ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Gli elementi costitutivi della condotta associativa del reato di cui all’art. 416-bis c.p.
di Giovanni Ariolli
Sommario: 1. Premessa – 2. L’associazione mafiosa e i sodalizi di nuova emersione – 3. Il fenomeno dell’insorgenza di gruppi concorrenti o a soggettività differente – 4. La condotta di partecipazione – 5. Conclusioni.
1. Premessa.
È noto che la fattispecie associativa delineata dall'art. 416-bis c.p. è stata introdotta, nel sistema dei reati associativi, dalla legge Rognoni-La Torre n. 646 del 1982 per colmare quello che appariva essere un deficit di criminalizzazione di realtà più "complesse" delle ordinarie associazioni criminali, in quanto storicamente dedite alla sopraffazione di un determinato territorio per il conseguimento di obiettivi di potere e di utilità economica[1].
Alla base dell’intervento normativo vi è stata anche l’esigenza, diffusamente avvertita nella società civile, di evidenziare il particolare disvalore della criminalità mafiosa, quale fenomeno socialmente dannoso a diversi livelli, tanto che in dottrina si è subito evidenziata l’attitudine plurioffensiva della fattispecie, capace di minacciare “oltre l’ordine democratico e l’ordine pubblico, anche le condizioni che assicurano la libertà di mercato e di iniziativa economica”[2].
Il tutto al fine di contrastare quella che è stata definita “una ricerca di dominio e di conquista illegale e violenta di spazi di potere reale” da parte delle associazioni di stampo mafioso, il cui operare, col tempo, si è andato affinando, con il ricorso all’uso di meccanismi sofisticati, ma non per questo meno dannosi e pericolosi[3].
È un dato incontestato, infatti, che le mafie tendono all’arricchimento non soltanto mediante atti strettamente delittuosi (estorsioni, usura, traffico di stupefacenti, ecc.), ma anche attraverso il reimpiego del denaro “sporco” in attività economico-produttive formalmente lecite, servendosi di imprese legate a doppio filo alla criminalità organizzata ovvero di imprenditori collusi che si prestano a riciclare denaro tramite reati tributari, ottenendo significativi vantaggi fiscali che altro non sono se non vere e proprie evasioni.
Il volto imprenditoriale della nuova mafia ha indotto le mafie “storiche” ad espandere la propria area di influenza anche al di fuori dei territori di riferimento, sino a spingersi in altre Regioni d’Italia e financo in altri Stati.
L’attività di penetrazione e di controllo di settori sempre più vasti dell’economia attraverso la commissione di delitti cd. lucro genetici rivela il volto nuovo delle associazioni di stampo mafioso, ormai lontane dalla realizzazione di quei reati a ristretta oggettività giuridica attraverso cui l’organizzazione ha pure conseguito la fama criminale[4].
L’efficace opera di repressione svolta dalla magistratura e dalle forze dell’ordine ha poi determinato la comparsa, in territori storicamente caratterizzati dalla presenza di consessi mafiosi tradizionali, di nuove realtà criminali che, avvalendosi anche del contributo di chi in quei sodalizi abbia rivestito ruoli primari, tendono a ripeterne le gesta, perseguendo gli stessi obiettivi di illecito arricchimento.
Sempre più insistente, poi, è la presenza di organizzazioni straniere, anche con spiccata vocazione a intessere proficue relazioni internazionali, che, in virtù dei collegamenti con le organizzazioni criminali del Paese di provenienza, risultano coinvolte in una serie variegata di reati (dal traffico di droga al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dall’intermediazione illecita nella mano d’opera allo sfruttamento della prostituzione, al traffico di armi e di rifiuti), tanto da creare anche delle sinergie con le mafie tradizionali.
Sino ad arrivare alla comparsa di nuovi sodalizi che si prefiggono sia di operare con la metodologia propria delle organizzazioni tradizionali sia di inquinare il tessuto economico-sociale mediante forme di pressione e di condizionamento sulle amministrazioni pubbliche per accaparrarsi appalti o lucrose commesse pubbliche.
Un mosaico variegato di presenze organizzate, dunque, che ha richiamato la dottrina e la giurisprudenza ad interrogarsi, per un verso, su come intendere i requisiti costitutivi del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. in presenza di associazioni differenti da quelle tradizionali e, per altro verso, a definire la condotta partecipativa, al fine di evitarne dilatazioni, distinguendola da quella del concorrente esterno ovvero da chi assume la veste di connivente (si pensi ai diversi rapporti che possono instaurarsi tra l’imprenditore e l’associazione criminale).
Con la presente relazione, senza pretese di esaustività, ci si soffermerà sui rapporti tra il delitto in esame e le nuove forme di manifestazione della criminalità organizzata, nonché sull’individuazione degli elementi identificativi della condotta punibile, tenendo conto dei temi di intervento affidati agli altri contributi al fine di evitare ridondanti sovrapposizioni.
Infine, a distanza ormai di oltre quarant’anni dall’introduzione della fattispecie in commento, si affronterà il tema, anch’esso dibattuto, della persistente idoneità, alla stregua dell’attuale formulazione, della fattispecie di associazione di stampo mafioso a reprimere una criminalità organizzata che non solo ha assunto veste transnazionale, ma persegue le finalità illecite di arricchimento attraverso metodiche differenti[5].
2. L’associazione mafiosa e i sodalizi di nuova emersione.
Come in premessa osservato, dalle forme “tradizionali” che caratterizzano le mafie classiche storicamente insediate al Sud Italia, si è nel tempo assistito alla comparsa di nuove realtà che nascono per filiazione da associazioni radicate in tali contesti territoriali (con cui mantengono un collegamento ovvero da cui poi si distaccano in virtù della rivendicazione di una propria autonomia), ovvero da associazioni localmente denominate che, pur non essendo riconducibili a quelle tradizionali, ne riproducono, in tutto o in parte, gli stessi schemi, fino ad arrivare a neo formazioni di tipo politico-affaristico-criminale che si propongono di esercitare forme di condizionamento della cosa pubblica al fine di conseguire appalti o commesse.
Il legislatore del 1982, chiamato a definire i connotati strutturali e finalistici della nuova fattispecie, non si è limitato a "registrare" realtà (talvolta secolari) già presenti, come la mafia, la 'ndrangheta, la camorra e la "Sacra corona unita", da tempo dotate di un nomen (localisticamente connotativo - particolare importante perché evocativo del sincretismo che normativamente caratterizza il binomio associazione mafiosa e territorio), con correlativi insediamenti, articolazioni periferiche, prestigio e "fama" criminale da "spendere" come arma di pressione nei confronti dei consociati, ma ha anche aperto un indefinito ambito operativo, per così dire "parallelo", destinato a perseguire tutte le altre aggregazioni, anche straniere, che, malgrado prive di un nomen e di una "storia" criminale, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni di tipo mafioso già note (significativa al riguardo è anche la successiva modifica della rubrica della fattispecie in «Associazioni di tipo mafioso anche straniere» a seguito del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. con modif. nella L. 24 luglio 2008, n. 125).
L'adattamento di tale fattispecie a manifestazioni dinamiche delle condotte associative che si sono espresse attraverso (a) la delocalizzazione delle mafie storiche fuori dai territori di origine, (b) la emersione di mafie nuove, (c) la diffusione di mafie a base etnica ha portato la giurisprudenza a diversi processi di rielaborazione che, tuttavia, non devono condurre né nella dispersione della funzione di tutela anticipata che connota il reato associativo, né - di contro - ad attenuare il rigore probatorio nella dimostrazione del connotato essenziale degli aggregati mafiosi, ovvero la (pre)esistenza della forza di intimidazione.
Tuttavia, con riferimento alle finalità perseguite gli elementi tipizzanti le varie compagini criminali sono fra loro eterogenei, in quanto gli scopi possono essere i più vari. Essi, infatti, spaziano dalla tradizionale realizzazione di un programma criminale - tipico di tutte le associazioni per delinquere – che può comprendere delitti di diversa natura (estorsioni, usura, omicidi, ecc.) oppure essere volto alla realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti, all'impedimento o all'ostacolo del libero esercizio del diritto di voto o a procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali, ovvero financo allo svolgimento di attività in sé lecite, come l'acquisizione, in modo diretto o indiretto, della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici.
Una pluralità di finalità tanto ampie che mal si concilia con l'individuazione di un elemento specializzante che possa definire il concetto di "tipo mafioso".
Deve ritenersi, invece, che il nucleo della fattispecie incriminatrice si collochi nel terzo comma dell'art. 416-bis c.p., laddove il legislatore definisce, assieme, metodo e finalità dell'associazione mafiosa - in sostanza, quelle finalità che si qualificano tali solo se c'è uno specifico "metodo" che le alimenta - delineando in tal modo un reato associativo non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, a gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione che presenti quelle caratteristiche di metodo e fini, indipendentemente dal loci ove detti sodalizi risultano costituiti e operare.
Per questo le organizzazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo storico dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, in quanto per esse "non basta la parola" (il nomen di mafia, camorra, ‘ndrangheta, ecc.); ed è evidente, che, in questa opera di ricostruzione, occorrerà porre particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma mette in luce un problema di assimilazione normativa alle mafie storiche che rende necessaria un'attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto "simmetrie" fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane diverse fra loro.
Il fulcro del processo d'"identificazione" non potrà, dunque, fare riferimento che sul paradigma del metodo: è di tipo mafioso - puntualizza, infatti, l'art. 416-bis c.p. - l'associazione i cui partecipanti "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e dell'assoggettamento e di omertà che ne deriva".
Il metodo mafioso, così come descritto dal terzo comma dell'art. 416-bis c.p., colloca la fattispecie all'interno di una classe di reati associativi che, parte della dottrina, definisce "a struttura mista", in contrapposizione a quelli "puri", il cui modello sarebbe rappresentato dalla "generica" associazione per delinquere di cui all'art. 416 c.p.
La differenza consisterebbe proprio in quell'elemento "aggiuntivo" rappresentato dal metodo, ma con effetti strutturali di significativa evidenza. La circostanza, infatti, che l'associazione mafiosa sia composta da soggetti che "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva" parrebbe denotare - come l'uso dell'indicativo presente evoca - che la fattispecie incriminatrice richieda per la sua integrazione un dato di "effettività": nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di "possedere in concreto" quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso.
Il metodo mafioso, in questa prospettiva, assumerebbe connotazioni di pregnanza "oggettiva", tali da qualificare non soltanto il "modo d'essere" della associazione (l'affectio societatis si radicherebbe attorno ad un programma non circoscritto ai fini ma coinvolgente anche il metodo), ma anche il suo "modo di esprimersi" in un determinato contesto storico e ambientale.
Forza di intimidazione, vincolo di assoggettamento ed omertà rappresentano, dunque, secondo questa impostazione, strumento ed effetto tipizzanti, in quanto concretamente utilizzati attraverso un "metodo" che, per esser tale, richiede una perdurante efficacia, anche, per così dire "di esibizione", pur se priva di connotati eclatanti. Si tratta, in altre parole, di una carica intimidatoria, spesso identificata come “fama criminale”, che rappresenta una sorta di “avviamento” grazie al quale l’organizzazione mafiosa proietta le sue attività nel futuro[6].
D'altra parte, anche in giurisprudenza si sottolinea come, in tema di associazione di tipo mafioso, sussiste il reato previsto dall'art. 416-bis c.p. in caso di costituzione di una nuova struttura, operante in un'area geografica diversa dal territorio di origine dell'organizzazione di derivazione, che sprigioni, nel nuovo contesto, una forza intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile.
Principio, questo, affermato in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che, correttamente, il giudice di merito aveva qualificato come mafiosa un'articolazione della 'ndrangheta operante in Piemonte per l'utilizzo di metodi evocativi della capacità di assoggettamento di tale organizzazione, non attribuendo rilievo al fatto che non era stato replicato, nel territorio di espansione, il peculiare modello di insediamento della stessa[7].
Per altro verso, la Corte di legittimità non ha mancato di osservare che il reato previsto dall'art. 416-bis c.p. è configurabile non solo in relazione alle mafie cosiddette "tradizionali", consistenti in grandi associazioni ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti e in grado di assicurare l'assoggettamento e l'omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma anche con riguardo alle c.d. "mafie atipiche", costituite da piccole organizzazioni con un basso numero di appartenenti, anche di etnia straniera, non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività, avvalendosi del metodo "mafioso" da cui derivano assoggettamento ed omertà, senza, peraltro, che sia necessaria la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento[8].
Nel solco tracciato da tale giurisprudenza, con riferimento alle "mafie straniere", si è così affermata l’esistenza del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. allorché, pur senza avere il controllo di tutti coloro che lavorano o vivono in un determinato territorio, il sodalizio ha la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone appartenenti ad una determinata comunità, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo per realizzare la condizione di soggezione ed omertà delle vittime[9].
La presenza, seppur necessariamente adattata alla realtà dimensionale, di una caratura "oggettiva" del metodo mafioso vale anche a consegnare alla fattispecie un coefficiente di offensività tale da giustificare, sul piano della proporzionalità, il rigoroso editto sanzionatorio, anche in linea con i più recenti approdi della Corte costituzionale, particolarmente attenta a scrutinare tale profilo della pena, superando qualsiasi preclusione derivante dalla tesi del tertium comparationis e delle cosiddette "rime obbligate" (v. da ultimo le sentenze Corte cost., n. 236 del 2016; n. 40 del 2019 e, in tema di sanzioni "punitive", la sentenza n. 112 del 2019).
È proprio il metodo di cui l'associazione - per tipizzarsi - deve "avvalersi" a convincere del fatto che l'intimidazione e l'assoggettamento omertoso che ne devono derivare rappresentano, in sé, un "fatto" che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori "danni" scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine.
È un fatto che l'associazione mafiosa costituisca un pericolo per l'ordine pubblico, l'ordine economico, quello sociale e quant'altro possa entrare nel programma del sodalizio, ma ciò non toglie che il relativo metodo – per integrare la fattispecie incriminatrice - allorché attenga a struttura autonoma ed originale, caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, debba andare al di là di una mera dichiarazione di intenti, altrimenti rischiando di far sconfinare il "tipo" normativo in connotazioni meramente soggettivistiche, sulla falsariga di modelli di "tipo d'autore", ormai preclusi al sistema[10].
In sostanza, l'associazione mafiosa è "strutturalmente" aperta: chiunque dia vita o partecipi ad un sodalizio che persegua quei fini con quel metodo, è chiamato a rispondere del reato, a prescindere dal nomen, dal territorio e dagli eventuali delitti specifici riferibili a quel sodalizio.
Non è la "mafiosità" del singolo o dei singoli a qualificare, in sé, l'associazione, ma è il "modo di essere e di fare" che individua il tratto che rende quella associazione "speciale" rispetto alla comune associazione per delinquere e che rappresenta il coefficiente di disvalore aggiunto che giustifica - anche sul piano costituzionale - l'assai più grave trattamento sanzionatorio. Insomma, per come recentemente affermato dalle Sezioni unite Modaffari, un’associazione “che delinque” e non “per delinquere”.
Il problema è peraltro quello di stabilire, in concreto, quale sia la portata da annettere al "metodo mafioso", dal momento che l'estrema varietà degli approcci definitori scaturiti tanto da parte della dottrina che della giurisprudenza mette a fuoco il rischio che si corre nel definire in chiave giuridica nozioni, categorie e fenomeni che presentano connotazioni storico sociologiche, anch'esse non poco variegate.
Il che, ovviamente, ha lasciato spazio a quelle voci che hanno stigmatizzato la formulazione del reato di cui all'art. 416-bis c.p., in quanto descritto attraverso enunciati normativi asseritamente non del tutto satisfattivi dei principi di determinatezza e precisione delle fattispecie incriminatrici.
È noto, a questo riguardo, come il principio di riserva di legge, che la dottrina qualifica come "tendenzialmente assoluta", sia consuetamente declinato secondo tre distinte, ma complementari, direttrici.
Anzitutto il principio di precisione, in virtù del quale le norme penali devono assumere la veste formale più chiara possibile, al fine di evitare interpretazioni creative e consentire a chiunque di prevedere le conseguenze delle proprie condotte (evidenti i riverberi sul versante della colpevolezza). La giurisprudenza costituzionale, come è noto, ha al riguardo costantemente ritenuto che l'esigenza di precisione nella descrizione della fattispecie, che scaturisce dall'art. 25, comma 2, Cost., «non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa (Corte cost., sentenze n. 79 del 1982, n. 120 del 1963 e n. 27 del 1961), oppure riferirsi a concetti extra-giuridici diffusi (Corte cost., sentenze n. 42 del 1972 e n. 191 del 1970), ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica (Corte cost., sentenza n. 126 del 1971).
Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l'ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a "giustificare" l'inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell'incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta» (Corte cost., sentenze n. 302 e n. 5 del 2004; n. 172 del 2014; n. 278 del 2019).
Dunque, i profili definitori offerti a proposito del "metodo mafioso" vanno "estrapolati" sulla base del contesto normativo in cui gli stessi sono collocati, senza dover necessariamente attingere ai dati della "storia" e delle "esperienze" maturate alla luce delle manifestazioni offerte dalle mafie, per così dire, tradizionali.
Accanto a ciò, viene però talvolta anche evocato il principio di determinatezza, dal momento che, richiamandosi "atteggiamenti" genericamente riconducibili ad una platea indifferenziata di soggetti, il cui tratto comune sarebbe rappresentato da un mero connotato "soggettivo interiore" (stato di intimidazione, di assoggettamento e di omertà), sfuggirebbe alla possibilità di qualsiasi elemento empirico di "registrazione" e di prova. Dunque, in contrasto con il principio di determinatezza della fattispecie penale. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale ha puntualizzato che la valutazione del testo normativo «è da condurre con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall'altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali».
Infatti, come già precisato, a partire dalla sentenza Corte cost., n. 96 del 1981, «nella dizione dell'art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell'intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l'onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà» (v. la già richiamata sentenza Corte cost., n. 172 del 2014).
Ma anche sotto questo specifico versante, il dato normativo, ove si condivida la prospettiva "oggettivistica" e "materiale" di cui prima si è detto, sfugge alle censure di "fattispecie sociologicamente orientata" di cui, specie in passato, il reato di cui all'art. 416-bis c.p. è stato fatto segno, dal momento che quei profili lato sensu ambientali connessi al metodo mafioso, assumono i caratteri del "fatto", che deve formare oggetto, naturalmente, di prova adeguata.
E ciò tanto più vale proprio nei casi in cui non si parli delle associazioni mafiose "tradizionali", ma di realtà ambientalmente e, se si vuole, culturalmente diverse, e per le quali sono solo i "fatti", e non le "denominazioni", a contare davvero.
Non è un caso, d'altra parte, che proprio sul versante della prova della "mafiosità" di un'associazione, la Corte di legittimità abbia, in più occasioni, avuto modo di affermare che, in tema di rilevanza dei risultati di indagini storico-sociologiche ai fini della valutazione, in sede giudiziaria, dei fatti di criminalità di stampo mafioso, il giudice deve tener conto, con prudente apprezzamento e rigida osservanza del dovere di motivazione, anche dei predetti dati come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, caso per caso, l'effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime di esperienza senza che ciò, peraltro, lo esima dal dovere di ricerca delle prove indispensabili per l'accertamento della fattispecie concreta oggetto del giudizio.
L'esistenza di un "metodo" che produce determinati effetti, costituisce, dunque, ordinario oggetto di prova, non diversamente dall'esistenza del sodalizio e delle finalità che, attraverso quel metodo, lo stesso persegue.
A conclusioni non dissimili sembra possibile pervenire anche in merito all'ultimo corollario che solitamente si desume dal principio di legalità: vale a dire quello di tassatività della fattispecie, il cui fine, come è noto, è quello di precludere applicazioni analogiche della norma incriminatrice ai sensi dell'art. 14 delle preleggi, nonché degli artt. 1 e 199 c.p. e 25 Cost.
Sotto questo versante, si è osservato, sarebbero proprio i riferimenti di carattere sociologico, storico e culturale a permettere indebite "estensioni" alla fattispecie, in particolare sul versante delle associazioni non "tradizionali", dal momento che per queste ultime non potrebbe farsi appello proprio a quei dati di comune esperienza che possono trarsi dai metodi - di antica "sperimentazione" - praticati nei territori "occupati" da mafia, camorra o ‘ndrangheta.
Ancora una volta, infatti, è proprio facendo leva sulla lettura "oggettivistica" del dato normativo che è possibile scongiurare un simile epilogo.
È di tutta evidenza, infatti, che, se per raggiungere gli obiettivi descritti dall'art. 416-bis c.p., un'associazione "priva di storia" determina, in un certo alveo sociale e ambientale, un clima diffuso di intimidazione che genera uno stato di assoggettamento (con correlativa limitazione della sfera di autodeterminazione) e di omertà (qualcosa di cui non si deve parlare), non viene affatto in discorso un'applicazione "analogica" della fattispecie, ma una normale applicazione del "fatto" tipizzato.
Una diversa interpretazione creerebbe, d'altra parte, un'ingiustificata disparità di trattamento, giacché sarebbero assoggettate alla disciplina di maggior rigore solo le associazioni, per così dire, a "denominazione di origine controllata" e non quelle che perseguano gli stessi fini con gli stessi metodi e realizzino, per questa via, il medesimo coefficiente di maggior disvalore rispetto alla normale associazione per delinquere.
Il deficit di determinatezza della fattispecie è stato, peraltro, da parte di taluno traguardato nella prospettiva - all'apparenza non nitidamente scolpita nel testo normativo - qualitativa e quantitativa che l'intimidazione deve presentare per conseguire gli effetti dell'assoggettamento e di omertà, a loro volta utilizzati per il perseguimento dei fini dell'associazione.
L'evocazione, infatti, di paradigmi "generalizzati" di riferimento (intimidazione, assoggettamento, omertà sono chiaramente assunti come "fenomeni" meta individuali) assegna a tali elementi di fattispecie una dimensione chiaramente "collettiva", che esclude gli opposti estremi: da un lato, un effetto "totalizzante", di coazione che coinvolga l'intera popolazione di un determinato territorio; dall'altro, quello della "micro-entità" associativa, che opera in una prospettiva poco più che individuale.
Sul primo versante, non è senza significato la circostanza che la Corte di legittimità abbia anche di recente affermato che, ai fini della configurabilità dell'associazione per delinquere di tipo mafioso, il requisito della forza intimidatrice promanante dal sodalizio non può essere escluso per il sol fatto che la sua percezione all'esterno non è generalizzata nel territorio di riferimento, o che un singolo non si è piegato alla volontà dell'associazione o, addirittura, ne ignori l'esistenza[11].
A maggior ragione il discorso vale per le organizzazioni "non tradizionali", come si è affermato nei confronti dei clan Spada e Fasciani di Ostia nella già segnalate sentenze Sez. 5, n. 44156 del 2018 e Sez. 2, n. 10255 del 2019 (dep. 2020), nonché, di recente, a proposito del clan Casamonica (Sez. 2, n. 2159 del 24/11/2023, dep. 2024, Rv. 285908 – 02), ove il "metodo mafioso" va integralmente analizzato alla luce delle concrete emergenze e dello specifico atteggiarsi dell'associazione in un determinato ambito sociale e territoriale.
È evidente che, in questa cornice, non sarà l'atteggiamento del singolo a contare in sé e per sé, ma è la risposta "collettiva" a dimostrare che l'associazione ha raggiunto una capacità di intimidazione "condizionante" una generalità di soggetti, e che della stessa si avvale per il perseguimento degli obiettivi normativamente scolpiti dallo stesso art. 416-bis c.p.
"Assoggettamento" ed "omertà" rappresentano, dunque, gli "eventi" che devono scaturire dall'intimidazione: "fatti", quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale.
Deve pertanto in questo contesto condividersi l'assunto secondo il quale ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso con riguardo alle c.d. mafie non tradizionali è necessario che l'associazione abbia già conseguito, nell'ambiente in cui opera, un'effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non di minaccia, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio (cd. “fama criminale”).
Nella circostanza, la Suprema Corte ha correttamente puntualizzato che gli eventuali atti di violenza e minaccia realizzati da un'associazione di nuova formazione al fine di acquisire sul territorio la capacità di intimidazione, in quanto precedenti all'assoggettamento omertoso della popolazione e strumentali a strutturare il prestigio criminale del gruppo, sono atti esterni ed antecedenti rispetto alla configurazione del reato di cui all'art. 416-bis c.p.[12]
D'altra parte, si è pure affermato che la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l'incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, senza, peraltro, che sia necessaria la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento, potendo essere funzionale al controllo e alla sottomissione di determinate zone del territorio ovvero financo di un gruppo di persone ristretto in quanto facente capo ad una medesima comunità[13].
Forza intimidatrice, dunque, "a forma libera", dal momento che è proprio la complessità delle dinamiche sociali a richiedere una "flessibilità" delle tipologie espressive e delle forme d'intimidazione, le quali ben possono trascendere la vita e l'incolumità personale, per attingere direttamente alla "persona", con i suoi diritti inviolabili, anche relazionali, la quale viene ad essere coattivamente limitata nelle sue facoltà.
Nel solco dei principi sopra delineati, quanto alla mafie non tradizionali, lungi dal ricorrere a formule stereotipe o a connotazioni meta-giuridiche o meramente sociologiche, spetterà al giudice di merito scandagliare la dinamica associativa tanto da un punto di vista strutturale e di episodi ad essa riferibili, quanto sul versante diacronico, relativo all'evoluzione subita nel tempo dal clan che ne ha consentito la trasmigrazione di fattispecie giuridica: dalla semplice associazione per delinquere al raggiungimento di quel quid pluris che ne ha permesso l'inquadramento in quella di tipo mafioso.
E ciò attraverso puntuali riferimenti a proposito non soltanto degli specifici settori di intervento del sodalizio, ma anche dall'evolversi della metodologia attraverso la quale, nel corso del tempo, una determinata area territoriale ed ambientale ha finito per essere significativamente asservita agli scopi, parte direttamente illeciti, parte invece di tipo "imprenditoriale gestorio", perseguiti dall'originaria compagine così trasformatasi in associazione mafiosa.
Un’indagine, dunque, che richiede una motivazione che si presenti del tutto coerente e in linea con i presupposti giuridici alla cui stregua è stata ritenuta configurabile la figura dell'associazione di stampo mafioso, evitandosi "torsioni" applicative dell'istituto o letture "sociologica" del fenomeno[14].
3. Il fenomeno dell’insorgenza dei gruppi concorrenti o a soggettività differente.
Nell’ambito delle dinamiche che caratterizzano le associazioni criminali, la giurisprudenza si è trovata dinanzi al caso, differente da quello delle mafie cd. tradizionali o di nuova costituzione (tema affidato alle altre relazioni), di formazioni che sorgono sulle “ceneri” di precedenti sodalizi, vuoi perché disarticolati dall’azione repressiva svolta dalle forze di polizia e dalla magistratura, vuoi perché sconfitti nell’ambito dei conflitti di successione che involgono le aree territoriali di rispettiva insistenza, che, in forza di nuove e vecchie adesioni, riescono a controllare alcuni settori del tessuto economico-sociale in precedenza sottoposti a differente egemonia.
Si è al cospetto, pertanto, di un fenomeno differente da quello della nuova articolazione periferica (c.d. "locale") di un sodalizio mafioso radicato nell'area tradizionale di competenza che mantenga collegamenti con la casa "madre" ed il cui modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l'ordine pubblico[15].
E neppure ricorre il caso della neoformazione che si presenta quale struttura autonoma ed originale, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, giacché, rispetto ad essa, come in precedenza osservato, è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416-bis c.p., tra cui la manifestazione all'esterno del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento ed omertà nell'ambiente circostante[16].
È del tutto evidente come una siffatta autonomia (con tutto quel che ne consegue sul piano della analisi e della "effettività" del "metodo" e del clima di assoggettamento omertoso che ne deve scaturire) postuli uno iato tra vecchia e "nuova" aggregazione che deve porsi in termini, non soltanto strutturali, ma anche - e soprattutto - funzionali, nel senso che il sodalizio "locale" sia appunto - e "appaia" essere - entità scollegata da qualsiasi altra struttura configurabile alla stregua di "casa madre".
Dunque, può affermarsi come l'insorgenza di un nuovo "gruppo" finalisticamente e metodologicamente orientato al perseguimento di finalità mafiose ben possa "sfruttare" - volgendole a proprio vantaggio di sodalizio "neonato" - proprio la notorietà ed il conseguente assoggettamento omertoso derivante dalla attività - pregressa e perdurante - di gruppi mafiosi già occupanti in maniera stabilmente radicata il medesimo ambito territoriale.
D'altra parte, la continuità del quadro ambientale di riferimento si giova, sul piano ontologico, quante volte il nuovo sodalizio si ponga come "derivazione" storica di altra preesistente e notoria struttura, della quale finisce per costituire una sorta di "costola", dotata di vita e operatività proprie.
Al riguardo, la Corte di legittimità non ha mancato di sottolineare che la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici presenti sul territorio, può essere desunta da plurimi indicatori fattuali quali le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo, la disponibilità di armi, l'esercizio di una forza intimidatoria derivante dal vincolo associativo, nonché dal riconoscimento, da parte dell'associazione storicamente egemone, di una paritaria capacità criminosa al gruppo emergente[17].
Ma se tutto ciò è vero in un ambito di concorrenzialità territoriale in cui l'esprimersi del nuovo sodalizio operi, o possa operare, come elemento di "disturbo" per i clan tradizionali, è evidente che la "continuità" e compresenza mafiosa sia assai più agevolmente dimostrabile laddove la nuova realtà associativa sia controllata proprio da elementi che al vecchio gruppo egemone facevano notoriamente riferimento, e - soprattutto - da questo gruppo non sia stato in alcun modo "ostacolato" nei suoi iniziali propositi di dar vita ad una "propria" associazione, con un nomen distinto dai clan di più risalente "tradizione" pur insistenti nel territorio di causa.
Ebbene, in tale quadro di riferimento, il "manifestarsi" del “nuovo” gruppo si ammanta - per modalità, struttura, "notorietà" del contesto mafioso di provenienza, insistenza operativa sullo stesso territorio di pertinenza di quello stesso contesto, senza che ciò avesse ingenerato alcun tipo di frizione (dato, questo, anch'esso "evidente" nel territorio già oggetto di quell'assoggettamento omertoso) - di tutte le "prerogative" mafiose che già connotavano in passato l'attività di quegli stessi elementi.
Una fenomenologia, dunque, quella che viene qui in discorso, distinta dalla realtà diffusa delle c.d. "locali" di ‘ndrangheta, quanto da quella delle cosiddette "nuove mafie locali".
Nelle neoformazioni, infatti, è del tutto assente quella "assimilazione per rendita di posizione" o di utilizzo a propri fini dell'avviamento criminale ascrivibile ai consessi ivi insistenti, derivante dalla presenza sul territorio di associazioni nominativamente riconducibili al genus ed al paradigma di cui all'art. 416-bis c.p., nel cui alveo il "nuovo" gruppo si è formato e consolidato, condividendone gli scopi ed i metodi e realizzando la stessa tipologia di reati.
La "nuova" articolazione, infatti, non solo ripete le gesta notoriamente proprie delle associazioni di stampo mafioso da cui deriva, ma ha causalmente fruito, sotto il profilo rappresentativo, della traccia euristica genetica costituita dagli accertamenti giudiziari che hanno preceduto la sua formazione, della quale si è avvalsa non mediante meri propositi di carattere intimidatorio, ma esercitando in un'ottica di continuità in quel territorio la forza di intimidazione di tali conosciuti consessi organizzati, commettendo gli stessi delitti fine.
Insomma, una storia che si ripete, con analoghe metodologie e finalità ed anche comprimari (a quell'ambiente riferibili), che si è tradotta materialmente in atto[18].
Non si assiste, dunque, ad una novazione, bensì ad una successione a titolo particolare di un consesso che utilizza lo stesso metodo e persegue le medesime finalità criminali del precedente, nell'ambito di un pactum avente eguale natura - perfettamente riconducibile alla medesima societatis sceleris per modello e tipo - e destinato ad insistere in una realtà territoriale notoriamente già adusa a confrontarsi con realtà criminali di tal fatta.
E tanto più allorché la stretta continuità di tipo delinquenziale si lega poi ad una riscontrata operatività interna ed esterna del gruppo, che dà ragionevolmente conto della ricaduta del nomen sulla realtà circostante e del clima che ad essa ne consegue[19].
La costituzione di un gruppo formalmente nuovo all’interno di un territorio già controllato da cosche mafiose non vale, pertanto, ad escludere la configurabilità del reato, allorché il nuovo sodalizio riproduca struttura e finalità criminali del clan storico, realizzi la stessa tipologia di reati, sfruttando la notorietà del primo per mantenere lo stato di assoggettamento intimidatorio nella popolazione del territorio di pertinenza, in modo da far percepire una sorta di continuità tra le azioni del gruppo originario e le proprie.
Ad analoghe conclusioni è giunta di recente la Corte di legittimità allorché l’anello di congiunzione tra il vecchio gruppo e quello di nuova formazione sia costituito dalla presenza di soggetto che, risultando assente dal territorio di riferimento per un lungo arco temporale in quanto condannato per avere assunto ruoli apicali nel vecchio consesso mafioso, sia stato poi scarcerato, riprendendo le attività delittuose, unitamente ad altri individui, originariamente estranei a fattispecie associative di stampo mafioso, che allo stesso pregiudicato risultino aggregati (cd. gruppo mafioso a soggettività differente)[20].
