ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Mettiamo a disposizione delle lettrici e dei lettori l’ordinanza con la quale il Tribunale di Brindisi ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione della rilevabilità d’ufficio, in sede esecutiva, della violazione delle regole comunitarie, specie in materia consumieristica, ogniqualvolta il decreto ingiuntivo sia stato opposto ma senza far valere la vessatorietà del contratto sottostante e l’opposizione sia stata definita con pronuncia definitiva.
Tale ordinanza investe una problematica particolarmente attuale e che ha destato un acceso dibattito interpretativo, ed è connessa a quella affrontata della rivoluzionaria pronuncia della Corte di Giustizia del 17 maggio del 2022 che ha stabilito il principio della superabilità del giudicato implicito relativo ad un decreto non opposto, nell’ipotesi in cui lo stesso violi la disciplina consumieristica.
Le S.U. nell’aprile del 2023, nel congegnare un apparato rimediale coerente con il modello comunitario, hanno enucleato il famoso decalogo che conforma i poteri del Giudice della cognizione e dell’esecuzione.
Con la presente rimessione si domanda alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla rilevabilità d’ufficio, in sede esecutiva, della violazione delle regole comunitarie, specie in materia consumieristica, ogniqualvolta il decreto ingiuntivo sia stato opposto ma senza far valere la vessatorietà del contratto sottostante e l’opposizione sia stata definita con pronuncia definitiva.
I quesiti posti alla Corte di Giustizia sono i seguenti:
«Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea osti ad un ordinamento come quello nazionale che preclude al Giudice dell'esecuzione (in sede di istanza di sospensiva e, quindi, di cognizione sommaria oppure in sede di trattazione del merito dell’opposizione all’esecuzione), di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, d’ufficio o su richiesta del debitore, nonchè di accertare una simile vessatorietà, anche solo in via incidentale e sommaria e/o di concedere un termine per l’introduzione di un giudizio di opposizione tardivo al fine di far accertare dal Giudice della cognizione la predetta vessatorietà.
Ciò, allorquando, concorrano le seguenti condizioni:
a. sia stata proposta un’opposizione a decreto ingiuntivo per ragioni che esulano dalla vessatorietà delle clausole del contratto di fideiussione e la stessa sia stata definita con sentenza passata in giudicato (che investa implicitamente la mancata vessatorietà di una clausola contrattuale);
b. non vi sia stato il controllo di abusività in sede monitoria o di giudizio di opposizione;
c. né, in sede di genesi e emissione del decreto ingiuntivo, vi sia stata l’informazione diretta all’ingiunto della possibilità di avvalersi della tutela consumieristica;
A) Se, in tale fattispecie, ai fini della predetta valutazione di compatibilità della disciplina interna, assuma rilievo, anche solo ad abundantiam, che il consumatore acquisisca consapevolezza del proprio status dopo la proposizione della prima tempestiva opposizione e tale presa di coscienza sia stata precedentemente preclusa dal diritto vivente (che disconosceva in capo ad esso la qualità di consumatore solo perché garante, senza distinguere secondo lo scopo obiettivo della garanzia);»
Tribunale di Brindisi
Sezione Civile - SETTORE PROCEDURE CONCORSUALI
ORDINANZA DI RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA
IL GIUDICE
nella procedura RG. 1404 del 2024, introdotta
DA
XXX, rappresentata e difesa dall’Avv.
- OPPONENTE
CONTRO
"AAA S.P.A." (nuova denominazione assunta dalla società "SSS S.P.A." come meglio infra indicato), con sede legale in omissis, e per essa IIISERVICING S.P.A, con sede legale in omissis
- OPPOSTA
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
letti gli atti ed i documenti di causa;
posta da parte opponente la questione relativa all’eventuale estensione dei principi enucleati dalla Corte di Giustizia, con la pronuncia del 17 maggio del 2022, come calibrati dalle Sezioni unite del 2023;
sottoposta alle parti, d’ufficio, la problematica dell’eventuale doverosità da parte del Giudice dell’esecuzione (in sede di istanza di sospensiva e, quindi, di cognizione sommaria oppure in sede di trattazione del merito dell’opposizione all’esecuzione) di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, d’ufficio o su richiesta del debitore, alle condizioni meglio individuate in sede di formulazione dei quesiti sottoposti all’On. Corte. Ciò, una volta che sia stata proposta un’opposizione a decreto ingiuntivo per ragioni che esulano dalla vessatorietà delle clausole del contratto di fideiussione e che la stessa sia stata definita con sentenza passata in giudicato (che investa implicitamente la mancata vessatorietà di una clausola contrattuale);
viste le deduzioni delle parti all’udienza del 12 settembre 2024;
OS S E R V A
Per comodità espositiva si fa precedere al testo dell’ordinanza l’indice seguito nella stesura della stessa:
Indice
1. Il procedimento principale.
1.1. Esposizione succinta del procedimento e della fattispecie concreta.
1.2. Motivi del rinvio pregiudiziale: la compatibilità comunitaria di una disciplina nazionale che non preveda la rilevabilità d’ufficio, in sede esecutiva, della violazione della normativa consumieristica, quando il decreto ingiuntivo sia stato opposto per ragioni che esulano dalla vessatorietà delle clausole del contratto di fideiussione e l’opposizione sia stata definita con sentenza passata in giudicato (che investa implicitamente la mancata vessatorietà di una clausola contrattuale). La sua rilevanza ai fini della definizione del giudizio.
2. Diritto nazionale. Disposizioni nazionali richiamate.
2.1. La disciplina civile sostanziale
2.2. La disciplina processuale
3. Diritto nazionale. Le diverse posizioni interpretative “interne” relativamente alla questione devoluta alla CGUE
a) In giurisprudenza
b)In dottrina
4. Disposizioni di diritto dell'unione europea
4.1. I limiti all'autonomia procedurale degli Stati membri.
4.2. La giurisprudenza della Corte di giustizia sui doveri del Giudice in materia di tutela del consumatore e di superabilità del giudicato.
5. Profili rilevanti per la disamina della questione
5.1. La giurisprudenza della Corte di giustizia e della Suprema Corte italiana, sulla qualificazione del garante come consumatore
5.2. La giurisprudenza della Suprema Corte italiana sulla superabilità del giudicato, conseguente alla presa di posizione del Giudice comunitario: elementi di differenziazione
5.3. L’effettiva portata della pronuncia della Corte alla luce dei principi che regolano i rapporti fra ordinamento nazionale e comunitario: il superamento del solo giudicato implicito latamente inteso e solo per le materie caratterizzate dall’interferenza di norme comunitarie direttamente applicabili e cogenti
5.4. Un possibile e auspicabile punto di equilibrio fra esigenze di effettività della tutela consumeristica e difesa dei principi processual-civilistici
5.5. La comunanza di ratio fra l’ipotesi del decreto non opposto e quella del decreto opposto senza far valere l’anticomuniìtarietà della clausola
1. Il procedimento principale.
1.1. Esposizione succinta del procedimento e della fattispecie concreta
Con atto di citazione l'opponente XXX citava in giudizio AAA, introducendo tempestivamente il merito dell’opposizione all’esecuzione, già proposta ai fini della richiesta sospensione.
Deduceva le medesime circostanze, già evidenziate in sede cautelare e ripercorreva l’articolata vicenda processuale.
In danno della stessa veniva attivata una procedura esecutiva immobiliare, traente linfa da titolo esecutivo di formazione giudiziale, costituito dalla sentenza della Corte d'Appello di Bari n.1390/2021, del 19.7.2021, resa nell'ambito del procedimento n. R.g. 1524/2018.
Tal ultima veniva pronunciata a seguito di giudizio in grado d'appello.
In particolare, la vicenda processuale di merito nasceva dall’opposizione a decreto ingiuntivo n. 905/14- R.g.n. 1540/2014, emesso dal Trib. Foggia, su ricorso dell'allora Banca PPP Spa, con il quale veniva ingiunto di pagare alla NNN Srl, al sig. YYY, nonché alla sig.ra XXX (odierna ed unica esecutata), nella spiegata qualità di garante-fideiussore della NNN Srl, la somma complessiva di € 99.052,04, riveniente da scoperto di conto corrente n. 141/900716 intestato alla NNN Srl.
Il predetto decreto ingiuntivo veniva opposto dalla NNN srl, e dai sigg.ri YYY e XXX per ragioni diverse dall’anticomunitarietà (parziale) del regolamento contrattuale; l’opposizione, che era stata rigettata in primo grado, veniva rigettata anche in grado di appello con sentenza n. 1390/2021 della Corte di appello di Bari, ormai passata in giudicato.
La sig.ra XXX era destinataria della procedura esecutiva per aver sottoscritto in data 6.11.2009 una fideiussione omnibus con la quale si costituiva fideiussore della NNN Srl.
Una volta attivato il giudizio esecutivo, con atto di comparsa, la sig.ra XXX, invocando i principi di cui alla sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. n. 9479 del 6 aprile 2023, instava affinchè il G.E. concedesse il termine di 40 gg. per la proposizione di altraopposizione tardiva al decreto ingiuntivo n. n. 905/14- R.g.n. 1540/2014 alla debitrice esecutata ex art. 650 c.p.c., al fine di far valere la sola questione relativa all'eventuale presenza di clausole abusive all'interno della fideiussione dalla medesima sottoscritta.
Ciò sull'assunto che, se, da un lato, la nota sentenza a SS.UU. n. 9479/2023 faceva espresso riferimento all’ipotesi di titolo formatosi a seguito di cognizione sommaria e parziale, da un’interpretazione sistematica ed estensiva, i prefati principi sarebbero stati applicabili anche all’ipotesi di titolo esecutivo, formatosi a seguito di cognizione piena, nel quale, però, il Giudice di merito non abbia statuito in ordine alla eventuale presenza di clausola abusive all'interno della fideiussione sottoscritta (come avvenuto nel caso di specie, Cfr. Sentenza Corte d'Appello di Bari n. 1390/2021).
Il G.E., con ordinanza fuori udienza, resa in data 10.2.2024, così stabiliva:
“La SS. UU. 9479\2023 riguarda l’ipotesi in cui il titolo si sia formato a seguito di cognizione sommaria e parziale, e non a seguito di cognizione piena;
Consentire l’ingresso, nel procedimento di esecuzione (nel caso in cui si sia superata la fase di emissione del provvedimento che dispone la vendita), delle questioni de quibus, equivarrebbe a consentire l’elusione (inammissibile) delle preclusioni di cui all’art 615 c.p.c.;
PQM
Rigetta l'istanza”
Avverso detta ordinanza, la XXX, proponeva ricorso in opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 co. 2 cpc all'uopo instando affinchè il G.E., previa sospensione della procedura esecutiva in atto e giusta applicazione dei principi di cui alla ridetta sentenza a SS.UU. della Suprema Corte n. 9479/2023, nonché della Direttiva 93/13 della CGUE, concedesse, re melius perpensa, l'invocato termine di 40 gg. per la proposizione di altra opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. al decreto ingiuntivo n. 905/14, R.g.n. 1540/2014- Trib.Foggia.
Dunque, il G.E., con ordinanza del 26.04.2024, confermava il diniego della la richiesta di sospensione della esecuzione, per le stesse motivazioni già espresse nella iniziale ordinanza di diniego del 10.02.2024, atteso che la sentenza a SS UU riguardava solo l’ipotesi del decreto ingiuntivo non opposto, e non i titoli formatisi all’esito del giudizio a cognizione piena, come era accaduto nel caso della sig.ra XXX, ove il decreto ingiuntivo era stato opposto, e la relativa opposizione era stata rigettata in due gradi di giudizio.
Avverso detta ordinanza del 26.04.2024, proponeva reclamo la sig.ra XXX, replicando sostanzialmente le argomentazioni già rassegnate nel ricorso ex art 617 cpc dinanzi al G.E..
La critica della reclamante si incentrava sostanzialmente sulla tesi secondo la quale i principi, affermati dalla sentenza a SS UU di Cassazione, innanzi citata, sarebbero estensibili anche al caso di decreto ingiuntivo opposto e definito con sentenza passata in giudicato, e, quindi, anche al caso in cui il titolo si sia formato a seguito di giudizio a cognizione piena, quale è quello che si apre a seguitodell’opposizione a decreto ingiuntivo.
E ciò in quanto - a suo dire – il principio di effettività della tutela del consumatore dovrebbe essere applicato non solo ai decreti ingiuntivi non opposti, ma anche alle decisione emesse nell’ambito di un giudizio a cognizione piena, in cui non sia stata rilevata l’eventuale abusività delle clausole contrattuali. Ciò, in quanto il Giudice nazionale deve sempre rilevare d’ufficio l’applicabilità delladirettiva n. 93/13.
La reclamante concludeva per la riforma dell’ordinanza impugnata, insistendo per la sospensione dell’esecuzione nonché per la concessione del termine di gg 40 per proporre opposizione al fine di far valere l’eventuale presenza delle clausole abusive all’interno della fideiussione prestata dalla XXX.
Si costituiva la III SERVICING S.P.A, nella qualità di procuratrice di AAA spa, per resistere e contraddire all’avverso reclamo, chiedendone il rigetto.
L’attrice nell’introdurre il merito della proposta opposizione, nel termine perentorio a ciò previsto, chiede che sia pronunciata l’illegittimità del provvedimento impugnato, formulando le seguenti conclusioni:
“ a) sospendere la presente esecuzione, ovvero disporre la sospensione e/o la revoca del provvedimento impugnato;
b) nel merito, accertare e dichiarare , per tutte le motivazioni di cui alla narrativa del presente atto, il diritto della ricorrente, previaapplicazione dei principi di cui alla menzionata sentenza a SS.UU. della Suprema Corte n. 9479/2023, nonché della Direttiva 93/13 della CGUE, ad ottenere dal G.E. la concessione del termine di 40 gg. per la proposizione di altra opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. al decreto ingiuntivo n. 905/14- R.g.n. 1540/2014- Trib.Foggia- al fine di far valere la sola questione relativa all'eventuale presenza di clausole abusive all'interno della fideiussone con declaratoria di sospensione delle operazioni di vendita o assegnazione del bene o del credito, fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c.”.
La convenuta si costituiva nel presente giudizio e contestava gli assunti di parte opponente.
Ciò premesso, per quanto concerne il profilo relativo all’eventuale assunzione della qualità di fideiussore, da parte della esecutata, giova osservare quanto segue.
Nella specie, in sede cautelare, a fronte dell’allegazioni di parte opponente nel senso dell’assunzione della veste consumieristica, parte opposta, si e’ limitata a contestare la riconducibilità della XXX al novero dei consumatori.
Per contro, AAA non ha dedotto anche che la XXX abbia assunto la qualità di socia rispetto alla società garantita, nè ha allegato alcuna specifica circostanza contraria, né ha eccepito un particolare interesse della garante rispetto allo svolgimento dell’attività imprenditoriale, per esservi coinvolta direttamente o indirettamente; né ha fornito la prova dei propri assunti.
Invero, ad una valutazione, allo stato degli atti, sembra doversi ritenere che la prestazione della garanzia fideiussoria rientri nella abituale logica di funzionamento di un’impresa famigliare, coi vincoli di solidarietà che la stessa e’ idonea a ingenerare.
Dunque, in applicazione di una massima tratta dalla comune esperienza, di difficile smentita, la fideiussione parrebbe rinvenire la propria genesi nella volontà della moglie del titolare dell’impresa di sostenere l’attività d’impresa, consento alla stessa di conseguire le necessarie provvidenze economiche.
Quindi, se deve ritenersi una certa <<cointeressenza>>, di fatto, della XXX rispetto alle sorti della società e alle sue sorti economiche, in quanto tenuta a rispondere per le obbligazioni di questa, non può sostenersi che la stessa cogestisse la società o fosse in alcun modo coinvolta nelle scelte d’investimento o di spesa della compagine societaria.
Per quanto concerne la sussistenza di una prova, ex actis, della qualità di consumatore dell’opponente deve precisarsi che, in occasione della presente udienza, la stessa ha provveduto a depositare la propria carta di identità, cosi’ come visura della società da cui constano, rispettivamente, la propria veste sociale di casalinga, cosi come la propria estraneità alla compagine societaria.
Dunque, a prescindere dalla (futura e ipotetica) instaurazione dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, la qualità di consumatore può ritenersi, fin d’ora, sufficientemente acquisita.
1.2. Motivi del rinvio pregiudiziale: la compatibilità comunitaria di una disciplina nazionale che non preveda la rilevabilità d’ufficio, in sede esecutiva, della violazione della normativa consumieristica, quando il decreto ingiuntivo sia stato opposto per ragioni che esulano dalla vessatorietà delle clausole del contratto di fideiussione e l’opposizione sia stata definita con sentenza passata in giudicato (che investa implicitamente la mancata vessatorietà di una clausola contrattuale). La sua rilevanza ai fini della definizione del giudizio.
Ritiene questo Giudice che assuma carattere preliminare ai fini del thema decidendum, la questione relativa all’estendibilità, all’ipotesi di decreto ingiuntivo opposto, dei principi espressi dalla CGUE in relazione alla diversa fattispecie di un decreto ingiuntivo non opposto e, dunque se: una volta che sia stata proposta un’opposizione per ragioni che esulano dalla vessatorietà delle clausole del contratto di fideiussione e la stessa sia stata definita con sentenza passata in giudicato (che investa implicitamente la mancata vessatorietà di una clausola contrattuale), il Giudice dell’esecuzione debba:
a) effettuare egli stesso un sindacato intrinseco del titolo esecutivo giudiziale, passato in giudicato, anche solo in via incidentale;
b) oppure, in via alternativa, secondo il modello, condivisibilmente, indicato dalle Sezioni Unite, concedere un termine per l’introduzione di un giudizio di opposizione tardivo al fine di far accertare dal Giudice della cognizione la predetta vessatorietà.
Ciò, specie – senza che ciò costituisca presupposto indefettibile – quando il consumatore, una volta avuta consapevolezza del proprio status (consapevolezza precedentemente preclusa dal diritto vivente), richieda di effettuare un simile sindacato.
Nel caso di specie, le clausole abusive lamentate e non rilevate all’atto di emissione del decreto ingiuntivo sono:
1) quella di deroga all’art 1957 c.c., prevista al punto 6 della fideiussione omnibus, sottoscritta dall’opponente, che è stata posta a fondamento della pretesa monitoria;
2) quella di deroga alla competenza territoriale, quale emergente dalla lettura dell'art.15 della fideiussione sottoscritta dalla XXX.
Tale clausola è indubbiamente riconducibile al novero delle clausole vessatorie per il consumatore (cfr. Corte d’appello Milano, sent. N. 2354 del 27.7.2021) -, unitamente a quelle di reviviscenza e sopravvivenza, laddove le stesse siano automaticamente riprodotte - come nella specie - dallo schema ABI a suo tempo sanzionato con Provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005 per violazione della normativa cd. antitrust, comporta come noto la nullità parziale del contratto (Cass. Sez. Unite n. 41994 del 30.12.2021).
Dunque, seppur nei limiti della sommarietà della cognizione, consentita dalla presente fase processuale e strumentale alla mera concessione del termine di 40 giorni per l’opposizione tardiva in virtù dei principi delineati dal Supremo Consesso, a sezioni unite, l’eventuale declaratoria dell’abusività della clausola implicherebbe, potenzialmente, effetti <<esiziali>> per la pretesa monitoria.
Ciò, anche in considerazione della circostanza che, agli atti, non consta la prova di iniziative giudiziali del creditore nel termine di sei mesi ex art. 1957 c.c., destinato a regolamentare la fattispecie, in virtù dell’effetto sostitutivo ex lege e previsto a pena di decadenza dal potere di attivare la fideiussione. Ciò e’ quanto emerge dalla verifica del tempo trascorso tra l'invio della raccomandata a/r, da parte della Banca al debitore principale, con la quale ha comunicato il passaggio a sofferenza del rapporto di conto corrente, avvenuta in data 7.2.2013 e la notifica del decreto ingiuntivo alla XXX avvenuto in data 27.5.2014 (ben oltre il termine di sei mesi di cui all'art. 1957 c.c.).
Costituisce, invece, circostanza rilevante al fine della comprensione delle ragioni per cui l’anticomunitarietà delle predette clausole del negozio fideiussorio non sia stata azionata tempestivamente dall’esecutata, il fatto che la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in sede di rinvio pregiudiziale, con decisione emessa il 19 novembre 2015, nella causa C-74/15 p.26, ha riconosciuto la qualità di consumatore al fideiussore, garantendogli una tutela rafforzata, precisando che è alle condizioni personali del garante e non del garantito che bisogna guardare per vedere se definirlo come consumatore o meno, demandando, tuttavia, al Giudice di merito di accertare se, nel caso concreto, il garante abbia prestato la garanzia per ragioni meramente personali, estranee alla sua attività professionale.
Ciò e’ avvenuto, quindi, successivamente, all’emissione del decreto ingiuntivo, oggetto del giudizio di merito presupposto alla presente esecuzione e alla consumazione del termine di giorni 40 per proporre opposizione.
La questione e’, invero, particolarmente, dibattuta in seno all’ordinamento italiano.
D’altronde, come già rilevato dal Tribunale di Lodi, in sede di remissione ex art. 363 bis cpc, proprio in merito alla suddetta quaestio iuris, il Procuratore Generale nella propria requisitoria, davanti al collegio delle Sezioni Unite del 5.7.2022, aveva affermato che, dovendosi preservare l’istituto del giudicato - da ritenersi, dunque, applicabile anche al procedimento monitorio - la disciplina processuale non doveva trovare applicazione unicamente “in assenza di un controllo efficace sulle clausole abusive..”. Aveva, cioè, focalizzato l’attenzione sulle “ingiunzioni che non sono (espressamente) motivate quanto alla validita` del titolo” non riconoscendo rilievo alla circostanza che “a generare il giudicato sia un provvedimento emanato all’esito di una cognizione così sommaria”.
Il rinvio ex art. 363 bis e’ stato ritenuto, di recente, inammissibile per la mancanza di una delle condizioni necessarie ex lege a tal fine, ovvero l’attitudine della questione sollevata a porsi in una pluralità di giudizi.
Il criterio scriminante, nella logica della giurisprudenza comunitaria, ai fini della doverosità del rilievo, viene individuato nell’esistenza un controllo ex officio, dotato di caratteri di effettività e che, dunque, trovi estrinsecazione in sede di motivazione; controllo da effettuarsi da parte del Giudice del monitorio o anche, in alternativa, di quello della cognizione: “ ..se vi è contraddittorio (sulla questione) l’equilibrio è assicurato dallo stesso e dalla successiva facoltà d’impugnare; se non vi è contraddittorio…occorre “quantomeno” che del controllo vi sia traccia”.
Un profilo di sicuro interesse e’, poi, quello relativo alla necessità che non si assista ad un’ipotesi di “totale inerzia” dell’ingiunto che la CGUE sembra additare quale limite alla possibilità di superare il giudicato monitorio, che consegue ad un procedimento a contraddittorio invertito e eventuale, la cui attivazione e’ lasciata all’iniziativa del debitore.
Nella logica del Giudice comunitario, tale condotta omissiva, per rilevare, nel senso di precludere il rilievo d’ufficio dell’abusività, deve essere, però, conseguente ad una scelta consapevole del consumatore, che dovrebbe essere, previamente, informato dei profili di abusività; consumatore che, per contro, spesso, di fatto, rimane ignaro delle norme in suo favore così come delle regole tecniche del processo.
Questo Giudice rimettente, premessa la qualificabilità, allo stato, della XXX come consumatore, dubita, innanzi tutto, della conformità delle clausole suevidenziate all'art. 33, co. 2, lett. u) del codice del consumo (cfr. art. 3.3 della direttiva 93/13/CEE e la lett. q) dell'allegato alla medesima direttiva).
Orbene, alla stregua della normativa processuale e, soprattutto, della sua decodificazione da parte del diritto vivente, la mancata vessatorietà di tali clausole deve ritenersi oggetto di giudicato implicito in conseguenza della emissione del decreto ingiuntivo, oggetto di opposizione, ma senza che, in seno alla stessa, venisse in rilievo il predetto profilo di vessatorietà.
Ciò, in quanto la validità delle clausole in cui si concretizzi la regolamentazione del rapporto costituisce presupposto logico-giuridico dell’accertamento di fondatezza della pretesa azionata.
Secondo parte creditrice, proprio la mancata articolazione, da parte della debitrice, in occasione della proposta opposizione, di un motivo che investisse tale aspetto, precluderebbe la possibilità di valutare in questa sede esecutiva la vessatorietà delle clausole contrattuali.
Tanto alla luce della decisione della Corte di giustizia con riferimento al caso Asturcom, che avrebbe enucleato il principiogiurisprudenziale per il quale il Giudice non può e non deve supplire alla completa inerzia del consumatore (AsturcomTelecomunicacionesSL v. Cristina Rodríguez Nogueira, 6 ottobre 2009, C-40/08).
Secondo l’opposta, in una simile ipotesi, verrebbe in rilievo, la regola imperativa e, dunque, non derogabile, recata dall’art. 161 c.p.c., secondo cui i vizi di nullità si convertono in motivi di gravame.
Questo Giudice, facendo proprie le considerazioni già espresse dal Tribunale di Milano, in sede di rinvio pregiudiziale interpretativo a questa Ill.ma Corte, ritiene che il precedente giurisprudenziale da ultimo citato potrebbe non essere conferente.
Ciò avuto riguardo sia alle differenze intercorrenti tra l'ordinamento giuridico italiano e quello spagnolo, sia alla peculiarità della fattispecie concreta.
Per quanto concerne il primo aspetto, il giudizio intrapreso dalla Asturcom Telecomunicaciones SL ricalcava lo schema di procedimento strutturalmente svolgentisi in assenza di contraddittorio, non essendo lo stesso previsto.
All'esito dello stesso il Giudice, a fronte della (fisiologica) assenza del debitore (già inerte in sede di formazione del titolo esecutivo,avrebbe potuto solo emettere o non emettere l'ordine generale di esecuzione (v., in particolare, p. 28 della sentenza sul caso Asturcom).
In quella sede, la stessa CGUE ha affermato che “ il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 è fondato sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative che il grado di informazione, situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista senza poter incidere sul contenuto delle stesse (sentenze 27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, Océano Grupo Editorial e Salvat Editores, Racc. pag. I-4941, punto 25, e , causa C-168/05, Mostaza Claro, Racc. pag. I-10421, punto 25).
Muovendo dal presupposto logico di siffatta situazione di inferiorità, “l’art. 6, n. 1, della stessa direttiva prevede che le clausole abusive non vincolano il consumatore. Come risulta dalla giurisprudenza, si tratta di una norma imperativa che mira a sostituire all’equilibrio formale che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza delle parti stesse (sentenze Mostaza Claro, cit., punto 36, e 4 giugno 2009, causa C-243/08, Pannon GSM, Racc. pag. I-4703, punto 25)”.
Dunque, “per garantire la tutela voluta dalla direttiva 93/13, …………….la disuguaglianza tra il consumatore e il professionista può essere riequilibrata solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale (sentenze citate Océano Grupo Editorial e Salvat Editores, punto 27, e Mostaza Claro, punto 26)”. La CGUE ricorda come “sulla base di tali principi ….. la Corte ha così statuito che il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale (sentenza Mostaza Claro, cit., punto 38).
