ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Con la maratona oratoria “Al centesimo catenaccio” Area Dg., in occasione del suo 5° Congresso nazionale, ha voluto portare ancora una volta l’attenzione sulla questione del sovraffollamento carcerario, punta dell’iceberg di un sistema, quale quello penitenziario, che versa in una crisi drammatica e ingravescente. Le statistiche ministeriali al 31.1.2025 restituiscono numeri sconvolgenti: 63.167 sono le persone recluse, oltre 11.800 in più oltre la capienza regolamentare, questa stessa stimata in eccesso, perché è noto che, al di là del dato ufficiale, la capienza effettiva è pari 46.706 posti disponibili, di talché in questo momento sono recluse nelle nostre carceri 16.000 persone in più rispetto al limite massimo regolamentare. L’indice medio di sovraffollamento è pari al 134,29%, l’83 % degli istituti sono sovraffollati e il 33% ha un indice di affollamento pari o superiore al 150%, con punte che hanno superato quest’anno in alcuni casi il 200%.
Ma i numeri, pur sconvolgenti, non restituiscono appieno la gravità della situazione, che è fatta di vite e corpi ristretti per mesi e anni in spazi detentivi sempre più ridotti e angusti, in ambienti spesso degradati; persone costrette ad un’umiliante promiscuità, a dividere un’offerta trattamentale ed un supporto educativo – istruzione, formazione, lavoro, attività ricreative, affettività etc.- sempre più esigue perché le risorse non aumentano, mentre aumenta esponenzialmente la platea dei fruitori. Sovraffollamento significa anche un accesso sempre più difficile ed aleatorio alle cure e alle terapie, e ciò in carceri che contano oltre il 32% di tossicodipendenti, una percentuale elevatissima di malati psichiatrici e una popolazione che necessita di cure e controlli. Sessantaquattro sono le persone ristrette suicidatesi dall’inizio dell’anno in carcere, in un luogo in cui nessun suicidio è tollerabile perché i detenuti sono sotto la custodia e, prima ancora, sotto la tutela dello Stato e delle Istituzioni penitenziarie. Il sovraffollamento favorisce tanto l’autolesionismo, che presenta anch’esso numeri in costante crescita, quanto il suicidio: secondo il report del Garante nazionale, dei 54 istituti in cui si sono verificati suicidi nel 2024, ben 51 erano sovraffollati.
Questa situazione involge anche chi in carcere quotidianamente vi lavora: polizia penitenziaria, direttori, educatori e psicologi, medici, la magistratura di Sorveglianza, i quali, esposti a sempre maggiore frustrazione e sfiducia, faticano a svolgere il loro mandato istituzionale che è, anzitutto, quello di alimentare la speranza per il cambiamento e accompagnare le persone detenute alla rieducazione e al reinserimento sociale e lavorativo.
Con la maratona oratoria ci proponiamo di raccontare tutto questo attraverso la testimonianza di coloro che quotidianamente operano nel carcere e per il carcere, per far comprendere, ai decisori politici, anzitutto, ed all’opinione pubblica, che se la pena si riduce, come in effetti rischia di divenire, mera coercizione della libertà personale, afflizione e sofferenza, essa tracima in un trattamento inumano e degradante vietato dall’art. 27 Cost. e dall’art. 3 CEDU, esponendo così ancora una volta il nostro Paese all’umiliazione di una nuova condanna della Corte Europea.
Il sovraffollamento è un fenomeno non recente (i provvedimenti clemenziali amnistia e indulto succedutisi dal 1942 al 2006 sono stati ben 35), ma che è cresciuto in modo esponenziale a far data dal 1991, assumendo così nel tempo genesi multifattoriale e carattere insieme emergenziale e strutturale, tale perciò da richiedere risposte efficaci tanto nell’immediato, quanto sul piano sistemico. Le proposte e soluzioni avanzate finora dal Governo e dalla maggioranza parlamentare appaiono del tutto inadeguate o rischiano financo di aggravare le presenze in carcere. Nel luglio scorso - di fatto così sterilizzando il dibattito parlamentare sulla proposta dell’On.le Giachetti sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata - è stato approvato il D.L 92/2024, contenente, tra l’altro, una riforma dell’istituto della Liberazione anticipata presentata quale misura di mitigazione del sovraffollamento, ma rivelatasi del tutto inefficace, tanto che dal 31 luglio 2024 al 31.08.2025 si sono registrate oltre 2000 presenze in più nelle carceri italiane. E mentre il nuovo Piano carceri varato dal Governo nella promessa di realizzazione di diecimila nuovi posti detentivi in due anni, appare tanto velleitario, per l’oggettiva complessità e costi di una tale impresa, quanto inadeguato rispetto al tasso di crescita (+ 12.600 presenze dal 2020 al 2025), con il nuovo Pacchetto sicurezza D.L. n.48/2025 sono state introdotti nuovi reati, nuove aggravanti e nuove fattispecie ostative specifiche dei detenuti.
Il sovraffollamento carcerario non è un fenomeno ontologicamente connesso al carcere, né la sua soluzione si traduce necessariamente in una deflessione sul versante della difesa sociale, ma devono e possono essere trovate soluzioni capaci di coniugare i diritti fondamentali dei detenuti, in primis la tutela della dignità umana, con il bene della sicurezza.
Con la maratona oratoria ci proponiamo, perciò di creare un momento di confronto tra magistrati, avvocati, garanti, operatori, intellettuali e giornalisti, sulle soluzioni, sui rimedi e sulle misure di mitigazione adottabili, così da offrire un contributo di proposte utili al dibattito pubblico ed alle scelte che devono impegnare i nostri decisori politici.
Lunedì 6 ottobre prossimo Area avvierà le iniziative che porteranno al suo congresso annuale. Presso la sala di rappresentanza del Comune di Genova, dalle 17.00, si parlerà di La riforma Nordio: una riforma della magistratura che non serve alla giustizia. A chi scrive sarà affidata una (breve, come di norma si precisa) introduzione, di taglio storico. E anticipo qui le linee generali.
Il dibattito su una separazione tra requirenti e giudicanti è in effetti risalente nel tempo. Lasciando da parte il lavoro della Costituente, nei primi anni ’60 proprio alla magistratura “progressista” capitò talvolta di proporre i PM come «corpo distino dalla Magistratura giudicante», ma per una disarticolazione di quella che Nello Ajello, in una storica inchiesta su l’Espresso del 1965, chiamava le “toghe di piombo”, l’insieme dei magistrati tradizionalisti che venivano dall’esperienza fascista. Non era forse opportuno avere figure professionali preparate specificamente all’attività di indagine, in un contesto - culturale, sociale e politico – in febbrile trasformazione? Si tratta della stessa logica che anima qualche decennio dopo le riflessioni di Giovanni Falcone, proprio nell’ultimissima fase della propria vita. Anche qui, però, è indispensabile contestualizzare. Il magistrato palermitano, dopo la epocale celebrazione del maxiprocesso, aveva subìto una serie di cocenti “sconfitte” professionali. Gli era stata negata innanzi tutto la guida del pool antimafia dopo la partenza di Caponnetto: nonostante la sua specialissima competenza, non era il più anziano degli aspiranti alla direzione dell’ufficio istruzione di Palermo. Medesimi furono gli argomenti con cui subito dopo fallì la nomina ad Alto commissario per la lotta alla mafia. La stessa “superprocura”, poi Procura nazionale antimafia, nasceva dall’idea di una specializzazione, da una sua visione di PM “moderno” uscito dalle pagine del nuovo codice di procedura penale. Larga parte della magistratura – Magistratura democratica, ma non solo - era invece contraria alla sua istituzione, per la paventata vicinanza di questo organo all’esecutivo. A maggio del 1992, pochi giorni prima della strage di Capaci, in una lezione palermitana, annotava che «il pubblico ministero dipende sì dalla magistratura ma rispondendo a esigenze e a istanze decisionali diverse da quelle della magistratura».
Erano i magistrati a non comprendere le riflessioni, assai minoritarie, di Falcone? O si sbagliava Falcone? Il nuovo codice di rito aveva disegnato un “nuovo PM” (il magistrato siciliano lo aveva sottolineato con largo anticipo) molto più centrale che in passato; più di prima “inquirente”, che non requirente. Più “esposto” mediaticamente, come la vicenda di Manipulite dimostrava proprio in quel torno di tempo. Le sentenze della Consulta del 1992, secondo la dottrina quasi unanime, avevano smantellato l’impronta accusatoria del 1988, e una certa spinta della magistratura forse c’era stata. Capisco possa risultare urticante leggerlo in questa sede, ma lo sviluppo del populismo giudiziario ha giocato un ruolo non secondario nel dibattito istituzionale successivo, e non è stato di aiuto per la difesa dell’indipendenza dei magistrati. Agli storici, e alla dottrina giuridica, questo appare oggi chiaro, come appare chiaro un certo atteggiamento autoreferenziale della magistratura associata.
Anche oggi, sulla separazione, non “mettersi alla testa” di una riforma della pubblica accusa, da parte di ANM in particolare, potrebbe rivelarsi infine un errore costosissimo. Già l’argomento che solo l’1%, o poco più, di PM passa alla funzione giudicante a chi scrive pare errato. Si potrebbe facilmente rispondere che allora proprio la realtà di fatto, due esperienze professionali nella stragrande maggioranza dei casi radicalmente distinte, giustifica una formalizzazione costituzionale. E invece, al contrario, ai PM – cui è affidato un potere che necessariamente può essere terribile - si dovrebbe probabilmente chiedere di aver fatto obbligatoriamente anche il giudice, proprio sul presupposto dell’unità profonda della funzione di magistrato: dal difficilissimo esercizio del giudicare, si può imparare un modo misurato e prudente di accusare. Magari con valutazioni della professionalità maggiormente stringenti e stilate anche da non magistrati, e (almeno) minime verifiche dei costi/benefici nelle operazioni investigative.
Pensare invece a una semplice dimidiazione dell’ordine giudiziario ha sostanza semplicemente punitiva, e di questa materia è fatto il “sogno” berlusconiano di separare in due la magistratura, d’altronde composta da “malati di mente”. E invece, al netto dei tanti errori, la magistratura italiana – lo dice un “laico” - rimane una straordinaria riserva della Repubblica e per sapere tecnico è fra le migliori al mondo.
Il progetto della destra potrebbe spingere la pubblica accusa all’interno di un alveo culturale e operativo che è esattamente quello che i “garantisti”, fautori della separazione delle carriere, vogliono contrastare. Il magistrato inquirente rischierebbe il rango di “avvocato della polizia”. E non si continui a ripetere che, alla luce del testo del disegno di legge costituzionale, non c’è rischio di subordinazione del PM all’esecutivo. Lo ha scritto autorevolmente Marcello Pera, ora senatore di Forza Italia; con un PM separato, che però mantiene le prerogative del magistrato, in particolare senza vincolo gerarchico, e che diventa via via più forte, con un proprio organo di governo autonomo, si generebbe uno sbilanciamento, «un pericolo per la democrazia. (…) Sembra allora chiaro che la sola separazione non basta. (…) Occorre necessariamente rivedere la Costituzione». Come? Reinserendo la gerarchia per i PM, modificando la loro autonomia e indipendenza rispetto a quella riservata ai giudicanti.
E la riprofilatura del potere esecutivo, nel senso del “premierato”, sarà a breve il nuovo orizzonte “riformatore” della maggioranza. Una costituzione “nuova”, un disegno complessivo cui certo non può essere negata una profonda coerenza interna. Non occorre essere dei profeti per comprendere quali esiti successivi potrà avere la pubblica accusa in Italia.
