ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il destino del pubblico ministero nel progetto di riforma costituzionale della giustizia
Sommario: 1. Introduzione – 2. Le diverse “prospettive” di pubblico ministero - 3. Obiettivi della riforma, conseguenze sistematiche e politiche - 4. Snaturamento della funzione requirente e indebolimento delle sue garanzie - 5. L’indebolimento del sistema di check and balances interno all’ordine giudiziario - 6. Scenari futuri.
1. Introduzione
Cominciamo dall’inizio. Il 10 gennaio 1947, nel corso della seduta antimeridiana della Commissione per la Costituzione - riunita in seno all'Assemblea Costituente – l’onorevole Calamandrei dichiarava di considerare il pubblico ministero come un magistrato, che deve agire secondo il principio di legalità e deve godere, al pari dei giudici, dei requisiti dell'indipendenza e della inamovibilità[1]. A questa tesi rispondeva l’onorevole Leone, affermando di ritenere che la funzione del pubblico ministero rientri nell’ambito del potere esecutivo, aggiungendo però di essere «profondamente turbato dalle difficoltà che sorgerebbero dall'accettazione della sua proposta. Facendo del pubblico ministero un organo spiccatamente dipendente dal potere esecutivo, occorrerà predisporre nella Carta costituzionale gli strumenti atti a impedire il paventato [da Calamandrei, N.d.A.] pericolo, che il principio della legalità possa essere violato». La soluzione prospettata da Leone al fine di garantire la legalità dell’azione penale, a fronte di un pubblico ministero funzionario ministeriale, consisteva nel rendere possibile, in caso di inerzia del suddetto, l’esercizio dell'azione penale da parte del giudice: soluzione evidentemente impraticabile nell'ordinamento attuale, se non a prezzo di rinunciare a quella figura di giudice terzo e imparziale, sulla quale si attaglia il sistema penale moderno; e tuttavia, rimedio pensato per prevenire ciò che anche il sostenitore della tesi che vedeva il pubblico ministero organo dell'esecutivo percepiva come un pericolo, vale a dire «che il principio della legalità possa essere violato».
Il tema della collocazione del pubblico ministero nel nostro ordinamento, ampiamente discusso dai Costituenti, si ripropone oggi nel dibattito sulla riforma proposta con d.d.l. n. 1917, attualmente in fase di discussione in Parlamento: dove deve stare, il pubblico ministero? Cosa deve rappresentare? Deve essere un funzionario di Governo, gerarchicamente dipendente dal ministro della Giustizia e dunque soggetto non soltanto alla legge, amovibile e privo (nella peggiore delle prospettive che si stanno qui delineando) delle altre garanzie che presidiano i giudici; oppure un magistrato, appartenente al pari dei giudici all’ordine giudiziario, afferente alla giurisdizione e dotato delle garanzie di autonomia e indipendenza – che, quanto alla sua funzione, massimamente si incarnano nel principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost.?
2. Le diverse “prospettive” di pubblico ministero
Ognuno dei due modelli ha conseguenze logico-sistematiche che devono essere contestualizzate nella realtà della Repubblica, senza che appaiano anche solo probabili dei modelli “misti” della funzione del pubblico ministero. Il riferimento è, in primo luogo, al grande tema obbligatorietà/discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale: come si è detto, l’obbligatorietà stabilita dall’art. 112 Cost. costituisce garanzia di indipendenza del pubblico ministero, rispetto ai suoi organi di vertice (indipendenza interna) e rispetto agli altri poteri dello Stato (indipendenza esterna, che concerne in particolare il rapporto con il potere esecutivo); ebbene, se il pubblico ministero viene “staccato” dalla giurisdizione – e la separazione “delle carriere” realizzata mediante riforma costituzionale concretizza esattamente questo obiettivo: se così non fosse, sarebbe stato sufficiente un intervento sulla legge (ordinaria) che regola l’ordinamento giudiziario – la scelta è evidentemente quella di rompere l’unità della giurisdizione stessa. A quel punto, non v’è più ragione di ritenere che le garanzie, che tipicamente presidiano l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, si estendano anche alla magistratura requirente. E se non è più necessario che il pubblico ministero goda delle garanzie dei giudici, non si vede per quale ragione logico-sistematica dovrebbe continuare a essere obbligato all’esercizio dell’azione penale ai sensi dell’art. 112 Cost. (tanto è vero, che l’eliminazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale faceva parte della proposta di riforma costituzionale presentata dall’Unione delle Camere Penali[2]). Di lì alla sottoposizione del p.m. all’esecutivo il passo è assai breve e direi anche naturale.
3. Obiettivi della riforma, conseguenze sistematiche e politiche
A ben guardare, non v’è alcuna altra ragione che questa, alla base della riforma costituzionale in commento: se così non fosse, se la trasformazione del pubblico ministero da magistrato a funzionario amministrativo non fosse l’orizzonte (più o meno lontano) di questa proposta, che motivo ci sarebbe di separare le carriere di giudicanti e inquirenti con legge costituzionale? Quale ragione, se non quella citata, per modificare i delicati equilibri che reggono l’attuale assetto costituzionale della funzione requirente? Lo stravolgimento del modello vigente di pubblico ministero è l’elefante nella stanza che molti sostenitori della riforma non vedono o si sforzano di non vedere, forse per non essere costretti ad affrontarne le conseguenze politiche non meno che logico-giuridiche.
Veniamo dunque ad analizzare queste conseguenze: del naturale allontanamento dal principio di obbligatorietà dell’azione penale si è già detto, e mi pare che sia la prima e più importante delle conseguenze giuridiche, peraltro di matrice costituzionale (ciò anche prima e a prescindere dall’ulteriore riforma costituzionale, che sarebbe formalmente necessaria per superare la disposizione di cui all’art. 112 Cost.). Ma sono le conseguenze politiche – per intenderci: quelle che attengono all’equilibrio e alle relazioni tra i poteri e gli apparati dello Stato – che devono preoccupare maggiormente chi abbia a cuore il modello democratico disegnato dalla nostra Carta fondamentale. La riforma della giustizia (che, attenzione alle etichette, è in realtà riforma soltanto della magistratura, a funzionamento e risorse dell’apparato-giustizia invariati) non può infatti essere letta e interpretata per se stessa, ma deve necessariamente leggersi nel più ampio panorama di riforme costituzionali in programma, con particolare riferimento a quella c.d. del “premierato”: in un contesto riformatore in cui l’attuale maggioranza governativa propone di accentrare il potere esecutivo nella persona di un presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo, ancor più non sembra peregrino immaginare concreto il pericolo dell’attrazione delle Procure nella sfera di controllo del Governo, in piena espansione rispetto agli altri poteri dello Stato. E ciò, con l’ulteriore conseguenza – assai probabile perché coerente con il trend politico di cui sopra – dell’allontanamento della magistratura requirente, titolare delle indagini preliminari e dell’esercizio dell’azione penale, dal modello di ispirazione accusatoria che permea il nostro processo penale; e ancora, di un arretramento – complice la vicinanza, più o meno stretta, all’apparato governativo – verso un modello inquisitorio tipico degli Stati autoritari[3], in contrasto persino con uno dei motivi ispiratori dichiarati della riforma (l’evoluzione verso il sistema accusatorio del sistema processuale penale italiano), così come enunciato dalla relazione illustrativa il disegno di legge costituzionale. Non si tratterebbe, certo, di un ritorno al modello inquisitorio “classico”, nel quale il giudice svolgeva funzioni investigative che il nostro ordinamento attuale affida in via esclusiva al pubblico ministero, bensì dell’emergere di un modello nuovo, in cui il magistrato inquirente agisce come strumento del potere politico, secondo finalità proprie di quest’ultimo ed estranee a quelle che invece permeano il nostro attuale sistema penale: in tale contesto, il processo risulterebbe solo formalmente di stampo accusatorio, ma nella sostanza profondamente sbilanciato a favore di un organo d’accusa non più indipendente né imparziale (tenuto, cioè, a sviluppare le indagini acquisendo anche elementi a favore dell’indagato, e il cui obiettivo non è la condanna ma la ricostruzione della verità processuale). Sul punto, giova comunque evidenziare come non esista in realtà un modello accusatorio ideale, cui il nostro sistema processuale dovrebbe tendere e che la riforma in commento dovrebbe finalmente realizzare[4]: l’unico sistema cui far riferimento è quello vigente nel nostro ordinamento, vale a dire un sistema “misto”, nel quale il pubblico ministero e il giudice sono molto ben distinti sul piano funzionale; in un sistema siffatto, non si vede la necessità – giuridica - di distinguere le due figure anche dal punto di vista ordinamentale[5].