La causa al suo esame – afferma la Corte – “si distingueva tuttavia da quella che ha dato luogo alla citata sentenza Mostaza Claro per il fatto che la sig.ra Rodríguez Nogueira era rimasta completamente passiva nel corso dei diversi procedimenti relativi alla controversia che la oppone alla Asturcom”. |
Orbene, delineati i contenuti della sentenza Asturcon, nel presente procedimento, la debitrice XXX, che, in passato, ha proposto rituale opposizione alla pretesa monitoria, per ragioni che esulavano dalla vessatorietà delle clausole del contratto di fideiussione, ora, in sede esecutiva, a fronte della giurisprudenza sovranazionale sopravvenuta in punto di qualificabilità del garante quale consumatore, ha articolato una nuova opposizione, deducendo di avere concluso il contratto di fideiussione in qualità di consumatore e ha elencato alcune clausole della cui vessatorietà ha dichiarato di volersi valere.
Non risulta, dunque, prefigurabile alcuna inerzia se non nel far valere le sole ragioni di doglianza oggi fatte valere in sede di opposizione.
Dunque, la debitrice, che oggi rivendica il proprio status di consumatore, ha sempre assunto un ruolo processualmente propulsivo.
Ciò premesso, questo Giudice non può non evidenziare le peculiarità del caso concreto nel quale può essere utilmente invocata la categoria della c.d.. anticomunitarietà sopravvenuta.
Infatti, al momento della emissione del decreto ingiuntivo, ovvero nel 2014, non v'erano ancora state le decisioni con le quali la Corte di Lussemburgo ha indicato i parametri alla stregua dei quali anche il fideiussore può essere considerato consumatore (Corte di giustizia, 14 settembre 2016, C-534/15, Dumitraş e 19 novembre 2015, C-74/15, Tarcău).
Inoltre, quale circostanza ancora più rilevante, la costante giurisprudenza di legittimità escludeva la qualificabilità del fideiussore, garante di una persona giuridica, in termini di consumatore. Ciò in quanto, prevalendo una concezione, essenzialmente, ancillare della fideiussione, si riteneva che al garante fosse estendibile, secondo un rigido automatismo, ela stessa veste del garantito.
Pertanto, pur essendo in astratto prevista la possibilità per un (qualsiasi) consumatore di far valere, anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, la vessatorietà delle clausole contenute nel contratto concluso con il professionista, una simile possibilità era, stante ildiritto vivente illo tempore vigente preclusa, di fatto, all’opponente.
Tal ultimo, dunque, alla luce dell’allora costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, non ha avuto la possibilità di apprezzare il proprio status di consumatore.
In siffatto contesto interpretativo, a dispetto di quanto sostenuto da parte creditrice, più che di (colpevole) inerzia, potrebbe a ben vedere parlarsi di incolpevole ignoranza del proprio status di consumatore.
E la circostanza che l’ill. ma Corte adita dia – condivisibilmente - rilievo a tale profilo vuol dire, come si avra’ modo di precisare, che nel quadro ordinamentale eurounitario si sta attenuando il rigore del principio, troppo rigoroso, per cui non si potrebbe opporre, in proprio favore, la mancata conoscenza del dato normativo, inclusivo di quelle pronunce di legittimità o degli organi supremi che, in conseguenza della funzione monofilattica della Suprema Corte, hanno una portata chiarificatrice e ciò, fin dall’origine, del dettato normativo.
Dunque, un’incolpevole ignoranza – perché conseguente al mutamento del quadro interpretativo - ha precluso a parte debitrice di scegliere in modo consapevole se avvalersi o meno della tutela, in astratto, accordatale dall’ordinamento, in quanto persona fisicacontraente per uno scopo estraneo all'attività professionale eventualmente svolta.
Una simile, consapevole scelta è, invece, stata possibile solo dopo l'instaurazione della presente procedura di espropriazione in un momento nel quale, stando al diritto nazionale, risulta tuttavia preclusa la superabilità delle decisioni contenute nei decreti ingiuntivi.
Questo Giudice si chiede pertanto se, nella situazione in concreto ricorrente, un diritto vivente quale quello descritto (relativo alla -non- qualificabilità del fideiussore come consumatore e vigente al momento della formazione del titolo esecutivo) possa costituire un elemento idoneo a rendere impossibile - o anche solo eccessivamente difficile - l'esercizio dei diritti al consumatore attribuiti dalla disciplina nazionale di recepimento della direttiva 93/13/CEE.
Dunque, è opportuno verificare se l'esigenza di assicurare una tutela effettiva al debitore consenta, sulla base degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE letti alla luce dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, di effettuare un sindacato sulla vessatorietà delle clausole di un contratto in base al quale è stato ottenuto un decreto ingiuntivo. Ciò nonostante la formazione di un giudicato, solo implicito, sulla non vessatorietà del regolamento contrattuale.
Infatti, avuto riguardo ai principi processuali nazionali sopra citati deve ritenersi che la qualificazione, come non vessatorie, delle clausole pattuite nel contratto di fideiussione sia, in conseguenza della mancata specifica deduzione in occasione della proposta opposizione al decreto ingiuntivo, oggetto di giudicato implicito.
Ne discenderebbe, dunque, per un verso, la mancata possibilità di far valere la vessatorietà delle clausole in un distinto e successivo giudizio di merito, anche perché questione che la parte avrebbe dovuto proporre in sede di formazione del titolo esecutivo giudiziale (e, pertanto, con riferimento al caso concreto, in sede di opposizione al decreto ingiuntivo).
Questo Giudice, avuto anche riguardo alle peculiarità del caso concreto, ha tuttavia alcune perplessità in ordine alla compatibilità di un simile risultato con il diritto dell'Unione.
Nel decidere sulla richiesta di rinvio pregiudiziale formulata nel procedimento B.P. (nel quale l'esecuzione era stata instaurata sulla base di un titolo negoziale, e non -come nel presente caso- giudiziale), la Corte di giustizia ha escluso la contrarietà della disciplina nazionale in concreto rilevante nel procedimento con la direttiva 93/13/CEE nella parte in cui la norma spagnola "vieta al Giudice nazionale di riesaminare d'ufficio il carattere abusivo delle clausole di un contratto, qualora sia stato già statuito sulla legittimità di tutte le clausole di tale contratto alla luce di detta direttiva con una decisione munita di autorità di cosa giudicata".
Con la stessa decisione la Corte ha, tuttavia, anche affermato che "in presenza di una o di più clausole contrattuali la cui eventuale abusività non sia ancora stata esaminata nell'ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato conuna decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che il Giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un'opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d'ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l'eventuale abusività di tali clausole" e che "nell'ipotesi in cui, nell'ambitodi un precedente esame di un contratto controverso che abbia portato all'adozione di una decisione munita di autorità di cosa giudicata, il Giudice nazionale si sia limitato ad esaminare d'ufficio, alla luce della direttiva 93/13, una sola o talune delle clausole di tale contratto, detta direttiva impone a un Giudice nazionale, quale quello di cui al procedimento principale, regolarmente adito dal consumatore mediante un'opposizione incidentale, di valutare, su istanza delle parti o d'ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l'eventuale carattere abusivo delle altre clausole di detto contratto”.
Infatti, in assenza di un siffatto controllo, la tutela del consumatore si rivelerebbe inadeguata e non riuscirebbe a raggiungere l’effetto di disincentivare l'utilizzo di questo tipo di clausole, contrariamente a quanto disposto all'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13. Dalle conclusioni rassegnate dall'Avvocato Generale nel medesimo procedimento B.P. risulta, inoltre, che (pp. 38 -40 delle conclusioni), nel caso concreto, il Giudice investito delle precedenti opposizioni all'esecuzione aveva rilevato la vessatorietà della clausola relativa agli interessi moratori "senza pronunciarsi sulle altre clausole del contratto e senza neppure menzionarle" (pronuncia che, secondo quanto risulta dalla nota 14 alle conclusioni da ultimo citate, era, al tempo, preclusa al Giudice dell'esecuzione spagnolo).
Secondo quanto questo Giudice comprende, la decisione dalla Corte resa nel procedimento B.P. ha negato che possa essere superato il c.d. giudicato esplicito, ma non ha esaminato la compatibilità degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, con il diverso istituto, peraltro di genesi essenzialmente pretoria, del giudicato implicito sopra descritto.
Il Giudice rimettente, mutuando le considerazioni espresse dal Tribunale milanese, si chiede se le esigenze di certezza, di stabilità delle situazioni giuridiche, cosi come di tutela del legittimo affidamento, che sono a fondamento base del giudicato si pongano nella medesima misura, tanto in caso di giudicato esplicito, quanto in caso di giudicato implicito, oppure se gli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE, letti alla luce dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, consentano il superamento del giudicato implicito allorquandola decisione passata in giudicato (implicito) sia manifestamente in contrasto con il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva.
Come si è detto, il giudicato implicito si fonda sulla considerazione empirica, perché tratta dall’osservazione della prassi giurisprudenziale, a sua volta, oggetto di un processo di astrazione, secondo cui se il Giudice si è pronunciato su una determinata questione ha, evidentemente, risolto in senso non ostativo tutte le altre questioni da considerare logicamente preliminari rispetto a quella esplicitamente decisa (in questo senso, v. Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242).
Nondimeno, e’ evidente come non si tratti di una regola inferenziale assoluta e sorretta da coefficienti probabilistici certi, in quanto tale modello astratto di decodifcazione del reale non sempre corrisponde all'iter decisionale concretamente percorso dal Giudice e, in ognicaso, per definizione, un simile iter logico non è mai esternato e, dunque, e’ insuscettibile di controllo postumo, anche al fine di verificare l'effettivo oggetto della decisione.
Come nella fattispecie, già al vaglio del Tribunale di Milano, autore del rinvio pregiudiziale di cui sopra, proprio il caso, sottoposto alla cognizione di questo Giudice, è, molto probabilmente, sintomatico dell’assenza di una relazione logica certa fra modello astratto e realtà concreta e, dunque, dell’effettività di un controllo anche <<sommario>>.
Infatti, e’ probabile che, al momento dell'emissione del decreto ingiuntivo richiesto, il Giudice non abbia in alcun modo svolto l'indagine relativa alla vessatorietà delle clausole (così non esercitando la fondamentale funzione di riequilibrio -anche- processuale dei rapporti tra imprenditore e consumatore sopra citata), cosi precludendo, a priori, la possibilità che il fideiussore potesse essere qualificato come consumatore.
Del resto, proprio il carattere, di per sé, non manifesto dell'iter logico concretamente osservato dal Giudice che, per nulla, risulta aver motivato sul punto può comportare un pregiudizio al diritto alla tutela effettiva del debitore cui (anche nella prospettivadell'impugnazione) potrebbe essere preclusa la percezione dell'effettiva portata della decisione.
Orbene, in un caso di questo tipo, il Giudice si chiede se siano estendibili i principi enucleati dalla Corte di Giustizia, con le pronunce del 17 maggio del 2022 e, cioè, se il diritto ad una tutela effettiva derivante dagli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE letti in combinato disposto con l'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea consenta al consumatore di contestare, mediante un'opposizione all'esecuzione, il contenuto intrinseco di una decisione giudiziale che, pur non avendo esplicitamente statuito sulla natura vessatoria delle clausole contenute in un contratto, sia ormai passata in giudicato.
3. 2. Disposizioni nazionali richiamate
3.1. La disciplina civile sostanziale
In virtu’ dell'art. 33, co. 1, D.Lgs. 6 settembre (c.d. "codice del consumo") che, a seguito al riassetto della disciplina di matrice consumieristica, contiene la disciplina interna di trasposizione dell'art. 3.1 della direttiva 93/13/CEE e’ stato mutuato il principio per cui: "1. Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto".
Tale articolo, al secondo comma, così dispone: "Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: (...)
- sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria, limitazioni all'adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell'onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi;
- stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore"(cfr. art. 3.3 della direttiva 93/13/CEE e la lett. q) dell'allegato alla medesima direttiva).
L'art. 36 del codice del consumo (conformemente all'art. 6 della direttiva 93/13/CEE), al primo comma, così dispone: "Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto". Il comma 3 del medesimo articolo prevede inoltre che la nullità delle clausole vessatorie "opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal Giudice".
Il codice di procedura civile italiano disciplina il procedimento di ingiunzione al libro IV, titolo I, capo I. L'art. 633, co. 1, c.p.c., primanorma del capo I, così dispone: "Su domanda di chi è creditore di una somma liquida di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o di chi ha diritto alla consegna di una cosa mobile determinata, il Giudice competente pronuncia ingiunzione di pagamento o di consegna: 1) se del credito fatto valere si dà prova scritta; (...)". Delineata, all'art. 634 c.p.c., la nozione di "prova scritta" e disciplinata l'ipotesi del rigetto della domanda all'art. 640, il codice di procedura civile, all'art. 641, co. 1, così dispone: "Se esistono le condizioni previste nell'art. 633, il Giudice, con decreto motivato da emettere entro trenta giorni dal deposito del ricorso, ingiunge all'altra parte di pagare la somma o di consegnare la cosa o la quantità di cose chieste o invece di queste la somma di cui all'art. 639 nel termine di quaranta giorni, con l'espresso avvertimento che nello stesso termine può essere fatta opposizione a norma degli articoli seguenti e che, in mancanza di opposizione, si procederà a esecuzione forzata". Il ricorso ed il decreto ingiuntivo devono essere notificati al debitore (art. 643, co. 2, c.p.c.) il quale può (art. 645 c.p.c.) proporre opposizione "davanti all'ufficio giudiziario al quale appartiene il Giudice che ha emesso il decreto, con atto di citazione notificato al ricorrente nei luoghi di cui all'art. 638 (...) In seguito all'opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al Giudice adito (...)".
3.2. La disciplina processuale
L’istituto del giudicato conosce un duplice ancoraggio nel diritto sostanziale e in quello procedurale. In virtu’ dell'art. 2909 c.c. "L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa". L'art. 324 c.p.c., invece, dispone che "S'intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai nn. 4 e 5 dell'art. 395".
Entrambe le norme concorrono a delineare lo statuto del giudicato, in una logica sistemica di complementarietà e non di reciproca esclusione, l’una disciplinando il piano degli effetti soggettivi del giudicato, l’altro, normando le condizioni processuali per la sua venuta ad esistenza. La invero scarna o, comunque, minimale normativa nazionale, e’ stata arricchita, in via interpretativa, dalla giurisprudenza di legittimità, al fine di precisare l’oggetto del giudicato e del correlato effetto di irretrattabilità e di non modificabilità.
Risulta, quindi, accolto, il principio -di creazione giurisprudenziale- del c.d. "giudicato implicito", fondato sull'argomento logico per il quale se il Giudice si è pronunciato su una determinata questione ha, evidentemente, risolto in senso non ostativo tutte le altre questioni da considerare preliminari rispetto a quella esplicitamente decisa (tra le altre, Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242). E ciò non solo con riferimento al decreto ingiuntivo non opposto, ma anche nelle ipotesi in cui, come nel caso di specie, all’emissione del decreto ingiuntivo, segua la proposizione di un’opposizione che sia rigettata, con conseguente conferma della debenza dell’importo ingiunto.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, assolutamente maggioritaria, l'autorità del giudicato spiega i suoi effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione, ma anche sulle ragioni che ne costituiscono, sia pure implicitamente, il presupposto logico-giuridico (Cassazione civile sez. II, 04/03/2020, n.6091, secondo cui “Il giudicato copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e, pertanto, non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio, ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia”).
Così specificato l’ambito operativo del giudicato, risulta opportuno, anche ai fini di una valutazione di compatibilità della disciplina interna con il superiore principio di effettività, chiarire le possibilità in termini rimediali che si offrono al creditore che abbia conseguito il titolo esecutivo giudiziale, nonché l’evoluzione delle dinamiche interne al processo esecutivo.
Tal ultimo, notificato l'atto di precetto, può, provvedendo alla notifica del pignoramento, attivare il processo di esecuzione forzata; processo la cui disciplina ricomprende sia regole generali (contenute nel titolo II, capo I del libro III del codice di procedura civile), sia regole di carattere speciale e connesse alla specificità del bene pignorato.
A mezzo dell'espropriazione immobiliare, in particolare, il creditore che sia munito di titolo esecutivo, sia giudiziale, sia di natura stragiudiziale, notificando il pignoramento, aziona il proprio diritto di credito su un bene immobile del quale il proprio debitore è titolare.
In disparte le differenze di disciplina connesse alla diversa natura del bene, attinto dal pignoramento, il procedimento espropriativopresenta evidenti elementi di differenziazione da quello di cognizione.
Secondo la dogmatica tradizionale, il processo d’esecuzione si dovrebbe caratterizzare, in particolare, per i seguenti aspetti:
a. il difetto di un’attività istruttoria, o meglio, il suo carattere meramente ipotetico, essendo la cognizione ristretta all’eventualeincardinamento di un giudizio di opposizione;
b. la mancanza del contraddittorio (se non in una fase eventuale e successiva). La tradizione, soprattutto quella anterioreall’avvento della Costituzione e, soprattutto, alla “percezione”, da parte dei giuristi, dell’immediata precettività di alcune sue disposizioni, ha consegnato agli interpreti l’idea – oramai superata – per cui il processo esecutivo avrebbe carattere tipicamente unilaterale. Coerentemente con tale presupposto, la convocazione delle parti, che nel processo medesimo viene disposta dal Giudice qualora la ritenganecessaria o la legge la prescriva, avverrebbe non al fine di assicurare un formale contraddittorio, ma soltanto per il migliore esercizio della potestàordinatoria, affidata al Giudice stesso. Pertanto, qualora il Giudice della esecuzione non disponga la comparizione del debitore, nei casi previstidalla legge, ovvero non venga portato a conoscenza del debitore stesso il decreto con il quale sia stata fissata l’udienza per la sua comparizione, nonsi verificherebbe una violazione del principio del contraddittorio, deducibile in ogni momento della procedura. Detta omissione avrebbe,unicamente, potuto riflettersi sul successivo atto esecutivo, contro il quale il debitore, ove lo avesse ritenuto viziato, ma non per il solo fattodell’omessa sua audizione, avrebbe potuto insorgere esclusivamente con opposizione agli atti esecutivi, nei modi e nel termine di cui all’art. 617c.p.c. (ex pluribus Cass. 24 luglio 1993, n.8293; Cass. 13 febbraio 1988, n.1550);
c. la necessaria ricorrenza di un titolo esecutivo la cui mancanza, seppur soprav- venuta, determina la caducazione dellaprocedura esecutiva;
d. l’oggetto circoscritto all’espropriazione del bene;
e. la eventuale concorrenza con altre azioni esecutive, sia mobiliari, sia immobi- liari, salva la possibilità per il debitore di azionareil rimedio della riduzione che costituisce applicazione del più generale principio di proporzionalità;
f. il suo articolarsi in una pluralità di subprocedimenti. In tal senso, sono invo- cabili le conclusioni cui sono pervenute le Sezioniunite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 27 ottobre 1995, n. 11178 secondo cui il processo esecutivo è strutturato nella formedi una successione di subprocedimenti, preordinati all’unica finalità di procedere all’espropriazione del bene pignorato per assicurare lasoddisfazione dei creditori. In particolare, soffermandosi sulla struttura dell’espropriazione immobiliare, le Sezioni unite hanno ritenuto che, inessa, siano individuabili varie fasi: l’autorizzazione della vendita, la vendita, l’aggiudicazione, il trasferimento del bene e, infine, la distribuzione del ricavato.
L’autonoma vitalità di ogni fase - secondo la pronuncia de qua - “è resa evidente dal fatto che ciascuna serie di atti è ordinata ad unprovvedimento che la conclude, il quale, quando abbia avuto esecuzione, non è ritrattabile dal Giudice che lo ha emesso (art. 487 primocomma c.p.c.), ma può essere dichiarato nullo solo a seguito di opposizione agli atti esecutivi”.
Tale principio non e’ rimasto isolato nel panorama interpretativo, ma e’ stato costantemente ribadito in una pluralità di occasioni (Cass. n.35878/2022, secondo cui «In tema di esecuzione forzata, anche le gravi ed eccezionali invalidità degli atti che determinano nullità nonsanabili o l’improseguibilità del processo, pur se rilevabili “ex officio” dal Giudice, debbono essere fatte valere , dalla parte interessata, col rimedio dell’opposizione ex art. 617 c.p.c., la quale va proposta - necessariamente entro il ter- mine decadenziale prescritto (decorrente dalcompimento o dalla conoscenza dell’atto esecutivo opposto) e, comunque, entro gli sbarramenti preclusivi correlati alle singole fasidell’espropriazione forzata - avverso l’atto viziato oppure contro quelli successivi in cui il medesimo vizio si riproduce»; cfr. anche Cass.37558/2022, Cass. sez. un. n. 21110/2012; Cass. n. 4584/1999; Cass n. 837/2007; Cass. n. 16799/2008).
Come si avrà modo di argomentare nel prosieguo della trattazione, alcune di tali caratteristiche, per effetto dell’azione sostanzialmentenormopoietica della giurisprudenza, si sono attenuate.
Ciò, al fine di consentire l’adeguamento dello strumento processuale alle istanze di tutela provenienti dal corpo sociale, quali innovativamente“veicolate” dalla normativa e dalla giurisprudenza sovranazionale, di cui gli stessi giudici nazionali hanno dovuto tener conto al fine di assicurare una doverosa interpretazione costituzionalmente orientata delle norme processuali interne[1].
In particolare, per quanto concerne il punto sub b) relativo all’attuazione del contraddittorio, come si avrà modo di precisare, si e’ ritenuto, fino a tempi non remoti, che, in seno allo stesso, il Giudice dell'esecuzione potesse esercitare solo poteri ordinatori, "limitati alla direzione del processo esecutivo al fine del regolare compimento degli atti che lo compongono secondo criteri di celerità ed opportunità; con esclusione, quindi, di potestas decidendi" (Cass., 12 giugno 1971, n. 1819).
Coerentemente con tali peculiari connotati funzionali e strutturali del processo esecutivo, il principio del contraddittorio, specie in origine, ha assunto una particolare (debole) conformazione, con conseguente attenuazione della sua assolutezza e generalità.
Ciò in virtù di quanto disposto dall'art. 485 c.p.c. e con la sola eccezione rappresentata dall’eventuale attivazione dell’incidente di cognizione, lasciati, tradizionalmente, all’iniziativa della parti.
D’altronde, il processo esecutivo si configura, anche secondo la prospettiva adottata dal Giudice delle Leggi, quale “processo totalmente funzionale all'attuazione forzata del diritto consacrato nel titolo esecutivo”.
Nondimeno, e’ emersa, gradualmente, nella riflessione giuridica, come, anche nel contesto di un processo esecutivo, debba essere assicurato il contraddittorio in favore della parte contro cui l’azione sia proposta: a venire in rilievo e’, comunque, un processo, connotato dalla proposizione, ad opera di una parte, di una domanda giudiziale (l’actio in executivis) nei confronti di un'altra parte.
D’altronde, come riconosciuto dallo stesso Giudice delle Leggi, esistono una serie di disposizioni da cui e’ evincibile l’immanenza del principio del contraddittorio al sistema delle esecuzioni (v., ad es., gli artt. 485, 512, 530 c.p.c.).
Anche nell’ambito del processo esecutivo, “dunque, sebbene il contraddittorio non debba realizzarsi in maniera continua e costante come nel processo di cognizione, occorre riconoscere in capo a tutte le parti la possibilità di far valere le proprie ragioni al fine di influire sul provvedimento del Giudice dell'esecuzione, tutte le volte in cui egli è chiamato ad operare in questa direzione”. A tale fine e’ preordinata la fattispecie dell'art. 485 cpc..
In ogni caso, a prescindere da tali indici normativi, l’obbligatorietà e la generalità del principio del contraddittorio rinvengono il proprio fondamento nel principio costituzionale di difesa di cui all’art. 24 Cost..
Orbene, proprio la progressiva metamorfosi del giudizio esecutivo e la valorizzazione della sua funzione cognitoria, con l’acquisizione di una veste, evidentemente, <<bifasica>>, rendono ancora più stringente una più piena garanzia del principio del contraddittorio, quale corollario, necessario e, per così dire, naturale del diritto di azione.
Con riferimento ai poteri esercitabili d'ufficio dal Giudice dell'esecuzione occorre rilevare come, secondo quanto costantemente affermato dalla Suprema Corte, l'esistenza di un valido titolo esecutivo costituisca condizione dell'azione esecutiva (tra le tante, Cass., S.U., 28 novembre 2012, n. 21110); il titolo esecutivo deve pertanto permanere per l'intera durata dell'espropriazione, destinata altrimenti a divenire improcedibile (tra le tante, Cass., S.U., 28 novembre 2012, n. 21110, Cass. 6 agosto 2002, n. 11769, Cass. 24 maggio 2002, n. 7631).
In conseguenza del principio espresso dal brocardo "nulla executio sine titulo" il Giudice dell'esecuzione è, quindi, titolare del potere-dovere di verificare l'esistenza del titolo esecutivo all'inizio e per l'intera durata del processo esecutivo, dovendo, ove tale titolo difetti, arrestare il processo (tra le tante, Cass. 16 aprile 2013, n. 9161, Cass. 28 luglio 2011, n. 16541, Cass. 6 agosto 2002, n. 11769).
Come si avra’ modo di precisare, quando venga in rilievo un titolo esecutivo di formazione giudiziale, il potere officioso del Giudice dell'esecuzione è, tuttavia, limitato alla sola esistenza del titolo esecutivo e non può estendersi anche al "contenuto intrinseco" dello stesso, sì da invalidarne l'efficacia in base ad eccezioni che possono e devono essere dedotte nel giudizio di cognizione (in caso di decreto ingiuntivo, mediante proposizione dell'opposizione allo stesso decreto).
Un simile controllo "intrinseco" del titolo giudiziale è precluso anche in caso di opposizione proposta, ai sensi dell'art. 615, co. 2, c.p.c., dal debitore; secondo costante giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, "nel giudizio di opposizione all'esecuzione promossa in base a titolo esecutivo di formazione giudiziale, la contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata può essere fondata su vizi di formazione del provvedimento solo quando questi ne determinino l'inesistenza giuridica, atteso che gli altri vizi e le ragioni di ingiustiziadella decisione possono essere fatti valere, ove ancora possibile, solo nel corso del processo in cui il titolo è stato emesso, spettando la cognizione di ogni questione di merito al Giudice naturale della causa in cui la controversia tra le parti ha avuto (o sta avendo) pieno sviluppo ed è stata (od è tuttora) in esame" (Cass. 18 febbraio 2015, n. 3277, conforme, tra le tante, Cass. 21 aprile 2011, n. 9205).
Peraltro, proprio l’illustrata <<trasfigurazione>> del processo esecutivo lascia intendere che potrebbero non esservi preclusioni particolari perché l’anticomunitarietà di una o piu’ clausole contrattuali, sia rilevata e accertata direttamente dal Giudice dell’esecuzione.
4. Diritto nazionale. Le diverse posizioni interpretative “interne” relativamente alla questione devoluta alla CGUE
a) In giurisprudenza
Invero, come già rilevato dalla ordinanza di rinvio interno ex art. 363 bis c.p.c., del Tribunale di Lodi, difetta, in via interpretativa,un’esegesi monolitica della portata delle pronunce della CGUE, cosi come di quella delle Sezioni Unite n. 9479/2023.