Sommario: 1. Il diritto perpetuamente in pericolo - 2. L’ordine naturale delle cose - 3. Giustizia, diritto e forza - 4. Diritto, politica e cultura - 5. La lotta per il diritto
1. Il diritto perpetuamente in pericolo
In un saggio che ha accompagnato la pubblicazione del libro sulla ‘certezza del diritto’ di Lopez de Oñate, Piero Calamandrei ammoniva sulla necessità di rendersi consapevoli che «il diritto è perpetuamente in pericolo».[1]
Questo passaggio è stato ricordato (da Guido Alpa) nella presentazione della pubblicazione di una conferenza tenuta dallo stesso Calamandrei nel 1940 nella sede della Fuci: una pubblicazione arricchita, oltre a quello di Guido Alpa, dai saggi di presentazione di Gustavo Zagrebelsky e di Pietro Rescigno.[2]
Il testo della conferenza, intitolata alla ‘fede nel diritto’, valeva, allora, come un monito contro la creazione libera del diritto fuori dal perimetro costituito dal sistema positivo.
La fede dell’intellettuale liberale nel diritto positivo si poneva, in quegli anni, in ultima analisi, come la disperata difesa contro l’arbitrarietà del potere, che appariva, a quel tempo, più facilmente predicabile in relazione all’attività dei giudici e dei funzionari (allora, in larga misura, ancora legati alla corrente fedeltà politica), che alla volontà del legislatore.
Ma che cosa è in pericolo, quando è in pericolo il diritto?
Il diritto, di per sé, è privo di un suo contenuto specifico: è la mera idea (formale) del limite. La cifra esteriore della sacralità.
Prima ancora che la storia si incaricasse di fornirgliene una tragica conferma, Carl Schmitt e Hans Kelsen (campioni di un dibattito capace di travalicare i confini del discorso giuridico) hanno insegnato al Novecento, violentemente spalancato dagli orrori della Grande guerra, che il diritto è pura decisione sovrana[3] e norma aperta ad ogni contenuto.[4]
Quando la vecchia Europa - umiliata e, in gran parte, suicidatasi nella sua trentennale guerra civile[5] - ha riscritto le sue costituzioni democratiche, si è talora illusa di poter recuperare il valore antico del diritto di natura come ultimo baluardo contro la ferocia e la barbarie.
2. L’ordine naturale delle cose
Al tema dell’‘ordine naturale delle cose’, uno tra i nostri giuristi civilisti di più apprezzata e raffinata cultura, ha ricondotto, non molti anni fa – quasi come a un comune denominatore – l’ispirazione di talune, ricche, riflessioni dedicate ai più diversi temi (come la soggettività, l’uguaglianza, le biotecnologie, il multiculturalismo), tenendo sullo sfondo il dilemma da sempre iscritto nelle dispute, mai sopite, sul rapporto tra diritto e natura.[6]
La storia delle dottrine del diritto naturale, si ammonisce, è la nostra storia intellettuale, che prende vita dall’esperienza presocratica, con la proiezione, nella natura, di principi e affermazioni di valore tratti dall’esperienza delle relazioni sociali, e l’annuncio dell’apertura del pensiero, con l’abbandono della magia, a ciò che diverrà, in progresso di tempo, il senso della causalità scientifica. Una storia lunghissima, coerentemente misurabile fino alle reazioni opposte, in un tempo a noi più vicino, agli orrori delle dittature del ‘900, con la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo e la creazione di una dimensione giuridica sovra-nazionale e sovra-statuale.
E tuttavia, pur quando così ben strutturato sulla trama elegante dell’‘ordine naturale delle cose’, nessuno steccato immaginario ha mai potuto preservare l’esperienza delle nostre comunità dalle istanze del pluralismo, dal bagno della concretezza, dalla dilagante problematicità del reale. Su quelle forze ‘dis-ordinanti’ ancora registriamo oggi, come esiti politico-culturali di un secolare tragitto, la permanente espropriazione, da parte degli esecutivi (in nome dell’urgenza e del tecnicismo delle decisioni), della funzione legislativa; la liquidazione della legge; la trasformazione della politica da rappresentanza in rappresentazione; il giudizio politico, morale, e perfino quelli storico e giuridico, veleggianti verso approdi conformisti, ludici, puramente estetici.
Cospira a questi effetti, senza alcun dubbio e paradossalmente, «il progresso della conoscenza, che con la vertigine della storia genera anche quella di un’infinita complessità. Si direbbe che l’uomo contemporaneo sia meno in grado di ogni suo predecessore di reggere il fardello – di sopportare quello che sa. Come è solito nascondersi l’umanità della legge giuridica, così amerebbe non aver scoperto che è rivedibile la legge naturalistica, e che l’ordine si presenta in entrambi i sensi come un prodotto instabile della mente. […] Nell’era dell’onnipotenza tecnologica, l’idea dell’ordine naturale tradisce, attraverso brandelli di antiche dottrine, il suo sembiante di gran lunga più ingenuo: la vita ‘secondo natura’ – ed in essa un individualismo ‘debole’, sordo e muto – come abbandono al corso delle cose, come scelta di non scegliere, la cui sola evocazione è sufficiente a candidarla come la migliore delle scelte possibili. Se natura è ciò che è intatto da manipolazione – in contrapposto all’artificio – abbiamo oggi ogni elemento per affermare che, quale criterio dell’azione, non c’è da farvi affidamento. […] Anche le abitudini che troviamo, per la loro diffusione e familiarità, massimamente naturali – le nostre maniere di lavorare, abitare, nutrirci, quelle di amarci con anime e corpi – conosciamo come il risultato di una lunga evoluzione umana nella storia. Ci sappiamo insomma, anche se stentiamo a dichiararlo, inchiodati senza scampo a una cultura sovrapposta alla natura: le opzioni dell’etica non sono mai tra natura e cultura, ma fra diverse possibilità aperte nel contesto culturale in cui viviamo».[7]
La formula del diritto naturale, con tutta la sua antica vocazione di argine all’ingiustizia, rischia più che mai nel mondo attuale di risuonare come un’abiura al pensiero critico, parola d’ordine delle divisioni culturali e religiose, grido di intolleranza, invito alla chiusura, alla discriminazione, perfino alle armi.
Dovunque invocato come fonte di potere, il diritto naturale rivela la sua irriducibile vocazione totalitaria.
Ma ancora una volta, come un vertiginoso nuovo capovolgimento, il sentimento del nostro darci con il mondo, dell’appartenenza a quello sfondo mobile a cui di ‘natura’ diamo il nome, la progettazione del dover essere in base all’essere (alle regolarità e ai nessi causali che si riscontrano nei nostri rapporti reciproci nel contesto in cui hanno luogo) sembrano tornare a offrirci le condizioni necessarie perché il diritto, mantenendo la propria struttura ambigua, non cessi di manifestarsi come tale.[8]
Come in un’ideale trasposizione di letture ‘leviane’[9], la coltivazione degli studi giuridici ci insegna a muoverci verso un ‘futuro dal cuore antico’; a progettare l’idea dell’‘allontanamento’ e, dunque, a disegnare con precisione il punto dal quale, sempre, ogni cammino ha da partire.
3. Giustizia, diritto e forza
La fondazione in termini ‘forti’ dell’idea del diritto sul tronco della ‘giustizia’ (e, in ultima analisi, della ‘verità’ che di quest’ultima rappresenta lo sfondo) vale a giustificare il riferimento alla stessa idea della ‘forza’ come connotato della giustizia che trova attuazione, e che contrassegna il tratto di qualificazione della stessa ‘aggressione’ conforme a giustizia come il contrario speculare della ‘violenza’.
L’esame del frammento contenuto nel codice di Hammurabi rimanda all’idea della giustizia come ‘baluardo’ contro la pre-potenza dei ‘forti’ contro i ‘deboli’ («affinché rendesse visibile la giustizia nel Paese, eliminasse i malvagi e i cattivi, perché i deboli non fossero privati dei diritti dai forti»[10]).
Gli stessi documenti della storia greca più antica appaiono inserirsi con coerenza nel vivo di questo discorso. Nella narrazione della guerra del Peloponneso - con particolare riguardo alla vicenda degli Ateniesi venuti a portare un ultimatum alla sventurata cittadina di Melo (destinata a soccombere dinanzi ai progetti di espansione imperiale della grande metropoli attica) -, Tucidide ricorda come, agli abitanti di quella minuscola città che insistevano sul loro diritto all’autonomia, gli ambasciatori ateniesi rispondessero con agghiacciante lucidità che «l’esame di ciò che è giusto, lo si compie solamente quando c’è uguale necessità da ambo le parti. Là dove ci sono un forte e un debole, il possibile viene eseguito dal primo ed accettato dal secondo».[11]
«Sempre, per una necessità di natura» - continuano gli Ateniesi nel racconto di Tucidide - «ogni essere esercita tutto il potere di cui dispone».[12]
La nozione di giustizia che trova spazio nel racconto dello storico greco del V secolo sembra profilarsi, con caratteri di rigorosa necessità, in un contesto di rapporti di forza che risultano già di per sé equilibrati; quando cioè il potere non può esercitarsi in virtù di limiti oggettivi che ne comprimono la capacità espansiva, costituendo per ciò stesso la giustizia come effetto di una forza in equilibrio.
È possibile persino immaginare che queste battute, che precedono il massacro indiscriminato degli abitanti di Melo, siano pronunciate dagli ateniesi con una specie di religiosa e rassegnata amarezza, in coerenza con lo spirito della tragedia cui gli stessi furono da sempre avvezzi, educati alla contemplazione della dura e fatale necessità che s’impone nel mondo degli uomini, e degli stessi dèi, pur essi ineluttabilmente governati dalla legge della forza.[13]
Più di recente, chiamato ad affrontare il tema del rapporto tra ‘giustizia’ e ‘forza’, nel ‘rileggere’ un frammento dei ‘Pensieri’ di Blaise Pascal («Giustizia, forza. – È giusto che ciò che è giusto sia seguìto, ed è necessario che ciò che è il più forte sia seguìto»), Jacques Derrida ha tentato di ordinare il rigore e il senso di quelle parole: il frammento suggerisce che «quello che è giusto deve - ed è giusto - essere seguìto: seguìto di conseguenza, seguìto d’effetto, applicato, enforced; poi che ciò che è ‘il più forte’ deve ugualmente essere seguìto: di conseguenza, d’effetto ecc. Detto altrimenti, l’assioma comune è che il giusto e il più forte, il più giusto come il più forte devono essere seguìti. Ma questo ‘dover essere seguìto’ comune al giusto e al più forte, è ‘giusto’ in un caso, ‘necessario’ nell’altro: è giusto che ciò che è giusto sia seguìto [detto altrimenti, il concetto o l’idea del giusto, nel senso di giustizia, implica analiticamente e a priori che il giusto sia ‘seguìto’, enforced, ed è giusto - anche nel senso di giustezza - pensare così], è necessario che ciò che è il più forte sia seguìto (enforced).
«Pascal prosegue: “La giustizia scompaginata dalla forza è impotente [detto altrimenti, la giustizia non è la giustizia, non è resa se non ha la forza di essere enforced; una giustizia impotente non è una giustizia, nel senso del diritto]; la forza scompaginata dalla giustizia è tirannica. La giustizia senza forza viene contraddetta, perché ci sono sempre malvagi; la forza senza la giustizia viene riprovata. Bisogna dunque congiungere la giustizia e la forza; per fare in modo che quel che è giusto sia forte e che quel che è forte sia giusto”».[14]
‘Giustizia’, ‘diritto’ e ‘forza’ riannodano così, in un rapporto di reciproca implicazione, il legame che trascorre tra la legittimazione della forza (e quindi del ‘potere’ che ne costituisce l’espressione più saliente sul territorio dei rapporti politici) in base al diritto; e ancora di quest’ultimo in base alla giustizia. Per il mistico cristiano (se tale può qualificarsi la vocazione del giansenismo pascaliano), un potere che pretenda di legittimare l’imposizione di regole sulla base della sola forza (come valore in sé), svincolandone ‘programmaticamente’ la manifestazione da alcun nesso con il valore della ‘giustizia’, costituisce l’esempio più evidente dell’azione ‘arbitraria’ e ‘violenta’, della criminosa pretesa del tiranno.
