Giustizia Insieme è felice di ospitare oggi un articolo di Lavinia Parsi, già nostra autrice, dottoranda di ricerca in diritto penale presso il Dipartimento Scienze Giuridiche Cesare Beccaria dell’Università degli Studi di Milano e la Humboldt-Universität di Berlino, già Affiliate Researcher presso l'Orient Institut di Beirut, vincitrice della Quarta edizione del Premio Giulia Cavallone istituito presso la Fondazione Calamandrei.
Giulia Cavallone è stata una giovane magistrata e una studiosa del diritto penale che aveva scelto come strumento la comparazione – ossia lo sguardo rivolto a sé e all’altro con identico rispetto ed attenzione – nella convinzione che fosse il più utile, nel diritto come nella vita. Per chi non abbia conosciuto Giulia, Giustizia Insieme l’ha ricordata qui.
Il Premio voluto dalla famiglia Cavallone in memoria di Giulia è un ideale passaggio di testimone ad altre generazioni di giovani ricercatrici e ricercatori che, con il suo stesso spirito di apertura, intendano inserire nel proprio percorso accademico un periodo presso università o istituti di ricerca esteri.
Il testimone è stato raccolto da Lavinia Parsi, la cui vocazione internazionale è testimoniata dagli studi già compiuti presso l’Université Libre de Bruxelles, l’Università di Haifa, la Humboldt-Universität di Berlino, e le sue esperienze professionali presso l’Ufficio della Procura della Corte Penale Internazionale, presso il think-tank Sine Qua Non, presso gli studi legali Al Haq (Ramallah) e Adalah (Haifa), presso CCHR - European Center for Constitutional and Human Rights (Berlino), presso l'Orient Institut di Beriut.
Accogliendo Lavinia Parsi tra i nostri autori accogliamo idealmente quel respiro, che sopravvive a Giulia grazie al filo invisibile che il Premio contribuisce a tessere, legando il suo percorso interrotto a quello di Lavinia, di tutte le altre e gli altri giovani ricercatori che costruiscono la propria cultura nell’apertura e nel confronto.
Simbolo, sanzione, prevenzione: la revoca della cittadinanza in seguito alla commissione di reati nella giurisprudenza della Corte Edu
di Lavinia Parsi
Il contributo è dedicato alla questione della revoca della cittadinanza in seguito alla commissione di reati, alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In particolare, si esamina come la Corte abbia trattato il tema, segnatamente in relazione a contesti di terrorismo, con riferimento alla sicurezza nazionale e alla prevenzione di reati. Il testo analizza i precedenti della Corte Edu, evidenziando le incongruenze interpretative che emergono dalla giurisprudenza con riferimento inter alia alla procurata apolidia, alle asserite esigenze di prevenzione ed alle conseguenze prodotte in capo ai ricorrenti dalla revoca di cittadinanza. L’analisi si propone di offrire alcuni spunti riflessivi sulle implicazioni di una cittadinanza sottoposta a condizioni, sottolineando l’asimmetria tra cittadini naturalizzati e cittadini di origine, e le difficoltà derivanti da una concezione della cittadinanza che oscilla tra un’interpretazione apparentemente funzionale ed una più marcatamente simbolica.
È oggetto di discussione in questi giorni l’approvazione del c.d. “pacchetto cittadinanza”, con il quale il governo italiano ha introdotto alcune restrizioni relative all’acquisizione della cittadinanza in base al principio di ius sanguinis[1]. Tralasciando ogni valutazione rispetto all’adeguatezza dello strumento del decreto-legge per introdurre una modifica normativa di tale portata in assenza di valide considerazioni di necessità ed urgenza[2], la scelta dell’esecutivo stimola alcune riflessioni sul valore della cittadinanza, ed in particolare sulla creazione di cittadinanze diversamente “graduate”. Sulla scorta di un generico concetto politico di “italianità”, tradotto nelle previsioni normative in locuzioni come “vincoli profondi di cultura, identità e fedeltà”, si designano cioè cittadinanze caratterizzate da diversi livelli di tutela, tramite la previsione di criteri differenziati per la loro attribuzione o, viceversa, revoca. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è oggetto di crescente attenzione da parte della Corte Edu, che solo in tempi relativamente recenti ha riconosciuto che, nonostante la Convenzione Edu non riconosca un diritto alla cittadinanza, “una revoca arbitraria della cittadinanza in certe circostanze potrebbe sollevare un problema ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, a causa dell’impatto sulla vita privata dell’individuo”[3]. Sulla base dello stesso principio, la Corte ha sviluppato una giurisprudenza piuttosto eterogenea ma essenzialmente in sintonia con la tendenza manifestata dal governo italiano, di particolare interesse penalistico nei casi di revoca di cittadinanza in relazione alla commissione di reati.