Un primo orientamento giurisprudenziale, più restrittivo, preclude al G.E .il rilievo di abusività delle clausole, quando il decreto ingiuntivo sia stato opposto e fonda le proprie conclusioni su due osservazioni principali:
a) l'inerire le pronunce de quibus alla sola fattispecie del decreto non opposto;
b) l'operare, anche nella fattispecie in rilievo, del principio generale della non devolvibilita' al Giudice dell’esecuzione delle questioni dedotte (o anche solo deducibili) davanti al Giudice del merito presupposto. Preliminarmente, si rileva che, per principio interpretativo interno consolidato, in sede di opposizione a una esecuzione, promossa sulla base di un titolo esecutivo di formazione giudiziale, la contestazione del diritto a procedere all’esecuzione forzata può essere fondata su ragioni attinenti ai vizi di formazione del provvedimento fatto valere come titolo esecutivo solo quando questi ne determinino l’eventuale inesistenza giuridica, quale difetto degli estremi minimi per la riconduzione del provvedimento al correlato tipo legale, dovendo gli altri vizi del provvedimento e le eventuali ragioni di ingiustizia della decisione che ne costituiscano il contenuto essere fatte valere in sede di impugnazione del titolo.
Costituisce, infatti, principio ormai consolidato quello secondo cui “nel giudizio di opposizione all’esecuzione è possibile contestare solo la regolarità formale o l’esistenza del titolo esecutivo giudiziale, ma non il suo contenuto decisorio. La violazione di tale regola da parte dell’opponente costituisce causa di inammissibilità, e non di infondatezza, dell’opposizione” (Cass. Sez. I, sent. 22402/2008).
Tale principio è stato, più di recente, ribadito dalla Suprema Corte, nell’ordinanza 26110 del 5 settembre 2022, secondo cui “il titolo esecutivo giudiziale copre i fatti estintivi (o modificativi o impeditivi) del credito intervenuti anteriormente alla formazione del titolo e non può essere rimesso in discussione dinanzi al Giudice dell’esecuzione ed a quello dell’opposizione per fatti anteriori alla sua definitività, in virtù dell’intrinseca riserva di ogni questione di merito al Giudice naturale della causa, per cui, qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo esecutivo giudiziale, il Giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, diretto cioè ad invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni o difese che andavano dedotte nel giudizio nel cui corso è stato pronunziato il titolo medesimo, potendo solo controllare la persistente validità di quest’ultimo ed attribuire rilevanza ai fatti posteriori alla sua formazione”.
Solo nel caso di radicale inesistenza del titolo esecutivo - invero, di rara verificazione, come evidenziato, di recente, da autorevole dottrina - si ammette l’esperibilità di un’autonoma actio nullitatis (similmente a quanto stabilito dall’art. 161 c.p.c., in materia di nullità delle sentenze e di abituale conversione dei motivi di nullità in ragioni di gravame, fatta eccezione per l’omessa sottoscrizione, in quanto idonea ad integrare un’ipotesi di inesistenza).
Il Giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo giudiziale, dovendosi limitare a verificare la regolarità <<estrinseca>>, ossia, ad esempio, che lo stesso abbia natura condannatoria e sia dotato di efficacia esecutiva e che la abbia conservata rispetto alla sua emanazione.
Inoltre, per principio interpretativo consolidato, in sede di opposizione sia esecutiva sia pre-esecutiva (per l’ipotesi in cui l’actio esecutiva non sia ancora iniziata), promossa sulla base di un titolo esecutivo di formazione giudiziale, e’, in generale, preclusa la spendita di eccezioni in senso stretto, fondate su fatti di natura impeditiva, modificativa o estintiva anteriori cronologicamente, quanto alla loro venuta ad esistenza, alla definitività del decreto ingiuntivo o del diverso provvedimento giurisdizionale opposto, potendo per contro essere dedotti nuovi fatti giuridici, non esistenti prima della scadenza del termine per la proposizione dell’opposizione (o del gravame) e in grado di estinguere o modificare il rapporto in contestazione.
Pertanto, eventuali fatti estintivi o modificativi del diritto azionato con un titolo di formazione giudiziale che si siano verificati anteriormente alla formazione del titolo stesso - e, dunque, come tali dedotti o anche, semplicemente, giuridicamente deducibili - non possono essere fatti valere con opposizione all’esecuzione, dovendo essere oggetto di specifiche eccezioni nel giudizio di merito che ha portato all’emissione del titolo esecutivo.
Si pensi, in particolare, all’eccezione di compensazione legale, i cui presupposti di liquidità, esigibilità e coesistenza siano venuti ad esistenza dopo la scadenza dei termini per l’opposizione a decreto ingiuntivo oppure dopo il maturare delle preclusioni processuali nel giudizio di opposizione (v. ex multis, Cass. 17 febbraio 2011, n. 3850, secondo cui «[...] il titolo esecutivo giudiziale non può essere rimesso in discussione dinanzi al Giudice dell’esecuzione ed a quello dell’opposizione per fatti anteriori alla sua definitività, in virtù dell’intrinseca riserva di ogni questione di merito al Giudice naturale della causa in cui la controversia tra le parti ha avuto o sta avendo pieno sviluppo ed è stata od è tuttora in via di esame ex professo o comunque in via principale»).
In tal senso, depongono non solo ragioni di carattere logico e di economia processuale, ma anche la necessità di conservare una cesura netta fra le vicende giuridiche inerenti al giudizio presupposto e l’esecuzione del provvedimento, conclusivo dello stesso. Ciò, in virtù di un principio di “competenza” intesa in senso lato, per cui della valida formazione del provvedimento portato a esecuzione è (o può essere) investito unicamente il Giudice cui è devoluto il gravame o l’impugnativa promossa avverso lo stesso.
Principio di “competenza” che, peraltro, si interseca anche con il diverso principio, pure ispirato ad esigenze di economia processuale, del deducibile (valevole) come dedotto[2].
Peraltro, si evidenzia come, considerato l’attuale stadio dell’evoluzione interpretativa interna, trovando applicazione la regola del deducibile come dedotto, deve ritenersi che l’impossibilità di azionare vizi del titolo di formazione giudiziale valga non solo per quelli concretamente dedotti nel giudizio c.d. presupposto, ma anche per quelli che lo erano sulla base di un criterio di normalità statistica e di diligenza (di fatto, rimasto inosservato). In tal senso, si erano espressi, ad esempio, il Tribunale di La Spezia (sent. N.9/2023 pubb. 4.1.2023 est. Lottini) e successivamente il Tribunale delle imprese di Roma (con la pronuncia n.6744/2023 /2023 pubb.28.4.2023 rel.Basile), il Tribunale di Nocera Inferiore (ord. 2.5.2023 est.Velleca) e il Tribunale di Piacenza (sent.443 del 19.7.2023 est. Iaquinti);
3. la generale intangibilita' del giudicato.
In applicazione delle regole generali sulla formazione del giudicato, una volta divenuta definitiva la pronuncia di rigetto (o accoglimento) dell’opposizione, sarebbe preclusa all'opponente la facoltà di invocare, in un diverso giudizio, la nullità del contratto o di specifiche sue clausole, atteso che il giudicato, coprendo il dedotto e il deducibile, si estende anche all'insussistenza di cause di invalidità (c.d. giudicato per implicazione discendente), ancorché diverse da quelle fatte valere nel processo definito con sentenza irrevocabile ( ex multis Cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 31636 del 04/11/2021; sentenza 1410/2023 del Tribunale delle Imprese di Roma e sempre il Tribunale imprese Roma con la sentenza n.8893/2023 pubb.il 5.6.2023 est.Basile).
Per un secondo orientamento più elastico e, forse, maggiormente in linea con la ratio ispirativa degli approdi interpretativi nazionale e sovranazionale, l'occasione storica delle pronunce non andrebbe confusa con l'esatto ambito operativo dei principi dalle stesse enucleati
In secondo luogo, la tradizionale dicotomia fra il momento cognitivo e quello esecutivo e' andata attenuandosi. In particolare, deve ritenersi che si stiano <<mitigando> anche alcuni principi che si ritenevano dovessero conformare il processo esecutivo come l'autonomia, l'astrattezza e l’autosufficienza del titolo esecutivo; cosi come la tradizionale distinzione che si riteneva sussistere tra attività cognitoria e esecutiva, con attribuzione agli organi esecutivi di un compito essenzialmente di attuazione di comandi e regole predefinite.
L'autosufficienza doveva essere intesa come l’idoneità del titolo esecutivo a fondare l’esecuzione, attribuendo al suo possessore il diritto, incondizionato, di rivolgersi all'ufficio esecutivo, che doveva attivarsi per tutelare la pretesa incorporata nel titolo.
Ciò, senza che il G.E. potesse o dovesse verificare se questa in concreto sussistesse, salvo che non intervenisse specifica opposizione all’esecuzione. In tale quadro regolatorio e interpretativo, le opposizioni esecutive rappresentavano le uniche parentesi cognitive di un’attività – quella esecutiva – essenzialmente preordinata all’attuazione di un comando o di una regola contrattuale già puntualmente definita.
L’attività cognitiva era, cioè, rigorosamente occasionale e, comunque, sempre strumentale alla definizione dei profili controversi sollevati con le c.d. opposizioni esecutive.
Tale profilo consentiva di radicare l’astrattezza del titolo, quale ininfluenza del rapporto sottostante.
La pronunce a Sezioni Unite del 2012[3], in materia di integrazione del titolo esecutivo da parte del G.e., nel porre le basi per il superamento dei suddetti principi, hanno destato un acceso dibattito e anche qualche critica che muove dal loro carattere sostanzialmente eversivo rispetto ai canoni processuali tradizionali.
Nondimeno, e’ indubbio che il diritto per assolvere alla sua funzione di regolazione dei fenomeni sociali e di adattamento alle mutate sensibilità ed esigenze di tutela del corpo sociale, non possa non avere una dimensione dinamica ed evolutiva.
D’altronde, le pronunce gemelle del 2012, nell’assicurare l’eseguibilità di comandi nati geneticamente come generici, hanno preservato la tenuta del sistema sotto il profilo del rispetto del principio di effettività della tutela di cui e’ noto il fondamento costituzionale negli artt. 24 e 113 Cost., nonché sovranazionale negli artt. 6 e 13 CEDU e 47 Cost
In particolare, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 11067 del 2.07.2012, si è riconosciuto al Giudice dell’esecuzione, nel caso di incertezze derivanti dal dispositivo e dalla motivazione circa l’esatta estensione dell’obbligo configurato nella sentenza, il potere dovere di procedere all’integrazione extratestuale, a condizione che i dati di riferimento siano stati ritualmente acquisiti al processo in cui il titolo giudiziale si sia formato.
E’ evidente il passaggio da una concezione <<monolitica> del G.e. quale mero attuatore di una regola aliunde formata a quello di organo giurisdizionale, dotato di funzioni <<composite>>, non solo esecutive ma, anche, di natura cognitiva (e non più strettamente ancillari).
Nel contempo, anche per effetto dell’impatto delle pronunce comunitarie, recepite dal Giudice di legittimità o della nomofilachia, si e’ progressivamente erosa la distinzione rigorosa tra momento della cognizione e sede processuale esecutiva - costituente, secondo taluni autori, principio di ordine pubblico processuale e di cui costituiva logico corollario il difetto, in relazione al Giudice dell’esecuzione, di qualunque potere di sindacare il contenuto del titolo esecutivo, specie se di natura giudiziale, per fatti anteriori alla sua definitività. Fatti da far valere solo davanti al Giudice dell’opposizione.
Di tale principio si e’ imposta una rimodulazione in omaggio a quella tutela della libertà negoziale del consumatore che, nella logica dell’ordinamento comunitario, si pone quale strumento di tutela dell’assetto concorrenziale del mercato, quale unico modello idoneo ad assicurarne la competitività e l’efficienza.
Peraltro, per quanto concerne le preclusioni cognitorie, operanti in sede esecutiva, deve ritenersi che le stesse, investendo gli eventuali vizi formali del titolo di formazione giudiziale, cosi come le eccezioni in senso stretto, anteriori alla formazione del titolo, non ineriscono anche al difetto del diritto a procedere in executivis, quale aspetto che, in quanto riconducibile al novero degli elementi costitutivi del diritto azionato, e’ suscettibile di essere eccepito o rilevato anche ex officio in ogni stato e grado della procedura, salva la formazione di un giudicato interno (Cass. Civ. Sez. Unite, Sent, 16/02/2016, n. 2951)[4].
D’altronde, nell’ambito di una generale rimodulazione dei poteri del Giudice dell’esecuzione si inserisce anche il profilo relativo alla verifica della permanenza e persistenza del titolo esecutivo sotto il profilo dell’effettiva titolarità della posizione soggettiva in esso incorporata e ad esso sottesa;
In terzo luogo, la necessità di una tutela effettiva del consumatore nei termini su delineati imporrebbe il superamento della stabilita’ del giudicato tanto più quando di tratti di giudicato implicito e il giudicato implicito nella sua versione più elastica e lontana dal principio di effettività della tutela.
Dunque, esiste un meno consistente filone interpretativo che ha esteso i principi comunitari anche all’ipotesi di decreto ingiuntivo opposto, laddove l’abusività delle clausole non sia stata affrontata nella fase di merito, richiamandosi specialmente ai principi della giustizia comunitaria.
In tal senso, sono richiamabili:
a) Tribunale Bologna, 30/07/2023 per cui “in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo non opposto in riferimento al profilo di abusività delle clausole, il G.E., fino al momento della vendita o dell'assegnazione del bene o del credito, ha il dovere verificare la presenza di eventuali clausole abusive incidenti sull'esistenza e sull'entità del credito ingiunto. Pertanto, nel caso in cui in base agli atti non sia possibile escludere la qualità di consumatore delle parti opponenti esecutate al tempo della stipulazione delle fideiussioni, il G.E., una volta rilevata la possibile esistenza di clausole abusive, deve informare i debitori esecutati della facoltà di proporre opposizione tardiva exart. 650 c.p.c. per l'eventuale accertamento;
3) Tribunale Ivrea, 16/05/2023, secondo cui “il Giudice dell'esecuzione anche qualora il decreto ingiuntivo nei confronti di un consumatore sia stato opposto ma in sede di opposizione non sia stata rilevata la nullità delle clausole abusive, ha il dovere di verificarne la sussistenza e, in ogni caso, informare le parti e avvisare il debitore esecutato della facoltà di poter proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 650 c.p.c., al fine esclusivo di far accertare l’eventuale abusività delle predette clausole”.
Nel senso, in generale, di una dilatazione dei principi elaborati dalla Corte di Giustizia, anche al di fuori della tematica del decreto ingiuntivo opposto, appare opportuno segnalare:
A) Tribunale Brindisi, 07 Marzo 2023, secondo cui “le pronunce rese dalla Corte di Giustizia il 17 maggio 2022 – che, come noto, hanno valenza eterointegrativa della disciplina comunitaria oggetto dell’intervento monofilattico, beneficiando delle stesse caratteristiche della diretta applicabilità e della primazia proprio del diritto comunitario - sono destinate a operare in materia consumieristica, ma costituiscono al contempo un modello operativo che il Giudice nazionale e’ chiamato a osservare in tutti gli ambiti di disciplina in cui si assiste alla concorrenza del livello nazionale di tutela (che detta la disciplina di dettaglio o attuativa) e di quello comunitario (che si estrinseca per lo mezzo di direttive generiche o di regolamenti anch’essi dettanti norme puntuali e immediatamente operative)”.
Vi si afferma, inoltre, che “l’intervento della Corte e’ stato occasionato dalla disciplina in materia di clausole abusive, ma deve ritenersi che la cedevolezza del giudicato, almeno nella forma meno pregnante del c.d. “giudicato implicito” (relativo, cioè, a questioni semplicemente deducibili dalle parti, anche se non dedotte), debba operare ogniqualvolta lo stesso si ponga in contrasto con una norma comunitaria (positiva o scaturente da una pronuncia della CGUE), che, per le sue caratteristiche di sufficiente descrizione e precisione del precetto, si ponga in termini di diretta applicabilità, ragione per cui deve ritenersi estendibile alla disciplina in materia di ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali, di cui al Decreto Legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, attuativo della direttiva 2000/35/CE ed, in particolare, all’art. 7 “Nullita'”; norme che concorrono a delineare lo statuto normativo del c.d. terzo contratto, connotato soggettivamente dal fatto di intercorrere fra imprenditori dotati l’uno di minore forza contrattuale dell’altro, in considerazione dei diversi requisiti dimensionali, delle quote di mercato possedute e di altri fattori idonei a incidere sulla libertà di contrarre e di autodeterminarsi dell’impresa, in posizione recessiva”;
B) il Tribunale di Monza (con ordinanza del 10 ottobre 2023), secondo cui il rilievo d’ufficio sarebbe possibile anche nell’ambito del giudizio di opposizione all’esecuzione presso terzi promossa dall’esecutato, in forza di un titolo esecutivo non giudiziale, bensì costituito da un mutuo fondiario.
Nella specie, la debitrice presentava istanza per la sospensione della procedura, sulla base, tra le altre, dell’esistenza nel contratto di mutuo di clausole abusive (relativa alle condizioni economiche gli interessi moratori). Orbene, il Tribunale di Monza ha ritenuto che, benchè le Sezioni unite si siano pronunciate per l’ipotesi di contratti posti a fondamento di un decreto ingiuntivo, “anche le clausole contenute, come nel caso di specie, in un contratto di mutuo avente valore di titolo esecutivo stragiudiziale, debbano essere verificate dal Giudice dell’Esecuzione – nel caso di specie in presenza di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. – e, previa verifica con esito positivo in base a giudizio sommario all’esito della fase cautelare, in analogia con i principi enunciati dalla Suprema Corte nell’ipotesi di decreto ingiuntivo, la questione dovrà poi in ogni caso essere rimessa alla decisione del Giudice della fase di merito”.
Da ultimo, a dimostrazione della latitudine applicativa dei principi espressi dalla CGUE nel 2022, deve segnalarsi che la Suprema Corte di Cassazione con la recentissima ordinanza n. 1174 del 26 aprile 2024 ha rimesso all’ill. ma Corte di Giustizia dell'Unione Europea alcune questioni interpretative ai sensi dell'art. 267 TFUE, all'uopo chiedendo, in sintesi, se sia possibile e, quindi, se sia legittimo riconoscere al consumatore il diritto a far valere questioni di nullità /inefficacia di clausole abusive contenute nei contratti da esso sottoscritti con il ricorso in cassazione all'esito della pronuncia adottata in sede di rinvio.
Giova evidenziare come nella fattispecie, sottesa al rinvio della S.C., non si ponga un problema di superabilità del giudicato, essendo il titolo giudiziale, in considerazione della pendenza del giudizio di rinvio, ancora in formazione.
Più precisamente, la Corte Suprema di Cassazione ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni interpretative:
“Se l’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, e l’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea debbano essere interpretati:
(a) nel senso che ostino all’applicazione dei principi del procedimento giurisdizionale nazionale, in forza dei quali le questioni pregiudiziali, anche in ordine alla nullità del contratto, che non siano state dedotte o rilevate in sede di legittimità, e che siano logicamente incompatibili con la natura del dispositivo cassatorio, non possono essere esaminate nel procedimento di rinvio, né nel corso del controllo di legittimità a cui le parti sottopongono la sentenza del Giudice di rinvio;
(b) anche alla luce della considerazione circa la completa passività imputabile ai consumatori, qualora non abbiano mai contestato la nullità/inefficacia delle clausole abusive, se non con il ricorso per cassazione all’esito del giudizio di rinvio;
e ciò con particolare riferimento alla rilevazione della natura abusiva di una clausola penale manifestamente eccessiva, di cui sia stata disposta, in sede di legittimità, la rimodulazione della riduzione secondo criteri adeguati (quantum), anche in ragione del mancatorilievo della natura abusiva della clausola a cura dei consumatori (an), se non all’esito della pronuncia adottata in sede di rinvio”
b) In dottrina
Anche il panorama dottrinale risulta particolarmente variegato a dimostrazione dell’equivocità del dato normativo, nonchè dell’estrema complessità della questione.
Ciò che, in genere, preoccupa il versante dottrinale e’, soprattutto, l’incertezza interpretativa riconnessa all’ampliamento della suddetta opzione esegetica, sposata dai giudici nazionale e comunitario, al di là dell’occasione storica che l’ha generata.
In particolare, si e’ affermato che “a prima lettura, la soluzione (estensiva) può sollevare alcune preoccupazioni soprattutto per il possibile abuso da parte di avvocati, consumatori e finanche giudici dell’esecuzione, che, data la generale “incertezza del diritto” potrebbero cercare – a ragion veduta per i consumatori e i loro difensori (non per i giudici) – di rimettere in discussione rapporti che, precedentemente al 17 maggio 2022, sarebbero stati considerati definitivi”.
Inoltre, si e’ anche evidenziato che, a fronte di una CGUE secondo cui il Giudice dell’esecuzione, in quanto Giudice, può rilevare le nullità di protezione a vantaggio del consumatore, le Sezioni Unite hanno fatto riferimento alle sole ipotesi del decreto ingiuntivo non opposto, individuando una sorta di compromesso processuale con la CGUE, ma comunque prevedendo, esplicitamente, l’opposizione tardiva solo nei casi in cui l’opposizione non sia già stata esperita e rigettata.
Ancora si e’ affermato che “la (suddetta tesi estensiva) non prospetta un futuro tranquillo e senza interrogativi per i Tribunali italiani e per la Suprema Corte, che inevitabilmente si troverà nuovamente a pronunciarsi sulla questione, con nuovi contrasti giurisprudenziali, tanto fra i giudici di merito nazionali quanto tra le singole Sezioni in Cassazione”.
In favore della tesi restrittiva, milita anche l’opinione di chi ha prefigurato che i principi sviscerati dalle Sezioni Unite non possano essere estesi “anche ad una sentenza, emessa a valle di un procedimento che si svolge a contraddittorio pieno, quando il consumatore sia rimasto contumace e non vi sia stato alcun rilievo da parte del Giudice circa l'esistenza di clausole abusive”.
A tale questione, ovvero l’estensione dei principi summenzionati anche all’ipotesi di giudizio a cognizione piena, si e’ data risposta negativa non solo quando il titolo giudiziale sia ancora sub iudice e, dunque, il Giudice del gravame sia nelle condizioni di rilevare l’anticomunitarietà della clausola, ma anche nell’ipotesi di passaggio in giudicato della pronuncia.
Ciò in quanto, “anche qualora il Giudice avesse omesso di rilevare la nullità nel corso di un giudizio contumaciale (ma la conclusione rimarrebbe la stessa se il consumatore si fosse costituito), dovrebbe trovare applicazione il principio generale della conversione dei motivi di nullità in motivi di gravame (art. 161, comma 1°, cod. proc. civ.)”, con conseguente sanatoria del vizio con l’acquisizione da parte del provvedimento del crisma della definitività.
D’altronde, la contumacia, nell’ordinamento interno, non equivale a ficta confessio, lasciando impregiudicato l’operare dell’onere della prova in capo al creditore.
Dunque, seguendo questa traiettoria argomentativa, dovrebbe ritenersi impedito al G.e. la facoltà di rilevare l'anticomunitarieta’ della clausola.
A fronte di tale impostazione ve ne e’ un’altra che valorizza e, nella logica di una valutazione comparativa degli interessi contrapposti, considera prevalente la necessità “.. del pieno dispiegamento del diritto di azione e di difesa in giudizio..”. Ciò, almeno, quando vengano in rilievo “diritti a tutela forte come quello in esame”.
Tale approccio muove solitamente dalla rivisitazione dell’insegnamento tradizionale della Corte di cassazione, secondo cui il giudicato implicito sarebbe un vero e proprio giudicato[5] in quanto esteso a profili che, per quanto in relazione di presupposizione logica con il dispositivo e, dunque, con la statuizione finale, non sono mai stati dedotti in giudizio, né sono stati esternati in sede di motivazione.
Per contro, secondo altri autori che non contestano la categoria del giudicato c.d. implicito e <<allargato>>, “proprio dalle quattro pronunce della CGUE parrebbe ricavarsi l’affermazione per cui il giudicato non impedirebbe mai il rilievo della clausola abusiva non effettivamente analizzata “a prescindere dal procedimento giurisdizionale utilizzato, sia a cognizione piena , sia sommaria”, con la conseguenza di “aprire le porte all’accertamento anche e proprio quando l’opposizione ex art 645 sia proposta fuori termine”.
E’ stato anche affermato che la possibilità per il G.e. di sindacare l'anticomunitarietà delle clausole del contratto, azionato in sede esecutiva, “è una conclusione assolutamente pacifica per i giudici di Plateau Kirchberg., oltre che “pienamente condivisibile dal punto di vista dell'effettività della tutela del consumatore”. E ciò, in quanto il giudicato “in tanto può ritenersi anche sostanzialmente corretto (in relazione alla tutela del consumatore, parte processualmente debole) in quanto l'accertamento sull'eventuale abusività delle clausole contrattuali sia stato effettivamente compiuto dall'organo giurisdizionale che ha emesso la decisione”.
Inoltre, tale principio avrebbe portato generale e conserverebbe la sua validità “a prescindere dal procedimento giurisdizionale in concreto utilizzato, e dunque sia che si tratti di processo a cognizione piena, sia che si tratti di processo a cognizione sommaria”.
Dunque, sarebbe scorretto, oltre che fortemente riduttivo, affermare “come è stato fatto da parte di alcuni, che la Corte di giustizia non abbia fatto altro, nelle pronunce del 17-5-2022, che recepire la tesi, tutta italiana e per molti versi discutibile, della c.d. preclusione pro judicato che scaturirebbe dal decreto ingiuntivo non opposto”.
D’altronde, a dispetto della bontà di tal ultima ricostruzione, la Corte di Giustizia, in conformità al prevalente orientamento della nostra giurisprudenza di legittimità, secondo cui il decreto ingiuntivo non opposto produrrebbe un giudicato vero e proprio al pari di quello che si forma a seguito di una sentenza, “ha sempre assunto - e correttamente - una nozione unitaria di cosa giudicata, pienamente confermata dalle quattro pronunce del 2022”.
4. Disposizioni di diritto dell'unione europea
Ai sensi dell'art. 7.1 della direttiva 93/13/CEE "Gli Stati membri, nell'interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori"
L'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che, come noto, nasce dalla comunitarizzazione della Carta di Nizza, prevede che "Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un Giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.
Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un Giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare (...)".
Ai sensi dell'art. 19.1 secondo periodo TUE: "Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione.".
4.1. I limiti all'autonomia procedurale degli Stati membri.
In via preliminare, come già rilevato dal Tribunale di Milano, in sede di remissione alla CGUE, la scelta dei mezzi di tutela giudiziaria azionabili dai singoli per l’ipotesi di lesione delle situazioni giuridiche soggettive di origine comunitaria è rimessa tradizionalmente all'autonomia procedurale degli Stati membri cui compete anche la conformazione delle procedure connesse alla disamina del carattere abusivo di una clausola contrattuale.
Nondimeno, le stesse devono essere rispettose dei principi di effettività e equivalenza la cui osservanza costituisce condizione di compatibilità comunitaria.
Principi, in quanto tali, dal contenuto necessariamente aperto e in grado di assicurare un sindacato, sempre più, penetrante in capo al Giudice comunitario del contenuto delle scelte normative nazionali e, dunque, anche della discrezionalità legislativa dello Stato italiano; la quale, diversamente, sarebbe sottoposta al solo limite della ragionevolezza[6], come noto, inizialmente, mediato dall’art. 3 Cost. ma dotato, oramai, di una propria autonomia precettiva.
