiziaria non può sostituirsi alle valutazioni amministrative, tranne che emergano elementi capaci di denunciare l'irragionevolezza della designazione in quanto contraria al diritto comunitario ovvero siano evidenti ragioni di insicurezza del paese d'origine connesse alla situazione personale del richiedente. Si aggiunge, quanto ai profili di insicurezza per così dire di carattere generale, che il sindacato giurisdizionale trova un limite nell'attendibilità delle scelte amministrative, mentre pieno sarebbe il potere cognitorio del Giudice in ordine alla condizione personale del richiedente.
L'esposizione precedente dovrebbe dar sufficientemente conto della drammaticità istituzionale del quesito-accentuata dal contorno ambientale, spesso venato da interferenze polemiche, nel quale ogni vicenda afferente alla regolamentazione dei flussi migratori finisce con il collocarsi-che inevitabilmente si spinge sul territorio della separazione dei poteri dello stato: più esattamente, e giudicando ex post, si sarebbe potuto spingere se, al contrario di quanto per fortuna accaduto in ragione del lungimirante equilibrio della sentenza, la materia fosse stata contaminata da astratti furori ideologici o da rivendicazioni di supremazia, entrambi nemici delle rigorose caratteristiche del giudizio di legittimità.
Tuttavia, il momento stesso della formulazione del quesito comportava una sua così spiccata attrazione nell'alveo di principi sovranazionali e di schietto contrassegno costituzionale che la sua trattazione non poteva sottrarsi al riferimento ad una ben delineata tavola di valori dai quali era impensabile esulassero sentimenti di genuina solidarietà umana, tutti chiaramente ricompresi nella protettiva capsula della Costituzione stessa. Di questo si ha, come si vedrà, irrefutabile conferma nell'ordito della pronuncia.
4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione normativa di paese sicuro in funzione della protezione internazionale.
La prima preoccupazione da cui è stata avvinta la corte di cassazione è stata quella di reperire il fondamento normativo multilivello cui ancorare il proprio modello decisorio. Operazione immancabile non solo per rendere tecnicamente solida la soluzione del quesito, in adempimento della propria funzione di garanzia dell'uniforme applicazione del diritto oggettivo nazionale e, per diretta ricaduta, del sommo principio di eguaglianza tra i cittadini, ma parimenti necessaria per cogliere e disciplinare i nessi interordinamentali suggeriti dalla materia e necessitanti scelte conformi e compatibili con la prospettiva eurounitaria e con gli obblighi internazionalmente assunti dall'Italia.
A dar risposta a tale preoccupazione la sentenza ha atteso traendo il primo passo dalla dichiarazione dell'inglobamento all'interno della Costituzione (il cui disegno non per caso è acutamente definito “personalista” per la rilevanza assegnata al valore del cittadino in quanto persona) dei diritti dello straniero la cui dignità gli dà titolo a trattamenti solidali ed all'accoglienza, costituenti in via diretta suoi diritti fondamentali. Tra di essi si staglia naturalmente il diritto d'asilo nel territorio della Repubblica allorquando a tale cittadino sia impedito l'effettivo esercizio nel suo paese delle medesime libertà democratiche garantite in Italia dalla Costituzione.
Lo snodo è brillante e determinante nell'intera economia della sentenza: esso, infatti, crea il raccordo logico preliminare tra la posizione soggettiva dello straniero (del tutto eguagliabile, quanto alla tutela dei diritti fondamentali, a quella del cittadino italiano, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale) e le varie fonti che possano frapporsi alla relativa, piena realizzazione: e naturalmente tra esse, vanno annoverate quelle, sovranazionali o interne, che classificano i paesi d'origine in rapporto alla sicurezza. In particolare, del diritto d'asilo viene rintracciato la sicura sponda internazionale (Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati del 1951) e comunitaria (Direttiva 95 del 2011) ed anche la nozione interna strutturata in termini di protezione sussidiaria e temporanea per chi, pur sprovvisto dei requisiti per essere definito rifugiato, corra rischi di subire gravi danni nel proprio paese. D’altra parte, l'elasticità dell'area di inveramento della protezione internazionale viene felicemente confermata dalla direttiva europea 115 del 2008 che estende le forme tipiche ad ipotesi che gli stati membri ritengano meritevoli per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura.
Ancora una volta la sentenza procede secondo un andamento sillogistico poiché, in perfetta simmetria rispetto alla così delineata condizione giuridica dello straniero, fa discendere una direttamente proporzionale competenza incrementale del giudice nazionale, promosso al ruolo di garante dell'effettività nel singolo caso dei diritti del richiedente asilo che fugge dal proprio paese e cerca legittima protezione nell'ambito dell'Unione europea. Il richiamo all'effettività dei diritti, come contrapposta, per mutuare dall'immaginifica espressione di Rodolfo Sacco, ad un vuoto carattere solamente declamatorio, è argomento finalistico che imbeve di sé l'intera sentenza e ne consolida l'assetto dispositivo finale, dotandolo di un puntello non sradicabile. Non può sembrare antitetica a questa tensione verso la pienezza di tutela degli stranieri che versano nelle condizioni appena descritte l'affermazione secondo cui “Alle istituzioni democratiche e rappresentative, attraverso le quali si esprime la sovranità popolare, spetta il compito di gestire il fenomeno migratorio, disciplinando i flussi anche nei riflessi sulla sicurezza della comunità nazionale, in un quadro di libertà, di giustizia e di cooperazione internazionale fondata sul riconoscimento di valori comuni, assicurando l'efficienza del sistema nazionale di accoglienza e realizzando condizioni materiali di effettiva integrazione di chi ha titolo per restarvi”.
Il passaggio merita di ricevere una particolare riflessione. Per due ragioni principali, entrambe cospiranti verso il risultato di accreditare alla sentenza l'attitudine a soddisfare complessivamente le insistenti aspettative di chiarezza ed autorevolezza che da più e non coincidenti parti attorno ad essa si nutrivano. La prima e preminente consiste nella riaffermazione che la cooperazione internazionale, da attuarsi nel quadro dei valori di libertà e giustizia, fondativi della civiltà di un'esperienza giuridica, debba fondarsi sui cardini dell'efficienza del sistema di accoglienza e sulla conseguente, immancabile aspirazione al risultato della effettiva, vale a dire piena, integrazione delle persone che vi sono ammesse. Viene così spazzato ogni possibile dubbio su consistenza e portata dell'obiettivo fondamentale dell'integrazione intesa quale epilogo dell'accoglienza e non come semplice, stentata eventualità destinata alla perdurante sminuizione della persona e della personalità dello straniero titolare della protezione internazionale. La seconda ragione ha a che vedere con il leale, e davvero mai dubitato, riconoscimento in capo alle istituzioni democratiche e rappresentative della sovranità popolare del compito gestorio del fenomeno migratorio. Va da sé che a determinare la connessione tra le due ragioni non può che ergersi la concreta affermazione, sotto il profilo dell'effettività e pienezza della tutela del richiedente, della dignità della sua posizione, a propria volta frutto dell'applicazione degli indirizzi in materia di immigrazione.
La sequenza razionale della sentenza si dipana attraverso l'approccio alla individuazione della nozione giuridica di paese sicuro alla stregua del diritto europeo e recepita dal legislatore nazionale. Viene così in rilievo l'allegato I alla direttiva europea 2013/32 la quale considera sicuro un paese “se, sulla base dello status giuridico, dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell'articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano e degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Il medesimo allegato illustra anche i criteri corroborativi di tale definizione, attribuendo rilievo alla misura in cui viene offerta la protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti con riguardo alle pertinenti disposizioni legislative e regolamentari, al rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e, infine, all'osservanza del principio del “non refoulment”. A propria volta gli articoli 36 e 37 della direttiva in parola istituiscono il regime cui deve ispirarsi l'esame delle domande di protezione internazionale, fondato sulla presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese d'origine. Essa può essere efficacemente confutata dal richiedente che adduca gravi motivi attinenti alla sua situazione particolare. La ricaduta di tali disposizioni aventi funzioni di cornice negli ordinamenti interni degli stati-membri è nel senso che su di essi grava il dovere di riesaminare periodicamente la situazione nei paesi designati come sicuri e di consultare, in sede di esame delle singole domande di protezione internazionale, fonti di informazione affidabili, comprese quelle fornite da altri stati-membri e da altre competenti e qualificate istituzioni internazionali (EASO,UNHCR,Consiglio d'Europa,etc.).Nell'adempiere i propri obblighi comunitari l'Italia si avvale, sin dal 2018 della facoltà riconosciutale dalla direttiva 2013/32 citata di designare i paesi sicuri attraverso un decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell'Interno e della Giustizia. In sede di conversione nella legge 132 del 2018 del decreto legge 113 dello stesso anno è stata inserita la previsione di cui all'art.2 bis (facente parte della generale previsione dell'art.7 bis) che precisa la nozione di paese sicuro non appartenente all'Unione Europea come quello che, secondo il proprio ordinamento interno, ed in virtù dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, possa dimostrarsi in linea generale e costante estraneo ad atti di persecuzione, di trattamenti inumani o degradanti, pericoli di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale. Valgono anche per il diritto italiano, che li ha espressamente recepiti, i tre indici prima trascritti dall'allegato I della direttiva 2013/32.