4. Snaturamento della funzione requirente e indebolimento delle sue garanzie
L’obiezione che più frequentemente viene opposta alle sopra esposte considerazioni è rappresentata dall’assenza, nel testo della riforma, di qualsiasi riferimento a una possibile transizione del pubblico ministero sotto l’egida dell’esecutivo; e lo stesso ministro proponente si cura di evidenziare più volte (forse troppe?), nella relazione illustrativa, che il disegno di legge lascia immutata la indipendenza della magistratura requirente, fino a dichiarare – in una sorta di excusatio non petita – che “la separazione delle carriere non intende in alcun modo attrarre la magistratura requirente nella sfera di controllo o anche solo di influenza di altri poteri dello Stato, perché anche la magistratura requirente rimane parte dell’ordine autonomo e indipendente, com’è oggi, al pari della magistratura giudicante”[6]. Che il rappresentante del Governo si sia sentito in dovere di tranquillizzare gli interpreti circa il destino del pubblico ministero, non basta certo a sedare le preoccupazioni fin qui espresse; ma al di là di questo, e al di là delle intenzioni dichiarate dai proponenti, deve osservarsi come lo snaturamento della funzione requirente stia proprio nella logica di questa riforma, che come abbiamo detto distrugge il modello unitario di giurisdizione – e lo fa perché è legge di modifica dell’assetto costituzionale della magistratura, e non di mera separazione delle carriere come il titolo vorrebbe far pensare – aprendo la via agli scenari sopra evocati.
Del resto, la preoccupazione circa le conseguenze dell’indebolimento costituzionale delle garanzie del pubblico ministero apparteneva già alle discussioni svolte in seno all’Assemblea Costituente: nella seduta citata all’inizio del presente scritto, alla dichiarazione dell’on. Leone secondo cui sarebbe stato sufficiente dire che il pubblico ministero fa parte della magistratura (senza, quindi, che ne venissero definite le garanzie di autonomia e indipendenza), il Presidente Conti replicava che il problema “sarebbe risolto solo in parte, perché un codice di procedura penale potrà sempre dare delle norme per le quali il pubblico ministero sia agganciato in qualche modo al potere esecutivo”, ricordando altresì che “molti artifici sono stati adoperati per valersi del pubblico ministero secondo il capriccio dei ministri”.
5. L’indebolimento del sistema di check and balances interno all’ordine giudiziario
La lettura del progetto che si sta delineando, viene, a mio avviso, rafforzata dall’introduzione a opera del d.d.l. di un doppio Consiglio Superiore della Magistratura, uno per la magistratura giudicante e uno per la requirente. Con lo sdoppiamento dell’organo costituzionale di autogoverno, accompagnato dall’introduzione del sorteggio come metodo di selezione dei membri togati[7], si otterrebbe, da un lato, un generale indebolimento dell’ordine giudiziario (il che, come già rappresentato, pare essere uno degli obiettivi nemmeno troppo nascosti della riforma), e dall’altro un rafforzamento di quello che è stato autorevolmente definito «un corpo separato e autoreferenziale di accusatori, sempre più astretti a un vincolo di risultato, la condanna, lontani dall’idea dell’imparziale applicazione della legge, che si addice invece a un organo di giustizia immerso totalmente nella cultura della giurisdizione»[8] . L’allontanamento del pubblico ministero dalla giurisdizione porterebbe insomma la magistratura requirente, che a quel punto sarebbe svincolata dal contrappeso di quella giudicante anche sul piano dell’autogoverno, a espandere in modo incontrollato il proprio potere d’accusa, in tal modo facendo sorgere la necessità di ricondurla nell’alveo di una responsabilità politica, il che può realizzarsi attraverso due strade: l’elezione dei rappresentanti la pubblica accusa da parte dei cittadini (modalità del tutto estranea al nostro sistema ordinamentale, e di improbabile realizzazione), o la riconduzione del “corpo” requirente sotto il controllo del ministro della Giustizia, quindi sotto l’egida del potere esecutivo.
6. Scenari futuri
Le prospettive qui tratteggiate sono certamente a lungo termine, e quelli descritti non saranno effetti immediati della riforma; e tuttavia, quando si mette mano ai cardini dell’impianto costituzionale, modificando l’assetto di uno dei tre poteri dello Stato, occorre ragionare tenendo lo sguardo sugli orizzonti lontani – lontani, ma già perfettamente visibili - non limitandosi alla visione miope dei dettagli vicini. E guardando lontano, appare chiaro all’interprete che, se la riforma costituzionale entrasse in vigore, il destino del pubblico ministero sarebbe di divenire organo dell’esecutivo, con un inaccettabile ritorno al passato: è, infatti, sufficiente qui ricordare che la figura vigente di pubblico ministero è stata scelta dai Costituenti per evitare che le funzioni requirenti potessero essere piegate alle volontà dei futuri governi, come era sistematicamente accaduto con il governo allora appena passato[9]. Da pubblico ministero, e da cittadina della Repubblica, l’orizzonte mi appare insomma denso di nubi.
[1]Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Seconda Sottocommissione, Resoconto sommario della seduta antimeridiana di venerdì 10 gennaio 1947, in Atti dell’Assemblea Costituente, www.camera.it.
[2] Il riferimento è alla proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare n. 4723, presentata il 31 ottobre 2017 dall’Unione delle Camere Penali, e ripresentata nel corso della XVIII Legislatura (Atto Camera n. 14), www.camera.it.
[3]S. Bartole, La separazione delle carriere, Lettera AIC, in Rivista AIC, 10/2024.
[4]M. Gialuz, Otto proposizioni critiche sulle proposte di separazione delle magistrature requirente e giudicante, in Sistema Penale, 9/2024.
[5]Il modello a cui guardano i fautori della riforma è, in realtà, quello statunitense, nel quale tuttavia il pubblico ministero ha un potere tale, che la giustizia penale si presenta come antiprocedura : un sistema in cui il processo è del tutto residuale rispetto al plea bargaining, la giustizia negoziata tra le parti, in cui evidentemente l’avvocato dell’accusa (che rappresenta l’interesse pubblico all’azione penale) ha un peso “contrattuale” di gran lunga maggiore rispetto alla sua controparte privata. La riforma costituzionale in commento non risolve (e sembra, anzi, favorire) questo trend dell’aumento di potere dell’accusa. Cfr., sul sistema penale statunitense, V. Fanchiotti, La giustizia penale statunitense. Procedure v. Antiprocedure, Giappichelli, Torino, 2022.
[6] Relazione illustrativa al disegno di legge costituzionale n. 1917, presentato il 13 giugno 2024 alla Camera dei Deputati, www.camera.it.
[7] Sul punto, cfr. M. Romanelli, La separazione delle carriere, tra ragioni apparenti e ragioni reali. I perché di un no, in Sistema Penale, 20 febbraio 2025, secondo il quale «il sorteggio esprime valori diversi da quelli propri della democrazia costituzionale e il CSM diventa a maggior ragione mero organo di amministrazione/gestione in senso stretto, non più l’organo costituzionale preposto alla tutela dell’autonomia e indipendenza della magistratura, come è fatto proprio dall’art. 104 Cost.».
[8] G. Silvestri, Memoria relativa all’audizione informale dinanzi all’Ufficio di Presidenza della Commissione Affari Costituzionali del Senato, avente a oggetto i d.d.l. nn. 1353 e 504 (Ordinamento Giudiziario e Corte Costituzionale), 25 febbraio 2025, www.senato.it.
[9]V. anche M. Barcellona, La riforma della magistratura, il potere e la democrazia, in Questione Giustizia, 18 marzo 2025, per quanto riguarda lo scontro ideologico tra i diversi modi di concepire la giurisdizione «come esercizio di un potere indipendente e alternativo o […] una giurisdizione qual è definita dall’art. 101 Cost., ossia una funzione esercitata nel nome del popolo e per il popolo, per garantire i diritti e le libertà a esso conferiti dalle leggi contro gli abusi e le sopraffazioni del potere, pubblico o privato che esso sia».
Immagine: Giovan Francesco Barbieri detto Guercino e bottega, Allegorie della Giustizia e della Pace, Prima metà del XVII sec., olio su tela, Padova, Museo d’Arte Medievale e Moderna (Musei Civici agli Eremitani).
Ci ha improvvisamente lasciati Vladimiro Zagrebelsky, magistrato fin dagli anni ’70, componente del CSM nel 1981-85, Presidente della prima Commissione e quale componente della Sezione disciplinare estensore della sentenza sui magistrati iscritti alla P2, Direttore dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia, Giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, autore di opere giuridiche fondamentali e pubblicista che fino a pochissimi giorni fa ha orientato con parola chiara l’opinione del Paese sui temi attuali e controversi della giustizia.
Lo ricordiamo per il contributo che ha dato al Movimento per la Giustizia fin dal suo esordio. Nei momenti cruciali della vita del Movimento la voce di Vladimiro è stata insostituibile per la capacità di indicare quella linea della ragione che giunge a conclusioni nitide e taglienti attraverso la conoscenza serena ed equilibrata dei fatti.