Dunque, sotto il primo profilo, eventuali limiti di natura processuale non dovrebbero rendere sostanzialmente impossibile o eccessivamente complesso l'esercizio dei suddetti diritti.
Con la decisione 15 maggio 1986, C-222/84, J., la Corte di giustizia ha ravvisato nel principio di effettività, sancito anche dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, un "principio giuridico generale su cui sono basate le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri". Tale principio, successivamente anche codificato dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 47), è stato progressivamente ampliato nella propria portata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Se, con la citata sentenza Rewe, era stato affermato che le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario non possono rendere "in pratica, impossibile l'esercizio di diritti" conferiti dall'ordinamento comunitario, successivamente la stessa Corte ha ripetutamente affermato che le modalità procedurali dei ricorsi interni non possono "rendere impossibile o eccessivamente difficile" l'esercizio dei diritti riconosciuti dal diritto dell'Unione europea (tra le tante, Corte di giustizia, 16 marzo 2006, C-234/04, K., Corte di giustizia, 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento O., Corte di giustizia, 5 giugno 2014, C-557/12, Kone).
Da un contesto interpretativo, nel quale sembrava rilevare solo un sostanziale diniego di giustizia, si e’ passati ad un altro, oramai consolidato, nell’ambito del quale rileva anche la mera presenza di ostacoli giuridici, idonei a affievolire la tutela accordata alle situazioni giuridiche di rilievo comunitario.
Risulta così delineato un obbligo di funzionalizzazione del diritto processuale interno al fine di garantire piena effettività al diritto sostanziale dell'Unione che ha trovato frequente affermazione anche nella materia consumeristica.
Per quanto concerne il secondo aspetto, che richiama il principio interno di eguaglianza, sancito dall’art. 3, comma 1, Cost., la Corte digiustizia (v. decisione 16 dicembre 1976, C-33/76, Rewe) ha avuto modo affermare che le regole nazionali in materia di tutela processuale delle situazioni soggettive di origine comunitaria non possono essere meno favorevoli di quelle preposte alla tutela di analoghe situazioni soggettive fondate su norme nazionali (c.d. "principio di equivalenza") e non possono rendere, in pratica, impossibile l'esercizio di diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare (c.d. "principio di effettività").
4.2. La giurisprudenza della Corte di giustizia sui doveri del Giudice in materia di tutela del consumatore e di superabilità del giudicato.
Per quanto concerne il diverso profilo dei poteri del Ge, in sede esecutiva, a fronte di una clausola che appaia vessatoria, come già rilevato dal Tribunale milanese, in sede di rinvio alla CGUE, in relazione alla fattispecie del decreto non opposto, la Corte di giustizia, sin dalla sentenza 27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, E.G.E. e S.E., ha affermato che "il sistema di tutela istituitodalla direttiva è fondato sull'idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il grado di informazione, situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista, senza poter incidere sul contenuto delle stesse" (in termini, tra le tante, Corte di giustizia, 14 giugno 2012, C- 618/10, B.E.C. SA, Corte di giustizia, 6 ottobre 2009, C-40/08, Asturcom, Corte di giustizia, 26 ottobre 2006, C-168/05, M.C.) e che l'"obiettivo perseguito dall'art. 6 della direttiva, che obbliga gli Stati membri a prevedere che le clausole abusive non vincolino i consumatori, non potrebbe essere conseguito se questi ultimi fossero tenuti a eccepire essi stessi l'illiceità di tali clausole. In controversie di valore spesso limitato, gli onorari dei legali possono essere superiori agli interessi in gioco, il che può dissuadere il consumatore dall'opporsi all'applicazione di una clausola abusiva. Sebbene in controversie del genere le norme processuali di molti Stati membri consentano ai singoli di difendersi da soli, esiste un rischio non trascurabile che, soprattutto per ignoranza, il consumatore non faccia valere l'illiceità della clausola oppostagli. Ne discende che una tutela effettiva del consumatore può essere ottenuta solo se il Giudice nazionale ha facoltà di valutare d'ufficio tale clausola".
Peraltro, quella che, nella citata sentenza del 2000, era, per il Giudice, una mera facoltà, è divenuta, con la sentenza della Corte del 4 giugno 2009, C-243/08, Pannon GSM Zrt, un vero e proprio dovere di esame officioso della abusività della clausola a partire dal momento in cui il Giudice disponga "degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine" (e ferma la necessità di acquisire la manifestazione di volontà del consumatore di avvalersi della natura abusiva e non vincolante della clausola).
Dovere che risulta coerente con il compito del Giudice di garantire l'" effetto utile" della tutela cui mirano le disposizioni della direttiva 93/13/CEE la quale costituisce "un provvedimento indispensabile per l'adempimento dei compiti affidati alla Comunità e, in particolare, per l'innalzamento del livello e della qualità della vita al suo interno" (Corte di giustizia, 26 ottobre 2006, C-168/05, M.C.).
D’altronde, tutti “i giudici nazionali, di ogni funzione e grado, è bene…….organi dell'ordinamento eurounitario, investiti del "dovere di tutelare" i diritti che l'ordinamento comunitario attribuisce ai singoli, siccome ribadito dalla Corte di Giustizia dalla storica sentenza Van Geend en Loos (1963) in poi”.
Del resto, la decisione summenzionata ha anche osservato che l'art. 6, n. 1 della direttiva è "una norma imperativa che, in considerazione dell'inferiorità di una delle parti contrattuali, mira a sostituire all'equilibrio OR.10 formale che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l'uguaglianza delle parti stesse" e che "La natura e l'importanza dell 'interesse pubblico su cui si fonda la tutela che la direttiva garantisce ai consumatori giustificano inoltre che il Giudice nazionale sia tenuto a valutare d'ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, in tal modo ponendo un argine allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista" (nello stesso senso, tra le altre, Corte di giustizia, 14 marzo 2013, C-415/11, Aziz).
La natura qualificata del predetto interesse, sotteso alla direttiva 93/13/CEE, rinviene conferma nella circostanza che la Corte ha assimilato l'art. 6 della direttiva 93/13/CEE alle norme nazionali d'ordine pubblico (tra le tante, Corte di giustizia, 21 dicembre 2016, cause riunite C-154/15, C-307/15 e C-308/15, F.G.N., Corte di giustizia, 30 maggio 2013, C-488/11, Dirk Frederik Asbeek Brusse, Katarina de Man Garabito, Corte di giustizia, 6 ottobre 2009, C-40/08, Asturcom).
Nel medesimo senso della doverosità del rilievo, la CGUE si e’ espressa nella pronuncia Banco Español de Crédito, che ha esteso tale principio anche alla fase monitoria e, quindi, sommaria del procedimento ingiuntivo. Ciò, per quanto il procedimento si svolga a cognizione, per l’appunto, non piena e, inaudita altera parte, con conseguente facoltà per il consumatore di eccepire l'abusività della clausola nella successiva fase del giudizio di opposizione.
D'altro canto, tale dovere si attualizza non appena il Giudice abbia nella propria disponibilità conoscitiva gli elementi di fatto e di diritto che si rendano necessari a tal fine.
Da ciò quelle pronunce che, in applicazione sia del principio dell'equivalenza, sia del principio di effettività della tutela, hanno attribuito al Giudice nazionale poteri istruttori officiosi (Corte di giustizia, 4 giugno 2015, C-497/13, F.F.; Corte di giustizia, 9 novembre 2010, C- 137/08, V.P.L.) e quelle decisioni (sulle quali a breve si tornerà) che, a determinate condizioni, hanno previsto la superabilità del giudicato.
Esistono precedenti della CGUE di segno antitetico.
Invero, già con la decisione 1 giugno 1999, C-126/97, Eco Swiss, la Corte di giustizia ha affermato che il diritto comunitario non impone al Giudice nazionale di disapplicare le norme (poste a presidio del principio della certezza del diritto) disciplinanti la formazione della cosa giudicata anche ove una simile disapplicazione consentirebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con tale diritto (in senso analogo, più di recente, anche Corte di giustizia, 10 luglio 2014, C-213/13, Impresa P.C. SpA; Corte di giustizia, 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento O.).
La rilevanza del giudicato nella prospettiva tanto della stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, quanto della buona amministrazione della giustizia, cosi come della tutela del legittimo affidamento, è del resto stata in più occasioni ribadita dalla Corte (tra le altre, Corte di giustizia, 10 luglio 2014, C-213/13, Impresa P.C. SpA; Corte di giustizia, 16 marzo 2006, C-234/04, K.). Nello stesso senso, in modo assai efficace, l'Avvocato Generale nei procedimenti riuniti C-392/04, i-21 G. GmbH e C-422/04, A.O.A. KG, ha osservato che " il diritto aborre il disordine e che per questo si è dotato di strumenti per lottare contro la sua principale causa: l'instabilità".
Nondimeno, per quanto concerne il peculiare ambito della tutela consumieristica, la Corte di giustizia ha assunto decisioni che, subordinatamente all’osservanza di talune condizioni, hanno ammesso la superabilità del giudicato.
Nella decisione del 6 ottobre 2009, C-40/08, Asturcom la Corte ha escluso che, in applicazione del principio di effettività della tutela, il Giudice spagnolo, investito di una domanda di esecuzione forzata di un lodo arbitrale non impugnato e formatosi all'esito diprocedimento al quale il consumatore non ha partecipato, possa rilevare d'ufficio la vessatorietà di una clausola contrattuale (nella specie, la clausola con la quale era individuata la sede dell'ente arbitrale).
Ciò perché "il rispetto del principio di effettività non può, in circostanze come quelle della causa principale, giungere al punto di esigere che un Giudice nazionale debba non solo compensare un'omissione procedurale di un consumatore ignaro dei propri diritti, come nella causa che ha dato luogo alla citata sentenza M.C., ma anche supplire integralmente alla completa passività del consumatore interessato che, come la convenuta nella causa principale, non ha partecipato al procedimento arbitrale e neppure proposto un'azione d'annullamento contro il lodo arbitrale divenuto per tale fatto definitivo".
Tale decisione è stata adottata nonostante l'Avvocato Generale Trstenjak (pp. 59 ss. delle Conclusioni) avesse ritenuto che il rilievo officioso da parte del Giudice nazionale fosse la soluzione maggiormente conforme all'obiettivo di tutela del consumatore perseguito dalla direttiva 93/13 e che all'inerzia del consumatore nel procedimento all'esito del quale si è formato il titolo esecutivo (procedimento, tra l'altro, in concreto non svolto innanzi ad un Giudice) potesse porsi rimedio in sede di esecuzione di quello stesso titolo.
Peraltro, nella stessa sentenza, la Corte ha, comunque, ritenuto superabile il giudicato sulla base del principio di equivalenza al ricorrere di precise condizioni che ha provveduto a enucleare e ha, quindi, affermato che "qualora un Giudice nazionale investito di una domanda per l'esecuzione forzata di un lodo arbitrale definitivo debba, secondo le norme procedurali interne, valutare d'ufficio la contrarietà di una clausola compromissoria con le norme nazionali d'ordine pubblico, egli è parimenti tenuto a valutare d'ufficio il carattere abusivo di detta clausola alla luce dell'art. 6 della direttiva 93/13".
Con la sentenza 18 febbraio 2016, C-49/14, F.E. SA, la Corte (chiamata a decidere sulla domanda formulata dal Giudice richiesto di emettere l'ordine di esecuzione relativamente ad una ingiunzione di pagamento emessa - sulla base di un contratto contenente clausole vessatorie- dal "Secretano judicial" -ed in assenza di intervento di un Giudice- secondo la disciplina al tempo vigente in Spagna), ha,invece, ritenuto in contrasto con il principio di effettività della tutela prevista dalla direttiva 93/13/CEE la disciplina processuale nazionale che non consenta, nell'ambito del procedimento d'ingiunzione di pagamento o di quello di esecuzione dell'ingiunzione di pagamento, un controllo d'ufficio della potenziale natura abusiva delle clausole inserite nel contratto dal quale deriva il credito portato dall'ingiunzione.
Con la sentenza 26 gennaio 2017, C-421/14, B.P. SA, la Corte di giustizia in relazione ad un’ipotesi di giudicato esplicito, in punto di conformità alla disciplina consumieristica delle clausole contrattuali, ha escluso che, sulla base della direttiva 93/13/CEE, il Giudice nazionale possa riesaminare d'ufficio il carattere abusivo delle clausole di un contratto qualora la legittimità (sulla base della citata direttiva) di tutte le clausole contrattuali sia già stata accertata con decisione passata in giudicato e ha, invece, affermato che "in presenza di una o di più clausole contrattuali la cui eventuale abusività non sia OR.12 stata ancora esaminata nell'ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere ce nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un'opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d'ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l'eventuale abusività di tali clausole". In proposito, è sufficiente leggere quanto la Corte ha affermato già nel 2017, nella causa Banco Primus: «la direttiva n. 93/13 deve essere interpretata nel senso che non osta a una norma nazionale, come quella risultante dall'articolo 207 della Ley 1/2000, de Enjuiciamiento Civil, che vieta al Giudice nazionale di riesaminare d'ufficio il carattere abusivo delle clausole di un contratto, qualora sia stato già statuito sulla legittimità di tutte le clausole di tale contratto alla luce di detta direttiva con una decisione munita di autorità di cosa giudicata. Per contro, in presenza di una o più clausole contrattuali la cui eventuale abusività non sia ancora stata esaminata nell'ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che il Giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un'opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d'ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l'eventuale abusività di tali clausole»(6). In questo caso - essendo il riferimento all'art. 207, par. 4, della LEC spagnola, che disciplina il principio dell'autorità di cosa giudicata e in base al quale «decorsi i termini previsti per proporre ricorso, qualsiasi decisione che non sia stata impugnata diviene definitiva e acquisisce autorità di cosa giudicata» - è evidente che la Corte di giustizia assuma una posizione di carattere generale, che non riguarda affatto la sola ipotesi del decreto ingiuntivo non opposto.
Ove risultasse precluso un simile controllo, infatti, la tutela del consumatore sarebbe "incompleta ed insufficiente e costituirebbe un mezzo inadeguato ed inefficace per far cessare l'utilizzo di questo tipo di clausole, contrariamente a quanto disposto all'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13" (così la decisione da ultimo citata).
A tal riguardo, giova menzionare anche le conclusioni della CGUE nella sentenza Pénzügy secondo cui, perché divenga possibile il rilievo dell'abusività, il Giudice nazionale deve adottare le opportune iniziative istruttorie. Ciò, in quanto ciò2 necessario per consentire l’osservanza di una norma imperativa di ordine pubblico(23). Peraltro, nei casi Pannon e Pénzügy, inerenti a procedimenti giudiziari, celebrati in ungheria e, funzionalmente, assimilabili alla procedura monitoria interna, il consumatore aveva proposto opposizione all'ingiunzione di pagamento a favore del professionista, introducendo il giudizio a cognizione piena, omettendo, tuttavia, di eccepire la natura abusiva della clausola derogatoria della competenza del foro del consumatore.
Nondimeno, il Giudice comunitario ha ritenuto ricorrere i presupposti per l’attivazione del potere di rilievo officioso del Giudice.
Da ultimo deve evocarsi l’intervento della Corte di Giustizia del 17 maggio 2022, secondo cui, a fronte di un decreto ingiuntivo non opposto, il Giudice dell’esecuzione ha il potere-dovere di esaminare d’ufficio il regolamento contrattuale, da cui germina il credito azionato in via monitoria.
E ciò al fine di verificare se lo stesso ricomprenda clausole abusive, la cui nullità è in grado di incidere sull’an o sul quantum della posta creditoria azionata, nonostante che essa sia oggetto del provvedimento monitorio avente ormai natura di cosa giudicata.
In particolare, devono richiamarsi i seguenti principi affermati con quattro diverse pronunce:
a) Corte Giust. UE 17 maggio 2022 Cause riunite C-693/19 e C-831/19, secondo cui: “L'art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un Giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il Giudice dell'esecuzione non possa - per il motivo che l'autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità - successivamente controllare l'eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come "consumatore" ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo”;
b) Corte Giust. UE 17 maggio 2022, C-600/191) secondo cui:
1)“L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che, a causa degli effetti dell’autorità di cosa giudicata e della decadenza, non consente né al Giudice di esaminare d’ufficio il carattere abusivo di clausole contrattuali nell’ambito del procedimento di esecuzione ipotecaria, né al consumatore, dopo la scadenza del termine per proporre opposizione, di far valere il carattere abusivo di tali clausole nel procedimento in parola o in un successivo procedimento dichiarativo, quando dette clausole siano già state oggetto, al momento dell’avvio del procedimento di esecuzione ipotecaria, di un esame d’ufficio da parte del Giudice quanto al loro eventuale carattere abusivo, ma la decisione giurisdizionale che autorizza l’esecuzione ipotecaria non comporti alcun punto della motivazione, nemmeno sommario, che dia atto della sussistenza dell’esame in parola né indichi che la valutazione effettuata dal Giudice di cui trattasi in esito a tale esame non potrà più essere rimessa in discussione in assenza di opposizione nel termine citato.
2) L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che non autorizza un organo giurisdizionale nazionale, che agisce d’ufficio o su domanda del consumatore, a esaminare l’eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali quando la garanzia ipotecaria sia stata escussa, il bene ipotecato sia stato venduto e i diritti di proprietà relativi a tale bene siano stati trasferiti a un terzo, purché il consumatore il cui bene è stato oggetto di un procedimento di esecuzione ipotecaria possa far valere i suoi diritti in un procedimento successivo, al fine di ottenere il risarcimento, ai sensi della direttiva in parola, delle conseguenze economiche risultanti dall’applicazione di clausole abusive;
c) Corte Giust. UE 17 maggio 2022, C-725/19, secondo cui: “L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che non consente al Giudice dell’esecuzione di un credito, investito di un’opposizione a tale esecuzione, di valutare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole di un contratto stipulato tra un consumatore e un professionista che costituisce titolo esecutivo, dal momento che il Giudice di merito, che può essere investito di un’azione distinta di diritto comune al fine di fare esaminare il carattere eventualmente abusivo delle clausole di un siffatto contratto, può sospendere il procedimento di esecuzione fino a che si pronunci sul merito solo dietro versamento di una cauzione di un’entità che è idonea a scoraggiare il consumatore dall’introdurre e dal mantenere un siffatto ricorso”;
d) Corte Giust. UE 17 maggio 2022, C-869/19, secondo cui: “L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che esso osta all’applicazione di principi del procedimento giurisdizionale nazionale, in forza dei quali il Giudice nazionale, adito in appello avverso una sentenza che limita nel tempo la restituzione delle somme indebitamente corrisposte dal consumatore in base a una clausola dichiarata abusiva, non può sollevare d’ufficio un motivo relativo alla violazione della disposizione in parola e disporre la restituzione integrale di dette somme, laddove la mancata contestazione di tale limitazione nel tempo da parte del consumatore interessato non possa essere imputata a una completa passività di quest’ultimo”;
Peraltro, in sede motiva, la Cgue evidenzia, proprio con riguardo al giudicato implicito, come “una normativa nazionale secondo la quale un esame d'ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall'autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell'importanza dell'interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l'obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d'ufficio dell'eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali”.
Viene, cioè, stigmatizzata l’assenza di un sindacato d’ufficio effettivo da parte del giudice nazionale, quale giudice comunitario, investito della tutela di interessi di valore anche sovranazionale, perché lo squilibrio non riparato e’ in grado di condizionare lo stesso corretto funzionamento del mercato unico.
Ne consegue che “in un caso del genere, l'esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell'esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l'eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione”.
Peraltro, l'obbligo, per il Giudice, di sindacare d'ufficio l'abusività delle clausole contrattuali si attualizza «a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine».
Ciò, dovrebbe avvenire, di norma, nel necessario rispetto del contraddittorio sul punto, ai fini della sua eventuale non applicazione.
Invero, la CGUE, nella sentenza Banco Español de Crédito, ha riconosciuto che il dovere di rilevabilità d'ufficio dell'abusività della clausola contrattuale sussiste anche per la procedura monitoria, per quanto “essa si svolga a cognizione sommaria e inaudita altera parte e quindi lasci la possibilità per il consumatore di sollevare la questione dell'abusività della clausola nella successiva fase dell'opposizione a cognizione piena”.
Piu’ recente e’ la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, del 29 febbraio 2024 (Pres. Rel. Spineanu-Matei), pronunciata in sede di rinvio pregiudiziale. La stessa ha avuto modo di precisare come l’art. 7, par. 1, della direttiva 93/13/CEE concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori “non osta a una normativa nazionale che, a causa della decadenza, non consente al Giudice investito dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento di controllare, d’ufficio o su istanza del consumatore, l’eventuale carattere abusivo delle clausole contenute in un contratto di credito stipulato tra un professionista e un consumatore, qualora un siffatto controllo sia già stato effettuato da un Giudice nella fase del procedimento d’ingiunzione di pagamento, purché tale Giudice abbia individuato, nella sua decisione, le clausole che sono state oggetto di tale controllo, abbia esposto, anche solo sommariamente, le ragioni per le quali dette clausole non avevano carattere abusivo e abbia indicato che, in mancanza dell’esercizio, entro il termine impartito, dei mezzi di ricorso previsti dal diritto nazionale contro la decisione in parola, il consumatore decadrà dalla possibilità di far valere l’eventuale carattere abusivo di dette clausole”.
Né la disposizione in questione osta “a una normativa nazionale che non consente al Giudice investito dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento di adottare d’ufficio misure istruttorie al fine di accertare gli elementi di fatto e di diritto necessari per controllare l’eventuale carattere abusivo delle clausole contenute in un contratto di credito stipulato tra un professionista e un consumatore, qualora il controllo effettuato dal Giudice competente nella fase del procedimento d’ingiunzione di pagamento non soddisfi i requisiti del principio di effettività per quanto riguarda tale direttiva”.
Il giudizio principale, celebrato in Spagna, si caratterizzava per l’iniziativa di un intermediario finanziario che aveva proposto domanda di ingiunzione di pagamento nei confronti di un consumatore, azionando un contratto di finanziamento, rispetto al quale il debitore era rimasto inadempiente.
Il Giudice del procedimento monitorio non aveva ravvisato l’esistenza di clausole contrattuali abusive, mentre il Giudice dell’esecuzione aveva evidenziato come il creditore non avesse allegato a sostegno delle proprie pretese alcun certificato o documento contabile inerente alla somma richiesta, a titolo di “capitale non pagato”, né aveva provveduto a specificare le modalità di conteggio di detto importo.
Tale scelta, a giudizio del Giudice dell’esecuzione, rappresentava una circostanza sintomatica della volontà di occultare eventuali clausole abusive contenute nel contratto di credito. E ciò in quanto diveniva impossibile verificare che l’importo richiesto equivalesse a quello effettivamente dovuto.
Il Giudice dell’esecuzione, pertanto, aveva ritenuto che il controllo di abusività del regolamento contrattuale fosse stato eseguito nel corso del giudizio monitorio, senza disporre di tutte le informazioni necessarie a tal fine.
Quindi, aveva proposto formulato domanda di rinvio pregiudiziale, chiedendo se, nonostante le decadenze previste dalla normativa spagnola, tale controllo fosse possibile in sede d’esecuzione in forza dell’art. 7, par. 1, della direttiva 93/13/CEE.
Dunque, volendo tentare di astrarre i principi conformativi della prassi interpretativa del Giudice comunitario, si può affermare che il controllo d’ufficio debba essere sempre assicurato, in assenza di un giudicato esplicito, o in sede di giudizio di cognizione (sia essa sommaria sia essa piena), o, in alternativa, in sede esecutiva.
Solo l’osservanza di questa alternativa, proiettata sulla vicenda processuale considerata nel suo complesso, consente di preservare la tenuta comunitaria del sistema processuale degli stati membri.
5. Profili rilevanti per la disamina della questione
5.1.La giurisprudenza della Corte di giustizia e della Suprema Corte italiana, sulla qualificazione del garante come consumatore.
In via preliminare, deve precisarsi la peculiare ampiezza della portata operativa raggiunta dalla figura di consumatore, quale concetto, da sempre, dai contorni sfuggenti anche perché in continua evoluzione per effetto delle acquisizioni interpretative.
In particolare, il problema ha inerito, innanzittuto, alla qualificazione in termini di consumatore del garante-fideiussore.
Occorre premettere che la disciplina consumeristica riguarda tutti i contratti soggettivamente imputabili ad un consumatore, senza alcuna perimetrazione e senza alcuna limitazione di tipo oggettivo, quindi contratti tipici e atipici, contratti che abbiano ad oggetto un dare, un fare o non facere, aleatori o non aleatori, sinallagmatici e non sinallagmatici, onerosi o gratuiti.
Non esiste, infatti, alcuna enucleazione di un particolare tipo o di uno specifico oggetto contrattuale.
Inoltre, la nozione di consumatore non è uno status fisso, ma è una condizione variabile, che non dipende cioè da chi è, in assoluto, il soggetto, ma dalla ragione economica concreta della singola operazione.
Ne deriva quindi, che un soggetto può essere, in concreto, sia professionista sia consumatore, acquisendo l’una o l’altra veste, in dipendenza dalla valutazione della finalità del singolo contratto, ovvero ove lo stesso risulti diretto al perseguimento di interessi di carattere consumeristico o meno.
Inoltre, rileva lo scopo quale estrinsecato nel programma negoziale e quale emergente dall’insieme dell’operazione economica, anche eventualmente complessa, e non anche il movente soggettivo dell’autore dell’atto che non sia estrinsecato nel contenuto del contratto e, per ipotesi, collida con quanto estrinsecato in esso.
In ultimo, non è necessario che, accanto allo scopo professionale, vi sia anche l’inerenza alla professione dell’atto compiuto e, quindi, la c.d. tipicità professionale.
Invero, in origine, era prevalsa la seconda tesi ovvero quella che richiedeva la tipicità o normalità professionale dell’atto e che reputava insufficiente lo scopo professionale.
Si affermava che, in questo modo, si sarebbe ampliata la nozione di consumatore e si sarebbe conseguito un esito rilevante, in termini di maggiore efficienza dell’applicazione della disciplina.
In secondo luogo, sarebbe stata inveterata la ratio della normativa consumieristica che è quella di accordare adeguata protezione al soggetto inesperto, e un soggetto è inesperto quando stipula contratti che non conosce, e sono tali quelli che, pur avendo fini professionali, non sono propri della professione e non sono quindi conosciuti, sul piano esperienziale, dal professionista.
In questo senso, e’ richiamabile Corte di Giustizia, 3 settembre 2015, c-110/14 che ha affermato che un “«consumatore» è qualsiasi persona fisica che, nei contratti oggetto di detta direttiva, agisce per fini che non rientrano nell’ambito della sua attività professionale”.
Dunque, la Corte ha ribadito come quello del consumatore non sia uno status astratto, ovvero proprio di una persona considerata nelle sue astratte caratteristiche, bensì una condizione soggettiva variabile condizionata dallo scopo della singola vicenda negoziale.
Dunque, lo stesso soggetto può assumere la veste di professionista o di consumatore a seconda che il singolo contratto sia preordinato in concreto alla realizzazione di un fine professionale o personale.
Al contempo, l’assunzione della qualità di consumatore non dipende dalla ricorrenza di una situazione di effettiva debolezza contrattuale dello stesso e dalla sua verifica, essendo sufficiente solo un’analisi di tipo oggettivo e teleologica dell’estraneità della contrattazione alla professione eventualmente esercitata.
