ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Inadempimento dell’amministrazione e perdita di chance del privato nelle convenzioni urbanistiche (commento a Cons. Stato, sez. IV, 10 marzo 2025, n. 1962)
di Gabriele Torelli
Sommario: 1. Il fatto. – 2. Le convenzioni urbanistiche tra dimensione civile e amministrativa e un tratto in comune: la centralità dell’accertamento dell’inadempimento. – 3. Canone di buona fede, proposte di modifica alla convenzione urbanistica e facoltà di recesso unilaterale. – 4. La perdita di chance nelle convenzioni urbanistiche. – 5. Qualche appunto conclusivo.
1. Il fatto
In data 1° dicembre 2004, Roma Capitale sottoscriveva con la Regione Lazio l’accordo relativo al Programma di Recupero Urbano (d’ora innanzi PRU) “Acilia-Dragona”, in seguito debitamente ratificato con deliberazione del Consiglio comunale, che prevedeva la realizzazione sia di interventi privati sia di opere pubbliche. Per dare attuazione al PRU, veniva sottoscritta apposita convenzione tra Roma capitale ed un consorzio di imprese, al cui interno figurava Monti di San Paolo Quinta S.p.a.: mentre il Comune si impegnava a realizzare alcune opere pubbliche, ed in particolare opere di collegamento viario e sottopassi, la società si obbligava a garantire la costruzione di diverse opere di urbanizzazione (parcheggi pubblici, illuminazione, reti fognarie ed idriche, etc.).
Tuttavia, Roma Capitale non realizzava parte delle opere di sua spettanza e, pertanto, Monti di San Paolo Quinta S.p.a. proponeva ricorso dinanzi al TAR Lazio chiedendo l’accertamento dell’inadempimento parziale del Comune nonché la risoluzione in parte qua della convenzione urbanistica, oltre al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi in conseguenza di tale inadempimento, a titolo di danno emergente per le spese sostenute e di lucro cessante per mancato utile di impresa sottoforma di perdita di chance[i]. Ciò in quanto l’inerzia di Roma Capitale nella realizzazione delle opere pubbliche avrebbe irrimediabilmente compromesso la possibilità per l’impresa di completare i programmi realizzativi delle capacità edificatorie e, di conseguenza, di massimizzare i profitti, impedendo la vendita dei beni oggetto di trasformazione urbanistica a favore di acquirenti concretamente interessati.
Il TAR Lazio, con sentenza 2 maggio 2019, n. 5552, ha accolto il ricorso dichiarando risolta la convenzione urbanistica e condannando Roma Capitale, oltre al risarcimento del danno per le spese sostenute dalla società ricorrente, a rifondere a quest’ultima sette milioni di euro per lucro cessante con riguardo alla componente commerciale, oltre ad una cifra sensibilmente inferiore[ii] per i terreni a destinazione residenziale.
Il Comune ha appellato la sentenza di primo grado chiedendone la riforma in quanto errata in diritto, non ritenendosi inadempiente nell’attuazione della convenzione, ed in subordine la rimodulazione del risarcimento del danno ritenuto eccessivo e non giustificato nei termini sopra descritti.
Investito della questione, il Consiglio di Stato, dopo avere disposto una consulenza tecnica d’ufficio per accertare il contenuto delle reciproche obbligazioni assunte e l’effettivo stato dei lavori, ritiene fondato l’appello, negli stretti limiti di seguito precisati.
Da un lato, il Collegio conferma le ragioni di Monti di San paolo Quinta S.p.a. perché rileva l’inadempimento della convenzione urbanistica da parte di Roma Capitale, peraltro qualificandolo come «grave», essendone derivata l’impossibilità per l’appellato di dare seguito agli impegni assunti con terzi e il conseguente diritto ad ottenere la risoluzione della convenzione oltre al risarcimento dei danni. Dall’altro lato, però, i giudici d’appello, chiamati a valutare l’effettività della lesione economica, hanno ritenuto per alcuni profili insussistente il danno da perdita di chance e, per altri, eccessiva la sua quantificazione.
Più precisamente, il Consiglio di Stato, con riferimento ad un terreno dove realizzare un centro commerciale e per cui la società aveva già individuato un acquirente, osserva che la stessa non abbia mai fornito prova né del danno da perdita di chance causato dal Comune (consistente appunto nella mancata vendita a terzi del centro commerciale a causa dell’incompletezza dei lavori pubblici), né della relativa quantificazione, non avendo dimostrato un’adeguata consistenza probabilistica circa il conseguimento dell’utilità finale[iii]. Cioè, il Collegio ritiene che, nel caso di specie, la perdita di chance non sussista in quanto al termine ultimo concordato tra la società e i soggetti terzi acquirenti per l’apertura del centro commerciale – 31 dicembre 2008 – Roma Capitale non risultava ancora inadempiente, perché la scadenza per la realizzazione delle opere di completamento viario di propria competenza era stata individuata nel 12 agosto 2010.
Nondimeno, seppure l’esistenza di quel contratto di vendita non abbia determinato di per sé il danno da perdita di chance, i giudici d’appello ritengono tale contratto una prova della probabilità di analoghe occasioni di alienazione di un fondo di fatto appetibile sul mercato; occasioni mai concretizzatesi in futuro a causa dell’inadempimento del Comune, che di fatto risulta responsabile di un mancato guadagno.
Per la quantificazione del danno patrimoniale da perdita di chance, il Consiglio di Stato applica per pacifica giurisprudenza il principio della liquidazione per via equitativa ex art. 1226 c.c., stimato nella percentuale del dieci per cento del prezzo inizialmente concordato tra l’impresa appellata e il terzo acquirente (poco meno di trenta milioni di euro), cifra da ridurre ulteriormente a poco meno di un milione di euro in ragione della stima del grado di probabilità della vendita dell’immobile ed a fronte del fatto che, per l’area in cui sarebbe dovuto sorgere il centro commerciale, fosse pervenuta una sola proposta di acquisto.
Infine, con riferimento alla richiesta della società appellata di ottenere un risarcimento del danno per lucro cessante per la mancata vendita degli immobili a destinazione residenziale (sempre parametrato in via equitativa al dieci per cento del mancato utile), il Consiglio di Stato capovolge la pronuncia di prime cure, non riconoscendo tale somma in difetto della prova che la perdita di chance sia stata determinata dalla mancata realizzazione delle opere di collegamento viario.
In definitiva, l’appello principale viene accolto in parte: stante la conferma del «grave» inadempimento della convenzione urbanistica, per i terreni a destinazione commerciale il Consiglio di Stato nega il danno patrimoniale dovuto alla perdita di chance per quella mancata vendita del terreno su cui sarebbe dovuto sorgere il centro commerciale, ma riconosce la medesima perdita per analoghe possibilità di vendita future, sebbene con un ricalcolo al ribasso; diversamente, per i terreni a destinazione residenziale viene rilevato il difetto di prova del nesso causale ex art. 1223 c.c., essendo indimostrato che la mancata alienazione dei lotti sia stata causata dall’inadempimento del Comune.