In tutta la vita Vladimiro è stato un grandissimo punto di riferimento per la Magistratura italiana testimoniando che la rettitudine e la coerenza dei comportamenti è il fondamento dell’essere giudice.
Tra i più autorevoli autori di Giustizia Insieme Lo vogliamo ricordare richiamando all'attenzione dei nostri lettori alcuni dei Suoi articoli:
La libertà di espressione e l’imparzialità.
Giudici che dispiacciono. Come liberarsene.
L’Unione Europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisi.
La resa dei conti e la reazione della magistratura.
Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte.
Il ricordo di Marcello Basilico: Ciao Vladimiro, uomo del diritto e dell'istituzione
Un giurista a tutto tondo, una persona e un magistrato con una sola immagine ovunque lo si guardasse, qualunque ruolo rivestisse. Lo ricordiamo attraverso i passaggi di una memorabile sentenza, che diede onore al Consiglio Superiore della Magistratura in uno dei momenti più drammatici della nostra storia repubblicana.
Vladimiro Zagrebelsky è stato uomo del diritto, diritto vissuto a trecentosessanta gradi. È stato giudice e pubblico ministero, procuratore della Repubblica, giudice della Corte EDU per nove anni, protagonista dell’associazionismo giudiziario e animatore dagli albori del Movimento per la giustizia, autore di commentari e opinionista editoriale, docente memorabile per studenti universitari e formatore appassionato di giovani magistrati.
Ognuno di questi aspetti compone la figura di una persona di spessore umano e culturale ineguagliabile e, pur tuttavia, semplice. In ogni suo ruolo, Vladimiro mostrava tratti unici e riconoscibilissimi: l’essenzialità della parola, il rigore logico, l’autonomia morale, la disponibilità a un dialogo che fosse impostato sulla serenità della relazione interpersonale, la lucidità nell’individuazione della soluzione più chiara e onesta. Dei molti modi in cui lo si potrebbe ricordare, dunque, non ne vedo alcuno che potrebbe oscurare una parte della sua poliedricità.
D’accordo con una persona amica, che ha condiviso con lui le ultime giornate e le ultime ore della sua vita, ho scelto quindi un momento specifico tra i moltissimi: quello in cui si trovò, quarantaduenne, a redigere la sentenza di condanna di alcuni colleghi per l’iscrizione alla Loggia P2, quale componente della sezione disciplinare del CSM.
La sentenza porta la data del 9 febbraio 1983. Si era nella consiliatura 1981-1985. Vladimiro sarebbe stato poi rieletto al CSM nel quadriennio compreso tra il 1994 e il 1998.
Della vicenda P2 il Consiglio si occupa inizialmente per la procedura di trasferimento d’ufficio dei magistrati che erano nelle liste. L’8 marzo 1982 inizia il procedimento disciplinare; la sezione si avvale della richiesta di rinvio a giudizio pervenuta dal procuratore generale della Cassazione, degli atti dell’ufficio istruzione di Roma e del fascicolo giunto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta.
Quattordici sono i magistrati incolpati di avere “fatto parte dell’ associazione segreta, compromettendo così il prestigio dell’Ordine Giudiziario e rendendosi immeritevoli della fiducia e della considerazione di cui deve godere il magistrato”. Due di loro, Domenico Pone ed Elio Siggia, saranno rimossi; altri otto saranno condannati a sanzioni conservative comprese tra la perdita di anzianità con trasferimento d’ufficio e l’ammonimento; tre saranno prosciolti, mentre nei confronti dell’ultimo l’azione disciplinare sarà dichiarata non proseguibile per avere egli lasciato nel frattempo l’ordine giudiziario. Altri ne erano usciti già in precedenza.
La sentenza, lunga 161 pagine, viene pronunciata il 9 febbraio 1983 e depositata il 16 marzo successivo, meno di quaranta giorni dopo. Occorreva dare un segnale di efficacia e il Consiglio riuscì a darlo tanto nella gestione del dibattimento quanto nella stesura della motivazione.
Il caso volle che il suo deposito sia avvenuto il giorno prima della sentenza di proscioglimento del consigliere istruttore di Roma Ernesto Cudillo, pronunciata su conforme richiesta del procuratore della Repubblica, Achille Gallucci [1].
La decisione traccia un quadro della P2 e dei suoi legami con la magistratura ben più allarmato di quello delineato dai giudici romani. Essa si segnala in particolare per l’affermata esistenza di un divieto generale – per tutti i magistrati così come per ogni pubblico dipendente – di adesione a una società segreta (pur in difetto allora di una norma espressa [2]), per l’attendibilità delle liste sequestrate a Castiglion Fibocchi (di cui aveva invece dubitato il procuratore Gallucci), per l’esame analitico delle singole posizioni in relazione all’iscrizione effettiva, per la ricostruzione del programma a breve e medio termine della Loggia [3].
Per il perseguimento degli obiettivi in materia ordinamentale il programma fa affidamento espresso sulla presenza di una forza interna “(la corrente di magistratura indipendente dell’ANM) che raggruppa oltre il 40% dei magistrati italiani su posizioni moderate” [4]). Sebbene alcuni degli incolpati siano effettivamente iscritti a quella corrente e uno, Pone, ne sia il segretario generale, la sentenza fornisce una ricostruzione equilibrata sullo specifico legame accertato, sia perché esso era rimasto a livello di vertice, stante la sua improponibilità al gruppo di magistrati nel suo complesso, sia perché nella P2 erano stati reclutati anche magistrati aderenti ad altre correnti.
La Relazione parlamentare Anselmi, approvata a larga maggioranza dalla commissione il 10 luglio 1984, si schiera dalla parte del CSM. Mentre rivolge critiche severe alle decisioni della magistratura ordinaria, mutua diverse argomentazioni esposte nella sentenza disciplinare.
A Vladimiro Zagrebelsky si deve dunque anche questa pagina eminente di rigore istituzionale. La vicenda P2 aveva acceso scontri istituzionali senza precedenti. Si temeva anche lo scioglimento del CSM, dato il numero e l’autorevolezza dei magistrati che erano stati investiti dal ciclone. La sentenza della sezione disciplinare pose invece le basi per una rinnovata fiducia nei confronti della giurisdizione.
Alla pagina 65 della motivazione si legge che “il Procuratore Generale, concludendo la sua requisitoria, ha ricordato come la vicenda della P2 presso altre amministrazioni, di non minore rilievo della magistratura, sia stata «cloroformizzata». Si tratta di osservazione che non voleva avere e non ha efficacia esemplare, nel momento in cui la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura è chiamata ad esprimere, anche con la irrogazione di sanzioni disciplinari, i valori propri dell’Ordine giudiziario e deve, nei limiti della propria responsabilità, dare applicazione alle norme deontologiche che, per i magistrati, sono stabilite dalle leggi della Repubblica e, in primo luogo, dalla Costituzione”. Gli altri, insomma, agiscano secondo i valori che meglio ritengono. I magistrati non possono deflettere dai propri, a cominciare da quelli costituzionali.
Nel leggere quelle parole inequivocabili sembra di sentire ancora la sua voce, di vedere i suoi occhi cerulei che ti guardano, riflettendo l’evidenza della rettitudine. Chi di noi ha avuto a fianco Vladimiro è stato un privilegiato.
Il testo che alleghiamo rappresenta un documento storico, poiché riporta il dattiloscritto originale della sentenza del 9 febbraio 1983 della sezione disciplinare del CSM, con i doverosi omissis. La versione integrale si trova comunque pubblicata [5].
[1] L’annotazione è di E. Bruti Liberati, in Magistrati e società nell’Italia Repubblicana, 2018, Laterza, 178.
[2] Solo con la risoluzione del 22 marzo 1990, il Consiglio superiore della magistratura determinerà a esprimersi in termini generali sull’incompatibilità tra l’iscrizione o l’appartenenza dei magistrati alla massoneria o ad associazioni che pongano vincoli di condotta agli aderenti. Verrà poi la riforma dell’ordinamento giudiziario, con l’art. 3, co. 1, lett. g, d. lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, a qualificare espressamente come illecito disciplinare la partecipazione del magistrato “ad associazioni segrete o i cui vincoli sono oggettivamente incompatibili con l'esercizio delle funzioni giudiziarie”.
[3] Per la P2, le modifiche più urgenti, in materia di ordinamento giudiziario, “investono:
- la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati;
- il divieto di nomina sulla stampa i magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari;
- la normativa per l’accesso in carriera (esami psicoattitudinali preliminari);
- la modifica delle norme in tema di facoltà libertà provvisoria in presenza dei reati di eversione – anche tentata – nei confronti dello Stato e della Costituzione, nonché di violazione delle norme sull’ordine pubblico, di rapina a mano armata, di sequestro di persona e di violenza in generale”.