Lungi dal far dipendere la mafiosità del gruppo dalla mera qualità soggettiva di chi, per detto reato, risulti già essere stato condannato, disattendendosi, altrimenti, i requisiti oggettivi di tipicità della fattispecie, la “caratura criminale” di chi ne sia venuto a capo, laddove sia spesa all’esterno dai sodali e registri anche la partecipazione di tale soggetto alla realizzazione dei reati scopo dell’associazione, può essere valorizzata al fine di desumere il potere intimidatorio del sodalizio, al cospetto della realizzazione di attività criminali diffuse.
Appare evidente, infatti, che la ripresa delle attività delittuose sul territorio da parte di un soggetto già condannato per associazione mafiosa in parte richiede nuove forme di esteriorizzazione, ma, richiamando la già ritenuta partecipazione del soggetto di vertice, ne sfrutta tale capacità criminale ai fini dell’imposizione in quella stessa area del vincolo intimidatorio; e ciò significa, pertanto, che ove i soggetti facente parte di tale nuova formazione abbiano richiamato nell’esecuzione dell’attività delittuose l’inserimento nel nuovo gruppo anche del soggetto definitivamente condannato, ne hanno chiaramente inteso sfruttare la fama criminale ai fini dell’imposizione dell’omertà e dell’intimidazione.
Il cd. «gruppo mafioso a soggettività diversa» - in quanto fattispecie intermedia tra le cd. nuove mafie e quelle storiche, ricostruito attorno a un soggetto già definitivamente condannato per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e che abbia scontato la pena proprio per la particolarità della sua formazione, per l’inserimento nella stessa col ruolo organizzativo del soggetto già affermato essere “mafioso”, per il richiamo a tale presenza dotata di carattere intimidatorio nei confronti della collettività - si profila, pertanto, quale fattispecie associativa particolare che, se da un lato deve certamente essere dotata di capacità di esteriorizzare il potere intimidatorio e imporre una nuova e diffusa condizione di omertà, dall’alto mutua i caratteri tipici dell’organizzazione già in passato operativa sullo stesso territorio per cosiddetta “gemmazione”.
4. La condotta di partecipazione.
Così delineati i connotati strutturali dell’associazione di tipo mafioso, lasciando alle altre relazioni i necessari approfondimenti al riguardo, occorre soffermarsi sulle condotte incriminate nei primi due commi dell’art. 416-bis c.p. che, solo in parte, sembrano ricalcare il modulo tipico del reato associativo semplice.
In realtà, se tale similitudine è ravvisabile con riferimento ai ruoli apicali dell’organizzazione delineati dal secondo comma, trattandosi di posizioni funzionali capaci di manifestare, sul piano descrittivo, una maggiore attitudine connotativa della condotta punibile, peculiarità sono state ravvisate riguardo all’individuazione della condotta di chi “fa parte” dell’associazione di stampo mafioso che sembra richiedere un diverso apporto rispetto a quello di chi partecipa all’associazione per delinquere semplice di cui all’art. 416 c.p.
In presenza di un paradigma normativo che individua un delitto a forma libera, senza fornire alcuna indicazione specifica sulle modalità con cui si deve concretizzare tale partecipazione, tanto che alcuni hanno parlato di “tipicità incompiuta”, si è posto il problema se, ai fini della prova della condotta sia sufficiente l’adesione all’associazione di tipo mafioso, oppure occorra dimostrare quale ruolo l’agente abbia svolto all’interno del sodalizio e, quindi, quale sia stato il suo contributo causale.
La condotta del partecipe, infatti, può consistere nella prestazione di un contributo di qualsivoglia genere, purché non occasionale e, in ogni caso, apprezzabile sotto il profilo della rilevanza causale, con riferimento all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione[21].
Il tema, se si vuole avere riguardo agli elementi costitutivi del reato di associazione mafiosa, va affrontato sul piano del significato da attribuirsi alla partecipazione quale requisito di fattispecie, anche se una tale verifica interpretativa finisce per risentire dello specifico contesto probatorio su cui è chiamato a muoversi il giudice del merito in rapporto alla variegata realtà delle organizzazioni criminali.
La carenza definitoria della condotta non significa, però, rinunciare all’individuazione del contenuto minimo che la deve contraddistinguere, altrimenti rilegandosi la partecipazione a mero criterio interpretativo a carattere variabile o flessibile in ragione della situazione concretamente considerata, con il rischio di operare non consentite estensioni applicative della fattispecie, financo incorrendo nella violazione del principio di legalità.
Un conto, infatti, è il versante della prova, che attiene alla ricerca degli indici della condotta penalmente rilevante, altro, invece, quello di individuarne il significato normativo che, pur demandato in via interpretativa al giudice, va circoscritto al fine di contenere il più possibile derive creative.
Ciò posto, va anzitutto evidenziato che la partecipazione attiene ad un reato permanente. Non si tratta di un’ovvia constatazione, in quanto tale nesso relazionale ne sancisce, già sul piano causale, la netta distinzione rispetto a contributi non solo sporadici ma che, seppur idonei alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative del sodalizio, sono destinati ad esaurirsi all’atto del loro compimento, così assumendo, semmai, rilievo ai fini dell’integrazione del concorso esterno[22].
La partecipazione deve essere, infatti, sintomatica di persistenza in aderenza alla figura di concorrente necessario che il soggetto agente assume, a prescindere dalle forme in cui essa si manifesta. Inoltre, la sua valenza causale – essendo imprescindibile un’estrinsecazione che vada al di là di mere adesioni psichiche o di proselitismo culturale in ossequio al principio di materialità e di offensività – deve necessariamente valutarsi alla stregua della natura mista della fattispecie, dovendo l’organizzazione criminale essere concretamente in grado di porre in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica e democratica.
Ciò non vuol dire che la singola condotta di partecipazione debba essere di per sé dimostrativa dell’estrinsecazione del metodo mafioso, trattandosi di requisito proprio dell’associazione, ma che debba essere funzionale all’esistenza e al rafforzamento permanente del sodalizio, in uno con la non disgiunta finalità di concorrere al perseguimento degli scopi che tipicamente lo contraddistinguono per “tipologia”.
Il nesso di derivazione finalistica che colora in termini di pregnante disvalore la condotta di partecipazione deve, pertanto, rivelarsi efficiente sul piano causale, e ciò non tanto (e solo) perché elevato è l’editto sanzionatorio, ma in aderenza al principio di materialità secondo cui, ai fini della sussistenza di un reato, non basta la realizzazione di un comportamento materiale, ma è necessario che tale comportamento leda o ponga in pericolo beni giuridici.
Così sinteticamente delineati i canoni che debbono guidare l’interprete nello stabilire il significato della condotta di partecipazione, i maggiori problemi interpretativi si sono registrati riguardo alla rilevanza penale dell’affiliazione all’associazione mafiosa, essendosi formati sul tema due orientamenti contrapposti nella giurisprudenza di legittimità: uno tendente a ritenere sufficiente la mera affiliazione ad un’organizzazione criminale operante secondo il modello prefigurato dall’art. 416-bis c.p. (cd. modello organizzatorio); l’altro, invece, che considera tale adesione rituale inidonea se non accompagnata da elementi concreti e specifici, rivelatori del ruolo attivo svolto all’interno del sodalizio (cd. modello causale)[23].
Il contrasto ha determinato la rimessione della questione alle Sezioni unite, le quali, a distanza di anni dalle sentenze Demitry (Sez. U, n. 16 del 5/10/1994, Rv. 199386 – 01), Carnevale (Sez. U, n. 22372 del 30/10/2002, dep. 2003, Rv. 224181 – 01) e Mannino (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231670 – 01 e 231673 – 01) in tema di distinzione tra partecipe e concorrente eventuale, sono state chiamate a pronunciarsi “se la mera affiliazione ad un'associazione di stampo mafioso (nella specie 'ndrangheta), effettuata secondo il rituale previsto dall'associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell'art. 416-bis cod. pen. e della struttura del reato” [24].
Le Sezioni unite, con la sentenza n. 36958 del 27/05/2021 Modaffari, hanno affermato i seguenti principi di diritto:
«La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi».
«Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione»[25].
I principi affermati attengono a due profili: il primo, di carattere sostanziale, relativo alla definizione degli elementi costitutivi della partecipazione; il secondo, di carattere processuale, che riguarda, invece, il versante della prova della condotta penalmente rilevante e i relativi indici dimostrativi.
Quanto ai requisiti della condotta di partecipazione, le Sezioni unite si rifanno alla definizione coniata dalla sentenza Mannino, nella quale si valorizza il carattere funzionale dell’inserimento del sodale nell’associazione, affermando che, in sede processuale, non ci si possa limitare a considerare lo status acquisito dal partecipe nell’ambito dell’associazione attraverso l’ingresso nel sodalizio, ma occorre provare la dimensione dinamica di tale ruolo; verificare, cioè, che siano stati realizzati atti di militanza associativa espressivi del ruolo funzionale acquisito[26].
La partecipazione non si esaurisce né in una mera manifestazione unilaterale, né in un’affermazione di status; essa, al contrario, richiede un’attività fattiva a favore della consorteria che attribuisca “dinamicità, concretezza e riconoscibilità alla condotta che si sostanzia nel prendere parte”.
Occorre, in sostanza, che quell’ingresso assuma carattere stabile in aderenza alla natura permanente del reato associativo e, soprattutto, si traduca in una “messa a disposizione”, vale a dire in via tendenzialmente durevole e continua delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio.
Una definizione che comprende, all'evidenza, sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della partecipazione, poiché esprime la necessità che essa sia sorretta da affectio societatis e dalla interazione causalmente orientata al conseguimento degli scopi sociali con gli altri associati.
La condotta di partecipazione potrà dirsi integrata solo quando la "messa a disposizione" assuma i caratteri della serietà e della continuità attraverso comportamenti di fatto - precedenti e/o successivi al rituale di affiliazione - non necessariamente attuativi delle finalità criminali dell'associazione, ma tuttavia capaci di dimostrare in concreto l'adesione libera e volontaria a quella consapevole scelta e di rivelare una reciproca vocazione di "irrevocabilità" (intesa, nel senso di una stabile e duratura relazione, potenzialmente permanente), testimoniandosi in fatto e non solo nelle intenzioni il rapporto organico tra singolo e struttura.
A queste condizioni, la "messa a disposizione" non solo costituisce l'effetto dell'ammissione al gruppo - così superandosi le obiezioni secondo cui si punirebbe il mero accordo di ingresso, possibile soltanto nell’ambito dei reati a schema duplice in cui è prevista in forma alternativa la realizzabilità del tipo criminoso - ma indica un comportamento oggettivo e non solo intenzionale, attuale e non meramente ipotetico che finisce così per concretizzare e rendere riconoscibile il profilo dinamico della partecipazione, non potendo questo effetto condizionarsi in negativo e legarsi esclusivamente alla successiva - e, a volte, solo eventuale - "chiamata" per l'esecuzione di un incarico specifico, essendo l'adepto già inglobato nel gruppo e pronto per le necessità attuali o future della consorteria.
Un significato aderente alla natura mista della fattispecie associativa di stampo mafioso che, a differenza della categoria dei reati associativi puri, richiede un quid pluris, ossia la messa in opera del programma criminoso, mediante atti concreti ed inequivoci funzionali alla sua realizzazione, attraverso l’estrinsecazione del metodo mafioso. Un reato, quindi, di pericolo e danno, avente una valenza plurioffensiva, nei termini di associazione che delinque[27].
Ci si discosta, quindi, dal modello organizzatorio puro secondo cui non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perché il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla sola dichiarata adesione all'associazione da parte di un singolo, il quale presti la propria disponibilità (con la cd. “messa a disposizione”) ad agire quale "uomo d'onore".
Sul punto la sentenza appare chiara, affermando: che la teoria organizzatoria mostra i suoi limiti nel momento in cui collega la fattispecie criminosa all'acquisizione della qualifica formale di associato, ritenendo sufficiente ai fini dell'integrazione del reato l'ingresso nel sodalizio e finendo per ritenere irrilevante l'attivazione o meno del partecipe a favore della consorteria; che l’assenza della punibilità dell’attività di reclutamento – a differenza di quanto invece stabilito in tema di terrorismo (art. 270-quater c.p.) - evidenzia come tale segmento del fatto, qualora non accompagnato da successive condotte di attivazione, non può ritenersi di per sé compreso nella nozione tipica di partecipazione; che assume rilievo ai fini dell’interpretazione del dato normativo interno la stessa nozione di partecipazione recepita in ambito U.E. dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta contro la criminalità organizzata, la quale richiede che la persona che partecipi attivamente alle attività criminali dell'organizzazione.
Ravvisare la condotta di partecipazione ad associazione mafiosa anche allorquando sia stata fornita la dimostrazione che il soggetto, pur sottoposto al rito dell'affiliazione, non abbia mai posto in essere alcuna attività per conto o nell'interesse del sodalizio appare del tutto contrario ai principi di materialità ed offensività[28].
Esigere, invece, che all’affiliazione segua una fattiva attivazione del soggetto in favore del sodalizio, di talché possa ritenersi che quell’ingresso abbia assunto una vocazione di stabilità, rende la partecipazione continente, sul piano sistematico, con la natura permanente del reato e ne segna la distinzione rispetto a contributi destinati ad essere sussunti nell’alveo del concorso esterno.
Occorre, dunque, che all’affiliazione si accompagni la concreta ed effettiva “attitudine” del nuovo adepto a svolgere i compiti allo stesso affidati, anche in un momento successivo al formale ingresso nel sodalizio, nonché a corrispondere ai desiderata dell'organizzazione di cui è venuto a far parte: solo in tal caso il dato formale accentra in sé quel connotato sostanziale di effettiva disponibilità che rende quella condotta pericolosa per il bene giuridico tutelato, accrescendo le potenzialità del sodalizio.
Ciò non significa, però, adesione in toto al modello causale, stante la possibilità di sovrapposizione di due categorie dogmatiche (concorso esterno e partecipazione) del tutto autonome e con profonde caratterizzazioni differenziali e la aprioristica svalutazione della condotta di "messa a disposizione" delle energie del singolo a favore del gruppo. E neppure al modello “misto”, la cui principale critica «si coagula, invece, sull'apparente carattere decisivo della causalità, in realtà di fatto inesistente, in quanto l'efficienza della condotta è assunta in re ipsa, per il solo fatto dell'ingresso nell'associazione»[29].
Non occorre, però, che le condotte di intraneità – anche a prescindere dalla commissione di delitti - siano financo espressive della capacità del singolo di avvalersi della forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo e capaci di produrre assoggettamento ed omertà nei suoi interlocutori, né un danno ai diritti dei singoli che si relazione con quell’affiliato, tanto da rappresentare, per ciò solo, un pericolo per l’ordine pubblico e gli altri beni tutelati in via cumulativa o alternativa dalla disposizione in commento.
Una tale opzione ermeneutica corre il rischio di determinare una sovrapposizione tra la condotta "di associazione", legata all'assunzione del ruolo di partecipe, con quella "dell'associazione", diretta ad attuare il programma delinquenziale che si traduce nell'esecuzione dei delitti scopo.
Inoltre, richiedere che alla condotta di partecipazione segua la lesione dei diritti dei singoli che si relazionano con quell’affiliato significa propendere per una lettura del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. quale fattispecie di evento e di danno, a discapito della componente di “pericolo” che pure alla fattispecie deve essere sistematicamente riconosciuta, la cui oggettività giuridica va ricondotta all’associazione in quanto tale.
Affinché sia integrata la condotta di partecipazione è, dunque, necessario (e sufficiente) la realizzazione di un qualsivoglia "apporto concreto", sia pur minimo, ma in ogni caso riconoscibile, alla vita dell'associazione, tale da far ritenere avvenuto il dato dell'inserimento attivo con carattere di stabilità e consapevolezza oggettiva.
Il partecipe non è, dunque, un neutrale e passivo osservatore delle dinamiche mafiose, delle quali viene più o meno messo a conoscenza, ma un soggetto che, in aderenza al giuramento di ingresso, concorre ad assicurare, mediante facta concludentia evocativi di stabile inserimento, la realizzazione delle finalità avute di mira dal sodalizio[30].
Che la nozione di partecipazione, per come coniata dalle Sezioni unite, si nutra di un quid pluris che consenta di escludere qualsiasi equivocità e staticità alla mera affiliazione è confermato dalla successiva giurisprudenza di legittimità, secondo cui la partecipazione mafiosa non si esaurisce né in una mera manifestazione di volontà unilaterale, né in una affermazione di status, richiedendo, invece, un'attivazione fattiva a favore della consorteria connotata da dinamicità e concretezza ed implicando, pertanto, quanto meno la riconoscibilità, se non addirittura il riconoscimento da parte degli aderenti al gruppo[31].
Se ne coglie, pertanto, la distinzione con il concorrente eventuale, il quale è, per definizione, colui che non vuol far parte dell'associazione e che l'associazione non chiama a "far parte", ma un soggetto al quale il sodalizio si rivolge e da cui riceve contributi favorevoli per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (o, per quelle operanti su larga scala, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima.
Come hanno sottolineato le Sezioni Unite, è evidente che la verifica centrale per la configurabilità di una condotta di partecipazione mafiosa si muove sul piano probatorio: è solo sulla scorta delle evidenze disponibili che sarà possibile valutare se, per le caratteristiche assunte dal caso concreto, la compenetrazione nel tessuto criminale abbia generato o meno un'effettiva "messa a disposizione".
Per questo, anche l'affiliazione rituale può costituire, sul piano cautelare, grave indizio della condotta partecipativa, a condizione che la stessa risulti, sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza e degli elementi di contesto che ne evidenzino serietà ed effettività, espressione di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un'offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione[32].
E tanto più laddove l’affiliazione si sia tradotta nell’attribuzione di qualifiche che sono logicamente dimostrative, alla luce degli elementi fattuali di contesto, dell’avvenuta attivazione del soggetto nell'ambito associativo (si pensi al conferimento della “dote” di ‘ndrangheta che segue al riconoscimento dei contributi prestati dal soggetto in favore del sodalizio ed è dunque dimostrativa, sul piano logico fattuale, di una persistente attivazione del soggetto che, in ragione del suo rilievo, ne ha determinato il riconoscimento).
Più in generale, pertanto, dopo l'ultimo arresto delle Sezioni Unite, gli indicatori elencati dalla sentenza Mannino come elementi dai quali desumere la partecipazione mafiosa tornano alla loro dimensione probatoria naturale e vengono depurati dal ruolo di elementi di fattispecie loro attribuito da alcune pronunce di legittimità.
Tra detti indicatori, a esempio, la commissione di delitti scopo è uno dei sintomi, normalmente quello più evidente, ma non l'unico, dell'inserimento nel sodalizio. Oltre a questo, devono comunque essere considerate anche le ulteriori e diverse condotte, che risultano essere il compimento di attività causalmente orientate a favore dell'associazione, dalle quali, sulla base degli elementi probatori acquisiti, emerga l'organicità del singolo che, reiterando condotte di semplice tenore esecutivo ovvero rafforzando e agevolando l'attività dell'associazione, ponga in essere comportamenti teleologicamente rivolti al perseguimento degli obiettivi dell'associazione stessa.
L’attenzione alle attività che l’affiliato ha compiuto a sostegno del sodalizio se, da un lato, consente di superare l’obiezione che si punisca un mero status soggettivo, dall’altro parimenti permette di prescindere dalla prova o dall’esistenza del rito di affiliazione allorché il soggetto abbia comunque prestato contributi che si sono rivelatisi idonei a concretizzare una “messa a disposizione” in favore del sodalizio.
Anche su tale aspetto la decisione delle Sezioni unite è chiara: l’assunzione fattuale di tale ruolo in altro modo desunta integra appieno la condotta di partecipazione allorché si traduca in una “messa a disposizione” propria dei requisiti di disvalore declinati dalla sentenza Modaffari [33]. E tanto non solo con riguardo alle mafie cd. tradizionali ove pure tali riti sono osservati, ma soprattutto rispetto alle nuove mafie ove l’inserimento nel gruppo criminale, consegue più che all’osservanza di regola formali o sacramentali, alla realizzazione di stabili contributi causalmente e finalisticamente volti alla realizzazione delle finalità perseguite dall’associazione.
5. Conclusioni
A distanza ormai di oltre quarant’anni dall’introduzione del delitto di cui all’art. 416-bis c.p., nonostante le oscillazioni giurisprudenziali registratesi con riguardo alla corretta definizione degli ambiti applicativi, deve riconoscersi come la fattispecie abbia svolto efficacemente un ruolo di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso.
Del resto, gli adattamenti interpretativi a cui si è assistito, forieri anche della comparsa di nuove organizzazioni criminali e del nuovo atteggiarsi della criminalità organizzata di stampo mafioso, sono stati condotti, grazie anche al contributo di attenta dottrina, sul piano della verifica del rispetto dei requisiti di tipicità, evitandosi ricadute sociologiche o lontane dalle connotazioni di pericolo e di danno del reato in esame.
Certo è che oggi si assiste, in conseguenza della globalizzazione e della necessità delle organizzazioni criminali di espandere il proprio dominio al fine di reinvestire i proventi derivanti dai delitti fine, ad un cambiamento delle strategie delle mafie, tanto che da alcuni autorevoli esperti del settore si è parlato del volto nuovo delle mafie, sottolineandosi anche, in modo condivisibile, come ormai si sia al cospetto di una gestione unica degli affari illeciti[34].
Ai tradizionali reati, evocativi della forza di intimidazione del sodalizio nel territorio, si affiancano, infatti, con maggiore frequenza, delitti lucro-genetici e di intestazione fittizia mediante i quali le mafie si impadroniscono di settori vitali dell’economia di mercato, falsandola, con ricadute anche sul versante dei delitti contro la p.a., quali strumento per accaparrarsi commesse pubbliche mediante imprese non solo compiacenti ma che costituiscono la longa manus dell’organizzazione.
E tale inquinamento del tessuto economico-sociale avviene volutamente “sotto traccia”, al fine di scongiurare l’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura.
Alle forme tipiche di esteriorizzazione della “fama criminale” si sostituiscono modalità differenti, ma non per questo meno pericolose e invasive.
Al radicamento territoriale di cui la nuova mafia resta portatore si affianca o si sostituisce quello del tessuto economico, mediante il quale l’associazione, anche attraverso sinergie con altri gruppi criminali ivi presenti, manifesta la sua presenza (e insistenza) in altre zone del Paese o financo al di fuori dei confini nazionali, avvalendosi dei nuovi strumenti di comunicazione e movimentazione del denaro[35].
Ci si trova al cospetto, per come ha acutamente osservato lo storico Enzo Ciconte, di “una mafia immersa nella tradizione, ma perfettamente in grado di proiettarsi nella modernità”.
Si pone, pertanto, il problema se la fattispecie in esame, certamente idonea a reprimere quella che è stata definita la “mafia militare”, lo sia efficacemente con riguardo a quella dei “colletti bianchi”.
Un problema di assimilazione che riguarda, sul piano della fattispecie, le articolazioni, anche estere, delle mafie tradizionali costituite con il primario obiettivo di inquinare il tessuto economico e destinate ad operare sul mercato quali “holding”, mediante sinergie con altri gruppi criminali ivi insistenti, pure espressone delle altre associazioni storiche, unite dal comune intento di realizzare profitti; sul piano della condotta di partecipazione, il rilievo dei contributi sistematicamente resi dai terzi, causalmente necessari alla realizzazione degli obiettivi di profitto, essendo un dato di fatto che le mafie, soprattutto quelle a denominazione di origine controllata, possono contare stabilmente su una rete non solo di compiacenze ma soprattutto di soggetti, non necessariamente “punciuti”, che in modo persistente ne assicurano l’operatività al di fuori dei territori di originaria “vocazione”.
Una tematica complessa che investe i rapporti tra sodalizio madre e le nuove strutture periferiche che operano quale longa manus di essa, nonché le modalità di estrinsecazione del metodo mafioso rispetto al fenomeno del radicamento del tessuto economico; le interferenze e la delimitazione tra le condotte di partecipazione e di concorso esterno, con particolare riguardo ai contributi volti alla realizzazione degli obiettivi di profitto delle organizzazione criminali; la distinzione tra partecipazione e delitti fine comunque aggravati dalla finalità di agevolare il sodalizio mafioso.
Un mosaico molteplice e complesso di problemi che si pongono all’interprete, la cui soluzione se, da un lato, non potrà essere disgiunta da un’attenta verifica da condursi alla stregua degli elementi di tipicità di fattispecie, dall’altro non dovrà in alcun modo determinare un arretramento del pensiero giuridico che, proprio in relazione a tale fenomeno, costituisce la spinta per sollecitare, se del caso, i necessari adattamenti normativi.
È stato, infatti, in modo condivisibile osservato che uno dei pericoli maggiori da evitare, sia nella istruzione dei processi che nella costruzione dei percorsi di conoscenza, è quello di una visione settoriale, parcellizzata, limitata al singolo aspetto del fenomeno, che finisce per farne perdere di vista l’insieme[36].
Un approccio settoriale e localistico che fa ignorare le dimensioni reali dell’associazione mafiosa come organizzazione unitaria, impedisce al contempo di apprezzarne la reale forza complessiva in termini di legami e connessioni con il mondo “altro”, con quei pezzi delle istituzioni, della politica, dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione che costituiscono altrettanti punti di emersione di quel sistema di relazioni esterne delle mafie, che ne rappresentano un vero e proprio punto di forza.
Relazione tenuta al Convegno “L’art. 416-bis c.p. tra storia ed ermeneutica”, organizzato dal Centro Studi di legislazione antimafia – Virginio Rognoni, Pavia, Collegio Universitario S. Caterina da Siena, 4 ottobre 2024.
[1] Sul delitto di cui all’art.416-bis c.p., con particolare riguardo ai riferimenti bibliografici e di dottrina, v. Del Gaudio, Sub art. 416-bis c.p., in CP, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Lattanzi-Lupo (a cura di), vol. IV, Milano, 2022, p. 390 e ss. Tra i contributi più recenti, v. Turone-Basile, Delitto di associazione mafiosa, IV^ ed., Milano, 2024; Zuffada, Il metodo mafioso alla prova delle mafie “diverse” dalle mafie tradizionali. Una sinossi della giurisprudenza, in Arch. pen., 2024; Melillo, Prolusione del P.N.A. per il trentennale della istituzione del Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata, in sistema penale, 13.09.2024; Aa.Vv., Quarant'anni di 416-bis c.p. Bilanci e prospettive del delitto di associazione di tipo mafioso. Atti del Convegno (Napoli, 14 novembre 2022), Amarelli (a cura di) – Torino, 2023; Brunelli, Contrasto alla criminalità organizzata e tipicità penale: il punto sull’associazione mafiosa, in Arch. pen., 2023; Cisterna, Quella svolta nella lotta alla mafia rappresentata dall'art. 416-bis c.p., in Guida dir., 36, 2022, 16 ss.; Spezia, La lotta alla criminalità organizzata fuori dai confini nazionali, in Sistema penale, 20.07.2022; Merenda - Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis tra teoria e diritto vivente, in Mezzetti - Luparia Donati (diretto da), La legislazione antimafia, Bologna, 2020, p. 55 ss.; Balsamo-Mattarella, Criminalità organizzata: le nuove prospettive della normativa europea, in Sistema pen., 15.03.2021; Romanelli, Criminalità organizzata e terrorismo: la circolazione dei modelli criminali e degli strumenti di contrasto, in Sistema pen., 20.12.2019; AaVv., Virginio Rognoni. Passione civile e impegno politico, Ed. Santa Caterina, 2024. Sul tema v. anche: Fiandaca-Visconti, Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Torino, 2010; Seminara, Gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416-bis c.p., in Aa.Vv., I delitti di criminalità organizzata, in Quaderno CSM, 1998, p. 299; Id, Gli aspetti giuridici della lotta contro la mafia: il convegno di Palermo del 27-28 maggio 1983, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, pp. 1062-1069; Ciconte, La resistibile ascesa di mafia, 'ndrangheta e camorra dall'Ottocento ai giorni nostri, Rubbettino, 2008; Id, ‘Ndrangheta, Rubettino, 2011; Aa.Vv., La legge Rognoni-La Torre tra storia ed attualità, Ciconte (a cura di), Rubbettino, 2022; Aa.Vv., Atlante delle mafie. Storia, economia, società e cultura, Ciconte, Forgione, Salis (a cura di), Vol. I°, Rubettino, 2012; Bellavia-De Lucia, Il cappio, Bur, 2012; Prestipino-Pignatone, Come la ‘ndrangheta ha infettato l’Italia, Laterza, 2012; Palazzolo-Prestipino, Il codice Provenzano, Laterza, 2008; Canzio, Responsabilità dei partecipi nei singoli reati-fine: l'evoluzione giurisprudenziale degli anni 1970-1995, in Cass. pen., 1996, p. 3163- 3183; Id, Orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità dei partecipi nei reati - fine: la responsabilità dei capi di "cosa nostra" per gli omicidi "eccellenti" ascrivibili dall'associazione mafiosa, in Foro it., 1996, 10, p. 586 ss.; Pardo, L’art. 238 e 238 bis c.p.p. e la prova dell’associazione mafiosa, (Documento didattico), SSM, P24015, 21.03.2024; Marandola, Condanna in abbreviato ex art. 416 bis c.p. e misura cautelare, in Giur. it., 2018, p. 2757 ss.; Id, Sull'(in)adeguatezza della custodia inframuraria applicata ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. ovvero il punto di "non ritorno" degli automatismi in sede cautelare, in Giur. cost., 2013, p. 863 ss.
[2] Fiandaca-Musco, Diritto penale, P.S., Vol, I, Torino, 2021, 518.
[3] Turone, Le associazioni di tipo mafioso, Milano, 2015, 112.
[4] Sul tema, v. Barletta-Carretta-Piersimonini-Prestipino, Patrimoni illeciti e strumenti di contrasto, II^ ed., Laurus Robuffo, 2023; Teresi, Mafia, corruzione, impresa, in Giust. insieme, 2.11.2023; Balsamo, Il contrasto internazionale alla dimensione della criminalità organizzata: dall’impegno di Gaetano Costa alla “Risoluzione Falcone” delle Nazioni Unite, in Sistema pen., 2020.
[5] Per un utile excursus del fenomeno mafioso sino ai giorni d’oggi, v. Pignatone, La Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria (Corso di studio: “I 30 anni della DNA, delle DDA e della DIA. 30 anni di legislazione contro il crimine organizzato e le evoluzioni del sistema antimafia”), SSM, P22005, 28.07.2022.
[6] Geneticamente, quindi, la forza di intimidazione deve essere riferita all’associazione in quanto tale e deve connotare la struttura in sé, diventandone una qualità ineludibile, in grado di imporsi autonomamente (Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, Modaffari, in motivazione a pag. 16).
[7] Tra le più recenti: Sez. 2, n. 47538 del 18/11/2022, A., Rv. 284182 - 01; Sez. 6, n. 6933 del 4/07/2018, dep. 2019, A., Rv. 275037 - 01; Sez. 2, n. 31920 del 4/06/2021, A., Rv. 281811 - 01; Sez. 2, n. 38831 del 17/09/2021, C., Rv. 282199 – 04. Non massimate, da ultimo, Sez. 2, n. 27053 del 20/04/2023, B., in motivazione, pag. 17. Sulle mafie cd. delocalizzate, v. Giorgio, Delocalizzazione delle mafie storiche, in Dizionario enciclopedico delle mafie, del terrorismo internazionale e della storia dell’eversione, Parte I, Vol. II, Città del Vaticano, 2023; Merenda, Mafie straniere e mafie delocalizzate nell'applicazione dell'art. 416-bis c.p., in Diritto di difesa, 4, 2022, p. 813; Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1197 ss.; Id, Mafie delocalizzate: le Sezioni unite risolvono (?) il contrasto sulla configurabilità dell’art. 416 bis c.p. ‘non decidendo’, in Sistema pen., 18.11.2019; Visconti, La mafia “muta” non integra gli estremi del comma 3 dell’art. 416 bis c.p.: la Sezioni unite non intervengono, la I^ sezione della Cassazione fa da sé, in Sistema pen., 22.01.2020; Id, I giudici di legittimità ancora alle prese con la «mafia silente» al Nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in Dir. pen. cont., 2015, p. 2 ss.
[8] Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019, dep. 2020, F., Rv. 278745 – 02; Sez. 5, n. 44156 del 13/06/2018, S., Rv. 274120; Sez. 5, n. 26427 del 20/5/2019, F., Rv. 276894; Sez. 5, n. 21530 dell'8/2/2018, S., Rv. 273025; Sez. 2, n. 7847 del 30/1/2020 non mass.; Sez. 5, n. 6764 del 13/11/2019, dep. 2020, non mass.; Sez. 2, n. 46731 del 20/10/2023, non mass. Sul tema, a commento della decisione di Sez. 2 n. 10255 del 2020 relativa al clan Fasciani di Ostia, v. Visconti, “Non basta la parola mafia": la Cassazione scolpisce il "fatto" da provare per un'applicazione ragionevole dell'art. 416-bis alle associazioni criminali autoctone, in Sistema pen., 24 marzo 2020; Amarelli, Mafie autoctone: senza metodo mafioso non si applica l'art. 416-bis c.p. (Associazione di tipo mafioso e mafie non tradizionali), in Giur. it., 2020, p. 2249 e ss.; Salviani, La configurabilità del reato previsto dall'art. 416-bis c.p. anche per le organizzazioni criminali diverse dalle mafie "tradizionali", in Cass. pen., 2020, p. 2721 ss.; Manna-De Lia, “Nuove mafie” e vecchie perplessità. Brevi note a margine di una recente pronuncia della Cassazione, in Arch. pen., 2020; Amato, Mafie etniche, elaborazione e applicazione delle massime di esperienza: le criticità derivanti dall’interazione tra “diritto penale giurisprudenziale” e legalità, in Dir. pen. cont., 2015, p. 266 ss.; Balsamo-Recchioni, Mafie al nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont., 2013, p. 19 ss.