D’altro canto, coerentemente con tali premesse concettuali, la pronuncia ha affermato il principio per cui qualora un soggetto stipuli un contratto di garanzia, al fine di stabilire se costui sia un professionista o un consumatore, e’necessario verificare lo scopo (obiettivato e non meramente soggettivo) che persegue colui che rilascia la garanzia ovvero lo scopo a cui è funzionale il debito garantito.
Sotto il versante interno, un certo filone della giurisprudenza di legittimità (minoritaria) ha ritenuto che fosse possibile una considerazione autonoma della qualità soggettiva del garante.
Per contro, fino ai più recenti approcci, si e’ ritenuto che dovesse guardarsi al fine, non solo del singolo segmento negoziale dell’unitaria operazione economica, ma di tal ultima, con la conseguenza che, ai fini della individuazione del concreto profilo causale, avrebbe avuto rilievo il contratto principale e non il contratto di carattere accessorio (così Cass. 11 gennaio 2011, n. 314).
Orbene, la Corte di Giustizia[7] ha adottato una soluzione mediana e improntata ad un approccio casistico e teso alla valorizzazione delle caratteristiche della fattispecie concreta.
Ne conseguirebbe che, sulla base di una disamina puntuale del caso di specie, dovrebbe, di volta in volta, distinguersi a seconda che la garanzia provenga da un soggetto, investito di una posizione connessa all’attività imprenditoriale, esercitata dal debitore garantito oppure sia rilasciata per finalità estranee alla medesima attività.
La stessa Corte (Corte di giustizia, 14 settembre 2016, C-534/15, Dumitras; Corte di giustizia, 19 novembre 2015, C-74/15, Tarcau) ha successivamente ritenuto che "Gli articoli 1, paragrafo 1, e 2, lettera b), della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contralti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che tale direttiva si applica a un contratto di garanzia immobiliare stipulato tra persone fisiche e un ente creditizio al fine di garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di detto ente in base a un contratto di credito, quando tali persone fisiche hanno agito per scopi che esulano dalla loro attività professionale e non hanno alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta società, circostanze queste che spetta al Giudice del rinvio verificare".
Questa impostazione, peraltro, sembra fatta propria anche dalla Suprema Corte (Cass. 1 febbraio 2016 n. 1862) che ha inteso includere nella nozione di consumatore anche il fideiussore che agisca quale “privato”, in assenza di qualsivoglia collegamento con l’attività professionale svolta.
Inoltre, contribuendo a consolidare tale principio, con la sentenza 13 dicembre 2018, n. 32225 la Suprema Corte ha ritenuto che i "requisiti soggettivi di applicabilità della disciplina legislativa consumeristica in relazione ad un contratto di fideiussione stipulato da un socio in favore della società devono essere valutati con riferimento alle parti dello stesso (e non già del distinto contratto principale), dando rilievo - alla stregua della giurisprudenza comunitaria - all'entità della partecipazione al capitale sociale nonché all'eventuale qualità di amministratore della società garantita assunto dal fideiussore".
Occorre, tuttavia, ribadire che, prima di tali approdi, la giurisprudenza di legittimità, in modo costante, aveva ritenuto che, in presenza di un contratto di fideiussione, il requisito soggettivo della qualità di consumatore andasse riferito all'obbligazione garantita, considerata l'accessorietà dell'obbligazione del fideiussore rispetto all'obbligazione garantita; in questo senso, tra le altre, Cass. 09.08.2016, n. 16827, Cass. 29.11.2011, n. 25212, Cass. 13.05.2005, n. 10107.
5.2. La giurisprudenza della Suprema Corte italiana sulla superabilità del giudicato, conseguente alla presa di posizione del Giudice comunitario: elementi di differenziazione
Le Sezioni Unite della S.C (con la sentenza n. 9479/2023) hanno recepito i principi della CGUE, conformando i poteri del Giudice della fase monitoria e di quella esecutiva:
1. il primo dovrà svolgere d’ufficio il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della causa, con potere di impulso per richiedere il contratto ed eventuali chiarimenti, al fine di verificare l’abusività di clausole a danno del consumatore;
2. il secondo, fino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito, in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo sul profilo di abusitivà delle clausole, dovrà controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/io sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo. In presenza di tali clausole il Giudice dovrà avvisare il debitore esecutato della possibilità di proporre opposizione al decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c., entro 40 giorni, per fare accertare solo ed esclusivamente l’eventuale abusività delle clausole con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo.
D’altronde, come evidenziato in dottrina, l’operata “necessaria saldatura tra ordinamenti, sovranazionale e interno”, “è la cifra, anche culturale, attraverso la quale rendere concretamente operante il principio di effettività”.
La pronuncia, proveniente dal piu’ autorevole consenso del Giudice della nomofilachia, ha destato un vivace dibattito, non scevro da critiche (ad avviso di questo Giudice remittente, ingiustificate).
A tal riguardo, non pare potersi prescindere dalla considerazione, già espressa in via interpretativa, per cui “e’ indubbio che il passaggio da un sistema di legalità incentrato sulla legge nazionale ad un sistema di legalità multilivello abbia accentuato il ruolo del Giudice, legittimando (necessari e indefettibili) processi interpretativi innovativi e nomopoietici”.
Come già sottolineato, non e’ contestabile “la portata senz'altro innovativa di una decisione che costituisce diritto vivente e, de iure condito, rappresenta un passo importante verso una sempre più marcata, discutibile, spontanea trasformazione della giurisprudenza di legittimità da interprete del diritto a vera e propria fonte di produzione delle norme sul modello angloamericano”..
Peraltro, sotto il profilo contenutistico, giova ricordare come le Sezioni Unite del 2023 abbiano tentato di attuare i principi elaborati dalla CGUE, mitigandoli e, quindi, prefigurando un meccanismo procedurale compatibile con l’architettura del processo civile.
Per quanto riguarda il profilo rimediale, se la CGUE aveva riconosciuto in capo allo stesso Ge il potere di rilevare d’ufficio la vessatorietà in assenza di motivazione specifica del decreto ingiuntivo al riguardo anche in chiave meramente negativa, o di una sostanziale “provocatio ad opponendum”, le S.U. del 2023, come già evidenziato, hanno voluto attribuire al G.E. un potere di accertamento solo incidentale e strumentale all’eventuale concessione di un termine per la proposizione di un’opposizione consumieristica.
L’accertamento a cognizione piena, in tale ricostruzione rimediale, spetterebbe solo al Giudice dell’eventuale opposizione tardiva.
A tal fine, viene prefigurata un’ipotesi di caso fortuito e forza maggiore, con conseguente disapplicazione dell’art 650 ultimo comma, così da far decorrere il termine “di 40 giorni”, mutuabile dall’art 641 c.p.c., dal momento della concessione da parte del Giudice.
In particolare, il codice di rito legittima all'opposizione tardiva a decreto ingiuntivo quando ricorra l’ipotesi della mancata notifica del decreto ingiuntivo o della notifica nulla o inesistente, oppure vi siano gli estremi del caso fortuito o della causa di forza maggiore, che gli abbiano precluso di proporre opposizione tempestiva.
Nell’alveo di tali clausole generali alle quali, come evidenziato in dottrina, “sono sempre stati ricondotti tradizionalmente eventi esterni al procedimento monitorio, per definizione estranei al comportamento del Giudice o del debitore”, e’ stato riportato, in modo innovativo, “il deficit informativo contenuto nel decreto ingiuntivo”.
Si tratta di una sorta di error in procedendo attribuibile al Giudice del monitorio e consistente, alternativamente, in una delle predette omissioni: il non aver adeguatamente motivato il decreto ingiuntivo o il non avvertito il consumatore delle conseguenze derivanti dalla mancata opposizione a decreto ingiuntivo.
Omissioni erette al rango di factum principis idoneo a integrare una causa di forza maggiore.
Invero, proprio la descritta metamorfosi del processo esecutivo e dei poteri di chi lo dirige, con una consistente implementazione dei contenuti decisori e di accertamento, seppur in una chiave, spesso, strumentale, ha indotto a ritenere che le Sezioni avrebbero potuto ardire di più e consentire al consumatore di richiedere un accertamento dell’eventuale abusività della regolamentazione contrattuale anche in sede esecutiva.
Secondo taluna dottrina, il meccanismo, prefigurato dalle Sezioni Unite, se da un lato, ha avuto “l'indubbio merito di consentire la caducazione (totale o parziale) del decreto ingiuntivo, e non soltanto il venir meno della sua efficacia esecutiva, con riflessi circoscritti alla singola esecuzione pendente”; dall’altro, non pare ottimizzare il profilo “dell’effettività della tutela giurisdizionale, quale argine unionale all'autonomia degli ordinamenti nazionale”.
Ciò, in quanto “si costringe il consumatore ad iniziare una lite davanti ad un Giudice diverso da quello adito con l'esecuzione (quello dell'opposizione ex art. 650 cod. proc. civ. ….)”, quando sarebbe stato preferibile, per esigenze di economia processuale, facultare il Giudice dell’esecuzione ad un rilievo diretto dell’abusività, prodromico alla dichiarazione di chiusura dell'esecuzione forzata (estinzione cd. anomala).
Inoltre, “rispetto all'esecuzione forzata pendente, si finisce per imporre una sospensione esterna al processo esecutivo (lasciandolo in una situazione di improcedibilità temporanea de facto - in attesa del provvedimento ex art. 649 cod. proc. civ. - e, in ogni caso, mantenendo fermo il pignoramento”.
Esistono, peraltro, altri, non trascurabili, elementi di differenziazione fra i due approdi interpretativi.
Peraltro, quale ulteriore momento di differenziazione fra il modello nazionale e quello comunitario, devono menzionarsi le diverse modalità di funzionamento del rilievo officioso della nullità.
Infatti, diversamente dal disposto della norma nazionale ovvero dell’art. 1421 c.c., che, secondo l’orientamento esegetico più accreditato, delineerebbe una mera facoltà in capo al Giudice, investito della controversia, la giurisprudenza costante della CGUE appare, invece, orientata nel senso della doverosità dell’attivazione di un potere che è preordinato a consentire l’emersione della regola comunitaria sovraordinata e a consentirne l’applicazione in spregio di quella nazionale.
Ciò anche al fine di assicurare l’effetto utile e, dunque, l’effettività del diritto comunitario.
Il suddetto principio – secondo i giudici europei - implica che il Giudice nazionale competente rimetta le parti del contratto affetto dall’abusività di una o più clausole, nello status quo ante, ovvero «nella situazione in cui si sarebbero trovate se tale contratto non fosse stato stipulato per il fatto che una clausola di detto contratto relativo al suo oggetto principale deve essere dichiarata abusiva ..., fermo restando che, se tale ripristino si rivela impossibile, a lui spetta vigilare affinché il consumatore si trovi in definitiva nella situazione in cui si sarebbe trovato se la clausola giudicata abusiva non fosse mai esistita».
Da ciò l’evidente predilezione, da parte dell’ordinamento comunitario, per un modello di tutela di tipo <<reale>> e non meramente monetario, e, dunque, per equivalente e, cioè, destinato a estrinsecarsi in misure di carattere prettamente economico o compensativo.
Dunque, il Giudice nazionale è tenuto a esaminare d’ufficio l’eventuale carattere abusivo della clausola contrattuale che ricada nell’ambito di applicazione della dir. 93/13 e, in tal modo, a ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista, laddove disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine (sentenze del 14 marzo 2013, Aziz, C-415/11, EU:C:2013:164, punto 46 e giurisprudenza ivi citata; del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punto 58, e del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C-421/14, EU:C:2017:60, punto 43).
Come già evidenziato, la soluzione, articolata dalle Sezioni Unite, ha destato un vivace dibattito in relazione al suo impatto sulle regole processuali.
Ciò, anche perchè preordinata a spiegare i propri effetti “non solo rispetto ai provvedimenti monitori che verranno emessi in violazione delle prescrizioni dettate dalla Supr. Corte, ma anche verso quelli che siano già stati notificati, attesa la retroattività degli effetti delle pronunce della Corte di giustizia”.
Infatti, “in termini generali, le pronunce dei giudici europei seguite al rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 TFUE - come pacificamente riconosciuto dalla stessa Corte di giustizia - hanno valore «non costitutivo bensì puramente dichiarativo, con la conseguenza che i suoi effetti risalgono, in linea di principio, alla data di entrata in vigore della norma interpretata».
In particolare, si e’ affermato che la stessa “quanto all'adattamento del rito monitorio alla pronuncia della Corte di giustizia - non pone soverchie questioni, né richiede grossi stravolgimenti al nostro sistema interno: l'esito cui giunge la Supr. Corte è in linea con le proposte interpretative formulate dalla più parte degli interpreti all'indomani della sentenza della Corte di giustizia”.
Nondimeno, “non altrettanto può dirsi quanto alle conseguenze derivanti dalla violazione da parte del Giudice del monitorio di uno di questi adempimenti”.
Per la loro radicalità, devono richiamarsi anche le tesi di chi ha revocato in dubbio la tenuta costituzionale dell’opzione esegetica additata dalla CGUE, in quanto la stessa sarebbe stata violativa del principio nazionale “del legittimo affidamento del creditore sulla validità del titolo esecutivo costituito da un provvedimento giudiziale passato in giudicato”.
A tal riguardo, deve precisarsi come il legittimo affidamento sia nato quale principio generale di cui s’impone la tutela proprio nell’ambito dell’ordinamento comunitario e, per effetto della vigenza nello stesso, ha iniziato a conformare anche le scelte normative e interpretative degli ordinamenti interni.
Orbene, per principio interpretativo consolidato, non e’ configurabile un affidamento tutelabile, quando lo stesso sia nutrito in relazione alla stabilità di un provvedimento affetto da illegittimità, specie se palese.
E non e’ escluso che l’anticomunitarietà, quale vizio di illegittimità qualificata, sia idonea a soddisfare tale condizione.
Invero, vi e’ anche chi, non contestando il dictum del Giudice comunitario, ha ritenuto che l’attuazione dello stesso richiedesse necessariamente l’intervento del legislatore, auspicando l’introduzione di un'ulteriore fattispecie di revocazione straordinaria che si sarebbe andata aggiungere a quella innovativa introdotta dalla riforma Cartabia con riguardo all’ipotesi di violazione delle pronunce della Cedu.
Peraltro, e’ stato evidenziato come la S.C. abbia ristretto il proprio intervento all’ipotesi in cui il procedimento di esecuzione forzata sia pendente, purchè non si sia ancora pervenuti alla liquidazione coattiva mediante la vendita del bene pignorato o all'assegnazione delle somme.
Da ciò il problema del decreto ingiuntivo non opposto che non sia ancora azionato in sede esecutiva oppure dell'esecuzione che sia stata definita senza alcun rilievo da parte del g.e.
Sotto il primo profilo, deve condividersi l’opinione di chi ritiene che all'opposizione tardiva ex art. 650 cod. proc. civ. sia esperibile anche in difetto di un’esecuzione forzata.
In tali ipotesi, mancando un dies a quo da cui far decorrere i 40 giorni per proporre l'opposizione, il rimedio sarebbe azionabile sine die,, curando di allegare all'atto di citazione o al ricorso in opposizione ex art. 650 cod. proc. civ., il decreto ingiuntivo non motivato e privo di un contenuto informativo qualificato.
Per quanto concerne l’eventuale avvenuta vendita del bene, esigenze di coerenza sistematica e di garanzia dell’effettività della tutela impongono di ritenere che il silenzio serbato dalla Suprema Corte non equivalga a un diniego di tutela, nel senso che “al Giudice dell'esecuzione sia precluso il rilievo d'ufficio di quella nullità in sede di distribuzione”.
Più semplicemente, l’eventuale doveroso rilievo non avrebbe l’effetto di invalidare la vendita coattiva, oramai avvenuta con perfezionarsi dell’effetto traslativo, con conseguente salvezza dell’effetto acquisitivo in capo all’aggiudicatario.
S’impone, infatti, la tutela dell’affidamento riposto nella definitività degli effetti giuridici traslativi connessi al perfezionarsi della vendita coattiva.
Al medesimo esito interpretativo, è pervenuta la Corte di giustizia rispetto ad un caso di nullità del titolo esecutivo, dovuta all'esistenza di clausole abusive, contenute nel contratto concluso con il consumatore da cui traeva origine il credito dell'esecutante (e non rilevate dal Giudice della cognizione).
In particolare, in tal senso, si e’ espressa la sentenza della Corte di giustizia Ibercaja Banco del 17-5-2022, secondo cui «il Giudice [dell'esecuzione], che agisce d'ufficio o su domanda del consumatore, non può più procedere a un esame del carattere abusivo di clausole contrattuali che condurrebbe all'annullamento degli atti di trasferimento della proprietà e a rimettere in discussione la certezza giuridica del trasferimento di proprietà già effettuato nei confronti di un terzo» (punto 57).
Laddove, invece, l'azione esecutiva sia stata definita con la distribuzione del ricavato, al debitore esecutato residuerà il rimedio risarcitorio, attivabile nelle forme dell'art. 650 cod. proc. civ.
Come autorevolmente evidenziato, si porrà un problema di prescrizione della pretesa risarcitoria del danno.
A tal riguardo, si condivide il richiamo a quella pronuncia della Corte di giustizia (Corte giust. UE, 8.9.2022, cause riunite C-80/21, C-81/21, C-82/21, Creìdit hypotheìcaire libelleì en devises eìtrangeÌres, ECLI:EU:C:2022:646), che, in armonia con il suo approccio sostanziale anche in materia di conoscenza delle norme da parte dei consociati, ha dichiarato l’anticomunitarietà di una normativa nazionale secondo cui il termine di prescrizione decennale, per la ripetizione di somme indebitamente corrisposte ad un professionista, iniziasse a decorrere dalla data di esecuzione di ciascuna prestazione, anche quando il solvens non fosse consapevole della portata abusività della clausola contrattuale, oppure, pur consapevole, non fosse in grado di far valere l'abusività.
Dunque, il dies a quo potrebbe decorrere solo quando il debitore sia effettivamente consapevole di aver pagato per dare attuazione ad una clausola abusiva.
D’altra parte, come già evidenziato, sotto il profilo dei rapporti fra ordinamento interno e comunitario, ancora ricostruiti in termini di separazione e di contestuale coordinamento, se da un lato, il diritto dell’Unione non armonizza le procedure applicabili all’esame giudiziale del carattere, asseritamente, abusivo di una clausola contrattuale, rimettendone la conformazione della struttura all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in forza del principio dell’autonomia processuale di questi ultimi; dall’altro, le scelte processuali nazionali soggiacciono al duplice limite dell’osservanza del principio di non discriminazione e di effettività della tutela.
Le regole processuali non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e, inoltre, non devono rendere, in pratica, impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività), laddove tal ultima valutazione, da effettuarsi case by case, deve ricomprendere ogni profilo della fattispecie concreta e non arrestarsi alla considerazione del mero dato normativo (v., in particolare, sentenza del 26 giugno 2019, Addiko Bank, C-407/18, EU:C:2019:537, punti 45 e 46 nonché giurisprudenza ivi citata).
Orbene, come evidenziato dalla Corte, ritenere che un provvedimento giurisdizionale possa essere vincolante e spiegare efficacia preclusiva rispetto al rilievo d’ufficio della nullità consumeristica, darebbe luogo a un esito del tutto in contrasto con il principio di effettività.
Dunque, perché il giudicato possa essere opposto, da parte creditrice, è necessario che le questioni consumeristiche siano state espressamente affrontate, semmai perfino con rilievo di ufficio da parte del Giudice e, dunque, purché della loro disamina si abbia contezza nel contesto dell’apparato motivazionale.
A tal riguardo, la Corte si esprime in termini di obbligo di sintetica motivazione, specificando come tale obbligo motivazionale debba essere assolto esplicitando le ragioni essenziali dell’esclusione o del riconoscimento della vessatorietà delle clausole. Dunque, deve ritenersi sufficiente un succinto riferimento all’inesistenza degli estremi della fattispecie invalidante. Graduazione dell’obbligo di motivazione, logicamente, coerente con la natura sommaria del provvedimento.
In alternativa, ad una motivazione così “conformata”, si richiede, in seno al decreto ingiuntivo, la menzione dell’avvertimento, rivolto al consumatore, della definitività dell’accertamento sulla validità del contratto, per l’ipotesi di mancata contestazione.
5.3. L’effettiva portata della pronuncia della Corte alla luce dei principi che regolano i rapporti fra ordinamento nazionale e comunitario: il superamento del solo giudicato implicito latamente inteso e solo per le materie caratterizzate dall’interferenza di norme comunitarie direttamente applicabili e cogenti
Ritiene, sommessamente, questo Giudice che le pronunce, rese dalla Corte di Giustizia il 17 maggio 2022, siano state enucleate in materia consumeristica, ma costituiscano, al contempo, un modello operativo che il Giudice nazionale è chiamato a osservare in tutti gli ambiti di disciplina in cui si assiste alla concorrenza del livello nazionale di tutela (che detta la disciplina di dettaglio o attuativa) e di quello comunitario (che si estrinseca per lo mezzo di direttive generiche o di regolamenti anch’essi dettanti norme puntuali e immediatamente operative).
Dunque, l’intervento della Corte è stato occasionato dalla disciplina in materia di clausole abusive, ma deve ritenersi che la cedevolezza del giudicato, almeno nella forma meno pregnante del c.d. giudicato implicito (su questioni semplicemente deducibili, anche se non dedotte), debba operare ogniqualvolta lo stesso si ponga in contrasto con una norma comunitaria (positiva o scaturente da una pronuncia della CGUE), che, per le sue caratteristiche di sufficiente descrizione del precetto, si ponga in termini di diretta applicabilità.
In tali termini, dovrebbe ricostruirsi l’impatto della pronuncia che - come noto – ha valenza eterointegrativa della disciplina comunitaria oggetto dell’intervento nomofilattico, beneficiano delle stesse caratteristiche della diretta applicabilità e della primazia proprio del diritto comunitario.
Si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla disciplina in materia di ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali, di cui al D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, attuativo della dir. 2000/35/CE e, in particolare, all’art. 7 Nullità, secondo cui «1. Le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore. Si applicano gli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile».
Norme che concorrono a delineare lo statuto normativo del c.d. terzo contratto, connotato soggettivamente dal fatto di intercorrere fra imprenditori dotati l’uno di minore forza contrattuale dell’altro, in considerazione dei diversi requisiti dimensionali, delle quote di mercato possedute e di altri fattori idonei a incidere sulla libertà di contrarre e di autodeterminarsi dell’impresa, in posizione recessiva.
In dottrina, coerentemente con tale ricostruzione, in termini ampi, dell’ambito operativo dei suddetti principi, si e’ affermato che “questa indagine "supplementare" di eventuale anticomunitarietà - cui e’ chiamato il Giudice nazionale - “che rimarrebbe riservata alla sola materia consumeristica, potrebbe essere il prodromo per una disparità di trattamento rispetto ad altre situazioni di eguale debolezza di soggetti che operano sul mercato, ad es. microimpresa o imprenditore debole, per le quali sarebbe attivo invece il consueto canovaccio di mero controllo formale della sussistenza dei requisiti di legge”.
D’altronde, come riconosciuto dalla pronuncia stessa della CGUE, la stabilità e immodificabilità del giudicato rappresenta un valore primario della civiltà giuridica e anch’esso un principio generale dell’ordinamento comuni comunitario, perché volto a presidiare la certezza dei rapporti giuridici, così come l’affidamento riposto dai consociato nel fatto che la regola, contenuta in una sentenza non più impugnabile, costituisca la regola definitiva di una determinata fattispecie concreta[8].
Nondimeno, è altrettanto indubbio che il giudicato implicito, tradizionalmente inteso (come ricomprensivo del dispositivo e delle ragioni, spese in motivazione che ne costituiscano presupposto logico-indefettibile) sia di per sé una variante “anomala” del giudicato inteso in senso stretto, perché teso a ricomprendere nell’operato di questo istituto processuale, anche profili motivazionali estranei al dispositivo.
Così appare evidente come il giudicato implicito, inteso elasticamente ovvero come esteso a questioni neanche concretamente dedotte e, quindi, neppure esternate in sede di motivazione, ma deducibili in sede di giudizio di cognizione, costituisca una creatura giurisprudenziale del tutto avulsa dallo schema tradizionale del giudicato.
Costruzione rispondente a esigenze di economia processuale, come visto, dotate di rilievo costituzionale e sovranazionale, ma destinata a essere accantonata ogniqualvolta, a seguito di un giudizio di bilanciamento dei valori in gioco, la stessa sia idonea a pregiudicare la disamina giudiziale di una questione la cui regolamentazione sia posta da una norma comunitaria imperativa, appartenente all’ordine pubblico economico comunitario.
Invero, seppur nei ristretti limiti sopra delineati, come evidenziato da autorevole dottrina, la portata delle pronunce della CGUE ha impattato non solo sull’istituto del giudicato implicito, ma anche su principi processual-civilistici della cui tenuta logica finora non si è dubitato:
a) la tradizionale ricostruzione del decreto ingiuntivo non opposto o confermato a seguito della proposta opposizione, quale fattispecie di giudicato formale e sostanziale.
A tal riguardo, deve ritenersi recessiva la posizione di chi esprime in termini di definitività soltanto formale, perché il decreto non sarebbe mai equiparabile ad una sentenza, originando soltanto una preclusione processuale, sul piano esecutivo e quindi inidonea al giudicato, sotto il profilo sostanziale. Preclusione consistente nella impossibilità per l’ingiunto di contestare la debenza della somma e la sua entità, così come di rifiutare la consegna della cosa, conservando, a differenza della parte, cui fa riferimento l’art. 2909 c.c., la facoltà di contestare il rapporto invocato dal ricorrente sotto qualunque altro profilo compresa la sua validità o esistenza.
D’altronde, come sottolineato da autorevole dottrina, è lo stesso legislatore che, all’art. 656 c.p.c., equipara il decreto definitivamente esecutivo alle sentenze, ammettendo lo strumento della revocazione al fine di ovviare ad un eventuale contrasto di giudicati.
Inoltre, poiché la definitività del monitorio non opposto scaturisce dall’inerzia processuale del debitore, atteggiandosi quale sanzione della stessa, tale sanzione deve inerire a tutte le questioni in fatto e in diritto che lo stesso avrebbe potuto e dovuto proporre alla stregua del suddetto criterio di ordinaria diligenza processuale.
Tali non possono considerarsi le questioni che, allo stato dell’arte, sussistente al momento della proposizione del rimedio oppositorio, non fossero deducibili, perché sconosciute e estranea alla sfera conoscitiva dell’opponente;
b) la distinzione rigorosa tra momento della cognizione e sede processuale esecutiva - costituente, secondo taluni autori, principio di ordine pubblico processuale - con conseguente difetto, in relazione al Giudice dell’esecuzione, di qualunque potere di sindacare il contenuto del titolo esecutivo, specie se di natura giudiziale, per fatti anteriori alla sua definitività. Fatti da far valere solo davanti al Giudice dell’opposizione Nondimeno, di tali principi si impone una rimodulazione in omaggio a quella tutela della libertà negoziale del consumatore che, nella logica dell’ordinamento comunitario, si pone quale strumento di tutela dell’assetto concorrenziale del mercato, quale unico modello idoneo ad assicurarne la competitività e l’efficienza.