Il primo caso riconducibile a questo filone giurisprudenziale può essere identificato in K2 c. Regno Unito[4], dove la Corte, dichiarando manifestamente infondato il ricorso, confermava la legittimità della revoca della cittadinanza nei confronti di un cittadino britannico-sudanese, in ragione di presunti legami con l’organizzazione Al Shabaab in Somalia. La valutazione della compatibilità della misura con la Convenzione veniva condotta attraverso due criteri mutuati dalla giurisprudenza consolidata in materia di diniego di attribuzione della cittadinanza: l’assenza di arbitrarietà (intesa come rispetto della legalità, delle necessarie garanzie procedurali, nonché diligenza e tempestività dell’azione amministrativa) e l’analisi delle conseguenze prodotte in capo al ricorrente. Pur a fronte del fatto che la revoca si fondasse su elementi probatori acquisiti dai servizi di intelligence britannici, non rivelati integralmente né all’interessato né al suo avvocato difensore, e nonostante l’intero procedimento si fosse svolto in un momento in cui il soggetto si trovava all’estero – circostanza che gli aveva di fatto impedito di partecipare attivamente al procedimento stesso – la Corte riteneva comunque sufficienti le garanzie procedurali fornite al ricorrente[5]. Rispetto alle conseguenze, invece, i giudici accoglievano la tesi del governo, secondo cui l’impatto sulla vita famigliare del ricorrente sarebbe stato relativamente ridotto poiché la sua famiglia, ed in particolare la moglie ed il figlio, avrebbero potuto fargli visita liberamente o eventualmente trasferirsi a loro volta in Sudan. Inoltre, inaugurando un’interpretazione poi costantemente mantenuta, e discostandosi dal precedente Ramadan c. Malta[6], la Corte attribuiva grande rilevanza al fatto che la revoca della cittadinanza britannica non avrebbe reso il ricorrente apolide, poiché questi aveva nel mentre ottenuto la cittadinanza sudanese[7].
Negli anni seguenti, la Corte tornava sul punto con riferimento a diversi casi che, invece, comportavano un’espulsione successiva alla perdita di cittadinanza. In Said Abdul Salam Mubarak c. Danimarca[8], per esempio, il ricorrente lasciava il Marocco all’età di 19 anni e, nel 1988, acquisiva la nazionalità danese. Nel 2015, veniva condannato in via definitiva per avere effettuato propaganda jihadista tramite dei post su Facebook; contestualmente, veniva privato della cittadinanza danese e sottoposto ad espulsione con divieto permanente di re-ingresso. In sede di valutazione delle conseguenze sulla vita del ricorrente, la Corte Edu non vedeva sproporzione tra queste ed i fatti commessi, nonostante l’interessato avesse passato la grande maggioranza della sua vita in Danimarca, non essendosi recato in Marocco dal 1989. Inoltre, nel 1988 il ricorrente aveva sposato una cittadina danese – da cui aveva avuto quattro figli – e, successivamente, un’altra cittadina danese da cui aveva avuto una figlia, nata pochi mesi dopo la decisione di espulsione. Come in K2, i giudici asserivano che nulla ostava al fatto che la seconda moglie e la figlia neonata si trasferissero a loro volta in Marocco e che, poiché la figlia era stata concepita dopo la sentenza di primo grado, “il ricorrente e la sua nuova moglie sapevano quindi che la loro vita familiare in Danimarca sarebbe stata precaria fin dall’inizio”[9]. Viceversa, venivano considerati dirimenti il fatto che il ricorrente avesse una conoscenza linguistica maggiore dell’arabo che del danese e che la seconda moglie, sposata con rito islamico, avesse a sua volta origini marocchine. In conclusione, la Corte riteneva il ricorso inammissibile perché manifestamente infondato.