[9] Sez. 2, n. 14225 del 13/01/2021, J., Rv. 281126 – 01, a proposito dell’articolazione locale "Pesha Nest" dell’associazione nigeriana "Eiye".
[10] Sez. 2, n. 24850 del 28/3/2017, C., Rv. 270290.
[11] Fattispecie in tema di costituzione di nuova struttura criminale: Sez. 5, n. 26427 del 20/05/2019, F., Rv. 276894; Sez. 6, n. 57896 del 26/10/2017, F., Rv. 271724. A commento di quest’ultima decisione v., Cisterna, Attenzione focalizzata sui sodalizi storici e fenomeni emergenti, in Guida dir., 2018, 9, p. 65 e Salviani, Configurabilità del delitto di cui all'art. 416-bis c.p. anche per le mafie "non tradizionali" operanti in un ristretto ambito territoriale, in Cass. pen., 2018, p. 2000 ss.
[12] Sez. 6, n. 41772 del 13/6/2017, V., Rv. 271102 e le sentenze in precedenza indicate sulle cd. “mafie locali”.
[13] Vedi anche Sez. 6, n. 43898 del 08/06/2018, R., Rv. 274231; Sez. 6, n. 35914 del 30/05/2001, H., Rv. 221245. In termini, Sez. 6, n. 24536 del 10/4/2015, non mass.; Sez. 6, n. 24535 del 10/4/2015, M., Rv. 264126; Sez. F, n. 44315 del 12/9/2013, C., Rv. 258637. Sez. 2, n. 14225 del 13/01/2021, J., Rv. 281126.
[14] Così, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, B., Rv. 279555 – 17. La S.C. ha escluso, seppur all’esito di una travagliata vicenda giudiziaria che aveva registrato orientamenti differenti sia in sede di merito che di legittimità (espressi medio tempore in sede cautelare) che ricorresse l’ipotesi dell’associazione di stampo mafioso nella vicenda nota come “mafia Capitale”, sul rilievo dell’assenza di radicamento conseguente all’accertato diffuso inquinamento dei settori della pubblica amministrazione operato dal consesso delinquenziale. In particolare, la S.C. ha evidenziato come nelle sentenze di merito mancasse la prova che l’associazione avesse manifestato una capacità di intimidazione effettivamente percepita come tale ed avesse conseguentemente prodotto un assoggettamento omertoso nel "territorio" in cui l'associazione è attiva. A commento della decisione, v. tra i diversi autori, Amarelli-Visconti, Da ‘mafia capitale’ a ‘capitale corrotta’. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, in Sistema pen., 18.06.2020; Id, "Mafia capitale": per la Cassazione non si tratta di vera mafia, in Cass. pen., 2020, p. 3644 ss.; Fiandaca, Mafia capitale: metodo mafioso e metodo corruttivo non vanno sovrapposti, in Foro It., 2020; Ubiali, Sul confine tra corruzione propria e corruzione funzionale: note a margine della sentenza della Corte di cassazione sul caso "mafia capitale", in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 662 ss.; Cisterna, Quelle "scorciatoie" probatorie sintomo della anomalia italiana. (Mafia), in Guida dir., 2020, 30, p. 76 ss.; Della Ragione, “Mafia Capitale” e “Mafia corrotta”; la parola definitiva della S.C. nel processo di stabilizzazione giurisprudenziale dell’associazione d tipo mafioso, in Leg. pen., 21.10.2020.
[15] Ex multis: Sez. 6, n. 44667 del 12/5/2016, C., Rv. 268676 (con note di commento di Salviani, La delocalizzazione dell'associazione di tipo mafioso, in Cass. pen., 2017, p. 2776 ss.); Sez. 2, n. 24850 del 28/3/2017, C., Rv. 270290; Sez. 5, n. 47535 dell'11/7/2018, N., Rv. 274138.
[16] D'altra parte, nel ribadire i principi anzidetti a proposito delle "locali" di "ndrangheta", la Corte di legittimità, in una ipotesi di creazione in Svizzera di una "locale" rappresentante l'articolazione di un clan calabrese, non ha mancato di focalizzare come i moderni mezzi di comunicazione propri della globalità hanno reso noto il metodo mafioso proprio della "ndrangheta" anche in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari o insensibili al condizionamento mafioso, per cui non è necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento o di omertà in quanto l'impatto oppressivo sull'ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo dalla consorteria. (Sez. 5, n. 28722 del 24/05/2018, D., Rv. 273093).
[17] Sez. 6, n. 42369 del 17/07/2019, D., Rv. 277206 (Fattispecie in cui dalle intercettazioni telefoniche risultava che esponenti del gruppo "storico", nonostante il consolidato predominio sul territorio, manifestavano preoccupazione per la contrapposizione con il gruppo emergente, attese la capacità di quest'ultimo di subentrare nel controllo delle attività illecite e la comprovata forza intimidatrice della nuova formazione).
[18] In senso conforme, Sez. 2, n. 24901 del 17/05/2024, A., in motivazione pagg. 29-30.
[19] Sez. 2, n. 20926 del 13/05/2020, P., Rv. 279477 – 01, ove si è sottolineato come dalle decisioni di merito emergesse che il sodalizio criminoso disponesse di una consistente quantità di armi, anche di allarmante potenzialità, opportunamente occultate; avesse già realizzato episodi di natura estorsiva; controllasse anche l'attività di spaccio in una parte del territorio; avesse compiuto due attentati dinamitardi - di carattere eclatante - ai danni di esercizi commerciali; dato luogo ad una specifica struttura con ripartizione di ruoli e responsabilità, con una cassa comune per finanziare le attività illecite, ovvero volta a supportare le necessità dei sodali, anche garantendo l'assistenza legale in caso di arresto; adottato specifiche sanzioni nei confronti di chi aveva mancato di rispetto al capo ovvero minacciato chi aveva deciso di iniziare la collaborazione con la giustizia; predisposto azioni di rappresaglia volte all'eliminazione dei rivali. A commento della decisione, v. Merenda, Niente scorciatoie probatorie: anche per l'associazione "derivata" che opera nello stesso territorio va accertato il metodo mafioso, in Dir. pen. e proc., 2021, p. 336-341.
[20] Sez. 2, n. 24901 del 24/05/2024, D., Rv. 286689 – 01 e 02.
[21] L’argomento assume particolare rilievo allorché il soggetto accusato di far parte di un’associazione di stampo mafioso non sia correlativamente imputato dei delitti fine commessi nell’interesse dell’associazione, tenuto conto che le condotte di tipo partecipativo possono consistere anche in atti che di per sé non costituiscono reato.
[22] Sui contributi recenti in materia di concorso esterno, v. Visconti, Il concorso esterno tra menage a trois e quarto incomodo, in AA.VV., Quarant’anni di 416-bis c.p., cit., 49-59; Pacifico, La mancata tipizzazione del concorso esterno nell’ associazione mafiosa: limite o opportunità? SSM, 4 aprile 2024; Maiello, Il cantiere sempre aperto del concorso esterno, in Sistema penale, 22.02.2021; Alberico, Partecipazione, concorso esterno e voto di scambio: la perenne esigenza di ricostruzione dei tipi, in Sistema pen., 20.03.2024 (nota a Sez. 1, n. 46336 del 5/06/2023).
[23] A tali orientamenti se ne è anche aggiunto un terzo, definito “misto”, in cui il profilo dello stabile inserimento dell'individuo nell'associazione è stato coniugato imprescindibilmente con un apporto causale anche minimo, ma attivo ed effettivo. La più risalente teorizzazione del modello misto si legge in Sez. 4, n. 2040 del 27/08/1996, B., Rv. 206319. Sulla problematica, v. Ariolli-Cappai, La rilevanza penale della c.d. "messa a disposizione" nel delitto di associazione di stampo mafioso: orientamenti della giurisprudenza di legittimità, in Giust. pen., 2018, p. 178 ss.
[24] La questione è stata rimessa alle S.U. con ordinanza della 1^ Sezione penale del 28 gennaio 2021. A commento del provvedimento si veda: Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni unite, in Sistema pen. (online), 5/2021.
[25] A commento della decisione: Lazzeri, Affiliazione rituale e prova della condotta di partecipazione ad associazione mafiosa: la sentenza delle Sezioni unite, in Arch. pen. (online), 2022; Cisterna, Associazione mafiosa, l'affiliazione rituale può essere grave indizio della condotta partecipativa. (Reati contro l'ordine pubblico), in Guida dir., 2021, 46, p. 64 ss.; Amarelli, La tipicità debole della partecipazione mafiosa e l'affiliazione rituale: l'incerta soluzione delle Sezioni Unite tra limiti strutturali dell'art. 416-bis c.p. e alternative possibili. (Mafia), in Dir. pen. proc., 2022, p. 786 ss.; Maiello, La partecipazione associativa tra (fuga della) tipicità e (assorbimento nella) prova. (Associazione di stampo mafioso), in Giur. it., 2022, p. 732 ss.; Apollonio, Le Sezioni Unite tra "vecchie" e "nuove" mafie nella valutazione del requisito della partecipazione associativa, in Cass. pen., 2022, p. 62 ss., Id, La partecipazione all’associazione mafiosa nell’impostazione (problematica) delle Sezioni Unite, in Giust. insieme, 18.10.2021.
[26] “Si definisce "partecipe" colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell'associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima. Di talché, sul piano della dimensione probatoria della partecipazione rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve dunque trattarsi di indizi gravi e precisi (tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi “facta concludentia”) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione”.
[27] Il reato di cui all’art. 416-bis c.p. assume contemporaneamente natura di pericolo, in relazione alla preordinazione di una serie indeterminata di delitti e, per altro verso, di danno, in relazione allo sfruttamento della capacità intimidatoria in ragione dell'ormai compiuta immanenza lesiva della libertà di quanti si relazionano con l'associazione. Per l'integrazione del tipo occorre riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale "forza" e di essersene avvalso.
[28] Sul tema, le S.U. richiamano anche quei contesti ambientali permeati da compagini primariamente composte da soggetti legati da vincoli di affinità e di parentela, laddove il conferimento formale della qualifica di affiliato conseguente al giuramento di mafia potrebbe assumere un significato equivoco, più coerente ad automatismi sociali e familiari che indice, immediato ed autosufficiente, della effettiva intraneità. (In termini, Sez. 6, n. 39112 del 20/05/2015, C., non mass.). Resta, parimenti, esclusa la contiguità compiacente, intesa come mera vicinanza personale o fascinazione verso un determinato apparato mafioso oppure come ammirazione nei confronti di suoi partecipi o capi, ancorché tali atteggiamenti comportamentali rimandino a rapporti effettivamente intrattenuti con uno o più esponenti mafiosi, dai quali non possa desumersi una concreta messa a disposizione del sodalizio (Vedi: Sez. 6, n. 34199 del 18/07/2024, non mass.).
[29] V. pag. 34 della sentenza S.U. “Modaffari”.
[30] A tale proposito, tra i vari indici dimostrativi, si è fatto riferimento; all’attività di collaborazione con i capi cosca e nel coinvolgimento in tematiche e/ strategie associative; all’essere interpellato prima che venissero adottate le decisioni circa le estorsioni da realizzare nell'ambito dei programmi dell’associazione; agli interventi nella soluzione di questioni che riguardavano i rapporti anche conflittuali con altri consessi mafiosi o con altri soggetti criminali con cui il sodalizio veniva in contatto; alla riscossione di un credito derivante dalla vendita di droga; alla partecipazione ad incontri con altri coimputati; al riconoscimento ad opera di terzi quale soggetto a cui potere fare riferimento per ottenere un'interlocuzione con il reggente del sodalizio, ricevendone le confidenze; all'interessamento per la soluzione di questione riguardante controversie tra privati; all'assunzione del ruolo di incaricato a riscuotere "estorsioni natalizie" e recuperare i crediti del clan; al "pizzo" preteso per la vendita di un immobile; alla definizione di rapporti con altri clan, autorizzazioni ad accordi commerciali tra imprese, risoluzione di questioni tra privati, rampogne di soggetti non rispettosi degli impegni assunti verso altre famiglie mafiose; alla trasmissione all’esterno del carcere dei messaggi ricevuti da detenuti appartenenti al sodalizio; all’essere in possesso della carta delle estorsioni realizzate dall’associazione nel territorio di riferimento; allo svolgimento dell’attività di guardiania nell’ambito di impresa mafiosa; all’assunzione della qualità di imprenditore in nome o per conto della cosca.
[31] Sez. 5, n. 35870 del 23/05/2024; Sez. 6, n. 35695 del 10/07/2024; Sez. 2, n. 30007 e n. 30008 del 19/07/2024; Sez. 6, n. 35379 del 18/06/2024; Sez. 6, n. 34202 del 18/07/2024; Sez. 6, n. 34197 del 18/07/2024; Sez. 6, n. 34188 del 10/09/2024; Sez. 6, n. 32046 del 25/07/2024; Sez. 6, n. 31612 del 15/05/2024; Sez. 4, n. 26304 del 29/05/2024; Sez. 2, n. 30554 del 25/07/2024, nel senso che la marginalità del contributo non esclude la partecipazione, che si rinviene anche nel caso in cui l'adesione al sodalizio non si risolva in attività organizzative o nella consumazione di reati-fine, ma si esprima in attività esecutive, che offrono, comunque, un valido contributo alla vita del sodalizio.
[32] Degna di nota, seppur nell’ambito di una ricostruzione critica degli arresti della sentenza Modaffari, ritenuta ispirata ad un modello misto di partecipazione, ma in realtà sostanzialmente organizzatorio, è l’osservazione secondo cui, al fine di scongiurare derive meramente formalistiche della condotta prive della necessaria offensività, alla stregua della natura “duale” della fattispecie, la mera affiliazione andrebbe più correttamente ricondotta al tentativo, salvo interventi legislativi che ne riconoscano la valenza circostanziale; Amarelli, cit., 795; Maiello, cit., 16 ss.
[33] Così, Sez. 2, n. 30006 del 19/07/2024 ha assegnato rilievo alla condotta dell’indagato che, pur non raggiunto da indizi circa la sottoposizione a rituale affiliazione e la commissione di specifici reati-fine, godeva della possibilità di confrontarsi direttamente con soggetti di comprovata "mafiosità", frequentava il "luogo di appuntamenti" dei sodali ed intratteneva con i medesimi, movimentazioni di denaro. V. anche Sez. 2, n. 30010 del 19/07/2024 che ha valorizzato tanto l'incarico di raccogliere denaro per le spese dei sodali detenuti, quanto l’aver curato gli aspetti commerciali di una impresa di catering che consentiva di assumere i familiari degli associati, così offrendo un prezioso contributo all'associazione criminosa che, attraverso la suddetta azienda, riusciva a mantenere anche uno stabile legame con la famiglia mafiosa intrattenendo con questa accordi spartitori per la distribuzione del pane all'interno delle mense scolastiche.
[34] In termini, il contributo reso dal Procuratore della Repubblica di Palermo De Lucia nel presente convegno e Ciconte, Le proiezioni mafiose al Nord, in Corriere di Como, 25.11.2013.
[35] Sui rapporti tra mafia ed impresa pregevole è il contributo di Visconti, II Convegno dell'Associazione Italiana dei Professori di diritto penale. "Economia e diritto penale nel tempo della crisi" - Palermo, 15/16 novembre 2013. Terza sessione. Criminalità economica e criminalità organizzata. Strategie di contrasto dell'inquinamento criminale dell'economia: il nodo dei rapporti tra mafie e imprese, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 705 ss. Sul tema, tra i numerosi contributi, v.: Gratteri-Nicaso, Il Grifone, Mondadori, 2023; Milita, Gli strumenti di contrasto alle Eco mafie. L'esperienza giudiziaria campana, SSM, Corso P21085, 29 ottobre 2021; Scarcella, Criminalità organizzata e responsabilità degli enti, SSM, P20070 del 14-15 settembre 2020.
[36] Pignatone, cit., p. 12.
Foto via Wikimedia Commons.
L’intelligenza artificiale per i giuristi: una sfida ormai inevitabile
Recensione di “Intelligenza Artificiale – Essere Avvocati nell’era di Chat GPT” di Claudia Morelli, Maggioli Editore, 2024.
di Claudio Castelli
L’intelligenza artificiale è il futuro e condizionerà inevitabilmente la nostra società e le nostre attività. Il punto è se ignorarla, subirla o governarla. Ciò riguarda e riguarderà tutte le professioni e, probabilmente, larga parte degli aspetti delle nostre vite, anche nelle professioni giuridiche e per i giuristi. Per questo il contributo di Claudia Morelli con il suo volume “Intelligenza Artificiale – Essere Avvocati nell’era di Chat GPT” è particolarmente prezioso e dovrebbe essere letto non solo dagli avvocati, ma da tutti i giuristi, in primis dai magistrati, e da tutti coloro che sono interessati al nostro mondo e ai suoi cambiamenti. Prezioso per la mole di informazioni, notizie e stimoli che contiene. Essenziale per l’inevitabile approccio multidisciplinare e per la capacità di navigare su terreni molto diversi, dalla storia del diritto alla normativa esistente, dall’impatto delle nuove tecnologie, ai nuovi problemi etici per arrivare alle esperienze concrete già avutesi.
È sicuramente un terreno difficile: basti pensare alla stessa difficoltà di definire cosa sia l’Intelligenza Artificiale, tanto che alcuni parlano al plurale di Intelligenze Artificiali, ma nel contempo un terreno ormai necessario e segnato. L’Intelligenza Artificiale e le sue applicazioni non sono più una scelta, ma una necessità per rimanere competitivi e, forse, per esistere come professione. E ciò riguarda anche la giustizia se per alcuni fonti (il paper How will Language Modelers like ChatGPT Affect Occupatons and Industries?) il mercato dei servizi legali sarà la prima industry ad essere investita dai sistemi di Gen AI. E sempre secondo questa fonte le professioni più esposte a rischi sono i professori di diritto (al 5° posto), i magistrati (al 17°), i giudici amministrativi e cancellieri (al 28°), gli assistenti giudiziari (al 35°) e gli avvocati (al 50°). Ipotesi inquietanti anche se riguardano un sistema profondamente diverso come quello americano e si basano su proiezioni di dubbia scientificità. Ipotesi che comunque dobbiamo prendere in considerazione per riaffermare la profonda umanità delle nostre professioni, ma nel contempo per poter riuscire ad utilizzare al meglio le enormi potenzialità che le applicazioni di intelligenza artificiale possono darci per lavorare meglio, più rapidamente e con crescente qualità. Non dobbiamo mai dimenticare che ci confrontiamo con sistemi, addestrati su milioni di testi scritti, che sono “stupidi” in quanto non sono in grado di comprenderne il significato, ma che sono in grado di riordinare le parole secondo pattern ricorrenti, basandosi su calcoli di probabilità sulla stessa sequenza del linguaggio e delle parole. La memoria e il giacimento di dati immagazzinati è davvero sovrumana, ma inevitabilmente priva di ragionamento. Sistemi definiti generativi, perché l’output è assemblato in maniera generativa, ovvero nuova. Sistemi che possono comunque soffrire di “allucinazioni”, dando soluzioni sbagliate o inventandole perché sono compiacenti e del tutto dipendenti dalla correttezza, completezza e bontà dei dati immagazzinati e messi a loro disposizione.
Sposare le enormi potenzialità dell’intelligenza artificiale generativa con la fantasia, la creatività e il sapere umano può darci risultati eccezionali che oggi neppure immaginiamo e può consentirci di risparmiare tempo e di migliorare il nostro lavoro e la nostra vita.
Si tratta comunque di un passaggio difficile in cui la prima necessità è cercare di conoscere e comprendere cos’è e cosa può darci l’intelligenza artificiale con le necessarie cautele, ma senza paura.
Un percorso in cui questo libro di Claudia Morelli ci può aiutare.
La sentenza della Corte costituzionale n. 132/2024: verso un nuovo punto di equilibrio nella ripartizione del rischio tra la P.A. e l’agente pubblico?
di Donatella Palumbo
Sommario: 1. Premessa – 2. L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa – 3. La ricostruzione dei fatti nel giudizio a quo – 4. Le argomentazioni offerte dall’ordinanza n. 228 del 16 novembre 2023 della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania – 5. La posizione della Corte costituzionale in ordine alle questioni sollevate – 5.1. L’amministrazione di risultato – 5.2. La fatica dell’amministrare – 5.3. Overdeterrence o underdeterrence? – 6. La prospettiva futura – 7. Riflessioni conclusive.
1. Premessa
L’art. 21, comma 2 - rubricato “Responsabilità erariale” - del decreto-legge n. 76/2020 (recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”), convertito con modificazioni dalla legge n 120/2020, dispone che “limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2024, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l'azione di responsabilità di cui all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”.
Con tale disposizione il legislatore ha modificato, in via temporanea[1], la disciplina dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa individuato, a regime, nel dolo e nella colpa grave dall’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, in tal modo introducendo per un periodo limitato il c.d. “scudo erariale”.
Con la sentenza n. 132/2024, depositata il 16 luglio 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 21, comma 2, sollevate dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania, con ordinanza n. 228 del 16 novembre 2023 (depositata il 18 dicembre 2023)[2], in riferimento agli artt. 28, 81 e 103 della Costituzione, mentre ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
2. L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa
Preliminarmente appare utile offrire un quadro sintetico dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa[3].
L’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, recante “Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti”, nella sua formulazione originaria prevedeva soltanto il carattere personale della responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica e la trasmissibilità agli eredi nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi. Pertanto, secondo la disciplina allora vigente (art. 82, comma 1, del regio decreto n. 2440/1923[4], art. 52, comma 1, del regio decreto n. 1214/1934[5] e art. 18 del D.P.R. n. 3/1957[6]) era sufficiente la sola colpa lieve per fondare l’azione di responsabilità innanzi alla Corte dei conti[7].
Tuttavia, l’art. 3, comma 1, lett a), del decreto-legge n. 543/1996, recante “Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti”, convertito con modificazioni dalla legge n. 639/1996, ha innovato l’art. 1, comma 1, della legge 20/1994 circoscrivendo l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave.
Nei lavoratori preparatori della legge di conversione, infatti, pur nella diversità delle posizioni che hanno animato il dibattito parlamentare[8], è possibile rintracciare la voluntas legislatoris di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponesse all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa, avendo rilevato che l'estensione alle ipotesi di colpa lieve della responsabilità per danno erariale aveva comportato effetti di paralisi dell'amministrazione, ostacolando di fatto l'assunzione di responsabilità[9].
In sede di conversione, peraltro, è stato aggiunto il seguente inciso “ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali” [10].
Pertanto, l’attuale testo dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, così come innovato, dispone quanto segue: “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.
Orbene, sul punto, erano state sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett a), del decreto-legge n. 543/1996, in riferimento agli artt. 3, 97, 103, comma 2, della Costituzione e (in un caso) anche degli artt. 11, 24 e 81 della Costituzione, sia dalla Corte dei conti, Sezione prima centrale d’appello (ordinanze del 29 novembre 1996, del 27 novembre 1996, del 25 febbraio 1997 e del 26 settembre 1997), sia dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Liguria (ordinanza del 15 maggio 1997), dichiarate non fondate dalla Corte costituzionale (riuniti i giudizi) con sentenza n. 371/1998. La pronuncia assume un’importanza particolare in quanto, proprio riprendendo il tenore dei lavori preparatori della legge di conversione, sottolinea come la disposizione, nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, risponde alla “finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo e non di disincentivo”.
Va aggiunto che il legislatore del periodo pandemico, oltre alla introduzione del c.d. “scudo erariale”, con l’art. 21, comma 1, del decreto-legge n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 120/2020 ha modificato a regime l’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994 stabilendo che “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Tale norma rappresenta una “rottura” con il modello di elemento soggettivo delineato in chiave civilistica-contrattuale, perché è il legislatore stesso che nella relazione illustrativa esclude espressamente la lettura civilistica del dolo, optando per una lettura dell’elemento soggettivo in chiave penalistica, rendendo peraltro più complessa la prova del dolo sul piano istruttorio, in quanto la prova del dolo contrattuale si arresta alla coscienza e volontà della sola condotta antigiuridica, escludendo la rilevanza della volontà dell’evento, mentre la prova del dolo in chiave penal-erariale deve avere ad oggetto anche la rappresentazione e la volontà dell’evento dannoso (danno all’erario)[11].
3. La ricostruzione dei fatti nel giudizio a quo
Prima di addentrarci nell’esame delle argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 132/2024, appare utile riportare la ricostruzione dei fatti nel giudizio oggetto dell’ordinanza di rimessione n. 228 del 16 novembre 2023 (depositata il 18 dicembre 2023), della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania.
La vicenda processuale trae la propria scaturigine da un’attività istruttoria svolta dalla Procura contabile regionale campana, a seguito della quale sono stati citati in giudizio sei militari per sentirli condannare in favore dell’amministrazione danneggiata al risarcimento di un danno erariale, cagionato in conseguenza di un ammanco di cassa dovuto a plurime riscossioni di settantotto assegni non autorizzati (avvenute in un periodo compreso tra il 7 maggio 2010 e il 20 gennaio 2021). Il danno erariale è stato quantificato in complessivi euro 2.413.150,00 per il cassiere, convenuto in via principale a titolo di dolo, e in euro 2.013.350,00 per gli altri, convenuti in via sussidiaria a titolo di colpa grave, i quali, nel periodo in contestazione, avevano svolto i ruoli di capi del servizio amministrativo e della gestione finanziaria. In particolare, in ordine a questi ultimi, le contestazioni a titolo di colpa grave si atteggiano con differenti condotte: la forma commissiva, contestata a tre convenuti, ravvisabile nell’aver apposto la seconda firma di traenza sugli assegni determinativi delle ingiustificate e dannose fuoriuscite, senza operare le verifiche sulla regolarità e correttezza del procedimento di spesa (ex artt. 450 e 503, comma 4, del D.P.R. n. 90/2010); la forma omissiva, contestata a cinque convenuti, per la violazione di peculiari obblighi di controllo sulla documentazione contabile e sui conti, disattesi dai responsabili alternatisi nelle due distinte posizioni di garanzia, così non impedendo l’illecita sottrazione.
4. Le argomentazioni offerte dall’ordinanza n. 228 del 16 novembre 2023 della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania
Il ragionamento sotteso all’ordinanza di rimessione della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania, àncora l’illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120/2020, alla violazione degli artt. 3, 28, 81, 97 e 103 della Costituzione, in quanto norma di presumibile applicabilità nella vicenda ma “irragionevolmente limitatrice della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi di condotte attive dolose”[12].
Dopo aver fornito un quadro ordinamentale della responsabilità erariale e aver motivato in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale, la Sezione giurisdizionale campana si sofferma sugli articoli della Costituzione di cui assume la violazione, ponendo in sequenza le seguenti considerazioni:
- art. 103: sottrazione alla giurisdizione della Corte dei conti della assoggettabilità a responsabilità delle condotte attive gravemente colpose a far data dall’entrata in vigore della norma, atteso che in relazione alla responsabilità amministrativa, sulla base dei principi individuati dalla giurisprudenza costituzionale, la misura della colpa grave si configura come il punto di equilibrio del sistema tra la colpa e il dolo[13], esprimendo il quantum di rischio che deve ricadere sulla P.A. per i danni causati dai dipendenti, nell’ottica, da un lato, di non disincentivare l’attività eliminando l’inerzia nell’attività amministrativa e, dall’altro, di non incentivare condotte foriere di danno;
- art. 97, commi 1 e 2: violazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione, in quanto la norma “rende legittime e lecite condotte gravemente colpose, con la convinzione in colui che agisce che, in assenza del dolo, non ha alcun rilievo se agisca legittimamente o lecitamente, tanto non sarà tenuto a risarcire i danni”, e del principio dell’efficienza dell’amministrazione, in quanto l’errore grave e inescusabile del dipendente pubblico “resta a carico dell’amministrazione, se non determinato da un’omissione e rimane frustrato l’interesse pubblico all’azione efficiente ed economica della P.A.”[14];
- art. 28: violazione del principio di responsabilità diretta dei pubblici dipendenti, in quanto l’eliminazione dell’imputazione a titolo di colpa grave per condotte attive svuota il contenuto della responsabilità amministrativa;
- art. 81: violazione dell’equilibrio di bilancio e della sostenibilità del debito, in quanto condotte foriere di danno non vengono risarcite e restano a carico della collettività;
- art. 3, sotto plurimi profili: violazione del principio di eguaglianza in punto di discriminazione, risultando la norma irragionevolmente ampia in primo luogo nel comprendere qualunque condotta commissiva gravemente colposa che esula dalle finalità ad essa sottese, operando peraltro una discriminazione irragionevole anche fra coloro che nell’ambito dell’amministrazione hanno obblighi di controllo e vigilanza (per la quale la scriminante non vale) e coloro che hanno la gestione attiva e i compiti di predisporre i provvedimenti amministrativi (per i quali la scriminante vale); in secondo luogo, in punto di discriminazione tra lavoratori del settore pubblico e lavoratori del settore privato atteso che i primi, già avvantaggiati rispetto ai secondi in quanto godono di un’esenzione per colpa lieve, sono allo stato responsabili per le condotte attive solo a titolo di dolo.
5. La posizione della Corte costituzionale in ordine alle questioni sollevate
5.1. L’amministrazione di risultato
La breve analisi svolta in questa sede si concentra sul profilo esaminato dalla Corte costituzionale con priorità logica: il contrasto della norma limitatrice della responsabilità amministrativa di cui all’art. 21, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120/2020, con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, laddove si considera l’imputabilità a titolo di dolo e colpa grave il giusto “punto di equilibrio del sistema”, che individua il “quantum di rischio che deve ricadere sul datore di lavoro amministrazione pubblica per i danni causati dai dipendenti”, nell’ottica da un lato di incentivare l’operato attivo degli amministratori e, dall’altro, di non incentivare condotte negligenti e foriere di danno.
Invero, a fronte di una consolidata giurisprudenza formatasi successivamente alla menzionata sentenza n. 371/1998, l’aspetto innovativo della sentenza n. 132/2024 appare il seguente: “il punto di equilibrio può non essere fissato una volta per tutte, ma modulato in funzione del contesto istituzionale, giuridico e storico in cui opera l’agente pubblico, e del bilanciamento che il legislatore medesimo – nel rispetto del limite della ragionevolezza – intende effettuare, in tale contesto, tra le due menzionate esigenze”. Al fine di individuare tale punto di equilibrio occorre tenere in conto, dunque, le seguenti due esigenze:
- la funzione della responsabilità amministrativa, la quale non è solo una funzione di tipo risarcitorio ma assume anche i caratteri della deterrenza (quindi anche con riferimento a comportamenti gravemente negligenti dei funzionari pubblici, che pregiudicano il buon andamento della pubblica amministrazione e gli interessi degli stessi amministrati, la cui contribuzione al funzionamento della macchina pubblica potrebbe essere dissipata senza alcun beneficio per la collettività);
- impedire che in relazione alle modalità dell’agire amministrativo il rischio dell’attività sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento.
Ne consegue che, nel rispetto del limite della ragionevolezza, la Corte costituzionale ribadisce la centralità della discrezionalità legislativa.
Orbene, nel dichiarare non fondata la questione, la Corte costituzionale offre una disamina del nuovo modello di pubblica amministrazione - l’amministrazione di risultato[15] - delineato attraverso un processo riformatore di più ampio respiro che ha avuto luogo negli anni Novanta del secolo scorso e che ha coinvolto anche il riassetto della responsabilità amministrativa divisato nella legge n. 20/1994. Tale modello è sussumibile in un’amministrazione che deve raggiungere determinati obiettivi di policy e che risponde dei risultati economici e sociali conseguiti attraverso la sua complessiva attività, ove l’ampia discrezionalità, esercitata in un ambiente in cui la complessità istituzionale, sociale e giuridica è andata progressivamente crescendo, è una componente essenziale e caratterizzante.
La scelta di un’amministrazione di risultato si è andata via via consolidando, dapprima con il d.lgs. n. 165/2001, recante “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” e, successivamente, con il d.lgs. n. 150/2009, recante “Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni” e, infine, più di recente con il d.lgs. n. 36/2023, recante il “Codice dei contratti pubblici in attuazione dell'articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici”, laddove enuncia agli artt. 1[16] e 2[17] i principi generali dell’azione amministrativa in materia di contratti pubblici, menzionando rispettivamente i principi del risultato e della fiducia.
In particolare, l’articolo 1 del Codice dei contratti pubblici fornisce una nozione per certi versi inedita del principio di risultato – non strettamente correlato, dunque, con il significato relativo alle attività di esercizio della funzione amministrativa – atteso che il risultato che l’amministrazione è chiamata a perseguire nell’affidamento e nell’esecuzione del contratto coincide “con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo, nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza”. La proposizione enuncia, al contempo, i valori in cui il concetto di risultato si concretizza e gli “argini” all’interno dei quali i predetti valori devono essere perseguiti[18].
