Sommario: 1. Il diritto della forza ed il ruolo della forza nel diritto – 2. Il discorso di Ugo Foscolo sui limiti della giustizia e la nascita degli Stati Nazione – 3. La visione del diritto come forza e la centralità della sovranità dello Stato – 4. S. Weil – 5. R. Bespaloff – 6. W. Benjamin – 7. G. Anders – 8. Conclusione in cui si dichiara un certo amore per l’ironia di Erasmo rispetto al nudo pur ammirevole realismo razionale di Machiavelli.
1. Il diritto della forza ed il ruolo della forza nel diritto
In una ormai ben nota e magistrale lezione su “Il Diritto della forza” (Lectio brevis tenuta all’Accademia dei Lincei in questa rassegna di dottrina la si trova allegata allo scritto in Risposta al Presidente Arzillo) Massimo Luciani pone una domanda che echeggia nella mente di molti in questi tempi di disfacimento dell’ordine giuridico internazionale con gli inevitabili riflessi che questo processo avrà anche sulla tenuta dei singoli Stati (proiettati verso un confronto geopolitico con dimensioni imperiali).
Tempi caotici come non pensavamo di tornare a vedere.
La domanda è questa: “se l’ordine del mondo degli uomini è ordine giuridico e se per la creazione dell’ordine giuridico occorre passare attraverso feroci delitti, quale mai pretesa regolatrice della violenza può elevare il diritto? Come può il diritto, che si vuole regolatore della violenza, esserne generato? Come può ciò che è fondato limitare e contenere ciò su cui apparentemente si fonda? Se la forza genera il diritto, se – dunque – la forza “ha” diritto nel senso che il diritto pare esserne creatura, come può darsi una forza del diritto agente al di sopra del diritto della forza?”
Il tema è affrontato da Luciani scontando l’analisi del processo di secolarizzazione descritto e studiato con profondità da M. Gauchet ne “Il disincanto del mondo”.
Quindi depurando metodologicamente la ricerca da possibili sedimenti giusnaturalistici.
Nota Luciani che i giuristi sono restii a porsi la domanda sul fondamento del diritto preferendo in fondo risolverla nella considerazione tranchant del brocardo ubi societas ibi ius, brocardo che più che rispondere alla domanda sul fondamento apre una serie di campi problematici che inducono chi si interroghi a traversare – alla ricerca della nozione di società – tutta intera la storia della teoria politica moderna o dell’antropologia novecentesca francese (al fondo della quale si incontrano le società del dono studiate da Marcel Mauss che, a ben vedere, appaiono sempre società governate dal diritto consuetudinario essendo quella di donare, nelle società primitiva, un’obbligazione consuetudinaria fondata sulla volontà di liberarsi di ogni eccedenza di beni materiali e di acquisire così potenza ed estimazione sociale).
Alla ricerca delle ragioni antropologiche del diritto Luciani menziona Plessner e la indubitabile nostalgia dell’uomo per la condizione inconsapevole dell’animale: il tutto umano “dolore per la naturalezza irraggiungibile degli altri esseri viventi”, i quali “esistono direttamente, senza sapere di se stessi e delle cose” e vede nell’uomo l’essere aperto, che sopravvive, in modo prometeico, in fondo un essere che ha bisogno di artificio per sopravvivere e, fra gli artifici prodotti, ha prodotto lo Stato con le sue caratteristiche di forza e di volontà istituzionalizzata.
La scissione – discutibile dice Luciani (e la sua notazione può essere ripresa con ragione) – fra natura ed artificio non è contestata in radice ma semplicemente rimossa nella considerazione che la vita sociale e giuridica – ed alla fine lo Stato che ne è il prodotto (in attesa di superamento probabilmente verso altre forme politiche) – non può non essere un artificio (per la distanza fra l’uomo e l’animale).
Anche nella prospettiva normativista il diritto – osserva acutamente Luciani – appare autofondato (e lontano da un radicamento naturale) ma sconta un rapporto con la fattualità nel limite dell’effettività delle norme; una fattualità che è niente altro che “una forza applicata con successo”.
I piani sui quali la questione del rapporto tra diritto e forza si pone sono tre: a) quello della generale fondazione del fenomeno giuridico; b) quello della specifica nascita e della tenuta del singolo ordinamento; c) quello della garanzia del rispetto dei precetti che il singolo ordinamento impone. Tutti e tre vengono ripercorsi evidenziando le aporie logiche alle quali portano le teoriche che hanno espunto la forza dall’elemento fondante il diritto e lo Stato (in favore di una fondazione divina o contrattuale), o hanno ricondotto a dinamiche diverse dalla forza la fondazione di singoli ordinamenti giuridici o il loro mantenimento.
Per Luciani sempre si danno nella concretezza storica ordinamenti che, espressione della volontà e degli interessi di uno o più gruppi dominanti e vincitori, godono del consenso di tutti coloro che ne fanno parte, ma sono imposti ai gruppi soccombenti con la forza del fatto. Non solo.
L’idea che gli Stati nascano e le costituzioni s’instaurino solo a mezzo di guerre o di rivoluzioni può considerarsi confermata dalla storia costituzionale solo a patto che di “rivoluzione” si assuma una nozione assai ampia: pur a limitarsi a due soli esempi, la nascita – per separazione – della Repubblica ceca e di quella slovacca, così come (lo prospettò già Santi Romano) la stessa nascita del Regno d’Italia non si spiegano facilmente con le categorie del momento rivoluzionario o della debellatio.
Con estrema coerenza Luciani conclude: “Va da sé che la posizione che ora ho descritto – e nella quale mi riconosco – è quella del positivismo giuridico, ove si postula una netta separazione fra diritto e morale, mentre va altrettanto da sé che sono logicamente possibili e sono in fatto sostenute altre posizioni, d’impronta sostanzialmente giusnaturalistica, che – invece – volentieri sovrappongono la morale al diritto” avanzando riserve sulla posizione di Radbruch.[1]
E sul diritto naturale – prendendo spunto da un passo di Benjamin – osserva sugli esiti nichilistici anche di esso “se … si ritiene che il positivismo giuridico alberghi un cuore nichilistico poiché qualunque fine, purché voluto dal nomoteta, gli è appropriato, nichilistico si deve ritenere anche il cuore del giusnaturalismo, poiché gli è appropriato qualunque mezzo, purché adatto al fine ritenuto conforme alla natura.”