Nel caso Ghoumid et al. c. Francia[10], la Corte Edu per la prima volta affrontava la questione nel merito e, tuttavia, rilevava una non violazione dell’art. 8. Il caso era stato sollevato da cinque cittadini naturalizzati francesi, privati della cittadinanza francese dopo essere stati condannati per avere fornito supporto finanziario e logistico ad un’unità islamista connessa all’organizzazione responsabile di un attentato terrorista avvenuto a Casablanca nel 2003. In tale occasione, la Corte riteneva giustificabile la revoca disposta dal Primo Ministro, previo parere del Consiglio di Stato francese, sulla base dei già citati due criteri – assenza di arbitrarietà e conseguenze in capo ai ricorrenti. In particolare, relativamente al parametro di diligenza e tempestività dell’azione amministrativa, la Corte affermava che, le circostanze eccezionali sopraggiunte – in particolare, gli attacchi terroristici verificatisi in Francia nel 2015 – fossero idonee a giustificare il lasso temporale di otto anni intercorso tra la condanna e l’istanza di revoca, legittimando una rinnovata valutazione del “vincolo di lealtà e di solidarietà esistente tra [uno Stato] e le persone precedentemente condannate per un grave reato che costituisce un atto di terrorismo”[11]. La decisione si discosta sensibilmente dall’orientamento precedente nella misura in cui riconosce che, anche in assenza di un’espulsione effettiva[12], la revoca della cittadinanza fa sì che la possibilità di permanenza del soggetto nel territorio nazionale sia significativamente indebolita[13]. Secondo la Corte, sebbene il diritto alla vita familiare dei ricorrenti tutelato dall’art. 8 Cedu non sia intaccato fino al momento dell’eventuale espulsione, la perdita della cittadinanza rappresenterebbe ipso facto la “perdita di un elemento della loro identità”[14], giustificata solo in quanto non sproporzionata alla luce della gravità dei fatti commessi.
In Johansen c. Danimarca, invece, per la prima volta il caso riguardava un cittadino che aveva acquisito la nazionalità danese sin dalla nascita, essendo nato in Danimarca da un genitore danese ed uno tunisino. Il ricorrente aveva vissuto per tutta la vita in Danimarca, essendosi recato solo sporadicamente in Tunisia, l’ultima volta nel 2006. Nel 2017, Johansen veniva condannato in primo grado a quattro anni di reclusione per avere accettato di arruolarsi con Da’esh in Siria, ricevendo addestramento in loco per sei mesi, prima di rientrare in Danimarca nel 2014. La Corte Distrettuale, con una maggioranza di dieci giudici su dodici, concludeva che la richiesta di revoca della cittadinanza contestualmente avanzata dalla Procura era priva di fondamento. La Procura proponeva appello davanti alla Alta Corte, che confermava la decisione di primo grado. Nel 2018, in seguito ad appello straordinario, la decisione veniva tuttavia nuovamente impugnata e la Corte Suprema decideva all’unanimità di revocare la cittadinanza di Johansen e decretarne l’espulsione, con divieto permanente di re-ingresso. Anche in questo caso, nulla quaestio da parte della Corte Edu rispetto all’arbitrarietà della misura. Relativamente alle conseguenze sofferte dal ricorrente, invece, i giudici chiarivano che la Corte non ha mai stilato una lista di elementi dirimenti ai fini della valutazione di legittimità della revoca della cittadinanza e che, a differenza dei casi di espulsione, nei casi di revoca non viene applicato strettamente parlando un test di proporzionalità[15]. Come nei casi precedenti, la Corte dava rilievo primario al fatto che la misura non avrebbe reso il ricorrente apolide, mentre l’attaccamento culturale e linguistico – considerato rilevante in Said Abdul Salam Mubarak – non veniva in questa sede considerato altrettanto preponderante. L’ingerenza con la vita familiare del ricorrente veniva considerata legittima ai sensi dell’art. 8 Cedu, poiché la moglie ed il figlio minore del ricorrente – entrambi danesi – avrebbero potuto fargli visita o trasferirsi con lui in Tunisia, o, “se non volevano stabilirsi in Tunisia, potevano fargli visita e comunicare con lui per telefono e su Internet”[16]. La Corte concludeva per l’inammissibilità del ricorso in quanto manifestamente infondato. Il mese seguente, confrontandosi con un caso sostanzialmente analogo, la Corte ribadiva le stesse conclusioni[17].