Il principio del risultato segna, dunque, un punto di svolta rispetto al paradigma finora seguito nella contrattualistica pubblica, orientata alla promozione della concorrenza come unica modalità di scelta della soluzione idonea a garantire il soddisfacimento dell’interesse pubblico con il minor aggravio di spesa: la nuova disciplina pone, infatti, al centro dell’azione contrattuale dell’amministrazione l’acquisizione di beni e servizi e la realizzazione di lavori alle migliori condizioni possibili. Come si legge nella relazione illustrativa al Codice, del resto, il principio di concorrenza, così come il principio di legalità e di trasparenza sono dunque strumenti a servizio del miglior risultato, realizzando in tal modo un equo bilanciamento tra le esigenze di garanzia e l’efficienza e l’economicità delle procedure nelle commesse pubbliche[19].
Quanto al principio della fiducia, si legge nella relazione agli articoli e agli allegati dello schema definitivo di Codice dei contratti pubblici, in attuazione dell’articolo 1 della legge n. 78/2022, recante “Delega al Governo in materia di contratti pubblici”, redatta dal Consiglio di Stato, che con l’inserimento del principio della fiducia si perviene a “un segno di svolta rispetto alla logica fondata sulla sfiducia (se non sul “sospetto”) per l’azione dei pubblici funzionari, che si è sviluppata negli ultimi anni (…) e che si è caratterizzata da un lato per una normazione di estremo dettaglio, che mortificava l’esercizio della discrezionalità, dall’altro per il crescente rischio di avvio automatico di procedure di accertamento di responsabilità amministrative, civili, contabili e penali che potevano alla fine rivelarsi prive di effettivo fondamento”, le quali hanno generato “paura della firma” e “burocrazia difensiva”, a loro volta “fonte di inefficienza e immobilismo e, quindi, un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente”. La relazione prosegue nell’indicare che sin dalle sue disposizioni di principio, si avverte “il segnale di un cambiamento profondo, che – fermo restando ovviamente il perseguimento convinto di ogni forma di irregolarità – miri a valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici, introducendo una “rete di protezione” rispetto all’alto rischio che accompagna il loro operato”. Si tratta, quindi, di un vero e proprio cambio di paradigma culturale, ancor prima che giuridico-normativo[20].
Ne consegue che, nell’ambito del Codice dei contratti pubblici, improntato appunto alla valorizzazione del principio del risultato e di quello della fiducia[21], trova spazio un diversificato regime della responsabilità amministrativa: da un lato la valorizzazione del risultato come parametro di valutazione della responsabilità introduce anche nell’ambito dei contratti pubblici il concetto dell’accountability che, ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’amministrazione, impone la verifica della correttezza dell’agire amministrativo in senso sostanziale e non come mera osservanza di regole formali; dall’altro si introduce la riduzione della quota di rischio a carico del dipendente pubblico attraverso una tipizzazione della colpa grave (cfr. art. 2, comma 3, del Codice del contratti pubblici) e una serie di obblighi a carico dell’amministrazione, tra cui quello di adottare azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale (art. 2, comma 4, e art. 15, comma 7, del Codice dei contratti pubblici).
5.2. La fatica dell’amministrare
Particolarmente interessante il punto 6.5. della motivazione della sentenza in commento, laddove la Corte costituzionale richiama le seguenti tendenze da cui evincere la sempre maggiore difficoltà delle scelte amministrative in cui si estrinseca la discrezionalità con conseguente occasione di errore, anche grave:
- individuazione delle norme da applicare nel caso concreto, a causa di un sistema giuridico multilivello e di una caotica produzione legislativa[22];
- contrazione delle risorse finanziarie, umane e strumentali delle amministrazioni, inevitabili attese le esigenze di bilancio sempre più pressanti;
- tendenze strutturali delle moderne società e dei loro sistemi amministrativi: pluralismo sociale e istituzionale, moltiplicarsi dei rischi[23] e connessa scelta di bilanciamento tra precauzione e libertà di iniziativa economica.
Ad avviso della Corte costituzionale la complessità dell’ambiente in cui operano gli agenti pubblici sul piano istituzionale, giuridico e fattuale, caratterizzato dalle tendenze poc’anzi illustrate, accentua “la “fatica dell’amministrare”[24], rendendo difficile l’esercizio della discrezionalità amministrativa e stimolando, come reazione al rischio percepito di incorrere in responsabilità, la burocrazia difensiva”. Quest’ultima, in particolare, viene alimentata anche dall’incertezza provocata da una disciplina che si affida a un concetto giuridico indeterminato, quale quello della colpa grave, anziché procedere a una sua tipizzazione.
5.3. Overdeterrence o underdeterrence?
Ad avviso della Corte costituzionale, il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i profondi mutamenti del contesto in cui essa opera giustificano la ricerca legislativa di nuovi punti di equilibrio - tra i pericoli di overdeterrence e underdeterrence - che riducano la quantità di rischio dell’attività che grava sull’agente pubblico, in modo che il regime della responsabilità, nel suo complesso, non funga da disincentivo all’azione.
Orbene, all’interrogativo se sia possibile far derivare un regime ordinario che limiti la responsabilità amministrativa alla sola ipotesi del dolo, la Corte costituzionale offre una risposta negativa atteso che, in questo caso, “la ripartizione del rischio sarebbe addossata in modo assolutamente prevalente alla collettività, la quale dovrebbe sopportare integralmente il danno arrecato dall’agente pubblico”, con la conseguenza che i comportamenti gravemente negligenti non sarebbero scoraggiati e “la funzione deterrente della responsabilità amministrativa, strumentale al buon andamento della P.A., ne sarebbe irrimediabilmente indebolita”.
Tuttavia, la regola generale registra due ipotesi eccezionali che, pur superando lo scrutinio di ragionevolezza, sono caratterizzate da un indebolimento della funzione deterrente: in primo luogo, si fa riferimento ai casi in cui la limitazione dell’imputazione soggettiva della responsabilità amministrativa al solo dolo riguardi un numero limitato di agenti pubblici o determinate attività amministrative, contraddistinte da un grado di rischio talmente elevato da scoraggiare sistematicamente l’azione dando così luogo all’amministrazione difensiva[25]; in secondo luogo, ai casi di disciplina provvisoria che limiti al dolo l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, avuto riguardo a un contesto particolare che richieda tale limitazione al fine di assicurare la maggiore efficacia dell’attività amministrativa e, attraverso essa, la tutela di interessi di rilievo costituzionale.
Risulta evidente come la disposizione oggetto di censura di costituzionalità si colloca in questo secondo tipo di ipotesi eccezionali, in quanto origina in un contesto del tutto peculiare[26] con una efficacia che - allo stato - cesserà, seppur a seguito di proroghe, il 31 dicembre 2024.
Del resto, l’art. 23, comma 1, del medesimo decreto-legge n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120/2020, ha agito anche sul reato di abuso d’ufficio, modificandone in senso restrittivo il perimetro applicativo della prima condotta tipica descritta nell’art. 323 c.p., mediante la sostituzione della locuzione “violazione di norme di legge o di regolamento” con l’espressione “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuano margini di discrezionalità”.
Su tale profilo, peraltro, la Corte costituzionale aveva già avuto modo di pronunciarsi con la sentenza n. 8/2022[27] - richiamata dalla stessa Corte nella pronuncia in commento – secondo la quale il capo IV del titolo II del decreto-legge n. 76/2020 si occupa delle due “principali fonti di timore per il pubblico amministratore (e, dunque, dei suoi “atteggiamenti difensivistici”): la responsabilità erariale e la responsabilità penale[28]”.
Invero, benchè tale esigenza di contrasto alla c.d. burocrazia difensiva[29] fosse avvertita da tempo, solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19 il legislatore si è adoperato lungo le due direttrici (penale ed erariale) nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza[30] volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza.
Al riguardo la Corte costituzionale ha sottolineato come l’esigenza di contrastare nel modo più efficace possibile la tendenza alla “burocrazia difensiva” – in disparte ogni disquisizione circa le modifiche apportate all’abuso d’ufficio – ha indotto il legislatore del periodo pandemico allo spostamento temporaneo della configurazione dell’elemento soggettivo verso il polo dell’underdeterrence, al fine di tutelare, attraverso uno stimolo all’attività degli agenti pubblici, interessi vitali della società italiana dotati di rilevanza costituzionale, tutelati dai seguenti articoli della Costituzione: 3, 4, 32, 33, 34, 35, 38 e 41. Appare, quindi, coerente la limitazione correlata alle sole condotte gravemente colpose commissive - e non anche a quelle omissive, per le quali è rimasta invariata l’imputazione soggettiva a titolo di dolo e colpa grave – in modo che, come si legge nella relazione illustrativa del decreto-legge n. 76/2020, “i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo”.
Invero l’inerzia amministrativa avrebbe potuto pregiudicare, successivamente all’attenuarsi del periodo pandemico, anche altri interessi di grande rilevanza tutelati dai seguenti articoli della Costituzione emersi nel particolare contesto del P.N.R.R.:
- artt. 11 e 117, comma 1: obblighi assunti in sede U.E. (attuazione P.N.R.R.)[31];
- art. 9: tutela dell’ambiente (transizione verde)
- art. 3: uguaglianza (parità di genere);
- art. 4: realizzazione di un’economia sostenibile;
- art. 9: obiettivo di protezione e valorizzazione dei giovani;
- art. 81: rispetto dell’equilibrio di bilancio e di sostenibilità del debito pubblico;
- artt. 5 e 119: superamento dei divari territoriali.
Ne consegue che, ad avviso della Corte costituzionale, anche per la fase successiva alla crisi economica provocata dalla pandemia da COVID-19, caratterizzata da proroghe dell’efficacia dell’art. 21, comma 1, del decreto-legge n. 76/2020, correlate all’attuazione del P.N.R.R., appare ragionevole “il punto di equilibrio che, limitatamente alle condotte attive, provvisoriamente limita l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa al solo dolo”.
6. La prospettiva futura
L’art. 1, comma 12-quinquies, lettera a), del decreto-legge n. 44/2023, come convertito con modificazioni dalla legge n. 74/2023, nel consentire la proroga al 30 giugno 2024 della disposizione contenuta nell’art. 21, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120/2020, segnalava già in quell’occasione la necessità di una complessiva revisione della disciplina sulla responsabilità amministrativo-contabile.
Sulla stessa scia si colloca la sentenza della Corte costituzionale allorquando, nella motivazione finale della sentenza, sostiene che, al di là del regime provvisorio oggetto della disposizione censurata, occorre considerare il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i mutamenti strutturali del contesto istituzionale, giuridico e sociale in cui essa opera che giustificano la ricerca, a regime (e, dunque, non solo in via transitoria) di “nuovi punti di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, con l’obiettivo di rendere la responsabilità ragione di stimolo e non disincentivo all’azione”. Dunque, in assenza di interventi il fenomeno della “burocrazia difensiva” sarebbe destinato a riespandersi e la percezione da parte dell’agente pubblico di un eccesso di deterrenza (la c.d. overdeterrence) tornerebbe a rallentare l’azione amministrativa[32], di talché appare necessaria una complessiva riforma della responsabilità amministrativa, per ristabilire una coerenza tra la sua disciplina e le trasformazioni dell’amministrazione e del contesto in cui essa deve operare.
La Corte costituzionale, peraltro, traccia anche il perimetro di una eventuale riforma[33], evidenziando che seppur il legislatore non potrà in ogni caso riproporre una limitazione dell’imputabilità al solo dolo[34] per le condotte attive, potrà, tuttavia, nell’esercizio della discrezionalità che gli compete, attingere al complesso di proposte illustrate nelle numerose analisi scientifiche della materia[35], “alleviando la fatica dell’amministrare, senza sminuire la funzione deterrente della responsabilità amministrativa”:
- adeguata tipizzazione della colpa grave[36];
- introduzione di un limite massimo oltre il quale il danno non viene addossato al dipendente pubblico ma resta a carico dell’amministrazione nel cui interesse agisce (il c.d. “tetto”, accompagnato eventualmente dalla rateizzazione del debito risarcitorio)[37];
- introduzione di ipotesi di potere riduttivo normativamente tipizzate nei presupposti oltre alla generale ipotesi affidata alla discrezionalità del giudice;
- rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei conti, con il contestuale abbinamento di una esenzione da responsabilità colposa per coloro che si adeguino alle sue indicazioni;
- incentivazione delle polizze assicurative (a cui ha già fatto ricorso il Codice dei contratti pubblici);
- valutazione dell’esclusione della responsabilità colposa per determinate tipologie di atti;
- tentativo di evitare i casi di duplicazione di responsabilità per i medesimi fatti.
7. Riflessioni conclusive
Conclusivamente si può affermare, in linea con quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 132/2024, che il legislatore gode di una discrezionalità sua propria nel definire il perimetro di una futura riforma della responsabilità amministrativa che tenga conto, a regime, di un eventuale nuovo punto di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, ma si ribadisce che tale discrezionalità legislativa si estrinseca nel rispetto del limite della ragionevolezza, di talché non si potrebbe mai addivenire, in un regime ordinario, ad una limitazione della responsabilità amministrativa alla sola ipotesi del dolo.
Il recente percorso intrapreso dal legislatore sembrerebbe orientato all’underdeterrence: l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. b), della legge n. 114/2024, ne è un chiaro segnale[38].
Quanto alla responsabilità amministrativa è all’esame del Parlamento il progetto di legge C. 1621[39] recante “Modifiche alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, al codice della giustizia contabile, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, e altre disposizioni in materia di funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale”, che ha assorbito, quale testo base nell’iter parlamentare in corso, il progetto di legge C. 340 recante “Modifiche all'articolo 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e altre disposizioni riguardanti le funzioni di controllo e consultive e l'organizzazione della Corte dei conti”[40].
Come argutamente già evidenziato, agire solo sul fronte della riduzione della responsabilità amministrativa potrebbe generare una “tolleranza per la fuga da responsabilità[41]” di coloro che gestiscono le risorse pubbliche.
In un tale contesto si staglia il Piano strutturale di bilancio di medio termine che, come noto, il 27 settembre 2024 è stato deliberato dal Consiglio dei ministri italiano nell’ambito delle coordinate della nuova governance economica europea.
In particolare, sul fronte della Pubblica amministrazione, l’Italia, dopo aver premesso che negli ultimi anni ha intrapreso un percorso di miglioramento dell’efficacia della P.A., affrontando le criticità relative all’effettiva capacità amministrativa, all’invecchiamento della forza lavoro e al livello di digitalizzazione, entro il 2026 si è impegnata a migliorare il livello delle competenze e di riqualificazione da parte del personale delle P.A. nonché ad identificare gli indicatori chiave di prestazione, da utilizzare, una volta raccolti su una piattaforma digitale della performance, come strumento anche ai fini del budget e della pianificazione, mentre a partire dal 2027, a consolidamento e rafforzamento dei risultati raggiunti, intende proseguire nella gestione strategica delle risorse umane (attraverso la valorizzazione del merito e di percorsi di carriera allineati alla performance) e nel potenziamento della capacità tecnica e delle competenze (anche attraverso l’imponente digitalizzazione della P.A.).
L’impianto generale mira, dunque, a promuovere un modus operandi orientato al raggiungimento del risultato che potrà garantire, attraverso una maggiore flessibilità, adattabilità nella gestione del lavoro e senso di responsabilità, prestazioni realmente migliori, a vantaggio di cittadini e imprese[42].
Orbene, se queste sono le linee generali dell’azione dell’Italia nel medio periodo sul versante della P.A. - ancora non tradottesi in un articolato normativo - sarebbe auspicabile che il legislatore valutasse una revisione della disciplina della responsabilità amministrativa in parallelo con la prospettata riforma della P.A., al fine di individuare in modo calibrato e maggiormente meditato un giusto punto di equilibrio nella ripartizione del rischio tra apparato e agente pubblico, ragionando sul quantum da destinare a carico dell’apparato - e quindi a carico della collettività - soprattutto nel rinnovato contesto dei vincoli previsti con il Regolamento (UE) n. 1263 del 2024.
[1] Il termine originario previsto dall’art. 21, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020 e fissato al 31 luglio 2021 è stato oggetto di prima proroga al 31 dicembre 2021 già in sede di conversione con la legge n. 120/2020. Una successiva proroga al 30 giugno 2023 è stata disposta dall’art. 51, comma 1, lett. h), del decreto-legge n. 77/2021, convertito con modificazioni dalla legge n. 108/2021, ed un ulteriore rinvio al 30 giugno 2024 è stato previsto dall’art. 1, comma 12-quinquies, lett. a), del decreto-legge n. 44/2023, convertito con modificazioni dalla legge n. 74/2023. Infine, l’ultima proroga è stata accordata al 31 dicembre 2024 dall’art. 8, comma 5-bis, del decreto-legge n. 215/2023, così come convertito con modificazioni dalla legge n. 18/2024.
[2] Per un commento a tale ordinanza si rinvia a A. INDELICATO, Responsabilità e “scudo” erariale: retrospettive e prospettive dopo la rimessione alla Consulta, in Rivista della Corte dei conti, 2023, 6, pag. 217.
[3] Per un approfondimento, A. CANALE, L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, in A. CANALE – D. CENTRONE – F. FRENI – M. SMIROLDO (a cura di), La Corte dei conti. Responsabilità, contabilità, controllo, Milano, 2022, pag. 133 e ss..
[4] Ai sensi dell’art. 82, comma 1, del regio decreto n. 2440/1923, “l'impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell'esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo”.
[5] Ai sensi dell’art. 52, comma 1, del regio decreto n. 1214/1934, “i funzionari, impiegati ed agenti, civili e militari, compresi quelli dell'ordine giudiziario e quelli retribuiti da Amministrazioni, Aziende e Gestioni statali ad ordinamento autonomo, che nell'esercizio delle loro funzioni, per azione od omissione imputabili anche a sola colpa o negligenza, cagionino danno allo Stato o od altra Amministrazione dalla quale dipendono, sono sottoposti alla giurisdizione della Corte nei casi e modi previsti dalla legge sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato e da leggi speciali”.
[6] Ai sensi dell’art. 18 del D.P.R. n. 3/1957, “l'impiegato delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, è tenuto a risarcire alle amministrazioni stesse i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio”.
[7] Salvo in taluni limitati casi in cui veniva richiesto il più elevato grado della colpa grave, come nell’ipotesi descritta dall’art. 83, comma 3, del regio decreto n. 2440/1923, ai sensi del quale “quando nel giudizio di responsabilità la Corte dei conti accerti che fu omessa denunzia, a carico di personale dipendente, per dolo o colpa grave, può condannare al risarcimento, oltre che gli autori del danno, anche coloro che omisero la denunzia”, e nell’ipotesi di cui all’art. 53, comma 3, del regio decreto n. 1214/1934, secondo cui “quando nel giudizio di responsabilità la Corte accerti che, per dolo o colpa grave fu omessa la denunzia, a carico di personale dipendente, può condannare al risarcimento, oltre gli autori del danno, anche coloro che omisero la denunzia”.
[8] Come segnalato, nella dialettica parlamentare si erano registrate posizioni contrarie. A titolo esemplificativo si riporta il contenuto di quanto dichiarato dai seguenti deputati nel corso dell’esame in commissione e nella discussione in sede assembleare (dichiarazioni reperibili sul sito www.camera.it):
- Franco Frattini, secondo cui “per quanto concerne l'ambito della procedibilità e della sottoponibilità a giudizio per fatti configuranti la violazione del principio della buona amministrazione, sotto il profilo soggettivo della responsabilità evidenzia come nel provvedimento sia stata innalzata la relativa soglia, limitandola alle ipotesi di dolo o colpa grave. La gravità della disposizione va esaminata anche alla luce della previsione dell'abrogazione del comma 4 dell'articolo 1 della legge n. 20 del 1994 prevista dal comma 2 dell'articolo 11 del disegno di legge n. 2564, recante «Misure in materia di immediato snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo», approvato dal Senato; quest'ultima disposizione della legge n. 20 del 1994 fu infatti introdotta allo scopo dì colpire gravissimi fatti registratisi nella gestione di talune strutture amministrative, come dimostrano, per esempio, le recenti vicende di «malasanità» e la relativa abrogazione potrebbe anche leggersi come una indiscriminata sanatoria di comportamenti illeciti. Ricorda come peraltro la stessa Corte si sia resa conto della difficoltà di evidenziare profili di responsabilità in circostanze in cui l'elemento oggettivo dell'attività interferisca con la funzione amministrativa in concreto esercitata, elaborando, per esempio, alcune ipotesi di esimente quali quella dell'errore professionale scusabile e della carenza organizzativa dell'amministrazione. Alla luce, pertanto, di tali indicazioni giurisprudenziali non ritiene necessario limitare alle sole ipotesi di dolo e colpa grave l'insorgere della responsabilità, soprattutto ove si considerino le ipotesi di atti amministrativi dovuti: infatti è immaginabile che, innalzando la soglia di responsabilità, in tali ultime ipotesi si possa incoraggiare l'inefficienza degli amministratori nel compimento persino degli atti necessari. Nel preannunciare la presentazione di emendamenti volti a rimediare alle disfunzioni appena evidenziate, ritiene che l'innalzamento della soglia di responsabilità possa quanto meno essere limitato allo svolgimento di attività discrezionali, nell'ambito delle quali, essendo necessario ponderare gli interessi pubblici coinvolti, la colpa lieve può essere riconducibile nell'ambito della responsabilità di funzione” (esame in sede referente, I commissione, 27 novembre 1996); inoltre, il medesimo deputato, nel prosieguo delle sedute della I Commissione della Camera dei deputati, nel prendere in considerazione l'emendamento 3.2., “si rende conto che esiste un reale problema per numerosi amministratori e funzionari pubblici che agiscono in un contesto di norme spesso contraddittorie. Non ritiene però condivisibile la proposta di elevare la soglia di responsabilità fino alla sola ipotesi della condotta dolosa: rileva come si tratti di un punto sul quale si registrano contrasti non solo dal punto di vista giuridico e politico ma anche sotto il profilo della stessa visione dell'ordinamento. Ritiene infatti che l'esclusione della responsabilità per colpa lieve non solo per le ipotesi di attività discrezionale ma anche per quelle di attività vincolata, registrabile per esempio in occasione dell'emissione di mandati di pagamento a persona diversa dal soggetto giuridicamente legittimato o di emissione di titoli di spesa privi di giustificativo, non consentono l'affermazione della responsabilità dell'agente. Invece la previsione della responsabilità anche per colpa lieve è volta ad evitare una surrettizia sanatoria di comportamenti indebiti ai danni della pubblica amministrazione, con i toni propri di un «colpo di spugna», in quanto, trattandosi di norme processuali, quelle in via di approvazione si applicherebbero anche ai procedimenti in corso”; quanto all'emendamento 3.4, sottoscritto da lui e dal deputato Giovanardi, “ha lo scopo di prevedere che l'innalzamento della soglia di responsabilità alle ipotesi di dolo o colpa grave valga solo nelle ipotesi di attività amministrativa discrezionale”, preannunciando che “in tutte le sedi contrasterà quella che considera una scelta che contraddice la lotta in atto contro la corruzione e l'immoralità” (esame in sede referente, I commissione, 11 dicembre 1996);
- Rolando Fontan, secondo cui “occorre innanzitutto spiegare ai cittadini che si è definitivamente eliminato il concetto di colpa lieve. Si può essere favorevoli o contrari, ed una parte della giurisprudenza non sempre la considerava, ma di fatto il provvedimento in discussione sancisce definitivamente l'eliminazione dell'istituto giuridico, se così vogliamo chiamarlo, della colpa lieve. Il gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania ritiene che ciò non sia certo un segnale preciso e chiaro verso quell'efficienza e quella trasparenza che dovrebbe esistere nell'ambito della pubblica amministrazione anche in relazione alla responsabilità che ciascuno dovrebbe avere, soprattutto alla luce di quanto finora è accaduto” (discussione in Assemblea, seduta n. 118 del 18 dicembre 1996);
- Alfredo Mantovano, secondo cui “la limitazione ai casi di dolo o colpa grave per un verso è inutile, per altro verso è pericolosa. È inutile perché risponde ad una esigenza che è già stata tenuta presente da tempo dalla giurisprudenza della Corte dei conti, la quale, con l'applicazione degli istituti dell'errore professionale scusabile e del rilievo esimente per carenze di organizzazione amministrativa, ha già delimitato l'ambito delle responsabilità ai casi di arbitrio o di cattiva amministrazione. Per altro verso, è pericolosa perché a questo punto ci si attenderà (spero che ciò non si verifichi) fumose distinzioni tra culpa lata, levis, levissima, in parallelo ad altrettanto oscure ipotesi di negligenza magna, exacta, exactissima”, aggiungendo che “Se ci si lamenta, e concludo, che la giustizia penale ha assunto un ruolo abnorme, assolutamente non decoroso per un paese civile, se ci si lamenta che non funzionano altri strumenti di controllo diversi da quello penale, se si auspica che la giustizia penale sia solo una extrema ratio mentre oggi occupa tutta la scena, si deve poi essere coerenti sino in fondo e non accettare questa limitazione di responsabilità contabile. In qualunque paese civile l'amministrazione funziona perché incorpora il deterrente rappresentato dalla possibilità reale e non puramente teorica di serie sanzioni sia amministrative sia economiche. Mi chiedo perché tali sanzioni non debbano operare e perché, conseguentemente, tanti pubblici impiegati e funzionari non debbano smettere di comportarsi in modo scorretto ed inefficiente” (discussione in Assemblea, seduta n. 118 del 18 dicembre 1996).
[9] Sul punto si riporta quanto dichiarato dal ministro Franco Bassanini, nella I Commissione della Camera dei deputati, in data 28 novembre 1996 (come reperito dal sito www.camera.it): “L'unico aspetto innovativo introdotto dal Governo in carica nella disciplina recata dal provvedimento in esame è costituito dalla limitazione della responsabilità contabile alle sole ipotesi di dolo o colpa grave. Il Governo ha ritenuto di introdurre tale innovazione allo scopo di definire in modo più convincente il rapporto tra il principio di legalità - in connessione con la definizione delle singole linee di responsabilità - e l'esercizio legittimo e doveroso della discrezionalità amministrativa, che comporta sempre una responsabilità, che tuttavia non sempre si configura come responsabilità contabile. Precisa, infatti, che ci si trova di fronte ad una serie di casi in cui, anche a causa della complessità della legislazione e di vistosi esempi di «iperlegificazione», una responsabilità di natura contabile è stata configurata anche quando la discrezionalità amministrativa risultava esercitata nell'ambito della legge e tuttavia in presenza di contraddizioni e incertezze derivanti dalla normativa relativa ai procedimenti di decisione e di controllo. Mantenendo ferma la soglia di responsabilità anche alle ipotesi di colpa lieve vi era pertanto il rischio di una paralisi della pubblica amministrazione o comunque di un assetto immobilistico dannoso per l'efficienza e l'efficacia della relativa azione in rapporto agli obiettivi. Per queste ragioni, tenuto conto della necessità di garantire il soddisfacimento dei diritti e degli interessi dei cittadini e degli amministratori, il Governo ha deciso di limitare le ipotesi di responsabilità contabile ai casi di dolo e colpa grave”.
[10] Al riguardo si riporta quanto dichiarato in Assemblea dal deputato Vincenzo Cerulli Irelli, relatore di maggioranza, nella seduta n. 118 del 18 dicembre 1996 (reperibile sul sito www.camera.it), avente ad oggetto la discussione della conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543: “per quanto concerne gli elementi soggettivi della responsabilità in capo agli agenti autori del danno, il testo, nel ribadire quanto già contenuto nel decreto-legge (e cioè che occorre che l'agente abbia agito con dolo o colpa grave), aggiunge la specificazione, che riteniamo significativa ed importante, che resta in ogni caso preclusa la sindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. Questa è l'aggiunta proposta dalla Commissione. Un'aggiunta che riteniamo necessaria non tanto perché non fosse già contenuta in via di interpretazione nel precedente ordinamento, quanto perché una giurisprudenza abbastanza diffusa della Corte in molti casi tende a travalicare questi limiti e ad entrare nel merito delle scelte discrezionali. È per questo che la Commissione ha inteso ribadire tale importante concetto”.
[11] Così D. BOLOGNINO, Ancora un tassello per la definizione di un nuovo equilibrio della responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Rivista di Diritto ed Economia dei Comuni, 2024, 2, pag. 151.
[12] Peraltro, come sottolineato dal giudice a quo, escludendo qualsiasi condotta attiva gravemente colposa, ivi comprese quelle che non si risolvono nell’adozione di provvedimenti amministrativi ma si configurano a mezzo di condotte fattuali.
[13] Riprendendo testualmente quanto indicato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 371/1998 (e segnalando, nello stesso senso, anche le sentenze n. 203/2022 e n. 123/2023).
[14] Secondo C. PAGELLA, La Corte dei conti solleva una questione di legittimità costituzionale relativa al c.d. “scudo erariale”: la Consulta chiamata di nuovo a pronunciarsi sul “Decreto semplificazioni” in Sistema penale, 2024, 3, pag. 59, “il legislatore pandemico ha inteso il “buon andamento” in termini di decisionismo, ritenendo che agire – magari, in alcuni casi, anche incautamente – fosse in ogni caso meglio che astenersi rispetto a qualsiasi scelta (anche minimamente) rischiosa. Il legislatore non poteva non sapere che un allentamento delle responsabilità avrebbe incoraggiato alcuni funzionari all’incuria, ma ha accettato il rischio, ritenendo che la paralisi dell’attività amministrativa produca danni maggiori. Affermare che l’allentamento della responsabilità erariale non tutela bensì danneggia il buon andamento, perché incoraggia l’incuria, significa aderire a una lettura opposta, in base alla quale è meglio astenersi dall’agire ogniqualvolta si rischi di sbagliare, perché una decisione errata può danneggiare la P.A. più di tante decisioni buone che avrebbero potuto, ma non sono state assunte”. In particolare l’Autrice sostiene, riprendendo il pensiero di C. PAGLIARINI, espresso in Colpa grave ed equità nel giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei conti, Padova, 2002, pag. 273, che “Quali contenuti attribuire al “buon andamento” (legalità o, al contrario, velocizzazione) e, dunque, quali strumenti scegliere per perseguirlo, è decisione che rientra, ci sembra, nell’ambito delle scelte di opportunità riservate al legislatore: la Consulta non può allora far altro che aderire alla lettura che del concetto di buon andamento fornisce il legislatore”.
[15] Si citano, a titolo esemplificativo, A. ROMANO TASSONE, Sulla formula “Amministrazione per risultati”, in Scritti in onore di Elio Casetta, Napoli, 2011, pag. 813 e ss.; G. CORSO, Amministrazione di risultati, in Annuario dell'Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2002, pag. 127 e ss.; M. CAMMELLI, Amministrazione di risultato, in Annuario dell'Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2002, pag. 107 e ss.; M. IMMORDINO – A. POLICE (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultati. Atti del convegno di Palermo 27 - 28 Febbraio 2003, Torino, 2004.
[16] Si riporta il testo integrale dell’articolo 1, rubricato “Principio del risultato”: 1. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti perseguono il risultato dell'affidamento del contratto e della sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo, nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza. 2. La concorrenza tra gli operatori economici è funzionale a conseguire il miglior risultato possibile nell'affidare ed eseguire i contratti. La trasparenza è funzionale alla massima semplicità e celerità nella corretta applicazione delle regole del presente decreto, di seguito denominato «codice» e ne assicura la piena verificabilità. 3. Il principio del risultato costituisce attuazione, nel settore dei contratti pubblici, del principio del buon andamento e dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità. Esso è perseguito nell'interesse della comunità e per il raggiungimento degli obiettivi dell'Unione europea. 4. Il principio del risultato costituisce criterio prioritario per l'esercizio del potere discrezionale e per l'individuazione della regola del caso concreto, nonché per: a) valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti; b) attribuire gli incentivi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva.
[17] Si riporta il testo integrale dell’articolo 2, rubricato “Principio della fiducia”: 1. L'attribuzione e l'esercizio del potere nel settore dei contratti pubblici si fonda sul principio della reciproca fiducia nell'azione legittima, trasparente e corretta dell'amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici. 2. Il principio della fiducia favorisce e valorizza l'iniziativa e l'autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l'acquisizione e l'esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato. 3. Nell'ambito delle attività svolte nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti, ai fini della responsabilità amministrativa costituisce colpa grave la violazione di norme di diritto e degli auto-vincoli amministrativi, nonché la palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e l'omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell'attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell'agente pubblico in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto. Non costituisce colpa grave la violazione o l'omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti. 4. Per promuovere la fiducia nell'azione legittima, trasparente e corretta dell'amministrazione, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti adottano azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale, nonché per riqualificare le stazioni appaltanti e per rafforzare e dare valore alle capacità professionali dei dipendenti, compresi i piani di formazione di cui all'articolo 15, comma 7.
[18] Così M. RENNA, I principi, in S. FANTINI – H. SIMONETTI (a cura di), Il nuovo corso dei contratti pubblici, Milano, 2023, pag. 11. L’Autore, inoltre, precisa che “con il richiamo ai tre principi in questione il legislatore ci ricorda che la logica del risultato non può essere perseguita a ogni costo, e che, in particolare, il prezzo da pagare per raggiungere l’obiettivo di un sistema di affidamenti rapido ed economicamente efficiente non può consistere in un passo indietro sul fronte della legalità, della trasparenza e della concorrenza”.
[19] Tuttavia, secondo M. RENNA, I principi, in S. FANTINI – H. SIMONETTI (a cura di), Il nuovo corso dei contratti pubblici, Milano, 2023, pag. 15, “la positivizzazione di principi come quello del risultato non determina, quale unico effetto, la spinta propulsiva verso l’efficienza e l’emancipazione della p.a. da inutili “pastoie formalistiche”, ma può anche rappresentare uno strumento per mettere in discussione i confini tra merito e discrezionalità”, con eventuale riflesso negativo sull’esigenza di velocizzazione in caso di esplosione del contenzioso.