Sul mantenimento dell’ordine e sul ruolo della forza c’è in Luciani una netta demarcazione fra violenza originaria e forza istituzionale stabilizzata in un ordinamento giuridico ove si scrive “la violenza, per quanto lo preceda, non può risultare in sé e per sé fondativa del diritto, perché nel momento stesso in cui si manifesta come potere essa è divenuta altro da sé, sta tutta dentro il diritto, non fuori”.
Il costituzionalismo poi non è risolto puramente nella forza: essendovi “trasferimento della forza (di tutta la forza) dagli individui alla società” si osserva che “quel trasferimento è appunto un negozio giuridico (“si nimirum unusquisque omnem, quam habet, potentiam in societate transferat, quae adeo summum naturae jus in omnia, hoc est, summum imperium sola retinebit” con parole di Spinoza). La forza costitutiva della società politica è pertanto forza, violenza, trasfigurata dal diritto. E la dimensione contrattualistica è qui recuperata anche se inscritta nel fondamento originario della forza del diritto.
Nella logica dell’ordinamento statuale – senza ancora le contemporanee garanzie costituzionali – ciò significa, in conformità ad un concezione relazione del potere che ha le sue radici nella celebre formula di Étienne de La Boétie della servitù volontaria, “munirsi di un minimo di consenso della moltitudine, senza il quale la sua forza fisica individuale, per quanto debordante, non varrebbe a nulla; prestare, dunque, un qualche pur ridottissimo ascolto alle esigenze dei subordinati”.
Ma la relazionalità del potere occulta la materialità delle strutture del potere che (è il caso del potere statuale), una volta costituitasi in quanto “condensazione” di un rapporto di forze (quello intercorrente, appunto, fra dominanti e dominati), prescinde largamente dalla soggettività degli attori e opera con un’oggettività che s’approssima a quella delle leggi naturali.
Nel nuovo mondo costituzionale che viene questa oggettività sta divenendo schiacciante.
“Gli … ordinamenti costituzionali particolari risultano a questo punto sorgere per l’effetto combinato della coazione esercitata dal gruppo dominante e del consenso che l’assiste: un consenso che è attivo nel gruppo dal fondo di ogni ordine politico-giuridico costituito dei dominanti ed è passivo in quello dei dominati, ma pur sempre consenso resta”, così conclude Luciani.
Guardando al fondo del diritto egli nota un cuore di tenebra, “un residuo di violenza” pronta a riesplodere in ogni momento, liberando dalle sue catene giuridico-positive il potere costituente per farlo riemergere dall’“abisso infinito e insondabile” in cui è relegato e dorme nelle fasi ordinarie di vita degli ordinamenti giuridici.
Si tratta di una prospettiva teorica (ampiamente condivisa, oggi, da una parte significativa della filosofia politica italiana), – egli dice – profondamente interrogante e dalla quale scaturiscono due conclusioni: a) che la pretesa regolatrice del diritto non sembra diversa da quella dominatrice della forza; b) che specificamente gli ordinamenti liberal-democratici appaiono incapaci di giustificare autonomamente il proprio fondamento.
Ma liquidata la possibilità di un ritorno della dimensione teologico-politica[2], e criticata la radice giusnaturalistica della posizione di Böckenförde, al centro dell’ordinamento campeggia – per Luciani – la pari dignità delle persone e quindi il principio di uguaglianza politica ed il principio democratico non la grammatica monadica dei diritti umani individuali, dovendo i diritti inviolabili dell’uomo fondarsi storicamente o perire.
Questo è l’hic Rhodus hic salta nel quale trova risposta la domanda iniziale.
Una sorta di chiamata alla responsabilità storica che ciascuno ha nella costruzione dell’ordine giuridico, senza fondamento precostituito né esiti garantiti.
Possiamo quindi partire da qui osservando che nel mondo che viene la forza ritorna e che tutta l’analisi brevemente ed assai sommariamente qui ripercorsa (a fronte della ricchezza delle fonti che la sostanzia) rivela la fragilità della costruzione costituzionale e – au fond – del diritto medesimo.
Come diviene possibile evitare che il diritto decada?
Naturalmente il compito è stato affidato nelle costituzioni di seconda generazione alle Corti costituzionali.
Ma essendo una chiamata collettiva quella che mi sembra sottesa allo scritto di Luciani occorre riconoscere un ruolo alla paideia – all’educazione democratica di cui discorreva John Dewey – e qui soccorre la letteratura e si incontra Ugo Foscolo, un poeta al quale molto deve la costruzione della nostra identità nazionale.
2. Il discorso di Ugo Foscolo sui limiti della giustizia e la nascita degli Stati Nazione
Nel giugno del 1809 Ugo Foscolo tenne a Pavia, in occasione del conferimento delle lauree in legge l’orazione “Sull’origine ed i limiti della giustizia”; pochi mesi dopo la sua cattedra di eloquenza fu soppressa ed egli non fu destinato ad altro incarico anche a causa “dei paradossi letterari e morali di cui ha sparso i discorsi recitati in solenni occasioni” (così si esprimeva il segretario Generale della Pubblica Istruzione).
Convinzione profonda del Foscolo è che la giustizia non è quella ideale delle scolastiche antiche ma che essa si dà solo insieme alla forza, attraverso la divisione ed il conflitto, nella dinamica della Vita più che dell’Idea.
La politica venendo prima delle astrazioni, il collettivo prima dell’individuale, la sostanza prima della forma.
Giustizia per Foscolo è il destino comune e tragicamente diviso dell’umanità.
Egli abbozza un realistico affresco dell’ingiustizia nella storia (navi negriere, servitù della gleba, le diverse forme del dominio, oggi potremmo aggiungere le sofisticate forme del dominio tecnico).