E tuttavia - nell’impossibilità di statuire, nei termini di una condivisione storicamente ‘universale’, il contenuto ‘sostanziale’ dell’asserzione che è giusta di per sé (in quanto tale), che si impone in ‘forza’ del carattere intrinseco della sua ‘giustizia’ -, ciò che distingue, sul piano storico-culturale, le diverse impostazioni fornite sul tema della natura del diritto e del potere, dev’essere piuttosto ricercato nelle differenti inclinazioni assunte con riguardo ai principi di legittimazione e di riconoscimento dell’idea stessa di ‘giustizia’.
Quest’ultima idea è a sua volta condizionata dai differenti criteri di discernimento e di selezione del valore di ‘autorità’ - e, in ultima analisi, di ‘verità’ – che occorre assegnare alle istanze identificative della giustizia, quali parametri di corrispondenza idonei alla determinazione dell’asserzione ‘giusta’.
Di volta in volta, nel corso dei secoli, l’idea della ‘giustizia’ ha finito con l’associarsi all’intuizione di ciò che è ‘giusto’ rispetto ai contenuti della volontà divina; quando non della ‘tradizione dei padri’; della natura delle cose; della ragione naturale dell’uomo (naturalis ratio); di ciò che è giusto rispetto al valore dell’uguaglianza universale; alla spontanea regolatività storica dei rapporti; alla volontà del più forte; dei più sapienti; della maggioranza, etc.
Si avverte, nel discorso condotto attorno ai principi di legittimazione o di identificazione della giustizia, l’eco dei ‘titoli’ che la tradizione della scienza politica comunemente rinviene in relazione al tema del ‘potere’.[15]
4. Diritto, politica e cultura
Nel tempo delle democrazie contemporanee, il diritto, dunque, non è altro che il prodotto della cultura e del potere che prevalgono nel conflitto delle idee.[16] Null’altro che la particolare forma di un sapere che si struttura come potere, poiché la verità non si presenta mai al di fuori del potere, né senza potere.
Si tratta della lezione che occorre trarre dalle lucide riflessioni di Michel Foucault.
Nell’analisi dei rapporti di potere, sostiene Foucault, occorre «assumere come punto di partenza le forme di resistenza contro le diverse forme di potere. Per usare un’altra metafora, esso consiste nell’usare tali resistenze come un catalizzatore chimico per portare alla luce i rapporti di potere, localizzarne la posizione, individuarne il punto di applicazione e i metodi adottati. Invece di analizzare il potere dal punto di vista della sua razionalità interna, si tratta di analizzare i rapporti di potere attraverso l’antagonismo delle strategie. Ad esempio, per scoprire che cosa la nostra società intende per normalità, forse dovremmo indagare cosa avviene nel campo della follia. O cosa intendiamo per legalità nel campo dell’illegalità. E così per capire quali sono i rapporti di potere in gioco, forse dovremmo indagare le forme di resistenza e i tentativi che sono stati fatti per scindere tali rapporti».[17]
Tra gli esempi di ‘opposizione’ sociale che si sono andati sviluppando e moltiplicando nel corso degli ultimi anni, vale ricordare l’opposizione al potere degli uomini sulle donne, dei genitori sui bambini, della psichiatria sul malato mentale, della medicina sulla popolazione, dell’amministrazione sui modi in cui vive la gente.
Ai temi toccati da Foucault appare utile accostare - in una prospettiva che intenda suggerire le possibili condizioni di un discorso ‘giuridico’ sul potere - l’autorità così come esercitata negli ambiti più ristretti (settoriali o locali) della politica dei partiti o dei movimenti, del sindacato, delle confessioni religiose, delle comunità del lavoro e della scuola, delle famiglie, delle strutture associative organizzate della cultura, del volontariato, della produzione o del consumo. E a quella, associare le esperienze della ‘contestazione’ e del ‘dissenso’ interni ai gruppi sociali, più spesso destinate ad assumere la forma di organizzazioni autonome delle minoranze, come strategie di ‘lotta’ o di ‘resistenza’ politica e/o culturale all’autorità della maggioranza.
Al di là dell’ovvio carattere anti-autoritario, queste opposizioni si qualificano tra loro per una molteplicità di caratteri comuni: si pensi alla relativa ‘trasversalità’ (o intersezionalità) nello spazio politico; alla lotta diretta contro gli aspetti effettuali del potere; all’immediatezza dello scontro, in cui l’atteggiamento critico si rivolge agli aspetti più ‘vicini’ del potere ed a quelli che esercitano direttamente la loro azione sugli individui.
Queste lotte neppure si aspettano di trovare una soluzione al problema in un tempo futuro (come liberazioni, rivoluzioni, fine della lotta di classe). Rispetto alla scala teorica di spiegazione e rispetto al parametro rivoluzionario che polarizza lo storico, sono lotte ‘anarchiche’.
Le lotte in cui si manifesta l’opposizione al potere, in questa sua dimensione ‘microfisica’[18], sono lotte che mettono in discussione in primo luogo la condizione dell’individuo, affermando il diritto di questi alla propria diversità e alla difesa di tutto ciò che concorre alla determinazione della propria individualità, ed attaccando ciò che isola l’individuo, rompe i suoi legami con gli altri, spezza la vita comunitaria, rinchiude l’individuo in se stesso e lo vincola alla propria identità in modo forzato. Queste lotte non sono propriamente a favore o contro l’individuo, ma sono piuttosto contro il governo dell’individualizzazione.
L’obiettivo privilegiato delle opposizioni sociali in esame è costituito dallo smascheramento degli effetti di potere legati al sapere, alla competenza e alla qualificazione: la lotta muove contro i privilegi del ‘sapere’, ma anche contro la segretezza, la deformazione e le immagini mistificanti imposte alla gente. In questo non c’è niente di scientifico (cioè una credenza dogmatica nel valore del sapere scientifico), ma non c’è neppure un rifiuto scettico e relativistico di ogni verità verificata. Ciò che qui viene messo in discussione è il modo in cui circola e funziona il sapere, i suoi rapporti con il potere. In breve, il regime du savoir.[19]
5. La lotta per il diritto
L’invito foucaultiano sollecita ad affrontare un’analisi di noi stessi, ed insieme del nostro presente, in cui il compito della filosofia, come ontologia dell’attualità, ossia come analisi critica del nostro mondo, è qualcosa che assume un’importanza sempre meno eludibile.
L’obiettivo di ciascuno, chiamato all’esistenza nell’epoca della contemporaneità, ritrova, nell’incoraggiamento dello studioso francese, il senso di uno slancio diretto (piuttosto che a ‘scoprire’ cosa siamo) a rifiutare ciò che inconsapevolmente siamo diventati per la determinante incidenza conformativa dei poteri sociali egemoni circostanti. Ed ancora, ad immaginare e costruire quello che potremmo essere, per liberarci di questo tipo di ‘doppio legame’ politico indotto dall’individualizzazione e dalla totalizzazione simultanea delle moderne strutture di potere.
Ciò a cui siamo invitati a prendere coscienza è che il diritto (e i suoi contenuti) sta tutto nella spontanea disponibilità di ciascuno a ‘lottare per il diritto’ (secondo la formula cara a Rudolf Jhering[20]) e, dunque, a lottare per quel potere e per quella cultura a cui i nostri paesaggi mentali chiedono d’essere ricondotti.
La storia del pensiero dell’uomo sul diritto può dirsi – secondo un’elementare stilizzazione - il luogo dell’eterna ricapitolazione del conflitto culturale tra la sfrenatezza della volontà di potenza e l’arte misurata sulle condizioni dell’incontro. Dietro il punto in cui l’importanza del diritto sembra venir meno - quando si escluda la malizia della strategia - vi è solo il trionfo, mesto, della rassegnata rinuncia a lottare per l’affermazione delle proprie idee.
[1] P. CALAMANDREI, La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina, in F. LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, Milano, 1968, pp. 169 ss. (v., in partic., p. 190).
[2] P. CALAMANDREI, Fede nel diritto, Roma-Bari, 2008.
[3] Cfr. i passaggi sul tema della ‘teologia politica’ in C. SCHMITT, Le categorie del ‘politico’, Bologna, Il Mulino, 1972, partic. pagg. 29 e segg.
[4] Cfr. H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1967.
[5] Sulla categoria - puramente storiografica – del trentennio 1914-1945 come ‘guerra civile europea’ v. E. TRAVERSO, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007.
[6] D. CARUSI, L’ordine naturale delle cose, Torino, Giappichelli, 2011.
[7] Op. ult. cit., pp. 127 ss. I passaggi in corsivo sono tratti da U. Scarpelli, Bioetica laica, Milano, Baldini e Castoldi, 1998, pp. 44 s.
[8] D. CARUSI, Op. cit., p. 130.
[9] C. LEVI, Il futuro ha un cuore antico, Torino, Einaudi, 1956.
[10] Prologo del Codice di Hammurabi.
[11] «...nella considerazione [logos] umana il giusto [dikaia, come complesso dei diritti e dei doveri di ciascuno] viene preferito per una uguale necessità [apo tes ises ananches], mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede» (TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso, Libro V, 89, 1).
[12] «Noi crediamo infatti che per necessità di natura chi è più forte comandi; che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione (doxa), che lo facciamo gli uomini lo crediamo perché è evidente» (TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso, Libro V, 105, 2).
[13] Cfr., per l’integrale resoconto del dialogo tra i mèli e gli ambasciatori ateniesi. TUCIDIDE, Il dialogo dei mèli e degli ateniesi, Milano, Apogeo Editore 2004. Su questa rivista L. Fierro C’è un modo per liberare gli uomini dalla “fatalità della guerra”?
[14] J. DERRIDA, Diritto alla giustizia, in Annuario filosofico europeo. Diritto, giustizia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 12.
[15] La questione della legittimazione del potere è venuta conoscendo, nella prospettiva delle forme storiche in cui ha trovato la sua incarnazione, una pluralizzazione dei ‘principi’ di legittimità, sostanzialmente (e schematicamente) riconducibili (muovendo dalla integrazione dell’originaria ‘diade’ delle ‘formule politiche’ illustrate da Gaetano Mosca, coincidenti con la ‘formula politica’ che fa derivare il potere dall’autorità di Dio e quella che lo fa derivare dall’autorità del popolo: G. MOSCA, Elementi di scienza politica, Bari 1953 [1896], 2, pag. 110) ad almeno sei principi di legittimità, che si richiamano, a coppie antitetiche, a tre grandi principi unificatori: la Volontà, la Natura, la Storia. Il primo (la Volontà), sostanzialmente coincidente con la contrapposizione moschiana; il secondo (la Natura), distinto nelle due versioni della ‘natura’ come ‘forza originaria’, secondo la prevalente concezione classica del potere, e come ‘ordine razionale’ (per cui la legge di natura si identifica con la legge della ragione, secondo la prevalente interpretazione del giusnaturalismo moderno); il terzo (la Storia), distinguibile nella concezione del potere discendente dal principio di ‘legittimazione’ tradizionale (con riguardo all’autorità della storia passata), e nella concezione del potere sostenuta dal ‘rivoluzionario’, attraverso il riferimento alla storia futura come criterio di legittimazione del potere costituendo (su questa ricostruzione cfr. N. BOBBIO, Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico, Torino, Einaudi 1995, pp. 79 e segg.).