[20] Così A. RIPEPI, La Corte costituzionale, con una sentenza “storica”, invita il legislatore a riconsiderare il sistema della responsabilità amministrativa dei dipendenti pubblici: verso un (auspicabile) cambio di paradigma, in Rivista Labor, 24 luglio 2024.
[21] Secondo F. CINTIOLI, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi, 2024, 19, pag. 125, “l’importanza di questa menzione è dovuta ad una triplice ragione. In primo luogo, la riforma dei contratti pubblici testimonia che l’ordinamento insiste ancor oggi, come sottolinea la sentenza, nel richiedere all’amministrazione efficienza e risultati concreti e non semplicemente l’asettica applicazione di leggi e regolamenti. In secondo luogo, si segnala una convergenza tra il recente atteggiamento del legislatore e quello espresso dalla Corte in questa medesima sentenza, ché l’accostamento tra risultato e fiducia nella p.a. serve proprio a delimitare il rischio della responsabilità e ad incentivarne l’azione in un momento storico molto particolare. In terzo luogo, traspare una considerazione positiva su questi propositi riformatori espressi dalla nostra Corte costituzionale”.
[22] Ad avviso di F. CINTIOLI, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi, 2024, 19, pag. 132, vi è il riconoscimento di quella nuova “discrezionalità dell’interprete incerto che sicuramente non è vero e proprio merito amministrativo, ma che esemplifica un’attività che non è fatta solo di fredda esegesi di norme di diritto positivo, perché implica invece mediazione di interessi e ragionevole proiezione verso il risultato”, di talchè secondo l’Autore occorre “apprestare una forma di protezione a beneficio del funzionario”, cercando “un punto di equilibrio storicamente aggiornato”.
[23] Per un approfondimento, A. BARONE, Il diritto del rischio, Milano, 2004.
[24] Secondo V. TENORE, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: lo “scudo erariale” è legittimo perché temporaneo e teso ad alleviare “la fatica dell’amministrare”, che rende legittimo anche l’adottando progetto di legge Foti C1621, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 4, pag. 199, si tratta di un “suggestivo neologismo, ma assai lontano dalla realtà fenomenica della pubblica amministrazione e dei suoi uomini”.
[25] A titolo esemplificativo, la stessa Corte costituzionale cita due ipotesi. La prima concerne il trattamento differenziato riservato agli agenti contabili e agli ordinatori di spesa delle sovrintendenze nel quinquennio antecedente all’entrata in vigore della legge n. 340/1965, recante “Norme concernenti taluni servizi di competenza dell’Amministrazione statale delle antichità e delle arti”. In particolare, la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 11 - con cui erano stati, appunto, limitati al quinquennio antecedente all’entrata in vigore della predetta legge da un lato l’obbligo degli agenti contabili di dare giustificazione delle loro gestioni mediante la presentazione dei conti giudiziali, dall’altro la loro responsabilità, unitamente a quella degli ordinatori di spesa, per i soli danni arrecati all’Erario imputabili a dolo - è stata dichiarata non fondata con sentenza della Corte costituzionale n. 108/1967, esplicitando i motivi di tale trattamento differenziato, emergenti già dai lavori preparatori della legge n. 340/1965, sia per circostanze di carattere oggettivo, quali le particolari ed effettive esigenze di servizio che dettero vita alle gestioni fuori bilancio e gli indubbi notevoli vantaggi che esse hanno procurato allo Stato, sia di carattere soggettivo, perché “sarebbe non solo disumano ma controproducente nell’interesse della collettività se si continuasse a mantenere nello stato di disagio e apprensione moltissimi ottimi funzionari che hanno solo la colpa di avere anteposto al regolamento di contabilità generale la necessità di salvare tesori di immenso valore culturale ed economico”, sia infine per la transitorietà della disciplina. Per un approfondimento, M. CANTUCCI, In tema di gestioni fuori bilancio relative all’amministrazione delle antichità e delle belle arti, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 1968, parte II, pag. 219. La seconda ipotesi attiene alla limitazione della responsabilità del dipendente regionale per danni causati all'Amministrazione ai soli casi di dolo e colpa grave, prevista dall’art. 52, primo comma, della legge regionale siciliana n. 7/1971 (recante "Ordinamento degli uffici e del personale dell'Amministrazione regionale"). La questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata non fondata con sentenza della Corte costituzionale n. 1032/1988, in quanto viene lasciata “al discrezionale apprezzamento del legislatore la determinazione e la graduazione dei tipi e dei limiti di responsabilità che, in relazione alle varie categorie di dipendenti pubblici o alle particolari situazioni regolate, appaiano come le forme più idonee a garantire l'attuazione dei predetti principi costituzionali”, di talché “gli artt. 97 e 103, secondo comma, Cost. non possono condurre all'affermazione di un principio di inderogabilità per i dipendenti pubblici delle comuni regole della responsabilità, ma portano, piuttosto, all'affermazione di un principio di responsabilità di quei dipendenti in conformità delle regole a essi proprie”; in tal modo “in sede di giudizio di legittimità costituzionale, le leggi disciplinanti la responsabilità dei pubblici dipendenti sono sindacabili, in riferimento ai parametri invocati, solo sotto il profilo della ragionevolezza della disciplina adottata e delle differenziazioni introdotte”. Sul tema, v. F. GARRI, Grado della colpa nella responsabilità dei pubblici dipendenti, regolarità della gestione finanziaria e discrezionalità del legislatore, in Giurisprudenza costituzionale, 1988, 10, parte I, sez. I, pag. 5038.
[26] Si leggono nel preambolo del decreto-legge n. 76/2020 le ragioni della sia adozione nei seguenti termini: “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di realizzare un'accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di legalità; ritenuta altresì la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure di semplificazione procedimentale e di sostegno e diffusione dell'amministrazione digitale, nonché interventi di semplificazione in materia di responsabilità del personale delle amministrazioni, nonché di adottare misure di semplificazione in materia di attività imprenditoriale, di ambiente e di green economy, al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti all'emergenza epidemiologica da Covid-19”.
[27] Per un approfondimento: E. APRILE, Questioni di legittimità costituzionale in tema di abuso di ufficio, in Cassazione penale, 2022, 3; S. BATTINI, Abuso d'ufficio e burocrazia difensiva nel groviglio dei rapporti fra poteri dello Stato, in Giornale di diritto amministrativo, 2022, 4; F. MERUSI, La Corte fra residuati risorgimentali e limiti all'efficienza della Pubblica Amministrazione causati dal giudice penale, in Giurisprudenza costituzionale, 2022, 1, pag. 106; M.C. UBIALI, Emergenza Covid e riforma del delitto di abuso d'ufficio per agevolare la ripresa del Paese: brevi note alla sentenza n. 8/2022 della Corte costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale, 2022, 1, pag. 120; G.L. GATTA, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in www.sistemapenale.it, 2023, 5; A. LUBERTI, La sinergia delle responsabilità dei pubblici dipendenti tra semplificazione, sanzioni penali e risarcimento del danno erariale, in www.dirittoeconti.it, 2022.
Si rammenta che il Tribunale di Firenze, con la recente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del 24.9.2024, ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 1, comma 1, lettera b) della legge n. 114/2024 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 187 del 10 agosto 2024 ed entrata in vigore il 25 agosto 2024), nella parte in cui abroga l’art. 323 c.p. rubricato “Abuso d’ufficio”, per violazione degli artt. 97, 11 e 117, comma 1, della Costituzione, in relazione agli obblighi discendenti dagli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione - c.d. Convenzione di Merida – adottata dall’assemblea generale dell’O.N.U. il 31 ottobre 2003 con la risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, oggetto di ratifica ed esecuzione in Italia con la legge n 116/2009. Nel richiamare la sentenza della Corte costituzionale n. 8/2022, il Tribunale di Firenze ha, dunque, ritenuto che l’affermazione per cui in astratto le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni, non vale nel caso di specie in quanto il vuoto di tutela determinato dall’abrogazione tout court dell’art. 323 c.p. e dalla sostanziale inapplicabilità del novellato art. 346-bis c.p. si pone in contrasto con l’art. 97 della Costituzione. Secondo il Tribunale di Firenze, pertanto, è affetta da irragionevolezza la norma abrogativa dell’art. 323 c.p. “atteso che: da un lato, non si è tenuto di conto che le ragioni poste a sostegno della spinta riformatrice (la c.d. “paura della firma” o “burocrazia difensiva”) erano di fatto venute meno (sopravvivendo, forse, solo sul piano, del tutto irrilevante, soggettivo e psicologico di singoli funzionari) in ragione delle recenti riforme e del successivo (ed ormai consolidato) orientamento giurisprudenziale di legittimità e dei principi enunciati dalla Corte costituzionale; dall’altro lato, non appare adeguatamente ponderato (e men che meno contenuto o neutralizzato) l’effetto dirompente che può avere la riforma, per il venir meno dell’effetto general-preventivo spiegato dalla presenza nell’ordinamento di una norma di chiusura che - seppur ormai relegata ad operare in casi eccezionali di particolare ed obiettiva gravità - evitava il dilagare di condotte dolosamente arbitrarie e lasciava ai cittadini uno strumento attraverso cui ricorrere alla magistratura”.
[28] Secondo la sentenza n. 8/2022 della Corte costituzionale “per opinione ampiamente diffusa, deve individuarsi, infatti, proprio in tale stato di cose una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno che si è soliti designare come “burocrazia difensiva” (o “amministrazione difensiva”). I pubblici funzionari si astengono, cioè, dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”). A questi fini, poco conta l’enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico, tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi. Il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di raffreddamento”, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante. Tutto ciò, peraltro, con significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati”.
[29] Al riguardo, R. VISCOMI, Burocrazia difensiva, danno erariale e costi del non fare, in www.contabilitàpubblica.it, 2023.
[30] Per un approfondimento, M. FRANCAVIGLIA, Sulle traiettorie divergenti della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica sulla decretazione d'urgenza. Un tentativo di analisi sinottica a margine di Corte cost., sent. n. 8 del 2022, in www.giurcost.org, 2022, 3; C. ANTONUCCI, Abuso della decretazione d'urgenza e "monocameralismo alternato" nell'evoluzione della giurisprudenza costituzionale, in www.federalismi.it, 2024, 12.
[31] Peraltro proprio l’attuazione del P.N.R.R., che deve avvenire secondo un cronoprogramma, con milestones definite e trasferimento delle risorse periodiche per tranches a seguito di un procedimento di verifica del conseguimento da parte dello Stato dei traguardi intermedi, aveva indotto il legislatore a considerare che ogni ritardo o ogni incertezza della P.A. potesse compromettere il rispetto del cronoprogramma stabilito, bloccando alla scadenza prevista l’erogazione da parte dell’U.E. della tranche di risorse stanziate, di cui l’Italia figura come il maggior beneficiario a livello europeo. Quanto alla governance del P.N.R.R. e al modello verticistico e centralizzato adottato, si rinvia alle considerazioni di M. MACCHIA, Il Governo in bikini. Fisionomia del potere governativo tra norma e prassi, Milano, 2024, pag. 154 e ss..
[32] Sul punto, M. CLARICH, Varie le misure da mettere in campo contro il rischio dell’”overdeterrence”, in Guida al diritto, 2024, 39, pag. 109, nel constatare che le misure per scongiurare il rischio dell’“overdeterrence” sono di vario tipo, auspica che il Parlamento dia corso in tempi rapidi a una riforma equilibrata.
[33] Al riguardo V. TENORE, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: lo “scudo erariale” è legittimo perché temporaneo e teso ad alleviare “la fatica dell’amministrare”, che rende legittimo anche l’adottando progetto di legge Foti C1621, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 4, pag. 204, adotta la definizione di “sentenza pungolatoria”. Per una riflessione sulla portata innovativa della tecnica decisoria utilizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 132/2024 si rinvia a F.S. MARINI, La sentenza n. 132 del 2024: la Corte costituzionale sperimenta nuove tecniche decisorie, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 4, pag. 1 e ss.. Inoltre, secondo L. BALESTRA, Per un ripensamento della responsabilità erariale e, più in generale, delle funzioni della Corte dei conti, in Giurisprudenza italiana, 2024, 10, pag. 2169, “verrebbe in conclusione da affermare che l’intervento della Corte costituzionale, di fatto, si sia risolto in un ‘‘giudizio di legittimità preventivo’’ rispetto alla proposta normativa attualmente in discussione”.
[34] Limitazione, si ribadisce, che ha trovato giustificazione esclusivamente in una disciplina provvisoria radicata nelle caratteristiche peculiari del contesto precedentemente esposto.
[35] Si cita, a mero titolo esemplificativo, S. BATTINI e F. DECAROLIS, Indagine sull’amministrazione difensiva, in Rivista italiana di Public Management, 2020, vol. 3, n. 2, pag. 342. Tuttavia, A. GIORDANO, Modelli di burocrazia e sistema della responsabilità. Appunti nella prospettiva “Law and economics”, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 3, pag. 39, segnala che “nella prospettiva Law and Economics, non sembra che la novella abbia migliorato la valutazione di efficienza dell’impianto normativo. L’eclissi della colpa grave depotenzia la forza preventiva, dissuasiva e repressiva del sistema, producendo l’effetto di deresponsabilizzare il pubblico funzionario. Al rischio di ineffettività si aggiunge la dubbia incidenza della riforma sullo spettro della “paura della firma”. Ammesso, infatti, che a determinarla siano gli orientamenti contabili (cosa che invero non trova riscontri obiettivi), la valorizzazione dei segmenti omissivi delle condotte e la possibile attivazione di azioni di responsabilità in sede civile inducono a dubitare della stessa idoneità del novellato regime a combattere l’inerzia nel comparto pubblico. Se le regole di responsabilità devono ridimensionare le ipotesi di maladministration, incrementando l’efficienza del comparto pubblico, regimi scarsamente dissuasivi non sembrano idonei allo scopo”.
[36] Secondo V. TENORE (a cura di), La nuova Corte dei conti: responsabilità, pensioni, controlli, V ed., Milano, Giuffré, 2022, pag. 435 e ss., una tipizzazione di fatto delle macroipotesi di colpa grave è stata già operata da anni, dalla Corte dei conti sia in via giurisprudenziale, sia attraverso un importante indirizzo di coordinamento (n. 6 del 1996).
[37] Sulla compatibilità tra il tetto e il potere riduttivo del giudice contabile, previsto dall’art. 83, comma 1, del regio decreto n. 2440/1923, la Corte costituzionale precisa che il primo è fissato ex ante dal legislatore e vale obbligatoriamente per tutti, mentre il secondo è rimesso ad un apprezzamento discrezionale ex post del giudice contabile.
[38] Tuttavia, osserva M. DONINI, Abuso di ufficio ultimo atto. Una abolitio criminis per evitare i processi, non gli illeciti, in www.diariodidirittopubblico.it, 3 novembre 2024, come “Il dato più sorprendente di tutta questa vicenda abrogativa è la sottovalutazione dei più elementari criteri di politica legislativa del diritto penale moderno. Un sistema giuridico laico e garantista non ha lo scopo di punire attraverso il diritto penale, ma persegue l’obiettivo di prevenire i reati. L’effetto preventivo delle leggi penali costituisce l’essenza politica del loro esistere, dall’illuminismo in poi: tale essenza non è il castigo. Se abolisco un reato devo o ritenere che i fatti che perseguiva non meritano nessuna sanzione, essendo da reputarsi del tutto leciti, oppure (ed è questo il caso dell’abuso di ufficio, restando tutti illeciti i fatti non più sanzionati penalmente), devo sapere come l’ordinamento potrà gestire la prevenzione. Ma non è stato previsto neppure un illecito amministrativo sostitutivo di quelli penali. C’è quindi un profilo di irragionevolezza nella specifica carenza concreta di prevenzione per come risulta dall’abolitio criminis che si innesta nel nostro ordinamento”.
[39] Per un’analisi de iure condendo G. TERRACCIANO, La riforma della responsabilità amministrativa, tra esigenze di efficienza delle PP.AA. e di protezione degli interessi erariali per consentire un’autonomia decisionale dei funzionari pubblici più consapevole e meno timorosa, in Rivista scientifica trimestrale di diritto amministrativo, 2024, 3, pag. 881 e ss..
[40] Sul progetto di legge C. 1621 (cui è unito il progetto di legge C. 340) si è espressa la Corte dei conti a Sezioni riunite in sede consultiva nell’adunanza del 28 ottobre 2024 rendendo il parere n. 3/2024/CONS. Si legge nel parere che l’esame dell’articolato, riflettendosi in modo significativo sulle funzioni della Corte dei conti, costituisce “l’occasione per una riflessione approfondita sul ruolo e sulle funzioni della Magistratura contabile che, nel quadro delle norme costituzionali e di diritto dell’Unione europea contenute nei trattati e nelle fonti di diritto derivato, costituisce un presidio fondamentale di garanzia e di tutela delle risorse pubbliche nel cointestato e coordinato esercizio delle funzioni di controllo e giurisdizionali”. In particolare, nel parere si richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 132/2024, ove si sostiene proprio “la necessità di una complessiva riforma della responsabilità amministrativa tesa a incentivare il buon andamento dell’azione amministrativa, fornendo alcune rilevanti indicazioni che muovono tutte da un chiaro, inequivocabile e indiscutibile principio: il mantenimento “a regime” della responsabilità per colpa grave, correlato a un necessario rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei conti”.
[41] L. CASO, Controllo al posto dello scudo erariale, Il sole 24 ore, 22 agosto 2024.
[42] Così il Piano strutturale di bilancio di medio termine a pag. 128.
Ottemperanza e poteri del giudice (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 22 aprile 2024, n. 6)
di Antonio Cassatella
Sommario: 1. La questione sostanziale controversa ed il giudicato di annullamento. 2. Le vicende relative all’ottemperanza al giudicato e la nomina differita del commissario. 3. Effetto conformativo e poteri del giudice dell’ottemperanza. 4. Dal caso alla questione sistematica: sulla perdurante ambiguità dell’ottemperanza quale cognizione mista ad esecuzione.
1. La questione sostanziale controversa e il giudicato di annullamento.
La sentenza che si annota è di particolare rilievo nella parte in cui mostra come il giudice dell’ottemperanza risolva il conflitto esecutivo bilanciando effettività della tutela e riserva di amministrazione. Come si cercherà di dimostrare, l’esito del giudizio di merito è ragionevole, ma non appieno condivisibile proprio in rapporto al modo in cui si sono bilanciati gli interessi rilevanti[1].
La controversia alla base della pronuncia riguardava il mancato riconoscimento di qualificazioni professionali conseguite all’estero da aspiranti all’insegnamento in Italia, da valutare entro la cornice stabilita dalla direttiva 2005/36/Ce.
Le ricorrenti avevano separatamente adito il T.a.r. Lazio a fronte del mancato riconoscimento dell’idoneità di titoli acquisiti in Bulgaria, dove avevano frequentato un corso post-universitario in pedagogia e ottenuto il relativo diploma, che per le autorità bulgare non assumeva diretto rilievo ai fini dello svolgimento dell’attività di insegnante in quel Paese. Il Ministero aveva giustificato il diniego sostenendo che, a fronte del carattere non abilitativo, il titolo poteva essere riconosciuto solo se il richiedente avesse provato di aver svolto per un anno la professione di insegnante in Italia. Tale prova mancava in entrambi i casi.
Il T.a.r. Lazio respingeva i ricorsi, condividendo le tesi della resistente. La VII Sezione del Consiglio di Stato, adita in appello da entrambe le parti, riteneva necessario deferire alla Plenaria la questione di diritto inerente alla corretta interpretazione della disciplina statale, anche in rapporto ai principi stabiliti dalla menzionata direttiva e dagli artt. 45 e 49 TFUe in materia di libertà di circolazione e stabilimento dei lavoratori.
Secondo la VII Sezione, si trattava di stabilire «se il Ministero possa svolgere un’autonoma valutazione delle competenze professionali acquisite, e quindi del percorso di formazione in concreto svolto all’estero, sulla base di una verifica della durata complessiva, del livello e della qualità della formazione ivi ricevuta, fatta comunque salva la possibilità di imporre a tal fine specifiche misure compensative, ai sensi dell’art. 14 della direttiva 2005/36/Ce». Si chiedeva, inoltre, di valutare «se il riconoscimento sia possibile o doveroso anche in mancanza di un attestato di competenza o di un titolo di formazione richiesto nello Stato estero d’origine per l’esercizio di una professione regolamentata ed infine se al medesimo riguardo possa prescindersi dal requisito di un anno di esperienza professionale»[2].
L’Adunanza Plenaria, riuniti i ricorsi, rovesciava i giudizi di primo grado.
Dopo aver ricostruito la disciplina applicabile in rapporto ai principi unionali di libertà di circolazione e stabilimento, il collegio rilevava che il carattere non abilitante del titolo ottenuto in Bulgaria non era di per sé ostativo al suo riconoscimento in Italia. Spettava semmai all’amministrazione il compito di «verificare in concreto il livello di competenza professionale acquisito dall’interessato, valutandolo per accertare se corrisponda o sia comparabile con la qualificazione richiesta nello Stato di destinazione per l’accesso alla professione regolamentata».
Questo esame era doveroso nel caso di specie, posto che la limitata efficacia del diploma bulgaro si giustificava in forza del fatto che, in quello Stato, la mera specializzazione non poteva essere un escamotage per accedere all’insegnamento in assenza di altri titoli di studio adeguati. Viceversa, le due appellanti avevano conseguito in Italia una laurea idonea allo scopo, per poi ottenere il titolo bulgaro al fine di lavorare nel proprio Paese, non già per aggirare gli ostacoli all’accesso all’insegnamento in Bulgaria.
In altri termini, le peculiarità del caso rendevano irrilevante il mancato esercizio della professione di insegnante da parte delle ricorrenti, in quanto un’interpretazione teleologica della disciplina bulgara non precludeva la valutazione dei titoli colà conseguiti ai fini della ricostruzione del curriculum delle aspiranti all’insegnamento in Italia.
Ne conseguiva il difetto di istruttoria del diniego e la conclusione del processo senza necessità di remissione alla VII Sezione.
Il giudicato dell’Adunanza Plenaria aveva un marcato effetto conformativo. Senza pronunciarsi sulla spettanza del riconoscimento, a fronte dei difetti istruttorî che andavano superati dal Ministero, si ordinava all’amministrazione di: «esaminare l’insieme dei diplomi, dei certificati e altri titoli, posseduti da ciascuna interessata»; «procedere ad un confronto tra, da un lato, le competenze attestate da tali titoli e da tale esperienza e, dall’altro, le conoscenze e le qualifiche richieste dalla legislazione nazionale, onde accertare se le stesse interessate abbiano o meno i requisiti per accedere alla professione regolamentata di insegnante, eventualmente previa imposizione delle misure compensative necessarie».
Nell’anno successivo alla sentenza il Ministero rimaneva inerte, senza dar seguito alle richieste delle appellanti. Ne conseguiva la proposizione di un giudizio di ottemperanza alla stessa Plenaria.
Nel corso del giudizio l’amministrazione asseriva di non aver ottemperato al giudicato a fronte dell’esigenza di affidare ad un apposito organismo l’esame delle domande delle ricorrenti e di numerosi terzi che si trovavano in condizioni analoghe. Il Ministero garantiva di aver programmato la trattazione di tutte le istanze, così da poter procedere all’assegnazione degli incarichi per l’anno scolastico 2024-25 senza ulteriore nocumento degli interessi delle due aspiranti.
Pur apprezzando lo spirito collaborativo del Ministero, l’Adunanza Plenaria riteneva che tali argomentazioni non fossero sufficienti a dilazionare ulteriormente la trattazione delle istanze oggetto di controversia, a fronte della «posizione qualificata» derivante dal giudicato. A questi fini, si ordinava al Ministero di decidere sulle istanze delle ricorrenti entro i trenta giorni successivi alla sentenza, salva la nomina di un commissario ad acta nel caso di perdurante inerzia.
Quest’ultimo punto merita qualche riflessione.
2. Le vicende relative all’ottemperanza al giudicato e la nomina differita del commissario
Si anticipava, in esordio, come la Plenaria abbia cercato di bilanciare le esigenze di effettiva tutela delle ricorrenti in ottemperanza con il riconoscimento di una perdurante riserva di amministrazione sull’esame delle loro istanze[3].
Se si esamina la giurisprudenza intervenuta nella stessa materia, si può cogliere come soluzioni analoghe a quelle della Plenaria fossero già state prospettate dal Consiglio di Stato nelle vesti di giudice dell’ottemperanza. In una recente controversia, relativa al mancato riconoscimento di un titolo ottenuto in Romania, si è assunto che l’esecuzione dovesse essere demandata all’amministrazione, o comunque al commissario, a fronte della «natura discrezionalmente tecnica di tali adempimenti», che comprendono il potere di disporre le misure compensative volte ad integrare il curriculum dei candidati[4].
Come chiarito in altra occasione, queste prerogative sono riservate alla p.a., per quanto nulla tolga il loro «pieno sindacato» ad opera dello stesso giudice di ottemperanza, tenuto a valutare la condotta dell’amministrazione «sul piano della plausibilità, ragionevolezza, logicità e proporzionalità rispetto al parametro legale utilizzato, e ciò tanto più ove si intenda mettere a confronto due percorsi formativi, quello estero e quello italiano, contenutisticamente diversi fra di loro»[5].
Sintetizzando questi orientamenti, la sequenza attraverso cui si realizza la tutela può essere articolata nei termini che seguono: 1) ricorso al giudice; 2) formazione del giudicato con effetti conformativi e obbligo di riapertura del procedimento in capo al Ministero; 4) mancata attuazione del giudicato e ricorso in ottemperanza; 3) sentenza che obbliga la p.a. a provvedere entro un termine individuato dal giudice, di regola non inferiore ai trenta giorni; 5.a) in caso di ulteriore inerzia, nomina del commissario; 5.b) in caso di emanazione di un nuovo diniego illegittimo, onere di impugnazione nelle forme del giudizio di cognizione contro l’atto annullabile; 5.c) … o del giudizio di nullità in ottemperanza contro l’atto che viola o elude il giudicato.
Si tratta di una sequenza complicata già nelle scansioni numeriche proposte, benché si tratti della medesima vicenda frazionata in una pluralità di giudizi. Sono soprattutto palesi gli ostacoli all’immediata attuazione del giudicato, che ritardano la conclusione del giudizio a danno di chi ricorre dopo aver già ottenuto una sentenza favorevole all’esito del processo di cognizione[6].
Evocare la vittoria di Pirro o il paradosso di Zenone per descrivere la posizione di chi abbia già ottenuto un giudicato favorevole non dice tutto. Specie nel caso in cui l’amministrazione ottemperante rilasci un nuovo provvedimento di diniego ed oneri il ricorrente ad aprire un secondo giudizio di cognizione, sembra più adeguato evocare le vicissitudini di Bill Murray nel film Ricomincio da capo.
L’impasse deriva dalla formulazione dell’art. 114, comma 1, c.p.a., che enumera i poteri del giudice dell’ottemperanza senza indicare alcun criterio preferenziale nella scelta dei modi di attuazione del giudicato, rimessi alle valutazioni del collegio giudicante[7]. Il fatto che il giudice decida nel merito, e secondo opportunità, attenua il criterio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, permettendogli di graduare le misure idonee[8].
Assunto che l’art. 114, comma 4, lett. a), c.p.a. conferisca al giudice anche il potere di individuare tecniche atipiche di esecuzione del giudicato, si potrebbe far derivare dalla disposizione anche il potere di assegnare alla p.a. un ulteriore termine per decidere, salva la successiva nomina del commissario, condizionata dall’ulteriore inadempimento della p.a. inerte o non pienamente collaborativa. Così nel caso di specie ed altri analoghi.
Le valutazioni di opportunità rimesse al giudice possono tuttavia incidere sul livello di tutela garantita dall’ottemperanza, ossia su quello che si è efficacemente definito come il «miglior risultato possibile per il ricorrente vittorioso»[9]. Non basta aggirare il problema confidando sulla giustizia del caso concreto o su altri criteri equitativi che, seppur adeguati alla singola controversia, non permettono di prevedere i comportamenti di altri collegi, minando basilari esigenze di conoscibilità e calcolabilità degli esiti, dei costi e dei tempi di soluzione dei conflitti esecutivi.
Appare dunque opportuno verificare se sussistano criteri per garantire l’ottemperanza alla sentenza mediante la sostituzione del giudice all’amministrazione o, in alternativa, l’immediata nomina del commissario.
3. Effetto conformativo e poteri del giudice dell’ottemperanza
Si reputa che l’analisi del problema passi per la disamina degli effetti conformativi della pronuncia di cui si chiede l’esecuzione, in rapporto al precetto contenuto nella sentenza di annullamento o condanna al facere ed al suo impatto sulla fattispecie concreta[10].
Sul piano sistematico, e in coerenza con il principio della domanda, l’oggetto della domanda di annullamento perimetra il potere del giudice di cognizione ed incide sulla formazione del giudicato che va eseguito dall’amministrazione e può dar luogo ai conflitti esecutivi decisi in sede di ottemperanza[11].
Ne deriva che maggiore è l’estensione del precetto da attuare nell’esercizio del potere che residua a seguito della sentenza di annullamento o condanna al facere, minori dovrebbero considerarsi gli ambiti riservati alla cognizione degli organi competenti, fino al punto di giustificare una diretta sostituzione del giudice alla parte rimasta inerte[12].
Così dovrebbe avvenire per l’effetto conformativo “rafforzato”[13].
Quest’evenienza può essere ipotizzata soprattutto nel caso in cui – in astratto o per effetto della consumazione del potere – l’attività amministrativa conformata dal giudicato sia del tutto vincolata ed implichi la sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta al fine di determinate contenuti ed effetti del provvedimento atteso. Assunto che questo tipo di attività abbia carattere eminentemente giuridico o tecnico non opinabile, nulla osta a che il giudice si sostituisca all’amministrazione nella produzione dell’effetto atteso, col supporto conoscitivo fornitogli eventualmente dai propri ausiliari.
In tale frangente non potrebbe parlarsi di una vera e propria riserva di amministrazione, né di un vulnusalla separazione fra amministrazione e giurisdizione: il giudice determina quegli effetti – e solo quegli effetti – che risulta possibile produrre nel caso concreto. Risulta indifferente, per l’ordinamento, che gli effetti siano prodotti con provvedimento o con sentenza[14].
Nei restanti casi il giudice sarebbe altresì tenuto alla nomina del commissario in sostituzione dell’amministrazione inerte, non cooperante o elusiva[15].
Quest’ultima evenienza si pone l’effetto conformativo del giudicato è “generico”, limitandosi ad imporre alla p.a. una nuova valutazione delle risultanze istruttorie e l’esercizio di prerogative tecniche fondate su criteri opinabili, o discrezionali residue[16].
É il caso della controversia in esame, posto che dal giudicato del 2022 discendeva l’obbligo di effettuare una valutazione opinabile del titolo conseguito in Bulgaria dalle ricorrenti. Che il Ministero fosse tenuto a concludere il procedimento valorizzando il diploma conseguito in Bulgaria era indubbio; rimaneva da stabilire quale rilevanza assumesse il titolo nel curriculum delle appellanti ed ai fini di eventuali misure compensative[17].
Nella situazione anzidetta il giudice resta privo di una legittimazione tecnica ad amministrare, ma nulla esclude che, a fronte dell’inerzia dell’amministrazione, possa ricorrere ad un ausiliario, legittimato ad agire in sua vece ed in luogo del Ministero nella produzione degli effetti attesi ed ottenibili in concreto[18].
La conclusione appare coerente con un’esigenza di concentrazione delle tutele in sede di ottemperanza, nell’ambito della quale viene in rilievo, sulla base dell’art. 114, comma 6 c.p.a., «ogni questione» derivante dalla carente conformazione della p.a. agli obblighi derivanti dalla pronuncia: non solo, dunque, elusione o violazione dei precetti desumibili dalla sentenza, ma anche incompleta o inesatta attuazione del comando giudiziale[19].
Resta da valutare se, innanzi ad un effetto conformativo generico, sia necessario attribuire alla p.a. un nuovo termine per eseguire il giudicato, esponendo il ricorrente all’emanazione di un altro provvedimento potenzialmente illegittimo e suscettibile di essere contestato in ottemperanza o in un giudizio di cognizione[20].
A ben guardare, l’assegnazione di un ulteriore termine di adempimento a favore dell’amministrazione sottende che quest’ultima goda di una perdurante riserva di competenza sul merito della questione controversa[21].
La tesi non pare tuttavia condivisibile, in rapporto ad una più ampia riflessione inerente alle caratteristiche della riserva[22].
Contro una concezione statica e rigida della riserva, intesa come astratto limite alla cognizione giudiziale della discrezionalità e della tecnica basata su parametri opinabili, si può sostenere che essa abbia un carattere dinamico e relativo. Attività riservata non è già quella assolutamente sottratta alla cognizione giudiziale, ma quella che residua all’esito del giudizio in rapporto agli effetti conformativi della sentenza[23].
La concezione dinamica non priva pertanto l’amministrazione del potere di decidere sulla questione sottoposta alle sue cure dopo che il giudice abbia deciso sulla controversia, nei termini desumibili dall’art. 88, comma 2, lett. f), c.p.a. ed entro i limiti stabiliti dal giudicato. Al contempo, è proprio la mancata attuazione dell’ordine esecutivo contenuto nella sentenza ad abilitare il giudice dell’ottemperanza a decidere su tutto il merito della questione attraverso l’emanazione di nuovo atto, la modifica o la riforma di quello impugnato, nei termini generalmente stabiliti dall’art. 34, comma 4, c.p.a.