Sono ritenuti invece “obiettivi di medio o lungo termine:
– unità del Pubblico Ministero (a norma della Costituzione – articoli 107 e 112 ove il P.M. è distinto dai giudici);
– responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull’operato del P.M. (modifica costituzionale);
– istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti, con abolizione di ogni segreto istruttorio con i relativi e connessi pericoli ed eliminando le attuali due fasi di istruzione;
– riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento (modifica costituzionale);
– riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per le funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la funzione pretorile;
– esperimento di elezione di magistrati (Costit. art. 106) fra avvocati con 25 anni di funzioni in possesso di particolari requisiti morali”.
[4] Sarebbe quindi “sufficiente stabilire un accordo sul piano morale e programmatico ed elaborare una intesa diretta a concreti aiuti materiali per poter contare su un prezioso strumento, già operativo nell’interno del corpo anche al fine di taluni rapidi aggiustamenti legislativi che riconducano la giustizia alla sua tradizionale funzione di elementi di equilibrio della società e non già di eversione”.
[5] In Cass. Pen. Mass., 1983, 750 segg.
Sommario: 1. Domanda di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma - 2. La procedura accelerata innanzi alla Corte di giustizia e i rischi applicativi - 3. L’ordinanza del Presidente della Corte di giustizia e la trattazione urgente del procedimento - 4. La posizione espressa dalla Corte di cassazione: Cass. n. 33398/2024 – su rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c.- e Cass. (ord. inter.) n. 34898/2024 di “rinvio a nuovo ruolo” della trattazione del procedimento in attesa della decisione sul rinvio pregiudiziale da parte della Corte di giustizia - 5. Le conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di giustizia nella causa C‑758/24 - 6. La sentenza della Corte di giustizia dell’1 agosto 2025 - 7.La comparazione tra la sentenza della Corte di giustizia del 1° agosto 2025 e le Conclusioni dell’Avvocato Generale De La Tour - 8. La comparazione fra Corte di giustizia, 1° agosto 2025 (cause riunite C‑758/24 e C‑759/24), e Cass. n. 33398/2024 - 9. La comparazione fra le Conclusioni dell’Avvocato generale e l’ordinanza n. 34898/2024 della Corte di cassazione.
1. Domanda di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma
Le (speculari) domande di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale ordinario di Roma nelle cause C-758/24 e 759/24 si inseriscono nel contesto dell’applicazione, da parte delle autorità italiane della procedura accelerata di frontiera per i richiedenti asilo provenienti da Paesi designati come “di origine sicura” con atto legislativo primario. In particolare, i due casi riguardavano due cittadino bengalese i cui ricorsi contro il diniego di protezione erano stati valutati alla luce della nuova disciplina italiana, introdotta nel 2024, che qualifica il Bangladesh come Paese sicuro senza fondare tale designazione su una procedura istruttoria trasparente.
Dinanzi a tale quadro normativo, il Tribunale di Roma, in due separati procedimenti, ha sollevato quattro quesiti pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 TFUE. Con il primo si chiedeva se il diritto dell’Unione, e in particolare gli articoli 36, 37 e 38 della Direttiva 2013/32/UE, letti in combinazione con i considerando 42, 46 e 48 e interpretati alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e degli articoli 6 e 13 della CEDU, osti a che un legislatore nazionale, competente a consentire la formazione di elenchi di Paesi di origine sicuri e a disciplinare i criteri da seguire e le fonti da utilizzare, proceda anche a designare direttamente, con atto legislativo primario, uno Stato terzo come Paese sicuro. Il secondo quesito domandava se gli articoli 36 e 37 e l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta, vanno interpretati nel senso che essi ostano a una prassi in forza della quale uno Stato membro procede alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro mediante atto legislativo senza che, a causa della mancata divulgazione delle fonti di informazione sulle quali detta designazione si fonda, il richiedente proveniente dal paese interessato e il giudice nazionale investito del ricorso proposto avverso la decisione di rigetto adottata nei confronti di detto richiedente siano messi in condizione, rispettivamente, di contestare e controllare la legittimità di una siffatta designazione alla luce delle condizioni enunciate all’allegato I alla direttiva sopra ricordata. Inoltre, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se, in tali circostanze, il giudice nazionale possa controllare la legittimità di una siffatta designazione alla luce delle condizioni enunciate in detto allegato sulla base delle fonti di informazione che esso stesso ha raccolto tra quelle menzionate all’articolo 37, paragrafo 3, di detta direttiva. Il quarto quesito concerneva la possibilità o meno che un Paese sia considerato “di origine sicuro” anche laddove vi siano, al suo interno, categorie di persone per le quali tale qualificazione non risulta rispettata: in tal caso, si chiedeva se il diritto dell’Unione osti a una designazione generalizzata che non tenga conto di dette situazioni differenziate.
2. La procedura accelerata innanzi alla Corte di giustizia e i rischi applicativi
È soprattutto in relazione a quest’ultimo quesito che il Tribunale di Roma evidenzia le gravi criticità sistemiche e l’assenza di orientamenti consolidati sul piano nazionale. Il giudice richiama, infatti, il contesto controverso generato da una serie di decisioni di merito – tra le quali in particolare quelle dei Tribunali di Catania, Firenze e Bologna – che, nell’autunno 2024, non avevano convalidato i provvedimenti di trattenimento adottati nei confronti dei richiedenti asilo sottoposti alla procedura di frontiera. Tali pronunce avevano indotto il Governo ad adottare il d.l. n. 158/2024, volto a rafforzare normativamente la presunzione di sicurezza per determinati Paesi. Nella motivazione dell’ordinanza del Tribunale di Roma, il Tribunale segnalava il rischio di un’applicazione indiscriminata della nozione di “Paese sicuro”, anche a soggetti appartenenti a categorie strutturalmente vulnerabili (come donne, minoranze religiose, oppositori politici o soggetti LGBT), per i quali – anche secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo – la protezione offerta nel Paese d’origine potrebbe risultare illusoria. Il giudice remittente osservava, ancora, come tale rischio fosse aggravato dall’impossibilità per il richiedente di contrastare efficacemente la presunzione di sicurezza, data la mancanza di trasparenza sulle fonti ed il rischio di un ineffettivo sindacato giurisdizionale. È dunque in questo quadro che il Tribunale ravvisava la necessità di un intervento chiarificatore da parte della Corte di giustizia, capace di offrire un orientamento vincolante sui limiti e le condizioni che devono circondare l’uso della nozione di Paese di origine sicuro, con particolare attenzione al profilo della non applicabilità della designazione a intere categorie soggettive.
3. L’ordinanza del Presidente della Corte di giustizia e la trattazione urgente del procedimento
Con ordinanza del 29 novembre 2024, il Presidente della Corte di giustizia UE, riuniti i due procedimenti pregiudiziali, ha accolto la richiesta del Tribunale di Roma di un esame con trattazione accelerata ai sensi dell’art. 105 del Regolamento di procedura della Corte di giustizia. Ciò in ragione della rilevanza delle questioni sollevate, che toccano non solo il corretto recepimento della direttiva 2013/32/UE, ma anche il bilanciamento tra prerogative legislative nazionali e obblighi derivanti dal diritto dell’Unione, in un contesto di crescente tensione interpretativa. Il Tribunale di Roma aveva infatti segnalato che alcune pronunce di giudici di merito – nonché lo stesso contenzioso in esame – avevano generato una crisi istituzionale legata alla non convalida dei provvedimenti di trattenimento fondati sull’applicazione automatica della presunzione normativa. La Corte di giustizia ha ritenuto che simili questioni, toccando tematiche di primario rilievo in ragione del tono delle stesse meritavano una trattazione urgente, anche per prevenire decisioni giurisdizionali difformi e garantire uniformità nell’applicazione della normativa europea in tema di asilo e diritti fondamentali. Peraltro, numerose richieste di rinvio pregiudiziale erano state proposte da altri giudici in vicende simili a quella del rinvio sollevato dal Tribunale di Roma.
4. La posizione espressa dalla Corte di cassazione: Cass. n. 33398/2024 – su rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c.- e Cass. (ord. inter.) n. 34898/2024 di “rinvio a nuovo ruolo” della trattazione del procedimento in attesa della decisione sul rinvio pregiudiziale da parte della Corte di giustizia
Il tema paese sicuro era stato in precedenza già intercettato dalla Corte di cassazione almeno in due occasioni.