La giustizia si presenta sempre – nella storia – come giustizia ferita.
Natura ed artificio non possono disgiungersi esse si rivelano nel farsi della storia.
Natura è avidità universale, istinto di conservazione che anima ed eccita i particolari, che li spinge a contrapporsi ad altri e a riunirsi con alcuni, non in virtù di un contratto ma di concreti rapporti di interessi disuguali.
Un ordine storico perennemente conflittuale viene disegnato secondo la lectio che da Machiavelli attraverso Spinoza arriva al romanticismo europeo che ha – dopo la Restaurazione e nelle rivoluzioni del 1848 di cui Foscolo può dirsi un precursore – fondato lo Stato nazione europeo alla ricerca di un senso di giustizia come legato alla vita concreta di ciascun popolo ed al suo tentativo di venire a storica esistenza.
Un lascito storico che rischia di deperire a causa prima del globalismo ed ora del neo imperialismo.
Per questo motivo è interessante oggi rileggere il poeta.
Nell’incipit del discorso Foscolo mostra di non tenere in grande considerazione “le splendide ed infruttifere teorie della giustizia”, dichiara di volersi attenere alla “certezza del fatto” poiché in questo “viaggio oscurissimo della vita” a fare da lume è soprattutto “l’esperienza”.
Alla luce dell’esperienza Foscolo rileva che la giustizia si mostra nel mondo per una voce della filosofia metafisica che la innalza sul trono dei Numi, mentre nei fatti del genere umano si danno – nell’effettività – per suoi “coadiutori”… “la fortuna delle armi ed il calcolo dell’interesse”.
Nella più antica storia fondativa Caino uccide Abele, la legge è ferita al suo nascere e dopo quel duello fraterno gli uomini – si osserva “nacquero, vissero, morirono guerreggiando perpetuamente fra loro”.
In fondo Foscolo accetta l’argomento di Trasimaco e pensa con coerenza che “Auctoritas non veritas facit legem”.
Eppure non tutto si risolve nella violenza, nota Foscolo che nella guerra viene sempre preservato un principio di giustizia o di solidarietà: “quantunque due popoli guerreggiassero ingiustamente fra loro, ciascheduno de’ due popoli non poteva ad ogni modo non avere forza e concordia in se stesso se non in virtù di certe leggi più o meno ragionevoli, ma che aveano pur sempre la giustizia per unico fine”.
La giustizia regna tra cittadino e cittadino, tra governati e governo, tra capitano ed esercito ma è impotente fra uomo e uomo, principe e principe, fra popolo e popolo.
Il genere umano è un animale guerriero ma anche animale sociale.
La giustizia è possibile nelle società particolari dei popoli non nella società universale del genere umano.
La giustizia foscoliana è per forza infrastatuale ed è fenomeno storico che si rivela in ordinamenti particolari.
A conclusioni non diverse arriverà Rawls se si compara la sua “Teoria della Giustizia” con il lavoro su “Il diritto dei popoli”.
Il globalismo giuridico – alla luce di queste riflessioni – è stato un sogno, debole perché forse irenico, di realizzazione di una costituzione globale (Ferrajoli, “Per una Costituzione della Terra”) e di una giustizia internazionale che usa gli Stati come suoi strumenti.
La sua necessità deontica – dovuta alla necessità di adeguare gli spazi dei problemi contemporanei agli spazi della normazione andando oltre gli Stati – permane nonostante la profonda crisi in atto ma occorre prendere atto che la sua realizzazione non avverrà un percorso lineare.
È facile immaginare che l’odierna aspirazione ad una dimensione ultrastatuale della giustizia sarà frutto di un parto sofferto; come sofferta è la realizzazione della fraternità alla quale Giudo Alpa ha dedicato pagine significative nel suo libro “Solidarietà. Un principio normativo”.
La ragione di Stato ha permesso la sospensione della conflittualità (religiosa a quell’altezza di tempo) ma essa non tende – nota Foscolo – alla conservazione del genere umano ma alla conservazione di un determinato popolo.
Stabilito un diritto nell’ambito dell’esperienza di vita di un popolo, lo ius divinum si occupa della fondazione religiosa del potere, lo ius naturale del principio di autoconservazione del popolo, lo ius gentium dei patti del popolo con gli altri popoli, lo ius civile della libertà e della proprietà.
Tutte queste partizioni del diritto danno l’illusione che il debole sia protetto e che il forte debba usare del diritto e rinunciare alla forza e con ciò l’uomo non si avvede che la giustizia che egli invoca senza trovarla è spesso impossibile per effetto dell’opera incessante che la natura, basata sulla forza, ha sui costumi e così Foscolo nota che gli inglesi famosi per l’indipendenza dei giudici e dei tribunali hanno prosperato sulla schiavitù, gli asiatici mettono in condizione servile le donne, le figlie, le madri, in Russia ed in Svezia molti uomini sono servi della gleba di pochi patrizi.
Qui Foscolo afferma che è un funestissimo errore distinguere la natura dalla società (errore che ormai possiamo dire del contrattualismo politico che distingueva la società nello stato di natura e la società civile). Tutto quello che esiste è in natura e nulla esiste al di fuori della natura. Il diritto risiede nell’istinto della propria conservazione. La società si forma per effetto dell’esercizio di facoltà intermedie fra il sentire ed il ragionare. E è dominata dall’avidità universale. Le leggi sono “forgiate dall’industria e dalla spada” secondo le parole di Foscolo. Ogni legge è scritta dalla forza e mantenuta dalla forza. Non vi è equità se non quella che nasce dalla concordia degli interessi, dal timor della forza e dalla ragione di Stato.
L’uomo è abitatore di un piccolo canto della terra e confederato di una sola parte del genere umano. Solo in un ambito ristretto possono operare la compassione ed il pudore come virtù atte a temperare la forza.
La sublimità delle dottrine umanitarie sganciate dalle identità nazionali è apportatrice – secondo Foscolo – di sventure inenarrabili per il genere umano (qui la mente corre dall’orazione foscoliana alla Lettera sull’umanesimo di Heidegger).