2. Le convenzioni urbanistiche tra dimensione civile e amministrativa e un tratto in comune: la centralità dell’accertamento dell’inadempimento
La sentenza, particolarmente complessa come risulta dalla descrizione del fatto, affronta un tema “tradizionale” del diritto amministrativo e, in specie di quello urbanistico, relativo agli strumenti negoziali dell’attività pubblica che, nel caso di specie, assumono la forma delle convenzioni urbanistiche[iv], il cui modello normativo è notoriamente quello dell’art. 11, l. 7 agosto 1990, n. 241, potendo atteggiarsi a seconda dei casi come accordo sostitutivo o integrativo del provvedimento[v]. Strumento dunque ibrido, a metà strada tra la dimensione civilistica e quella pubblicistica, con tutto quanto ne deriva in termini di principi (civilistici) applicabili, obbligazioni e richieste di risarcimento danni a fronte di eventuali inadempimenti della controparte[vi].
Il fugace richiamo a questi aspetti, seppur di impronta più didascalica che scientifica, appare comunque necessario per procedere all’analisi di maggiore dettaglio degli altri punti della pronuncia meritevoli di attenzione.
Tra essi, c’è sicuramente il ricorso del Collegio alla consulenza tecnica d’ufficio (CTU), verso la quale il giudice amministrativo ha tradizionalmente mostrato alcune riserve per la preoccupazione di adottare una decisione che sconfini nel merito, ma che in un settore per l’appunto “ibrido” tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, e perciò rientrante nella giurisdizione esclusiva, sembra essere stato utilizzato senza particolari timori[vii]. Nondimeno, a prescindere dal tipo di giurisdizione, con il fine di non “indebolire” eccessivamente il già rivisitato (rispetto al processo civile) metodo dispositivo in favore del metodo acquisitivo[viii], va comunque ricordato che per il giudice amministrativo la CTU costituisce non già un mezzo di prova, ma al più di ricerca della prova, avente la funzione di fornire al giudice i necessari elementi di valutazione quando la complessità dei fatti di causa sul piano tecnico-specialistico impedisca una compiuta comprensione, senza però avere la funzione di esonerare la parte dagli oneri probatori[ix].
Al di là di queste speculazioni, un aspetto è però evidente: la CTU si è rivelata utile per fornire al Consiglio di Stato una serie di elementi necessari per accertare l’inadempimento del Comune appellante e, allo stesso tempo, additarlo come “grave”.
L’inadempimento e la sua gravità sono dunque i due aspetti che inducono il Collegio, e in primo grado il TAR, ad individuare la responsabilità del Comune per non avere rispettato gli impegni assunti – per l’appunto la realizzazione delle opere pubbliche – senza avere dimostrato che la mancanza fosse dovuta a cause a sé non imputabili, o comunque inevitabili con l’ordinaria diligenza: ovvero, dimostrazioni imprescindibili per evitare profili di responsabilità, come continua a ribadire la Corte di cassazione[x].
3. Canone di buona fede, proposte di modifica alla convenzione urbanistica e facoltà di recesso unilaterale
L’influsso dei principi civilistici sulla convenzione urbanistica è nitido non solo con riguardo agli aspetti appena esaminati, che hanno portato il Consiglio di Stato a confermare la sentenza di prime cure, ma anche al capo relativo alla contestazione sul risarcimento del danno e, soprattutto, alla sua quantificazione. Il giudice d’appello si è trovato a doversi esprimere sulla (presunta) mancata collaborazione della società appellata, che avrebbe risposto alla domanda del Comune di rimodulare gli impegni convenzionali con una richiesta di risoluzione della convenzione in quanto, a quelle condizioni, «non più conveniente». Come a dire che il risarcimento non sarebbe stato dovuto a causa del difetto di un comportamento incline alla buona fede da parte di Monti di San Paolo Quinta S.p.a.
Non che il canone di buona fede non sia basilare nello sviluppo dell’azione amministrativa e, a maggior ragione, negli strumenti di natura consensuale in forza dell’influenza posta dai principi civilistici[xi]; pensiero del resto rafforzato anche da quegli studi che propendono per una sostanziale omogeneità di fondo tra i poteri pubblici e privati e i relativi tratti ontologici, anche in considerazione dell’obbligo reciproco di rispettare gli interessi dell’una e dell’altra parte[xii].
Senza però ampliare eccessivamente lo sguardo a tematiche di teoria generale – limitandosi a segnalare l’esistenza di tesi contrarie secondo cui nel potere amministrativo sono insiti dei profili non presenti nei c.d. “poteri privati”[xiii], cosa che comunque non può implicare un rinnegamento del canone di buona fede dell’azione amministrativa – e rimanendo nel perimetro delle convenzioni urbanistiche, si ravvisa che in tale ambito la giurisprudenza è tendenzialmente chiamata a pronunciarsi più sul comportamento dell’amministrazione che su quello del privato (al quale viene sostanzialmente richiesto di rispettare gli obblighi assunti)[xiv]. Ciò in quanto il legittimo affidamento che quest’ultimo ripone nell’accordo, sin dalla fase delle trattative[xv], è potenzialmente minato non solo da circostanze sopravvenute rilevanti che alterano l’equilibrio sinallagmatico[xvi] ma anche dalla rivisitazione dell’interesse pubblico che l’amministrazione può attuare in base alle proprie valutazioni discrezionali; valutazioni che si possono concretizzare tanto in una variante allo strumento urbanistico che incide sulla convenzione quanto in una richiesta di modifica della stessa. Ma mentre la prima circostanza, che può precludere al privato l’esecuzione di attività economicamente rilevanti su cui c’è già l’accordo, è oggetto di risarcimento quantomeno per le spese sostenute[xvii], la seconda può legittimamente non essere accettata, per cui il rifiuto del privato non è di per sé motivo di inadempimento e, dunque, motivo di esclusione del risarcimento da parte dell’ente pubblico in caso di controversia.
Ed è proprio questa una delle affermazioni più nette del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento: la richiesta del Comune appellante di negare, o comunque diminuire, il risarcimento del danno non può essere accolta in forza della mancata cooperazione del privato, che si atteggia come tale non essendo giuridicamente obbligato ad accondiscendere alle proposte di revisione dell’accordo avanzate da parte dell’amministrazione per i propri interessi[xviii]. Tanto è vero che, come già ricordato nel paragrafo 1, il diniego del risarcimento per alcuni aspetti e la sua diminuzione per altri sono dovuti ad una mancata dimostrazione della perdita di chance, non alla mancata volontà della società di rivedere gli accordi originariamente assunti.
Conclude sul punto la sentenza in commento: «era piuttosto il Comune che avrebbe dovuto valutare i presupposti per un recesso dall’accordo, previo pagamento di un eventuale indennizzo, motivando in ordine alla sussistenza di sopravvenuti motivi di interesse pubblico come previsto dall’art. 11 della legge n. 241 del 1990». Viene dunque mosso un rimprovero all’amministrazione, la quale anziché tentare di mantenere in vigore la convenzione apportando delle modifiche potenzialmente non condivisibili, avrebbe piuttosto dovuto ponderare l’ipotesi di recedere dall’accordo previo indennizzo, circostanza in cui vanta una maggiore autonomia di scelta.