Lo scorso dicembre, infine, la Corte tornava ad affrontare la questione nel merito con la sentenza El Aroud e Soughir c. Belgio[18], nella quale venivano riuniti due procedimenti. In entrambi i casi, i ricorrenti erano originari di Paesi nordafricani, ma stabilitisi in Belgio sin dalla prima infanzia con le rispettive famiglie di origine, e dopo diversi anni naturalizzati belga. Entrambi venivano condannati per avere reclutato aspiranti jihadisti per unirsi ad Al-Qaeda in Iraq e in Siria e, al termine dell’esecuzione della pena, privati della cittadinanza e soggetti ad un ordine di lasciare il territorio nazionale, accompagnato da una decisione di interdizione d’ingresso per i successivi 15 anni. La Corte di Appello di Bruxelles, in particolare, asseriva che, avendo dimostrato “il più profondo disprezzo per i valori essenziali su cui si basa la società belga”, essi avevano indubbiamente mancato gravemente ai loro doveri di cittadini[19]. In questo caso, la Corte Edu riconosceva l’interferenza con la vita privata dei ricorrenti, per i quali la perdita di cittadinanza rappresenta a tutti gli effetti la perdita di un “elemento di identità”[20]. Al tempo stesso, tale ingerenza veniva considerata legittima perché prevista dalla legge, motivata da uno scopo legittimo (ossia la difesa della sicurezza nazionale e prevenzione delle infrazioni penali) e necessaria in una società democratica, al fine di tutelare la società da minacce di natura terroristica. Anche in questa occasione, in punto di conseguenze sulla vita dei ricorrenti, i giudici valorizzavano il fatto che, detenendo i ricorrenti una seconda nazionalità, il provvedimento non avrebbe avuto come esito uno stato di apolidia e che, in ogni caso, la revoca della cittadinanza non comportava automaticamente l’espulsione dal territorio[21]: sebbene, come detto, l’ordine di espulsione fosse già stato disposto, esso non costituiva infatti oggetto del ricorso. Viceversa, non veniva considerato sufficientemente rilevante il fatto che entrambi i ricorrenti avessero sviluppato in Belgio la totalità della propria vita privata e familiare: la Corte non ravvisava, pertanto, una violazione dell’art. 8 Cedu[22].