In conclusione il diritto per Foscolo è forza, esso stabilisce istituzioni da mantenersi con la forza, queste sono radicate nei popoli e coincidono con il farsi degli Stati che fra loro concordano o si muovono guerra. La giustizia ed il diritto sono stabiliti solo all’interno della statualità (ordinamenti particolari li chiama Foscolo), processo che era ai primordi dell’Ottocento il motore della trasformazione.
Il preromanticismo di Foscolo prelude alle Rivoluzioni del 1848 ed al formarsi del progetto di Stato Nazione.
La crisi del global law evidente nella svolta americana riporta in qualche modo in auge tale visione originaria che ha accompagnato l’ascesa della borghesia capitalistica o ha altre direzioni di marcia?
3. La visione del diritto come forza e la centralità della sovranità dello Stato
Alla luce delle intuizioni potenti sulla natura del diritto del poeta ottocentesco possiamo chiederci cosa sta accadendo, come la forza agisce in questo momento nella storia forgiando il diritto.
Una prima forte tendenza è quella alla disintermediazione totale, ossia al superamento dello Stato come forma organizzativa della comunità umana.
Espressione di questa tendenza è il nuovo protagonismo di soggetti privati globali che tendono a porsi come soggetti in grado di sostituire attraverso l’uso delle tecnologie svariati servizi pubblici di tipo tradizionale (tra l’altro declinante per motivi fiscali).
Certamente si assiste per reazione ed a parziale copertura di questo processo sostanziale, ad un ritorno – di tipo ideologico – della Ragion di Stato come criterio ordinatore del caos (indotto dalla deregolazione) e ad un declino della Rule of Law globalista – disarticolata e mite – che ha iniziato a soffrire per i suoi eccessi (caotici in assenza di uno Stato mondiale e di una Costituzione della Terra come pensata da Luigi Ferrajoli).
Ciò avviene all’interno di ordinamenti democratici nei quali il residuo di presenza della Ragion di Stato è stato tematizzato in modo insufficiente (con sua riemersione non sorvegliata e fonte di tensioni fra politica dei singoli Stati e giustizia anche interrnazionale).
Il costituzionalismo multilivello poi ha degli aspetti di insostenibilità sulla domanda di giustizia (ad es. la primazia delle carte sovranazionali diviene rischio di lentezza decisionale combinata con le regole della disapplicazione e del rinvio pregiudiziale in un quadro normativo europeo sempre più alluvionale) ed appare anche squilibrato se considera che nella dimensione internazionale grandi Paesi come gli Stati uniti non hanno aderito al modello di giustizia penale internazionale che le Nazioni Unite hanno tentato di far sviluppare.
Lo stesso concetto di legge svapora nel costituzionalismo multilivello per effetto dello stratificarsi delle fonti, non solo in senso temporale ma anche secondo la loro inerenza alla dimensione sovranazionale o nazionale, con conseguente prevalenza del criterio di competenza su quello di gerarchia nella soluzione delle antinomie normative e con una strutturale incertezza del diritto che comporta la prevalenza dei principi sulle regole (frammentarie ed incoerenti) per governare la complessità.
Foscolo – in quella conferenza adombrando la necessità dello Stato Nazione – criticava come illusione di conservazione del genere umano nella sua interezza al quale l’uomo non si rivela ancora pronto.
Ciò tende a mettere in crisi il modello di espansione del giudiziario sul quale si cercava di far camminare lo sviluppo di un ordinamento internazionale incentrato sui diritti umani.
Il mercato inoltre tende a segmentarsi nuovamente per l’irrompere di nuovi istinti protezionistici dovuti al sorgere di nuove aree geoeconomiche e geopolitiche nel pianeta che rischiano di soppiantare l’egemonia occidentale e per la stessa volontà di una parte dell’occidente (gli Stati Uniti) di risolvere la crisi della bilancia e del deficit e del debito accumulato negli anni mediante il prelievo di risorse dagli Stati verso i quali hanno fatto da garante.
In questa chiave attualmente il ritorno allo Stato appare possibile ma solo in una logica neo-imperiale, non certo all’interno di una costruzione sovranazionale incompleta come l’UE ove suonerebbe come fattore di ulteriore frammentazione.
“L’industria e la spada fanno le leggi” – dice Foscolo – e quindi occorrerà seguire la dinamica dei conflitti bellici e delle competizioni economiche per comprendere come la trama di regole otto-novecentesche delle quali usiamo, andrà a modificarsi.
Lo ius gentium per dirla con Foscolo – ossia il diritto che regola i patti fra i popoli – sarà il motore della trasformazione.
Ecco che appare quindi l’idea di Europa, come dimensione di una nuova statualità più ampia di quella – ormai angusta per fronteggiare i problemi del presente – meramente nazionale.
La sovranità a questo punto o sarà europea o non sarà.
Naturalmente ciò per ora si traduce in un progetto di politica di riarmo che avvenendo a livello nazionale rischia di ostacolare il processo e di non soddisfare nemmeno le esigenze della difesa collettiva.
E se può dirsi esistente una concordia sulla formula unità nella diversità è poi sulla sua concreta declinazione che si aprono problemi non di poco momento; del tutto vaga resta la prospettiva di quale Europa perseguire: Europa fatta da un gruppo ristretto di paesi fondatori o allargata ai paesi dell’Est, costruita sulle proprie radici ebraico-cristiane o su un concetto di laicità forte inclusivo degli immigrati, Europa federale o al più confederale o solamente intergovernativa e centrata sulla governance, Europa politica che ritorni all’intervento dello Stato nell’economia e ad una logica di campioni economici europei o nazionali o tecnocratica basata sul rafforzamento della logica di mercato e di interventi antitrust che potrebbero avere effetti ancora più sbilanciati e destabilizzanti nel quadro della nuova competizione fra aree del mondo a fronte dell’assenza di intervento dell’antitrust americano; Europa protestante o cattolica; nordica o slava o latina; continentale o insulare; atlantica o mediterranea; la discussione è aperta ma gli eventi si succedono rapidamente e soccorre la lezione di Paolo Grossi alla fine ex facto oritur ius.