Solo in tal senso pare giustificabile la funzione surrogatoria e sanzionatoria propria del giudizio di ottemperanza, che, nel tutelare il ricorrente vittorioso, sanziona al contempo l’amministrazione inadempiente, a chiusura del sistema di tutele garantito dall’ordinamento[24].
Dalle menzionate disposizioni emerge, come la riserva dinamica si esaurisca nell’ambito del giudizio di ottemperanza e, in particolare, nel momento in cui il giudice trattiene la causa al fine della decisione sul merito della lite: se resta fermo il potere dell’amministrazione di adempiere spontaneamente al giudicato e di decidere in senso favorevole al ricorrente con cessazione della materia del contendere ai sensi dell’art. 34, comma 5, c.p.a., non sembrano sussistere ragioni per assegnarle un nuovo termine per adempiere, ritardando ulteriormente la soluzione del conflitto esecutivo[25].
Quanto osservato rende incompatibile l’assegnazione del nuovo termine e la nomina differita del commissario con le caratteristiche di un giudizio di ottemperanza da situare in un sistema integrato di garanzie: l’autonomia dell’amministrazione è tutelata prima del e durante il processo cognizione, esaurendosi nel corso del giudizio di ottemperanza e nel momento in cui si accerti la mancata esecuzione dell’ordine del giudice ai sensi dell’art. 88, comma 2, lett. f), c.p.a.
La riprova di quanto rilevato può cogliersi con riferimento alla disciplina dell’esecuzione forzata prevista dal c.p.c., in quanto espressiva di principi generali comuni ad ogni processo di attuazione del giudicato ai sensi dell’art. 39 c.p.a.
Dagli artt. 480 e 482 c.p.c. emerge, al riguardo, come il termine per adempiere al giudicato ineseguito sia indicato nel precetto della parte vittoriosa in cognizione, e non dal giudice dell’esecuzione, che può anzi anticipare l’avvio dell’attività esecutiva nei casi in cui il ritardo pregiudichi gli interessi dell’attore vittorioso. Allo stesso modo, dall’art. 612 c.p.c. emerge come l’esecuzione degli obblighi di fare rimasti inadempiuti dalla parte soccombente sia immediatamente assegnata all’ufficiale giudiziario, sentita la parte obbligata e senza che ad essa vengano assegnati ulteriori termini per adempiere.
Se queste disposizioni non possono essere invocate per escludere che la p.a. possa adempiere spontaneamente al giudicato nelle more dell’ottemperanza, ciò non toglie che esse possano essere ritenute espressive del principio per cui la parte che agisce per l’esecuzione del giudicato sia titolare di una pretesa a che il conflitto esecutivo venga deciso immediatamente dal giudice o dal suo ausiliario, senza margini di assegnazione di nuovi termini per adempiere a favore della parte che ha dato avvio al conflitto esecutivo rimanendo inerte o non collaborando.
É appena il caso di osservare come i predetti principi si applichino sicuramente ai casi in cui il giudice amministrativo opera quale giudice dell’esecuzione degli obblighi scaturenti da un giudicato civile nei confronti dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. c), del c.p.a. Non sembrano tuttavia sussistere ragioni di ordine teorico per negare la loro espansione a tutti i casi in cui si chieda l’esecuzione del giudicato amministrativo.
Quanto osservato non esclude affatto che il giudice sia titolare, ad altri fini, di più ampi poteri inerenti alla definizione delle modalità di attuazione del giudicato, nei termini desumibili dalla generica formulazione dell’art. 114, comma 4, lett. a) del c.p.a.: tali poteri vanno ricondotti al tipo di azione esercitata in sede di cognizione ed alle caratteristiche dei singoli giudicati, in coerenza con la tendenziale atipicità delle tutele che connota il processo amministrativo (specie in giurisdizione esclusiva).
Non pare, infine, che, contro la soluzione prospettata, possa invocarsi la disciplina dell’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. e dell’art. 614 bis c.p.c. in materia di astreintes[26].
Parte della giurisprudenza, in linea con la pronuncia in commento, ritiene che proprio la disciplina della penalità di mora giustifichi la nomina differita del commissario, così da cumulare in via graduata e condizionale rimedio compulsorio e sostitutivo[27].
Resta tuttavia fermo che un simile cumulo, ai sensi dello stesso art. 114, comma 4, lett. e), può essere disposto solamente ove ne faccia richiesta la parte[28]. Ne deriva, pertanto, che non spettano al giudice né la scelta del rimedio delle astreintes in assenza di specifica richiesta, né, soprattutto, l’opzione di differire d’ufficio la nomina del commissario in difetto di correlate penalità di mora richieste preventivamente dalla parte.
Nel caso di specie, pertanto, la nomina differita si sarebbe al più potuta giustificare se le stesse appellanti avessero chiesto l’erogazione di penalità di mora a garanzia di una sollecita definizione del conflitto esecutivo, con assegnazione di un nuovo termine di adempimento, alla cui scadenza sarebbe stato nominato il commissario. Mancando – almeno a quanto consta – una richiesta di tal genere, il giudice non avrebbe dovuto ulteriormente differire la nomina del commissario, dando all’amministrazione un’ulteriore possibilità per decidere.
4. Dal caso alla questione sistematica: sulla perdurante ambiguità dell’ottemperanza quale cognizione mista ad esecuzione.
Nel dibattito scientifico si afferma, periodicamente, la necessità di avvicinare il giudizio di ottemperanza all’archetipo del processo esecutivo, ritenendo che solo attraverso questa via si possa giungere a garantire al ricorrente vittorioso una tutela piena – se si vuole, effettiva ai sensi dell’art. 1 c.p.a. – delle proprie prerogative[29].
La vicenda della nomina differita rappresenta un’appendice del fenomeno, che non va sottostimata specie in quanto solleva una serie di interrogativi in ordine alle più ampie caratteristiche dell’ottemperanza, a fronte della sua perenne ambiguità: va infatti da sé che la pronuncia della Plenaria, nell’attribuire alla p.a. un termine ultimo di adempimento, sottende la natura prevalentemente cognitoria del giudizio ed espone la parte vittoriosa all’emanazione di un nuovo provvedimento da impugnare in un processo ulteriore, a guisa di un loop in parte mitigato dall’attuale disciplina dell’art. 10 bis della l. n. 241/1990[30].
Non è possibile affrontare il tema dell’oggetto e della natura del giudizio di ottemperanza in termini analitici. Sembra tuttavia opportuno segnalare le principali criticità dell’attuale disciplina e delle sue prassi interpretative, quantomeno nella prospettiva dell’immediatezza della tutela attesa dal ricorrente già penalizzato dalla mancata attuazione di un giudicato di annullamento o condanna al facere.
La prima questione, già implicita nelle osservazioni che precedono, concerne la disciplina del provvedimento emanato sulla base di una rinnovata valutazione istruttoria ed espressivo di una riconsiderazione della situazione controversa.
Come noto, ove si assuma che l’atto sia illegittimo, senza che si incorra in una patente violazione o elusione del giudicato, non resterebbe che impugnarlo innanzi al giudice di cognizione con autonomo ricorso: così, ad esempio, nel caso in cui il Ministero che ha beneficiato di un nuovo termine per decidere sull’istanza delle appellanti emani un provvedimento che dispone misure compensative ritenute eccessivamente gravose e tali da rendere quasi irrilevante l’attività formativa svolta all’estero[31].
Al di là delle incertezze sottese a questo orientamento ed alla linea di discrimine fra mancata esecuzione e cattiva esecuzione della sentenza, neutralizzabili mediante la conversione del rito, resta fermo il problema dei costi derivanti dall’apertura di un nuovo giudizio di cognizione dopo che si sia già ottenuto un giudicato favorevole: costi che non gravano solo sulla parte privata, ma che finiscono per incidere anche sul buon andamento amministrativo, pur sempre turbato dal prolungarsi del conflitto e dalle incertezze sottese all’esito della lite[32].
Vi è da chiedersi se non sia opportuno interpretare l’art. 114, comma 6, c.p.a., che demanda al giudice la cognizione di tutte le questioni inerenti all’ottemperanza, in senso estensivo, concentrando in questa fase del giudizio tutte le impugnazioni degli direttamente consequenziali all’annullamento del provvedimento antecedente[33]. A ben guardare, si tratterebbe di una logica non dissimile da quella che già caratterizza la concentrazione delle tutele nell’ambito della disciplina dei motivi aggiunti[34].
In tal senso andrebbe valorizzato l’assunto per cui il giudizio di ottemperanza non può essere «il luogo per tornare e mettere ripetutamente in discussione la situazione oggetto del ricorso introduttivo di primo grado, su cui il giudicato ha, per definizione, conclusivamente deciso»[35]. Nella medesima direzione andrebbe seguito l’orientamento per cui il giudicato di annullamento comprende anche il deducibile, da intendere come «tutto ciò che - ancorché non espressamente dedotto o non espressamente affermato in sentenza - costituisce un oggettivo, logico ed ineliminabile presupposto o corollario della decisione assunta, venendo così a produrre l’effetto conformativo del successivo esercizio del potere»[36].
A partire da queste premesse, recente giurisprudenza ha sottolineato come l’essenza del giudizio di ottemperanza vada individuata proprio «nella conformazione dell’ulteriore esercizio del potere amministrativo, del quale il giudicato costituisce un parametro di limite ed adeguamento»[37].
Se così è, si può ipotizzare come siano suscettibili di essere contestate in ottemperanza tutte le possibili forme di inadempimento dell’effetto conformativo del giudicato.
Resterebbe comunque ferma la necessità di un’autonoma impugnazione, in sede di cognizione, di quei provvedimenti che non rappresentano tanto una riedizione del potere oggetto di precedente censura, quanto la prima manifestazione di un potere che non era stato effettivamente speso nel corso del procedimento contestato, non essendosi ancora formate risultanze istruttorie suscettibili di valutazione da parte del giudice dell’ottemperanza[38]. Questo, anche in rapporto al divieto di pronuncia giudiziale su poteri non ancora esercitati, ai sensi dell’art. 34, comma 2, c.p.a.[39].
Andrebbero opportunamente rimeditati gli orientamenti – fatti propri soprattutto dalla giurisprudenza di primo grado – che individuano nel giudizio di ottemperanza «un rimedio generale volto a presidiare il principio di effettività della tutela, in modo tale da evitare che la pronuncia giurisdizionale resa in sede di cognizione rimanga disattesa»[40].
Lo stesso Consiglio di Stato sembra prendere atto del problema nel momento in cui attribuisce alla sentenza amministrativo l’efficacia di «titolo per l’azione esecutiva, non per la prosecuzione del giudizio di cognizione», cosicché lo stesso giudizio di ottemperanza deve considerarsi «volto a tradurre in atto le statuizioni già contenute, ancorché implicitamente o prospetticamente, nella sentenza definitiva, senza che si possa incidere sui tratti liberi dell’azione amministrativa, lasciati impregiudicati dalla decisione, e nei limiti in cui l’ulteriore svolgimento dell’azione sia comunque già desumibile, nei suoi tratti essenziali, dalla sentenza da portare ad esecuzione»[41].
A suggello di questi indirizzi può osservarsi come le Sezioni Unite tendano a negare l’eccesso di potere giurisdizionale del giudice dell’ottemperanza ai danni della p.a. quando si sostituisca all’amministrazione inadempiente rispetto agli effetti conformativi scaturenti dalla sentenza di annullamento o condanna al facere. Si ritiene, in particolare, che «in ossequio al principio dell’effettività della tutela giuridica, il giudizio di ottemperanza, al fine di soddisfare pienamente l’interesse sostanziale del soggetto ricorrente, non può arrestarsi di fronte ad adempimenti parziali, incompleti od addirittura elusivi del contenuto della decisione del giudice amministrativo»[42].
Così argomentando, anche nella contestata ipotesi in cui si possa assegnare alla p.a. un termine ultimo per provvedere, nulla impedirebbe di concentrare nello stesso giudizio di ottemperanza le censure prospettabili nei confronti di atti non satisfattivi dell’interesse del ricorrente, ancorché non emanati in elusione o aperta violazione del giudicato.
Un’altra criticità attiene ai poteri del giudice e dello stesso commissario ad acta[43].
Nella vigenza del nuovo codice, le risalenti dispute in ordine alle caratteristiche della giurisdizione di merito, come giudizio sul fatto o sull’opportunità dell’azione amministrativa, vanno storicizzate: l’accesso pieno al fatto, ossia al merito della controversia, appare possibile sia in sede di cognizione che di ottemperanza, sulla base dei poteri istruttori di cui gode il giudice amministrativo e di un doveroso coordinamento fra le esigenze di effettività della tutela e le caratteristiche della riserva di amministrazione; il limite della valutazione dell’opportunità della decisione – sia essa tecnica opinabile o puramente discrezionale – rimane fermo per il giudice di legittimità, mentre nulla esclude che possa essere superato dal giudice di merito, proprio in quanto titolare del potere di emanare il provvedimento in luogo dell’amministrazione, o di riformarlo e modificarlo nella sua interezza[44].
Da questo punto di vista traspare l’autentica portata dell’indirizzo per cui il giudice amministrativo «ha il dovere assoluto di imporre [all’amministrazione soccombente] l’esecuzione [della sentenza], nel senso che deve assicurare la soddisfazione degli interessi che il privato fa valere, godendo al riguardo di poteri valutativi che si estendono al merito, cioè alla formulazione di valutazioni di opportunità finalizzate ad assicurare il rispetto di quanto deciso con la sentenza da eseguire»[45].
Anche in siffatta prospettiva, la chiave di volta per comprendere i limiti della cognizione e dei poteri del giudice è data dall’art. 34 c.p.a. e dal contenuto dei singoli tipi di sentenza. Se la sentenza del giudice di ottemperanza, in quanto sentenza che surrogatoria dell’amministrazione inadempiente, può avere ad oggetto anche le valutazioni opinabili o di opportunità, il giudice va messo nelle condizioni di decidere in conformità alla legittimazione che gli è eccezionalmente attribuita dal sistema[46].
La nomina del commissario appare pertanto cruciale, in quanto la selezione dell’ausiliario del giudice quale soggetto dotato di competenze tecniche o di adeguata esperienza amministrativa consente di conformare il giudicato in via definitiva, sempre salvi i reclami dell’amministrazione ed i rimedi a favore di terzi[47].
Quello che pare difettare, nel vigente sistema, è la garanzia dell’effettività dell’azione del commissario, che dovrebbe poter contare sulla leale cooperazione dei funzionari dell’amministrazione inadempiente per la presa in carico della situazione controversa e la formazione di una decisione legittima[48].
La centralità del ruolo del giudice e del commissario nell’attuazione dell’effetto conformativo rimasto inadempiuto conferma non solo l’insussistenza dei presupposti per rimettere nuovamente in termini l’amministrazione inadempiente, come pure la più generale necessità di adeguare l’oggetto del giudizio ed i poteri del giudice e del suo ausiliario ad una rinnovata esigenza di immediatezza delle tutele disponibili.
[1] Che il tema resti essenziale e dibattuto lo conferma, da ultimo, l’importante libro di M. Luciani, Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano, 2024.
[2] Entrambi i passaggi sono ripresi da Cons. Stato, Ad. Plen., 28 dicembre 2022, n. 18.
[3] Sul giudizio di ottemperanza nella sua evoluzione storica, tralasciando in questa sede gli studi dedicati agli effetti del giudicato, cfr., fra i contributi più risalenti, AA. VV. Atti del convegno sull’adempimento del giudicato amministrativo, Milano, 1962; R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 78 ss. AA.VV., XXXVII Convegno di studi amministrativi sul tema “il giudizio di ottemperanza”, Milano, 1983; F. Bartolomei, Giudizio di ottemperanza e giudicato amministrativo, Milano, 1987, nonché – nella dottrina più recente – almeno L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003; Per quanto concerne i poteri del giudice dell’ottemperanza nel vigente codice cfr. almeno B. Marchetti, Sub art. 112 e seguenti, in G. Falcon, B. Marchetti, F. Cortese, a cura di, Commentario breve al Codice del processo amministrativo, Padova, 2021, 874 ss.; C. Delle Donne, L’esecuzione: il giudizio di ottemperanza, in B. Sassani, R. Villata, Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, 1243 ss.; G. Mari, Il giudizio di ottemperanza, in M.A. Sandulli, a cura di, Il giudizio amministrativo. Principi e regole, Napoli, 2024, 663 ss.
[4] Cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 12 maggio 2023, n.4976; in termini anche Cons. Stato, Sez. VII, 5 giugno 2023, n. 5506.
[5] Cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 29 novembre 2023, n. 10281
[6] Già in passato si era evidenziato come queste sentenze non fossero pienamente satisfattive: cfr. R. Villata, L’esecuzione, cit., 264.
[7] Potrebbe porsi, da questa prospettiva, il problema della discrezionalità del giudice, intesa come potere di scelta fra i differenti mezzi idonei alla soluzione della controversia. La questione apre problemi di teoria generale del diritto sui quali non ci si può dilungare in questa sede, fermo restando l’estensione dei poteri discrezionali del giudice rischia di porsi in contrasto con i criteri direttivi stabiliti dall’art. 101 Cost. e con la necessità di tipizzare, in maniera più netta di quanto non accada, i presupposti della scelta dell’uno o dell’altro strumento di gestione del conflitto. Sulla discrezionalità del giudice e le sue implicazioni cfr. M. Barcellona, Dalla società del mutamento all’interpretazione funzionale del diritto, in U. Izzo, a cura di, Il diritto fra prospettiva rimediale e interpretazione funzionale, Napoli, 2023, 55 ss.; R. Bin, A discrezione del giudice. Ordine e disordine. Una prospettiva “quantistica”, Milano, 2013; F. Saitta, Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Napoli, 2023, specie 412 ss.
[8] In ottemperanza, la corrispondenza fra chiesto e pronunciato può riguardare la delimitazione dell’oggetto del giudizio in rapporto al comportamento inadempiente dell’amministrazione, ma non pare estendersi alla conformazione delle tecniche di tutela previste dall’art. 114, comma 4, c.p.a., se non in rapporto all’erogazione di astreintes. Il giudice esercita, pertanto, poteri officiosi e di stretto merito. A quanto consta, il tema non è particolarmente sviluppato in giurisprudenza, per quanto sotteso a T.r.g.a. Trento, 2 agosto 2021, n. 128; T.r.g.a. Trento, 12 luglio 2019, n. 102.
[9] Cfr. F. Saitta, op. cit., 414.
[10] Sul contenuto precettivo della sentenza, specie in rapporto ai suoi effetti conformativi, cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 21 giugno 2024, n. 5544; Cons. Stato, Sez. VI, 8 luglio 2023, n. 7636; Cons. Stato, Sez. IV, 2 febbraio 2023, n. 1155.
[11] Che il precetto contenuto nel giudicato perimetri i poteri del giudice dell’ottemperanza appare pacifico, per quanto resti aperto il problema dell’interpretazione del precetto, da riferire anche al contesto decisionale in cui si colloca l’amministrazione nel momento in cui deve dare esecuzione alla sentenza con effetto conformativo. Sulla perimetrazione cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 gennaio 2023, n. 484; Cons. Stato, Sez. V, 19 aprile 2018, n. 2391. Sul concetto di conflitto esecutivo cfr. R. Villata, L’esecuzione, cit., 264.
[12] Sul rapporto fra effetti del giudicato ed attività di esecuzione cfr. già M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in AA.VV., XVII Convegno, cit., 78 ss.; A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo. II. L’accertamento del rapporto e l’esecuzione della sentenza, Milano, 1962, 244 ss., 445 ss. e 650 ss.; R. Villata, L’esecuzione, cit., 250 ss. Nella dottrina successiva cfr. almeno M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, 246 ss.; L. Ferrara, Dal giudizio cit., 191 ss.; B. Sassani, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto. Contributo allo studio della tutela dichiarativa nel processo civile e amministrativo, Padova, 1989, 143 ss.; R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. Proc. Amm., 1989, 369 ss. Da ultimo cfr. pure A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. II.1. La situazione giuridica a rilievo sostanziale quale oggetto del processo amministrativo, Torino, 2022, 243 ss.; S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017, 258 ss.
[13] Così, al fine di individuare quell’effetto conformativo che fissa gli adempimenti istruttori ed i parametri cui l’amministrazione deve attenersi nel riesercizio del potere conseguente all’annullamento ed alla formazione del giudicato, A. Cassatella, Sub art. 34, in G. Falcon, B. Marchetti, F. Cortese, Commentario breve, cit., 368 ss.
[14] Si realizzerebbe, pertanto, una piena integrazione fra amministrazione e giurisdizione, fermo restando che rimane alla prima un potere di prima decisione sulla fattispecie contemplata dalla norma attributiva del potere. Il tutto in coerenza con l’assunto per cui l’amministrazione esprime un potere proattivo, la giurisdizione un potere reattivo che postula un pregresso conflitto giuridico. In tema cfr. B. Tonoletti, L’accertamento amministrativo, Padova, 2001; Id., Norme imprecise, qualificazione dei fatti ed estensione della cognizione del giudice amministrativo, in E. Bruti Liberati, M. Clarich, a cura di, Per un diritto amministrativo coerente con lo Stato costituzionale di diritto. L’opera scientifica di Aldo Travi, Pisa, 2022, 155 ss.
[15] Restano estranee all’oggetto dell’ottemperanza le situazioni in cui il giudice si sia limitato ad annullare il provvedimento per vizi attinenti ad una fase procedimentale antecedente a quella della formazione del materiale istruttorio ed all’esercizio delle prerogative dell’amministrazione, che conserva pertanto una più ampia potestà decisionale, non surrogabile in ottemperanza, ma suscettibile di autonoma cognizione nel momento di riesercizio del potere. Così, nel caso di vizi di incompetenza, o di omessa comunicazione di avvio del procedimento tale da incidere sul contraddittorio procedimentale, o, ancora, di mancata acquisizione di atti endoprocedimentali (pareri, nulla osta) capaci di incidere sul contenuto della decisione, specie se a contenuto tecnico o discrezionale.
[16] Cfr. sempre A. Cassatella, Sub art. 34, cit., 368. Va da sé che ove le alternative permangano, in rapporto ai vizi oggetto di accertamento ed alla sussistenza di un margine residuo di scelta fra soluzioni equipollenti, non si potrebbero affermare la cognizione del giudice dell’ottemperanza né la sostituzione dell’amministrazione, trattandosi di questioni non coperte dal giudicato sia in rapporto a quanto dedotto che in rapporto a quanto implicitamente deducibile dagli effetti della pronuncia. Sulla riduzione del potere discrezionale nel corso del procedimento o per effetto dell’accertamento compiuto dal giudice ed i relativi effetti conformativi, che potrebbero privare l’amministrazione di alternative decisionali, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 25 febbraio 1321. Nella dottrina recente cfr. le perspicue e condivisibili riflessioni di A. Zito, La scelta discrezionale della p.a. tra principio di esauribilità del potere e controllo effettivo del suo esercizio: per una ridefinizione del concetto di discrezionalità, in Dir. Amm., 2023, 29 ss.
[17] Sul tema, ampiamente dibattuto, cfr. da ultimi i contributi raccolti in A. Moliterni, a cura di, Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice, Napoli, 2021, e, da ultimi, in R. Chieppa, A. Cassatella, A. Moliterni, a cura di, Il sindacato giudiziale sull’attività amministrativa, Milano, 2024.
[18] Su tecnica e legittimazione istituzionale del decisore cfr. D. de Pretis, Valutazioni amministrative e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985.
[19] Su questa concezione ampia di ottemperanza cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11 gennaio 2023, n. 384; Cons. Stato, Sez. II, 14 novembre 2022, n.9939; Cons. Stato, Sez. III, 22 maggio 2016, n. 2769.
[20] Per una ricognizione dei poteri del giudice amministrativo, anche in rapporto alla dilazione della nomina del commissario, cfr., nella giurisprudenza antecedente alla codificazione, Cass. civ., Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 2187; Cass. civ., Sez. I, 23 gennaio 2009, n. 1733; Cons. Stato, Sez. VI, 24 marzo 2003, n. 1519.
[21] Il tema è stato oggetto di recenti rimeditazioni critiche da parte della dottrina, in parte favorevole al riconoscimento della riserva di amministrazione e della conseguente limitazione dei poteri cognitivi del giudice, in parte estremamente critica verso il fenomeno, ritenuto ostacolo alla realizzazione di una piena ed effettiva tutela del ricorrente soprattutto nei casi in cui l’amministrazione non eserciti una piena discrezionalità, ma sia titolare di poteri valutativi tecnici suscettibili di cognizione giudiziale mediante l’opportuno utilizzo di c.t.u., verificazioni e – in sede di ottemperanza – mediante l’intervento del commissario ad acta. Per una ricognizione del dibattito cfr. A. Cassatella, Poteri del giudice amministrativo e riserva dinamica di amministrazione, in F. Astone, F. Manganaro, R. Rolli, F. Saitta, F. Tigano, Riflessioni sul diritto amministrativo che cambia. Atti del XXV convegno di Copanello 30 giugno-1 luglio 2023, Milano, 2024, 235 ss.
[22] Non si ignora che una delle ragioni metagiuridiche della scelta di ordinare il nuovo adempimento è rappresentata dalle difficoltà che i commissari incontrerebbero nell’esecuzione delle sentenze, trattandosi di soggetti estranei all’amministrazione inottemperante, che può talora mostrarsi poco collaborativa. Si ritiene tuttavia necessario separare i piani del discorso, seguendo – per quanto possibile – la legge di Hume. Si evita pertanto di dedurre da una prassi (contraria all’imparzialità ed al buon andamento amministrativo) una regola di condotta (che inficia il livello di effettività delle tutele).
[23] Si tratta di una tesi già espressa in due seminali studi degli anni Ottanta sul rapporto fra prerogative dell’amministrazione e sindacato di legittimità: cfr. F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Id., Scritti giuridici, Padova, 2001, 222 ss., ma risalente al 1983; A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano, 1987, specie 255 ss.
[24] Che accanto ad una funzione prettamente surrogatoria il giudizio di ottemperanza abbia una funzione sanzionatoria discende dalle caratteristiche stesse del rimedio, posto a tutela del soggetto che patisce l’inadempimento della parte pubblica già condannata al facere e soggetta tanto alla legge quanto agli effetti conformativi del giudicato: per questa ricostruzione cfr. già M. Nigro, La giustizia amministrativa, IV ed. Bologna, 1994, 322 ss.
[25] Su questo sbarramento temporale, con efficacia preclusiva decorrente dalla nomina del commissario, cfr. T.a.r. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 9 maggio 2012, n. 438; T.a.r. Sicilia, Catania, Sez. III, 4 ottobre 2007, n. 1560. Sulla permanenza del potere nel corso del giudizio di ottemperanza cfr. Cons. Stato, Sez. V, 30 maggio 2023, n. 5334; T.a.r. Campania, Napoli, Sez. VIII, 17 maggio 2023, n. 2994; Cons. Stato, Sez. II, 20 gennaio 2023, n. 714.
[26] In tal senso, nella parte in cui si assume che le astreintes possano essere emesse anche all’esito del giudizio di cognizione, proprio al fine di incentivare l’amministrazione ad attuare gli effetti ripristinatori e conformativi della sentenza, cfr. anche Cons. Stato, Ad. Plen., 9 maggio 2019, n. 7. Sulle astreintes cfr. S. Foà, A. Ubaldi, L’emancipazione dell’astreinte amministrativa: un modello sui generis?, in Resp. Civ. Prev., 2015, 8 ss.; F. Saitta, Interprete senza spartito, cit., 417 ss.
[27] Cfr. T.a.r. Campani, Napoli, Sez. III, 25 gennaio 2023, n.549; T.a.r. Campania, Napoli, Sez. VI, 2 maggio 2018, n. 2942; T.a.r. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 26 settembre 2016, n. 1852; T.a.r. Lazio, Roma, Sez. II, 5 novembre 2014, n. 11099.
[28] Il giudice potrà quindi pronunciarsi nei limiti della richiesta: per un’applicazione recente, in cui il rimedio compulsorio è preferito a quello sostitutivo comunque oggetto di domanda, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3 marzo 2023, n. 2242.
[29] Limitando i riferimenti ad alcuni contributi monografici, e fatti salvi gli ulteriori rinvii, cfr. almeno L. Ferrara, Dal giudizio, cit., specie 44 ss.; B. Sassani, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto. Ottemperanza amministrativa e tutela civile esecutiva, Milano, 1997, 109 ss. Fra i contributi recenti cfr. almeno A. Carbone, Potere e situazioni soggettive, cit., 243 ss.; S. Vaccari, Il giudicato, cit., 341 ss.
[30] Cfr. M. Ramajoli, Preavviso di rigetto, preclusioni, giusto procedimento e giusto processo, in Dir. Proc. Amm., 2022, 595 ss.; F. Trimarchi Banfi, La funzione amministrativa dopo la riforma del preavviso di diniego, in Dir. Proc. Amm., 2023, 809 ss.
[31] In giurisprudenza cfr., fra le sentenze recenti, Cons. Stato, Sez. VII, 13 maggio 2024, n. 4259; Cons. Stato, Sez. II, 17 aprile 2024, n. 3497.
[32] Per una recente rivisitazione del tema cfr. R. Fusco, Il sindacato giurisdizionale sulla riedizione del potere amministrativo a seguito del giudicato, in Dir. Proc. Amm., 2024, 67 ss. Sulla conversione cfr. S. Franca, La conversione dell’azione tra potere officioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in Dir. Proc. Amm., 2024, 141 ss.
[33] Parte della giurisprudenza, anche recente, valorizza a tal fine la formazione progressiva del giudicato, attribuendo al giudice dell’ottemperanza il potere di integrare il precetto della sentenza da eseguire: cfr. T.a.r. Campania, Napoli, Sez. III, 10 luglio 2023, n. 4124; T.a.r. Lazio, Roma, Sez. II, 14 febbraio 2023, n. 2535; Cons. Stato, Sez. IV, 27 gennaio 2015, n.362. Per una discussione critica di questo orientamento cfr. R. Villata, Riflessioni, cit., 378 ss.
[34] Sulla necessità di riconsiderare la disciplina del c.p.a. anche in rapporto agli obiettivi individuati nella legge delega all’emanazione del d.lgs. n. 104/2010, con specifico riferimento alla concentrazione delle tutele, cfr. F.G. Scoca, Scossoni e problemi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, in Il Processo, 2021, 1 ss.
[35] Così già Cons. Stato, Ad. Plen., 9 giugno 2016, n. 11; Cons. Stato sez. IV, 30 agosto 2023, n. 8050.
[36] Per questa espressione Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, pur propensa a distinguere rinnovata cognizione da ottemperanza. Per ulteriori applicazioni in ordine all’interpretazione del deducibile quale sviluppo logico del dedotto, cfr. Cons. Stato, Sez. III, 7 luglio 2020, n. 4369; Cons. Stato, Sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321. Nella medesima prospettiva pare orientato, pur con differenti argomentazioni, S. Menchini, Potere sostanziale e sistema delle tutele, in Dir. Proc. Amm., 2020, 803 ss.
[37] Cfr. Cons. Stato, Sez. II, 19 gennaio 2024, n. 628.
[38] Così, nei già menzionati casi in cui l’annullamento abbia ad oggetto la fase di iniziativa, o comunque preparatoria della decisione, a prescindere dalla sua natura vincolata, tecnica o discrezionale. Sul piano del diritto positivo, la tesi discende dal fatto che solo con la definitiva formazione delle risultanze dell’istruttoria, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 241/1990, la questione sottoposta alle cure della p.a. può ritenersi matura per la formazione della decisione e dunque oggetto di piena conoscenza sia da parte del giudice di legittimità che – in rapporto ad eventuali effetti conformativi – dal giudice di ottemperanza. In difetto di risultanze, appare dunque sensato ritenere che il giudicato di annullamento copra unicamente il dedotto, e non un deducibile che, in rapporto all’istruttoria non ancora compiuta o esaurita dalla p.a., non esiste. É appena il caso di osservare come, nel caso in esame, le risultanze fossero pienamente a disposizione della p.a., che rimaneva tuttavia inerte rispetto al completamento dell’attività che le era stato imposto dalla Plenaria del 2022 e rimaneva ineseguito sia ai fini della valutazione del curriculum delle due aspiranti all’insegnamento che della fissazione di misure compensative comunque correlabili al livello di formazione raggiunto e documentato. Il che avrebbe consentito la nomina immediata e non differita del commissario. In questa prospettiva potrebbero essere ridimensionate le preoccupazioni di quella dottrina che – non erroneamente – paventa che il principio di effettività della tutela possa divenire una sorta di grimaldello per aggirare principi come la legalità processuale e la separazione dei poteri: in tal senso, ma con ampi rinvii ad un dibattito pluridecennale, cfr. da ultimo L. Galli, I poteri del giudice dell’ottemperanza tra esecuzione delle sentenze amministrative ed effettività della tutela, in Dir. Proc. Amm., 2024, 367 ss.
[39] Sul punto cfr. P. Cerbo,
[40] Cfr. T.a.r. Puglia, Bari, Sez. III, 29 novembre 2023, n. 1379; T.a.r. Campania, Napoli, Sez. VII, 25 gennaio 2023, n. 541; T.a.r. Lazio, Roma, Sez. III, 8 ottobre 2022, n. 11098.