L'atto implementativo delle disposizioni generali prima riportate, applicabile in ragione del tempo della sua emanazione alla fattispecie, è il decreto ministeriale del 7 maggio 2024 che comprende la designazione dei paesi in quel momento sicuri: sfugge al perimetro normativo di rilevanza per la sentenza (e, di conseguenza, del presente saggio) il diritto sopravvenuto costituito in particolare dalla legge 9 dicembre 2024 n.187 che ha convertito con modificazioni il decreto legge 11 ottobre 2024 n.145 recante disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela ed assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali.
Con questo retroterra normativo, che attinge ad una concezione eurounitaria del diritto, la Corte di Cassazione si è misurata nell'assolvimento della propria funzione dirimente il rinvio pregiudiziale.
5. Le linee argomentative della sentenza 33398/20224 della corte di cassazione nel conflitto tra espansione e compressione nel conflitto tra possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate con procedura accelerata ed i loro effetti applicativi.
L'incalzare della forza dei vari segmenti integranti la linea di pensiero seguita dalla sentenza non poteva che portare la corte di cassazione a porsi l'interrogativo della rilevanza, nello stretto recinto processuale del caso concreto da cui ha tratto origine il rinvio pregiudiziale, della designazione di un paese come sicuro nell'ottica della delibazione della domanda di protezione internazionale. È del tutto intuitivo, infatti, che a maggiori conseguenze sul piano dell'assetto della generale posizione soggettiva del richiedente derivanti da tale qualificazione debba corrispondere una crescente accuratezza del sindacato giurisdizionale e, ancor prima, un dovizioso soppesamento delle ragioni legittimanti tale attività.
Il più immediato e consistente effetto che ne discende è quello, cui si è prima fatto cenno, dell'abdicazione al rito ordinario proprio del procedimento amministrativo in favore di quello accelerato che, poggiando su una presunzione di affidabilità dell'elenco ministeriale, contamina di un pregiudiziale alone di manifesta infondatezza la domanda di protezione internazionale: questo si risolve in una indiscutibile compromissione delle facoltà difensive del richiedente, esposto, tra gli altri, all'ulteriore rischio dello svolgimento del procedimento addirittura alla frontiera, al dimidiamento dei termini per l'impugnazione del provvedimento di rigetto (che può essere motivato col semplice riferimento alla provenienza dello straniero da un paese sicuro),alla perdurante efficacia dello stesso pur a fronte dell'impugnazione in sede giurisdizionale (fatta salva la concessione dell'inibitoria in quella sede). È allora evidente che, malgrado l'effetto decongestionante degli adempimenti da adottare nella regolamentazione dei flussi migratori cui tende la normativa interna, essa, da un lato causa la compressione delle posizioni soggettive prima delineate, e, d'altro lato, viene promossa al rango di elemento discriminante ai fini dell'accoglimento della domanda in quanto se il giudice dell'impugnazione fosse dispensato o impedito di effettuare una verifica di congruità della designazione non potrebbe che pervenire in forma acritica e meccanica alla conferma della decisione amministrativa. Già questa conformazione in forma automatica e di pura conseguenzialità materiale (censurata di recente dalla Corte Costituzionale in tema di effetti espulsivi dall'ordine giudiziario di magistrati condannati penalmente per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a due anni) renderebbe sostanzialmente apparente la tutela giurisdizionale e di conseguente spoglierebbe del fondamentale attributo dell'effettività dei diritti assicuratigli la condizione giuridica del richiedente la protezione internazionale in Italia. Si tratta di un argomento efficientista e contemporaneamente finalistico che avrebbe potuto dar luogo, in omaggio all'insopprimibile essenzialità del diritto alla tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive sancito dall'art.113 della Costituzione, ad una risposta affermativa al quesito sottoposto in funzione pregiudiziale dal Tribunale di Roma. Ed è difficile dubitare della forza intrinseca dell'argomento di salda radice eurounitaria e costituzionale al tempo stesso. Altrettanto difficile sarebbe immaginare che alla Cassazione possa essere rimasta nascosta una simile via d'uscita. Ma è anche vero che a molti non solo sarebbe potuta sembrare una sorta di scorciatoia argomentativa povera di quelle considerevoli implicazioni istituzionali, in larga parte influenzate da un dibattito fin troppo effervescente svoltosi fuori dalle aule di giustizia ed all'interno di altre, e sistematiche che la gravità della questione a viva voce suggeriva.
Ed in questa consapevolezza la Cassazione non si è sottratta al quesito di cui in questa sede, abbandonando il vellutato linguaggio curiale della sentenza, si vuole riportare con crudezza l'intima dimensione così condensabile: la lista dei paesi sicuri racchiusa nel DM 7 maggio 2024 (in quanto atto logicamente e cronologicamente antecedente alla domanda di protezione internazionale) è verità intangibile che fuoriesce dall'ordinario circuito proprio della delibazione giurisdizionale, sì da ritagliarsi una nicchia di assertività avalutativa che preclude al giudice qualunque forma di controllo critico in sede di cognizione? Ovvero pienezza dell'attività delibativa e critica del giudice e pienezza ed effettività della posizione del richiedente la protezione internazionale costituiscono un'unità logica e sistematica inscindibile la cui preservazione soltanto può garantire il pieno rispetto della normativa sovranazionale ed interna di rango costituzionale? I corollari conseguenti alla speculare adesione all'una o all'altra delle opzioni ricognitive del compito del giudice dell'impugnazione del diniego di protezione internazionale non hanno bisogno di un'analitica esposizione perché a renderne vivida l'importanza basterebbe far ricorso al dilemma se il pieno esercizio dell'attività giurisdizionale in funzione di sindacato in via incidentale della legittimità dell'azione amministrativa le cui radici risalgono alla legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865 (che, come opportunamente ricordato dalla sentenza, le stesse sezioni unite ritengono estensibile anche alle liti tra privati e pubblica amministrazione, oltre che a quelle interindividuali) possa soffrire un così sensibile depauperamento con le deteriori conseguenze di sistema prima indicate.
La Cassazione non ha volto il proprio sguardo altrove e, attraverso un serie di concatenati ed ordinati passaggi motivazionali, ha saputo pervenire ad una soluzione che, senza in alcun modo mortificare, anzi sublimando, la pienezza della funzione di baluardo garantista della giurisdizione, non ha scosso alle fondamenta il sistema di stabilità e tenuta del sistema democratico fondato sulla separazione dei poteri che una non altrettanto meditata scelta avrebbe potuto-anche contro le intenzioni dell'autore-determinare.
La continuità logica della serrata “ratio decidendi” è tale che anche un'esposizione sommaria non è in grado di farle torto.
Il primo dato, già ragionevolmente valorizzato in tutt'altro che sparute e fragili pronunce di merito, va ravvisato nella sentenza del 4 ottobre 2024 in c 406/2022 con cui la Corte Europea di Giustizia, nello statuire che l'art.37 della direttiva 2013/32 va interpretato nel senso che un paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come paese di origine sicuro per il solo motivo che si avvale del diritto di derogare agli obblighi previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, fa, tuttavia, salva la possibilità per lo stato-membro di valutare se le condizioni induttive di tale designazione interna in concreto accertate siano atte a mettere in discussione tale indicazione. In particolare, secondo la Corte di Lussemburgo, il diritto dell'Unione osta a che un paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro ove talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali della designazione enunciate nell'allegato I qui ripetutamente richiamato. La sentenza della Corte ha cospicuamente lambito il terreno processuale-e lo spunto è stato a piene mani colto dalla Cassazione-quando ha affermato che il giudice dello stato membro, adito per l'impugnazione di un provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale, è tenuto a porre a base della propria decisione tutti gli elementi acquisiti agli atti nonché portati a sua diretta conoscenza al fine di accertare se sia occorsa una violazione delle condizioni sostanziali della designazione di un paese come sicuro, benché la violazione stessa non sia stata espressamente fatta valere a sostegno del gravame.
Quest'ultima statuizione ha autorizzato la Cassazione ad indirizzarsi verso la precisa affermazione del potere-dovere del giudice della protezione internazionale di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi atti a indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale, non solo secondo le allegate condizioni personali del ricorrente, ma anche in base alla situazione generale del paese d'origine considerata rilevante. E quella che la stessa in una precedente pronuncia (25311 del 2020) aveva appropriatamente “doverosa potestà” non cessa di essere attiva per il solo fatto che l'inclusione di un paese tra quelli designati come sicuri sia il mero prodotto di informazioni unicamente vagliate in sede governativa.