[16] V., se si vuole, M. DELL’UTRI, Diritto, politica e cultura, Roma, Aracne, 2012.
[17] M. FOUCAULT, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in Potere e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Milano, Mimesis, 1994, pp. 106 e segg.
[18] Sul tema v. M. FOUCAULT, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977.
[19] M. FOUCAULT, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in Potere e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, cit., passim.
[20] R. JHERING, La lotta per il diritto, Bari, Laterza, 1960 [Der Kampf um's Recht, 1872).
Sommario[1]: 1.Il giudice nazionale e la rule of law. Spunti di riflessione. 2. Lo Stato di diritto nella prospettiva della formazione giudiziaria. La naturale vocazione della Scuola alla tutela della rule of law. 2.1 Il nuovo ruolo della SSM nell’accesso alla magistratura. 2.2. Formazione centrale e decentrata, risorse e indipendenza della Scuola 2.3. La SSM come garante del pluralismo interpretativo e dei suoi limiti. 2.4 Alcuni fronti in divenire. La possibile separazione delle carriere e la formazione unitaria o separata di giudici e P.M. Quid iuris? 2.5 Etica, deontologia e “cultura della giurisdizione”. 2.6 Intelligenza artificiale e ruolo della SSM. 2.7 Conclusioni.
1. Il giudice nazionale e la rule of law. Spunti di riflessione
La premessa, non formale, che le riflessioni seguenti hanno carattere personale e, dunque, non possono in alcun modo riferirsi alle funzioni in atto ricoperte è al contempo necessaria e molto rassicurante per chi le rappresenta, proprio nel convincimento, che ogni contributo personale all’interno dei ruoli ricoperti costituisce un frammento di un più ampio e variegato contesto nel quale le diversità non vanno individuate come inciampi ma, piuttosto, come riserve vitali.
Detto questo, il ruolo del giudice nazionale nello Stato di diritto si presenta intrinsecamente ambivalente. Il giudice è, al contempo, attore e convenuto, parte attiva e passiva del processo di garanzia, bersaglio e presidio, per usare le felici e assai evocative espressioni utilizzate da Marta Cartabia proprio in occasione di un incontro organizzato presso l’Accademia dei Lincei per presentare un piccolo volume sullo Stato di diritto edito dalla SSM[2].
Da un lato, infatti, il giudice si pone come artefice della rule of law, traducendo in pratica i principi costituzionali e sovranazionali che ruotano attorno ai concetti di democrazia, persona, tutela dei diritti fondamentali con il suo stesso manifestarsi nella società attraverso il prodotto della sua attività. Il suo agire è, peraltro, sempre più innervato dal ricorso ad altri giudici e dall’uso di strumenti non propriamente decisori ma integrativi della decisione, quali il rinvio pregiudiziale, le questioni di legittimità costituzionale – sul piano interno il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione ai sensi dell’art.363 bis c.p.c.- e l’interpretazione conforme al diritto UE, alla CEDU e alla Costituzione.
Il giudice comune nazionale, in questo modo, alimenta il dialogo tra Corti e contribuisce a costruire un sistema multilivello di tutela dei diritti. Ruolo, quest’ultimo, delicato e complesso. La sua funzione assume, a volte, secondo alcuni tratti di supplenza legislativa e costituzionale, con il rischio di incidere profondamente sull’equilibrio tra i poteri e di oltrepassare i confini propri dell’attività giurisdizionale. Da un lato il giudice rivendica l’autonomia e l’indipendenza che sono alla base dello Stato di diritto. Dall’altro lato viene individuato come potere dello Stato capace di sovvertire l’ordine stesso che sta alla base della rule of law.
Ne deriva un equilibrio precario e sempre da ricercare, nel quale il giudice è al tempo stesso custode della legalità e potenziale fattore di instabilità della rule of law.
Tale dinamica si innesta in un contesto di pluralismo normativo e giurisdizionale: legislatori nazionali e sovranazionali, giudici comuni, Corti costituzionali e sovranazionali sono chiamati a cooperare in una rete complessa, fatta di convergenze e divergenze, nella quale gli strumenti del dialogo — rinvio pregiudiziale, incidente di costituzionalità, interpretazione conforme alle Carte ed al diritto di matrice sovranazionale, richiesta di parere preventivo alla Corte edu in base al Protocollo n.16 annesso alla CEDU, non ancora ratificato dall’Italia — diventano essenziali. Ma questi strumenti, lungi dall’essere neutrali, implicano scelte di campo su chi sia legittimato a fornire la parola definitiva. In linea di principio, il giudice comune nazionale resta il volto dello Stato “nel caso concreto”, la Corte costituzionale è il giudice delle leggi nazionali e la Corte di giustizia il custode del diritto dell’Unione, mentre la Corte EDU continua ad arricchire i diritti ed il diritto vivente della Convenzione.
Le tensioni quotidiane fra giudici comuni e Corte costituzionale- mi riferisco, senza svolgerlo, al tema del c.d. tono costituzionale affrontato in altra sede- e fra giudici nazionali e Corti sovranazionali – sul quale altre volte ho provato ad esprimere il personale avviso quanto al ruolo proattivo del giudice nazionale rispetto alle Corti sovranazionali[3] - dimostrano, da qualunque prospettiva si parta, la fragilità di questo equilibrio. Il sovranismo crescente all’interno di esperienze europee rischia di avvolgere UE e CEDU nel mantello delle identità nazionali, come dimostrano i recenti contrasti sulla designazione dei Paesi sicuri in materia d’asilo e sulla funzione della Corte EDU. Eppure, proprio in questa fase, diventa necessario che i giudici nazionali, a tutti i livelli, utilizzino e rafforzino gli strumenti di dialogo, assumendo fino in fondo il ruolo di garanti democratici di un diritto sempre più fondato su principi costituzionali interni, europei e convenzionali. Solo un metodo dialogico, come osserva Guido Calabresi[4], consente al giudice di rimanere inserito in un contesto di confronto e di limiti reciproci, evitando derive solitarie e restituendo alla rule of law quella prudenza mite e graduale che lo rende un progetto condiviso e durevole.
Tutto questo richiede che al giudice sia garantito il suo status e che tale status sia protetto internamente ed esternamente.
L’attuale assetto costituzionale affida al CSM il compito dell’autogoverno e della “protezione” del giudice rispetto ad ingerenze esterne capaci di minarne il ruolo di garante della rule of law. Ma non sono solo del CSM le prerogative della difesa dell’indipendenza della magistratura.
Proprio la Presidente della SSM ha recentemente ricordato che essa spetta alle Corti costituzionali ed alle Corti europee, aggiungendo testualmente che “When they defend the independence of the judiciary, they act as responsible guardians of the rule of law and adopt a semantics of power in preserving democracy.”[5] Il che ancora di più evidenzia profili di complessità del sistema, partecipando le giurisdizioni costituzionali e sovranazionali alla protezione del ruolo del giudice nazionale nello Stato di diritto. Questo conclama come il tema sia denso di complessità, in un contesto storico nel quale il ruolo giudiziario risulta spesso attaccato dal potere politico, di qualunque matrice esso sia – destra, sinistra o centro-.
Il recente saggio di Elisabetta Grande[6] e le recenti sanzioni applicate ad un giudice del Tribunale superiore del Brasile in esito al procedimento penale a carico dell’ex Presidente Bolsonaro[7] sono lì a ricordarcelo, in modo drammatico in tutta la sua dimensione planetaria e non solamente legata al contesto nazionale.
Del resto, proprio il rapporto della Commissione europea sulla rule of law nell’anno 2025 ha avuto modo di chiarire, con riferimento alla situazione italiana, che secondo le norme europee, anche se criticare le decisioni giudiziarie è un aspetto normale del dibattito democratico, i poteri esecutivo e legislativo dovrebbero evitare critiche tali da minare l'indipendenza della magistratura o la fiducia dei cittadini nella stessa. È lo stesso monito contenuto nella Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (2010) CM/Rec (2010)12, punto 18, e nel Rapporto della Commissione di Venezia (2013), CDL-AD (2013)038, punti 21 e 22 che dovrebbe anche valere come auto-limite rispetto a critiche che spesso provengono dallo stesso mondo giudiziario rispetto a decisioni assunte da altri giudici.
2. Lo Stato di diritto nella prospettiva della formazione giudiziaria. La naturale vocazione della Scuola alla tutela della rule of law
La SSM è stata istituita con la finalità di garantire un livello alto e omogeneo di formazione per tutti i magistrati, rafforzando la loro preparazione tecnica ma anche la consapevolezza del ruolo di garanti della legalità costituzionale ed europea. La Scuola rappresenta «un presidio istituzionale indispensabile per la difesa dello Stato di diritto» perché intende alimentare incessantemente l’autonomia, l’indipendenza e l’imparzialità del giudice che, appunto, è chiamato a svolgere il ruolo sopra succintamente individuato. Il tutto in piena coerenza con i principi enunciati dall’art. 2 TUE. La SSM, dunque, non è/dovrebbe essere solo un luogo di apprendimento giuridico, ma un centro culturale in cui si coltivano e rafforzano i valori di indipendenza, imparzialità e responsabilità democratica.
Questa vocazione è anche riflessa nelle figure che hanno rappresentato fin dalla sua istituzione la SSM. Dal 2012 vengono eletti come Presidenti del Comitato Direttivo ex Presidenti della Corte costituzionale: Valerio Onida (2012-2016), al quale è stata intitolata appena pochi giorni fa l’aula che accoglie i giovani magistrati nel periodo di tirocinio iniziale. Successivamente, Gaetano Silvestri (2016-2020), Giorgio Lattanzi (2020-2024) e, dal marzo 2024, Silvana Sciarra, anch’essa Presidente emerita della Corte costituzionale.
Questa continuità funzionale, lungi dall’apparire frutto occasionale di una convergenza all’interno dell’organo chiamato all’elezione del Presidente, riflette una scelta istituzionale forte e finora condivisa tanto dal Ministro della Giustizia quanto dal CSM, i quali, nell’indicare quale membro della compagine della SSM una personalità di alto profilo che aveva presieduto negli anni la Corte costituzionale. Dacché la guida della Scuola è stata affidata dai Comitati direttivi via via succedutisi a personalità di comprovata esperienza costituzionale proprio per garantire che la formazione mantenesse un orientamento costante verso il rispetto dello Stato di diritto, delle libertà fondamentali e delle norme sovranazionali. Una scelta, quella dei Comitati direttivi, con la quale non si è dunque semplicemente attribuito il ruolo di rappresentanza a quelle figure istituzionali ritenute indispensabili all’interno del Comitato direttivo, ma si è, a mio personale avviso, certificata la necessità di riconoscerne e garantirne, nei diversi cicli, il valore rappresentativo tanto “dentro la SSM” quanto nella affatto secondaria funzione comunicativa e di rappresentanza della stessa. Dimensione, quest’ultima che è parimenti necessaria per alimentare e proteggere lo Stato di diritto, alimentare la fiducia della collettività verso un sistema giudiziario capace di improntare la sua formazione a quel grumo di valori attorno ai quali si svolge la democrazia del Paese. Il che, cambiando il punto di osservazione dalla funzione della carica alla responsabilità, chiama la figura del Presidente a un ruolo interno certo non semplice di mediatore di una compagine generalmente espressiva di prospettive ed opinioni diverse che, tuttavia, esige ed impone il pieno rispetto della funzione da parte di tutti i componenti.