[41] Cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 3 aprile 2023, n. 3409.
[42] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 19 maggio 2023, n. 13785; Cass. civ., Sez. Un., 29 marzo 2017, n. 8112.
[43] Cfr. da ultimo T. Tornielli, La figura del commissario ad acta e la garanzia di effettività della tutela tra rito contro il silenzio e giudizio di ottemperanza, in Dir. Proc. Amm., 2023, 156 ss.
[44] Per questa impostazione cfr. già A. Piras, Interesse legittimo, cit., 680.
[45] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 9 febbraio 2015, n. 653.
[46] Sulla pienezza dei poteri del giudice dell’ottemperanza cfr. Cons. Stato, Sez. II, 17 aprile 2024, n. 3497; T.a.r. Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, 10 luglio 2021, n. 212. Sulle prerogative del commissario cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19 dicembre 2000, n. 6835.
[47] Sulle implicazioni della qualificazione del commissario ad acta quale ausiliario del giudice, ai sensi dell’art. 21 c.p.a., e dell’attività conseguente, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 25 maggio 2021, n. 8.
[48] Che la leale cooperazione sia necessaria non è dubbio. Non sembra, tuttavia, che sotto il profilo sanzionatorio vi siano adeguate misure per sollecitare i funzionari maggiormente neghittosi a cooperare con il commissario, che pur potrebbe farsi assistere dalla forza pubblica per garantire l’attuazione del giudicato, ferma la possibile responsabilità penale dei funzionari stessi ai sensi dell’art. 328 c.p.: il problema viene affrontato da T.a.r. Sicilia, Catania, Sez. III, 24 gennaio 2020, n. 196; T.a.r. Calabria, Reggio Calabria, 12 ottobre 2017, n. 871; T.a.r. Sicilia, Catania, Sez. I, 12 febbraio 2013, n. 415; T.a.r. Sicilia, Catania, Sez. III, 28 ottobre 2009, n. 1778
Ancora sul fine della vita. Commento a Corte Costituzionale n. 135/2024
Legislatore, giudici comuni e Corte costituzionale fra libertà di lasciarsi morire, diritto a non vivere in determinate condizioni e diritto all’aiuto al suicidio
di Benedetta Liberali
Sommario: Osservazioni preliminari di contesto: quali questioni e quali problemi. - 1. Sul superamento dell’eccezione di inammissibilità per irrilevanza e sulla (problematica) esclusione della cd. clausola di equivalenza. - 2. Sulla nozione di dignità: da accezione (del tutto) soggettiva ad accezione (anche, o soprattutto?) oggettiva. - 3. Sulla nozione di trattamento di sostegno vitale: il coinvolgimento anche di familiari e caregivers e l’indicazione del breve lasso di tempo entro cui di determinerebbe prevedibilmente la morte. - 4. Sull’accostamento fra fattispecie finitime e contigue: aiuto al suicidio e omicidio del consenziente. - 5. Sull’ammissibilità dell’intervento di terzi: una questione non solo processuale. - 6. Sulla possibile ricostruzione di un fondamento costituzionale di un diritto all’aiuto al suicidio: verso una diversa questione di legittimità costituzionale?
Osservazioni preliminari di contesto: quali questioni e quali problemi
L’ultima decisione resa dalla Corte costituzionale in materia di aiuto al suicidio (rispetto alla quale si sono avanzate diverse qualificazioni quale pronuncia interpretativa di rigetto o di rigetto con interpretazione[1]) consente di tornare a ragionare su una serie di profili che riguardano innanzitutto il merito delle questioni poste con particolare riferimento alla possibilità di ricostruire il fondamento costituzionale di un vero e proprio diritto all’aiuto al suicidio; e in secondo luogo il complessivo e complesso rapporto fra la stessa Corte e il legislatore[2] (non solo statale, ma anche regionale) e il generale impatto della pronuncia di infondatezza rispetto alla futura attività interpretativa dei giudici comuni (anche con riguardo ai procedimenti penali tuttora pendenti aventi a oggetto analoghi profili[3]) e alla concreta prassi applicativa dei medici e operatori sanitari intorno alla nozione di trattamento di sostegno vitale, che costituisce il nodo principale del percorso argomentativo della stessa sentenza n. 135 del 2024.
Essa si inserisce, come è noto, in un contesto normativo ben specifico, disegnato nel 2019 dalla sentenza n. 242, con cui la Corte ha riperimetrato l’area penalmente rilevante della fattispecie penale dell’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 (Istigazione o aiuto al suicidio) c.p., individuando le quattro condizioni che devono caratterizzare la persona che quell’aiuto richiede e aggiungendo due requisiti procedurali, consistenti nel necessario coinvolgimento dei comitati etici e del servizio sanitario nazionale[4].
Estremamente valorizzando la posizione di chi chiede di essere aiutato nell’esecuzione del proposito suicidario, la Corte ha stabilito che ai fini della non punibilità del terzo che quella condotta di aiuto pone in essere siano accertati a) un trattamento di sostegno vitale e b) una patologia irreversibile, che determina c) sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili dallo stesso soggetto, che deve essere d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La verifica di tali condizioni viene significativamente posta in capo alle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, che devono altresì verificare le modalità esecutive dell’aiuto al suicidio, in modo che si evitino eventuali abusi nei confronti di persone vulnerabili assicurando al contempo anche il rispetto della loro dignità. Considerando la “delicatezza del valore in gioco”, la Corte ritiene necessario anche “l’intervento di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze”, che possa garantire ancora una volta “situazioni di particolare vulnerabilità”, ossia il comitato etico territorialmente competente, così individuato pur sempre in attesa dell’intervento del legislatore[5].
La Corte, quindi, ha potuto esclusivamente occuparsi dell’area penalmente rilevante di cui all’art. 580 c.p. e della condotta dei terzi che aiutano a dare esecuzione al proposito suicidario altrui autonomamente determinatosi, sempre esprimendo “con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore”, in conformità con i principi da lei stessa individuati[6].
Rispetto all’interrogativo posto in premessa circa la possibile individuazione di un vero e proprio diritto all’aiuto al suicidio si possono fin da subito rilevare essenziali passaggi del percorso argomentativo di questa prima decisione (che poi vedremo essere confermati nella sentenza n. 135), che esplicitano come la dichiarazione di illegittimità costituzionale si limiti a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio in quelle determinate condizioni, “senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici” e restando pertanto affidato “alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”[7]. Inoltre, come si è già sottolineato, il pur necessario coinvolgimento del servizio sanitario nazionale è circoscritto alla “verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio” e delle “relative modalità di esecuzione”[8], senza comprendervi anche la specifica prestazione di esecuzione dell’aiuto al suicidio.
La sentenza n. 135, che si occupa di una diversa questione che pure ha come oggetto sempre l’art. 580 c.p., con cui si è richiesto di far venire meno il requisito del trattamento di sostegno vitale ai fini della non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, offre diversi punti di interesse sui quali ci si può soffermare nella prospettiva di cercare di rispondere e completare il ragionamento sui nodi cui si è fatto cenno in premessa: 1) il preliminare superamento dell’eccezione di inammissibilità per irrilevanza cui si ricollega la finale (problematica) considerazione sulla cd. clausola di equivalenza; 2) l’evoluzione del concetto di dignità su cui si fondano le motivazioni delle tre decisioni della Corte rese in materia di aiuto al suicidio; 3) la centrale definizione di trattamento di sostegno vitale, su cui si incentrano le questioni sollevate, la cui ricostruzione, in ogni caso, conduce alla dichiarazione di infondatezza; 4) l’accostamento fra la fattispecie dell’aiuto al suicidio e quella dell’omicidio del consenziente; 5) l’ammissione degli atti di intervento e il loro riflesso sostanziale nel percorso argomentativo della decisione; 6) i riflessi dell’area penalmente irrilevante della fattispecie penale dell’aiuto al suicidio sulla posizione di chi quell’aiuto richiede ai fini dell’individuazione di una diversa questione di legittimità costituzionale, che completi il quadro normativo ridisegnato dalla Corte.
1. Sul superamento dell’eccezione di inammissibilità per irrilevanza e sulla (problematica) esclusione della cd. clausola di equivalenza
Un primo profilo di interesse riguarda l’asserita inammissibilità delle questioni sollevate per irrilevanza sostenuta dall’Avvocatura generale dello Stato, motivata dal fatto che nel caso concreto (essendo stata l’agevolazione del suicidio posta in essere presso una struttura privata in Svizzera) non sarebbero state rispettate le condizioni procedurali fissate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019: in questa prospettiva, le questioni sarebbero state irrilevanti poiché, anche in caso di accoglimento delle stesse, il giudice a quo avrebbe dovuto respingere la richiesta di archiviazione del procedimento penale, non dispiegandosi quindi alcun effetto sul giudizio in corso.
La Corte costituzionale ritiene infondata l’eccezione, confermando il proprio ormai consolidato orientamento secondo cui “è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di accoglimento possa incidere sull’esercizio della funzione giurisdizionale, anche soltanto sotto il profilo del percorso argomentativo […], senza che occorra la dimostrazione della sua effettiva capacità di influire sull’esito del processo medesimo”. E, infatti, “il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare”[9].
Benché ovviamente queste argomentazioni appaiano sufficienti e assorbenti rispetto a ogni altra considerazione, si può osservare da un secondo punto di vista e nella medesima direzione come non vi potesse essere alcun dubbio che della disposizione censurata il giudice rimettente dovesse fare applicazione, a prescindere dal rispetto o meno delle due condizioni procedurali fissate in relazione all’area di non punibilità disegnata dalla sentenza n. 242 del 2019.
Si può giungere anzi a sostenere che proprio la circostanza di trovarsi al di fuori di quel perimetro e, dunque, nell’ambito di piena applicazione dell’art. 580 c.p. costituisse il presupposto per la stessa sollevazione della questione di legittimità costituzionale. Nel caso di specie, infatti, e dunque prima della sentenza n. 135 (che ha poi fornito una interpretazione estensiva sul punto) era in fondo in discussione che fosse rispettato (addirittura) il requisito sostanziale fissato dalla Corte relativo al trattamento di sostegno vitale. Proprio per questo, difficilmente si sarebbe ricevuta una valutazione “positiva” da parte del comitato etico e poi del servizio sanitario nazionale intorno alla sussistenza, fra gli altri, proprio di quel requisito, la cui mancanza (ritenuta tale, almeno in una fase precedente all’interpretazione offerta con la sentenza n. 135) già rendeva penalmente rilevante la condotta (e dunque pacificamente applicabile l’art. 580 c.p., sul quale è stata precisamente sollevata la questione di legittimità costituzionale).
L’eccezione di inammissibilità per irrilevanza e le considerazioni che si sono svolte consentono di soffermarsi su un profilo particolarmente delicato della stessa decisione, che riguarda l’esclusione della clausola di equivalenza stabilita nella sentenza n. 242 del 2019: tale esclusione e le motivazioni che la sostengono sono probabilmente coerenti (e forse del tutto dovute) se si tiene conto della tecnica decisoria adottata dalla Corte nel senso della infondatezza della questione sollevata.
Resta, in ogni caso, un tema di fondo e di sostanza che appare quantomeno problematico, se si ripercorre la motivazione sul punto offerta dalla Corte. Quest’ultima ritiene, infatti, che la clausola di equivalenza allora fissata (secondo cui le condizioni di non punibilità valgono per i fatti successivi alla pubblicazione della stessa sentenza n. 242 del 2019 e, quindi, esse non possono essere richieste in relazione a fatti anteriormente commessi – come quello dell’allora giudizio a quo – poiché per le vicende pregresse non risulterebbero di fatto mai soddisfatte in modo puntuale, non avendone conoscenza il soggetto agente) non “possa estendersi a fatti commessi successivamente […], ai quali si applicano invece i requisiti procedurali stabiliti dalla sentenza”[10].
In questa occasione, quindi, la Corte ritiene che le condizioni fissate nel 2019 debbano essere soddisfatte precisamente, anche quando il soggetto agente ha posto in essere una condotta che (almeno prima dell’interpretazione estensiva della sentenza n. 135) si riteneva ricadere nell’ambito applicativo della fattispecie penale. Si giunge perfino a indicare la strada della impugnazione dell’eventuale mancata autorizzazione alla procedura da parte delle strutture pubbliche preposte, con ciò sembrandosi confermare che le due condizioni procedurali fissate nel 2019 avrebbero dovuto essere rispettate anche laddove non vi fossero uno o più requisiti sostanziali dalla stessa Corte richiesti.
Questi passaggi della motivazione della sentenza n. 135, pur se forse dovuti a fronte di una decisione di infondatezza, indubbiamente pongono un nodo problematico rispetto a quella categoria di fatti posti in essere certamente dopo la sentenza n. 242 del 2019, ma prima della sentenza n. 135 del 2024: forse proprio per sfumare gli effetti di simile esclusione della clausola di equivalenza la Corte ha aggiunto che resta “naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del delitto, compreso l’elemento soggettivo”[11]. In tale passaggio è comunque difficile cogliere una attenuazione del rigore del rispetto delle condizioni dettate nel 2019 (in particolare, quelle procedurali), demandandosi ai giudici (e soprattutto e in via diretta al giudice a quo al momento della riapertura del procedimento nel corso del quale le questioni sono state sollevate) una valutazione in ogni caso rigorosa. Certamente la Corte ha espressamente fatto riferimento fra tutti i requisiti anche all’elemento soggettivo: e, a tale proposito, non si può non rimarcare ancora una volta come il soggetto agente, nel momento in cui ha posto in essere la condotta di aiuto al suicidio nei confronti di una persona priva del requisito del trattamento di sostegno vitale (o almeno ritenuta tale secondo una diffusa interpretazione, che poi può forse ritenersi superata dalla sentenza n. 135 come si è già sottolineato), si trovasse nella stessa (o comunque fortemente analoga) situazione determinatasi nel caso che ha dato origine al giudizio costituzionale definito dalla sentenza n. 242 del 2019: ossia, nell’ambito applicativo dell’art. 580 c.p. e, quindi, nell’area penalmente rilevante disegnata dalla fattispecie (prima del 2019 solo dal legislatore; dopo il 2019 anche dalla Corte costituzionale).
2. Sulla nozione di dignità: da accezione (del tutto) soggettiva ad accezione (anche, o soprattutto?) oggettiva
Il secondo spunto di riflessione della decisione attiene alla trasformazione sostanziale della nozione di dignità[12] a partire dall’ordinanza n. 207 del 2018 e dalla sentenza n. 242 del 2019 fino a giungere alla sentenza n. 135 del 2024, passando per la sentenza n. 50 del 2002, se pure in relazione a un giudizio di ammissibilità del referendum avente a oggetto una diversa, benché vicina fattispecie, ossia l’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 (Omicidio del consenziente) c.p.
Nella sentenza n. 242 (e soprattutto nell’ordinanza n. 207 che alla dignità fa esplicito riferimento[13]) la riperimetrazione dell’area penalmente rilevante è stata possibile, per la Corte, attraverso una estrema valorizzazione della posizione della persona che richiede l’aiuto al suicidio, con specifico riguardo alla sua dignità intesa in senso soggettivo. In questa direzione depongono la valorizzazione della libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche di fine vita (artt. 2, 13 e 32 Cost.) e la conseguente necessità ai fini della non punibilità del terzo che il soggetto richiedente abbia la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli e che le sofferenze fisiche o psichiche intollerabili siano ritenute tali, evidentemente, da parte dello stesso. La parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. si fonda sostanzialmente proprio sul riconoscimento della dignità soggettiva della persona che si trova in determinate condizioni e richiede una condotta di aiuto per l’esecuzione del proprio proposito suicidario.
Nella sentenza n. 135, invece, da un lato si ribadisce il rilievo dell’accezione soggettiva di dignità, quando la Corte tiene a specificare di non esservi “affatto insensibile”, laddove, proprio a partire dall’ordinanza n. 207, “alla valutazione soggettiva del paziente sulla ‘dignità’ del proprio vivere e del proprio morire si fa inequivoco riferimento” giungendo poi ad assimilare la stessa dignità alla nozione di autodeterminazione, “la quale a sua volta evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte”; dall’altro lato si apre all’accezione oggettiva della stessa, affermandosi che “ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa di svolga” e che vi è una “necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana”[14].
Recuperando anche la dimensione oggettiva della dignità personale la Corte sembra ritrovare una linea di coerenza con la sentenza n. 141 del 2019. Con tale decisione, con cui erano state respinte le questioni di legittimità costituzionale sollevate – secondo un analogo schema – sulle disposizioni che puniscono le condotte dei terzi di favoreggiamento della prostituzione, anche laddove il soggetto che si prostituisce si autodetermini liberamente in questa direzione, la Corte aveva ritenuto che tale tipo di prestazioni trovasse “nella sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali”, e, quindi, che fosse necessario proteggere le “persone vulnerabili” anche da sé stesse laddove esprimano una “scelta di vita” che si scontra con una vera e propria “naturale riluttanza”, considerando che condizioni di ordine economico e di disagio famigliare o sociale sono idonee a indebolirla “verso una ‘scelta di vita’ quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede”[15].
In modo nettamente distante dal percorso argomentativo che sostiene la sentenza n. 242 dello stesso anno – pur tenuto conto del ben diverso parametro costituzionale che veniva in rilievo, ossia l’art. 41 Cost. – la Corte giunge ad affermare che “la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico”. Ed è proprio a tale vulnerabilità di fatto che la Corte associa la nozione di dignità di tipo oggettivo che è limite espresso posto alla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), rispetto alla quale non potrebbe assumere rilievo l’accezione oggettiva ossia quella concepita dai singoli imprenditori o dai singoli lavoratori: considerato lo specifico parametro, deve essere il legislatore a farsi “interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico”[16].
Più recentemente, come si è accennato, nella sentenza n. 50 del 2022 la Corte – pure in un diverso giudizio riguardante l’ammissibilità del quesito referendario avente a oggetto la diversa, ma contigua fattispecie dell’omicidio del consenziente – ha valorizzato la ratio dell’art. 579 c.p., ricordando come, benché il legislatore storico avesse inteso “tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini”, non fosse “però affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela della norma «alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi»”[17]. Per tali motivi – pur non potendosi qualificare la fattispecie a contenuto costituzionalmente vincolato (“non essendo quella ora indicata l’unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana”) e pur riconoscendosi la possibilità di una sua modifica o sostituzione da parte del legislatore – la disposizione medesima non può essere “puramente e semplicemente” abrogata, “perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali” essa si salda[18].
Con questa sentenza, peraltro, si inizia ad accostare in modo particolarmente significativo (ciò non era invece avvenuto nella sentenza n. 242 del 2019) le due fattispecie penali dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio del consenziente: su tale profilo – che consente di svolgere ulteriori considerazioni, nella misura in cui emerge una differenza sostanziale di posizione fra coloro che chiedono di porre fine alla propria esistenza, trovandosi in analoghe condizioni di salute che però divergono (e ciò evidentemente non è un aspetto di secondario rilievo) rispetto alla capacità o meno di compiere l’ultimo atto materiale del suicidio – si tornerà oltre.
3. Sulla nozione di trattamento di sostegno vitale: il coinvolgimento anche di familiari e caregivers e l’indicazione del breve lasso di tempo entro cui di determinerebbe prevedibilmente la morte
La motivazione che sorregge la decisione, con cui pure vengono dichiarate infondate le questioni sollevate, si confronta necessariamente con la nozione di trattamento di sostegno vitale, poiché il giudice rimettente censura l’art. 580 c.p., proprio nella parte in cui subordina la non punibilità della condotta dell’aiuto al suicidio alla condizione che lo stesso aiuto sia stato prestato a una persona tenuta in vita da trattamenti di questo tipo.
Considerando che il riferimento al trattamento di sostegno vitale costituisce uno dei requisiti esplicitati nei proprio precedenti (ordinanza n. 207 del 2018 e sentenza n. 242 del 2019), la Corte ritiene di dover chiarire che la relativa nozione (di cui come è noto non esiste una tipizzazione cristallizzata[19]) deve essere “interpretata, dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio di quelle decisioni”, rilevando la “varietà delle interpretazioni offerte nella prassi”[20]. Ed ecco che questa ratio, che dovrebbe guidare il servizio sanitario nazionale e i giudici comuni, viene chiarita attraverso due specifiche indicazioni qualitative e anche una (pur limitata) lista di esempi concreti.
Innanzitutto la Corte, nel riaffermare il “diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo” e come ciò valga “indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività”, aggiunge in modo significativo che debbono quindi includersi anche “quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero [essere] apprese da familiari o ‘caregivers’ che si facciano carico dell’assistenza del paziente”[21].
In secondo luogo, accanto a questa specificazione che si riflette sulla tipologia di soggetti che possono porre in essere quelle procedure, la Corte aggiunge una indicazione temporale, che dovrebbe concorrere a chiarire la definizione di trattamento di sostegno vitale. In particolare, secondo la Corte, tali devono considerarsi le procedure che “si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”[22].
Poiché, evidentemente, questa definizione non appare in ogni caso sufficiente (non essendo in effetti forse possibile individuare con certezza una regola rigida che riconsegni la misura dell’avverbio prevedibilmente e del riferimento al breve arco temporale[23]), ecco che la sentenza n. 135 del 2024 offre alcuni esempi concreti e specifici, come l’evacuazione manuale dell’intestino, l’inserimento di cateteri urinari e l’aspirazione dalle vie bronchiali del muco[24]. Questi esempi, però, sembrano riconsegnare qualcosa di differente, rispetto alla spiegazione intorno alla portata delle precedenti espressioni che qualificano il trattamento di sostegno vitale, ossia un’immagine concretamente (e drammaticamente) chiara delle concrete condizioni del paziente che investono ogni momento e fase della vita quotidiana.
Non è secondario rilevare che questi stessi esempi “entrano” nel giudizio costituzionale durante la pubblica udienza grazie all’ammissione degli interventi di terzi, su cui si tornerà oltre, come espressamente indicato dalla Corte nelle proprie motivazioni.
E non è secondario osservare anche che proprio il giorno dopo lo svolgimento della medesima udienza il Comitato Nazionale per la Bioetica ha pubblicato la risposta al quesito del Comitato Etico Territoriale della Regione Umbria formulato il 3 novembre 2023, con cui si richiedeva di offrire i criteri da utilizzare per distinguere i trattamenti sanitari ordinari e quelli di sostegno vitale, in modo da guidare la valutazione che la sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale ha affidato ai comitati etici. Di questa circostanza si ritrova un esplicito riferimento nella risposta di minoranza del documento del Comitato, laddove si rileva l’inopportunità delle tempistiche di pubblicazione dello stesso, conducendo alcuni componenti a non partecipare al voto dell’assemblea plenaria il 20 giugno. Di tale documento, peraltro, non si fa cenno nel percorso argomentativo della sentenza n. 235 del 2024[25].
4. Sull’accostamento fra fattispecie finitime e contigue: aiuto al suicidio e omicidio del consenziente
Sempre in linea con il percorso argomentativo con cui la Corte nella sentenza n. 135 del 2024 recupera la dimensione oggettiva della dignità, affiancandola a quella soggettiva che, sola, aveva animato se pur implicitamente la sentenza n. 242 del 2019, si pongono i passaggi in cui si accostano due fattispecie penali definite contigue e strettamente finitime: l’art. 579 c.p. e l’art. 580 c.p.
Tale collegamento, era stato fatto come si è accennato, già nella sentenza n. 50 del 2022 avente a oggetto la prima delle due disposizioni. In particolare, la Corte aveva tenuto a precisare che il quesito referendario (poi dichiarato inammissibile) aveva a oggetto l’art. 579 c.p., ossia il delitto di omicidio del consenziente, una “norma incriminatrice strettamente finitima, nell’ispirazione, a quella del successivo art. 580” c.p., che riguarda l’aiuto e l’istigazione al suicidio. Secondo la Corte le “due disposizioni riflettono, nel loro insieme, l’intento del legislatore del codice penale del 1930 di tutelare la vita umana anche nei casi in cui il titolare del diritto intenderebbe rinunciarvi, sia manu alius, sia manu propria, ma con l’ausilio di altri. Esclusa una reazione sanzionatoria nei confronti dello stesso autore dell’atto abdicativo, anche nei casi in cui essa sarebbe materialmente possibile (per essere il fatto rimasto allo stadio del tentativo), il legislatore erige una ‘cintura di protezione’ indiretta rispetto all’attuazione di decisioni in suo danno, inibendo, comunque sia, ai terzi di cooperarvi, sotto minaccia di sanzione penale”[26]. La Corte costituzionale sembra offrire un ulteriore elemento di collegamento laddove, pur ribadendo come “i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata” siano “irrilevanti in sede di giudizio di ammissibilità del referendum”, riconosce che la relativa iniziativa referendaria è “nata quale reazione all’inerzia del legislatore nel disciplinare la materia delle scelte di fine vita, anche dopo i ripetuti moniti” della Corte stessa[27].
Anche nella sentenza n. 135 del 2024 il richiamo viene ribadito, qualificando l’art. 579 c.p. come “contigua ipotesi delittuosa” rispetto all’art. 580 c.p., sempre al fine di porre in rilievo la necessità del mantenimento di una “cintura di protezione” “contro scelte autodistruttive” e la funzione di “proteggere la vita delle persone rispetto a scelte irreparabili che pregiudicherebbero definitivamente l’esercizio di qualsiasi ulteriore diritto o libertà”[28].
Sebbene come si è visto la Corte raffronti gli artt. 579 e 580 c.p. allo scopo di sostanziare il riferimento alla dignità oggettiva e alla ratio comune consistente nella tutela della vita umana, con relativa predisposizione della necessaria “cintura di sicurezza”, il parallelismo fra le due fattispecie fa emergere la sostanziale disparità di condizione di due categorie di persone che, pur essendo affette da gravissime malattie con sofferenze fisiche o psichiche ritenute intollerabili e in presenza di trattamenti di sostegno vitale (anche secondo la successiva estensione interpretativa operata dalla Corte), vedono riconosciuta o negata in radice la possibilità di ottenere una valutazione positiva in ordine ai requisiti di liceità della condotta dei terzi da parte del comitato etico e del servizio sanitario nazionale a seconda che rispettivamente esse siano o meno in grado di compiere l’ultimo atto idoneo a determinare la propria morte. In ciò, in fondo, si traduce la differenza sostanziale fra le due fattispecie penali, che descrivono e regolamentano diversamente le correlate condotte dei terzi[29].
5. Sull’ammissibilità dell’intervento di terzi: una questione non solo processuale
Dalle considerazioni svolte finora emerge nettamente la specifica peculiarità della fattispecie penale, che tiene strettamente unite la posizione di chi pone in essere la condotta di aiuto al suicidio e di chi quell’aiuto richiede, tanto da non potersi immaginare l’una senza l’altra.
Proprio considerando la costruzione della fattispecie penale dell’aiuto al suicidio che unisce, come si è già cercato di mostrare, queste due posizioni, merita di essere valorizzato un altro profilo che ha caratterizzato la sentenza n. 135 del 2024, ossia l’ammissione nel giudizio degli interventi di due soggetti terzi, sotto due profili: uno certamente processuale, l’altro argomentativo e di merito.
In ordine al primo profilo, rappresenta ovviamente una decisione particolarmente significativa l’ammissione stessa nel giudizio costituzionale della richiesta di intervento. La Corte, nell’ordinanza allegata alla sentenza nl. 135 del 2024, ribadisce il proprio costante e consolidato orientamento restrittivo[30] che ritiene inammissibili gli interventi di soggetti che non siano parti dei giudizi a quibus e allarga il contraddittorio solo laddove “si tratti di terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio”, che non sia “semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura”, secondo quanto ormai stabilisce esplicitamente anche l’art. 4, terzo comma, (Interventi in giudizio) delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale a seguito delle modifiche intervenute nel 2020 e nel 2021. La Corte, infatti, ha riconosciuto l’ammissibilità degli interventi “solo nell’ipotesi in cui l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente non derivi, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla norma censurata, dalla pronuncia sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma sia conseguenza immediata e diretta dell’effetto che la pronuncia […] produrrebbe sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo”.
Nel caso di specie, la Corte, dopo averle ampiamente richiamate, ha ritenuto che non potessero “non tenersi presenti le argomentazioni della difesa delle” due intervenienti, “secondo cui l’evoluzione delle rispettive patologie rischierebbe di non consentire loro, in pratica, di far valere in tempo utile le proprie ragioni”: e – ed è questo un dato particolarmente significativo, pur se collegato alla specificità del caso concreto – la Corte sottolinea come a tale conclusione si pervenga “a prescindere […] dalla questione se sia possibile per le intervenienti eccepire in altra sede giudiziaria l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen.”. Sulla base della necessità di tutelare il “diritto di difesa nella sua essenziale dimensione di effettività” la Corte, quindi, ammette alla discussione di merito gli interventi, “in una questione che coinvolge la vita stessa delle intervenienti”.
Il secondo ordine di interesse, lo si anticipava, riguarda il merito del percorso argomentativo della decisione: l’ammissione degli interventi delle due persone che richiedono l’aiuto al suicidio determina un riflesso esplicito nel corpo della motivazione che sostiene la pronuncia della Corte costituzionale.
E, infatti, troviamo “traccia” delle posizioni espresse con i due interventi in una prima occasione laddove la Corte, nell’affermare che la “decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative nella vita di un individuo”, esplicita di condividere la posizione espressa non solo dal giudice rimettente, ma anche dalle “intervenienti nel presente giudizio”[31]: e, quindi, non anche dalle parti private.
Ancora, un espresso riferimento alle intervenienti viene effettuato successivamente, laddove la Corte affronta il nodo interpretativo della nozione di trattamento di sostegno vitale: nel sottolineare come la stessa vada interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni “in conformità alla ratio” dell’ordinanza n. 207 del 2018 e della sentenza n. 242 del 2019, la Corte specifica che questa indicazione si impone “a fronte della varietà delle interpretazioni offerte nella prassi, sulla quale hanno insistito i difensori delle parti e degli intervenienti, nonché vari amici curiae”[32].
Il richiamo maggiormente significativo, però, che la Corte opera alla posizione delle due intervenienti è quello che concorre effettivamente a sostanziare la definizione di trattamento di sostegno vitale.
Dopo aver ricordato che “il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività”, incluse “quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero [essere] apprese da familiari o ‘caregivers’ che si facciano carico dell’assistenza del paziente”, la Corte arriva a considerare quali trattamenti di sostengo vitale quelle procedure che “si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”[33].
E qui, la Corte, come si è già ricordato, decide di offrire alcuni esempi, per restituire il senso concreto e materiale di quali trattamenti possano essere qualificati di sostegno vitale, proprio riferendosi a quanto emerso (una volta superata la soglia dell’ammissibilità) durante la pubblica udienza, quando la difesa delle intervenienti è potuto entrare nel merito delle questioni riferendo delle loro specifiche condizioni di salute e di vita, anche grazie alle domande rivolte da alcuni giudici costituzionali: tali sono “per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali”[34].
Il dato appare particolarmente significativo, perché conferma, in fondo, la stessa giurisprudenza restrittiva della Corte rispetto all’apertura del contradditorio ai soggetti che non siano parti dei giudizi principali. Il riflesso che nel caso di specie hanno dispiegato le posizioni espresse nei due atti di intervento sulle motivazioni della decisione conferma la qualità dell’interesse dei terzi che può trovare un “posto” anche nel giudizio costituzionale: come ora prevede l’art. 4, terzo comma, delle Norme integrative, un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio, tanto da poter offrire riferimenti che entrano nella motivazione della decisione e che vengono espressamente riferiti a quelle posizioni.
6. Sulla possibile ricostruzione di un fondamento costituzionale di un diritto all’aiuto al suicidio: verso una diversa questione di legittimità costituzionale?
Come si è già anticipato nelle considerazioni introduttive, dalla sentenza n. 242 del 2019 possono trarsi diversi elementi che inducono a ragionare criticamente rispetto all’individuazione di un vero e proprio diritto all’aiuto al suicidio quale vera e propria prestazione dovuta da parte dell’ordinamento[35].
Benché, infatti, certamente l’intervento del servizio sanitario nazionale risulti necessario nella complessiva procedura che può condurre a dare esecuzione al proposito suicidario, esso è stato circoscritto alla “verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio” e delle “relative modalità di esecuzione”, senza affatto ricomprendervi anche l’esecuzione, che resta affidata, pertanto, alla “coscienza del singolo medico”[36]. La Corte al riguardo è in effetti particolarmente netta, quando afferma di limitarsi “a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”[37]; e ha confermato questa impostazione nella successiva sentenza n. 135, giungendo anzi forse a esplicitare qualitativamente ancor di più tale profilo.
Essa, infatti, puntualmente ha ricordato di avere “riconosciuto che ogni paziente è titolare di un diritto fondamentale a rifiutare ogni trattamento sanitario, compresi quelli necessari ad assicurarne la sopravvivenza”; di non avere invece riconosciuto “un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile”; di avere “soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza”; di convenire che “la decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative nella vita di un individuo”; di ritenere che “ogni paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli sia titolare di un diritto fondamentale, discendente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., a esprimere il proprio consenso informato a qualsiasi trattamento sanitario e, specularmente, a rifiutarlo, in assenza di una specifica previsione di legge che lo renda obbligatorio: e ciò anche quando si discuta di un trattamento necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente stesso (come, ad esempio, l’idratazione e la nutrizione artificiali)”; che, sulla base di tale “diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.”, non risulta “giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio”; e, infine, ha sottolineato che “la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria […] riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi”, rispetto al “diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza”, e a “quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi”, e che il paziente “ha dunque il diritto di rifiutare l’attivazione” del trattamento che “sia necessario ad assicurare la sopravvivenza”, “ovvero di ottenerne l’interruzione”, con ciò riconoscendosi “in sostanza al paziente la libertà di lasciarsi morire”[38].