Del resto, osserva la sentenza oggetto di commento, il DM del 7 maggio 2024 non gode dell'immunità dal sindacato giurisdizionale perché atto politico: tale carattere, proprio dei soli atti posti in essere da un organo costituzionale nell'esercizio della funzione di governo e, quindi, nell'attuazione dell'indirizzo politico, difetta nel provvedimento amministrativo ricognitivo dei paesi sicuri ed adottato in virtù dell'applicazione dei criteri individuati nella citata direttiva comunitaria del 2013.La disconosciuta natura di atto politico del decreto ministeriale ed il suo riconosciuto carattere di atto amministrativo disapplicabile ne consente la giustiziabilità con il connesso corteo di valutazioni giurisdizionali in ordine ai fatti posti a fondamento della designazione di un paese come sicuro. Là Cassazione lucidamente ricusa di cadere nella trappola che esegeti malevoli avrebbero potuto tenderle chiarendo che in ogni caso il giudice non sostituisce le proprie valutazioni soggettive a quelle espresse nel decreto ministeriale ed orienta il proprio accertamento all'esigenza di verificare che il potere risoltosi nella designazione non sia stato esercitato arbitrariamente o in modo incoerente rispetto ai criteri legittimanti l'inclusione di un paese nella lista di cui ci si occupa. Tale controllo rinviene la propria profonda radice giustificativa nel carattere pregiudiziale che ai fini della decisione dell'impugnazione del rigetto della domanda di protezione internazionale riveste la legittimità del decreto ministeriale, qualificato come antecedente logico-giuridico della domanda stessa. Che l'elusione di tale operazione non possa in alcun modo rientrare nella disponibilità del giudice è conclamato dalla circostanza che al suo cospetto viene il diritto costituzionalmente garantito d'asilo. La costruzione della motivazione della sentenza della Cassazione è congegnata secondo il sistema dei cerchi concentrici e della conseguenzialità argomentativa la cui ulteriore espressione sta nella proposizione secondo la quale la designazione di un paese sicuro non soltanto non è, per le ragioni appena esposte, vincolante per il giudice ma non può costituire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di quel paese, sicché la fondamentale indagine giudiziale deve proprio dirigersi verso il territorio delle condizioni che potrebbero attualmente sorreggere la designazione. Il precipitato logico del percorso decisorio del giudice la cui esplorazione istruttoria abbia deluso le aspettative di conferma della designazione come sicuro del paese d'origine del richiedente è, a giudizio della Cassazione, l'esercizio del potere, di stretto carattere processuale, di disapplicazione nel caso concreto del decreto ministeriale nella parte in cui ha incluso lo specifico paese della cui sicurezza si discute nella lista. La diretta conseguenza della disapplicazione dell’atto si riverbera sui suoi effetti dedotti in giudizio, ossia il diniego di protezione internazionale e, in via di priorità logica, la stessa ammissibilità della procedura accelerata, il cui presupposto-la provenienza del ricorrente da un paese sicuro- viene, in seguito alla penetrante indagine giudiziale, caducato. La sentenza ha cura di precisare che per stimolare tale attività di cooperazione istruttoria non può mancare l'onere di allegazione del ricorrente, specialmente adempiuto mediante la presentazione di una domanda oggettivamente qualificabile come di protezione internazionale. In tal caso, il giudice è chiamato ad accertare in concreto la pericolosità anche di solo una zona circoscritta del paese d'origine nonché la ricorrenza di condizioni afferenti al richiedente che, adeguatamente dedotte e dimostrate, circoscrivano alla sua persona la situazione di insicurezza del suo paese d'origine. Nella diretta misura nella quale il giudice pervenga a tale conclusione alla stregua del materiale probatorio comunque acquisito la sua non sarà attività di disapplicazione della fonte normativa ma dichiarativa della completa fondatezza, e del conseguente accoglimento, della domanda del richiedente, come si conviene ad un ordinario processo di cognizione piena.
A conclusione di questo compatto itinerario motivazionale così suona il principio di diritto formulato ai sensi dell'art.363 bis c.p.c.:” Nell'ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024 n.158,e alla legge 9 dicembre 2024 n.187,se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da paese designato come sicuro, il giudice ordinario, nell'ambito dell'esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all'art.37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall'autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale. Inoltre, a garanzia dell'effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l'istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l'insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest'ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale”.
6.Il senso ampio delle conclusioni decisorie.
Lo scandaglio gettato nelle profondità tecniche della sentenza ne ha lasciato affiorare un discreto numero di aspetti che ne esaltano l'idoneità a proporsi come stella di orientamento in un orizzonte prima denso di caligine ed impalpabile. Un conciso riassunto ne consente l’enumerazione quanto ai vuoti riempiti ed alle lacune interpretative colmate. Nell'ordine si segnala la necessità della lettura giudiziale della lista dei paesi sicuri in senso dinamico, vale a dire non ossificato al momento della sua emanazione e, pertanto, necessitante la rivalutazione alla luce della situazione in concreto registrabile al momento della decisione sulla richiesta di protezione internazionale nel paese d'origine del ricorrente in ordine alle garanzie di rispetto dell'assetto democratico e di correlata tutela dei diritti fondamentali dei suoi cittadini. Egualmente è da dirsi con riguardo alla chiaramente affermata esigenza dell'esame da parte del Giudice di tutte circostanze che possano provocare un negativo impatto sulla persona, la sua sicurezza, le sue libertà essenziali. Ora, questa rasserenante prospettiva è, a propria volta, il diretto risultato di una duplice ricostruzione del sistema della protezione internazionale in chiave comunitaria e domestica lodevolmente effettuata dalla Cassazione. In primo luogo, infatti, si è escluso il carattere vincolante dell'elenco dei paesi sicuri per il Giudice dell'impugnazione del provvedimento di diniego della protezione chiesta dal cittadino straniero e si è, di conseguenza, riespanso un autonomo potere valutativo indirizzato verificare se le risultanze istruttorie largamente acquisibili in una diffusa logica di cooperazione istruttoria valgano a sostenere la plausibilità e la permanente legittimità della scelta originaria di inclusione di un paese terzo tra quelli sicuri. Il riconoscimento del potere rivalutativo in sede giurisdizionale si prefigge l'obiettivo di garantire al richiedente la piena effettività della tutela di quegli stessi diritti fondamentali che la nostra Costituzione-in questo assolutamente assecondata dal diritto eurounitario-attribuisce ai cittadini italiani e, collateralmente, a conseguire l’ottenimento dell’asilo. Ed infatti, la l'esercizio del potere sindacatorio mira all'esito della caducazione nel caso concreto del provvedimento amministrativo del quale sia stato dimostrato il disallineamento rispetto alle specifiche condizioni oggettive la cui ricorrenza rende legittima la designazione di paese sicuro. La tecnica della disapplicazione in via incidentale del provvedimento, fedele ad una tradizione ottocentesca mai tramontata, che la Cassazione ha senza indugi sposato, si rivela il mezzo più felice dal punto di vista sistematico. In secondo luogo, la sentenza compie una provvida incursione nel campo processuale consentendo al Giudice, in un certo senso costringendolo, ad allargare non soltanto il materiale probatorio utilizzabile ma anche le modalità di acquisizione. Esse, infatti, possono prescindere dall'allegazione da parte del ricorrente delle circostanze utili al conseguimento dell'ambito bene della vita, ossia la protezione internazionale (ferma, comunque, restando l'esigenza che tale aspirazione venga chiaramente rappresentata). Si assiste, così, ad una rimodulazione costituzionalmente orientata dei poteri istruttori del Giudice, ispirandoli alla finalità di concretizzazione di diritti fondamentali che una concezione asfittica della fase giudiziale dei procedimenti di protezione internazionale allontanerebbe dalla meta. La specialità della materia si riflette, pertanto, secondo il disegno della Cassazione, nella specializzazione delle linee portanti del relativo giudizio: né ostacoli sarebbe stato possibile opporre a questa ariosa prospettiva in considerazione della premessa dichiarata dell'operazione: la garanzia della piena effettività dei diritti riconosciuti in ambito eurounitario al migrante.
Per concludere questa sintetica analisi retrospettiva della sentenza va ricordato che l'intero telaio che attorno ad essa è stato concepito non ha mai disdegnato di perseguire il fine della armonia del sistema, in maniera plateale individuata nella ribadita inalienabilità del potere amministrativo di designazione dei paesi sicuri e nella riaffermata insostituibilità del suo esercizio. Perché il Giudice, nel procedere alla doverosa verifica di legittimità sugli esiti della valutazione effettuata dall'amministrazione, non si surroga ad essa né le usurpa attribuzioni, ma si limita-né potrebbe ometterlo-al controllo dell'esercizio non arbitrario né capriccioso di tale potere.