Dapprima, Cass. n.33398/2024 in questa Rivista, 9 gennaio 2025, con commento di M. Serio e R. Conti, Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro -intervenne in sede di rinvio pregiudiziale ex art.363 bis, c.p.c., per dare risposta al quesito sollevato dal Tribunale di Roma all’interno di un ricorso per l’ottenimento della protezione internazionale presentato da un cittadino di un paese (Tunisia) inserito nell’elenco dei paesi di origine sicuri all’epoca determinati in Italia con d.m. ministeriale. Il giudice di merito aveva chiesto alla Corte di cassazione di chiarire se il giudice ordinario avesse titolo per disattendere il decreto ministeriale nella parte in cui stabiliva la designazione di paese sicuro e dunque valutare, anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria ed eventualmente anche in caso di mancanza di contestazione, sulla base di informazioni sui paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, se il paese incluso nell'elenco fosse da considerare tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia.
Il dubbio venne risolto da Cass.n.33398/2024, chiarendo che nell'ambiente normativo anteriore al d.l. n. 158 del 2024, conv. nella l. n. 187 del 2024, se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da paese designato come sicuro il giudice ordinario, nell'ambito dell'esame completo ed ex nunc può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all'art. 37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione ed eventualmente disapplicare in via incidentale il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri, allorché la designazione operata dall'autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale; inoltre, a garanzia dell'effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l'istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l'insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova e, pertanto, in quest'ultimo caso la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale.
Non meno rilevante risulta l’ordinanza interlocutoria n. 34898/2024 della Corte di cassazione, intervenuta su un caso distinto rispetto a quelli oggetto del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, sebbene affine per oggetto e contesto normativo.
La vicenda nasceva da un ricorso presentato dal Ministero dell’interno contro una decisione del Tribunale di Roma con cui era stata disposta la liberazione di un cittadino bengalese trattenuto in frontiera dopo il rigetto della sua domanda d’asilo. Il Tribunale, pur riconoscendo che il Bangladesh fosse incluso nell’elenco dei Paesi sicuri, aveva evidenziato la necessità di un vaglio effettivo delle condizioni individuali del richiedente, ritenendo il trattenimento illegittimo. Il Ministero impugnò tale decisione, sostenendo che essa comportava una disapplicazione della normativa primaria senza che fosse stata previamente sollevata una questione di legittimità costituzionale o attivato il rinvio pregiudiziale alla Corte UE.
Cass.n.34898/2024 decise di rinviare la causa a nuovo ruolo, ritenendo che la decisione dipendeva dall’esito del rinvio pregiudiziale già pendente davanti alla Corte di giustizia UE e così evitando di decidere nel merito un caso che avrebbe potuto essere risolto in modo difforme rispetto ai principi eurounitari in via di definizione. Ciononostante, la Corte di cassazione ebbe a sviluppare un’ampia ed argomentata riflessione ricostruttiva distinguendo tra eccezioni di carattere territoriale (oggetto della sentenza della Corte di giustizia UE del 4 ottobre 2024) ed eccezioni di natura personale (oggetto del ricorso pendente innanzi alla stessa), riconoscendo che solo queste ultime siano rilevanti nella fattispecie. La Cassazione sottolineava che la presunzione di sicurezza poteva essere superata mediante elementi individuali dedotti dal richiedente e che il giudice non era esonerato dal vaglio personalizzato anche nei procedimenti accelerati. Tuttavia, concludeva affermando che «la valutazione definitiva sul punto non può prescindere dalla prossima pronuncia della Corte di giustizia», il cui esito è ritenuto decisivo per chiarire la compatibilità tra diritto dell’Unione e designazioni legislative non accompagnate da adeguate garanzie procedurali individuali.
5. Le conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di giustizia nella causa C‑758/24
Nelle sue conclusioni presentate nelle cause C‑758/24 e C-759/24 l’Avvocato Generale Richard de la Tour propone che la Corte di giustizia risponda in senso restrittivo rispetto alla legittimità della designazione legislativa di un Paese di origine sicuro, suggerendo un’interpretazione rigorosa delle garanzie previste dalla Direttiva 2013/32/UE. In merito al primo quesito, si afferma che gli Stati membri godono di un ampio margine di discrezionalità quanto alla scelta degli strumenti e delle modalità procedurali destinate a garantire la designazione, nel loro diritto nazionale, di paesi terzi come paesi di origine sicuri. Nulla osta a che tale designazione risulti da un atto di rango legislativo, rientrando una siffatta scelta in realtà nell’autonomia istituzionale e procedurale loro riconosciuta.Tuttavia, dall’articolo 288, terzo comma, TFUE si evince che tale libertà lascia inalterato l’obbligo, per gli Stati membri, di adottare tutti i provvedimenti necessari per garantire il primato del diritto dell’Unione e per assicurare la piena efficacia della direttiva di cui trattasi, conformemente all’obiettivo che essa persegue e agli obblighi da essa sanciti (20). Ne consegue che l’atto con cui uno Stato membro procede alla designazione di paesi terzi come paesi di origine sicuri non deve incidere in alcun modo sugli obblighi ad esso incombenti, sotto il profilo del rispetto dei principi basilari e delle garanzie fondamentali di cui al capo II della direttiva 2013/32 e, in particolare, quanto al rispetto del diritto a un ricorso giurisdizionale effettivo riconosciuto ai richiedenti protezione internazionale in forza dell’articolo 46 di detta direttiva. In relazione al secondo ed al terzo quesito l’Avvocato Generale Richard de la Tour evidenzia che la designazione di un Paese come “di origine sicuro” tramite atto legislativo nazionale non è, in astratto, incompatibile con il diritto dell’Unione. Tuttavia, una tale designazione non può sottrarsi al controllo giurisdizionale di legittimità, poiché ciò priverebbe l’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32, e l’art. 47 della Carta, della loro efficacia pratica. È in questa prospettiva che viene richiamata la giurisprudenza della Corte di giustizia (Samba Diouf e CV), la quale impone che il giudice nazionale sia in grado di esercitare un controllo pieno, ex nunc e completo su tutte le condizioni sostanziali della designazione e sulla procedura che ne deriva, anche in assenza di specifiche contestazioni da parte del richiedente. In tale contesto, la presunzione di sicurezza deve rimanere confutabile, ed è per questo che l’Avvocato Generale insiste sulla necessità che il legislatore assicuri la pubblicità delle fonti di informazione su cui si fonda la presunzione. Tali fonti, pubbliche e qualificate ai sensi dell’art. 37, par. 3, della direttiva 2013/32, sono essenziali affinché il richiedente possa esercitare il proprio diritto a un ricorso effettivo, distinguendo la propria situazione individuale da quella generale. Particolarmente significativo è il passaggio in cui de la Tour afferma testualmente che: «l’effettività del controllo giurisdizionale impone all’autorità giudiziaria competente, che dispone di tutta l’esperienza richiesta in tale materia, di fondare il suo giudizio sulle fonti di informazione che essa reputi maggiormente pertinenti per valutare la legittimità di detta designazione» (punto 63). Questo richiamo all’esperienza del giudice non è meramente descrittivo laddove sottolinea il fatto che il diritto dell’Unione attribuisce al giudice nazionale un ruolo attivo e responsabile, anche nel caso in cui le fonti non siano divulgate dall’autorità amministrativa o dal legislatore. Tale ruolo implica il potere/dovere di procedere autonomamente a una personalizzazione della valutazione del Paese di origine, anche sulla base di fonti raccolte in proprio tra quelle ammesse dalla direttiva.
In sintesi, le conclusioni dell’Avvocato Generale ribadivano che l’atto legislativo nazionale non può trasformare la presunzione di sicurezza in una presunzione assoluta. Al contrario, è il giudice – forte della propria competenza, autonomia e delle fonti a disposizione – a garantire che tale presunzione resti compatibile con i diritti fondamentali e l’evoluzione concreta delle situazioni individuali, secondo i principi del diritto dell’Unione.
Il passaggio più rilevante era quello dedicato al quarto quesito, con il quale il giudice del rinvio chiedeva, come ricordato, se il quadro UE andavano interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro designi un paese terzo come paese di origine sicuro ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, benché talune categorie di persone possano non beneficiare in tale paese di una protezione sufficiente contro il rischio di persecuzioni o violazioni gravi. Il dibattito interno sul tema aveva preso le mosse dal ruolo avuto dalla sentenza della Grande sezione del 4 ottobre 2024, CV.
L’Avvocato Generale, nell’esordio delle sue conclusioni, aveva sottolineato che “Le presenti cause sollevano giustamente la questione della portata del potere e delle competenze degli Stati membri nell’ambito della designazione dei paesi di origine sicuri e si inseriscono nel solco della sentenza del 4 ottobre 2024, Ministerstvo vnitra České republiky, Odbor azylové a migrační politiky”- p.3 Concl.