4. La perdita di chance nelle convenzioni urbanistiche
A questo punto, vale la pena soffermarsi su un altro dei passaggi principali della pronuncia, quello relativo al risarcimento del lucro cessante da perdita di chance, intesa come perdita di un risultato finale (a causa dell’inadempimento) anziché di quello specifico risultato[xix].
Si è accennato nel primo paragrafo che, limitatamente ai terreni a destinazione residenziale, la sentenza in commento capovolge quella di primo grado in difetto della dimostrazione che il danno in questione sia stato causato dalla mancata realizzazione delle opere di collegamento viario da parte del Comune.
Ragionamento diverso, invece, è compiuto per il terreno a destinazione commerciale sul quale si sarebbe dovuta realizzare una grande struttura di vendita: in questa circostanza, il Collegio ritiene che la società abbia fornito prova sufficiente del nesso causale tra l’inadempimento di Roma Capitale ed il vulnus alle future aspettative economiche legate alla vendita del terreno stesso.
La perdita di chance, costruita sull’art. 1223 c.c., è tema complesso e scivoloso perché il risarcimento è subordinato ad una dimostrazione basata su un fattore ipotetico, o meglio ancora probabilistico, piuttosto che su un elemento reale[xx]; proprio a causa della sua complessità, sotto il profilo squisitamente dogmatico si sono contrapposte tesi diverse sull’istituto, alcune delle quali hanno promosso la teorica eziologica della chance, altre ancora quella ontologica[xxi].
Per questi motivi, c’è stato un interessamento sul tema dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la quale con la sentenza 23 aprile 2021, n. 7 ha dichiarato che «l’accertamento del nesso di consequenzialità immediata e diretta del danno con l’evento pone problemi di prova con riguardo al lucro cessante in misura maggiore rispetto al danno emergente. A differenza del secondo, consistente in un decremento patrimoniale avvenuto, il primo, quale possibile incremento patrimoniale, ha di per sé una natura ipotetica». Di conseguenza, continua l’Adunanza plenaria, «La valutazione causale ex art. 1223 cod. civ. assume la fisionomia di un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità), in cui occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui. Non a caso in questo ambito è sorta la tematica della risarcibilità della chance, considerata ormai, sia dalla giurisprudenza civile sia dalla giurisprudenza amministrativa, una posizione giuridica autonomamente tutelabile – morfologicamente intesa come evento di danno rappresentato dalla perdita della possibilità di un risultato più favorevole (e in ciò distinta dall’elemento causale dell’illecito, da accertarsi preliminarmente e indipendentemente da essa) – purché ne sia provata una consistenza probabilistica adeguata»[xxii].
Prova che, nel caso della sentenza in commento, è costituita dall’esistenza di un contratto pregresso tra la società ed un acquirente terzo per la vendita del fondo: sebbene gli effetti di quel contratto non si concretizzarono per ragioni non imputabili all’inadempimento dell’amministrazione[xxiii], la sola stipula dell’accordo è stata ritenuta un indizio «grave e preciso circa l’appetibilità commerciale del terreno», e dunque sufficiente per accertare la probabilità di analoghe occasioni di alienazione future, di fatto impedite dall’inadempimento del Comune che non realizzò mai le opere di collegamento viario.
Certo, si è già posta in dubbio l’effettiva efficacia del criterio probabilistico applicato al nesso di causalità poiché lascia qualche perplessità in termini di certezza del diritto[xxiv], ma l’Adunanza plenaria ritiene inevitabile una valutazione costruita attorno al criterio della verosimiglianza; valutazione che, del resto, sembra in parte influenzata dal meccanismo per stabilire il risarcimento del danno delineato dalla sentenza delle Sezioni unite 22 luglio 1999, n. 500[xxv] per la lesione degli interessi legittimi (pretensivi), basato su un giudizio di spettanza[xxvi]. Sebbene le due valutazioni siano diverse – l’una su danno verosimile ma la cui accertabilità in concreto non è oggettiva, l’altra su un danno più “evidente” e cioè oggettivamente accertabile, che sarebbe stato evitato se l’amministrazione avesse agito in modo conforme a diritto – entrambe si basano su un ragionamento prognostico[xxvii].
Al di là di queste speculazioni, però, un elemento appare chiaro dalla sentenza dell’Adunanza plenaria: la perdita di chance ha ormai trovato autonomo riconoscimento (anche) nel giudizio amministrativo, dovendosi valutare caso per caso il venir meno di un risultato più favorevole rispetto ad aspettative legittime.
Peraltro, limitatamente alle convenzioni urbanistiche, proprio in virtù del fatto che esse rappresentano uno strumento ibrido in larga parte influenzato dai principi civilistici, e sebbene anche in questo ambito fisiologicamente permangano delle incertezze nella valutazione che il giudice è chiamato a svolgere[xxviii], si ha l’impressione che il giudizio di perdita di chance possa beneficiare di qualche elemento di certezza maggiore rispetto ai casi di “pura” giurisdizione di legittimità: cioè, nelle convenzioni urbanistiche l’accertamento della perdita di un risultato più favorevole potrebbe risultare meno difficoltoso in quanto spesso correlabile – come nel caso di specie – a dinamiche di mercato e di scambi commerciali, i cui costi seppure in termini probabilistici sono in linea teorica accertabili[xxix].
In ultimo, sulla quantificazione del danno da perdita di chance, la sentenza si limita a confermare «per pacifica giurisprudenza» il principio della liquidazione per via equitativa, individuando l’ammontare del risarcimento in 930.000 euro. Tale cifra è il risultato del 30% rispetto all’utile teorico (ossia il presso inizialmente concordato per la vendita del terreno, mai avvenuta) quantificabile in tre milioni di euro, a cui sono state ulteriormente decurtate altre somme per le seguenti circostanze: esistenza di una sola proposta di acquisto; esistenza di oggettive condizioni disincentivanti l’acquisto per le estreme difficoltà di attuazione del piano attuativo, ben visibili sin da principio; natura pubblicistica della convenzione che implica il rischio del recesso per il privato; il fatto che la società, chiedendo la risoluzione dell’accordo anziché l’adempimento, ha di fatto rinunciato alla possibilità di ricercare ulteriori chance di vendita.
5. Qualche appunto conclusivo
Muovendo verso qualche breve considerazione conclusiva, la sentenza in commento è apprezzabile non tanto perché rileva l’inadempimento del Comune di Roma – punto fondamentale in diritto, eppure meno significativo nell’ottica dell’esegesi – quanto piuttosto per il tentativo di offrire indicazioni puntuali in merito alla quantificazione del danno da perdita di chance.