Ora, proprio quest'ultima osservazione aiuta a formulare un giudizio completo su significato, portata, effetti della sentenza. Per giungere a tale risultato occorre in primo luogo prendere le mosse dal clima e dalle aspettative che circondavano la pronuncia, cui veniva impropriamente affidato il compito di arbitrare una contesa tra poteri dello Stato. Contesa, in effetti, mai nemmeno adombrata per l'intuitiva ragione che l'intima ragion d'essere della giurisdizione è quella di dirimere, con i mezzi propri dell'ordinamento giuridico, controversie, giammai di provocarle, tanto meno in funzione antagonista di altri poteri. È evidente la distorsione prospettica che si annida nel pensiero secondo cui l'affermazione del momento giurisdizionale espresso attraverso un provvedimento del Giudice corrisponda nelle intenzioni o negli effetti ad un attentato alle altrui sfere di attribuzioni (e, ove anche in concreto si desse luogo ad una siffatta, temuta ipotesi sarebbe risolutivamente proponibile il conflitto di attribuzioni davanti la Corte Costituzionale). Di questo pericolo di dannoso fraintendimento ha mostrato di essere responsabilmente conscia la Cassazione nella propria ponderata sentenza. Essa non sembra destinata ad esser relegata negli angusti spazi propri dei giudizi esclusivamente tecnici, magari spogli di un intento animatore. Ed invero, la pronuncia assolve una funzione che nelle sue più elevate manifestazioni è immanente nelle giurisdizioni di vertice dei sistemi di common law, quella di additare con chiarezza un orientamento rappresentativo di una “policy”, ossia di un modo di intendere l'ordinamento giuridico nel suo complesso e nelle sue molteplici sfaccettature alla luce dei principi socialmente accettati e secondo lo spirito del tempo. E non di abusiva interpretazione del proprio ruolo si tratta, ma di un modo di ravvivare il diritto accostandolo alla realizzazione dei valori alla cui tutela esso è preposto, a partire da quelli di matrice costituzionale. E dato che la materia cui sono dedicate queste riflessioni è quella dei diritti umani, val la pena rievocare il pensiero del compianto Lord Bingham of Cornhill, autentico paladino del liberalismo giudiziario inglese, che nella sua opera finale dedicata alla Rule of law enfaticamente proclamava la necessità che gli ordinamenti giuridici (non solo quelli della famiglia anglo-americana) dovessero assicurare adeguata tutela ai diritti umani fondamentali. La chiosa sgorga con naturalezza: a tale ambizioso traguardo non possono che cospirare operazioni di “policy” quale quella meritoriamente compiuta dalla sentenza esaminata che si propone come utile antidoto alle degenerazioni di un dibattito talvolta esondato dagli argini della sana dialettica istituzionale.
7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.
La sentenza che si commenta ha fra gli altri pregi quello di avere ancora una volta dissipato i possibili dubbi che aleggiano attorno all’istituto del rinvio pregiudiziale “interno” ed alla sua a volte ventilata vocazione alla sterilizzazione del ruolo del giudice di merito in favore di una prospettiva “cassaziocentrica”, tutta ricamata attorno ad un’immagine verticistica del giudice di ultima istanza che tutto domina in maniera asfissiante all’interno della giurisdizione a scapito del giudice di merito, confinato nell’alveo di un comprimario della giurisdizione, tutto proteso a trovare il bandolo delle matasse, spesso complesse, allo stesso demandate, con un comodo “r-invio” alla Corte della soluzione da adottare.
Già altre volte abbiamo provato ad evidenziare la centralità dello strumento introdotto con la riforma Cartabia nel processo civile sulla via dell’effettività della tutela giurisdizionale e della riconquistata centralità del dialogo fra merito e legittimità, altresì cogliendo i profili di collegamento con il rinvio pregiudiziale “esterno” alla Corte di Giustizia (V., volendo, R. Conti, I rapporti tra rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, in Il diritto tributario nella stagione delle riforme Dalla legge 130/2022 alla legge 111/2023, a cura di E. Manzon e G. Melis, Pisa, 2024, 97 ss).
Quel che preme in questa prima riflessione alla sentenza n.33398/2024 sottolineare è la circostanza che il giudice di legittimità, oltre a darsi carico di fornire l'interpretazione del dato normativo interno alla luce dei canoni anche fissati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, indossa i panni di un interprete particolarmente qualificato nel panorama della giurisdizione nazionale chiamata ad occuparsi delle controversie in tema di immigrazione. Questo fa valorizzando il senso ed il significato della sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea resa il 4 ottobre 2024 che, come noto, ha costituito uno dei punti di forte contrapposizione fra politica e magistratura in ordine alla rilevanza delle eccezioni personali ai fini della esclusione della natura sicura del paese di origine. E lo fa riportando i termini del confronto ermeneutico nell’unico campo suo proprio, appunto costituito dall’agorà giurisdizionale, ormai stabilmente popolata da attori che, pur svolgendo diverse funzioni, sono tutti consapevoli del ruolo di ciascuno di essi.
Primo fra tutti il giudice di merito che ha sollevato il rinvio pregiudiziale. Un giudice fortemente responsabile, consapevole allo stesso modo della centralità della sua posizione rispetto al governo della lite innanzi allo stesso pendente, ma altresì conscio delle ricadute che la decisione del singolo caso poteva riprodursi concentricamente tanto sul carico di contenzioso omogeneo pendente nel medesimo plesso giurisdizionale quanto su quello di altre sezioni specializzate sparsi nel territorio nazionale.
Un giudice di merito che, dunque, “decide di non decidere” non già in una defatigante prospettiva, ma al contrario si colloca consapevolmente in un anfiteatro al cui interno potersi confrontare a viso aperto ed in modo diretto che la Corte di cassazione, vista non come austero ed implacabile controllore della correttezza del suo dire, ma come compagno di viaggio “insieme” al quale percorrere un cammino, tracciare una linea, offrire chiarezza, stimolare ragionamenti. Al punto che la soluzione finale scolpita nel principio di diritto è realmente frutto condiviso ed equi ordinato, originato del cooperante sforzo ermeneutico di remittente e decisore finale al quale spetta, per funzione, il compito di mettere a frutto i dubbi, raccogliere gli stimoli del remittente e riportarli a sistema in modo che esso torni utile ad una giustizia capace di mostrarsi tanto efficiente ed efficace quanto “giusta”, a tutti i livelli nei quali viene quotidianamente amministrata.
Tutto questo in un incedere nel quale ragionare secondo i canoni della contrapposizione piramidale nel senso che ci ha consegnato la storia – e che pure viene perpetuato in tempi recenti dal titolo di apertura che compare aprendo il sito internet della Corte di cassazione, indicata come “Il vertice italiano della giurisdizione ordinaria” - deve fare i conti con un tempo presente profondamente modificato, nel quale i nessi di collegamento fra i vari protagonisti della giustizia si avvertono anch’essi soggetti a processi di notevole trasformazione, governati da logiche diverse.
Se si condivide questa prospettiva si ha ragione di comprendere quanto la dimensione verticistica che spesso viene, non sempre in buona fede, rappresentata quando si delinea il ruolo del giudice di legittimità sia destinata inesorabilmente a cedere il passo verso un’altra più realista concezione del ruolo della legittimità, al centro di un crocevia di rapporti istituzionali interni alle giurisdizioni nazionali e sovranazionali che la stessa mostra di governare offrendo un volto tanto cooperante e discorsivo quanto autorevolmente pacificatore, in piena coerenza con una prospettiva pienamente condivisa (a pena di autoreferenzialità sia consentito il rinvio a Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021; La funzione nomofilattica delle Sezioni Unite civili vista dall’interno (con uno sguardo all’esterno), 11 gennaio 2024, apparsi su questa Rivista).
Il provvedimento in rassegna, certo, avvantaggia notevolmente chi predilige la prospettiva qui caldeggiata in ordine alle relazioni fra le Corti, forte di una trama argomentativa sulla quale nulla di più va e può essere aggiunto a quanto rappresentato da Mario Serio.
Ma non può non collegarsi, e non solo per ragioni di ordine temporale, a quel fil-rouge di provvedimenti interlocutori, inaugurato da Cass.n.34898/2024, che lo stesso Collegio della prima sezione civile ha esitato alla vigilia del nuovo anno, questa volta sulla non meno martoriata e limitrofa questione della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro essere effettuata, attraverso un decreto ministeriale, con eccezioni di carattere personale.
Provvedimenti sui quali non è qui il caso di soffermarsi, se non per coglierne la naturale continuità di senso, l’unicità della prospettiva, l’orizzonte comune al cui interno si collocano, ancorché scolpito da una “non decisione motivata” della Corte di cassazione.