Il nodo circa la rilevanza di tale decisione ai fini della soluzione del quesito pregiudiziale è stato esaminato nelle Conclusioni ricordando, per un verso, che “nella sua sentenza CV, la Corte ha dichiarato che il diritto a un ricorso giurisdizionale effettivo garantito dall’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 impone all’autorità giudiziaria competente di rilevare, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal legislatore dell’Unione e sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad essa, una violazione delle condizioni sostanziali della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro, enunciate all’allegato I a detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso (24). Secondo la Corte, compete quindi agli Stati membri adattare il loro diritto nazionale in modo che il trattamento dei ricorsi in questione comporti un esame, da parte di detta autorità giudiziaria competente, di tutti gli elementi di fatto e di diritto che le consentano di procedere a una valutazione aggiornata del caso di specie, tra cui rientra la legittimità di una siffatta designazione -p.47 Concl.Avv. gen.
L’Avvocato generale Richard de la Tour prospettava, in astratto, due possibili risposte entrambe giuridicamente sostenibili. La prima orientava nel senso che tale designazione non era compatibile con il diritto UE, richiedendo che il Paese garantisca un regime democratico e protezione uniforme a tutta la popolazione, a prescindere dalle caratteristiche soggettive; tale soluzione, osservava l’Avvocato generale, “si muoverebbe nel solco della sentenza CV del 4 ottobre 2024”, che però affrontava solo le eccezioni di carattere territoriale. Tuttavia, tale orientamento, pur teoricamente coerente, rischierebbe di compromettere l’efficacia pratica della designazione in un contesto di forte pressione migratoria. Per questo motivo, l’Avvocato generale propende per una seconda opzione interpretativa, più pragmatica, che ammette la possibilità di designare un paese come sicuro pur in presenza di una o più categorie di persone chiaramente identificate come a rischio, a condizione che queste siano espressamente escluse dalla presunzione di sicurezza. In questa prospettiva, la nozione di paese sicuro si fonderebbe su un principio di generalizzazione, in base al quale uno Stato può essere ritenuto generalmente sicuro, fermo restando che alcune eccezioni personali devono essere gestite attraverso una procedura ordinaria individualizzata. A fondamento di tale posizione, de la Tour richiamava l’allegato I alla direttiva 2013/32, in cui si prevede che un paese sia considerato sicuro se, “sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni [...] né tortura [...] né pericolo a causa di violenza indiscriminata”. Secondo l’Avvocato generale, la presenza dell’avverbio “generalmente” implica che la protezione non debba essere assoluta o uniforme, ma possa fondarsi su una valutazione di carattere medio-statistico. Da qui la possibilità per uno Stato membro di escludere ex ante alcune categorie vulnerabili dalla presunzione di sicurezza, così come già avviene ex post nell’esame individuale. Tale interpretazione, prosegue de la Tour, risultava conforme anche al nuovo Regolamento 2024/1348, che all’articolo 61, paragrafo 2, autorizza espressamente gli Stati membri a prevedere eccezioni alla designazione in favore di “categorie chiaramente identificabili”. L’Avvocato generale sottolineava però che, se tali eccezioni fossero diventate eccessivamente ampie o indefinite, il concetto stesso di paese sicuro era destinato a diventare fittizio, rendendo la designazione non più né proporzionata né ragionevole.
6. La sentenza della Corte di giustizia dell’1 agosto 2025
La Corte di giustizia dell’Unione europea, nella sentenza del 30 luglio 2025 (causa C‑758/24), ha fornito un’articolata risposta ai quattro quesiti pregiudiziali sollevati dal Tribunale di Roma in merito alla designazione dei paesi di origine sicuri ai sensi della direttiva 2013/32/UE, letta alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali. In relazione al primo quesito, la Corte ha chiarito che nulla osta, in linea di principio, a che uno Stato membro proceda alla designazione di paesi terzi come paesi di origine sicuri mediante un atto legislativo, dal momento che il diritto dell’Unione non impone uno specifico strumento giuridico per tale designazione, lasciando agli Stati membri un margine di discrezionalità quanto alla forma e alla scelta dell’autorità competente, in virtù dell’articolo 288, terzo comma, TFUE; tuttavia, tale discrezionalità è condizionata dall’obbligo di garantire un controllo giurisdizionale effettivo sulla legittimità della designazione, ossia la possibilità per qualsiasi giudice nazionale investito di un ricorso contro una decisione individuale di respingimento di una domanda di protezione internazionale di verificare, anche incidentalmente, se la designazione legislativa rispetti le condizioni sostanziali fissate nell’allegato I alla direttiva. Quanto alle seconde e terze questioni, la Corte ha affermato che l’effettività del ricorso giurisdizionale – quale garanzia fondamentale prevista dall’articolo 47 della Carta e concretizzata nell’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva – impone che tanto il richiedente quanto il giudice abbiano accesso alle fonti di informazione su cui si fonda la designazione del paese di origine sicuro, anche se la direttiva non prevede espressamente tale obbligo: l’accesso alle fonti è infatti necessario per consentire al richiedente di comprendere le ragioni del rigetto e valutare se presentare ricorso, e al giudice di esercitare un controllo effettivo e aggiornato (ex nunc) sui presupposti della designazione; inoltre, il giudice può basarsi su informazioni raccolte autonomamente, purché ne verifichi l’affidabilità e garantisca il rispetto del contraddittorio tra le parti. Infine, con riferimento al quarto quesito, la Corte ha stabilito che l’articolo 37 della direttiva 2013/32, in combinato disposto con l’allegato I, osta a che uno Stato membro designi come paese di origine sicuro un paese terzo che non soddisfi le condizioni sostanziali della direttiva per talune categorie di persone: l’interpretazione letterale, sistematica e teleologica della norma impone che i requisiti di sicurezza siano rispettati in modo costante e generalizzato con riferimento all’intera popolazione del paese, senza esclusioni per gruppi specifici, giacché consentire una designazione selettiva equivarrebbe ad ampliare indebitamente l’ambito applicativo di un regime procedurale derogatorio che deve invece essere interpretato restrittivamente; la facoltà di prevedere eccezioni per categorie particolari sarà ammessa solo con il futuro regolamento 2024/1348, che entrerà in vigore dal 12 giugno 2026, ma non può applicarsi ai procedimenti ancora regolati dalla direttiva. Pertanto, spetta al giudice del rinvio verificare, alla luce dell’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 e dell’articolo 47 della Carta, se la designazione del Bangladesh come paese di origine sicuro – prevista dall’articolo 2-bis del d.lgs. n. 25/2008 come modificato dal d.l. n. 158/2024 – soddisfi le condizioni sostanziali previste dalla direttiva, con riferimento a tutta la popolazione del paese e non solo ad alcune categorie, assicurando in tal modo il pieno rispetto del diritto dell’Unione e delle garanzie che essa attribuisce al richiedente protezione internazionale.
7. La comparazione tra la sentenza della Corte di giustizia del 1° agosto 2025 e le Conclusioni dell’Avvocato Generale De La Tour
Si rileva una sostanziale convergenza sugli aspetti centrali dell’interpretazione della direttiva 2013/32/UE fra le Conclusioni dell’Avv. Gen. De la Tour e la Corte di giustizia, ma anche una divergenza significativa sul punto decisivo relativo alla possibilità per gli Stati membri di designare come “paese di origine sicuro” un paese che non garantisca protezione a determinate categorie di persone. Entrambi concordano nel ritenere legittima, in linea di principio, la designazione legislativa dei paesi sicuri, purché essa non comprometta il diritto a un ricorso effettivo. La Corte, richiamandosi alla giurisprudenza consolidata sul primato del diritto UE, ribadisce che anche atti legislativi interni devono poter essere disapplicati dal giudice nazionale se ostano all’efficacia della direttiva. In questo quadro, i giudici di Lussemburgo sottolineano che la designazione deve essere soggetta a un sindacato giurisdizionale sostanziale, volto a verificare la conformità ai criteri dell’allegato I della dir. ult.cit., garantendo accesso alle fonti informative da parte del richiedente e del giudice. Su questi profili, le Conclusioni risultano pienamente coerenti con la decisione della Corte di giustizia.
Il nodo critico emerge, piuttosto, con evidenza nella risposta al quarto quesito pregiudiziale offerta dalla Corte di giustizia in merito alla possibilità di designare come “paese di origine sicuro” un paese terzo che non offra garanzie di protezione a determinate categorie di persone. L’Avvocato Generale, si è visto, aveva proposto un’interpretazione orientata alla futura evoluzione normativa, sostenendo che “non si deve escludere in via assoluta” la legittimità di una designazione selettiva, purché “categorie vulnerabili siano chiaramente identificate e escluse” dalla presunzione di sicurezza. A suo avviso, questa flessibilità era compatibile con lo spirito della direttiva 2013/32/UE, trovando conferma nel nuovo Regolamento UE 2024/1348, il cui articolo 61, paragrafo 2, consente esplicitamente – a partire dal 12 giugno 2026 – la designazione differenziata dei paesi sicuri, con eccezioni per gruppi specifici. In tal senso, De La Tour invocava, dunque, il regolamento come parametro interpretativo utile già allo stato.