In parole più semplici, il Collegio non si è limitato a richiamare il passaggio dell’Adunanza plenaria n. 7/2021 sopra citato, dove si indica nella probabilità del mancato utile a causa del fatto ingiusto il “nucleo” della perdita di chance. Diversamente, quando la pronuncia n. 1962/2025 individua i motivi che hanno determinato l’ammontare della liquidazione in via equitativa, descrive per punti le ragioni che hanno condotto alla cifra finale riconosciuta come risarcimento[xxx], andando a proseguire nel solco già tracciato da precedente giurisprudenza secondo cui, ai fini del risarcimento, non è sufficiente un astratto richiamo alla probabilità del vantaggio economico che si sarebbe ottenuto in mancanza del fatto ingiusto, essendo invero doveroso un analitico vaglio sulla concretezza e l’attualità della chance oramai irrimediabilmente preclusa[xxxi].
Vaglio più che mai opportuno perché, oltre a motivare il danno di cui si discute, serve a differenziarlo dal nocumento basato sul giudizio sulla spettanza, dove invece il mancato conseguimento del risultato vantaggioso è ancora accertabile e il relativo vantaggio ancora perseguibile; il che equivale a riconoscere come, al fine di evitare duplicazioni di tutele per il privato, la perdita di chance è riconosciuta in quanto assolutamente alternativa al risultato finale, oramai impossibile da ottenere[xxxii]. Situazione, questa, che evidentemente si verifica nell’ipotesi di un inadempimento di una convenzione urbanistica, a cui segue peraltro è seguita la risoluzione dichiarata dal giudice.
[i] Con la specificazione che il lucro cessante veniva richiesto in relazione alla mancata vendita di un terreno edificabile con destinazione commerciale oggetto di un preliminare di compravendita sospensivamente condizionato alla approvazione, non intervenuta nei termini della convenzione, da parte di Roma Capitale della progettazione delle opere viarie di collegamento previste a servizio del centro commerciale che si stava realizzando. Inoltre, il lucro cessante veniva richiesto anche con riferimento alla mancata vendita di altri terreni a destinazione residenziale.
[ii] Nella sentenza in commento, non è specificato l’ammontare della cifra per gli immobili ad uso residenziale in quanto non fondamentale ai fini della controversia.
[iii] Ciò in quanto il termine di avveramento della condizione sospensiva per la vendita del centro commerciale (31 dicembre 2008) da parte delle imprese appellate era anteriore rispetto alla scadenza ultima della realizzazione delle opere pubbliche per cui si era obbligato il Comune (12 agosto 2010).
[iv] L’argomento è stato approfondito a più riprese dalla dottrina. Senza pretese di completezza, tra i lavori più significativi, F. Manganaro, Nuove questioni sulla natura giuridica delle convenzioni urbanistiche, in Urb. app., 2006, n. 3, 344 ss.; M. Dugato, Brevi note in tema di convenzioni edilizie ed accordi ex art. 11 l. 241/1990, in Le Regioni, 1993, n. 3, 970 ss.; G.F. Cartei, Convenzioni urbanistiche e limiti alla giurisdizione esclusiva, in Giorn. dir. amm., 2003, n. 7, 715 ss.; N. Aicardi, Convenzioni urbanistiche per opere energetiche e competenze comunali per l’edificazione: le situazioni soggettive tutelabili, in Riv. giur. urb., 1990, n. 3-4, 381 ss.; M. Magri, Gli accordi con i privati nella formazione dei piani urbanistici strutturali, in Riv. giur. urb., 2004, n. 4, 539 ss.; E. Sticchi Damiani, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano, 1992; M. De Donno, Il principio di consensualità nel governo del territorio: le convenzioni urbanistiche, in Riv. giur. edil., 2010, n. 5, 279 ss.
[v] Di recente, sulla qualificazione delle convenzioni urbanistiche come accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento amministrativo ai sensi dell’art. 11, l. n. 241/1990, oltre alla sentenza in commento, si v. di recente, tra le tante, anche TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 25 ottobre 2024, n. 2898; Cons. Stato, sez. IV, 4 giugno 2024, n. 5001; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10 novembre 2023, n. 2608; TAR Molise, sez. I, 20 dicembre 2023, n. 344.
[vi] In ultimo, questi profili sono ben descritti da Corte cass., sez. VI, 12 ottobre 2024, n. 25584, la quale rammenta che il se creditore agisce per la risoluzione dell’accordo, per il risarcimento del danno ovvero per l’adempimento, debba limitarsi a fornire la fonte dell’obbligazione e ad allegare l’inadempimento, mentre il debitore è chiamato a dimostrare il fatto estintivo dell’altrui pretesa o sollevare l’eccezione di inadempimento del creditore.
[vii] In letteratura, per un’analisi su questi profili ed un continuo confronto tra CTU e verificazione, G. Clemente di San Luca, Verificazione e consulenza tecnica d’ufficio nel quadro dei mezzi di prova esperibili nel processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2018, n. 3, 761 ss. Con specifico riguardo alle titubanze del giudice amministrativo nell’utilizzo della CTU, A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 280 ss., dove appunto l’A. ricorda come, anche in base agli artt. 19 e 63 c.p.a., la CTU sia vista come uno strumento da utilizzare «eccezionalmente» e comunque «se indispensabile». Cfr. anche S. Mirate, La consulenza tecnica nel giudizio di legittimità: verso nuovi confini del sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione, in Giur. it., 2000, n. 12, pp. 2402 ss.; E. Giardino, La consulenza tecnica d’ufficio nel processo amministrativo, in Il Foro it., 2002, n. 9, pp. 414 ss.; G. D’Angelo, La consulenza tecnica nel processo amministrativo tra prassi consolidata e studi innovativi, in Il Foro amm. TAR, 2005, n. 2, pp. 579 ss. .
[viii] Sull’applicazione del metodo acquisitivo nel processo amministrativo, per tutti, G. Manfredi, Attualità e limiti del metodo acquisitivo nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2020, n. 3, 578 ss.
[ix] TAR Campania, Napoli, sez. V, 15 febbraio 2024, n. 1091; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 27 febbraio 2024, n. 703; Id., sez. I, 12 giugno 2023, n. 1831; TAR Marche, sez. I, 25 agosto 2021, n. 641.
[x] Ex multis, Cass. civ., sez. III, 23 ottobre 2018, n. 26700.