Tanto è appasionante – anche inquietante – ed è tutto in divenire.
Non più lo ius civile al centro delle dinamiche di cambiamento ma lo ius gentium.
Con il relativo pericolo di caduta del personalismo della nostra Carta fondamentale: le tendenze demografiche del pianeta e le guerre in corso suonano drammatica svalutazione della vita umana.
Non le rivoluzioni ma i conflitti – basati sulla industria e sulla spada – per le risorse fra aree geo-economiche e geo-politiche plasmeranno gli ordinamenti futuri alla ricerca di un nuovo ordine del mondo e di nuovi equilibri.
Il costituzionalismo irenico ed il diritto mite sembrano al capolinea ma potrebbe trattarsi solo di una battuta temporanea di arresto in vista di necessarie correzioni; certo il costituzionalismo come processo storico rivela la sua dipendenza dall’ordine internazionale e con il mutare dell’ordine geopolitico mette a nudo la sua fragilità (occorrerà seguire il dipanarsi degli eventi).
Non è una buona notizia.
Ma è la realtà.
4. S. Weil
La forza è al centro della riflessione di Simone Weil che scrive l’”Iliade o il poema della forza” sostenendo che il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza.
Possiamo – di fronte alla regressione in atto – dire che non siamo più in tempi ulissiaci ma in tempi che impongono – come fece la Weil – di rileggere l’lliade.
La forza che sottomette è il fulcro del poema nel quale l’anima umana – dice la Weil – è continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza, “trascinata, accecata dalla forza di cui crede di disporre, piegata sotto la costrizione della forza che subisce.
Ed aggiunge: “coloro che avevano sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse oramai al passato hanno visto in questo poema un documento; coloro che, oggi come un tempo, sanno discernere la forza al centro di ogni vicenda umana, vi trovano il più bello, il più puro degli specchi”.
La forza fa di chiunque vi sia sottomesso una cosa fino alla trasformazione del corpo in cadavere.
Ma la Weil nota che la forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza.
Mentre molto più varia e sorprendente è la forza che non uccide, che sicuramente ucciderà, che forse ucciderà, che è soltanto “sospesa sull’essere che ad ogni momento può uccidere”.
Questa forza muta l’uomo in pietra. La forza cosifica. Trasforma l’uomo in pietra come Niobe lasciandolo vivo.
Trasforma il diritto costituzionale dall’interno diremmo noi oggi: prevede – sotto l’usbergo dello stato di emergenza e della minaccia bellica (che risuona foscamente in tutto “1984”) – che si possa pensare che i servizi segreti contino più delle diplomazie (vediamo i servizi segreti avviare trattative di pace) che la polizia sia invocata per il mantenimento dell’ordine ed il P.M sia marginalizzato a sostenerne le ragioni in giudizio (pure adombrandosi che possa superarsi la regola costituzionale per cui dispone della polizia giudiziaria), che gli Esecutivi prendano la scena fino a svuotare il classico equilibrio collegato alla divisione dei poteri, che si verifichino “sconfinamenti sistemici” dell’economico a detrimento del politico e del politico e dell’economico a detrimento del mondo culturale.
Passa poi la Weil ad analizzare la morte di Ettore e la scena della sventura di Priamo che induce alle lacrime anche Achille per arrivare a ricordare che peggiore – rispetto a quella del padre regale che ha perso il figlio – è la situazione di tanti che – per l’operare della forza – restando vivi ma a prezzo di diventare “un compromesso fra l’uomo ed il cadavere”, senza il privilegio del dolore ascoltato, della partecipazione umana, in una sorta di rassegnata passività.
È la condizione delle masse quando la forza si scatena sul pianeta.
In nessuna occasione – dice la Weil che ha voluto conoscere la condizione operaia sulla sua pelle – lo schiavo ha licenza di esprimere qualcosa, se non ciò che può compiacere il suo padrone.
Solo un sentimento è ammesso l’amore per il padrone. Lo schiavo perde la sua vita interiore. Solo quando balena la possibilità di mutare destino ne guadagna e ne ritrova un poco.
Tale è l’imperio della forza, potente come quello della natura. Mai come nell’Iliade è stata per la Weil espressa con altrettanta amarezza la miseria dell’uomo. Non per gli effetti della forza sul corpo ma per gli effetti della forza sull’anima.
La forza schiaccia taluni ed inebria gli altri. Chi non ha coraggio né forza non conta nulla in battaglia nulla nell’assemblea. Tutti tremano quando la forza si manifesta, così Agamennone umilia Achille ma poi piange a sua volta di fronte al rovescio di fortuna dovuto all’abbandono del campo da parte di Achille. Aiace umanissimo eroe di Cardarelli, nell’Iliade incute terrore ma ne è a sua volta attraversato.[3]
Tutti sono destinati a subire violenza e dove il pensiero non ha posto non ne hanno né la giustizia né la prudenza.
Ma il movimento paradossale della forza è nella sua natura germinativa: coloro che usano la forza non sospettano – dice la Weil – che le conseguenze dei loro atti li faranno piegare a loro volta.
Vanno al di là della forza perché ignorano che essa è limitata. E quindi si espongono alla sventura. Questo castigo di rigore geometrico è l’oggetto di meditazione dell’Iliade.
Ubris.
L’Occidente per la Weil ne ha perduto il senso.
L’idea di limite, di misura, di equilibrio (nel che consiste il diritto) noi pensiamo solo che siano doti del governo della tecnica, ma i Greci pensavano fossero virtù necessarie alla vita per evitarne eccessi e dannazioni.
Le vittorie sono cose destinate a passare. Il tutto si rivela niente.
La violenza schiaccia quelli che tocca ma i vincitori ed i vinti sono pari nella miseria.
Una costante dignità nella debolezza, un uso moderato della forza sono virtù più che umane dice la Weil.
La tentazione dell’eccesso è pressoché irresistibile.
Le parole ragionevoli nei tempi di odio cadono nel vuoto.