La Corte di giustizia ha disatteso questa prospettiva, che pure era stata valorizzata dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n.34898/2024. Richiamando espressamente la propria sentenza del 4 ottobre 2024 (C‑406/22), la Corte di Lussemburgo ha ribadito che il bilanciamento tra rapidità delle procedure e garanzie effettive è stato già compiuto dal legislatore europeo e non può essere rideterminato in sede giudiziaria. L’articolo 37 della direttiva 2013/32/UE, interpretato secondo il suo “tenore letterale”, non consente – secondo la Corte – che la designazione riguardi solo una parte della popolazione di un paese terzo: “nulla nel testo […] indica che […] tali termini possano essere intesi nel senso che riguardino soltanto una parte” (§92). Inoltre secondo la Corte i criteri dell’allegato I devono essere rispettati “con riferimento a tutta la popolazione del paese terzo interessato” (§96), e anche se “non esiste alcuna garanzia assoluta di sicurezza per ciascun individuo” (§97), ciò non giustifica un abbassamento dei requisiti richiesti per la designazione. L’accoglimento della tesi dell’Avvocato Generale equivarrebbe, secondo la Corte, a “estendere l’ambito di applicazione del regime speciale d’esame” (§100) in modo non conforme al principio secondo cui “le disposizioni derogatorie devono essere oggetto di interpretazione restrittiva”.
Quanto al nuovo Patto sull’asilo, la Corte riconosce che il regolamento 2024/1348 prevede, ma solo per il futuro, la possibilità di designazioni selettive. Tuttavia, afferma chiaramente che “nella misura in cui ai procedimenti principali si applica l’articolo 37 della direttiva 2013/32 e non già l’articolo 61, paragrafo 2, del regolamento 2024/1348” (§108), il nuovo regime normativo non è in atto giuridicamente rilevante. Il richiamo al nuovo regolamento, dunque, non può giustificare una lettura anticipata della direttiva attualmente in vigore, ben potendo comunque il legislatore europeo, nell’esercizio della sua discrezionalità, decidere di anticiparne l’entrata in vigore o addirittura di modificare il bilanciamento individuato in precedenza fra esigenze di trattazione rapida di procedimenti per richiedenti provenienti da paesi sicuri ed esame adeguato e completo e un accesso effettivo del richiedente ai principi fondamentali e alle garanzie previsti dalla medesima direttiva 2013/32. In sintesi, se per l’Avvocato Generale- e Cass.n.34898/2024 - il regolamento del 2024 funge già oggi da criterio ermeneutico da utilizzare nell’interpretazione della normativa dell’Unione vigente, per la Corte esso rappresenta una volontà legislativa futura, non ancora efficace, e pertanto inidonea a incidere sull’interpretazione del diritto vigente.
8. La comparazione fra Corte di giustizia, 1° agosto 2025 (cause riunite C‑758/24 e C‑759/24), e Cass. n. 33398/2024
Tanto la Corte di giustizia quanto la Corte di cassazione riconoscono al giudice nazionale un ruolo essenziale nella verifica della conformità sostanziale della designazione di un Paese di origine sicuro ai criteri europei. La Corte di giustizia afferma che “quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale, esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paese di origine sicuro”, egli deve svolgere “un esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto art. 46, par. 3” e, soprattutto, che tale esame deve includere “una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso” (§85). Questa posizione è pienamente in linea con quanto affermato dalla Cassazione, la quale ha chiarito che “il giudice, a fronte del corretto adempimento degli oneri di allegazione, mantiene il potere-dovere di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi utili ad indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale, anche in relazione alla situazione generale del paese di origine” (Cass. n. 33398/2024, p. 23).
Sotto il profilo delle fonti informative e della trasparenza istruttoria, la Corte di giustizia ha ribadito che “il diritto a un ricorso effettivo richiede che il giudice abbia accesso e possa valutare il contenuto delle fonti di informazione utilizzate per la designazione” (§78), sottolineando che la procedura di designazione nazionale deve fondarsi su “fonti affidabili e verificabili” (§70). Su questo punto, la Cassazione afferma che “la presunzione che vi si ricollega non è dunque una fictio, ma deve essere fondata su fonti certe che consentano di dimostrare la sicurezza del Paese designato” (p. 11), esprimendo una convergente attenzione al controllo effettivo delle basi fattuali della presunzione.
Decisiva è poi la convergenza circa il primato del diritto dell’Unione e la disapplicazione della normativa interna in contrasto. La Corte di giustizia precisa che “spetta al giudice nazionale disapplicare, se del caso, qualsiasi disposizione nazionale, anche legislativa, che osti all’effettività del controllo previsto dall’articolo 46 della direttiva” (§63). In parallelo, la Cassazione ribadisce che “il giudice ordinario, anche dinanzi a designazione ex lege, deve comunque assicurare l’effettività del controllo, senza che l’elevazione di rango della fonte possa esonerarlo da tale dovere” (p. 23), riaffermando l'obbligo di disapplicazione in caso di contrasto con il diritto dell’Unione.
Infine, sul terreno della tutela giurisdizionale effettiva, la Corte di giustizia richiama l’art. 47 della Carta, chiarendo che “l’effettività della tutela giurisdizionale impone che il giudice possa sindacare la designazione, anche legislativa, del paese di origine sicuro” (§87). La Cassazione, con perfetta coerenza, osserva che “il giudice ordinario è il garante dell’effettività, nel singolo caso concreto al suo esame, dei diritti fondamentali del richiedente asilo” (p. 10), evidenziando che la giurisdizione civile ordinaria ha la responsabilità di dare attuazione ai diritti fondamentali anche in presenza di presunzioni normative.
In conclusione, il parallelismo tra le due decisioni è evidente poiché le due Corti riconoscono che il giudice nazionale è chiamato ad esercitare un sindacato pieno, attuale e concreto sulla designazione dei paesi sicuri, anche se operata con legge, garantendo l’effettività dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione e il primato del diritto dell’Unione.
9. La comparazione fra le Conclusioni dell’Avvocato generale e l’ordinanza n. 34898/2024 della Corte di cassazione
Può essere parimenti utile operare una analoga comparazione fra l’ordinanza della Cassazione n.34898/2024 e le conclusioni dell’Avvocato generale De la Tour, evidenziando che le stesse convergevano in più punti ed anche sulla soluzione del quarto quesito che, come si è visto, è stato deciso in modo difforme dalla Corte di giustizia.
In particolare, quanto al primo quesito pregiudiziale, la Cassazione sottolineava che «la presunzione che il Paese d’origine sia sicuro non esonera il giudice dal dovere di valutare, se del caso, eventuali elementi individuali dedotti dal ricorrente e idonei a inficiare, nel caso specifico, l’attendibilità della designazione». Tale dovere si affianca alla possibilità riconosciuta allo Stato di «escludere, nella fase della designazione, alcune categorie soggettive dalla presunzione, ove identificate come strutturalmente a rischio di persecuzione o trattamenti inumani».
Una simile impostazione era fatta propria anche dall’Avvocato generale De la Tour, secondo il quale «gli Stati membri dispongono di un margine di discrezionalità che consente loro di designare un paese terzo come paese di origine sicuro, benché siano state individuate una o più categorie limitate, ma chiaramente identificabili, di persone a rischio in tale paese, e di escludere correlativamente ed espressamente tali categorie dalla presunzione di sicurezza» (§70 Concl.). A sostegno di questa lettura, de la Tour evidenziava che «il legislatore dell’Unione ammette chiaramente che il concetto di paese di origine sicuro e la presunzione di sicurezza che ne consegue derivano da una generalizzazione» (§79), e che «non ravviso alcuna valida ragione che osti a che uno Stato membro decida, in esito alla valutazione generale di tale paese, di escludere (ex ante) dall’ambito di applicazione di detta presunzione la categoria o le categorie di persone che esso ha già identificato come a rischio» (§81).