L’apparente ossimoro dell’espressione appena utilizzata, se riferita ad un provvedimento di un giudice di ultima istanza è, infatti, ancora una volta conferma tangibile di quanto il ruolo della Corte di cassazione si dispieghi in triangolazioni sempre più complicate che tendono, anzi, spesso a suggerire figure geometriche ancora più complesse, nelle quali il giudice di legittimità si confronta con diritti viventi interni – provenienti tanto dal giudice di merito quanto dalla Corte costituzionale - e sovranazionali, sempre più animati e vivificati dalla giurisprudenza delle Corti di Lussemburgo e Strasburgo, in un incedere che tende a superare gli angoli e si propone come naturalmente circolare.
Un orizzonte nel quale il “non decidere” della Cassazione in quella vicenda, nell’attesa della pronunzia della Corte di Giustizia UE, collegato però all’ipotesi di lavoro sulle questioni controversie idealmente consegnata alla Corte di Lussemburgo, si pone in parallelo alla richiesta di rinvio pregiudiziale “interno” del Tribunale di Roma qui commentata e si colloca come momento alto della giurisdizione nazionale non meno di quello espresso con il principio di diritto scolpito da Cass.n.33398/24. Pronunzie che appaiono animate da un profondo senso di “rispetto” verso i compagni di viaggio- le parti del procedimento, il giudice di merito dei provvedimenti impugnati, la Corte di Giustizia UE investita in procedimenti limitrofi di alcune delle questioni controverse – conducendo il giudice di legittimità a mostrare, anche in tale occasione, il suo volto cooperante, tanto dialogante quanto fermo nel voler ribadire il circuito giuridico nel quale i profili controversi devono muoversi.
Un volto che si mostra, dunque, in parallelo con quello del Tribunale capitolino che aveva attivato il rinvio pregiudiziale “interno” nella questione sulla disapplicazione e sui poteri del g.o., tanto quanto quello degli altri giudici di merito che, a loro volta, avevano proposto in autonomia altri rinvii pregiudiziali “esterni”, rivolti alla Corte di Giustizia UE sul tema designazione paesi sicuri- eccezioni personali. Posizioni, queste ultime, di dichiarato ascolto, attento verso gli altri attori della giustizia, tanto quanto di costruttivo apporto di ragionamenti, riflessioni offerte in una prospettiva non decisoria ma, per l’appunto, cooperante.
Tornando dunque al provvedimento qui esaminato emerge la encomiabile “responsabilità” del tribunale remittente, tutt’affatto improntata ad esigenze di placido e deferente ossequio al dictum della Cassazione, qualunque esso sia, ma al contrario consapevole di essere motore propulsivo di una decisione della Cassazione che, fondata sulle questioni messe sul tappeto, avrebbe potuto e dovuto porsi come chiarificatrice di una questione estremamente controversa e divisiva, tanto in ambito giurisdizionale che in agoni sempre più interessati dalla “parola” del giudice su tali temi anche se a fini che qui non interessa indagare.
Orbene, la ricostruzione logico giuridica operata dalla Corte di Cassazione, finemente rappresentata da Mario Serio nei paragrafi precedenti, fissa dei paletti in tema di disapplicazione e di poteri del giudice in tema di protezione del richiedente asilo anche in caso di mancata contestazione della designazione di paese sicuro contemplata dal decreto ministeriale- di questo occupandosi il quesito pregiudiziale- e si inscrive come esempio virtuoso di cooperazione fra giudice di merito, di legittimità e Corte di giustizia UE che dà il senso di quanto sia diventato complesso, articolato e partecipato il diritto vivente del tempo presente.
La Cassazione, pur consapevole dell’interferenza del rinvio pregiudiziale “interno” sollevato dal Tribunale di Roma rispetto all’interpretazione del diritto eurounitario alla quale era indubitabilmente chiamata, con piena consapevolezza esclude la necessità di rinviare a sua volta la questione alla Corte di giustizia, ravvisando nel quadro del diritto vivente del giudice di Lussemburgo elementi di chiarezza tali da giustificare i risultati interpretativi poi espressi nel principio di diritto.
E ciò fa ricavando dal diritto vivente della Corte di giustizia alimento importante al suo ragionamento, al cui interno si fa egli stesso interprete parlante e voce della Corte di giustizia UE. Un lavorio ermeneutico, quello della Cassazione, al quale l’operatore del diritto attento, sia esso o meno giudice dell’immigrazione, non può dedicare un’attenzione epidermica.
Viene in tal modo scritta una pagina importante sulla strada del dialogo costruttivo fra merito e legittimità, capace di dimostrare le potenzialità e la ricchezza del dialogo a distanza voluto dal legislatore della riforma processuale civile con l’introduzione del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione da parte del giudice di merito (art.363 bis c.p.c.). Non già, dunque, per coltivare l’idea della sovra ordinazione piramidale della giustizia, quanto quella della fiducia reciproca e cooperazione che può rendere al meglio i suoi frutti se si approfondiscono in una chiave di crescita comune le conoscenze tanto delle tecnicalità giuridiche quanto dei rispettivi ruoli di sostanza svolti all’interno della giurisdizione.
In conclusione, lo strumento del rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione si conferma costituire strumento di grande utilità per rafforzare il legame ed il dialogo fra merito e legittimità, facendolo forse definitivamente uscire dalle sacche aride di un suprematismo giudiziario della Cassazione sul merito che è ormai la storia ad avere definitivamente emarginato, ponendo il giudice di legittimità in un circuito a sua volta condensato da spinte interne e sovranazionali che possono essere messe a profitto solché tutti i protagonisti si orientino verso un esercizio della giurisdizione sempre più carico di contenuti, sempre più cooperante e collaborativo, al netto delle caratteristiche proprie di ciascun attore della giustizia che rimangono e devono rimanere inalterate.
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro, Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi, Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri, La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, secondo una prospettiva “interna” e di diritto dell’Unione Europea di Marcella Cometti, Un giudice a Roma. Gli immigrati, il governo e la protezione dello stato di diritto di Cataldo Intrieri, Immigrazione, rimpatri e incolumità del richiedente asilo. Intervista a Rita Russo di Paola Filippi.
3 gennaio 1925. Un triste ricordo che deve illuminare il presente
di Enrico Manzon
Sommario: 1. Il fatto in questione - 2. Le sue premesse, le sue conseguenze - 3. La complicità della monarchia - 4. Il giudizio sul fascismo e su Mussolini - 5. Il dovere morale e civile di difendere la Costituzione.
1. Il fatto in questione
3 gennaio 1925, cento anni fa, discorso alla Camera dei Deputati di Benito Mussolini, Presidente del Consiglio dei ministri in esito a elezioni caratterizzate dalla violenza delle sue squadracce e dai brogli. Per averlo denunciato e quindi aver chiesto l’annullamento di esse, Giacomo Matteotti il 10 giugno dell’anno precedente da una di quelle bande era stato sequestrato nel pieno centro di Roma e quindi ucciso. Mussolini ne doveva rispondere davanti al ramo basso del Parlamento.
Come si era arrivati a questo “appuntamento”? Un giudice con la schiena dritta, fedele al proprio dovere istituzionale, aveva avviato l’indagine sull’omicidio del deputato socialista e, presto giungendo agli esecutori materiali, che faceva arrestare, era poi risalito ai complici di livello superiore; che, a loro volta arrestati, in due memoriali avevano indicato nel Capo del governo e leader del movimento fascista il mandante del delitto.
Quel giorno, alla Camera, Mussolini dapprima provoca i deputati chiedendo loro di procedere alla sua messa in stato di accusa avanti al Senato, in applicazione all’art. 47 dello Statuto del Regno; caduta nel vuoto la sua sfida, passa al contrattacco, assumendosi la «…responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto avvenuto…».
2. Le sue premesse, le sue conseguenze
Gli storici generalmente convengono che quel discorso sia stata la svolta definitiva verso la dittatura fascista, insomma che si tratti di una data epocale, come il 14 luglio 1789 o il 14 ottobre 1917. Ancora di più dunque del 28 ottobre 1922.
Anche se indubbiamente la Presa della Bastiglia ovvero del Palazzo d’inverno sono stati momenti “topici” nelle rispettive rivoluzioni, così come lo è stato questo intervento mussoliniano, vi è tuttavia da osservare che la storia delle nazioni è un fenomeno molto più complesso e non può certo essere ridotto alle azioni, materiali o, come in questo caso, verbali di un sol giorno.
Ed infatti il fascismo eruttava eversione e violenza, anche omicidiaria, ormai da anni, in coda alla Prima guerra mondiale e come suo drammatico postumo. Questi sono i prodromi di sedizione violenta che hanno consentito a Mussolini di sfidare il Parlamento il 3 gennaio 1925, al culmine delle polemiche sull’omicidio Matteotti e, secondo il suo tragicomico costume, di gonfiare il petto offrendolo agli strali di avversari che, ormai sconfitti, non ne avevano più nella faretra e che non volevano “fare la fine” di Matteotti. Il Presidente del Consiglio dei ministri, incipiente Duce, ne è quindi uscito indenne, anzi rafforzato ed è stato questo sicuramente il punto di rottura sostanziale dell’ordinamento statutario liberale, che però era ormai un “fantasma istituzionale”, poi rapidamente liquidato dalla dittatura.