La necessità propria della guerra è terribile, tutt’altra da quella legata alle opere della pace.
La guerra appare allora un giuoco, ma viene un giorno in cui smette di esserlo e si incontra non la morte ma la sua presenza onnipervasiva; la morte come possibile.
Qui il diritto appare fondato sulla necessità di trattenere la società dall’onni-pervasività della morte diffusa dalla guerra.
Gli uomini non sopportano di avere come avvenire la morte. La debellatio del nemico lascia la strada ad una nuova aspirazione alla vita. Ma non tutti sentono questa forza che riporta alla vita: i soldati più forti sono forze cieche, materie inerti, al pari di inondazioni, venti e bestie feroci.
Il vero scopo delle guerre è la trasformazione delle anime: una proprietà di pietrificazione delle anime, scatenata nota la Weil – “dalla leggerezza di coloro che maneggiano senza rispetto gli uomini” fino a darci “un quadro uniforme di orrore”.
Nelle guerre si esalta l’amore, per lo sposo, per il figlio, e l’amicizia fra i combattenti ma si tratta di amori attraversati da dolori inenarrabili.
E la brutalità della guerra con la distruzione di città intere non sono fatti mascherati da nulla.
La subordinazione dell’anima alla materia spira nell’Iliade. Ed il pericolo di distruzione perennemente sospeso è la vera epopea dell’Occidente secondo la Weil di cui l’Odissea è solo un’eccellente imitazione.
Il pensiero della giustizia illumina il campo di battaglia senza mai intervenirvi e la forza appare nella sua fredda durezza ed il genio greco torna nello spirito cristiano narrato nel Vangelo con la storia della Passione (l’Iliade prefigurerebbe qui il cristianesimo).
La Weil conclude con una lezione di realismo che apre alla vita: è possibile amare ed essere giusti solo se si conosce l’impero della forza e si è capaci di non rispettarlo.
Occorre solo una cosa: la forza d’animo di non mentire e non mentirsi; mai commettere l’errore di pensarsi sottratti alla miseria umana.
Nulla è al riparo della sorte e proprio per questo mai si deve ammirare la forza, odiare il nemico, disprezzare chi è soggetto alla sventura.
5. R. Bespaloff
Sempre alle origini della tormentata storia della civilizzazione europea troviamo la lettura dell’Iliade della Bespaloff.
La filosofa e musicista ebrea ucraina (allora parte della Russia poi occupata dai nazisti e rifugiata in Francia) allieva di Lev Sestov.
Per lei l’Iliade è un poema della debolezza ed il suo vero eroe è Ettore figura che apre il saggio “Sull’Iliade”, composto per figure appunto in una galleria che si apre con Ettore.
Dipinto come un uomo, e principe fra gli uomini.
Un uomo consapevole del destino che lo attende (vorremmo che la classe dirigente europea fosse dotata di questa consapevolezza e non di una sorta di leggerezza simile a quella degli Dei che nell’Iliade manovrano gli umani senza subirne le conseguenze).
Eppure – secondo Bespaloff – Ettore non è un uomo del risentimento, ma nobile in ogni più intima fibra.
Ciò perché in lui – come è evidente nel rapporto con Andromaca – in lui il coraggio non si disgiunge mai – anche in guerra – dalla volontà di felicità.
L’Iliade come poema della debolezza coraggiosa e della contemplazione della verità della forza dispiegata, prefigurata certo dalla bellezza di Elena, dalla sua solitudine fra i troiani e dal suo portamento regale ma anche dagli eserciti in campo visti fra mare ed urbe, come schiere stupende di armi luccicanti, un attimo prima dello scontro dall’alto dei bastioni della città assediata, visti da Elena e Priamo insieme, dalla bellezza e dalla saggezza dunque, che ci fanno sentire la sublimità della pace un attimo prima della guerra.
Nel Polemos, nel dispiegarsi della forza si affaccia l’Eterno per la Bespaloff.
Questa dialettica paradossale dice molto al giurista sul rapporto fra caos ed ordine, sulle sue ragioni, sull’eterna alternanza dei regimi e dei Re.
La Bespaloff coglie anche la debolezza di Achille nel pasto notturno e nel pianto con Priamo, eroe vincitore che si rende conto che gli uomini e lui per primo – Achille il distruttore – vivono tutti nell’infelicità ed è questa la vera radice dell’uguaglianza.
E continua verso la fine notando: le crisi che sconvolgono l’individuo non alterano le costanti del divenire umano.
Solo vengono interpretate diversamente: Omero guarda alla guerra ed ai suoi effetti su tante figure poetiche e si interessa all’individuo fondando il mondo occidentale, mentre Tolstoj – letto dalla filosofa ucraina – narra della guerra come un movimento storico che coinvolge le masse e travolge gli individui facendo loro scoprire la bellezza dell’Uno (Pierre Bezuchov) così restituendo la storia europea ad Oriente.
“La storia – per Bespaloff – continua ad essere un’intricata sequenza di catastrofi e tregue, di questioni poste, risolte o eluse in via provvisoria.
Eppure l’uomo che ha provato lo sconforto dell’impotenza assoluta ed è sopravvissuto a questa esperienza non si rassegna a vivere come se nulla fosse accaduto.
Tenta di continuare ad usare le risorse supreme che gli ha rivelato la disperazione.
Cerca di integrare nella durata quella fugace intensità, di catturare nella ripetizione una spontaneità ingovernabile.”
Si tratta proprio di questo.
6. W. Benjamin
Un altro pensatore che ha avuto molto chiaro il rapporto fra diritto e forza è stato Walter Benjamin nel suo “Per la critica della violenza” (nelle einaudiane opere complete si trova nel volume I).
In breve: per Benjamin la violenza è elemento sempre connesso al diritto, pur dispiegarsi di mezzi violenti nella lotta darwiniana per la sopravvivenza che fa passare ciò che è adeguato a fini naturali come giuridicamente legittimo; ovvero puro strumento variamente giustificato per fini giusti nelle concezioni giusnaturalistiche (legate alla teorica della guerra giusta); ovvero violenza monopolizzata dall’ordine del diritto quando è la violenza di Stato con conseguente spoliazione della persona nel suo diritto a perseguire fini naturali di giustizia con la violenza; la violenza è sempre qualcosa che tende a porre (nella violenza rivoluzionaria) o a conservare il diritto (nell’attività di polizia come nella pena di morte).