Non è dunque un caso che tutti i presidenti della Scuola Superiore della Magistratura abbiano negli anni sottolineato come la formazione dei magistrati rappresenti non soltanto un momento tecnico di aggiornamento, ma una condizione essenziale per la tenuta dello stato di diritto e per lo sviluppo di un'autentica cultura della giurisdizione.
Già Valerio Onida aveva insistito sulla necessità che la formazione promuovesse “una cultura dell’attività giurisdizionale rispettosa non soltanto della legge ma, ancor prima, dei principi costituzionali”, a garanzia dell’indipendenza della magistratura e della sua legittimazione democratica[8]. Sulla stessa linea, Gaetano Silvestri ha più volte affermato che la formazione è un “servizio istituzionale fondamentale” e, pur senza menzionarlo espressamente, parte integrante dello Stato di diritto, poiché volta a costruire “giudici intelligenti, capaci di orientarsi nel complesso sistema delle fonti e di comprendere le dinamiche sociali”[9]. Giorgio Lattanzi, nel suo intervento al Quirinale davanti ai magistrati ordinari in tirocinio, ha ribadito, ricordando alcuni periodi bui della nostra democrazia- terrorismo e criminalità mafiosa-, che “in tutti questi casi… l’ordinamento e lo stato di diritto hanno tenuto”, poi aggiungendo “… È la Costituzione che rappresenta la garanzia dei diritti e dell’assetto ordinamentale della Repubblica e i giudici, da quelli comuni alla Corte costituzionale, hanno un ruolo fondamentale per rendere effettiva questa garanzia.” Ancora Lattanzi non ha mancato di ricordare come la formazione deve curare non solo gli aspetti tecnici, ma anche l’“etica del magistrato” e l’acquisizione di una “cultura giuridica condivisa”[10].
Infine, Silvana Sciarra ha collegato la missione formativa della SSM alla “difesa dello stato di diritto” nel quadro dell’Unione europea, precisando che il cammino della SSM “muove dalla sede del più alto organo di garanzia della nostra Repubblica e proprio per questo è un cammino senza inciampi, che assicura a chi lo percorre un passo certo e cadenzato. La cadenza del passo si deve alla autorevolezza con cui giungono ai magistrati italiani messaggi istituzionali che esaltano i valori del nostro sistema democratico, saldamente collegato all’Unione europea nella difesa dello stato di diritto, nel rispetto dei diritti umani e, anche per questo, attivo nel promuovere la cooperazione giudiziaria oltre i confini nazionali e nell’affermare il primato del diritto europeo, come interpretato dalla Corte di Lussemburgo[11].”
2.1. Il nuovo ruolo della SSM nell’accesso alla magistratura
Il nuovo ruolo della SSM nella preparazione degli aspiranti magistrati non è un mero aggiustamento organizzativo, una tra le tante “competenze” aggiunte rispetto a quelle individuate nelle varie lettere contemplate dall’art.2 del d.lgs. n. 26/2006, ma una scelta politica e istituzionale di grande rilievo. La competenza attribuita dal d.lgs. 44/2024 segna, infatti, la rottura del monopolio di fatto detenuto dalle scuole private di preparazione al concorso, portando sotto l’egida di un’istituzione pubblica parte dell’offerta formativa in favore delle possibili nuove leve della magistratura. Si tratta di un intervento che sembra volere rafforzare la trasparenza, garantire l’eguaglianza nell’accesso e promuovere l’idea che la preparazione al concorso sia un investimento pubblico a tutela della democrazia[12]. Da qui, ancora una volta, è agevole cogliere un nesso inscindibile fra il tema accennato e la Rule of law, quale elemento che fa da volano, fra i tanti che pure possono individuarsi per giustificare la scelta di campo adottata.
Del resto, la grande innovazione voluta dal legislatore sul tema della preparazione al concorso in magistratura emerge con chiarezza nelle modifiche alle prove scritte, che oggi richiedono un più marcato sforzo di ragionamento sistematico e di inquadramento dei principi. Non si tratta più di formare meri conoscitori di giurisprudenza, ma futuri magistrati capaci di collocare il caso concreto entro l’orizzonte costituzionale ed europeo dei diritti. In questa prospettiva viene sottolineata la necessità di una solida conoscenza della Costituzione, dei principi fondamentali del diritto dell’Unione europea e della stessa Carta dei diritti fondamentali UE, che si pone essa stessa come strumento diretto di consolidamento della rule of law. L’obiettivo è dunque quello di valorizzare la capacità critica, il metodo argomentativo, la chiarezza espositiva e l’attenzione al pluralismo delle fonti, nazionali e sovranazionali, che costituiscono l’architrave dell’indipendenza della magistratura del domani e, al contempo, della nostra democrazia.
In questa prospettiva, va sottolineato che la modifica del sistema di concorso riguarda non soltanto la SSM, ma tutte le organizzazioni che tradizionalmente si occupano della preparazione al concorso e che si troveranno ad affiancarsi alla Scuola. Si tratta, dunque, di una vera e propria riforma culturale complessiva, destinata a incidere anche sul piano della concorrenza, che ancora una volta sembra orientata a rafforzare la rule of law attraverso un innalzamento qualitativo e valoriale della formazione dei futuri magistrati. Questa competizione dovrà essere raccolta dalla SSM in modo da garantire nel modo migliore possibile la riuscita del progetto di riforma, così facendosi volano e propulsore di un nuovo modo di approcciarsi al concorso in magistratura e, dunque, diventare modello e protagonista e non mero comprimario che, strada facendo, si inserisce su un percorso già tracciato e fissato da altri cercando di non sfigurare. La missione potrebbe e dovrebbe essere quella di diventare apripista per un nuovo modo di immaginare la formazione, capace di mettere a frutto l’esperienza del già fatto con la prospettiva di chi ha ben chiaro come e cosa serve ad un magistrato per assolvere la propria funzione ed è chiamato ad immaginare il DNA dei magistrati del futuro.
Questo disegno alto, visto dal lato delle nuove competenze attribuite alla SSM, si delinea proprio in ragione della “specialità” del ruolo istituzionale ricoperto dal prestatore dell’attività formativa, inserito appunto in un contesto assolutamente omogeneo rispetto a quello che offre la formazione ai magistrati in servizio. In questo senso, l’essere la SSM al servizio della giurisdizione, della sua indipendenza e, dunque, della rule of law non può che riflettersi sull’altro braccio formativo ora attribuito alla SSM.
Si tratta, tuttavia, di compiti che non possono realizzarsi senza un adeguato investimento di risorse umane e finanziarie da parte della SSM. Affidare alla Scuola compiti che in passato erano svolti in via esclusiva da soggetti privati che, comunque, continuano ad occuparsi della preparazione di aspiranti magistrati significa ampliare enormemente il suo raggio d’azione e, di conseguenza, avere una prospettiva di suo rafforzamento nella struttura della SSM, mettendone alla prova le capacità di modulare in modo adeguato l’offerta formativa tradizionalmente “tarata” su discenti già magistrati. La mancanza di un organico amministrativo adeguato ai nuovi compiti e la scarsità di fondi e di strutture appositamente destinate alla nuova competenza rischiano, all’evidenza, di compromettere la sostenibilità del progetto e di limitarne l’efficacia, indirettamente indirizzando verso scelte di prudenza, soprattutto nella fase iniziale, tanto più necessarie per evitare che l’immagine interna ed esterna della SSM possa anche solo impercettibilmente appannarsi. Preoccupazioni che in qualche modo dovranno mediare l’istanza di chi intende allestire un’organizzazione ambiziosa di ampie dimensioni e chi, invece, può rimanere sopraffatto dai dubbi circa la concreta fattibilità dell’iniziativa formativa al punto da preferire scelte attendiste.
Altrettanto decisivo sarà il tema del come fare i corsi e con chi. Quando si porrà il problema dell’attivazione, la Scuola sarà chiamata a verificarne la fattibilità, a decidere se realizzarli in presenza, da remoto o in modalità mista e a individuare il corpo docente, le forme di collaborazione da attivare, nonché a verificare se i “modelli” fin qui adottati per la formazione dei magistrati possano essere in tutto o in parte utilizzati, ovviamente adattandoli alle ben diverse finalità di un corso di preparazione all’accesso in magistratura. Percorso, quest’ultimo, destinato ad accompagnare in modo stabile e continuativo i discenti in un percorso temporale che non può in alcun modo paragonarsi a quello “tipico” dei corsi di formazione dedicati ai magistrati anche rispetto al tirocinio iniziale. La SSM sarà ancora chiamata a verificare se questi corsi dovranno essere svolti in tutto o in parte avvalendosi delle strutture decentrate della formazione che costituiscono, come si tornerà a dire nel prosieguo, un autentico fiore all’occhiello del modello formativo della magistratura italiana che, tuttavia, in tanto possono operare in quanto anch’esse sostenute da un apparato amministrativo che, già oggi, spesso manca, malgrado le spinte ad una considerazione sistematica del problema più volte indirizzate a CSM e Ministero della giustizia.
In questa scelta ci si dovrà chiedere se la SSM non potrà prescindere dal criterio già stabilito dal d.lgs. n. 26/2006 per i corsi destinati ai magistrati neonominati, secondo cui «i corsi sono tenuti da docenti di elevata competenza e professionalità, nominati dal Comitato direttivo al fine di garantire un ampio pluralismo culturale e scientifico» - corsivo aggiunto n.d.r.-. È una previsione, quest’ultima, che sembra illuminare la strada anche per i nuovi corsi. La formazione dell’aspirante magistrato dovrebbe essere aperta al confronto e al dialogo, capace di misurarsi con la complessità delle fonti e delle esperienze, così da forgiare una figura autonoma e indipendente di futuro magistrato. Solo un magistrato educato al pluralismo, radicato nella Costituzione e consapevole dei principi fondamentali dell’Unione e della Carta dei diritti, può incarnare quel modello di giudice che, nel concreto della sua funzione, assicura la tenuta dello Stato di diritto. Il che vuol dire che il corpo docente individuato non potrà che partecipare di queste stesse caratteristiche. Ma come garantire tutto questo, con quali modalità la SSM potrebbe assicurare che la formazione degli aspiranti magistrati si atteggi con queste coordinate?
Sono dunque queste solo alcune, fra le molte altre, delle complessità che potranno essere affrontate solo in una prospettiva di cooperazione con i naturali interlocutori istituzionali della SSM- CSM e Ministero della Giustizia- e che, allo stato, appaiono ex se capaci di spiegare i rilievi critici espressi a suo tempo da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, che ebbe a sottolineare, in sede di varo della riforma, il rischio che la limitazione dei posti disponibili e l’assenza di un sistema stabile di borse di studio potrebbe trasformare la formazione in un percorso elitario e poco accessibile. In questo quadro, il ruolo della SSM diventa particolarmente delicato. Da un lato è tenuta ad innalzare la qualità della preparazione dei futuri magistrati, rafforzando il patrimonio tecnico e culturale necessario a garantire un corpo giudiziario all’altezza delle sfide europee e globali. Dall’altro dovrà salvaguardare il carattere aperto e inclusivo dell’accesso alla magistratura, evitando che la formazione diventi un privilegio per pochi.
La vera sfida è dunque quella di coniugare eccellenza e uguaglianza, assicurando che la funzione selettiva dei corsi non comprometta ma anzi rafforzi la rule of law, quest’ultima nutrendosi di una magistratura indipendente, preparata ma anche rappresentativa della società che è chiamata a giudicare.