[xi] È noto che il principio di buona fede permei in generale tutta l’attività amministrativa, come peraltro stabilito anche dall’art. 1, comma 2-bis, l. n. 241/1990. Al riguardo, la lettura è molto copiosa, per cui si rimanda ad alcuni tra i più significativi contributi, senza pretese di completezza: A. Romano, Amministrazione, principio di legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999, n. 1, 111 ss.; E. Casetta, Buona fede e diritto amministrativo, in Il dir. econ., 2001, n. 2, pp. 317 ss.; G. Sigismondi, Eccesso di potere e clausole generali: le analogie tra sindacato sul potere pubblico e sui poteri privati, in Pubblico e privato nell’organizzazione e nell’azione amministrativa. Problemi e prospettive, a cura di G.D. Falcon e B. Marchetti, Padova, Cedam, 2013, 307 ss., spec. 323 ss., dove l’A. addita la buona fede e la correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. come vere e proprie clausole generali e, pertanto, elementi che caratterizzano non solo l’attività amministrativa ma anche (e di conseguenza) il sindacato sul provvedimento, in particolare tramite la valutazione di eccesso di potere; più di recente, sul tema S. Torricelli, Buona fede e confini dell’imparzialità nel rapporto procedimentale, in P.A. Persona e Amministrazione, 2022, n. 2, 29 ss.; G. Tropea, Buona fede e processo amministrativo, in P.A. Persona e Amministrazione, 2022, n. 2, pp. 151 ss.; M.C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, ibidem, pp. 131 ss.; A. Carbone, Considerazioni generali su buona fede e responsabilità nel diritto amministrativo, in P.A. Persona e amministrazione, 2023, n. 2, pp. 603 ss.; A. Mandara, La buona fede come parametro di validità del provvedimento amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2024, n. 4, pp. 527 ss. In giurisprudenza, tra le pronunce che richiamano espressamente il canone di buona fede come criterio di orientamento dell’attività amministrativa, di qualsiasi natura (consensuale, coattiva, discrezionale, etc.), tra le tante, Cons. Stato, sez. III, 7 febbraio 2025, n. 1003; TAR Trento, sez. I, 14 ottobre 2024, n. 149; Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2023, n. 10911; TAR Lazio, Latina, sez. II, 25 settembre 2023, n. 684; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10 novembre 2023, n. 2608.
[xii] G. G. Sigismondi, di, Eccesso di potere e clausole generali, cit., passim; su una posizione più mediata è B.G. Mattarella, Poteri amministrativi e poteri privati: convergenze e divergenze, in Pubblico e privato nell’organizzazione e nell’azione amministrativa. Problemi e prospettive, cit., 363 ss., il quale ricorda appunto che a fronte di una tendenziale convergenza tra poteri pubblici e privati, vi sono molti dei primi strutturalmente diversi dai secondi.
[xiii] V. Cerulli Irelli, Il potere amministrativo e l’assetto delle funzioni di governo, in Dir. pubbl., 2011, n. 1, 33 ss., che vede nella funzionalizzazione ad un interesse pubblico collettivo il decisivo elemento di discrimine tra poteri pubblici e privati. Il tema è stato altresì affrontato da A. Sandulli, Il Diritto quale infrastruttura per i poteri privati? A proposito di un libro di Katharina Pistor, in Dir. pubbl., 2021, n. 3, pp. 999 ss.; G. Sigismondi, La tutela nei confronti del potere pubblico e dei poteri privati: prospettive comuni e aspetti problematici, in Dir. pubbl., 2003, n. 2, pp. 475 ss.; E. Bruni Liberati, Poteri privati e nuova regolazione pubblica, in Dir. pubbl., 2023, n. 1, pp. 285 ss.; C. Pinelli, Il Costituzionalismo di fronte ai nuovi poteri privati, in Economia pubblica, 2023, n. 1, pp. 115 ss.; L. Torchia, Poteri pubblici e poteri privati nel mondo digitale, in Il Mulino, 2024, n. 1, pp. 14 ss.
[xiv] L’affermazione è chiaramente generica e non corroborata da percentuali nella presentazione dei ricorsi da parte di privati o delle amministrazioni pubbliche. Ciò nonostante, pare evidente come, nel processo amministrativo, la ripartizione dei ruoli attribuisca generalmente al privato la parte di ricorrente ed alla amministrazione quella di resistente. Tuttavia, oggi è pacificamente condiviso che le stesse amministrazioni possano legittimamente presentare ricorso: per tutti, M. Delsignore, L’amministrazione ricorrente, Torino, Giappichelli, 2020.
[xv] Infatti, TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 7 gennaio 2022, n. 16, afferma che: «Anche nelle trattative per la formazione di accordi ex art. 11, l. n. 241/1990, in cui rientrano pacificamente le convenzioni urbanistiche, è configurabile una responsabilità precontrattuale dell'Amministrazione allorché essa, con il proprio complessivo comportamento colpevole, leda l’affidamento in buona fede del privato in merito alla legittimità ed operatività dei provvedimenti preordinati alla conclusione dell’accordo medesimo, indipendentemente dal profilo della legittimità o meno dell'esercizio del potere autoritativo di autotutela».
[xvi] Tanto è vero che il giudice amministrativo presta attenzione a questa eventualità. Si v., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2024, n. 9014, secondo cui in materia di convenzioni urbanistiche, in presenza di circostanze sopravvenute rilevanti, il privato può chiedere al Comune di rinegoziare i contenuti della convezione, in applicazione del principio di buona fede e correttezza ex art. 1375 c.c., in forza del rinvio contenuto dell’art. 11, l. n. 241/1990 ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti; inoltre, avendo il privato una posizione qualificata e differenziata in quanto parte dell’accordo, in presenza di un’istanza di riesame dei contenuti della convenzione, motivata in ragione di circostanze sopravvenute, è ben possibile configurare un obbligo di provvedere, ai sensi dell’art. 2, l. n. 241/1990, in capo alla controparte pubblica, che non necessariamente sarà tenuta ad assicurare il bene della vita cui aspira la parte privata, ma che dovrà, in ogni caso, istruire l’istanza e motivare le proprie determinazioni nel rispetto del canone generale di ragionevolezza e di proporzionalità.
[xvii] È quanto posto in evidenza, in ultimo, da Cons. Stato, sez. IV, 20 giugno 2024, n. 5514, il quale riconosce il diritto al risarcimento danni commisurato all’interesse negativo (spese sostenute) a favore del privato nel momento in cui l’amministrazione decida legittimamente di adottare una variante urbanistica che rivede i termini della convenzione urbanistica.
[xviii] L’affermazione secondo cui una parte può legittimamente non accogliere le proposte di modifica alla convenzione avanzata dall’altro soggetto non è così banale come potrebbe prima facie apparire se la si considera dal punto di vista della già sopra citata pronuncia Cons. Stato n. 9014/2024: se la richiesta della modifica è proposta dal privato, l’amministrazione dovrebbe quantomeno valutarla secondo buona fede, pur non essendo chiaramente obbligata ad accoglierla.
[xix] Sul concetto di perdita di chance, di matrice chiaramente civilistica, nell’ambito del diritto amministrativo, tra gli studi più recenti si segnalano i contributi di A. Magliari, Il risarcimento del danno da perdita di “chance” tra insuperabile certezza cognitiva e definitiva preclusione del risultato finale, in Dir. proc. amm., 2022, n. 4, 936 ss.; L. Viola, Il danno da perdita di “chances” a vent’anni da Cass. n. 500/1999, in Urb. app., 2020, n. 2, pp. 182 ss.; F. Cortese, Evidenza pubblica, potere amministrativo e risarcimento del danno da perdita di chance, in Giorn. dir. amm., 2007, n. 2, pp. 183 ss.; A. Travi, In tema di risarcimento del danno da perdita di “chance” per annullamento di una gara, in Il Foro it., 2015, n. 9, pp. 441 ss.; M.C. Cavallaro, Risarcimento del danno da perdita di chance, in Studium iuris, 2001, n. 5, pp. 573 ss.; G. Serra, Tra danno e situazione giuridica soggettiva: osservazioni sulla perdita di chance nel diritto amministrativo, in Il dir. econ., 2023, n. 2, 11 ss. Per ulteriore bibliografia, molto estesa sul punto, per motivi di sintesi si rinvia ai contributi dottrinali appena citati.