A fronte di tante divergenze interpretative, emerge in modo univoco che la Corte Edu tende a tutelare la facoltà degli Stati di attribuire o, in questi casi, revocare la cittadinanza di soggetti dotati di una seconda nazionalità al fine di tutelare la propria sicurezza nazionale e prevenire la commissione di reati. Si tratterebbe, cioè, di una misura di natura preventiva. Nella maggior parte dei casi, però, la revoca non è disposta in seguito ad una valutazione di pericolosità, né sulla base di indizi relativi alla prossima commissione di reati, ma come conseguenza di una condanna penale per fatti commessi anche molti anni prima, e per cui spesso i ricorrenti avevano già scontato la totalità della pena[23]. Vi sono poi due ulteriori elementi che mettono in luce l’incongruenza del ragionamento. Anzitutto, si osserva che la legittimità della revoca della cittadinanza è giustificata dalla Corte Edu, tra l’altro, dal fatto che da essa non discende automaticamente l’espulsione dal territorio nazionale. Tuttavia, se si ammette che la persona destinataria del provvedimento costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale, la sola revoca della cittadinanza – con la conseguente perdita dei diritti che essa comporta – appare poco efficace nel contenere tale pericolo, se non è accompagnata da un’espulsione dal territorio o da altre misure preventive. Inoltre, la circostanza della doppia cittadinanza non incide sulla valutazione di pericolosità per la sicurezza nazionale, poiché anche un cittadino dotato della sola nazionalità interessata potrebbe rappresentare lo stesso tipo di minaccia. Ammesso che un conseguente stato di apolidia avrebbe, evidentemente, un peso del tutto diverso in un giudizio di proporzionalità, parrebbe più coerente valutare gli effetti negativi che la revoca produce, in concreto ed alla luce di un’analisi complessiva, in capo all’interessato. Spesso, questi non risulterebbero meno gravi nel caso in cui un cittadino, pur non rimanendo apolide, fosse radicato in modo pieno ed esclusivo nel territorio dello Stato che dispone la revoca– come accaduto in molti dei casi trattati. Peraltro, come detto, è stata la Corte Edu stessa, in Johansen, a negare che un test di proporzionalità debba essere applicato nei casi in oggetto.
Sotto altro profilo, la Corte Edu sembra affermare un valore pienamente simbolico della cittadinanza, considerato irrimediabilmente reciso nei casi di reati di matrice terroristica, attraverso cui i ricorrenti avrebbero dimostrato “quanto poco importante fosse il loro attaccamento” allo Stato in questione e “ai suoi valori nella costruzione della loro identità personale”[24]. Tale argomentazione pare però in contrasto con l’approccio di tipo “funzionale”[25], secondo cui la revoca della cittadinanza è ritenuta compatibile con la Convenzione anche poiché non comporta necessariamente un’impossibilità di trattenersi sul territorio e/o condurre la propria vita familiare senza subire lesioni sproporzionate[26]. Il modo in cui la corte sembra oggi intendere la cittadinanza – e la relativa revoca – assume, invece, una connotazione marcatamente simbolica. Da questa impostazione discende, ancora una volta, un’evidente dissonanza: l’attribuzione di una cittadinanza “condizionata” solo ai cittadini dotati di una seconda nazionalità. Gli stessi fatti di reato non producono, infatti, effetti analoghi nei confronti dei cittadini “puramente” europei, ai quali la cittadinanza non viene revocata. È interessante notare che, in K2, il ricorrente aveva effettivamente lamentato – oltre alla violazione dell’art. 8 Cedu – anche una violazione dell’art. 14 Cedu (relativo al divieto di discriminazione), poiché un cittadino britannico sprovvisto di seconda nazionalità non sarebbe stato privato della propria cittadinanza né espulso[27]. In quella circostanza, tuttavia, la Corte ha rigettato il ricorso ex art. 35(1) della Convenzione per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, non avendo il ricorrente sottoposto la questione in termini di discriminazione all’attenzione dell’autorità giudiziaria nazionale.