2.2. Formazione centrale e decentrata, risorse e indipendenza della Scuola
L’allargamento delle competenze della SSM si scontra con un cronico problema di risorse: organico ridotto, budget insufficiente, strutture decentrate deboli, esoneri dall’attività lavorativa non adeguati ai compiti onerosi attribuiti via via ai formatori decentrati. Molte attività formative poggiano ancora sull’impegno volontaristico dei magistrati formatori. Questa fragilità, ancor più manifesta in relazione a quanto espresso nel precedente paragrafo rispetto al possibile coinvolgimento delle strutture decentrate nel progetto formativo per gli aspiranti magistrati, rischia di riflettersi sull’indipendenza stessa della SSM, che deve poter contare su un’autonomia organizzativa e finanziaria adeguata, senza dipendere eccessivamente da decisioni politiche contingenti. Rafforzare la Scuola significa rafforzare lo Stato di diritto.
Ora, l’attivismo delle formazioni decentrate solo qui accennato rafforza l’idea che tali strutture, pur operando in condizioni spesso di scarsità di mezzi, restino il presidio più prossimo e tangibile per la diffusione di una cultura della giurisdizione, confermando la necessità di un loro sostegno strutturale e duraturo. Il tema degli esoneri dall’attività giurisdizionale del quale godono i formatori decentrati, in misura davvero non proporzionata rispetto ai compiti notevoli che agli stessi sono stati nel tempo affidati, dimostra che sia davvero imprescindibile un’attività di leale cooperazione fra SSM e CSM per individuare in temi rapidi soluzioni che, depotenziando la formazione, incidono negativamente sull’autonomia e indipendenza del giudice e, dunque, sulla protezione effettiva della Rule of law. Si tratta dunque di compiere un’opera di disseminazione e capillare informazione di tali attività anche presso i dirigenti oltre che all’interno del CSM per aumentare la consapevolezza che ridurre lo spazio della formazione è aggredire ingiustificatamente la rule of law. E ciò senza che il punto di bilanciamento indubbiamente necessario fra la produttività dei magistrati e lo sgravio possa rimanere avviluppato dal crampo mentale che spesso prende chi si lascia sopraffare dalla logica dei numeri lasciando da canto quella, parimenti indispensabile per salvaguardare l’immagine della magistratura, di un corpo preparato, aggiornato e capace di rispondere con prontezza a domande di giustizia sempre più complesse.
2.3. La SSM come garante del pluralismo interpretativo e dei suoi limiti
La SSM, nel corso degli anni, ha inteso rafforzare la formazione sulle capacità organizzative e gestionali, ma sempre nel rispetto dell’autonomia interpretativa del giudice. Custodire il pluralismo delle interpretazioni significa mantenere viva la funzione critica della giurisdizione, evitando che l’attività giudiziaria venga ridotta a mera performance quantitativa.
Il che vuol dire impegnarsi verso il continuo e costante sviluppo di una prospettiva che dia il senso dell’esistenza di un sistema di tutela giurisdizionale nel quale i valori -di matrice nazionale e sovranazionale- di certezza e prevedibilità assumono sì valore centrale per il sistema e che, in ogni caso, convivono e si bilanciano con altri valori fondamentali, fra i quali quelli dell’effettività della tutela giurisdizionale e della soggezione del giudice soltanto alla legge.
Se è dunque vero che il giudice dello Stato costituzionale non possa più essere inteso quale mero applicatore meccanico della legge, ma sia chiamato ad assumere un ruolo di interprete dei principi e dei diritti fondamentali, entro un contesto inevitabilmente pluralistico, la giurisdizione diventa così funzione diffusa e non monolitica, nella quale il confronto di diverse visioni costituisce esso stesso una garanzia contro derive autoritarie.
La riflessione sul ruolo del giudice nazionale nello Stato di diritto si completa, del resto, guardando al quadro europeo, che ne definisce la cornice di riferimento. Per un verso, l’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea stabilisce che l’Unione si fonda sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dei diritti umani e, soprattutto, dello Stato di diritto, riconosciuto come valore comune a tutti gli Stati membri. L’art.19 TFUE, d’altra parte, è attuativo di tale previsione e nello stesso contesto si muove la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, all’art.47, richiama il diritto di ogni persona ad avere un giudizio pubblico “da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge”. Parametro che, per questo verso, diventa lo strumento operativo attraverso il quale i valori scolpiti nelle Carte si traducono in diritti concreti, azionabili direttamente davanti ai giudici nazionali. Ma è all’interno di quello stesso art.47 che si precisa come “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice”. Si tratta, probabilmente, di un’ulteriore dimostrazione di quanto sia la stessa attività giudiziaria, il modo con il quale essa è esercitata, i tempi con i quali è dispensata a garantire, ancora una volta, lo Stato di diritto. Ed ecco riproporsi la duplicità delle diverse facce della medaglia che, in modo polare, vedono al tempo stesso il giudice garante dello Stato di diritto ma anche “responsabile”, con la sua attività, della tenuta del sistema e della fiducia che in quel sistema ripongono le persone.
Ora, approfondendo questo punto di osservazione, è proprio in questo spazio giuridico multilivello che l’azione della Scuola Superiore della Magistratura è chiamata a formare giudici capaci non solo di applicare il diritto interno, ma anche di muoversi con consapevolezza tra Costituzione, diritto dell’Unione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questo stesso scenario, assumono un rilievo decisivo le strutture di formazione territoriale esistenti presso la Corte di cassazione ed i singoli distretti di Corte di appello, le quali portano la cultura dei diritti e dei doveri fondamentali – categorie, queste ultime, anch’esse polarmente destinate a convivere - direttamente nei territori e garantiscono un radicamento concreto dei valori della CEDU e della Carta UE. Proprio queste strutture, insieme alla SSM centrale, saranno protagoniste, alla fine del 2025, delle iniziative celebrative per il 75° anniversario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e per il 25° anniversario della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Si tratta di momenti celebrativi dotati di un’evidente carica simbolica che si affianca a quella, di particolare significato contenutistico, collegata a quanto esposto all’inizio di queste riflessioni.
La SSM, attraverso l’incessante opera di disseminazione garantita fin dalla formazione iniziale sulla cultura giuridica dell'UE e dei diritti fondamentali protetti dalla Carte internazionali, intende sviluppare la comprensione pratica del ruolo del diritto dell'UE negli ordinamenti giuridici nazionali, dell'acquis in materia di Stato di diritto e del ruolo dei magistrati in qualità di operatori europei della giustizia.
Vi è certamente il pericolo che nel pluralismo giudiziario, che arricchisce la rule of law, si annidi la mancanza di consapevolezza che ogni potere ha un suo limite.
Gaetano Silvestri ebbe per tali ragioni a ricordare che «Il compito principale di un ente formativo come la Scuola della magistratura è quello di mantenere vivo nei magistrati, giovani e meno giovani, il rapporto costante tra potere e limite. Solo una profonda e moderna cultura giuridica, vivificata da un’ampia e diversificata cultura generale, può dare sostegno a chi deve decidere casi difficili, sia dal punto di vista tecnico-giuridico, sia dal punto di vista istituzionale e sociale. L’insufficiente consapevolezza dell’estensione dei propri poteri e delle proprie garanzie può rendere il magistrato timido, timoroso… Simmetricamente, la non chiara percezione dei limiti delle proprie funzioni può produrre … pericolose sensazioni di onnipotenza…»[13]. È dunque l’approfondimento culturale di queste due facce della medesima medaglia a dovere costituire l’ossatura della formazione, in piena sintonia con gli interventi del Presidente Matterella in occasione degli incontri avuti con i magistrati presso la Scuola[14].
2.4. Alcuni fronti in divenire. La possibile separazione delle carriere e la formazione unitaria o separata di giudici e P.M. Quid iuris?
Il dibattito sulla separazione delle carriere e sulla conseguente separazione della formazione fra giudici e pubblici ministeri che secondo alcuni costituirebbe un seguito scontato ed obbligato apre le porte ad una riflessione che si porrà con forza domani, qualora la riforma costituzionale venisse approvata. Da una parte, si potrà sostenere che percorsi distinti rappresentino un arricchimento per la rule of law, in quanto rafforzerebbero l’autonomia e l’indipendenza del giudice, separandolo dalla funzione requirente e rendendolo più impermeabile a possibili condizionamenti. Dall’altra, si dovrà misurare il rischio di una perdita secca della cultura della giurisdizione che la Scuola superiore della magistratura ha costruito in oltre un decennio, proprio formando insieme giudici e pubblici ministeri.
Finora, infatti, la SSM ha rappresentato il luogo nel quale si è sviluppata una crescita culturale comune della giurisdizione, che fin qui sembra avere contribuito a dare coesione al corpo magistratuale e a rafforzare il presidio delle garanzie costituzionali e convenzionali. Per tali ragioni i programmi di formazione iniziale, nati dalla “cooperazione” fra SSM e CSM, oggi particolarmente impegnativi di fronte all’ingresso nei ruoli di oltre 1500 nuovi magistrati, sono stati concepiti per offrire un orizzonte unitario a futuri giudici e futuri pubblici ministeri. In quella stessa aula della Scuola di Scandicci di recente dedicata alla memoria di Valerio Onida si è dunque cercato di alimentare nel corso degli anni un senso di appartenenza ad una “cultura” comune che non elide affatto la diversità di ruoli e di funzioni ma, anzi, la individua con precisione proprio per darne senso e misura, come hanno di recente ricordato gli stessi magistrati ordinari in tirocinio e nella quale è la stessa Avvocatura, con i suoi docenti relatori, a dare un rilevante contributo[15]. In questa chiave si colloca anche il richiamo della Prima Presidente emerita Cassano all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 sul ruolo del P.M.: “il pubblico ministero [è sollecitato], al pari del giudice, al rigoroso rispetto delle garanzie fondamentali, al rifiuto di tesi precostituite all’elaborazione di tesi di accusa che conseguano ad accertamenti completi basati anche sulla raccolta di elementi favorevoli alla persona indagata tali da consentire alla persona accusata di operare una scelta informata e consapevole sull’accesso ai c.d. riti alternativi, a prognosi approfondite sul prevedibile futuro esito del processo, ad un attento utilizzo dei diversi modelli definitori sì da selezionare quelli che, soli, meritano il passaggio alla fase successiva e da porre rimedio al patologico iato temporale attualmente esistente tra la chiusura delle indagini e il successivo controllo giurisdizionale. In altri termini, il pubblico ministero concorre a realizzare la complessiva razionalità del processo che, in un’ottica tendenzialmente accusatoria, è incentrato sul corretto e realistico rapporto tra fase procedimentale e vaglio dibattimentale. Al contempo è garante, insieme con il giudice, del rispetto dei principi costituzionali di dignità della persona, di presunzione di non colpevolezza, di ragionevole durata delle procedure.”
Le considerazioni appena espresse non intendono affatto offrire una verità sul tema, quanto evidenziare il senso di quel che è stato fin qui fatto, in modo che esso possa avere un senso anche per il futuro, qualunque esso sarà.
Domani, se la riforma costituzionale andrà in porto porrà l’alternativa, qualcuno potrà ipotizzare certo percorsi formativi anche differenziati all’interno della magistratura. Si dovrà, tuttavia, essere ben consapevoli del patrimonio che dal momento in cui è stata istituita la SSM ha continuato ad offrire allo Stato di diritto.
2.5. Etica, deontologia e “cultura della giurisdizione”
Nel disegno formativo della SSM l’etica del magistrato non è mero sfondo retorico, ma un asse portante e stabile che accompagna il magistrato sin dall’ingresso in ruolo e prosegue nella formazione permanente.