[xx] La norma richiama appunto il risarcimento del danno costituito dal danno emergente e dal lucro cessante.
[xxi] Lo ricorda bene G. Serra, Tra danno e situazione giuridica soggettiva, cit., 13-14, quando osserva che la teoria eziologica della perdita di chance si basa su una perdita che non ha autonoma consistenza ma è presupposto causale per il raggiungimento del risultato sperato; diversamente, «la tesi ontologica qualifica la chance come bene autonomo rispetto al risultato perso, indicandola come possibilità attuale di raggiungere il risultato futuro, già presente nel patrimonio del danneggiato». Per maggiori approfondimenti bibliografici e giurisprudenziali al riguardo, si v. la nota 6 del lavoro.
[xxii] Cons. Stato, Ad. plen., n. 7/2021, punto n. 21 delle considerazioni in diritto.
Nella dottrina, sulla questione della probabilità si era già esposto L. Viola, Il danno da perdita di chance, in Il Foro amm., 2020, n. 3, 587 ss.
[xxiii] Si ricordi, infatti, come già scritto in fine del paragrafo 1, che la perdita di chance non fu riconosciuta per la mancata vendita del terreno su cui sarebbe dovuto sorgere il centro commerciale, perché la società si era obbligata alla realizzazione delle opere di urbanizzazione ed alla consegna del fondo in favore dell’acquirente in un momento anteriore rispetto al termine ultimo per Roma Capitale di eseguire la propria parte di lavori (in effetti mai realizzati).
[xxiv] Per una critica al criterio probabilistico, si v. le riflessioni di G. Serra, Tra danno e situazione giuridica soggettiva, cit., 14-15, dove l’A. evidenzia le criticità legate alla definizione della perdita di chance, troppo spesso costruita su una base di criteri eccessivamente empirici che non offrono garanzie in merito alla certezza del diritto.
[xxv] Il parallelo è proposto anche da A. Magliari, Il risarcimento del danno da perdita di “chance” tra insuperabile certezza cognitiva e definitiva preclusione del risultato finale, cit., 938.
[xxvi] Per un commento alla pronuncia, a fronte di copiosa letteratura, si rinvia ad alcuni degli studi più significativi. F.G. Scoca, Per un’amministrazione responsabile, in Giur. cost., 1999, n. 6, 4045 ss. e G. Cugurra, Risarcimento dell’interesse legittimo e riparto di giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2000, n. 1, 1 ss.; L. Torchia, La risarcibilità degli interessi legittimi: dalla foresta pietrificata al bosco di Birnam, in Giorn. dir. amm., 1999, n. 9, pp. 843 ss.; A. Travi, La giurisprudenza della Cassazione sul risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi dopo la sentenza delle sezioni unite 22 luglio 1999 , n. 500/SU, in Il Foro it., 2004, n. 3, pp. 794 ss.; F. Satta, La sentenza n. 500 del 1999: dagli interessi legittimi ai diritti fondamentali, in Giur. cost., 1999, n. 5, pp. 3233 ss.; G. Greco, Interesse legittimo e risarcimento dei danni: crollo di un pregiudizio sotto la pressione della normativa europea e dei contributi della dottrina, in Dir. pubbl. com., 1999, n. 5, pp. 1126 ss.; F. Fracchia, Dalla negoziazione della risarcibilità degli interessi legittimi alla risarcibilità di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema Corte lascia aperti alcuni interrogativi, in Il Foro it., 1999, n. 11, pp. 3212 ss. Pochi mesi prima della pronuncia, sul tema è fondamentale il rinvio allo studio di A. Romano, Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili, sono diritti soggettivi, in Dir. amm., 1999, n. 1, 1 ss.
[xxvii] In poche parole, è questo il senso delle riflessioni di G. Serra, Tra danno e situazione giuridica soggettiva, cit., 16-22, il quale individua la differenza tra risarcimento del danno per equivalente e risarcimento del danno da perdita di chance nel fatto che, nel primo caso, il bene della vita può essere oggettivamente accertato, mentre nel secondo caso tale accertamento sia impossibile: a quel punto, ha senso parlare di risarcimento da perdita di chance. Soprattutto, continua l’A., nel caso da perdita di chance per l’amministrazione non è possibile ripetere le sue valutazioni, il che rende appunto impossibile acclarare la spettanza al bene della vita. In termini sostanzialmente analoghi sull’impossibilità di accertare in modo oggettivo il risultato vantaggioso, anche Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2021, n. 6268.
[xxviii] Sull’impossibilità di avere delle certezze, si v. le riflessioni di A. Magliari, Il risarcimento del danno da perdita di “chance” tra insuperabile certezza cognitiva e definitiva preclusione del risultato finale, cit., passim.
[xxix] Si pensi, a titolo di semplice esempio, ad accurate indagini di mercato per individuare i costi al metro quadro di un certo terreno con una determinata destinazione.
[xxx] Si fa riferimento ai motivi elencati in fine del paragrafo n. 4.
[xxxi] Il richiamo è alla già citata Cons. Stato, n. 6268/2021. Per la descrizione analitica dei punti da esaminare per rendere concreta l’analisi della perdita di chance, si rinvia ancora una volta ad A. Magliari, Il risarcimento del danno da perdita di “chance” tra insuperabile certezza cognitiva e definitiva preclusione del risultato finale, cit., 949-951, sostanzialmente relativi all’insuperabile deficienza cognitiva del processo eziologico, all’estremo rigore con cui accertare il danno alla condotta altrui, al livello elevato delle probabilità perdute, alla mancanza di un effetto conformativo della sentenza che garantirebbe al privato una seconda possibilità.
[xxxii] A. Magliari, op. cit., 943-944, 951.
Mi sono a lungo interrogato sulla riforma della giustizia promossa dal governo, tanto che a luglio ho indetto io stesso un referendum tra i lettori, per vedere quanti condividevano il mio dilemma (il risultato, piuttosto sorprendente, è stato: non pochi). Da un lato avvertivo infatti l’esigenza di ridimensionare il ruolo strabordante acquisito dalla pubblica accusa negli ultimi trent’anni; dall’altro pensavo fosse necessario contrastare una tendenza non meno pericolosa presente nel governo, e cioè quel misto di giustizialismo per i nemici (modello Bibbiano), impunità per gli amici (modello Santanchè) e stato di polizia per i migranti (modello Salvini) che rappresenta la via italiana alla democrazia illiberale (modello Orbán) ed è una minaccia che non riguarda solo la giustizia, come dimostra il modo a dir poco spregiudicato in cui l’esecutivo è intervenuto sulle banche, a cominciare dalla scalata Mps-Mediobanca, o nell’occupazione della Rai e di ogni altro spazio occupabile. Devo però aggiungere che negli ultimi giorni, almeno per quanto mi riguarda, il dilemma è stato sciolto, direi definitivamente, dalle prese di posizione di Fratelli d’Italia e della Lega sul caso di Ilaria Salis. Il parlamento europeo si pronuncerà infatti sulla richiesta di revoca della sua immunità, avanzata dall’Ungheria, domani in commissione e il 7 ottobre in plenaria, e la destra italiana sembra determinata a votare a favore, cioè per riconsegnare l’eurodeputata di Avs alle carceri di Viktor Orbán, come hanno confermato Giovanni Donzelli dal palco della festa di Gioventù nazionale, tra gli applausi dei militanti, e Roberto Vannacci a Pontida, parlando con i giornalisti.