E in ordine al contributo necessario del servizio sanitario nazionale, anche nella sentenza n. 135 del 2024 la Corte ritiene che debba essere “riaffermata la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite nella sentenza n. 242”, “inserite nel quadro della ‘procedura medicalizzata’ di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017”, con correlativo obbligo di garantire l’accesso alle terapie palliative che si rivelino appropriate: in particolare, al servizio sanitario nazionale è “affidato il delicato compito di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito, oltre che di «verificare le relative modalità di esecuzione»”, al fine di evitare abusi nei confronti delle persone vulnerabili, garantirne la dignità ed evitarne sofferenze[39].
Poiché come si è già detto la Corte costituzionale in entrambi i giudizi ha definito questioni aventi a oggetto l’art. 580 c.p. e poiché, per giungere alla declaratoria di illegittimità costituzionale, ha valorizzato la libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, anche di fine vita, contestualmente richiamando in più occasioni l’imprescindibile contesto normativo costituito dalla legge n. 219 del 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) e ribadendo “con forza l’auspicio […] che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati”[40], si potrebbe ragionare – considerando la perdurante inerzia del legislatore – di una differente questione di legittimità costituzionale, che cambi prospettiva pur tenendo conto del tema sostanziale di fondo e tenga ferme le indicazioni della Corte rispetto al trattamento sanzionatorio riservato ai terzi.
Si potrebbe, in particolare, immaginare una questione che riguardi direttamente la legge n. 219, nella parte in cui (finora) continua a non assicurare quella concreta e puntuale attuazione dei principi fissati nel 2019, di cui ragiona la Corte costituzionale, mutando così l’oggetto di censura che si sposta dalla condotta penalmente rilevante del terzo che aiuta al suicidio alla posizione del soggetto che quell’aiuto richiede.
Grazie alla sentenza n. 242 del 2019, infatti, è possibile arricchire le nozioni di libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, di diritto alla salute e di consenso informato definite a partire dalla ben nota sentenza n. 438 del 2008 della Corte costituzionale e anche dalla sentenza n. 21748 del 2007 della Corte di cassazione resa nel cd. caso Englaro, puntualmente recepite dal legislatore solo nel 2017 con la legge n. 219.
Tenendo conto di questo approdo particolarmente significativo (che riguarda tale arricchimento definitorio che si riflette sulla posizione del soggetto che chiede di porre fine alla propria vita e anche sulle condotte dei terzi), si potrebbe ragionare di un completamento della disciplina cui pure la Corte fa continuo riferimento in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.
Al riguardo, viene in rilievo, innanzitutto, l’art. 1, quinto e sesto comma, (Consenso informato), laddove rispettivamente si riconosce il diritto di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso; il diritto di revocare in ogni momento il consenso già prestato, anche quando ciò determini l’interruzione del trattamento; il diritto di procedere in tal senso anche per trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza; e l’obbligo per il medico di rispettare la volontà del paziente di rifiutare il trattamento o di rinunciarvi e l’esclusione della possibilità di richiedere da parte del paziente trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali.
Si pensi anche all’art. 2 (Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita), che regola il margine di intervento del medico rispetto al dovere di alleviare le sofferenze e garantire una appropriata terapia del dolore e che stabilisce che in caso di prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte il medico si astenga da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione di cure o dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati, potendo invece applicare, in caso di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, la sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, che pure può essere rifiutata.
Infine, si consideri l’art. 4 (Disposizioni anticipate di trattamento), che riconosce la possibilità di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari in previsione di una eventuale futura incapacità e anche il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari.
Proprio in queste disposizioni della legge n. 219 del 2017, in fondo, si potrebbe rinvenire il posto di quella che pare essere la naturale integrazione organica e complessiva della disciplina del fine vita a seguito delle pronunce della Corte costituzionale: una disciplina che comprenda anche la richiesta di aiuto al suicidio, essendo già stata riconosciuta l’irrilevanza penale della relativa condotta dei terzi, pur sempre a fronte del relativo rigoroso accertamento per come esso è stato configurato nelle sentenze n. 242 e n. 135[41], provando forse a ragionare (ben consapevoli delle differenze strutturali e delle ricadute in termini di ricostruzione della relativa responsabilità penale) anche della limitrofa fattispecie dell’omicidio del consenziente, proprio valorizzando le differenze di condizioni di salute e di vita dei soggetti che chiedono di porre fine alla propria vita.
La stretta connessione fra le pronunce costituzionali che riguardano la condotta dei terzi e la complessiva vigente disciplina normativa del fine vita con i limiti di cui si è detto evoca certamente le ben note problematiche relative alle cd. omissioni legislative e all’individuazione della linea di confine fra discrezionalità legislativa e sindacato costituzionale[42]. Sempre in questa prospettiva, peraltro, risulta significativo il passaggio della motivazione della sentenza n. 135 del 2024, in cui la Corte – occupandosi della mancata estensione della già citata clausola di equivalenza – a proposito dei requisiti procedurali esplicita che “l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura, da parte delle strutture del servizio sanitario pubblico, ben potrà essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie”, con ciò indicando chiaramente il carattere immediatamente applicativo della sentenza n. 242 nella parte in cui impone a carico del servizio sanitario nazionale le note verifiche procedurali[43].
Ci si può chiedere, quindi, se l’intervento legislativo in materia si renda solo opportuno oppure – come sembra – costituzionalmente necessario se non addirittura imposto, considerando le motivazioni che sostengono la declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 580 c.p.
Inoltre, pur riconoscendo che anche la scelta di non intervenire nella materia può rientrare nella piena discrezionalità del legislatore, ci si può chiedere, laddove venisse sollevata alla Corte una questione che puntualmente riguardi la mancata regolamentazione dell’accesso all’aiuto al suicidio dal lato del richiedente a partire dalle sopra individuate disposizioni della legge n. 219 (essendo già ormai definito il conseguente trattamento sanzionatorio alla luce delle decisioni della stessa Corte), a quale tecnica decisoria si potrebbe fare ricorso: un mero monito al legislatore, forse particolarmente rafforzato alla luce dei precedenti ripetuti inviti rivolti al legislatore, un rinvio a data fissa con specifica indicazione dei profili di incostituzionalità o, invece, un intervento direttamente caducatorio che, in linea di continuità con la sentenza n. 242 del 2019, allarghi l’ambito applicativo della legge n. 219 comprendendovi anche la prestazione a carico del servizio sanitario nazionale dell’esecuzione dell’aiuto al suicidio (e non solo la verifica delle condizioni del paziente e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio)[44].
Complicano il quadro, peraltro, alcuni tentativi regionali di regolare questi profili: al riguardo, si possono ricordare le richieste di parere sulle rispettive proposte di legge in materia avanzate dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto all’Avvocatura generale dello Stato, con ciò dandosi seguito alla problematica direttiva della Presidenza del Consiglio del 23 ottobre 2023 sulla razionalizzazione dell’attività istruttoria del Governo per le impugnazioni delle leggi regionali, che individua eccentriche forme di “raccordo” preventivo fra Stato e Regioni idonee a scardinare la stessa natura del giudizio costituzionale in via principale[45]. L’Avvocatura generale dello Stato, come è noto, ha evidenziato come l’approvazione di simili proposte potrebbe esporsi a rilievi di non conformità con il quadro costituzionale di riparto delle competenze di Stato e Regioni. Nonostante questo parere diverse iniziative legislative sono state avviate e sono tuttora molto discusse, in relazione agli specifici settori in cui un simile intervento regionale sarebbe legittimamente configurabile[46].
[1] In considerazione della mancanza, nel dispositivo, della ben nota espressione “nei sensi di cui in motivazione”, sembrerebbe preferibile definire la sentenza n. 135 quale decisione di rigetto con interpretazione. Qualificano la stessa come “interpretativa di rigetto (mascherata)” U. Adamo, “La Corte costituzionale ritorna ancora sull’aiuto al suicidio, ma non scrive l’ultima parola”, in LeCostituzionaliste, settembre 2024, e “decisione interpretativa di rigetto non priva […] di profili peculiari” P. Veronesi, “A primissima lettura: se cambia, come cambia e se può ulteriormente cambiare il ‘fine vita’ in Italia dopo la sentenza n. 135 del 2024”, in BioLaw Journal, 2024, III, 239, che definisce la stessa quale “pronuncia di ‘interpretazione autentica’, adottando cioè un rigetto interpretativo di quanto emergente dalla propria (precedente) sentenza di accoglimento parziale” (ivi, 253).
[2] Sulle problematiche sottese si veda innanzitutto N. Zanon, “Intorno a due tecniche decisorie controverse: le sentenze di accoglimento ‘a rime adeguate’ e le decisioni di rinvio dell’udienza a data fissa con incostituzionalità prospettata”, in E. Malfatti – V. Messerini – R. Romboli – E. Rossi – A. Sperti (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Verso una nuova “stagione” nei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?, Pisa University Press, Pisa, 2023, 95 ss., che si sofferma criticamente sull’inquadramento dei rapporti fra Corte e legislatore in termini di “leale collaborazione”, e Id., “I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali”, in Federalismi, 2021, III, 86 ss., A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, in RivistaAic, 2023, II, 103 ss., P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale-legislatore rappresentativo”, in Nomos, 2023, III, 1 ss., R. Romboli, “Corte costituzionale e legislatore: il bilanciamento tra la garanzia dei diritti ed il rispetto del principio di separazione dei poteri”, in E. Malfatti – V. Messerini – R. Romboli – E. Rossi – A. Sperti (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Verso una nuova “stagione” nei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?, cit., 301 ss., A. Ruggeri, “Verso un assetto viepiù ‘sregolato’ dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, ivi, 21 ss., e A. Morrone, “Sul pangiuridicismo costituzionale e sul lato politico della Costituzione”, ivi, 103 ss., oltre che Id., “Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale”, in Quad. cost., 2019, II, 215 ss., cui si riferisce R. Bin, “Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, ivi, IV, 757 ss., ed E. Cheli, “Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, ivi, 777 ss. Si veda, ancora, R. Romboli, “Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’. Una tavola rotonda per ricordare Alessandro Pizzorusso ad un anno dalla sua scomparsa”, in RivistaAic, 2017, III, 1 ss., e, volendo, B. Liberali, “‘Al crocevia di spinte politiche, di suggestioni riformatrici, di possibili diverse interpretazioni del testo costituzionale’: il ruolo della Corte costituzionale nel sistema istituzionale”, in M. Aurino – A. De Nicola – M. C. Girardi – L. Restuccia – P. Villaschi (a cura di), Le giurisdizioni costituzionali nel XXI secolo: questioni attuali e prospettive future, Quaderno n. VI – Fascicolo speciale monografico, Rivista del Gruppo di Pisa, 2023, III, 689 ss.
[3] Se la sentenza n. 135 del 2024 ha definito con una pronuncia di infondatezza le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze il primo luglio 2024, dopo lo svolgimento della pubblica udienza il 19 giugno 2024, con effetti vincolanti per lo stesso giudice rimettente, il Tribunale di Milano ha sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale il 21 giugno 2024, dunque pochi giorni dopo lo svolgimento dell’udienza e, naturalmente, prima del deposito delle motivazioni della sentenza n. 135, avvenuto il 18 luglio 2024, con contestuale (e non anticipato) comunicato stampa. Non risulta, invece, che il Tribunale di Bologna abbia deciso come procedere nel proprio ulteriore giudizio, potendosi forse configurare una ipotesi di sospensione impropria, quantomeno fino al deposito delle motivazioni della sentenza n. 135 del 2024. Sarà, quindi, interessante verificare se e come la sentenza n. 135 del 2024 sarà applicata innanzitutto proprio dal Tribunale di Milano, ma anche dal Tribunale di Bologna e in generale dai giudici comuni in ulteriori eventuali giudizi penali, soprattutto avendo riguardo alla esplicita esclusione della clausola di equivalenza. Come si vedrà oltre, infatti, la Corte ne ha escluso l’applicabilità per i casi sorti certamente dopo la sentenza n. 242 del 2019, ma sicuramente prima del chiarimento interpretativo intervenuto sul requisito del trattamento di sostegno vitale proprio con la sentenza n. 135 del 2024.
[4] Sulla dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 580 c.p. sono numerosi i contributi della dottrina, che si sono appuntati sia sul merito della stessa sia sulla tecnica decisoria inaugurata dall’ordinanza n. 207 del 2018: M. D’Amico, “Il ‘fine vita’ davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242 del 2019)”, in Osservatorio costituzionale, 2020, I, 286 ss., S. Catalano, “La sentenza 242 del 2019: una pronuncia additiva molto particolare senza ‘rime obbligate’”, ivi, 2020, II, 288 ss., A. Ruggeri, “Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019)”, in Giustiziainsieme.it, 27.11.2019, A. Pugiotto, “L’altra quaestio del ‘caso Cappato’: la pena draconiana dell’art. 580 c.p.”, in Forum cost., 4 giugno 2019, 1 ss., M. Cecchetti, “Appunti diagnostici e prognostici in vista della definizione del giudizio costituzionale sul ‘caso Cappato’”, in Federalismi, 2019, XVII, 2 ss., A. Apostoli, “Principi costituzionali e scelte di fine vita”, in BioLaw Journal, 2021, I, 239 ss., M. Massa, “Una ordinanza interlocutoria in materia di suicidio assistito. Considerazioni processuali a prima lettura”, in Forum cost., 1 dicembre 2018, 1 ss., e N. Fiano, “‘Caso Cappato, vuoti di tutela costituzionale. Un anno al Parlamento per colmarli’. Riflessioni a caldo a partire dal modello tedesco”, ivi, 25 ottobre 2018, 1 ss. Si veda, inoltre, I. Pellizzone, “Aiuto al suicidio e sindacato di costituzionalità: pars destruens e pars construens delle pronunce della Corte Costituzionale come chiave di lettura della tecnica decisoria e della ratio decidendi del caso Cappato”, in Forum cost., 2020, II, 472 ss., oltre che, per un inquadramento generale delle problematiche sottese al fine vita, Id., “Fine vita e diritti: l’importanza dei casi”, in B. Liberali – L. Del Corona (a cura di), Diritto e valutazioni scientifiche, Giappichelli, Torino, 2022, 291 ss.
[5] Corte cost., sentenza n. 242 del 2019.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Si vedano sulla nozione di dignità G. Silvestri, “Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona”, in Rivistaaic.it, 14 marzo 2008, G. M. Flick, Elogio della dignità, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 2015, A. Ruggeri, “Appunti per uno studio sulla dignità dell’uomo, secondo diritto costituzionale”, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Giuffrè, Milano, 2011, 1755 ss., L. Violini, “La dignità umana al centro: oggettività e soggettività di un principio in una sentenza della Corte Costituzionale (sent. 141 del 2019)”, in Dirittifondamentali.it, 2021, I, 444 ss., I. Rivera, “La dignità umana come valore costituzionale e come diritto fondamentale”, in V. Baldini (a cura di), Cos’è un diritto fondamentale?, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017, 327 ss., e, volendo, rispetto alla “dignità antropologica dell’embrione” individuata dalla Corte costituzionale B. Liberali, “Scelte definitorie fra scienza e diritto: una questione non solo terminologica”, in M. D’Amico – F. Biondi (a cura di), La Corte costituzionale e i fatti: istruttoria ed effetti delle decisioni, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, 249 ss.
[13] Sul rapporto fra queste due decisioni con specifico riferimento al ricorso alla nozione di dignità si veda in particolare C. Tripodina, “La ‘circoscritta area’ di non punibilità dell’aiuto al suicidio. Cronaca e commento di una sentenza annunciata”, in Corti supreme e salute, 2019, II, 7 s., che rileva che la stessa parola “dignità” “non compare più nella parte motiva della sentenza, particolarmente se legata alle parole morte/morire”; e non compaiono più nemmeno le “espressioni come processo «meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire»; decorso «apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa»; divieto assoluto di aiuto al suicidio come «lesione del principio di dignità umana»”. Secondo l’A. la Corte “deve avere inteso tutta la fragilità e le non trascurabili conseguenze di una decisione fondata sul riconoscimento di un diritto costituzionale non semplicemente a morire dignitosamente, ma a morire nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nel morire”.
[14] Cort cost., sentenza n. 135 del 2024.
[15] Corte cost., sentenza n. 141 del 2019, sulle cui problematiche si rinvia al volume di A. Apostoli (a cura di), Donne, corpo e mercato di fronte alle categorie del diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2021.
[16] Corte cost., sentenza n. 141 del 2019.
[17] Corte cost., sentenza n. 50 del 2022.
[18] Ibidem.
[19] La legge n. 219 del 2017 all’art. 1, quinto comma, stabilisce che il paziente possa rinunciare o rifiutare anche “trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, poco prima esplicitando che si debbono qualificare come trattamenti sanitari la nutrizione e l’idratazione artificiali. Su questi profili si rinvia a F. Viganò, “Diritti fondamentali e diritto penale al congedo dalla vita: esperienze italiane e straniere a confronto”, in Sistema penale, 12 gennaio 2023, 1 ss.
[20] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] Sottolinea questo profilo anche P. Veronesi, “A primissima lettura: se cambia, come cambia e se può ulteriormente cambiare il ‘fine vita’ in Italia dopo la sentenza n. 135 del 2024”, cit., 252, laddove ritiene come sia “evidente tuttavia che, nel mentre si risolve in tal modo un problema interpretativo di grande spessore, se ne aggiunge contemporaneamente un altro che potrà fornire appigli a chi si aggrappa a qualunque stratagemma pur di complicare la vita (alla fine) dei diretti interessati”, giungendo a chiedersi “cosa significa pretendere che la morte del paziente dev’essere prevedibile «in un breve lasso di tempo», o evocare il diritto del paziente di esporsi comunque «a un rischio prossimo di morte»?”.
[24] Secondo A. Ruggeri, “La Consulta equilibrista sul filo del fine-vita (a prima lettura di Corte cost. n. 135 del 2024)”, in Giurcost.org, 2024, II, 935, “le aperture fatte in ordine alla nozione suddetta, avvalorate dagli esempi al riguardo addotti, denotano lo sforzo prodotto dal giudice delle leggi di tenersi in equilibrio sul filo senza cadere nell’abbraccio soffocante di chi, da un lato, vorrebbe una liberalizzazione senza condizioni nell’esercizio delle pratiche suddette e, dal lato opposto, ne caldeggia il categorico divieto”.
[25] Il Comitato Nazionale per la Bioetica riconosce nella risposta al quesito della Regione Umbria che in letteratura medica non esiste una definizione condivisa di trattamento di sostegno vitale; nella risposta di minoranza si considera “impossibile cercare di stabilire oggettivamente che cosa sia un TVS da un punto di vista medico-clinico per poi applicare questo criterio al problema bioetico del suicidio medicalmente assistito”, per giungere a qualificare la posizione di maggioranza troppo restrittiva, la cui applicazione determinerebbe un esito discriminatorio (in relazione al “caso di pazienti oncologici terminali non dipendenti da un dispositivo meccanico”), inutile (con riferimento alla rapidità del sopraggiungere della morte, che renderebbe “insignificante” la richiesta di suicidio assistito) e paradossale (laddove il paziente per accedere alla procedura dovrebbe richiedere un dispositivo che invece rifiuta, non avendone peraltro bisogno).
Si vedano anche le precedenti conclusioni cui il Comitato era pervenuto dopo l’ordinanza n. 207 del 2018 e prima dello svolgimento della seconda udienza pubblica con il parere del 18 luglio 2019 (Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito).
[26] Corte cost., sentenza n. 50 del 2022.
[27] Ibidem.
[28] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024.
[29] Anche A. Apostoli, “Principi costituzionali e scelte di fine vita”, cit., 246 s., sottolinea questo profilo, laddove afferma che sulla base dell’art. 3 Cost. “è possibile sostenere che il diritto all’autodeterminazione, specialmente alla fine della vita, deve essere garantito sia a coloro che hanno ‘solo’ bisogno di essere aiutati a morire dignitosamente e sono in grado di determinare l’atto-morte con una autonoma azione materiale, sia a coloro che sono impossibilitati a farlo e perciò chiedono di essere assistiti”. E, infatti, il soggetto “che si trova in condizioni cliniche più gravi versa in una condizione di ulteriore svantaggio proprio perché, pur potendo decidere per la propria esistenza, è impedito nell’azione materiale”.
[30] Sull’orientamento della Corte costituzionale si rinvia alle osservazioni di M. D’Amico, “Gli amici curiae”, in Questione Giustizia, 2020, IV, 122 ss., che si sofferma non solo sul nuovo istituto degli amici curiae, ma anche sugli interventi dei terzi, richiamando precisamente le decisioni con le quali la Corte li ha, in specifici e delimitati casi, ammessi nel giudizio costituzionale, in particolare in via incidentale. Si vedano, in generale, anche C. Mezzanotte, “Appunti sul contraddittorio nei giudizi dinanzi alla Corte costituzionale”, in Giur. cost., 1972, 954 ss., R. Romboli, Il giudizio costituzionale incidentale come processo senza parti, Giuffrè, Milano, 1985, V. Angiolini (a cura di), Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, Giappichelli, Torino, 1998, M. D’Amico, Parti e processo nella giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 1991, e Id., “La Corte riconosce l’interesse della parte privata (estranea al processo «a quo») ad intervenire nel giudizio costituzionale”, in Giur. it., 1992, I, 385 ss.
[31] Corte cost., sentenza. n. 135 del 2024.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35] Ritiene che sia stato riconosciuto un diritto in questo senso M. D’Amico, “Il ‘fine vita’ davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici”, cit., 301, laddove, soffermandosi sul passaggio della sentenza n. 242 dedicato alla coscienza dei medici, sottolinea che affidarsi a questa ultima “trasforma […] profondamente il diritto accertato (o più precisamente compromette profondamente la stessa possibilità che al proposito di suicidio del paziente in determinate condizioni possa essere dato seguito con condotte di ausilio”, con ciò avendosi “un diritto fondamentale subordinato alla ‘coscienza’ del medico”.
In senso contrario C. Caruso, “Al servizio dell’unità. Perché le Regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicidio”, in Il Piemonte delle Autonomie, 2024, I, 9 s., osserva che non “vi è dubbio che la (creativa) sentenza della Corte non abbia riconosciuto un diritto al suicidio”, riconoscendo una più circoscritta libertà di scelta, che però “non sembra includere un diritto, immediatamente esigibile a prescindere da una specifica intermediazione normativa, a ottenere una procedura medicalizzata funzionale a soddisfare il bisogno individuale”. In particolare, essa non implica “automaticamente un diritto sociale a ricevere, da parte del servizio sanitario nazionale, l’ausilio necessario a interrompere la vita”: se “la libertà di autodeterminazione attraverso il suicidio è, alle condizioni previste della Corte, immediatamente esigibile […], il diritto alla prestazione sanitaria è non solo condizionata dall’eventuale obiezione di coscienza, ma deve anche essere puntualmente disciplinata e inserita tra i livelli essenziali di assistenza”. L’A., peraltro, ritiene che “la libertà di scegliere una terapia capace di interrompere una esistenza non più ritenuta dignitosa dal paziente non è una mera libertà di fatto”, ma “una vera e propria pretesa, giuridicamente assistita, a porre fine alla propria vita tramite l’ausilio di terzi”.
Si vedano anche le considerazioni di F. G. Pizzetti, “La proposta di legge piemontese in materia di assistenza al suicidio, alla luce della giurisprudenza costituzionale e del riparto di competenze Stato-Regioni”, ivi, 53 s., secondo cui la sentenza n. 242 “non sembra […] fondare un vero e proprio diritto soggettivo, in capo al malato, ad ottenere l’aiuto medicale al suicidio, al quale faccia da contrappunto, in capo al medico o al servizio sanitario, un dovere di prestazione nel collaborare al gesto auto-soppressivo del paziente”; mentre è “indubbiamente stabilito” nella stessa decisione “un vero e proprio obbligo, posto a carico del servizio sanitario, di condurre, in modo completo, accurato e tempestivo, la verifica pubblica sulla sussistenza delle condizioni cliniche e sulle modalità di esecuzione del suicidio che rendono non punibile l’aiuto medicale a darsi la morte richiesto dal malato e liberamente offerto dal sanitario”. G. Razzano, “Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio”, in Diritti fondamentali, 2020, I, 633, afferma che la “non punibilità creata dalla Corte certamente non equivale a diritto, a pretensività, né, soprattutto, a meritevolezza del comportamento”, pur riconoscendo che “apre innegabilmente una fessura nella cinta di garanzia posta a tutela della vita”.
In modo particolarmente efficace A. Apostoli, “Principi costituzionali e scelte di fine vita”, cit., 246, ritiene che il “non poter ancora configurare l’esistenza di un diritto a morire non può pertanto escludere quello di un diritto a non vivere nelle condizioni individuate dalla Consulta”; e, ancora, l’A. ritiene che sia “forse possibile provare a ritagliare, a partire dal diritto all’autodeterminazione terapeutica che il Giudice costituzionale pare ricondurre al consenso informato di cui alla l. 219/2017, l’esistenza non già del diritto a morire, bensì di quello a non vivere in condizioni di particolare sofferenza” (ivi, 248).
[36] Corte cost., sentenza n. 242 del 2019.
[37] Ibidem.
[38] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] A sostegno di questa ipotesi si possono richiamare ancora le riflessioni di A. Apostoli, “Principi costituzionali e scelte di fine vita”, cit., 248 s., laddove ritiene che si possa “provare a ritagliare […] l’esistenza non già del diritto a morire, bensì di quello a non vivere in condizioni di particolare sofferenza”: tale “‘nuova’ situazione giuridica soggettiva risulta facilmente ancorata a tre principi fondamentali del costituzionalismo democratico: quello delle libertà c.d. negative; quello dell’inviolabilità della libertà personale […] ovvero l’autodeterminazione; quello del divieto per la legge di violare i limiti derivanti dal rispetto dell’essere umano”. In tal modo non si tratterebbe di “affermare un diritto alla morte in quanto risvolto negativo del diritto alla vita, bensì il diritto a non vivere nelle precise condizioni che appaiono lesive della propria dignità, riduttive dei propri diritti […] e perciò contrarie ai supremi diritti costituzionali”.
[42] Sul punto si rinvia a C. Mortati, “La sindacabilità delle omissioni legislative”, ora in A. Morrone, (a cura di), La corte costituzionale. Antologia di classici della letteratura italiana, Giappichelli, Torino, 2021, 99 ss., e alle specifiche considerazioni di A. Morrone, “Positivismo giudiziario. Appunti a partire dalle c.d. omissioni legislative”, in Quad. cost., 2024, 127 ss., e di V. Marcenò, “La Corte costituzionale e le omissioni incostituzionali del legislatore: verso nuove tecniche decisorie”, in Giur. cost., 2000, III, 1985 ss., oltre che di F. Paterniti, Le omissioni del legislatore. Profili, problemi, prospettive, Editoriale Scientifica, Napoli, 2023.
[43] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024. Coglie questo profilo anche P. Veronesi, “A primissima lettura: se cambia, come cambia e se può ulteriormente cambiare il ‘fine vita’ in Italia dopo la sentenza n. 135 del 2024”, cit., 253 s., riferendosi alle “situazioni già note e alle spesso ‘barocche’ applicazioni (o rifiuti di attuazione) della sentenza” n. 242 del 2019: osserva l’A. che nell’“eventualità di ostacoli amministrativi frapposti alle decisioni dei malati – pressoché certi nelle realtà più intrise di furore ideologico – sarà inevitabile ricorrere ai giudici” e di ciò è consapevole anche la Corte, “ben conoscendo che – all’atto pratico – talune autorità sanitarie (e non solo) sono assai propense a fare ‘orecchie da mercante’”.
È interessante rilevare che la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri abbia esplicitato “indirizzi applicativi” relativi all’art. 17 (Atti finalizzati a provocare la morte) del Codice di deontologia medica, che prevede che il “medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. Ai sensi degli indirizzi applicativi, espressamente ricollegati alla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale e approvati il 6 febbraio 2020, la “libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare”.
[44] In senso del tutto opposto si esprime G. Razzano, “Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio”, cit., 637 s., laddove afferma che “l’intervento legislativo in materia di suicidio assistito presenta però il rischio di rendere accettabile ciò che è solo non punibile” e che la prospettiva secondo cui le procedure richieste potrebbero essere poste a carico del servizio sanitario nazionale sarebbe “inammissibile, se si considera che in Italia ancora occorre soddisfare il pre-requisito dell’offerta adegu[a]ta di cure palliative, diritto garantito fra i LEA da dieci anni a questa parte e ancora non effettivo”. In modo ancora più esplicito l’A. ritiene che, in ambito di “fine vita, altro sono i diritti fondamentali (le cure palliative e la terapia del dolore), altro sono comportamenti di mera non punibilità; e sarebbe assurdo, specie in tempi di scarsità di risorse, finanziare gli uni e gli altri”. Essendo poi la decisione “autoapplicativa”, essa sarebbe anche “risolutiva”: pertanto “delle due l’una: o il vulnus costituzionale non è stato rimosso dalla Corte, per cui la sentenza, oltre che criticabile per gli sconfinamenti, è inutiliter data, oppure il vulnus è stato rimosso, per cui una legge sul suicidio assistito non pare strettamente obbligatoria”.
[45] Sia consentito il rinvio alle più distese considerazioni svolte in B. Liberali, “La c.d. direttiva Calderoli: contenimento del contenzioso fra Stato e Regioni o snaturamento del giudizio costituzionale?”, in Quad. cost., 2024, I, 172 ss.
[46] Individua in modo particolarmente efficace gli interrogativi sottesi C. Caruso, “Al servizio dell’unità. Perché le Regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicidio”, cit., 9, laddove specifica l’interrogativo intorno alla competenza regionale in materia chiedendosi se le “istituzioni chiamate a dare seguito alla pronuncia si esauriscono nel circuito dello Stato-persona o includono tutti i soggetti della Repubblica e, dunque, dello Stato-ordinamento? E, se così fosse, qual è il ruolo delle Regioni nell’esercizio dell’autonomia costituzionalmente garantita? Il regionalismo italiano è ormai malinconicamente destinato a confondersi con il decentramento amministrativo o è ancora capace di contribuire al processo di integrazione nei valori costituzionali, consentendo alle Regioni di offrire prestazioni di unità politica?”. L’A., nel riconoscere come già si è detto che “la facoltà di avvalersi dell’aiuto al suicidio” non si traduce “in un compiuto diritto al suicidio, con immediata pretesa all’ottenimento del farmaco e alla prestazione medica del SSN”, ritiene che essa generi “una serie di situazioni soggettive immediatamente esigibili”, che “richiedono per un loro migliore esercizio talune scansioni procedimentali, di natura organizzativa, da porre con disciplina puntuale”: ed è proprio qui che si potrebbe inserire l’intervento regionale, alla luce della competenza concorrente nella materia della tutela della salute (art. 117, terzo comma, Cost.), restando invece “in una zona grigia il diritto a ricevere gratuitamente la prestazione da parte della struttura sanitaria” (ivi, 11).
F. G. Pizzetti, “La proposta di legge piemontese in materia di assistenza al suicidio, alla luce della giurisprudenza costituzionale e del riparto di competenze Stato-Regioni”, cit., 56, invece, ritiene che non “sembra […] riconducibile all’alveo delle competenze legislative costituzionalmente attribuite alla Regione una disciplina regionale che modifichi le modalità e le forme sia per mezzo delle quali il soggetto viene valutato come capace di autodeterminarsi liberamente, sia grazie alle quali lo stesso malato esprime la rinuncia alle cure vitali, prima, per domandare poi l’aiuto medicale al suicidio”: in definitiva, un intervento regionale sembrerebbe “esondare dall’alveo delle competenze regionali di cui all’art. 117 Cost., una legge regionale che intervenga sulle condizioni (malattia irreversibile, dipendenza da presidio vitale, capacità di autodeterminarsi, sofferenza insopportabile, libertà e consapevolezza della decisione), sulle modalità (quelle di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017) e sul regime di verifica pubblica (da parte di una struttura del servizio sanitario nazionale e di un comitato etico) che la Corte costituzionale ha dettato, nella sentenza n. 242 del 2019, al fine di considerare non punibile (ma non anche obbligatoria) l’assistenza al suicidio richiesta dal malato” (ivi, 57). Uno spazio che l’A. individua è costituito dalla materia concorrente della organizzazione sanitaria locale, nel cui perimetro in attesa di un intervento statale le Regioni potrebbero “individuare qual è la tipologia di azienda sanitaria (o ospedaliera) e quale è l’organo, interno a tale azienda, a cui spettano le verifiche mediche richieste dalla sentenza n. 242”.
Si vedano anche le riflessioni di L. Busatta, “Come dare forma alla sostanza? Il ruolo delle Regioni nella disciplina del suicidio medicalmente assistito”, in Osservatorio costituzionale, 2024, III, 193, che perviene alla conclusione che “la soluzione operativa ad oggi più sostenibile per offrire un quadro giuridico attuativo del pronunciamento della Corte costituzionale sul suicidio assistito pare quella della Delibera della Giunta regionale, che non sembra dare adito a grossi dubbi di legittimità, a motivo dell’esercizio di una oggettiva attività organizzativa in ambito sanitario”.
Foto via Wikimedia Commons.
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