3. La complicità della monarchia
Era forse possibile che il corso della storia della nazione italiana, allora di così recente consolidamento in uno Stato unitario, avesse uno sviluppo diverso? Che l’Italia venisse risparmiata dal dramma del fascismo istituzionalizzato e della sua tragica fine?
Non è insensato pensare che sì, forse, lo fosse ancora. Certo il fascismo era già molto forte, fortemente sostenuto dalle élites (industriali, agrari), in una società ancora largamente agricola e con il consistente “braccio armato” dei reduci dei campi di battaglia della Grande Guerra. È altrettanto indubbio che le opposizioni democratiche erano divise, soprattutto quelle di sinistra, secondo una triste tradizione di questo Paese. Quindi la situazione politica, economica e sociale, per certi versi culturale del Paese era certamente favorevole all’ascesa dell’Uomo della Provvidenza.
Tuttavia, nel 1922 ed ancora nel 1925, almeno in astratto, vi era un “potere dello Stato” che aveva la forza, non solo istituzionale, ma effettiva, reale, di cambiare il verso della storia nazionale: la Monarchia, il Re. Vittorio Emanuele III aveva infatti poteri – costituzionali – che gli avrebbero consentito di fermare con le armi la Marcia su Roma e poco più di due anni dopo, al culmine dello “scandalo Matteotti”, di provocare le dimissioni di Mussolini da Capo del Governo. Non solo perché aveva il controllo – saldo – dell’esercito e delle forze di polizia, ma anche perché l’Italia era un Paese profondamente monarchico, in virtù del capitale di consenso derivante alla Casa Savoia dalle Guerre d’indipendenza e dalla Prima guerra mondiale. Del resto tale era ancora, nonostante tutto, l’Italia del 2 giugno 1946.
Ma quando le speranze di una Nazione – sfortunatamente, inopinatamente – si aggrappano ad una sola persona, le chances, di per sé, si assottigliano. Con “quel re” erano semplicemente nulle. Egli era infatti un reazionario, che non credeva affatto al valore dello Statuto, ma soprattutto incline al tradimento della Nazione, come appunto nell’ottobre 1922 e poi, ancora più tragicamente, l’8 settembre 1943. Al fondo, era un pusillanime. Quindi che il monarca fermasse Mussolini ed il fascismo è soltanto una, forse non banale, ma tristissima, fantasia.
4. Il giudizio sul fascismo e su Mussolini
Quello che avvenne dopo il 3 gennaio di cento anni fa è noto. Una dittatura ferrea, le leggi razziali, una guerra che ha prodotto oltre 300 mila italiani morti e la distruzione del Paese.
Fu dunque il “male assoluto”? Assolutamente sì, non ci possono essere dubbi.
Per tale ragione è inconcepibile e deprimente constatare che rigurgiti del fascismo abbiano percorso la storia repubblicana, con i punti massimi delle stragi, e che tuttora ci siano personaggi politici e mezzi di informazione che si riferiscano favorevolmente, o quantomeno benevolmente, al fascismo e a Benito Mussolini, che in realtà meriterebbe la condanna della storia per il solo fatto dal quale si è “difeso” in quel discorso alla Camera dei Deputati. Purtroppo i morti che ha sulla coscienza sono stati tantissimi di più. Troppi. Per tale ragione è insostenibile che abbia fatto anche cose buone.
Con le mani sporche del sangue degli italiani e di altri popoli vigliaccamente aggrediti le “cose buone” sono sporcate di questo sangue, di queste, immani, sofferenze.
Un dittatore assassino non fa mai “cose buone”.
Perciò non fanno nemmeno sorridere le caricature odierne del ventennio. Sono cose serie, che vanno prese sul serio. È però anche vero che tutta “l’acqua che è passata sotto i ponti”, anzi, meglio, tutto quel sangue che è stato versato, sono sicuramente uno scudo democratico forte, un argine, interno ed europeo, che, purtroppo, negli anni Venti del Novecento non c’era. E poi oggi, fortunatamente, non c’è più un Capo di Stato che possa essere in qualsiasi modo complice di un’eversione autoritaria.
I pericoli però ci sono. I nemici della libertà non sono mai stati così forti in Italia, in Europa e negli Stati Uniti d’America, citando solo i Paesi nei quali la democrazia è consolidata. Quindi la “guardia” deve essere alzata. La storia deve insegnare e bisogna impedire che i suoi drammi si ripetano.
Nel nostro Paese, la prima linea di difesa democratica è la Costituzione, che va dunque protetta da ogni aggressione che ne stravolga il mirabile equilibrio. Non è un testo uscito da un istituto giuridico universitario, ma che – direttamente – proviene dalla guerra di Liberazione nazionale ed è scritto dai protagonisti della stessa; che è co-generato dalla dura esperienza della dittatura, affinché non si ripeta. Mai più.
5. Il dovere morale e civile di difendere la Costituzione
Questo equilibrio costituzionale dei rapporti tra i poteri dello Stato e tra funzioni pubbliche centrali e locali è tuttavia oggi investito da forti venti di cambiamento, che rischiano di alterarlo in profondità, stravolgendolo.
Iniziative governative di revisione costituzionale, per un verso, mettono nel centro del mirino la forma di governo parlamentare, con un largo spostamento di potere al Capo dell’Esecutivo, da eleggersi direttamente (unicum mondiale) con il correlativo, forte, inquietante, depotenziamento del Parlamento, del Capo dello Stato e financo della Corte costituzionale; per altro verso, stravolgono l’assetto della magistratura e del suo autogoverno, con un chiaro, evidente, dichiarato, intento di limitarne l’autonomia e l’indipendenza, quindi la funzione di garanzia che le è propria e che peraltro è il tratto distintivo dello Stato di diritto, secondo le Carte e la giurisprudenza eurounitarie.
È una deriva istituzionale pericolosa, che va contrastata. Senza se, senza ma.
Il ricordo dolente del fatto parlamentare del 3 gennaio 1925, dei suoi presupposti e delle sue conseguenze drammatiche, deve quindi motivare l’impegno civile odierno. Questo Paese ha già pagato un prezzo enorme alla mitica dell’Uomo forte. È bene non dimenticare ed ancora di più è bene non ripetere l’errore di “dare le chiavi” della civitas ad una persona sola, allo stesso tempo depotenziando le bilancianti garanzie costituzionali.
Questa “scorciatoia” porta – sempre – in un baratro, cadendo nel quale, se tutto va bene, ti fai – molto – male.
A chi servono le riforme?
di Antonio Scalera
A chi servono le riforme?
Servono ai governanti e ai loro padroni?
Oppure servono ai governati, ai singoli, alle loro associazioni e alle formazioni sociali, come le definisce la Costituzione?
Con questi interrogativi si apre il libro “Loro dicono noi diciamo”, (Ed. Laterza, 2024, pp. 205), con il quale tre autorevoli giuristi spiegano perché le riforme, che sono al centro dell’agenda di governo (“premierato”, separazione delle carriere e autonomia differenziata), si pongono in contrasto con alcuni principi cardine della Costituzione: la partecipazione democratica; l’indipendenza della magistratura; l’uguaglianza tra i cittadini.
Gustavo Zagrebelsky, professore emerito dell’Università di Torino e già Presidente della Corte Costituzionale, osserva che la riforma sul “premierato” – prevedendo l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e l’attribuzione di un premio di maggioranza alla lista vincitrice – porta ad una vera e propria “diarchia costituzionale”, nella quale l’altro vertice dello Stato, il Presidente della Repubblica, rischierebbe di perdere il suo tradizionale e importantissimo ruolo di garante dell’unità nazionale.
Infatti, al di là di alcune, pur rilevanti, modifiche “di contorno” del testo costituzionale (quali la riduzione del numero dei senatori a vita, l’eliminazione della controfirma del Governo per alcuni atti del Presidente della Repubblica), il cuore della riforma sta nell’elezione diretta per cinque anni del Presidente del Consiglio, con premio di maggioranza alle liste e ai candidati collegati al vincitore.
Poiché si fa dipendere l’entrata in vigore della riforma sul “premierato” dall’approvazione della legge elettorale, Zagrebelsky mette in guardia dal rischio di avere una Costituzione “nuova” approvata, ma congelata, e di una Costituzione “vecchia”, disapprovata, ma ancora vigente.
Una concezione della legge “figlia del potere” (“Alla legge si ubbidisce non perché è giusta, ma perché è legge”), contrapposta a quella della legge “figlia della libertà” (“servi legum sumus ut liberi esse possimus”), sembra pervadere l’ordito della riforma, secondo Zagrebelsky, il quale osserva che la partecipazione dei cittadini non è conciliabile con l’investitura di qualcuno una volta per tutte per lunghi periodi. L’investitura elettorale – prosegue l’autore – serve a eleggere, cioè a scegliere, a selezionare; non serve a creare una categoria di eletti.