Al di là degli aspetti insieme inquietanti e ridicoli che hanno caratterizzato il caso sin dall’inizio, come l’idea che Salis abbia fisicamente aggredito due neonazisti ungheresi mandandoli in ospedale, o il fatto che rischiasse fino a ventiquattro anni per lesioni lievi, una cosa che in Italia si sarebbe risolta dal giudice di pace (serve altro per misurare il grado di asservimento della magistratura locale?), la vicenda è resa ancora più preoccupante, ed emblematica, dalla scelta di Donald Trump di designare i gruppi «Antifa» come terrorismo interno. Trattandosi non di una precisa organizzazione, ma di una sigla che qualunque movimento di sinistra può attribuirsi – o vedersi attribuire da altri – è evidente l’enormità e l’assoluta arbitrarietà della procedura, di fatto uno strumento per mettere in galera gli oppositori, che infatti Orbán si è affrettato a copiare, riconducendo alla stessa sigla anche l’eurodeputata di Avs, così da aggravare ulteriormente la sua posizione.
Il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha replicato di non credere, bontà sua, che Salis sia una «terrorista». In ogni caso, se la discussione sulla riforma della giustizia avvenisse tra persone in buona fede, la domanda che per primissimi gli elettori di centrodestra dovrebbero rivolgere ai partiti di governo sarebbe una sola: la giustizia ungherese corrisponde alla vostra idea di come dovrebbe funzionare la giustizia in un paese democratico? Se la risposta è no, ne consegue che i partiti del centrodestra non possono votare la revoca dell’immunità a Salis; se la risposta è sì, è evidente che i loro elettori, come chiunque non voglia vivere in una democrazia illiberale sul modello orbaniano, non potranno votare sì al referendum sulla riforma della giustizia.
Il presente articolo è già stato pubblicato il 22 settembre 2025 sul Linkiesta, e viene qui ripubblicato con il consenso dell’autore, che ringraziamo.Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.
Foto via Wikimedia Commons.
Pubblichiamo l'appello dei giuristi italiani che invoca il rispetto del diritto internazionale per la tutela dei diritti umani e la persecuzione dei crimini contro l'umanità, Giustizia Insieme è tra i firmatari.
***APPELLO GIURISTI per GAZA: rescoconto dell'organizzazione*** (1 ottobre 2025)
In allegato l’elenco aggiornato e definitivo delle adesioni all'iniziativa promossa fra il 22 settembre ed il 1 ottobre 2025, anche per eventuale ulteriore diffusione.
Si contano 3135 giuristi fra magistrati, avvocati, professori universitari e altri studiosi del diritto.
Scorrendo i tanti nomi, le diverse funzioni e la provenienza di chi ha aderito all'iniziativa, siamo confortati nel sapere, e grati di poter far sapere, che la tutela dei diritti fondamentali continua ad essere un impegno trasversale e condiviso.
Questa breve iniziativa naturalmente non esaurisce la necessità di continuare a custodire il patrimonio giuridico, prezioso e fragile, della tutela dei diritti umani attraverso gli strumenti del diritto internazionale pubblico e del diritto internazionale penale. Né quella di rendere riconoscibile e utile il nostro impegno come magistrati, anche attraverso le tante altre possibili forme che l'ANM ha individuato e saprà continuare ad individuare.
Grazie...
(e un ringraziamento speciale a Bianca Agostini, Sara Posa e Alessia Mussi: senza il loro aiuto non ce l'avremmo fatta)
Valeria Bolici, Marco Imperato
PS. Ci scusiamo se non tutti gli aderenti sono stati inclusi nella lista o se c’è ancora qualche errore refuso: la gestione delle adesioni è stata resa difficoltosa dalla travolgente risposta, e la abbiamo gestita come meglio potevamo.
APPELLO dei GIURISTI per GAZA
Di fronte alle notizie sulla violazione sistematica e protratta del diritto alla vita e degli altri diritti fondamentali della popolazione civile di Gaza, il silenzio ha smesso da tempo di essere un’opzione.
Come giuristi, sentiamo il dovere di ricordare che lo Stato italiano, per Costituzione e per legge, e con l’adesione a trattati e convenzioni, ha scelto la tutela dei diritti fondamentali e la persecuzione dei crimini internazionali.
Le ragioni di questa scelta sono tra l’altro compendiate nello Statuto della Corte Penale Internazionale, firmato a Roma nel 1998, sottoscritto da 125 Paesi, e ratificato con legge dello Stato nel 1999.
Vogliamo ricordare queste ragioni, unitamente ai rappresentanti dell’Avvocatura e dell’Università che vorranno aderire, leggendo ogni giorno - nelle aule d’udienza e in quelle universitarie - il preambolo allo Statuto della Corte Penale Internazionale, per testimoniare che le coscienze di chi ogni giorno contribuisce all’amministrazione della giustizia non sono indifferenti alle ingiustizie perpetrate nei confronti dei più deboli, e per fare appello a tutte le istituzioni perché si pretenda il rispetto del diritto e dei diritti fondamentali dei civili.
Questo il testo che vorremmo leggere ogni giorno pubblicamente nelle aule di udienza:
“Suicidi in carcere, un pesante fardello”. Così ha esordito il Ministro della giustizia, Carlo Nordio in Parlamento, rispondendo al question- time sempre alla stessa domanda, posta male per la verità, dato che nessuno degli interroganti ha incalzato il Ministro sulle questioni che stanno a monte dei suicidi e che ne costituiscono l’inesorabile matrice.
L’indirizzo politico espresso dal Governo (sicurezza collettiva e certezza della pena) ha in realtà prodotto una proliferazione di figure di reato anche per fatti “bagatellari” (di scarsa rilevanza criminale) con costanti violazioni del principio di proporzionalità (tra condotta illecita e sanzione) costantemente richiamato dalla Corte Costituzionale e sul quale è tornato “a bomba” l’Ufficio del Massimario della Cass. nella sua recente relazione n. 33/2025, esprimendo un parere critico sul cd. “Decreto Sicurezza” e censurando anche l’emanazione di dette norme penali, in assenza dei presupposti di “necessità e urgenza” previsti dalla Costituzione come specifici presupposti necessari dell’emanazione di norme per decreto.