Se la violenza non è potere che pone o conserva il diritto rinuncia da sé per Benjamin ad ogni validità.
La dinamica della violenza è costitutiva del diritto. Il diritto è costituito dalla violenza.
Ciò finisce – dice Benjamin – per porre il diritto in una luce equivoca.
Non solo la violenza partecipa alla problematicità del diritto ossia tenta di giustificarsi in documenti giuridici o burocratici (anche quando progetta la soluzione finale ci viene fatto di osservare) ma il diritto tutto intero finisce per apparire in una luce morale così equivoca che – dice Benjamin – ci si chiede “se alla fine per comporre interessi non possa farsi altro in definitiva che ricorrere alla violenza”.
Anche quando il diritto viene fondato pacificamente e consensualmente dopo un confitto composto dai soggetti che lo hanno vissuto, la violenza permane sottostante per tutti i casi di violazione del contratto su cui la pace si fonda.
Il diritto si risolve senza mediazione nella violenza; la violenza e la forza sono niente altro che il diritto nuovo che sta affrontando le doglie del parto.
La violenza pone il diritto lo crea ma la creazione del diritto non depone la violenza la trasforma in potere.
Alla fine non è la ragione che decide della giustizia dei fini e dei mezzi ma la violenza e la forza, anche quella democratica della maggioranza (e su questo si legga G. Zagrebelsky, “Principi e voti”, Torino 2005 ove si evidenzia la differenza fra il deliberare politico soggetto alla decisione anche immotivata del conteggio della maggioranza e la decisione giudiziaria legata all’etica dell’argomentazione).
Il populismo complica il quadro con il frequente ricorso al complottismo, alla delegittimazione dell’avversario, alla continua denuncia di brogli, all’uso della violenza per contestare i risultati elettorali, all’insulto continuativo: tutti fenomeni che segnano il tramonto della ragione comunicativa habermasiana travisata ed abbandonata tuttavia si badi bene anche dal politicamente corretto che vuole sanzionare amministrativamente o penalmente il linguaggio ritenuto non canonico.
La violenza mitica esemplare nel caso di Niobe o di Prometeo diviene violenza divina nell’apocalisse che tutto cancella travolgendo una intera società per rifondarla (nella concezione biblica).
7. G. Anders
Passiamo ora a Günther Anders (“Opinioni di un eretico”, Roma Napoli, 1991).
Anders è stato un ambientalista ante litteram ed ha sposato – dopo l’uso delle atomiche – una prospettiva radicalmente pacifista per la tabuizzazione della guerra (con gli argomenti usati anche da Einstein).
Hiroshima fu per lui una frattura nella storia umana.
Il giorno a partire dal quale l’umanità era divenuta in grado di autodistruggersi seguito dalla seconda bomba come lui disse “l’assolutamente inescusabile Nagasaki”.
Egli ci parla della nostra cecità davanti all’apocalisse – termine dvenuto stucchevole perché egli dice, usato da retorica pacifista – e dice l’immoralità o colpa che caratterizzano la condizione umana del nostro tempo non risiedono nella sensualità, nell’infedeltà e nemmeno nella disonestà o nella dissolutezza o nello sfruttamento ma nella mancanza di fantasia.
In un difetto di immaginazione.
La nostra percezione non è all’altezza di quel che produciamo.
Questo può perderci.
Il rimedio è lo stimolo alla fantasia.
L’uomo di oggi può causare mostruosi genocidi per mancanza di fantasia.
Siamo immersi nella tecnica che permette cose moralmente aberranti che noi compiamo da “colpevoli innocenti”.
Oggi – lui dice – l’industria non produce armi per le guerre ma guerre per le armi (l’offerta crea la domanda). Ha bisogno della guerra per dare uno sbocco ai suoi prodotti, la divisione del mondo in Stati – di dimensioni imperiali – rende il quadro davvero complesso. Le armi sono prodotti ideali perché devono essere sostituite dopo l’uso quindi le politiche di riarmo hanno effetti benefici sul PIL.
Quando si verificano fenomeni troppo grandi perché l’ordinaria mente umana possa afferrarli allora si entra nell’ambito del sovraliminale che induce solo mutismo.
Su questo silenzio fermiamoci.
Rivolgiamo il pensiero ai sopravvissuti al lancio delle atomiche proviamo ad immaginare l’orrore nei loro sogni e chiediamoci se non sia l’ora di tabuizzare in forme nuove la guerra – quella atomica di cui dovrebbe non potersi parlare mai.
Il ripudio della guerra e della violenza di cui all’art. 11 Cost. è riuscito solo in parte perché era proceduralmente eludibile da decisioni internazionali di segno diverso ossia ripudio non assoluto ma come legato solo alla guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali.
Il monopolio della forza è stato imbrigliato nell’ONU.
La sua crisi sarà volta a costruire un nuovo ordine – speriamo più avanzato e che nasca senza troppi dolorosi travagli – all’interno del quale dovrebbe trovare spazio la tabuizzazione delle armi atomiche.
8. Conclusione in cui si dichiara un certo amore per l’ironia di Erasmo rispetto al nudo pur ammirevole realismo razionale di Machiavelli
L’autore di questo scritto consiglia di continuare a leggere “L’Educazione del Principe cristiano” insieme al “Principe di Machiavelli”.
Erasmo l’autore dell’”Elogio della Follia”, era realista non certo utopista anche se era amico di Tommaso Moro.
La follia produce le guerre, che sono «origine e campo delle imprese più lodate», affidate non a caso a «parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli, indebitati e simile feccia umana», certamente non ai filosofi e ai cosiddetti sapienti, che se mettono mano agli affari di Stato combinano solo danni, e sono inabili anche alle più modeste funzioni della vita quotidiana. Per governare occorre invece ingannare il popolo, lusingarlo per acquisirne il favore, essere spinto da quella follia che è l'amore di sé, della fama e della gloria che ci fa abbandonare ogni timidezza e ci induce all'azione.