Il profilo dell’uguaglianza, del resto, è stato oggetto di rilievo critico anche nell’ambito del dibattito costituzionalistico italiano relativo alla revoca di cittadinanza introdotta dal c.d. “pacchetto sicurezza”: con il d.l. 113/2018, il governo introduceva infatti all’art. 10bis un’ipotesi di revoca della cittadinanza, prevista in caso di condanna definitiva per alcuni gravi delitti contro la personalità dello Stato[28], esclusivamente per i cittadini naturalizzati italiani. In tale occasione, diversi studiosi hanno evidenziato la “palese discriminazione tra il cittadino italiano per nascita che, commettendo i reati previsti, non perderebbe la cittadinanza, e lo straniero che, acquisita diversamente la cittadinanza, in quelle ipotesi la perderebbe”[29]. In quella sede, si notava altresì come la normativa in questione non apparisse realmente orientata alla prevenzione del terrorismo[30], risultando invece caratterizzata da un “elemento discriminatorio intrinseco”[31]. Come efficacemente rilevato altrove, una cittadinanza diseguale rappresenta, in sé, un ossimoro[32], o un cortocircuito concettuale[33], poiché la nozione stessa di cittadinanza presuppone una condizione di eguaglianza tra i cittadini[34]. A ben vedere, la concezione asseritamente simbolica della cittadinanza sostenuta dalla Cedu si pone in perfetta continuità con una più ampia tendenza politica a creare diversi “gradi” di cittadinanza, o classi di cittadinanza diversamente tutelate. Le stesse critiche, infatti, ben si attagliano alle nuove restrizioni all’acquisizione di cittadinanza per ius sanguinis, il cui spirito comune è tradito dal comunicato stampa di accompagnamento, dove il Consiglio dei Ministri sottolinea che l’intervento normativo è reso necessario: “anche al fine di un allineamento con gli ordinamenti di altri Paesi europei e per garantire la libera circolazione nell’Unione Europea solo da parte di chi mantenga un legame effettivo col Paese di origine”[35]. Desta, quindi, un limitato stupore la posizione assunta dalla Corte Edu, che, anche con le più recenti sentenze, sembra aderire all’idea di una cittadinanza caritatevolmente octroyée. Si designa, cioè, solo per “lo straniero”, variamente definito, una cittadinanza che può in ogni momento essere revocata, ribadendo la sua condizione di perenne alterità e – dunque – precarietà.
[1] In particolare, il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025 contenente “Disposizioni urgenti in materia di cittadinanza” interviene sulla l. 91/1992, stabilendo che “è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all’estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza”, salvo che almeno un genitore sia italiano e nato in Italia, o sia stato residente in Italia per almeno due anni consecutivi. Un disegno di legge, approvato lo stesso giorno dal Consiglio dei Ministri, introduce l’ipotesi di perdita della cittadinanza per “desuetudine” nei confronti del cittadino italiano nato all’estero, non residente in Italia ed in possesso di un’altra cittadinanza che, successivamente alla data di entrata in vigore delle nuove norme, non mantenga vincoli effettivi con la Repubblica italiana.
[2] Il decreto-legge identifica i requisiti nel dato che: “la possibile assenza di vincoli effettivi con la Repubblica in capo a un crescente numero di cittadini, che potrebbe raggiungere una consistenza pari o superiore alla popolazione residente nel territorio nazionale, costituisce un fattore di rischio serio ed attuale per la sicurezza nazionale e, in virtù dell’appartenenza dell’Italia all'Unione europea, degli altri Stati membri della stessa e dello Spazio Schengen”.
[3] C. Edu, sez. IV, Ramadan c. Malta, 21 giugno 2016, par. 85.
[4] C. Edu, sez. I, K2 c. Regno Unito, 7 febbraio 2017.
[5] Ivi, par. 54-61.
[6] In quell’occasione, la Corte Edu aveva infatti considerato irrilevante lo stato di apolidia del ricorrente derivato dalla revoca, asserendo che: “il fatto che uno straniero abbia rinunciato alla cittadinanza di uno Stato non significa in linea di principio che un altro Stato abbia l’obbligo di regolarizzare il suo soggiorno nel Paese” (C. Edu, sez. IV, Ramadan c. Malta, 21 giugno 2016, par. 92).
[7] Ivi, par. 62.
[8] C. Edu, sez. II, Said Abdul Salam Mubarak c. Danimarca, 14 febbraio 2019.
[9] Ivi, par. 75.
[10] C. Edu, sez. V, Ghoumid et al. c. Francia, 25 giugno 2020.
[11] Ivi, par. 45.
[12] Nel caso di specie, al momento della decisione della Corte Edu, la procedura era pendente dinnanzi alla Commissione per l’espulsione. In particolare, l’8 settembre 2016 la Commissione aveva sentito gli interessati ed il 21 ottobre 2016 la Prefettura di Les Yvelines aveva comunicato il proprio parere favorevole alla deportazione.
[13] Ivi, par. 49.
[14] Ibidem.