Effetto precipuo di detto indirizzo politico è stato la ciclica presentazione di decisioni legislative ricadenti sul “sistema penale” in entrambe le sue componenti: sostanziale- comprensivo della fase esecutiva della pena- e processuale, con vari effetti infausti: 1- aumento delle figure di reato punite con la detenzione (il c.d. decreto “Rave”, i reati previsti dalle norme “anti immigrazione”, gli aggravamenti di pena previsti dal decreto cd. “Caivano”), 2- perdurante assenza di opportuna ponderazione tra il danno effettivamente minacciato dall’autore della singola condotta del caso di specie e quello previsto dalla norma astratta: ponderazione sulla base di dati statistici fondati sul campo, in quanto rivelatori di una effettiva reiterabilità di quel reato che dovrebbe essere alla base, per altro, proprio di un sistema penale cd. “law and order”).
In questa temperie, i detenuti rimangono spettri in cosante attesa di una risposta ad una domanda rivolta al Direttore dell’Istituto, al Magistrato di Sorveglianza, al Giudice dell’esecuzione o in attesa della conclusione di un procedimento avanti il Tribunale di sorveglianza (competente a decidere sull’applicazione di una misura alternativa alla pena detentiva). E resta sempre al fondo la domanda perché continuano a uccidersi o si autoledono dentro un sistema penitenziario destinato, invece, a garantirne il reinserimento sociale, come prevede espressamente l’ordinamento penitenziario (artt. 1. 13), preludio del fine rieducativo della pena sancito dall’art. 27 c.3 Costituzione.
Eppure dal 1931 al 2002 lo Stato ha mantenuto un costante impegno a garantire dette finalità, nonostante le emergenze del terrorismo degli “anni di piombo” 70/ 80 e delle stragi degli anni 90, e ciò fino agli anni 2000 (vedi decreto del presidente della repubblica del 30 giugno 2000, n. 230 con cui è stato emanato il regolamento d’esecuzione dell’ Ordinamento penitenziario regolato, con legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modifiche, tra cui la fondamentale L. n. 663/1986 (cd. legge Gozzini con cui sono state rimodulate le misure alternative alla pena detentiva.
Può dirsi che si profila una costante scelta del legislatore di mantenere la pena detentiva in carcere come extrema ratio, cui ricorrere, in caso di fallimento di forme alternative di esecuzione della pena inflitta dal giudice con la condanna conseguente al riconoscimento del reato e del suo autore.
Nella camera oscura della prognosi che compete al Magistrato di Sorveglianza o al Giudice della esecuzione, però, va considerato che l’osservazione della personalità del condannato dovrà avvenire sulla base della costante analisi dei dati raccolti dagli operatori del gruppo di osservazione (interno all’istituto) durante tutto il corso dell’esecuzione della pena (psicologi, psichiatri o altri medici specialisti come neurologi), al fine di ottenere un’ osservazione fondata della personalità del paziente, attraverso i dati raccolti. E Infine il decidente (Magistrato o Tribunale di Sorveglianza) dovrà esprimere una prognosi motivata sul possibile - o meno - mutamento della personalità del detenuto.
Specializzazione, motivazione e competenza costituiscono, perciò, gli elementi che devono concorrere nel fondare una prognosi positiva: essenziale per ottenere un qualunque beneficio che passo dopo passo valga a costruire un reinserimento sociale effettivo ed efficace di ogni individuo recluso in espiazione di pena.
Rimane essenziale, perciò, che il detenuto avverta il senso e il fine dell’attività di analisi che viene compiuta su di lui, come è di rilevanza vitale che gli operatori contribuiscano a stabilire una qualche connessione con il mondo esterno (con il mercato del lavoro o comunque con il settore di attività per la quale il paziente ha mostrato interesse o dimostrato una qualche esperienza già maturata).
L’attesa, il silenzio, l’indifferenza o peggio eventuali violenze subite all’interno dell’istituto costituiscono le peggiori incrinature della descritta attività di osservazione e del processo di reinserimento in atto.
E proprio l’assottigliarsi della speranza e la mancanza di certezze all’esterno del carcere, sono all’origine della perdita di identità e anche del significato della pena che si sta scontando, non soltanto la mancanza di uno spazio vitale sufficiente e che ne costituisce un’aggravante indiscutibile.
In Commissione Giustizia della Camera la Ministra della Giustizia Cartabia ha affermato: ” Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere” [il Dubbio 16/3/2021].
Non sembra di poter affermare che l’alluvionale produzione di nuove figure di reato punite con pena detentiva costituiscano -oggi- espressione dell’indirizzo politico dell’attuale governo e ci si chiede come alleggerire il “fardello” che reca sulle spalle la comunità tutta.
Ora che la “questione detenuti” è diventata di rilievo nazionale, c’è da sperare che la domanda per un posto di Magistrato di Sorveglianza non sia considerato più da fior di colleghi della Magistratura della cognizione come equivalente a “spezzarsi la carriera” perché un “ufficio di sine cure”.
Immagine: Josh Estey, Human rights, Indonesia 2009 via Wikimedia Commons.
Mettiamo a disposizione delle lettrici e dei lettori il nuovo fascicolo di Giustizia Insieme
Questioni attuali di diritto tributario tra normativa e giurisprudenza
a cura di Enrico Manzon e Giuseppe Melis, con i contributi di Milena Balsamo, Loredana Carpentieri, Laura Castaldi, Stefano Civardi, Paola Coppola, Andrea Giovanardi, Alessandro Giovannini, Graziella Glendi, Matteo Golisano, Alberto Marcheselli, Giuseppe Melis, Massimo Francesco Orzan, Andrea Penta, Francesco Pepe, Alessio Persiani, Roberto Succio, Edoardo Traversa.
Introduzione
di Enrico Manzon e Giuseppe Melis
Il diritto tributario italiano è, tradizionalmente, un perpetuum mobile.
Tuttavia, negli ultimi anni il moto si è accelerato sia sul versante normativo che, corrispondentemente, su quello giurisprudenziale. Il legislatore ha fatto delle scelte fortemente innovative che, alla verifica attuativa, hanno ricevuto risposte non sempre consonanti della giurisprudenza, in particolare di legittimità. Peraltro non mancano le novità sul versante del diritto unionale, de jure condito e de jure condendo.
Abbiamo individuato quattro “aree tematiche”, rispettivamente dedicate ai principi, alle leggi d’imposta, al processo ed al diritto dell’Unione europea. In questo quadro sistematico si è ritenuto opportuno ripubblicare alcuni contributi già comparsi in questa Rivista nei mesi scorsi.
Così organizzato, il fascicolo si prefigge dunque di rappresentare la temperie attuale, con particolare attenzione alle criticità che se ne evidenziano, costituendo una “guida” mirata alle questioni di maggior rilievo teorico ovvero pratico.
La maestria degli Autori dà lo spessore scientifico alla pubblicazione; per questo e per la loro generosità vogliamo manifestare la nostra profonda gratitudine.
Uno speciale ringraziamento va al dott. Matteo Golisano, che, con la consueta abilità, ha curato l’editing.
Tutti i fascicoli di Giustizia Insieme si possono leggere e scaricare gratuitamente a questo link: https://www.giustiziainsieme.it/it/fascicoli
Immagine: Benjamin Walter Spiers, Un pezzo della vecchia Londra, acquerello e matita su carta, 1890, collezione privata.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