La SSM insiste sul fatto che i principi di indipendenza, imparzialità e credibilità debbano essere tradotti in comportamenti verificabili: dai rapporti con le parti e con i media alla gestione dei conflitti d’interesse, dalla sobrietà del linguaggio nei provvedimenti giurisdizionali all’uso responsabile degli strumenti digitali. Il Presidente Mattarella, nel discorso pronunziato nel 2023 a Castelcapuano[16], aveva del resto già sottolineato che “La Scuola Superiore, sin dalla sua istituzione, ha accompagnato i giudici e i pubblici ministeri nella loro formazione iniziale e in quella permanente, avendo cura di elaborare percorsi di alta qualità, anche in tema di etica giudiziaria.”
In un’ottica di formazione dei magistrati, diventa dunque indispensabile insistere sulla connessione tra etica giudiziaria, fiducia dei cittadini e rule of law, facendo tesoro anche della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Lo ha ricordato Guido Raimondi in occasione di una lectio magistralis rivolta ai giovani magistrati europei, sottolineando che l’autorevolezza della giustizia non può prescindere dalla condotta etica di chi la amministra, osservava che “As a guarantor of justice, a fundamental value in a rule of law, [the judge’s] action needs the trust of citizens in order to be fully implemented.”[17]
Raimondi ha richiamato la giurisprudenza di Strasburgo per dimostrare come la fiducia nella magistratura non sia un bene individuale, ma un requisito strutturale del sistema convenzionale europeo: “The issue of the trust that the courts must enjoy so that the rule of law functions regularly, and therefore the objectives of the Convention are adequately achieved, (…) transcends Article 6 of the Convention, rising to the rank of the fundamental principles that underpin the protection system set up by the European Convention.”
Questa prospettiva mette in evidenza come la formazione dei magistrati debba non solo trasmettere competenze tecniche, ma anche rafforzare la consapevolezza del loro ruolo etico e istituzionale, perché – come ribadisce Raimondi – “The judiciary, as a guarantor of justice, a fundamental value in a rule of law, must enjoy the trust of citizens to fully carry out its mission.” La conoscenza della giurisprudenza della Corte EDU diventa allora parte integrante della formazione, perché consente di tradurre principi astratti in standard concreti di comportamento e di indipendenza, indispensabili per mantenere viva la fiducia dei cittadini e quindi per il funzionamento dello Stato di diritto.
È da sottolineare la straordinaria sinergia tra quanto appena esposto e le parole del compianto Vladimiro Zagrebelsky quando, in occasione di un suo intervento alla SSM all’indomani dello scandalo dell’Hotel Champagne[18] ebbe a ricordare, delineando le sfide che il giudice ordinario sarebbe stato chiamato ad affrontare per ritrovare credibilità nel sistema, che “Alla dignità dell’esser “servo della legge”, deve sostituirsi quella di essere voce del potere giudiziario autonomo, tutto insieme garante dei diritti delle persone e, nella continuità dell’ordinamento, della realizzazione del disegno costituzionale. Di un potere giudiziario che è parte della comunità dei giuristi. All’individualismo e alla settorialità culturale deve sostituirsi il senso di appartenenza all’istituzione. Quando un giudice pronuncia una sentenza non parla con la voce sua, ma dà voce alla istituzione giudiziaria. Potente può essere l’opera della Scuola della magistratura, nel sollecitare uno spirito istituzionale, che non è di corporazione, ma appunto di una istituzione che vive nelle persone che la compongono. È necessario allora che venga stimolata, come qualità professionale, la disponibilità a ricercare (e mantenere) soluzioni che possano dirsi espressione della istituzione giudiziaria nel suo complesso.”
Quell’invito, esplicitamente indirizzato alla SSM, a sollecitare attraverso la sua attività uno spirito istituzionale e non corporativo dei magistrati di ogni ordine e grado può, a ragione, costituire un input costante per chi è chiamato ad un compito assai complesso qual è quello appena indicato. Compito al quale non sembra nemmeno estranea la funzione di “comunicare all’esterno” le attività formative dei magistrati proprio per alimentare e rafforzare quel senso di fiducia della società nei confronti dei magistrati che è anch’esso alla base dello Stato di diritto.
2.6. Intelligenza artificiale e ruolo della SSM
La Scuola Superiore della Magistratura dovrebbe assumere un ruolo centrale nel garantire che l’introduzione dell’intelligenza artificiale nel sistema giustizia non comprometta, ma rafforzi lo Stato di diritto. La rule of law, fondata su trasparenza, responsabilità, diritto al contraddittorio e indipendenza del giudice, rischia infatti di essere messa in crisi dall’opacità e dall’autonomia degli algoritmi come da atteggiamenti superficiali ed entusiasticamente rivolti ad immaginare una giustizia predittiva come elemento risolutore dei problemi che affliggono la giustizia, non ultimo quello del numero rilevante di procedimenti e del ritardo nei tempi di definizione dei processi. In questo contesto, la formazione dovrebbe rappresentare lo strumento principale per trovare il giusto bilanciamento fra parimenti rilevanti aspettative. Da un lato preservare il primato del giudizio umano, che resterebbe insostituibile perché legato alla responsabilità, alla ragionevolezza e alla capacità di bilanciare principi e diritti fondamentali. La SSM dovrebbe, in cooperazione con istituzioni nazionali e sovranazionali (CSM, Ministero della Giustizia, CEPEJ, Consiglio d’Europa, Commissione Europea, ecc.), progettare percorsi formativi capaci di sviluppare nei magistrati competenze critiche sulla natura degli algoritmi, sulla spiegabilità delle decisioni automatizzate e sui rischi di discriminazione o di lesione dei diritti fondamentali. Non si tratterebbe di formare giudici “informatici”, ma giuristi in grado di interagire con l’IA senza subirla, mantenendo il controllo democratico e giuridico sugli strumenti digitali. In questa prospettiva, la missione della SSM dovrebbe configurarsi non solo come tecnica ma come costituzionale: assicurare che ogni innovazione tecnologica sia integrata nel sistema giustizia come supporto e non come sostituto del giudice, rafforzando l’effettività dei diritti e la qualità della giurisdizione. In tal modo, la SSM si confermerebbe presidio della rule of law perché capace di trasmettere ai magistrati la capacità di governare le trasformazioni digitali rimanendo ancorati ai principi della dignità umana, dell’eguaglianza e della giustizia costituzionale[19].
Il che, ovviamente, non vuol dire affatto rifiutare ideologicamente l’idea che l’AI possa rappresentare un ausilio per l’efficienza ed effettività della giurisdizione ma, tutto al contrario, offrire gli strumenti che possano rendere la funzione giurisdizionale sempre più orientata verso standard di conoscibilità ed effettività capaci di alimentare quei valori parimenti imprescindibili di efficienza, prevedibilità e certezza del diritto dai quali non è dato ormai più prescindere[20].
È dunque questo il contesto che si apre innanzi a chi istituzionalmente ha il compito di “formare” i magistrati su tematiche, come già accennato, variamente conosciute, variamente utilizzate e variamente considerate come utili, pericolose, dannose per il futuro stesso del sistema giustizia. Una responsabilità ancora più elevata se si considera il tema dell’immagine e della forma assunta dalla giurisdizione a seconda del “modello” di AI che si intende ammettere e giustificare[21].
2.7. Conclusioni
In conclusione, nessuna pretesa di verità rispetto alle considerazioni espresse, ma semmai un auspicio personale ed esplicito a cooperare, camminare insieme, dialogare sulla direttrice del rispetto e della fiducia.
La direzione che, dunque, una scuola di formazione della magistratura è chiamata ad intraprendere rispetto alle tante sfide che si pongono davanti a sé dovrebbe essere quella di non alimentare l’approccio dell’aut–aut per abbracciare invece convintamente quella dell’et–et. Et–et tra indipendenza e responsabilità, tra giudice e pubblico ministero, tra SSM centrale e formazioni decentrate[22], tra SSM, CSM e Ministero della Giustizia, Accademia e Avvocatura, tra diritto interno, UE e CEDU. Ancora, et–et tra esigenza di prevedibilità e pluralismo interpretativo; et–et tra innovazione tecnologica e primato del giudizio umano; et–et, soprattutto, rispetto alle scelte che all’interno della Scuola stessa devono essere adottate proprio per garantire quel pluralismo culturale che a parole è valore condiviso ma che, nei fatti, è difficile da coniugare se prevalgono personalismi e contrapposizioni chiuse al confronto costruttivo[23].
Una agorà, dunque, nella quale le scelte decisionali quanto i contenuti della formazione abbiano come prerequisiti leale cooperazione[24] rispetto e fiducia reciproci, mancando i quali la missione stessa della Scuola, faticosamente attuata fin dalla sua istituzione e dalle personalità che hanno costruito una struttura importante, rischierebbe di appannarsi agli occhi dei magistrati tutti i quali, ciascuno portatore di patrimoni culturali e personali plurali, vantano un diritto pieno al rispetto di quelle prerogative scolpite dalle fonti normative rilevanti che si è qui cercato di rappresentare.
Le opinioni espresse sono personali e non impegnano l’Istituzione di appartenenza
[1] L’intervento ha costituito la base di alcune riflessioni esposte in occasione della settimana dottorale 2025 organizzata dal Dottorato di ricerca in Scienze giuridiche dell’Università di Perugia il 19 settembre 2025.
[2] M. Cartabia, I giudici e lo Stato di diritto, in Il giudice e lo Stato di diritto. Indipendenza della magistratura e interpretazione della legge nel dialogo tra le Corti, a cura di G. Lattanzi, M. Maugeri, G. Grasso, 2024, 17.
[3] V. da ultimo, volendo, R. Conti, Tono costituzionale e certezza del diritto: in memoria dell’interpretazione conforme al diritto UE, in Riv.cont. eur., 4 settembre 2025. V., anche R. Conti, Dall’uso alternativo del diritto all’uso cooperativo nell’esperienza di un giudice comune, in Sistemapenale, 25 giugno 2024.
[4] V., volendo, R. Conti, Un’intervista impossibile a Guido Calabresi, in questa Rivista, 13 settembre 2021: “...Ora, in questo stato di cose, che cosa tiene legati i giudici al rispetto dei limiti? Che cosa impedisce loro di arrogarsi un potere eccessivo? Che cosa li aiuta a conservare qualcosa della metodicità e cautela dei loro omologhi del passato in un mondo tanto accelerato e proteiforme? Il metodo dialogico è la soluzione moderna affinché il giudice sia inserito in un contesto di costante confronto, conforto, ispirazione, influenza, scambio e limite con altre Corti, altre giurisdizioni, altri Stati, altri interlocutori istituzionali. Il dialogo attenua la ferocia repentina e drastica con cui il giudice assolverebbe il suo ruolo nel contesto giuridico moderno, riaccostandolo alla prudenza mite, incessante ma graduale, che apparteneva ai suoi predecessori della common law al fine di aggiornare e migliorare il diritto.”
[5] S. Sciarra, Intervento presentato all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2023 presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, https://www.echr.coe.int/documents/d/echr/Speech_20230127_Sciarra_JY_ENG?utm_source=chatgpt.com
[6] E. Grande, Il giudiziario sotto attacco negli Stati Uniti ed in Italia: dalla rule of law alla rule by law, in Questione giustizia, 12 settembre 2025.
[7] MEDEL, Statement on Brazil, 23 settembre 2025, in https://medelnet.eu/statement-on-brazil/
[8] V. Onida, Questione Giustizia, 25 gennaio 2015
[9] G. Silvestri, Discorso inaugurale anno formativo 2019, SSM, in Questione Giustizia, 16 ottobre 2019.
[10] G. Lattanzi, Discorso, Quirinale, 15 aprile 2024, pp. 4, 7–8.