[15] C. Edu, sez. II, Johansen c. Danimarca, 3 marzo 2022, par. 52.
[16] Ivi, par. 82.
[17] C. Edu, sez. II, Laraba c. Danimarca, 14 aprile 2022.
[18] C. Edu, sez. I, El Aroud e Soughir c. Belgio, 5 dicembre 2024. La decisione è stata fatta oggetto di rinvio dinnanzi alla Grande Camera.
[19] Ivi, par. 24.
[20] Ivi, par. 59.
[21] Ivi, par. 74-77.
[22] Si precisa che la decisione, emessa dalla Sezione I della Corte Edu, è stata oggetto di rinvio dinnanzi alla Grande Camera.
[23] Proprio questi aspetti sono stati infatti oggetto di ricorso ai sensi dell’art. 2 e dell’art. 4 del Protocollo N°7, in Ghoumid et al. e in El Aroud e Soughir. In entrambi i casi la Corte Edu ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, sostanzialmente negando la natura penale della revoca di cittadinanza.
[24] C. Edu, sez. I, El Aroud e Soughir c. Belgio, 5 dicembre 2024, par. 73.
[25] Cfr. Luigi Viola, “La revoca della cittadinanza dopo il Decreto Sicurezza”, Diritto, Immigrazione e Cittadinanza 1/2021, 106.
[26] Si vedano ad esempio gli argomenti della Corte in Ramadan, par. 92 e in K2, par. 62.
[27] A ben vedere, il Regno Unito ha recentemente deciso di confermare la revoca della cittadinanza di Shamima Begum, cittadina britannica priva di seconda nazionalità e detenuta da diversi anni nel Nord-Est della Siria. Si veda: UK Supreme Court, UKSC 7, Secretary of State for the Home Department v. Begum, 26 febbraio 2021. Al termine della procedura amministrativa, i difensori di Begum hanno annunciato l’intenzione di ricorrere alla Corte Edu.
[28] Si tratta in particolare dei delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, oltre ai reati previsti dagli artt. 270 c. 3, 270ter, 270quinquies.2 e 306 c. 2 c.p.
[29] Salvatore Curreri, “Prime considerazioni sui profili d’incostituzionalità del decreto legge n. 113/2018 (c.d. ‘decreto sicurezza’)”, Federalismi.it 22/2018, 13.
[30] Davide Bacis, “Esistono cittadini ‘di seconda classe’? Spunti di riflessione in chiave comparata a margine del d.l. n. 113/2018”, DPCE Online 1/2019, 937.
[31] Ivi, 939.
[32] Alessandra Algostino, “Il decreto ‘sicurezza e immigrazione’ (decreto legge n. 113 del 2018): estinzione del diritto di asilo, repressione del dissenso e diseguaglianza”, Costituzionalismo.it 2/2018.
[33] Cristina Bertolino, “Paradossi della cittadinanza nella legge di conversione del decreto legge c.d. ‘Sicurezza’”, Federalismi.it 3/2019, 7.
[34] Si veda anche: Elisa Cavasino, “Ridisegnare il confine fra ‘noi’ e ‘loro’: interrogativi sulla revoca della cittadinanza”, Diritto, Immigrazione e Cittadinanza 1/2019, dove l’autrice evidenzia in modo critico la concezione di cittadinanza come “strumento di creazione e definizione dell’altro” sottesa a questo tipo di misure.
[35] Comunicato stampa del Consiglio de Ministri n. 121, 28 marzo 2025.
Ancora di Giulia e del Premio Giulia Cavallone avevamo già parlato qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/2541-premio-giulia-cavallone-anno-2022; https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3005-premio-giulia-cavallone-anno-2023; Premio “Giulia Cavallone” – anno 2024 - www.giustiziainsieme.it; https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-innovazione/2747-navigating-the-grey-area-brevissime-riflessioni-su-ia-nuovi-dilemmi-morali-e-responsabilita-penale-di-alice-giannini; Per una giustizia dell'inumano. Riflessioni sulla codificazione italiana dei crimini internazionali - www.giustiziainsieme.it.