Né, in tale prospettiva, possono costituire profili idonei a confutare la tenuta delle pronunce della CGUE con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico alcuni corollari logici (e inevitabili) della costruzione comunitaria:
a) la degradazione del decreto ingiuntivo, in materia consumeristica, da provvedimento assistito dalle qualità di giudicato formale e sostanziale, a semplice titolo stragiudiziale, suscettibile di essere posto in discussione in relazione ad ogni profilo non oggetto di espressa trattazione;
b) l’appesantimento degli oneri di istruzione sommaria del Giudice del monitorio, tenuto a verificare d’ufficio la esistenza di clausole vessatorie per evitare l’eventuale successivo travolgimento del provvedimento assunto;
c) la maggiore gravosità degli oneri allegatori di parte creditrice, anche solo in termini <<negativi>>, che dovrebbe evidenziare l’inesistenza di clausole vessatorie.
Inoltre, tale ultima sara’ tenuta a provare già in sede di presentazione del ricorso per decreto che il debitore non assume la veste di consumatore oppure che non vi sono clausole abusive nel contesto del contratto, da cui origina la pretesa creditoria; ciò mediante la produzione del contratto. In difetto dovrà essere il Giudice a dover richiedere un’integrazione della produzione documentale.
D’altronde, il contratto costituisce la fonte preferenziale della prova di tale circostanza.
E ciò, “quand'anche la prova del credito per il quale si chiede ingiunzione emerga anche aliunde (ad es., da un estratto di saldo conto)”.
5.4. Un possibile e auspicabile punto di equilibrio fra esigenze di effettività della tutela consumeristica e difesa dei principi processual-civilistici
Si ritiene che la soluzione, prospettata dalla CGUE, anche ove estesa alla fattispecie del decreto ingiuntivo opposto per ragioni diverse dalla sua anticomunitarietà, possa essere idonea ad assicurare, nella logica di un ragionevole contemperamento di valori contrapposti, da un lato, le esigenze di effettività della tutela consumeristica, dall’altro, una ragionevole difesa dei principi processual-civilistici.
Peraltro, è evidente come il problema dell’effettività della tutela, quale principio di rilievo costituzionale e sovranazionale, si ponga anche rispetto al creditore che abbia conseguito un decreto ingiuntivo opposto nei suddetti termini.
Ne’ a tale operazione appare di ostacolo il contesto interpretativo in cui si inseriscono le sentenze del 17 maggio 2022, che risulta connotato dalla tendenza, comprensibile, da parte degli interpreti italiani di relativizzare i precedenti della CGUE, sterilizzandone la portata eversiva sotto il profilo della superabilità del giudicato espresso.
Come evidenziato da autorevole dottrina, infatti:
a) la sentenza della CGUE nella causa Lucchini del 2008, «la più categorica, fonda il travolgimento del giudicato nazionale sulla intollerabilità della violazione delle competenze interne degli organi dell’Unione», essendo la sentenza «inutiliter data da organo privo di qualunque potestà giurisdizionale sulla questione», straripando «i suoi poteri istituzionali». Un’ipotesi che sarebbe assimilabile, «a fini meramente descrittivi», ad «una cassazione per eccesso di giurisdizione come quella ammessa dall’art. 111, comma ottavo, della nostra Costituzione per le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti»;
b) nel caso Pizzarotti (sentenza del 10 luglio 2014, causa C-213/2013), la CGUE, chiamata a pronunciarsi sull’eventuale disapplicabilità della norma processuale, in materia di formazione del giudicato, se ritenuta in contrasto con la regola comunitaria, ha invocato il diverso istituto del giudicato a formazione progressiva, suscettibile di «essere rimeditato o comunque adeguato […] proprio in sede di attuazione».
5.5. La comunanza di ratio fra l’ipotesi del decreto non opposto e quella del decreto opposto senza far valere l’anticomuniìtarietà della clausola
Una prima ratio, ispirativa delle pronunce del Giudice comunitario, e' da ravvisarsi nella necessità di un’effettiva consapevolizzazione del consumatore circa la possibilità di giovarsi di quella speciale tutela comunitaria che e' data dalla declaratoria di nullità seppur parziale. Consapevolizzazione che dovrebbe avvenire in sede di formazione e emissione del decreto ingiuntivo, mediante l’inclusione, a livello contenutistico, dell’avviso di potersi avvalere del rimedio della nullità consumieristica (mediante domanda o anche mera eccezione o difesa).
Ciò, in quanto, come rilevato condivisibilmente sul piano interpretativo, l'ordinamento comunitario, ai fini dell’esperimento del rimedio giudiziale, sostituisce al valore della mera conoscibilita' (secondo l’ordinaria diligenza) delle condizioni legittimanti allo stesso – proprio del sistema civilistico italiano - quello dell'effettiva conoscenza.
Peraltro, tale conoscenza ha per oggetto non la vicenda fattuale ma la sua qualificazione giuridica.
In tal senso, peraltro, sembra obnubilarsi il principio- questo tutto interno- per cui ignorantia legis non excusat, derogato ed, in parte, solo in materia penalistica.
Infatti, in qualunque altro settore ordinamentale – diverso da quello conformato dalla disciplina comunitaria – il soggetto protetto da una norma non potrebbe invocare la mancata conoscenza della stessa, per poter conseguire una remissione in termini o trarre da quella norma una qualunque utilità.
Dunque, ogniqualvolta si sia in presenza di una regolamentazione sovranazionale, da un lato, a rilevare e’ che il destinatario della tutela ne sia stato effettivamente informato, anche mediante l’esplicitazione dell’apparato rimediale, predisposto dall’ordinamento giuridico; dall’altro, perde qualunque rilievo che tale informazione inerisca l’esistenza della norma, così come la concreta applicazione della norma alla fattispecie concreta.
L'informazione del consumatore e la conseguente consapevolizzazione da parte di tal ultimo sono prodromiche all’esercizio dei diritti e, dunque, dei poteri processuali previsti dalla normativa consumieristica tra cui l'esperimento dell'azione di nullita'. L'eventuale scelta di non agire deve essere conseguenza della <<somministrazione>> giudiziale di un quadro informativo effettivo sulle possibilità rimediali.
D’altronde, adottando una diversa prospettiva, sotto altro profilo, non può non tutelarsi chi, pur proponendo tempestiva opposizione, non abbia speso quale specifico motivo a fondamento della stessa, la propria qualità di consumatore, in quanto negata (incondizionatamente) dal diritto vivente vigente al momento dell’introduzione del giudizio.
Il repentino e inaspettato cambio di prospettiva da parte dell’interprete non può andare a scapito del consumatore, perché diversamente sarebbe violato il principio di effettività della tutela, dispensata dall’ordinamento in favore dello stesso.
Invero, come già evidenziato, il profilo psicologico, relativo all’esistenza di uno stato di ignoranza incolpevole, e’ rimasto estraneo alla rete argomentativa della CGUE, per quanto ben evidenziato dal Giudice italiano remittente.
Orbene, parrebbe coerente con la ratio ispirativa della scelta compiuta dalla Corte di giustizia, nel maggio del 2022, l'estensione dell'apparato rimediale, prefigurato per la fattispecie del decreto rimasto inopposto, anche all'ipotesi in cui la opposizione sia stata effettivamente proposta, ma alcuna informazione specifica e selettiva abbia avuto l’opponente, né la questione dell’eventuale applicazione della norma abbia costituito oggetto di contendere tra le parti o di un eventuale rilievo d’ufficio.
Ciò secondo il modello imperativo di tutela, delineato dal Giudice comunitario.
Infatti, altra ratio della pronuncia della CGUE, concorrente nel delineare l'impianto delle pronunce, e' quella di consentire ad un'autorita’ giurisdizionale di esercitare un controllo (effettivo ed esternato in motivazione) sull'eventuale abusivita' delle clausole contrattuali.
Afferma, infatti, la CGUE che “una normativa nazionale secondo la quale un esame d'ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall'autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell'importanza dell'interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l'obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d'ufficio dell'eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali”.
Più correttamente, la garanzia, in sede di emissione del decreto ingiuntivo, di un’informazione strumentale all'eventuale azione di nullita' e il rilievo di ufficio da parte del Giudice del monitorio, sono due evenienze imprescindibili e idonee a consentire la tenuta del giudicato nazionale. Laddove difettino sia l'una sia l'altra, il giudicato (specie quello implicito, anche se la CGUE non ha distinto al riguardo), e' destinato a cedere.
Invero, allo stato, come in altri ordinamenti, la disciplina processuale italiana – salvo l’innesto salvifico della Suprema Corte - non prefigura un meccanismo, che preveda, in sede di formazione ed emissione dell’ingiunzione di pagamento, l’obbligatorieta’ di un’informazione del consumatore e/o di un controllo giudiziale della vessatorietà che possano dirsi effettivi.
Nondimeno, come ribadito dalla Corte di Giustizia (v. parag. dedicato), e’ sufficiente che, nel complessivo iter procedurale giurisdizionale, intrapreso dal consumatore, inteso in senso unitario e non atomistico (e, dunque, comprensivo sia del momento strettamente cognitivo dell’opposizione o del giudizio, attivato in via autonoma, sia di quello esecutivo) sia assicurato uno standard di tutela conforme al principio di effettivita'.
Dunque, se anche il controllo giudiziale, da esternarsi in una sintetica ma adeguata motivazione, sia difettato in sede di cognizione (sia piena, sia sommaria), sembrerebbe sufficiente, ai fini della garanzia della comunitarietà delle scelte ordinamentali, che lo stesso sia svolto dal G.E. dell’esecuzione.
Dunque, se il Giudice del giudizio presupposto non dovesse esercitare il sindacato di abusività, “l'attuazione dell'effettività della tutela consumeristica - che deve essere necessariamente garantita - si sposta a valle, cioè in sede esecutiva”.
Orbene, nel caso di specie, il controllo in sede monitoria non vi e’ stato, né vi sarebbe potuto essere, stante l’allora mancata inclusione nel garante dell’impresa nella categoria deli consumatori, né, in sede di genesi del decreto ingiuntivo, vi è stata l’informazione diretta all’ingiunto della possibilità di avvalersi della tutela consumieristica.
Dunque, sembrerebbe esserci spazio per un rilievo del predetto profilo di anticomunitarietà in sede esecutiva.
Premessa l’equipollenza (valoriale e strutturale) delle due fattispecie, quella del decreto non opposto e quella del decreto, oggetto di regolare opposizione, deve ritenersi che sia richiamabile anche l’argomentazione di tipo strettamente logico.
In particolare, e’ evidente che se la CGUE ha voluto preservare le ragioni di tutela del consumatore che sia rimasto totalmente inerte (anche se incolpevolmente), omettendo, del tutto, di attivare il rimedio oppositorio, a fortiori tale tutela <<rafforzata>> deve essere riconosciuta quando l’opponente sia stato processualmente diligente, formulando ragioni di doglianze cui sia rimasta, però, estranea la problematica della violazione della normativa comunitaria.
Lo impone un principio di coerenza sistematica e di ragionevolezza.
D’altronde, proprio la necessità di soluzioni che trattino in maniera omogenea situazioni equipollenti, sotto il profilo del bisogno di tutela, induce a ritenere che la soluzione, già sposata dall’Onorevole Corte di Giustizia con le pronunce del 17 maggio 2022, debba essere estesa anche alla fattispecie, oggetto del presente rinvio. Ciò, al fine di evitare la violazione del principio comunitario di non discriminazione e di parità di trattamento, sostanzialmente, equivalente al principio interno di eguaglianza.
Invero, la CGUE, nell'accogliere, con la pronuncia del 17 maggio 2022, l'esegesi delle norme comunitarie prospettata dal Tribunale milanese, sembrerebbe non aver riconosciuto alcun valore all'elemento della sopravvenuta conoscenza della propria qualità di consumatore, che, invece, il tribunale di Milano aveva valorizzato.
I giudici del rinvio avevano evidenziato come la mancata proposizione del ricorso da parte dell’opponente fosse dipesa da un revirementinterpretativo, prima della CGUE, e, poi, del Giudice della nomofilachia italiano. Revirement attinente alla riconducibilità del garante nell’alveo del consumatore.
La CGUE ha, invece, prediletto un approccio oggettivo, fondato sulla verifica dell'adeguatezza dei meccanismi processuali e della loro attuazione, senza nessuna menzione alla tutela dell’affidamento riposto dall’opponente sulla iniziale approccio interpretativo, per lui, più restrittivo; affidamento che lo aveva condizionato nelle proprie scelte di tutela.
A tal riguardo, ha affermato che “il fatto che il debitore ignorava, al momento in cui questa precedente decisione giurisdizionale è divenuta definitiva, il proprio status di consumatore, ai sensi della direttiva 93/13, è irrilevante, poiché, come ricordato al punto 53 della presente sentenza, il giudice nazionale è tenuto a valutare d'ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale rientrante nell'ambito di applicazione di tale direttiva”.
Nondimeno, questo Giudice ritiene di risottoporre tale profilo, di carattere soggettivo, alla CGUE non perche’ ritenga che possa assumere la rilevanza di condizione per l'operare dei principi enucleati dal Giudice comunitario ma perché circostanza di fatto, idonea, comunque, a rafforzare i suddetti principi.
Il problema dell'overruling non e', infatti, secondario nella logica di quell'effettivita' della tutela in favore del consumatore, autorevolmente, additata dalla CGUE, quale obiettivo ultimo e imprescindibile di qualunque rimedio processuale. Laddove, infatti, una tutela divenga praticabile solo per effetto di una modifica dell'esegesi abituale di una norma (o di un insieme di norme), appare contrario a tale principio che la tutela in questione venga disconosciuta per lo spirare incolpevole dei termini a tal fine previsti.
A tal riguardo, alcuni ordinamenti, come quello italiano, hanno predisposto talune forme rimediali ma solo quando il revirement inerisca alle norme processuali e ciò al fine di contemperare l'effettivita' della tutela con l'esigenza di certezza e stabilita' dei rapporti giuridici.
Nel caso di specie, abbiamo un revirement di natura sostanziale, perché investe la disciplina consumieristica e la comminatoria di nullità, con indubbie ricadute processuali
P.Q.M.
Il Tribunale così provvede:
1. rimette all’On. Corte di Giustizia dell'Unione europea la seguente questione pregiudiziale:
A) "Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea osti ad un ordinamento come quello nazionale che preclude al Giudice dell'esecuzione (in sede di istanza di sospensiva e, quindi, di cognizione sommaria oppure in sede di trattazione del merito dell’opposizione all’esecuzione), di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, d’ufficio o su richiesta del debitore, nonchè di accertare una simile vessatorietà, anche solo in via incidentale e sommaria e/o di concedere un termine per l’introduzione di un giudizio di opposizione tardivo al fine di far accertare dal Giudice della cognizione la predetta vessatorietà.
Ciò, allorquando, concorrano le seguenti condizioni:
a. sia stata proposta un’opposizione a decreto ingiuntivo per ragioni che esulano dalla vessatorietà delle clausole del contratto di fideiussione e la stessa sia stata definita con sentenza passata in giudicato (che investa implicitamente la mancata vessatorietà di una clausola contrattuale);
b. non vi sia stato il controllo di abusività in sede monitoria o di giudizio di opposizione;
c. né, in sede di genesi e emissione del decreto ingiuntivo, vi sia stata l’informazione diretta all’ingiunto della possibilità di avvalersi della tutela consumieristica;
B) Se, in tale fattispecie, ai fini della predetta valutazione di compatibilità della disciplina interna, assuma rilievo, anche solo ad abundantiam, che il consumatore acquisisca consapevolezza del proprio status dopo la proposizione della prima tempestiva opposizione e tale presa di coscienza sia stata precedentemente preclusa dal diritto vivente (che disconosceva in capo ad esso la qualità di consumatore solo perché garante, senza distinguere secondo lo scopo obiettivo della garanzia);
2.sospende il procedimento de quo sino alla restituzione degli atti da parte della Corte di Giustizia, successivamente alla definizione della questione;
3. dispone l’invio degli atti alla Presidenza perché possa curare la trasmissione della presente ordinanza e degli atti del fascicolo processuale alla Corte di Giustizia, nonché per le comunicazioni alle parti e per gli ulteriori consequenziali adempimenti.
Così deciso in Brindisi, il 12 settembre 2024.
IL GIUDICE
A.I. NATALI
[1] Peraltro, a tal riguardo, non può non richiamarsi il mai sopito dibattitto sull’ammissibilità di una giurisprudenza, non mera bouche de la loi, ma con contenuticreativi. Dilemma cui, proprio in tale specifico ambito, non può non rispondersi in senso affermativo ogniqualvolta l’opzione esegetica non sia del tutto avulsadal quadro dei principi costituzionali e comunitari, ma si ponga in armonia con gli stessi, contribuendo a inverarliNon si può non convenire con quella dottrina che assimila la norma di legge ad un progetto, destinato ad essere concretizzato e specificato dall’opera della giurisprudenza che ne assicura la constante vitalità.
[2] Esigenze, tali ultime, meritevoli di tutela secondo la logica e i valori ispiratori dell’ordinamento giuridico multilivello quale deve considerarsi quello italiano in conseguenza dell’eterointegrazione da parte del livello di tutela comunitario, nonché delle sollecitazioni provenienti dalla CEDU.
È indubbio che l’attuazione, in via coattiva, del decisum e la tempestività della tutela siano due corollari logici indefettibili di quel diritto all’effettività della tutela giurisdizionale che rinviene il proprio fondamento oltre che nell’art. 24 Cost., anche negli artt. 6 e 13 CEDU e 47 CDFUE.
[3] sentenze nn. 11066 e 11067 del 2012.
[4] Ciò, anche perché sottraentisi al novero delle eccezioni in senso stretto, soggette alle noti preclusioni processuali del giudizio di merito e, quindi, liberamente rilevabile, salvo l’eventuale formarsi di un giudicato interno.
[5] Si tratta di una posizione interpretativa che si accompagna a quella, valevole per la diversa ipotesi del decreto ingiuntivo non opposto, secondo cui il giudicato monitorio non “sarebbe dotato della stabilità di giudicato, non solo formale, ma anche quella sostanziale prevista dall’art. 2909 c.c.”., e, quindi, destinato a esplicare i propri effetti “su tutte le questioni, dedotte e non”.
Ciò alla luce della tesi, invero minoritaria, fondata sulla preclusione pro iudicato, che “nient’altro significa se non che la stabilità della prestazione oggetto del decreto ingiuntivo non copre l’intero rapporto contrattuale, poiché il Giudice in sede monitoria non effettua alcun accertamento sul rapporto contrattuale ma si limita a verificare i requisiti dell’art. 633 c.p.c.”.
Non sarebbe configurabile, cioè, un giudicato anche sostanziale, in quanto ne difetterebbe il presupposto logico dell’esercizio di un’effettiva potesta’ cognitoria, seppur sommaria, del diritto azionato in sede monitoria. In ogni caso il giudicato non coprirebbe anche il deducibile, ovvero le ragioni suscettibili di essere dedotte in giudizio.
[6] Proprio di recente, autorevole dottrina ha affermato che “l’attuale controllo di costituzionalità è totalmente pervaso dal metodo della ragionevolezza: è un controllo di ragionevolezza” e vi e’ stato chi stigmatizzando il ricorso a tale parametro, ha affermato che “la giurisprudenza sulla ragionevolezza appare ormai del tutto ingovernabile, in quanto si è negli anni trasformata in una sorta di valutazione circa la ingiustizia della legge o che trattasi di una nozione “inafferrabile nel suo contenuto”.
D’altronde, a fronte dell’indubbio dinamismo interpretativo indotto dal principio de quo, e’ innegabile la indispensabilità di tale categoria: ragionevole e’ qualunque opzione esegetica sia idonea a realizzare un equo contemperamento degli interessi in gioco, imponendo un sacrificio non sproporzionato agli interessi in gioco, nel caso di specie, coincidenti, da un lato, con l’assicurazione di sufficienti garanzie di giustiziabilità in favore del destinatario dell’atto impositivo, dall’altra, con l’esigenza della Pa notificante di conseguire l’esito giuridico della conoscibilità legale dell’atto, mediante un’attività non eccessivamente defatigante, anche in considerazione della complessità della struttura organizzativa degli enti pubblici e della mole degli atti da portare a conoscenza dei contribuenti.
[7] L’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che una persona fisica che eserciti la professione di avvocato e stipuli con una banca un contratto di credito nel quale lo scopo del credito non sia specificato può essere considerata un «consumatore», ai sensi di tale disposizione, qualora un simile contratto non sia legato all’attività professionale di detto avvocato. La circostanza che il credito sorto dal medesimo contratto sia garantito da un’ipoteca concessa da tale persona in qualità di rappresentante del suo studio legale e gravante su beni destinati all’esercizio della sua attività professionale, quale un immobile appartenente a detto studio legale, non è in proposito rilevante.
Incostituzionalità della legge e illegittimità del regolamento attuativo (nota a sentenza Consiglio di Stato 4 giugno 2024, n.4998)
di Renato Rolli e Mariafrancesca D’Ambrosio ***
Sommario: 1. Ricostruzione della vicenda contenziosa; 2. La soluzione adottata dal Consiglio di Stato; 3. Effetti della dichiarazione di incostituzionalità della norma regolativa o attributiva del potere amministrativo; 4. L’autonomia del momento amministrativo: la storica sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8/1963.
1. Ricostruzione della vicenda contenziosa
Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Campania l’associazione sindacale DIRER Campania (di seguito “DIRER”) impugnava il regolamento avente ad oggetto “Ordinamento amministrativo della Giunta regionale” approvato dalla Giunta regionale con delibera del 29 ottobre 2011 n. 612 ed emanato dal Presidente della Giunta regionale con atto del 15 dicembre 2011, n. 12; con motivi aggiunti, inoltre, impugnava le delibere della Giunta regionale del 10 settembre 2012, nn. 475, 478 e 479, con le quali venivano apportate modifiche e integrazioni al regolamento impugnato con il ricorso principale, definite le strutture ordinamentali della Giunta regionale in attuazione delle disposizioni regolamentari, e, infine, approvato il disciplinare per il conferimento degli incarichi dirigenziali, poi sostituito da un nuovo disciplinare approvato con delibera giuntale del 13 novembre 2012, n. 661, anch’essa impugnata con motivi aggiunti.
La ricorrente rilevava due i profili di illegittimità costituzionale.
Per un primo profilo, la norma era detta in contrasto con gli articoli 121, comma 4 e 123, comma 1, Cost. per violazione dell’interposto art. 56, comma 2, dello Statuto regionale (approvato con l.reg. 28 maggio 2009, n. 6), avendo previsto un procedimento per l’approvazione del regolamento divergente da quello disciplinato in sede statutaria: invero, l’art. 56, comma 2, dello Statuto regionale imponeva l’approvazione dei regolamenti da parte dal Consiglio regionale e l’emanazione del Presidente della Giunta, previa deliberazione di quest’ultima; la legge regionale contestata, di contro, aveva previsto che fosse acquisito il parere obbligatorio ma non vincolante della commissione consiliare permanente, senza approvazione da parte del Consiglio.
Da altro punto di vista, la ricorrente sosteneva l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, l. reg. n. 8 del 2010 per contrasto con l’art. 123 Cost. in ragione della violazione dell’interposto art. 56, comma 4, dello Statuto regionale: a fronte dell’obbligo imposto dalla disposizione statutaria – in caso di adozione di legge regionale di autorizzazione della Giunta ad emanare regolamenti in materie già disciplinate con legge, rientranti nella competenza esclusiva della Regione – di determinare le “norme generali regolatrici della materia”, con conseguente abrogazione delle norme legislative vigenti a far data dall’entrata in vigore delle norme regolamentari, il legislatore regionale s’era limitato a richiamare i principi generali dell’azione amministrativa, senza dare indicazioni in merito al modello organizzativo prescelto cui la Giunta avrebbe dovuto dare attuazione con le disposizioni regolamentari.
In primo grado, il Tar adito respingeva il ricorso e i motivi aggiunti, ritenendoli infondati, così come entrambi i profili di illegittimità costituzionale prospettati dalla ricorrente.
Avverso la sentenza DIRER proponeva appello, contestando nei primi due motivi la reiezione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nel ricorso ed esponendo negli altri quattro motivi la critica alle ragioni poste a fondamento della reiezione delle altre doglianze articolate con il ricorso introduttivo del giudizio.
Con ordinanza del 19 settembre 2022, n. 8071 la sezione V del Consiglio di Stato, risolto preliminarmente in senso positivo il profilo della legittimazione a ricorrere sollevava questione di legittimità costituzionale, dubitando della legittimità dell’art. 2, l. reg. Campania 6 agosto 2010, n. 8 per contrasto con l’art. 123 Cost., per violazione dell’interposto art. 56, comma 4, dello Statuto regionale, nonché per contrasto con gli articoli 121 e 97 Cost. In particolare, la Sezione riteneva rilevante per la decisione del giudizio la questione di legittimità costituzionale prospettata dall’appellante, in quanto il suo accoglimento avrebbe avuto “l’effetto di eliminare il presupposto normativo sulla base del quale è stato adottato il regolamento impugnato (così come avvenuto a seguito di Corte cost. 23 novembre 2021, n. 218)”.
Successivamente, con sentenza del 10 luglio 2023, n. 138, la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge della Regione Campania 6 agosto 2010, n. 8 (Norme per garantire l’efficienza e l’efficacia dell’organizzazione della Giunta regionale e delle nomine di competenza del Consiglio regionale); in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dichiarava altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, della legge reg. Campania n. 8 del 2010, il quale prevede che la legge regionale Campania n. 11 del 1001 sia abrogata dalla data di entrata in vigore del regolamento.
Così concluso il giudizio di legittimità costituzionale, la FEDIRETS (Federazione Dirigenti e Direttivi – Enti territoriali e Sanità), subentrata a seguito di successive fusioni alla DIRER Campania, depositava motivi aggiunti prospettando, sotto vari profili, l’illegittimità costituzionale della normativa sopravvenuta. In particolare, evidenziava che anche quest’ultimo intervento legislativo sembrava presentare profili di illegittimità costituzionale in quanto con la «legificazione» delle disposizioni del regolamento n. 12 del 2011 e la «conferma[…] dell’organizzazione degli uffici così come delineata dalla deliberazione di Giunta regionale n. 478 del 2012, e succ. int. e mod., la Regione Campania avrebbe inteso risolvere in suo favore ex auctoritate legis una controversia pendente dinanzi al giudice amministrativo, limitando il diritto di difesa dell’appellante e, così, violando il principio della parità delle parti dinanzi al giudice, con ulteriore incidenza sull’esercizio della funzione giurisdizionale affidata a quest’ultimo». Altresì deduceva l’incostituzionalità dell’art. 7, co. 2, della l. reg. n. 15 del 2023 anche in relazione al parametro di cui all’art. 136 Cost., per violazione del giudicato formatosi sulla sentenza della Corte costituzionale del 10 luglio 2023, n. 138, poiché, nel fare «oggetto di espressa legificazione l’intero articolato (dall’art. 1 all’art. 42) del regolamento n. 12 del 2011, avrebbe vanificato del tutto gli effetti della suddetta pronuncia di incostituzionalità»[1].
2. La soluzione adottata dal Consiglio di Stato
La vicenda posta all’attenzione del Consiglio di Stato mette in luce la questione relativa alle sorti del regolamento amministrativo adottato a seguito della dichiarazione di incostituzionale di una legge.