A guardar bene, la vita è una commedia dove ciascuno recita una sua parte, e non è bene strappare la maschera agli attori che stanno recitando: «tutta la vita non ha alcuna consistenza ma, tant'è, questa commedia non può essere rappresentata altrimenti», e il saggio che volesse mostrare l'autentica realtà delle cose farebbe la figura dell'insensato. L'uomo veramente prudente non deve «aspirare a una saggezza superiore alla propria sorte, ma fare buon viso all'andazzo generale e partecipare alle debolezze umane. Si dirà che questa è follia. Non lo negherò, purché si conceda che tale è la vita, la commedia della vita che stiamo recitando».
Erasmo accenna poi alle follie di diverse categorie di persone: i cacciatori, gli alchimisti, che sprecano tempo e denaro, e come loro i giocatori d'azzardo, mentre al contrario, coloro che propalano «miracoli e favolette di prodigi» hanno per scopo di «cavar quattrini, come usano principalmente preti e predicatori popolari». Ci sono poi i superstiziosi, quelli che recitano ogni giorno i salmi penitenziali, e quelli che attribuiscono a ciascun santo una particolare virtù protettrice. Del resto, questi vaneggiamenti sono autorizzati e alimentati dai sacerdoti, i quali «sanno che questa è una piccola fonte di guadagno che non finisce mai».
C'è poi la follia dei nobili, che si vantano dei loro antenati ma che non differiscono «dall'ultimo mozzo di stalla», quella dei commercianti, che benché esercitino «la più ignobile delle professioni e nella maniera più ignobile», si considerano gli uomini più importanti del mondo, come i grammatici, «sempre affamati, sempre ripugnanti», che «marciscono nel fetore e nella sozzura». I poeti credono di acquistare fama immortale, ma non fanno altro che «accarezzare le orecchie di qualunque babbeo con ciance e favolette da ridere». Ci sono poi gli scrittori, i più seri dei quali, mai soddisfatti dell'opera loro, perdono la salute e la vista senza compenso, mentre gli altri sanno che più scriveranno sciocchezze maggior successo avranno, come i plagiari, che si gloriano di una fama usurpata. Facendo la satira degli studiosi e degli scrittori, Erasmo giunge di fatto a burlarsi di se stesso, rivelando però in tal modo come sia difficile prendere completamente sul serio la sua Follia.
Tra gli eruditi, i giuristi formano migliaia di leggi «poco importa se a proposito o a sproposito» e poi ammucchiano cose su cose per rendere più difficili gli studi legali. I retori e i sofisti battagliano su «questioni di lana caprina» e si azzuffano su qualsiasi argomento «armati di tre sillogismi». I filosofi poi, benché non sappiano nulla, fanno professione di sapere tutto e «van gridando dovunque che essi vedono le idee, gli universali, le forme separate, la materia prima, le quiddità e le ecceità».
Stupenda lezione di ironia e di senso del limite, fatta da un uomo mite e non violento, animato da una profonda fede, vissuto nei torbidi del mundus furiosus.
Non smettiamo di leggerla, dalla vita interiore si ricostruirà, attraverso il dolore, il mondo ordinato che non abbiamo saputo conservare.
[1] Su Radbruch si osserva: “l’ordinamento “indegno” impiega – per quanto a fini osceni – esattamente lo stesso strumentario giuridico degli ordinamenti “degni” (e dunque non se ne differenzia per profili formali). Lo è perché l’interferenza di valutazioni morali nell’operazione di qualificazione giuridica di un ordinamento si presta agli abusi più discutibili (l’accusa di indegnità potrebbe essere rivolta da un pensiero totalitario o fondamentalista agli ordinamenti liberal-democratici con la medesima convinzione con cui Radbruch scagliò il proprio anàtema contro il nazismo)”.
[2] Anche nel fine dialogo intrattenuto con il Presidente Arzillo.
[3] Sempre obliasti, Ajace Telamonio,
ogni prudenza in guerra, ogni preghiera.
Mai non pensasti ad invocar l'aiuto
d'una benigna Dea
che ingigantir potesse le tue forze
o sottrarti sollecita al nemico.
Non avevi una madre
da impietosir l'Olimpo al tuo destino,
discretissimo eroe.
E a te non fu dato
compiere imprese stupende e gratuite,
atterrar Marte od Ettore,
o d'Afrodite il mignolo ferire,
bensì il combattimento orrido, immane,
fra soverchianti avversari,
in giorni che non s'ama ricordare.
Ogni volte che Giove era crucciato
contro gli Achei,
a te scendere in campo,
degna prole di Sisifo,
rampollo di Titani.
Quando Marte furioso conduceva
le falangi troiane
ad incendiar le navi,
tu le salvasti e Teucro.
Eri la gran riserva
nel pericolo estremo,
la resistenza, il muro, la fortezza.
Ti accoglieva ogni sera
la disadorna tenda
senza profumi
nè amorose schiave.
Là, presso il mare,
dormivi un sonno animalmente duro.
Primo fra i tuoi,
fra quanti eroi convennero sotto Ilio
non secondo a nessuno.
Ma veramente solo
ed unico tu fosti
nella sventura.
Nessun Dio ti protesse,
niuna gloria t'arrise incontrastata,
ti fu solo di scorta il tuo valore,
o fante antico.
E i Greci ti negarono quel premio
a cui tu ambivi:
l'armi d'Achille. Un maestro d'inganni
te le strappò. Ma in mare
costui le perse. E il flutto pietoso,
il mutevole flutto, più sagace
dell'umano giudizio, più costante
della fortuna,
sul tuo tumulo alfine le depose.
Pace all'anima tua
infera, Ajace.
Immagine: Pietro Liberi, Allegoria della Forza prigioniera, olio su tela, XVII secolo, Pinacoteca Egidio Martini, Venezia.