Armando Spataro, magistrato dal 1975 al 2018 e componente del CSM dal 1998 al 2002, spiega bene, nella parte centrale del volume, perché la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere (unitamente alla separazione del C.S.M. e all’istituzione di un’Alta Corte disciplinare) mette a rischio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
Una riforma che si inserisce nel solco di una “pioggia” di iniziative legislative del Governo in tema di giustizia, nessuna delle quali – evidenzia Spataro – appare in grado di risolvere i veri problemi del settore che, ormai da anni, affliggono il settore: tempi lunghi dei processi, carenze di risorse e di organico giudiziario e amministrativo, ecc.
Spataro chiarisce subito che, in base alle vigenti norme sull’ordinamento giudiziario, la separazione delle funzioni si è già realizzata, poiché il passaggio dall’una all’altra funzione può esercitato una sola volta nel termine di 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni. Successivamente, il passaggio dalle funzioni requirenti alle sole funzioni giudicanti civili o del lavoro e quello dalle giudicanti alle requirenti sono consentiti, per una volta soltanto, a determinate condizioni.
“Separazione delle funzioni” da non confondere, appunto, con la “separazione delle carriere”.
Due formule nient’affatto sovrapponibili, in quanto l’una è già disciplinata dalla legge, l’altra è, appunto, quella che si vorrebbe introdurre con la riforma.
Perché, dunque, la “separazione delle carriere”?
Perché, si dice, in tal modo si porrebbe fine alla contiguità tra giudici e P.M., contiguità che troverebbe riscontro, ad esempio, nell’elevato numero di richieste cautelari formulate dai P.M., accolte dai GIP e, poi, confermate dal Riesame.
Spataro replica: la tesi dell’“appiattimento” dei giudici sulle posizioni dei P.M. è smentita, sul piano quantitativo, dalle alte statistiche di assoluzioni e, sul piano qualitativo, dal rigetto delle ipotesi accusatorie in importanti processi nei quali alcuni uffici di Procura avevano investito molto in termini di impegno e di immagine.
E obietta: perché l’alto numero delle richieste cautelari accolte dai giudici, anziché essere visto come un segno di contiguità, non viene considerato come dimostrazione del fatto che i P.M. condividono effettivamente con i giudici la “cultura della giurisdizione”?
“Cultura della giurisdizione” che non è affatto – sottolinea Spataro - una vuota espressione né uno slogan pubblicitario.
Con essa si vuole dire che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di P.M., con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, dovrebbe condurre il P.M. a valutare la fondatezza e il valore degli elementi che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cosiddetta “brillante operazione”, ma in funzione della loro valenza rispetto al giudizio.
In altre parole, i canoni della valutazione della prova devono unire P.M. e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.
Vengono ricordate, a questo riguardo, le parole di Marcello Maddalena, già Procuratore Generale della Repubblica presso il Tribunale di Torino: “La Costituzione ha previsto che giudici e P.M. facciano parte di un unico ordine giudiziario. Quello che accomuna le due funzioni e le rende entrambe incompatibili con quelle della difesa è il principio di verità. Il P.M. ha come scopo la scoperta della verità (che può essere anche l’innocenza dell’imputato), e il giudice deve accertare la verità. La difesa delle parti private non è tenuta ad accertare la verità”.
I sostenitori della separazione delle carriere citano, poi, a favore della loro tesi alcuni passaggi di un intervento di Falcone del 1989.
Ma è una citazione fuorviante.
In realtà, annota Spataro, si tratta di un’interpretazione errata di frasi estrapolate da un testo ben più ampio, la cui lettura completa dimostra che Falcone teorizzava la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della polizia giudiziaria, rispetto a quanto richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del 1988.
Né potrebbero trarsi argomenti a sostegno della separazione dall’art. 111 Cost.
La parità delle parti, di cui parla il secondo comma, non si gioca sul piano istituzionale: l’avvocato è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o, comunque, l’esito più conveniente per il proprio assistito, che lo retribuisce per questo, ed è figura diversa dal P.M., che è un’autorità giudiziaria indipendente, non riducibile al ruolo di “avvocato della polizia”.
La parità delle parti di cui parla l’art. 111, comma 2 Cost. è solo quella endo-processuale, garantita, cioè, dalle regole del processo.
Dall’analisi del panorama internazionale, condotta attraverso un approfondito esame comparato degli ordinamenti stranieri, emerge che, lì dove la carriera dei P.M. è separata da quella del giudice, il P.M. dipende, in effetti, dall’esecutivo.
Spataro passa, quindi, ad esaminare analiticamente il testo della riforma, il cui nucleo è costituito dalla modifica dell’art. 104 Cost., che sancisce, appunto, la separazione della magistratura in due distinte carriere (giudicanti e requirenti) e dall’art. 105 Cost., che istituisce l’Alta Corte disciplinare.
Alla separazione delle carriere è, poi, collegata la separazione del C.S.M., ma non quella dei Consigli giudiziari, di cui – osserva acutamente Spataro - allo stato non si prevede lo sdoppiamento.
Infine, la riforma sull’autonomia differenziata.
Delle tre è quella che ha già avuto attuazione normativa con la legge 26.6.2024, n. 86 (c.d. legge Calderoli), dichiarata, per larga parte, incostituzionale con la recentissima sentenza n. 192 del 3.12.2024.
Resta ancora sub iudice l’ammissibilità del referendum abrogativo delle norme residue, ammissibilità sulla quale è chiamata a pronunciarsi la Cassazione.
Francesco Pallante, professore ordinario di diritto costituzionale, spiega che l’art. 116 Cost. prevede, al terzo comma, la possibilità che, con una legge dello Stato, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” siano attribuite alle regioni ordinarie che ne facciano richiesta, disponendo che ciò possa avvenire in tutte e venti le materie di competenza ripartita (quelle elencate nel comma 3 dell’art. 117) e in tre materie altrimenti rientranti nell’ambito della competenza statale esclusiva (organizzazione dei giudici di pace; istruzione; ambiente e beni culturali).
È di questo che si parla quando si evoca l’autonomia regionale differenziata; del fatto, cioè, che le regioni ordinarie, non anche quelle a statuto speciale, possano ricevere, ciascuna secondo le proprie particolari richieste, nuovi poteri nelle ventitré materie ora ricordate.
Sicché, se fino ad ora la differenziazione tra le regioni riguardava non i poteri ma il loro utilizzo, ora la differenziazione potrà riguardare i poteri stessi.
Ma esattamente quali poteri?
Che cosa si debba intendere per “ulteriori e particolari forme di autonomia” non è affatto chiaro. Significa che le regioni possono ottenere soltanto alcuni profili circoscritti riconducibili ad alcune delle materie individuate dall’art. 116, comma 3 Cost.? O che possono impossessarsi integralmente di tutti i profili riconducibili a tutte e ventitré le materie in esso richiamate?
Leopoldo Elia, tra i principali costituzionalisti del suo tempo, aveva messo in allarme sui rischi legati a questa seconda interpretazione.
La sua preoccupazione era che la norma in parola consentisse di realizzare una modifica costituzionale in via di fatto, senza sottostare al rispetto delle garanzie previste dall’art. 138 Cost., così attentando alla rigidità della Carta costituzionale.
Insomma - conclude Pallante - se si vuole evitare che la disposizione risulti illegittima perché lesiva dell’unità e dell’indivisibilità dell’Italia, la sola possibilità è interpretarla in modo da ritenere che ciascuna regione possa ricevere competenze puntuali e circoscritte, motivate da peculiarità non altrimenti governabili attraverso gli strumenti di cui già oggi ordinariamente dispone.
Osservazione, questa, in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale che, nel dichiarare l’incostituzionalità di numerose norme della legge Calderoli, ha, di recente, affermato che “l’art. 116, terzo comma, Cost., richiede che il trasferimento riguardi specifiche funzioni, di natura legislativa e/o amministrativa, e sia basato su una ragionevole giustificazione, espressione di un’idonea istruttoria, alla stregua del principio di sussidiarietà. La ripartizione delle funzioni deve corrispondere al modo migliore per realizzare i principi costituzionali. L’adeguatezza dell’attribuzione della funzione ad un determinato livello territoriale di governo va valutata con riguardo ai criteri di efficacia ed efficienza, di equità e di responsabilità dell’autorità pubblica”.
In definitiva, dalla lettura del volume emerge chiaramente che le tre riforme al centro della scena politica attuale appaiono accomunate da un fil rouge: un massiccio intervento di modifica della seconda parte della Costituzione.
Si tratta, ora, di vedere se il percorso riformatore giungerà a compimento, pur avendo già conosciuto i primi “intoppi”. E, poi, se e quando le riforme entreranno “regime”, bisognerà verificarne la complessiva tenuta alla luce dei principi contenuti nella parte prima della Carta costituzionale, questi sì rimasti ancora immutati.