[11] S. Sciarra, Saluto ai MOT, Quirinale, 15 aprile 2024, in www.ssm.it
[12] Sulla genesi della riforma v. C. De Robbio, I corsi di preparazione al concorso e il futuro ruolo della Scuola Superiore della Magistratura, in questa Rivista, 15 maggio 2023, nonché, di recente, volendo, Pensando al ruolo della SSM nella preparazione al concorso in magistratura. Interviste a cura di Roberto Giovanni Conti, ib., 19 maggio 2025.
[13] G. Silvestri, Inaugurazione dell’anno formativo 2019, in https://www.scuolamagistratura.it/documents/20126/564830/Discorso%2BPresidente%2BSilvestri%2B2019.pdf?utm_source=chatgpt.com.
[14] V. Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i Magistrati ordinari in tirocinio nominati con i D.M. 15/04/2024 e D.M. 22/10/2024, 28 maggio 2025; Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al decennale della Scuola superiore della magistratura, 24 novembre 2021, entrambi in www.quirinale.it
[15]V. Sciopero dei magistrati: l’intervento di Francesca Frazzi, in La Magistratura, 27 febbraio 2025: “…frequentiamo le settimane di formazione alla nostra Scuola superiore dove futuri giudici e futuri PM condividono lo stesso percorso, sviluppando un’unica cultura della giurisdizione. È il senso di appartenenza a un ordine comune quello che respiriamo nelle aule di Scandicci confrontandoci con colleghi di tutta Italia”.
[16] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia d’inaugurazione della terza sede della Scuola Superiore della Magistratura e di presentazione dell’anno formativo 2023, 15 giugno 2023, inwww.quirinale.it.
[17] V. G. Raimondi,
[18] V. Zagrebelsky, Nozione e portata dell’indipendenza dell’Ordine giudiziario e dei giudici Ruolo del Consiglio superiore della magistratura. Relazione svolta il 5 novembre 2019 nel Corso di formazione della Scuola superiore della magistratura, dal titolo Garanzie istituzionali di indipendenza della magistratura in Italia.
[19]Sul tema, sia consentito rinviare a R. Conti, Prolegomeni sulla formazione del magistrato-giurista in tema di intelligenza artificiale, diritto, scienza e giudizio umano, in Giustizia Insieme, 15 settembre 2025.
[20] V., sul punto, G. Amoroso, Riflessioni in tema di diritto vivente e intelligenza artificiale e di D. Micheletti, Algoritmi nomofilattici a confronto: ufficio del massimario vs. intelligenza artificiale, entrambi in AA.VV., Giocare con altri dadi Giustizia e predittività dell’algoritmo, a cura di V. Mastroiacovo, Torino, 2024, rispettivamente pagg.176 e 185.
[21] Sia consentito sul tema il rinvio a R. Conti, Prolegomeni sulla formazione del magistrato-giurista in tema di intelligenza artificiale, diritto, scienza e giudizio umano, in questa Rivista, 15 settembre 2025.
[22] V., Intervento, in www.quirinale.it
[23] Cfr. G. Silvestri, Formazione dei magistrati e attività della Scuola di magistratura, cit., nel rispondere alla seguente domanda (Il comitato da Lei presieduto, che programma e dirige le molteplici attività formative della Scuola, è un organismo che comprende in sé membri laici e magistrati, componenti nominati dal Csm e componenti designati dal Ministro della giustizia, tra cui avvocati e professori universitari. Una tale composizione, voluta dal legislatore, ha dato vita a un effettivo pluralismo delle culture e delle esperienze?): “Certamente sì. Abbiamo avuto la fortuna di avere componenti “laici” che hanno preso sul serio l’impegno nella Scuola. Naturalmente, l’approccio “esterno” è diverso da quello “interno”. Ancora diverso è, tra gli “esterni”, quello dei professori e degli avvocati. Le differenti provenienze e le molteplici esperienze hanno consentito, nel complesso, di evitare chiusure autoreferenziali, di evitare la logica burocratica delle “caselle riempite” e di guardare costantemente al servizio giustizia dai differenti punti di vista dello spessore culturale, dell’attenzione ai diritti delle parti e della buona fattura dei provvedimenti giudiziari. A volte, le nostre discussioni interne risentono di qualche incomprensione, ma tutto viene superato dal confronto e dall’approfondimento. Non posso nascondere che, in qualche caso, emergono conflittualità non del tutto necessarie, che vengono risolte con molta pazienza. Nella valutazione del contributo di tutte le categorie cui appartengono i componenti del Comitato direttivo, occorre tener presente che i professori non vengono, per legge, sgravati, neppure in parte, del loro carico didattico e che gli avvocati finiscono per registrare, con l’intensa partecipazione ai lavori della Scuola, una perdita secca in termini professionali”.
[24] A. Ruggeri, La “fondamentalità” dei diritti fondamentali, in Diritticomparati, n.3/2023, 161.
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Le disposizioni del presente articolo in tema di preavviso minimo [dieci giorni] e di indicazione della durata non si applicano nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell'ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell'incolumità e della sicurezza dei lavoratori.
Art. 2, comma 7, Legge 12 giugno 1990, n. 146 “Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”.
Le ipotesi previste dall'articolo 2, comma 7, cit. sono accomunate dal coinvolgimento di “interessi fondamentali della comunità, come tali suscettibili di prevalere su quelli tutelati con gli obblighi di preavviso e indicazione della durata”
M. Dell'Olio, Sciopero e preavviso nei servizi pubblici essenziali (nota a C. Cost. n. 276 del 1993), in G. Cost, 1993, 1957.
Per sciopero generale deve intendersi l'azione collettiva proclamata da una o più confederazioni sindacali dei lavoratori, coinvolgente la generalità delle categorie del lavoro pubblico e privato.
Delibera n. 134 del 2003 Commissione di garanzia sugli scioperi:
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Art. 2 e 11 Costituzione
La Commissione di garanzia sugli scioperi, riunitasi oggi, ha valutato illegittimo lo sciopero generale proclamato per domani, 3 ottobre, in violazione dell’obbligo legale di preavviso, previsto dalla Legge 146/90. Nel provvedimento adottato, il Garante ha ritenuto inconferente il richiamo dei sindacati proclamanti all’art. 2, comma 7, che prevede la possibilità di effettuare scioperi senza preavviso solo “nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”.
Comunicato stampa della Commissione di garanzia sugli scioperi, 2 ottobre 2025
“In occasione dell'intervento militare NATO in Jugoslavia, la Commissione [di garanzia sugli scioperi] è stata chiamata a valutare l'impatto di astensioni collettive sui servizi essenziali, a tal proposito, con le dell. nn. 00/43 del 27 gennaio 2000, 00/90 del 17 febbraio 2000, 00/137 del 9 marzo 2000, 00/162 del 23 marzo 2000 i garanti hanno adottato una linea assolutoria, la quale, sostanzialmente, riconosce ai soggetti collettivi proclamanti, per tale avvenimento, la possibilità in astratto che in tali situazioni possa ricorrere l'applicazione del comma 7 dell'art. 2, l. n. 83/2000, per giustificare un'ipotesi di violazione del termine legale di preavviso, oltre che la violazione di un periodo indicato di franchigia, durante il quale, come è noto, non si dovrebbe dar luogo ad azioni di sciopero. …È interessante rilevare come tali interventi assumano, in motivazione, «l'innegabile fatto che azioni di lotta in difesa della pace rientrano storicamente nella tradizione dei sindacati».
G. Pino, Sciopero generale, servizi essenziali e Commissione di garanzia. Alcuni spunti di riflessione, in Dir. relaz. ind., fasc.2, 2003.
“Da questo punto di vista, ai fini della ponderazione con i diritti della persona salvaguardati dall'art. 1, comma 1, della legge n. 146 del 1990, lo sciopero economico-politico è avvicinabile allo sciopero economico-contrattuale. L'analogia di natura degli interessi, a sostegno dei quali lo sciopero nell'una e nell'altra ipotesi viene proclamato, giustifica l'assoggettamento di entrambe alla disciplina dell'art. 2 anche per quanto concerne l'obbligo di preavviso e di indicazione della durata dell'astensione dal lavoro, tenuto conto che la forza di pressione dello sciopero nei pubblici servizi essenziali si esplica più attraverso il danno inflitto agli utenti che attraverso il danno arrecato alle amministrazioni o alle imprese erogatrici.
Di tutt'altra natura sono gli interessi difesi dai lavoratori nei casi previsti dall'ultimo comma dell'art. 2: poichè ineriscono alla persona e a interessi fondamentali della collettività, il bilanciamento con i diritti degli utenti di cui all'art. 1, comma 1, della legge deve avere un esito diverso e meno incisivo sull'esercizio del diritto di sciopero”.
Corte Costituzionale, sentenza n. 276 del 1993
La Corte [Costituzionale n. 276/2023] - pur senza porre una definizione della nozione di "ordine costituzionale" a difesa del quale può essere proclamato uno sciopero che nei servizi pubblici essenziali può essere senza preavviso e predeterminazione di durata - ha comunque considerato come sciopero (tipicamente per fini non contrattuali), rientrante in questa prima delle due fattispecie dell'ultimo comma dell'art. 2 della legge n. 146 del 1990, quello che sia inerente ad "interessi fondamentali della collettività". I quali - può ora rilevarsi - vanno ricercati innanzi tutto tra i "principi fondamentali" del Preambolo della Costituzione. Tra questi l'art. 11 Cost. stabilisce che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionale.
La collocazione del ripudio della guerra tra i principi fondamentali della Costituzione consente di affermare che esso costituisce un "interesse fondamentale della collettività" e quindi la legittimità dello sciopero contro la guerra è riconducibile - oltre che in generale alla fattispecie dello sciopero per fini non contrattuali quale "mezzo idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui all'art. 3, secondo comma, Cost." (così C. cost. n. 276/93 e prima ancora C. cost. n. 290/74,oltre che C. cost. n. 165/83, tutte sopra cit.) - anche in particolare alla specifica previsione dell'art. 2, ultimo comma, della cit. legge n. 146 del 1990, in disparte peraltro …il pieno riscontro, o meno, della fattispecie contemplata da tale disposizione in riferimento alla necessità dell'immediatezza della possibile compromissione dell'ordine costituzionale affinché anche l'iniziativa dello sciopero possa essere senza preavviso e senza previa indicazione di durata..
In conclusione deve affermarsi in diritto il principio che lo sciopero per fini non contrattuali consistenti nel contrasto e nell'opposizione all'invio di un contingente militare dello Stato italiano sul territorio di altri popoli è legittimo e lecito sul piano non solo penale, ma anche civile, e conseguentemente atti o comportamenti del datore di lavoro diretti a contrastare l'iniziativa del sindacato che tale sciopero abbia proclamato, quale la valutazione come assenza ingiustificata dal lavoro della partecipazione dei dipendenti allo sciopero con conseguente possibile idoneità di tale condotta ad essere sanzionata disciplinarmente, possono costituire condotta, antisindacale assoggettabile, nel concorso degli altri prescritti requisiti, al procedimento di repressione di cui all'art. 28 legge 20 maggio 1970 n. 300.
Corte di Cassazione lavoro, sentenza n. 16515/2004
L'ordine costituzionale, invece, attiene a quei principi fondamentali che formano il nucleo intangibile destinato a contrassegnare la specie di organizzazione statale, cui si è voluto dare vita; tali principi sono contenuti, prevalentemente, nei primi cinque articoli della Costituzione, la cui norma chiave è quella prevista dall'art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili sia del singolo sia delle formazioni sociali e prevede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Corte di Cassazione penale, sentenza n. 46340/2012
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