Nelle rispettive motivazioni, sia l’Avvocato generale de la Tour che la Corte di Cassazione insistevano poi sulla necessità di mantenere aperta la possibilità di contestare la presunzione di sicurezza, soprattutto in presenza di eccezioni personali. Entrambi i provvedimenti ribadivano l’obbligo del giudice di verificare in concreto la fondatezza della presunzione, anche in assenza di informazioni ufficiali. La Cassazione ricordava che «la presunzione che il Paese d’origine sia sicuro non esonera il giudice dal dovere di valutare, se del caso, eventuali elementi individuali dedotti dal ricorrente»,
Inoltre, quanto al quarto quesito pregiudiziale in sintonia con le Conclusioni dell’Avvocato generale, la Cassazione richiamava espressamente anche il nuovo Regolamento 2024/1348, in particolare l’art. 61, co. 2, che autorizza espressamente gli Stati membri a designare un Paese terzo come sicuro, escludendo tuttavia determinate categorie chiaramente identificabili di persone dalla presunzione di sicurezza che tale designazione comporta. La Cassazione osservava che questa disposizione, “pur non ancora applicabile ratione temporis, è indicativa dell’evoluzione del sistema normativo e può orientare l’interpretazione della normativa attuale” (p. 27), sottolineando così la funzione interpretativa di norme future già formalmente adottate, in coerenza con il principio di unità dell’ordinamento dell’Unione. Di analogo tenore era il passo delle conclusioni dell’Avvocato generale, che ricordava come l’art. 61 consente agli Stati “di prepararsi adeguatamente all’applicazione di detto regolamento” e ne deduce che risulterebbe paradossale “imporre agli Stati membri […](di) abrogare una siffatta modalità di applicazione” (§94 Concl.).
Qui le Conclusioni dell'Avvocato Generale De La Tour concl.Avv.-gen
Qui la Sentenza del 1 agosto 2025 corte-giut-1-agosto-2025
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro, Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi, Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri, La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, secondo una prospettiva “interna” e di diritto dell’Unione Europea di Marcella Cometti, Un giudice a Roma. Gli immigrati, il governo e la protezione dello stato di diritto di Cataldo Intrieri, Immigrazione, rimpatri e incolumità del richiedente asilo. Intervista a Rita Russo di Paola Filippi, Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro di Roberto Giovanni Conti e Mario Serio.
Il 18 luglio 1990 su Palazzo Baciocchi, a Bologna, scese un silenzio innaturale.
La Corte d’Assise d’Appello aveva pronunciato la sua sentenza: annullate tutte le condanne pronunciate dai giudici di primo grado per la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, condanne che avevano riguardato sia gli autori materiali che alcuni imputati per i numerosi depistaggi inscenati fin dai primi passi delle indagini.
Nessun colpevole, nessun terrorista associato, nessun depistaggio.
Immediatamente partirono, a più livelli, le richieste di eliminare dalla lapide della Stazione l’aggettivo “fascista” accanto alla parola strage; si giunse addirittura, in quei giorni, alla presentazione di un ricorso d’urgenza al Pretore di Bologna per la cancellazione di quell’aggettivo.
Quella sentenza, che di lì a breve sarebbe stata annullata dalla Cassazione e definita “illogica, priva di coerenza, immotivata o scarsamente motivata, punteggiata di tesi inverosimili”, aveva in poco tempo fornito l’occasione e le parole a quella parte di opinionisti e politici che per decenni hanno cercato di indirizzare altrove indagini e processi. Altrove, in un luogo diverso da quell’ambiente neofascista, sostenuto ed alimentato da personaggi come il capo della Loggia P2 e appartenenti ai servizi segreti, nel quale, lo dicono uno dopo l’altro i processi fin qui celebrati e conclusi, venne programmata e realizzata la più grave strage di civili in un tempo di pace nel nostro paese: 85 morti, 200 feriti.
Le richieste di cancellare quella parola vennero respinte, mentre il lavoro giudiziario andava avanti, anno per anno, decennio per decennio, un processo dopo l'altro.
Ricordiamoli, i processi:
Il 12 febbraio 1992 la Corte di Cassazione a Sezioni unite annullò le assoluzioni rinviando il processo ad un nuovo giudizio d’appello celebrato nel 1994. La sentenza divenne definitiva nel 1995, con la condanna all'ergastolo, quali esecutori dell'attentato, dei neofascisti dei NAR Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, mentre l'ex capo della P2 Licio Gelli, l'ex agente del SISMI Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte venivano condannati per il depistaggio delle indagini.
Un secondo processo vide imputato Luigi Ciavardini, anche lui appartenente ai NAR, giudicato dal Tribunale per i Minorenni perché, nell’agosto del 1980, aveva solo 17 anni. La sua condanna divenne definitiva l’11 aprile 2007.
Nel 2017 venne rinviato a giudizio, per concorso nella strage di Bologna, Gilberto Cavallini, anch’egli componente dei NAR. Il suo nome compariva, ripetutamente, nelle motivazioni delle precedenti sentenze a carico di Mambro, Fioravanti e Ciavardini. La Corte d’assise di Bologna pronunciò la sentenza di condanna all’ergastolo il 9 gennaio 2020; la sentenza viene confermata, in appello, nel 2023 ed è divenuta definitiva nel gennaio di quest’anno.
Il 6 aprile 2022 la Corte di Assise di Bologna, al termine di in un nuovo processo scaturito da indagini riguardanti anche l’individuazione dei mandanti, condannava all'ergastolo Paolo Bellini quale esecutore materiale, mentre l'ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel, per depistaggio, veniva condannato alla pena di sei anni di reclusione e Domenico Catracchia, ex amministratore di condomini in via Gradoli a Roma, accusato di false informazioni al PM al fine di sviare le indagini, alla pena di quattro anni di reclusione.
La sentenza venne confermata l'8 luglio 2024 dalla Corte di Assise di Appello di Bologna ed il processo si è concluso solo pochi giorni fa, il 1° luglio 2025, quando la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso degli imputati.
Decisioni, le più recenti a carico di Cavallini e di Bellini, che non solo consolidano quanto affermato dalle precedenti sentenze, cioè l’attribuzione a terroristi dell'estrema destra del ruolo di esecutori, ma ricostruendo l’intricata, oscura opera di chi depistava le indagini, aprono il nostro sguardo sul quadro dei mandanti e questo anche in ragione della figura di Paolo Bellini, già esponente dell’organizzazione neofascista Avanguardia Nazionale.
Ricordare il cammino giudiziario che ci porta al 45° anniversario della strage del 2 agosto 1980 è oggi, più che mai, importante, direi necessario. La storia della ricerca della verità giudiziaria sulla strage del 2 agosto 1980 è solo una parte di un necessario lavoro di ricostruzione su quanto accadde in Italia in quegli anni, quando la libertà e la democrazia nel nostro Paese furono gravemente attaccate da chi, anche con importanti finanziamenti esteri, fornì mezzi, obiettivi e garanzie di copertura, fino alle più alte sedi istituzionali, agli esecutori materiali di gravissimi atti terroristici.
La chiamarono “strategia della tensione”, e di questi strateghi di morte furono vittime gli 85 innocenti di Bologna: anche questo ricaviamo dalle sentenze Cavallini e Bellini, quest’ultima in particolare rivelatrice del ruolo svolto, per anni, da appartenenti, ai più alti livelli, ai “nostri” servizi segreti.
Al lavoro dei magistrati bolognesi, portati a misurarsi con segreti di Stato, documenti non rivelati, carte venute allo scoperto a distanza di decenni, si è sempre affiancata, con tenacia e con la sua ostinata domanda di verità e giustizia, l’“Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980”, costituitasi a Bologna il 1° giugno 1981 e da allora sempre presente, ad ogni processo, ad ogni udienza.
Ogni anno a Bologna, la mattina del 2 agosto, si snoda un lungo corteo di cittadini che attraversa la città, partendo da Piazza Maggiore, il luogo della democrazia cittadina, per giungere davanti alla stazione di Bologna. Lì, alle 10:25, l’ora in cui è rimasto congelato nel tempo l'orologio della stazione sovrastante la parte di edificio spazzato via dalla bomba, cala il silenzio, per un minuto.
Non è il silenzio che, allora appena entrata in magistratura, sentii nel cortile di Palazzo Baciocchi quel 19 luglio 1990. È un silenzio vivo e vibrante, una pausa a cui seguono gli applausi e la commozione di tutti. Ogni anno, quel corteo, con l’appello dei famigliari delle vittime ad ottenere verità e giustizia ripetuto dal palco di Piazza Medaglie d’Oro è stata la risposta a quanti, cercando altrove, o spingendo a cercare altrove, negavano la serietà dell’aggettivo “fascista” accanto alla parola “strage”.
Una risposta talora passionale, talora rabbiosa, ma ferma e collettiva che oggi, a distanza di 45 anni dalla strage, trova nelle verità processuali conferme e nuove sollecitazioni, rendendo giustizia alla forza con cui questa comunità reagì, fin dal primo momento, all’attentato contro ogni valore democratico.
Ricordiamoli, questi processi. Parliamone con i nostri figli, con i nostri amici.
“BOLOGNA NON DIMENTICA” sta scritto su uno striscione che ogni anno apre il corteo del 2 agosto. Bologna non dimentica e tutta l’Italia non deve dimenticare. Deve sapere!
A questo link possono essere consultate tutte le sentenze citate:https://memoria.cultura.gov.it/documenti-online/-/doc/detail/287/Strage+di+Bologna%2C+documenti+processuali+%28Bologna%2C+2+agosto+1980%29?keyword=.
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