Nel dirimere la controversia, i giudici di secondo grado hanno espresso il principio a mente del quale «qualora la Corte costituzionale dichiari costituzionalmente illegittima una legge regionale di riforma dell’organizzazione della regione per aver previsto una delegificazione senza indicare criteri sufficientemente dettagliati, sì da attribuire alla giunta regionale una sorta di delega in bianco, il regolamento adottato dalla regione sulla base di tale legge è illegittimo; e va annullato dal giudice amministrativo anche se la regione lo abbia successivamente recepito con legge: tale “legificazione” del regolamento non è infatti idonea a sanare l’illegittimità dell’atto che risulta adottato in assenza di base normativa, vista la declaratoria di illegittimità costituzionale della legge di autorizzazione».
In questo senso il giudicante dà continuità ad un orientamento consolidatosi in materia, secondo cui «la legge in contrasto con la Costituzione è una legge invalida ancorché efficace sino alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale che la dichiara illegittima. Tale sentenza, producendo effetti retroattivi incidenti sui rapporti pendenti, comporta che il provvedimento amministrativo viene privato, anch’esso con effetti retroattivi, della sua base legale. La conseguenza sarà sempre l'annullabilità e non la nullità dell’atto anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica attributiva del potere»[2].
La comprensione della decisione del giudice amministrativo passa attraverso l’analisi dell’istituto dell’invalidità e dei suoi effetti.
3. Effetti della dichiarazione di incostituzionalità della norma regolativa o attributiva del potere amministrativo
La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma regolativa o attributiva del potere viene fatta rientrare nel novero delle ipotesi di invalidità sopravvenuta[3].
V’è, però, un isolato orientamento secondo il quale l’invalidità sarebbe originaria[4], atteso che la declaratoria di incostituzionalità espelle dall’ordinamento una norma fin dalla sua origine: in tal senso si osserva che le pronunce della Corte costituzionale determinano il venir meno – in via retroattiva – della norma censurata, perché operano la ricognizione di un vizio originario della norma stessa, la cui eliminazione non è assimilabile a quella che deriva dall’abrogazione della norma precedente ad opera della norma sopravvenuta.
La dottrina e la giurisprudenza hanno qualificato tale invalidità ora come nullità ora come annullabilità.
Un primo orientamento distingue l’ipotesi in cui la disposizione di legge dichiarata incostituzionale attribuisce il potere sul quale si fondano i provvedimenti emanati, da quella in cui la stessa legge si limita a disciplinare le modalità di esercizio del potere. In quest’ultimo caso l’atto sarebbe soltanto annullabile, con la conseguente necessità di impugnarlo entro il termine di decadenza dinanzi al giudice amministrativo; nella prima ipotesi, invece, il provvedimento dovrebbe considerarsi nullo, in quanto emanato nell’esercizio di un potere inesistente, con la conseguenza che, stante il carattere insanabile della nullità, il cittadino potrebbe giovarsi della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale in qualsiasi momento, senza incontrare preclusioni derivanti dal mancato rispetto dei termini decadenziali[5]. A fronte dell’inesistenza del potere, peraltro, la relativa controversia dovrebbe essere devoluta non al giudice amministrativo, ma il giudice ordinario venendo in considerazione un’ipotesi di carenza del potere.
Secondo altra dottrina, si tratterebbe di ipotesi di inesistenza.
Tale soluzione, tuttavia, si presta a delle cesure.
L’inesistenza sopravvenuta è una contraddizione in termini, atteso che per definizione è inesistente ciò che non è mai venuto ad esistere.
Una norma inesistente non è una norma, ma solo l’apparenza di una norma.
È inesistente infatti la norma priva degli elementi che ne rendono possibile la riconoscibilità. Tale insussistenza, però, non può che essere originaria, poiché un atto giuridico venuto ad esistere, anche per breve tempo, non può considerarsi come mai esistito[6].
L’orientamento accolto dalla giurisprudenza amministrativa e prevalente in dottrina ritiene, infatti, che l’atto emanato in base ad una norma dichiarata in costituzionale sia soltanto annullabile[7]. Ciò per una serie di ragioni.
Rileva, anzitutto, la circostanza che il provvedimento sia stato emanato da un organo che esercitava le sue funzioni sulla base di una legge vigente al momento in cui l’atto è stato emesso; che tra la legge e l’atto amministrativo non sussiste un rapporto di conseguenzialità analogo a quello ravvisabile fra l’atto preparatorio e l’atto finale del procedimento amministrativo.
V’è, poi, l’esigenza di tutelare l’affidamento che tali atti sono in grado di determinare nei terzi: tale affidamento sarebbe leso se l’incostituzionalità della norma comportasse la riapertura dei termini di impugnazione del provvedimento. La retroattività che caratterizza le pronunce di illegittimità costituzionale è, infatti, impropria, atteso che essa si arresta dinanzi ai rapporti esauriti[8].
È palmare la differenza rispetto alla retroattività delle norme di abolitio criminis, la cui forza è in grado di travolgere finanche le sentenze passate in giudicato.
L’effetto circoscritto della retroattività della sentenza[9] rappresenta un corollario del principio di certezza e stabilità del provvedimento amministrativo, principio che trova la sua ragion d’essere nella funzione assegnata all’attività amministrativa, consistente nella gestione e nella cura dell’interesse pubblico; nonché del principio di intangibilità del giudicato che cristallizza il contenuto della sentenza, non ammettendone successive modifiche.
Oltre ad escludere che la declaratoria di incostituzionalità della legge attributiva del potere alla p.a. riapra il termine per impugnare il provvedimento – in forza di un principio di autoresponsabilità del privato-ricorrente –, il giudice amministrativo ha sempre ritenuto di essere sfornito del potere di rilevare d’ufficio il vizio di incostituzionalità[10].
Tale vizio, secondo la giurisprudenza, deve trovare riscontro in un apposito motivo di ricorso. In quest’ottica, le disposizioni dell’art 1 della Legge costituzionale 8 febbraio 1948, n. 1 e dell’art 23, Legge 11 marzo 1953, n. 87, che consentono la proposizione dell’incidente di costituzionalità nel corso del giudizio anche d’ufficio, ricevono un’interpretazione assai riduttiva.
In particolare, partendo dalla previsione dell’art. 23 che richiede, ai fini della rimessione degli atti alla corte costituzionale, non solo la non manifesta infondatezza della questione, ma anche che «il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale», la giurisprudenza afferma che se la violazione di una norma di legge non è specificamente dedotta tra i motivi di ricorso, l’eventuale dubbio di legittimità costituzionale che sorge in relazione a tale norma non potrebbe considerarsi rilevante.
In questo senso, dunque, non sarebbe sufficiente invocare il principio secondo il quale il giudice ha il potere di sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale, atteso che tale potere viene in rilievo a condizione che il giudice debba fare applicazione, ai fini della decisione, della norma sospettata di incostituzionalità.
Il rigore della giurisprudenza è, però, destinato ad attenuarsi quando si tratti di pronunce che si occupano degli effetti della sentenza di incostituzionalità nei giudizi pendenti[11].
In tal caso, infatti, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa di incostituzionalità della norma su cui si fonda il provvedimento, il giudice amministrativo ha il dovere di rimuovere quest’ultimo, anche se il vizio di legittimità riflesso non era stato dedotto come motivo di ricorso. A sostegno, si rileva che l’interesse generale impedisce che le norme dichiarate incostituzionali trovino ancora applicazione e consentano la consolidazione dell’atto assunto sulla loro base[12].
4. L’autonomia del momento amministrativo: la storica sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8/1963
Non sono immediati né diretti gli effetti che si ripercuotono su eventuali provvedimenti amministrativi adottati sulla base della disposizione legislativa dichiarata illegittima costituzionalmente.
Circa il regime dell’atto amministrativo adottato sulla base della legge dichiarata incostituzionale, si è soliti parlare di ‘effetto viziante’ e non già di ‘effetto caducante’ in ragione della cosiddetta «autonomia del momento esecutivo rispetto al momento legislativo e dell’operatività del meccanismo della caducazione automatica a seguito della declaratoria di incostituzionalità della legge di disciplina del rapporto»[13].
Si tratta del principio di diritto che emerge dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 8 del 1963[14], secondo la quale «la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha efficacia ex tunc, salvo il limite degli effetti irrevocabilmente prodotti dalla norma incostituzionale (situazioni e rapporti divenuti incontrovertibili per il maturarsi di termini di prescrizione o di decadenza, o perché definiti con giudicato etc.) ed opera erga omnes, cioè anche fuori dell’ambito del rapporto processuale nel quale è sollevato l’incidente di costituzionalità, distinguendosi dall’abrogazione della legge, perché si estende ai fatti anteriori»[15].
I giudici osservano che la norma dichiarata incostituzionale non può considerarsi inesistente (con conseguente inesistenza dell’organo creato in base ad essa e degli atti emessi da tale organo) e che tra legge ed atto amministrativo non sussiste un rapporto di conseguenzialità analogo a quello ravvisabile tratto preparatorio atto finale di un procedimento amministrativo.
Nella motivazione della pronuncia si legge che l’atto amministrativo, quale manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ha una vita ed una sua individualità propria e non resta direttamente travolto dalla cessazione di efficacia della legge.
Erra perciò il giudice amministrativo che dichiara improcedibile il ricorso giurisdizionale avverso gli atti emanati dall’organo creato da una norma dichiarata incostituzionale sul riflesso che si tratta di atti inesistenti. Il Consiglio di Stato ha escluso che «la norma dichiarata incostituzionale debba dichiararsi inesistente con la conseguenza che inesistente debba essere anche l’atto amministrativo che si fonda su di questa». Il percorso logico giuridico della decisione, in sostanza, si può riassumere nel modo seguente: la legge dichiarata incostituzionale non è nulla, ma annullabile; la stessa legge, benché successivamente incostituzionale, esiste e produce i suoi effetti fino alla declaratoria di illegittimità da parte della Corte costituzionale. Di conseguenza anche l’atto amministrativo emesso in base a legge dichiarata incostituzionale non è inesistente ma annullabile, e pertanto spiegherà i suoi effetti fino a quando non interverrà una pronuncia su di esso del giudice amministrativo, che ne produce il suo definitivo annullamento; escludendo in tal senso un’efficacia diretta della sentenza della Corte sul risultato di una qualsiasi attività amministrativa[16].
In altri termini, tra la legge e l’atto amministrativo non vi un rapporto d presupposizione.
L’atto amministrativo mantiene una vita ed una individualità propria: esso quindi non viene investito dalla cessazione dell’efficacia della legge su cui si basa, pur subendo ovviamente, l’influenza delle vicende della norma cui ha dato applicazione.
La decisione del Consiglio di Stato, nell’affrontare la questione riguardante il rapporto di conseguenzialità tra legge e l’atto amministrativo fonda il suo ragionamento sull’autonomia del potere esecutivo, contrapposto al rapporto intercorrente tra atto preparatorio e finale di un procedimento amministrativo. Se il potere esecutivo non fosse autonomo rispetto a quello legislativo, la caducazione della legge derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale creerebbe automaticamente la caducazione dell’atto amministrativo emanato in base ad essa, in un più ampio contesto di un procedimento amministrativo. Si tratterebbe di invalidità ad effetto caducante.
Quando l’invalidità derivata dell’atto consequenziale è ad effetto caducante, l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale anche se quest’ultimo non sia stato impugnato.
Non sembra convincente l’orientamento che delinea, come conseguenza della pronuncia di legittimità costituzionale, la rimozione dell’atto sic et simpliciter[17].
Del resto, affermare che un determinato provvedimento, anche se viziato, possa sparire dall’ordinamento senza una formale rimozione – rinvenibile nell’annullamento a seguito di ricorso giurisdizionale –, bensì soltanto per l’effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma in base alla quale è stato emanato, significa negare l’imperatività stessa dell’atto amministrativo.
È, dunque, alla luce della sentenza dell’Adunanza Plenaria che si comprende la decisione in commento del Consiglio di Stato, secondo cui, in definitiva, «la conseguenza sarà sempre l'annullabilità e non la nullità dell’atto anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica attributiva del potere».
Ne discende che quando l’invalidità derivata è ad effetto viziante, l’atto consequenziale non viene automaticamente travolto dall’annullamento dell’atto presupposto: l’atto consequenziale è affetto da illegittimità; l’atto consequenziale è affetto da una invalidità che deve essere fatta valere nei termini di decadenza. Diversamente l’atto consequenziale si cristallizza anche se illegittimo, anche se invalido.
*** Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire i paragrafi 1 e 4 al Prof. Renato Rolli i restanti alla Dott.ssa Mariafrancesca D’Ambrosio
[1] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 4 giugno 2024, n. 4998
[2] V. Cons. Stato, sez. VI, 11 settembre 2014, n. 4624
[3] M.A. Sandulli, La giustizia costituzionale in italia, in Giur. Cost., 1961, 830 ss
[4] Sul punto si vede: S. Romano: “Osservazioni sulla invalidità successiva degli atti amministrativi”, in Raccolta di scritti di diritto pubblico in onore di Giovanni Vecchielli, Giuffré, Milano, 1938, p. 435; A. Romanelli: “Sulla cosiddetta invalidità successiva degli atti amministrativi”, Jus, 1942, pp. 123 ss.; P. Gasparri: L’invalidità successiva degli atti amministrativi, Nistri-Lischi, Pisa, 1939, p. 45; F. Benvenuti: “Inefficienza e caducazione degli atti amministrativi”, Giur. compl. Corte Suprema Cass., 1950, pp. 916 ss.; G. Pagliari: Contributo allo studio della c.d. invalidità successiva degli atti amministrativi, Giuffré, Milano, 1991, pp. 1 ss.
[5] Cons. Stato, sez. VI, n. 51/1960; nello stesso senso cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13 aprile 1960 n. 241 e Cons. Stato, sez. VI, 8 marzo 1961 n. 234
[6] F. MODUGNO, Esistenza della legge incostituzionale e autonomia del “potere esecutivo”, in Giur. cost., 1963, 1728; N. LIPARI, Orientamenti in tema di effetti delle sentenze, cit., 2259; G. GIONFRIDA, Giudizio di legittimità costituzionale della legge e questioni pregiudiziali attinenti al cosiddetto processo principale, in Studi in onore di Ernesto Eula, Milano, 1957, II, 98 ss.; B. CAVALLO, Rapporti di priorità fra questioni, cit., 24 ss.; P. CALAMANDREI, Corte costituzionale e autorità giudiziaria, cit., 20; M. CAPPELLETTI, La pregiudizialità, p.103; In particolar modo quanto agli effetti della illegittimità costituzionale di norme istitutive di organicfr. C.ESPOSITO, Inesistenza o illegittima inesistenza di uffici ed atti amministrativi per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme organizzatorie?, in Giur. cost., 1960, 330 ss., secondo cui i pubblici uffici non si costituiscono “magicamente” con una disposizione di legge e l’attività di questi non può volatilizzarsi con la eliminazione di tale disposizione; quanto, invece, alle norme attributive di poteri ad organi già esistenti cfr. G. BORZELLINO, Illegittimità costituzionale di norme e validità di atti amministrativi, in Foro amm., 1962, 13 ss; CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1984, II, 385.
[7] V. Tar Salerno, Sez II, 4 febbraio 2015, n. 239
[8] Consiglio di Stato, sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3449, Pres. Giaccardi, Est. Greco, p. 3 della motivazione in diritto dove si afferma ulteriormente che «in tema di effetti della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma attributiva di un potere alla p.a. sul provvedimento che ne costituisce esercizio, il più recente orientamento è nel senso che, pur non essendovi travolgimento automatico del provvedimento per effetto del venir meno della norma a monte (trattandosi di illegittimità derivata dell’atto applicativo e non già di sua inesistenza o nullità, come pure era stato ipotizzato), non è onere della parte ricorrente proporre motivi aggiunti per dedurre il vizio sopravvenuto quante volte la stessa nel ricorso introduttivo, attraverso uno o più motivi specifici, abbia fatto venire in rilievo la norma in questione, ancorché non sotto il profilo di una sua illegittimità costituzionale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 18 giugno 2009, nr. 4002)».
[9] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. 2., 9. ed., Padova, Cedam, 1976, p. 1364.
[10] v M. Magri, La legalità costituzionale dell’amministrazione. Ipotesi dottrinali e casistica giurisprudenziale, Milano, 2002,121 e ss
[11] Cons. Stato, sez. I, parere 12 aprile 2024, n. 470; Pres. Poli; Est. Ciuffetti
[12] CERULLI IRELLI V., Lineamenti del diritto amministrativo, 7. ed., Torino, Giappichelli, 2021, p. 502.
[13] In Giur.it, 1964, III, p. 66, nonché in Foro amm., 1964, con nota di A. Romano, Pronuncia di illegittimità costituzionale di una legge e motivo di ricorso giurisdizionale amministrativo
[14] Si consenta il rinvio a Renato Rolli, La disapplicazione giurisdizionale dell’atto amministrativo, tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, Aracne Editore 2005, p. 91 e ss.
[15] Cfr. F. Modugno, Esistenza della legge incostituzionale E autonomia del potere esecutivo, in Giur. Cost. 1963, p. 1729
[16] Cfr. R. Giovagnoli, L’atto amministrativo emanato in base ad una legge incostituzionale, in Diritto e Formazione, n. 8 del 2001, p. 1066.
[17] R. Niro, Disapplicazione di norme e declaratoria di illegittimità di provvedimento, in I garanti delle regole. Le autorità indipendenti, a cura di S. Cassese e C. Franchini, Bologna 1996 p. 193, ss.
I nuovi orizzonti dei rapporti fra Corte Costituzionale e Parlamento
di Eleonora De Gregorio
Sommario: 1. Separazione dei poteri e piena tutela dei diritti: un equilibrio difficile. 2. Osservazioni conclusive.
1. Separazione dei poteri e piena tutela dei diritti: un equilibrio difficile
La Corte costituzionale è un giudice sui generis, al cui interno convivono due “anime”, una giurisdizionale e una politica. Queste due anime non sono fra loro inconciliabili, ma compongono la fisiologica struttura – per come pensata dai Costituenti – di un Giudice che è chiamato a custodire la Costituzione, la primaria fonte dell’ordinamento, da ogni possibile minaccia o lesione.
La Corte, pur non avendo una legittimazione democratica, è riuscita, col tempo, a crearsi il proprio spazio nell’ordinamento, e oggi gode di una forte autorità. Potremmo dire, anzi, vista la sua capacità di inserirsi nei procedimenti legislativi, che essa è all’apice della sua autorità[1]. Alcuni fra i suoi più recenti interventi, legittimamente criticati, hanno portato a ritenere che, fra le sue due anime, quella politica occupi oggi uno spazio maggiore. L’organo puramente politico, e, in generale, il principio rappresentativo, risultano, invece, gravemente in crisi[2].
Così, ci si interroga sul rapporto che lega oggi due delle colonne portanti dell’ordinamento costituzionale italiano, Corte costituzionale e Parlamento: “per qualcuno siamo di fronte a un’evoluzione naturale, per altri invece a un’involuzione preoccupante, se non addirittura a una deviazione, rispetto all’originario modello disegnato nella Carta”[3].
Si registra, infatti, un iperattivismo della Corte, un suo “innaturale convertirsi” in un decisore politico, che è giustificato dall’esigenza di compensare l’immobilismo del legislatore[4], suo interlocutore naturale, con il quale dovrebbe avere un costante rapporto dialettico, di incontro o anche di “scontro” (è naturale un “antagonismo”[5] fra i due organi, in conseguenza del ruolo cui il giudice costituzionale è chiamato: giudicare e, se del caso, caducare gli atti prodotti dal Parlamento). Nel silenzio del legislatore, però, la Corte ha gradualmente assunto il ruolo di “supplente”, superando la precedente “timidezza”[6], che la portava a rigettare le questioni che “si aprivano a plurimi esiti ricostruttivi del tessuto normativo”[7], e iniziando, di fronte a questioni particolarmente delicate – e soprattutto riguardanti la materia penale – a osare sempre più[8], sino a “sconfinare” al di fuori dei limiti che tradizionalmente le sono riconosciuti[9]. Siffatto “sconfinamento”, dunque, affonda le sue radici nell’auto-emarginazione del Parlamento[10], il quale non solo non adempie al suo ruolo spontaneamente, ma neppure quando viene espressamente sollecitato. La tecnica decisoria in due tempi è stata ideata dalla Corte proprio con l’obiettivo, dichiarato, di esortare il Parlamento ad esercitare le sue prerogative: in questo senso, la Corte ha tentato di individuare uno strumento che consentisse di evitare un’ulteriore “umiliazione ed emarginazione del Parlamento e del principio rappresentativo”[11]. Infatti, “se a seguito della prima pronuncia il legislatore facesse luogo alla salvaguardia dei diritti, risvegliandosi dal suo annoso letargo, la Corte non avrebbe necessità di perfezionare l’intervento preannunziato nella sua prima decisione e portare così ad effetto la manovra già avviata”[12]. Dunque, la Corte ha pur tentato, ideando tecniche decisorie quali l’incostituzionalità prospettata o la precedente “doppia pronuncia”[13], “di metter le mani sul calendario dei lavori parlamentari”[14], così da esortare il legislatore ad affrontare determinate questioni, poiché esso rimane sempre “il soggetto «preferito» per dare risposta al problema di costituzionalità” sollevato dinanzi alla Corte medesima[15]. Il legislatore, però, è padrone di sé e non è tenuto ad intervenire solo perché il Giudice delle leggi lo sollecita[16]. Ed è allora che la Corte interviene incisivamente. Essa, infatti, si ritrova dinnanzi a ridotte alternative: o dichiara inammissibili le questioni non risolvibili “a rime obbligate” e rispetta la discrezionalità del Parlamento, ma sopporta il vulnus di costituzionalità, oppure si pronuncia “a versi sciolti”, compiendo scelte discrezionali che non le competono, ma garantendo il pieno rispetto dei diritti. La Corte interviene, insomma, per rispondere alle richieste di tutela formulate dai corpi sociali, solo dopo che il legislatore, sordo alle loro istanze, non ha accolto neppure quelle della Corte[17]. In materia di sanzioni – penali ma anche amministrative –, il Giudice delle leggi ha recentemente scelto di orientarsi in un’ottica di maggiore “attivismo”, così da “evitare la determinazione di «zone franche» del giudizio di costituzionalità e di scongiurare «insostenibili vuoti di tutela» che possano discendere da una pronuncia meramente ablativa”[18].
La crisi del Parlamento genera, quindi, dal punto di vista della Corte, un conflitto fra il principio della separazione dei poteri e la tutela dei diritti, che, a sua volta, determina uno “scivolamento” della Corte medesima verso la sua anima politica[19].
La risposta che la Corte può dare alle istanze sociali bisognose di tutela, però, è solo parziale: la visione della Corte, infatti, è “parcellizzata”, in quanto essa, per quanto cerchi di garantire la più larga tutela possibile dei diritti, è inevitabilmente condizionata dalla domanda che le viene posta da chi solleva la questione incidentale[20]. In tema di suicidio assistito, ad esempio, la Corte ha tentato, con la sent. 242 del 2019, di fare le veci del Parlamento - assumendo la veste di “legislatore positivo”[21] - dettando una disciplina generale, disciplina che, però, risulta “ritagliata” sul caso di specie, cosicché non è in grado di ricomprendere neppure situazioni ad esso analoghe, ma non completamente sovrapponibili.
Oltretutto, per quanto pregevole possa essere l’obiettivo cui la Corte aspira, cioè assicurare la piena ed effettiva tutela ai diritti fondamentali, si può dire che il fine giustifica i mezzi? La compressione del principio di separazione dei poteri rischia di ledere quegli stessi diritti in nome dei quali la Corte agisce, in quanto tale principio ha, nei loro confronti, una funzione servente[22]. La separazione dei poteri, pure nella visione temperata dell’attuale Stato costituzionale, garantisce che nessuno degli organi costituzionali possa agire in maniera incontrollata e incontrollabile, facendo qualunque cosa voglia, senza dover necessariamente rispettare i diritti dei cittadini. In quest’ottica, siffatte alterazioni dei ruoli istituzionali non ledono solo la separazione dei poteri, ma ledono conseguentemente anche l’altra “base portante” dello Stato costituzionale, cioè la difesa dei diritti[23].
Ancora, se è vero che la supplenza è determinata dall’inerzia legislativa, è anche vero che tale supplenza, qualora perpetuata, rischia di reiterare l’inerzia stessa, creando dei cortocircuiti difficili da neutralizzare[24].
La Corte, ovviamente, avverte la necessità di rispettare i ruoli istituzionali, ed è proprio per questo che è stata ideata la tecnica dell’incostituzionalità prospettata, al fine, cioè, di “accordare al legislatore la precedenza temporale nella nuova disciplina della materia”[25]. In altri casi, però, la Corte ha agito direttamente, “rompendo gli indugi” e “confermando di considerare ormai pleno iure fungibili i ruoli istituzionali”[26]. Ciò risulta chiaramente dalla sent. 41 del 2021, nella quale la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità delle disposizioni che prevedevano la partecipazione in via ordinaria ai collegi di Corte d’appello di giudici onorari (i giudici ausiliari), in quanto contrastanti con l’art. 106 Cost., secondo comma, ma ha rinviato la caducazione di tali disposizioni di ben quattro anni (sino al 31 ottobre 2025)[27]. Così, la Corte ha praticamente deciso di “sospendere” temporaneamente l’operatività dell’art. 106, secondo comma, della Costituzione, negando il “diritto ad essere giudicati da giudici idonei, forniti dei requisiti previsti dalla Costituzione”[28]. Essa, infatti, non si è limitata a consentire la sopravvivenza degli effetti prodotti in passato dalla normativa incostituzionale (in modo da evitare di travolgere giudizi già pronunciati da collegi irregolarmente composti), ma ha anche riconosciuto ai giudici onorari la possibilità di continuare, anche dopo la sentenza di incostituzionalità, a svolgere ordinariamente funzioni collegiali, in violazione – riconosciuta – del preciso divieto costituzionale[29], al fine di evitare un grave pregiudizio all’amministrazione della giustizia[30]. Tale rischio, però, poteva essere scongiurato in altri modi[31], che non avrebbero comportato l’avallo di una situazione di incostituzionalità da parte dello stesso custode della Costituzione.
Se in materia penale la Corte non ha accettato, in alcuni casi, che il dover compiere scelte discrezionali le precludesse di agire in difesa dei diritti, ed è pertanto intervenuta in luogo del legislatore (considerando il limite della discrezionalità solo quale limite “relativo”), nel caso in esame, invece, ha riconosciuto l’incostituzionalità di una specifica disciplina, l’ha dichiarata, ma ha previsto, al contempo, che la violazione della Costituzione potesse – e possa – perdurare ancora per un po’, disattendendo così “le legittime aspettative di chi aveva correttamente eccepito l’esistenza di un vulnus costituzionale”[32].
In questo senso, è stato detto che la Corte sembra trattare il limite della discrezionalità del legislatore diversamente a seconda delle circostanze: a volte viene fatto espandere, altre volte contratto[33]. Il problema, a questo punto, diventa la mancanza di un canone prestabilito – sia pure forgiato dalla stessa Corte – che consenta di prevedere in modo sufficientemente attendibile come la Corte si pronuncerà nel corso di questa o quella vicenda processuale[34].