Intanto, agli autori del volume va dato il merito di aver contribuito alla riflessione su temi così importanti per la vita democratica del Paese e di aver posto ai molti “confusi che, tuttavia, non rinunciano a farsi un’idea propria e tra tutte cercano la migliore”, ai quali l’opera è espressamente rivolta, l’interrogativo se siano proprio queste le riforme che l’Italia attende oramai da troppo tempo.
Gustavo Zagrebelsky - Armando Spataro - Francesco Pallante, Loro dicono, noi diciamo. Su premierato, giustizia e regioni, Laterza, 2024.
Un giudice a Roma. Gli immigrati, il governo e la protezione dello stato di diritto
di Cataldo Intrieri
Nello scorso fine settimana l’agenzia ANSA ha battuto con il laconico titolo “La Cassazione: la valutazione dei Paesi sicuri spetta ai ministri” una opinabile sintesi del contenuto di una “ordinanza interlocutoria” della Prima sezione civile della Cassazione nella scottante materia dell’immigrazione.
Con essa in ordine ad un ricorso del governo contro uno dei tanti decreti del tribunale di Roma che disapplicava la recente legge meloniana sui trattenimenti albanesi la Suprema corte di legittimità decideva di interpellare la Corte di giustizia europea sulla compatibilità delle “grida” (per eventuali rari lettori disfunzionali, vedasi I promessi sposi di Alessandro Manzoni) governative in materia di immigrazione con le direttive europee.
Con questa decisione la Cassazione nella sostanza ratificava le ordinanze più recenti dei vituperati giudici italiani che di fronte al varo di decreti-legge del governo indicanti i paesi “sicuri” si sono rifiutati di convalidare i trattenimenti in Albania con conseguente umiliante (per il governo) rientro dei migranti in Italia interpellando a loro volta la Corte di giustizia.
Sulla base di una sintesi incompleta e di un titolo fuorviante (si vuole sperare per semplice ignoranza dello stagista addetto) si è data la stura ad una clamorosa manipolazione della realtà in funzione di propaganda filo-governativa (presumibilmente involontaria) da parte dei soliti corifei dell’attuale maggioranza, che hanno inneggiato ad una inesistente vittoria delle loro tesi.
La vicenda dice molto sia dell’attuale stato dell’informazione italiana che della cultura e delle attitudini democratiche dell’attuale compagine di governo (sedicenti moderati compresi), ed ancor di più dell’inquietante futuro che attende la difesa dello Stato di diritto nel nostro paese.
Il titolo ed il sunto dell’Ansa sono quantomeno “grossolanamente esagerati” per parafrasare la reazione di Mark Twain di fronte alla notizia falsa della sua dipartita.
Innanzitutto trattandosi nel caso di specie di un ricorso del governo italiano avverso un provvedimento di un tribunale che aveva respinto la convalida di un trattenimento in Albania avrebbe dovuto essere chiaro che ove la Cassazione avesse inteso dare ragione all’esecutivo meloniano avrebbe accolto il reclamo ed annullato la decisione dei giudici.
Ciò non è avvenuto, il rigetto della detenzione in Albania è rimasto e rende allo stato, va detto con chiarezza (soprattutto per gli stagisti dell’informazione giudiziaria) totalmente inapplicabile tutta la legge dei trasferimenti in Albania.
Occorrerà aspettare, dunque, la decisione della Corte di giustizia europea prevista per fine febbraio ma che verrà resa nota non prima di marzo?
Sicuramente, ma con una avvertenza: che ben difficilmente essa porrà fine al contrasto tra la politica e la magistratura.
Il presidente della Prima sezione civile della Cassazione, Alberto Giusti, giurista tra i più raffinati, quale relatore dell’ordinanza ha ritenuto con una inconsueta iniziativa di soffermarsi diffusamente sulla situazione attinente l’attuale disciplina dell’immigrazione, in particolare del fiore all’occhiello partorito da Meloni con la trovata dei campi di concentramento appaltati alle nazioni vassalle europee, sorta di discariche umane esternalizzate.
Ove si avesse avuto la pazienza di leggere la quarantina di complesse pagine dell’ordinanza forse (forse) si sarebbe capito che la Cassazione ha fatto propri, con qualche ulteriore sviluppo, gli stessi argomenti esposti nella nota sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia sulla base della quale i giudici italiani hanno rifiutato di applicare passivamente la trovata “albanese” della Meloni e la sua illusione di aver trovato la soluzione di una “procedura accelerata” di rimpatrio.
Come noto l’escamotage consiste nella formulazione di una lista di paesi sicuri in base alla quale procedere in automatico ai rimpatri, peraltro impedendo ai migranti, compresi i rifugiati politici, di toccare “i confini della patria” affittando il lavoro sporco ad un qualche paese di seconda fila disposto allo smaltimento dei rifiuti umani per qualche spicciolo.
Questa la sostanza della “nuova politica europea” proposta dal governo italiano ad una divisa Commissione europea senza più autorevolezza.
Ben difficilmente la Corte di giustizia potrà dire cose diverse da ciò che hanno detto i tribunali italiani ed oggi la Cassazione e che anche qui si è sottolineato sin dal primo momento, e che cioè nessun elenco, a qualsiasi livello formulato, nazionale e sovranazionale può impedire ad un giudice di ascoltare le ragioni di chi ritenga di essere perseguitato e discriminato per ragioni attinenti la sua condizione.
E sul punto non si facciano (interessate) confusioni: se la nota sentenza della Corte di giustizia di ottobre faceva riferimento alla sola ipotesi di “parti” territoriali non sicure come requisito per negare la condizione di sicurezza di un paese, la Casazione va ben oltre.
Scrivono i supremi giudici che «la procedura accelerata di frontiera non può applicarsi là dove, anche in sede di convalida del trattenimento, il giudice ravvisi sussistenti i gravi motivi per ritenere che il paese non è sicuro per la situazione particolare in cui il richiedente si trova. In ogni caso, le eccezioni personali, pur compatibili con la nozione di paese di origine sicuro, non possono essere ammesse senza limiti. Tali eccezioni, infatti, non sono ammesse a fronte di persecuzioni estese, endemiche e costanti, tali da contraddire, nella sostanza, il requisito dell’assenza di persecuzioni che avvengano generalmente e costantemente, perché, altrimenti, sarebbe gravemente pregiudicato il valore fondamentale della dignità e, con esso, la connotazione dello Stato di origine come Stato di diritto». Chiaro?
Di fronte ad un migrante che invochi la protezione perché perseguitato il giudice ha il dovere di approfondire ed in tal caso la procedura “accelerata” per i tempi necessari all’approfondimento non si può applicare. Il migrante resterà nel paese di soccorso per partecipare alla procedura.
Piuttosto c’è da chiedersi come mai la Cassazione abbia ritenuto di esternare tali convinzioni in attesa della decisione finale della Corte di giustizia: non mancherà di sicuro qualche zelante interprete della volontà governativa che criticherà quella che può sembrare una precisa suggestione della giurisdizione italiana a quella europea.
È probabile che abbia pesato la sgangherata campagna di condizionamento e propaganda che la premier ha aperto con il suo goffo ed inammissibile invito ai giudici europei di appoggiare le politiche dei governi europei contro il fenomeno dell’immigrazione.
Una iniziativa gravissima che solo una stampa cloroformizzata e minacciata poteva passare sotto silenzio (poi magari diremo di una informazione che tace ai suoi lettori per 10 giorni la notizia del sequestro di una collega perché ammonita a farlo dal governo “per non disturbare il manovratore").
Di fronte ad una situazione di tale gravità è comprensibile che la magistratura italiana, anche quella non schierata politicamente, chieda la copertura delle corti europee.
Ed infatti ormai anche l’indipendenza dei giudici europei, delle corti sovranazionali sono nel mirino dei sovranisti come lascia intendere lo stesso neo-leader dei conservatori Mateusz Morawiecki che si è scagliato contro l’ingerenza della “burocrazia giudiziaria” dell’UE.
Se non si è capito questo è in ballo oggi, la stessa esistenza dei trattati e delle carte europee che contengono i principi fondamentali di uno Stato di diritto, tutelati da giudici sovranazionali che li applicano senza i limiti dei “sacri confini”.
Sarebbe opportuno che lo capisse, a tale proposito, la stessa magistratura italiana, invece di preoccuparsi della tutela dei suoi privilegi.
La difesa del diritto e della giurisdizione europea è la grande battaglia per la democrazia che deve unire la cultura giuridica italiana e dell’Unione europea, prima che sia troppo tardi.
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro, Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi, Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri, La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, secondo una prospettiva “interna” e di diritto dell’Unione Europea di Marcella Cometti.
Già apparso su Linkiesta il 1 gennaio 2025.
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