Da ultimo, poi, con la sent. 40 del 2023, in materia di sanzioni amministrativo pecuniarie, concernenti le inadempienze delle strutture di controllo delle produzioni agroalimentari registrate con denominazione di origine o indicazione geografica protetta, la Corte ha realizzato un ulteriore intervento “sostitutivo” al legislatore. In questa sentenza, infatti, essa ha rilevato l’incostituzionalità della sanzione fissa prevista per un ampio novero di condotte illecite aventi diverso disvalore, ma, anziché limitarsi ad una pronuncia di mero accoglimento, ha statuito che la sanzione prevista dalla norma censurata debba essere “conservata” come massima, e, attraverso una pronuncia sostitutiva, ha previsto un minimo edittale, ricavandolo dalla disciplina riguardante le violazioni degli organismi di controllo sui prodotti BIO[35] (disciplina utilizzata come “punto di riferimento”, in conseguenza della “piena omogeneità finalistica”[36]).
Si è osservato che la Consulta tende a piegare e adattare “alle peculiari e pressanti esigenze di una situazione di fatto i canoni sul giudizio di costituzionalità”[37], dismettendo talvolta i panni di giudice, e indossando quelli del decisore politico, generando “un’anomala commistione dei ruoli istituzionali”: “è francamente singolare che la Corte reputi di potere scegliere di volta in volta quale vestito indossare a seconda della rappresentazione teatrale che si accinga a fare, se quello del garante ovvero l’altro del decisore”[38]. Da ciò emerge l’immagine della Corte quale organo “potente”, sia “quando decide dei contenuti, sia quando decide delle forme attraverso le quali esprimerli; sia quando «dice», inoltre, che quando «tace», come peraltro notato, già decenni orsono, da raffinata dottrina, in relazione al significato «politico» connesso al crescente utilizzo di decisioni di inammissibilità”[39].
Dunque, se da un lato la Corte ha assunto un ruolo – dichiaratamente non voluto – di “supplenza” a causa della crisi dell’organo politico, dall’altro lato non si può non notare che l’evoluzione delle tipologie decisorie ha determinato un’ampia libertà della Corte nell’adeguare la tecnica da utilizzare al singolo caso, con conseguenze negative “in termini di certezza del diritto costituzionale (e, perciò, di prevedibilità nell’uso degli strumenti processuali)”[40]. Tale evoluzione è iniziata già dalle prime sentenze del giudice costituzionale, poiché la previsione delle sole due alternative “secche” di accoglimento o rigetto è risultata sin da subito inadeguata a consentire alla Corte di esercitare a pieno le sue funzioni,dimostrando così l’ingenuità dell’idea che la Corte potesse essere mero “legislatore negativo”[41]. D’altronde, il compito della Corte non è semplice: essa deve tutelare i diritti, ma stando attenta a non compiere scelte discrezionali, che solo il legislatore può effettuare, ma che difficilmente compie; quando, poi, rinviene una situazione di illegittimità costituzionale può accoglierla, con il rischio di creare un vuoto normativo, o rigettarla esortando il Parlamento ad intervenire, ma lasciando intanto in vigore una normativa illegittima[42]. L’horror vacui, ha spinto, così, la Corte, nella consapevolezza che a una declaratoria di incostituzionalità difficilmente segue un tempestivo intervento del legislatore, a ideare degli strumenti che consentano di non aprire voragini normative[43]. In questo senso, “l’intera storia dell’arricchimento degli strumenti decisori che ha contrassegnato la parabola evolutiva del ruolo della Corte costituzionale nel nostro ordinamento”, esprime l’esigenza di “minimizzare, circoscrivere, limitare «a quanto strettamente necessario» gli effetti delle pronunce di accoglimento”, in virtù della consapevolezza “dell’estrema difficoltà del legislatore di intervenire, ove necessario, a valle della declaratoria di incostituzionalità al fine di ripianare la lacuna da questa provocata”[44].
La crisi del Parlamento – la cui origine è difficile da individuare con precisione, ma la cui sussistenza è evidente a tutti – spiega, al tempo stesso, l’espansione del potere della Corte, e la sua difficoltà nel rendere giustizia costituzionale, che la porta a ideare nuove e modellare vecchie tecniche decisorie, da adattare alle circostanze[45]. Questo modus operandidella Corte, però, genera un circolo vizioso: il Parlamento, infatti, trae vantaggio dalla supplenza, in quanto può evitare di intervenire in quei campi che rischierebbero di compromettere il consenso raggiunto dalla maggioranza in vigore in quel dato momento[46]; così, l’inerzia comporta la supplenza che accentua l’inerzia. Si parla di “malfunzionamento sistemico” che viene così a determinarsi, in quanto il Parlamento si sente “sotto tutela giurisdizionale”, e finisce per “delegare ai giudici la soluzione dei problemi di costituzionalità più delicati, scaricando su di essi la propria responsabilità”[47]. Una tale problematicità, che da tempo viene attenzionata negli Stati Uniti, risulta di particolare attualità in un sistema come quello italiano, “a fronte – cioè – di maggioranze poco coese e attraversate da ideologie all’un tempo deboli e differenziate”, che indeboliscono sempre più la legittimazione dei partiti e dei sistemi politici in genere[48]. La classe politica in crisi tende, dunque, trasferire altrove le sue responsabilità: “in simili condizioni un meccanismo particolarmente costrittivo (…) qual è quello della doppia pronuncia di nuovo tipo non solo non pare idoneo a stimolare la reattività del legislatore, ma ne sollecita l’inerzia, consentendogli un commodus discessus dalle sue responsabilità politiche”, e facendogli perdere, così, “lo stimolo alla coraggiosa assunzione del dovere di risposta politica”[49].
La “fungibilità” tra una tecnica decisoria e l’altra è ormai un fattore da tenere (sempre più) in considerazione nello studio della giurisprudenza costituzionale, che crea di continuo, con “irrefrenabile fantasia”, sempre nuove soluzioni[50]. Inoltre, “la ricca e piuttosto disordinata panoplia di strumenti e di tipologie di decisioni che la Corte italiana usa, pur essendo pressoché tutta di elaborazione giurisprudenziale, non pare favorire un lavoro organico e sistematico del Giudice delle leggi”[51].
Così, la legge 87 del 1953 non basta più come quadro normativo di riferimento del giudice costituzionale. Invero, articoli come il numero 28 (che impedisce alla Corte “ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”) e il numero 30 terzo comma (che statuisce che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”), potrebbero sembrare ormai superati. In realtà, ciò risulta eccessivo: a non aver “resistito” non è tanto la norma in sé, quanto più la sua assolutizzazione, la “logica del «tutto-o-niente»”, che mirava ad impedire qualsiasi manipolazione normativa e temporale[52]; tali norme, però, continuano ad avere fondamentale rilevanza, e a limitare l’azione della Corte, nella misura in cui consentono di essere - per così dire - “derogate” solo in esito ad un contemperamento con valori di pari rango[53]. D’altronde, la legge 87 è stata scritta in un’epoca in cui non si aveva alcuna esperienza della giustizia costituzionale e del suo concreto modo di operare; ciò nonostante, il suo impianto generale non è mai stato del tutto disatteso, anzi è risultato “impermeabile” a tutte le difficoltà e le esigenze che sono sorte dalla prassi del giudizio costituzionale[54]. Tuttavia, come si è detto, la prassi si è evoluta, per cui sarebbe forse giunto il momento che tale legge venisse “adeguata agli insegnamenti della pratica”[55], non essendo necessario un suo stravolgimento, quanto più, però, qualche importante modifica, che consenta di “ri-razionalizzare” il ruolo del giudice costituzionale.
Risulta insomma necessario mettere ordine. In tal senso, sembra difficile aspettarsi un intervento del legislatore, “già tradizionalmente schivo anche nel semplicemente codificare gli innovativi approdi della giurisprudenza della Corte”; appare allora ancora più essenziale il contributo della dottrina, che, con la sua opera di instancabile analisi e “razionalizzazione ex post” della giurisprudenza della Corte, “potrebbe fornire allo stesso giudice costituzionale elementi utili ad indicare i termini della nuova rotta intrapresa”[56]. La stessa Corte, poi, dovrebbe tentare di ricondurre ad un sistema le operazioni manipolative che compie, magari facendo ricorso ad una decisione “magisteriale”, ad una “sentenza-matrice caratterizzata dalla motivazione «eccedente» rispetto le esigenze del caso deciso, idonea a indicare le linee-guida e i criteri generali cui il giudice della legge intende attenersi nell’intraprendere il nuovo percorso”[57].
Una precedente sentenza che si è mossa in questa direzione, e che ha tentato, cioè, di definire i contorni di un modello decisorio, è la sent. 10 del 2015, nella cui motivazione, nell’affrontare la problematica relativa al potere della Corte di disporre degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento, emerge l’impegno argomentativo della Corte per tentare di offrire “alla scelta compiuta un orizzonte ampio e, specialmente, per definirne ragioni e termini”[58].
In un diverso ambito – ma non per questo meno pertinente – si è inserita la sent. 36 del 1997, nella quale la Corte, decidendo sull’ammissibilità di un referendum abrogativo, ha elaborato per la prima volta gli “indici” della manipolazione ammessa mediante lo strumento ablatorio popolare[59].
Dunque, nel tempo non sono mancati sforzi del giudice costituzionale per “fornire una «bussola» ai suoi interlocutori”[60]. E una tale bussola dovrebbe essere fornita anche oggi, in quanto, “al netto delle inevitabili oscillazioni connaturate all’esercizio della giurisdizione”, si avverte l’esigenza di comprendere “le ragioni della coerente compresenza delle diverse soluzioni a disposizione del giudice costituzionale”[61].
In particolare, dovrebbero essere stabiliti dei principi e dei criteri direttivi, preferibilmente da inserire proprio all’interno delle norme integrative opportunamente modificate, e precisati poi in sede giurisprudenziale, ai quali “far capo laddove si reputi necessaria ed urgente una produzione normativa discrezionalmente forgiata per via pretoria, in vece di quella legislativa colpevolmente mancante”[62]. Tale soluzione è stata definita “di compromesso”, in quanto, se, da un lato, definendo i limiti entro i quai i ruoli istituzionali possono essere “mescolati”, determinerebbe una ulteriore breccia al principio della separazione dei poteri, dall’altro lato, consentirebbe, però, di “preservare un brandello di tipicità dei ruoli stessi”[63]. Alla Corte potrebbe, infatti, essere riconosciuta la facoltà di fare le veci del legislatore soltanto a determinate condizioni ed entro certi limiti, nei casi in cui, ad esempio, risulti acclarata la particolare gravità del vulnus di costituzionalità e impossibile tollerarne ulteriormente l’incisione[64]. In questo modo, certo, sarebbe incisa la separazione dei poteri, ma si tratterebbe, in realtà, di normare un fenomeno che nella prassi già si verifica, e si verifica senza limiti e contorni ben precisi. Avallare tale prassi, alla luce delle considerazioni effettuate, significa forse prendere consapevolezza di un assetto istituzionale che più che mutato si è evoluto, e che continua ad evolversi; l’adeguamento della disciplina alla prassi potrebbe consentire che tale evoluzione avvenga in futuro in maniera meno caotica e più comprensibile per chi osserva, perché si muoverebbe all’interno di confini ben delineati.
Per quanto giuste siano, quindi, le critiche dogmatiche agli interventi più “audaci” del giudice costituzionale, non si possono non considerare le impellenti esigenze della prassi: “questa è la differenza fra chi rimane fedele a tutti i costi a schemi teorici e chi, invece, rileva la distanza tra la pura teoria e la prassi del diritto, con la sua necessaria attenzione al complesso degli interessi in gioco”[65]. Dunque, una “razionalizzazione delle sue tecniche decisorie”, e, di conseguenza, “una loro preventiva delimitazione e definizione, potrebbe aiutare l’«organo di chiusura» del nostro ordinamento a rasserenare i rapporti con gli altri poteri dello Stato”[66].
Affinché, poi, la Corte possa svolgere al meglio le sue funzioni, “senza forzature (apparenti o reali) e nel rispetto delle regole processuali” è davvero necessaria una “rifondazione del ruolo del Parlamento”[67]. Come si è avuto modo di osservare, la supplenza della Corte sembra essere controproducente, non aiuta il legislatore a risvegliarsi dal “suo annoso letargo”, ma anzi agevola il suo rimanere inerte[68]. Ruggeri propone, allora, il seguente rimedio: “obbligare lo Stato a risarcire i danni causati dalle omissioni del legislatore” (“sempre che – beninteso – risulti provato il nesso di causalità tra le stesse e i vulnera recati alla sfera soggettiva degli agenti”)[69]; nella consapevolezza che ciò comporterebbe un appesantimento ulteriore della procedura legislativa, poiché il legislatore cercherebbe il più possibile di evitare carenze vistose che possano “spianare la via ad esborsi anche cospicui di denaro per le già sofferenti casse dello Stato”; lo stesso autore sostiene che comunque questa soluzione possa costituire il “male minore”, poiché comunque una proposta che presenti solo vantaggi e non comporti alcun costo è impossibile da individuare[70]. Tale soluzione replicherebbe il modello adottato in sede europea, dove gli Stati vengono sanzionati se non danno esecuzione alle sentenze della Corte di Giustizia, o se non adempiono agli obblighi comunitari[71]. Una soluzione in tal senso, però, potrebbe non bastare: sanzionare non basta quando vi sono profondi problemi strutturali.
2. Osservazioni conclusive
La Costituzione, in senso liberaldemocratico, è un “processo storico” e non un mero “atto” puntuale nel tempo, per cui non deve stupire “né preoccupare troppo la mutazione, nel corso dei decenni, del rapporto fra Corte e Parlamento, a vantaggio della prima”[72]. La nostra Costituzione è, infatti, giovane, così come è giovane il giudice costituzionale, a differenza del Parlamento. Secoli di storia hanno permesso di consolidare la figura dell’organo rappresentativo, di far evolvere e far radicare la consapevolezza di quali siano i suoi compiti e i suoi limiti. Certo, le funzioni e i meccanismi operativi del Parlamento continuano ad evolversi, in relazione a come cambia la società nel suo complesso. La Corte costituzionale, invece, non ha neppure un secolo di storia alle sue spalle. Quando è stata ideata, i Costituenti hanno “inventato” un organo, senza avere nessuna esperienza concreta, basandosi solo sulle teorizzazioni di eminenti studiosi, e sulle esperienze di altri ordinamenti. Ogni ordinamento, però, è differente, e, si sa, la teoria arriva fino ad un certo punto. L’evoluzione dei rapporti fra Corte costituzionale e Parlamento è, a parere di chi scrive, un fenomeno fisiologico, dovuto al consolidamento di un organo che deve ancora essere a pieno inquadrato. Lo “sconfinamento” della Corte al di fuori dei limiti pensati dai Costituenti è un superare i confini fra due organi che, quando questi sono stati tracciati, non avevano mai interagito fra di loro. Pertanto, se da un lato occorre evitare una “commistione fra ruoli istituzionali”[73], e occorre sempre difendere la separazione dei poteri, per evitare che la Corte si tramuti in una “terza camera” del Parlamento, dall’altro lato, non basta criticare la Corte perché compie scelte discrezionali che, in teoria, le sarebbero precluse. Occorre, forse, prendere atto dell’evoluzione del rapporto e riscrivere la disciplina che lo regola, in base all’esperienza che è stata acquisita in quasi settant’anni di attività del giudice costituzionale.
Viviamo oggi in un momento di crisi del principio rappresentativo e dell’organo legislativo. Tuttavia, la Corte ha, in effetti, fatto i conti con un Parlamento inerte di fronte a violazioni dei diritti, già sin dagli albori della sua attività. All’inizio, però, poiché tali violazioni erano provocate dalla legislazione fascista, la Corte poteva “supplire” al Parlamento semplicemente dichiarando l’incostituzionalità delle leggi, riuscendo così nell’opera di smantellamento di una legislazione autoritaria, che avrebbe dovuto essere abrogata direttamente dal legislatore. Oggi, invece, per garantire l’effettiva attuazione dei diritti, non basta più caducare leggi anteriori, ma occorre “riempire i vuoti” (come nel caso Cappato), o, viceversa, adoperarsi per non creare dei vuoti (come nel caso della sent. 41 del 2021). Sin da quando è nata, dunque, la Corte si è impegnata per tutelare i diritti, ma il modo in cui questa tutela è stata realizzata è inevitabilmente cambiato. Non sono mancati, comunque, periodi di attività particolarmente proficua del Parlamento, ad esempio a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, durante i quali le decisioni della Corte hanno assunto un carattere più cauto e meno dirompente. In questo senso, sembra condivisibile la ricostruzione di Giuliano Amato, che, nel descrivere i rapporti fra gli organi di garanzia – Corte costituzionale e Presidente della Repubblica - e legislatore, parla di “moto a fisarmonica”[74]: nei momenti di vuoto politico e legislativo si espandono i ruoli degli organi di garanzia, e viceversa[75].
Un’altra metafora che dipinge con chiarezza l’immagine del tema qui esaminato è fornita da Spadaro: si tratta della metafora della “barca a vela”, che “però dispone di un «motorino» per i momenti in cui il vento non spira o c’è burrasca – la nostra «barca» (forma di governo) ordinariamente naviga «a vela» (parlamentare), ma dispone anche – per i tempi di bonaccia (inanità politica) o di tempesta (emergenze) – di due «motorini» (Presidente e Corte), che le permettono comunque di proseguire il suo percorso senza gravi intoppi. Proprio grazie alla presenza dei due motorini ricordati, il singolare sistema italiano – «forma di governo parlamentare con doppia supplenza» – nonostante le sue note imperfezioni, tutto sommato «funziona»”[76].
Sembra, dunque, che gli organi di garanzia non siano solo “anticorpi” del sistema che impediscono all’organo politico di violare la Costituzione esorbitando dalla sfera dei poteri che gli sono attribuiti – come accaduto in epoca fascista -, ma impediscono anche che la Costituzione, e, segnatamente, i diritti che essa riconosce, siano violati dall’immobilismo del legislatore[77]. Così, se il legislatore viola con un atto la Costituzione, l’atto viene annullato; se il legislatore viola con un “non atto” la Costituzione, la Corte lo esorta ad intervenire, o, addirittura, detta una “disciplina provvisoria” che colmi il vulnus di costituzionalità. Ciò, nel parere forse ingenuo di chi scrive, non sembra troppo preoccupante. L’equilibrio del sistema ideato dai Costituenti, che verrebbe danneggiato dagli interventi “suppletivi” della Corte, è un equilibrio che era stato solo teoricamente pensato, ma che nella prassi non appare adeguato.
Il grande assente, come si è detto, è una normativa di riferimento che consenta di “ridefinire” il ruolo della Corte, tracciando dei confini che, non essendo più solo pensati ma essendo stati anche “testati”, siano maggiormente in grado di guidare – e limitare – in concreto l’attività della Corte, così da garantire anche il rispetto dell’irrinunciabile principio della separazione dei poteri, nell’ottica oggi privilegiata non di netta separazione, ma di proficuo dialogo e bilanciamento fra gli organi. Potrebbe essere la stessa Corte costituzionale, nell’esercizio del suo potere di autoregolamentazione, ad intervenire in tal senso[78].
“L’iperattivismo” della Corte che si registra oggi potrebbe, dunque, essere l’attuazione di quel moto a fisarmonica di cui già si parlava più di quarant’anni fa, e forse, più che una minaccia all’equilibrio di sistema, rappresenta un riassestamento dell’equilibrio medesimo, che risultava già compromesso dalla crisi politica in atto, che, fra l’altro, al momento, non sembra essere facilmente e rapidamente superabile.
[1] M. Dogliani, “La sovranità (perduta?) del Parlamento e la sovranità (usurpata?) della Corte costituzionale”, in “Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima «politica» e quella «giurisdizionale»”, a cura di in R. Romboli, Torino, 2017, pp. 75 e ss.
[2] M. Dogliani, “La sovranità (perduta?) del Parlamento e la sovranità (usurpata?) della Corte costituzionale”, p. 84. “La crisi della rappresentanza è, soprattutto, crisi dei partiti: non è di certo un mistero, e ampia dottrina si è espressa a riguardo, che i partiti abbiano smarrito la propria funzione di anello di congiunzione tra la società civile e le istituzioni”. D. Scopelliti, “Il canale giurisdizionale per il riconoscimento dei diritti: tra crisi della rappresentanza e supplenza nei confronti della politica”, in Dirittifondamentali.it, Fascicolo 2/2022, 11 maggio 2022, pp. 28 e ss.
[3] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, in Rivista AIC, Fascicolo 2/2023, 12 aprile 2023, pp. 103 e ss.
[4] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, in “Ricordando Alessandro Pizzorusso. Verso una nuova «stagione» nei rapporti fra Corte costituzionale e legislatore?”, a cura di E. Malfatti, V. Messerini, R. Romboli, E. Rossi, A. Sperti, Pisa, 15 dicembre 2022, pp. 24 e 25.
[5] La relazione fra Corte e legislatore è, secondo Carnevale, declinata in termini “antagonisti”, “che pure, però, per altri aspetti, ha conosciuto una declinazione opposta, di marca assimilazionista”, dovuta “essenzialmente al convergere su di un medesimo campo d’azione rappresentato del tessuto legislativo”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, in Nomos. Le attualità del diritto, Fascicolo 3/2023, www.nomos-leattualitaneldiritto.it , p. 3, nota n. 2.
[6] D. Manelli, “La diffamazione a mezzo stampa e il persistente dominio dell’inerzia legislativa nella tutela dei diritti. La Consulta perfeziona un nuovo caso di «incostituzionalità differita» con la sentenza n. 150 del 2021”, in Consulta online, Fascicolo 1/2022, pp. 94 e ss.
[7] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 28.
[8] D. Manelli, “La diffamazione a mezzo stampa e il persistente dominio dell’inerzia legislativa nella tutela dei diritti. La Consulta perfeziona un nuovo caso di «incostituzionalità differita» con la sentenza n. 150 del 2021”, cit., p. 102.
[9] “Il fenomeno dello «scaricabarile» istituzionale inevitabilmente arriva, alla fine, all’organo giudiziario «di chiusura» di tutto l’ordinamento: la Corte costituzionale”. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 135.
[10] “A me sembra evidente che la causa prima dei supposti «sconfinamenti» della Corte andrebbe cercata nell’abulia del legislatore che, non solo ha consentito alla Corte di allargarsi, ma l’ha costretta a farlo, non fornendo ad essa strumenti utili per lavorare adeguatamente”. R. Bin, “Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, in Quad. cost., Fascicolo 4/2019 (pp. 757 ss.); testo consultabile su www.robertobin.it , p. 4.
[11] M. Dogliani, “La sovranità (perduta?) del Parlamento e la sovranità (usurpata?) della Corte costituzionale”, p. 84.
[12] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 29.
[13] La differenza, però, è che nel caso dell’incostituzionalità prospettata “il giudice costituzionale non solo intende metter mano all’agenda del legislatore immettendovi l’argomento da trattare, ma prescrive altresì il tempo di trattazione, stabilendone il termine ultimo, così da incidere sull’autonomia delle Camere, la quale – per usare le stesse parole della Corte – «si estrinseca non solo nella determinazione di cosa approvare, ma anche di quando approvare»”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 26.
[14] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 25.
[15] La preferenza per un intervento del legislatore è testimoniata anche dall’ulteriore rinvio cui la Corte ha fatto ricorso con l’ordinanza 122 del 2022, per consentire ai lavori parlamentari, che avevano raggiunto uno stato abbastanza avanzato, di giungere a termine. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 25.
[16] È stato osservato, ad esempio da Carnevale, che la fissazione di un termine a legiferare possa rappresentare, “piuttosto che un pungolo, un disincentivo all’intervento del legislatore”: “questi, difatti, avendo di fronte «già fissata» la data di esecuzione della condanna a morte della legge potrebbe essere fatalmente indotto ad attendere l’(ormai sicura) irrogazione della pena capitale da parte del giudice costituzionale, la cui certezza d’intervento avrebbe perciò l’effetto di deresponsabilizzarlo, invece che responsabilizzarlo”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., pp. 26-27.
[17] D. Scopelliti, “Il canale giurisdizionale per il riconoscimento dei diritti: tra crisi della rappresentanza e supplenza nei confronti della politica”, cit., p. 29.
[18] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, Relazione al Convegno del Gruppo di Pisa tenutosi a Como il 26-27 maggio 2023: “I 70 anni della Legge n. 87 del 1953: l’occasione per un “bilancio” sul processo costituzionale”, consultabile in forma provvisoria sul sito del Gruppo di Pisa, www.gruppodipisa.it , p. 20.
[19] A. Mazzola, “Decide che deciderà! La Corte costituzionale torna a adoperare la tecnica inaugurata con il «caso Cappato»”, in Consulta online, Fascicolo 3/2020, pp. 545 e ss.
[20] D. Scopelliti, “Il canale giurisdizionale per il riconoscimento dei diritti: tra crisi della rappresentanza e supplenza nei confronti della politica”, cit., p. 48.
[21] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, in Costituzionalismo.it, Fascicolo 1/2023, pp. 112 e ss.
[22] A. Ruggeri, “Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica?”, in Osservatorio sulle fonti, Fascicolo 2/2021, pp. 568 e ss.
[23] A. Ruggeri, “Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica?”, cit., p. 595.
[24] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, cit., p. 126.
[25] A. Ruggeri, “Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica?”, cit., p. 581.
[26] Ibidem.
[27] V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, in Osservatorio costituzionale AIC, Fascicolo 2/2021, pp. 130 e ss.
[28] V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, cit., pp. 131-132.
[29] La sent. 41 è “una sentenza di natura additiva che non mira – contrariamente a quanto usualmente praticato – a sanare, nell’immediato, il vulnus contestualmente accertato, quanto piuttosto a renderlo «sopportabile» limitandone la durata nel tempo”. R. Pinardi, “Costituzionalità «a termine» di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021)”, in Consulta online, Fascicolo 1/2021, pp. 288 e ss.
[30] V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, cit., p. 135.
[31] Tra possibili rimedi “giusti” in grado di garantire l’ordinata prosecuzione dei processi, Onida cita, ad esempio, l’innalzamento dell’età pensionabile dei giudici professionali, o iniziative anche straordinarie di reclutamento di nuovi magistrati professionali, o anche riforme semplificatrici dei procedimenti giudiziari, o altre riforme intese a ridurre la domanda di giustizia cui deve rispondere la magistratura professionale. V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, cit., p. 135.
[32] R. Pinardi, “Costituzionalità «a termine» di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021)”, cit., p. 293.
[33] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 34.
[34] Ibidem.
[35] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 17.
[36] Corte cost., sent. 11 gennaio 2023, n. 40, considerato in diritto, punto 5.5.1.
[37] A. Ruggeri, “Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)”, in Giustizia insieme, www.giustiziainsieme.it , 13 aprile 2021.
[38] Ibidem.
[39] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, cit., p. 119.
[40] A. Ruggeri, “Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)”, cit.
[41] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 3.
[42] Carnevale parla, con riferimento ai casi in cui il Giudice delle leggi rinuncia ad intervenire, pur ravvisando la necessità di un suo intervento, di “sfumatura amara del velim (iudicare) sed non possum”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 7.
[43] “La Corte sembra voler cercare ogni possibile strada per evitare soluzioni che possano dirsi invasive della sfera riservata al legislatore e, nella stessa logica, tende ad evitare decisioni che possano creare vuoti nomativi o comunque esiti idonei a produrre una situazione di incostituzionalità paradossalmente maggiore rispetto a quella che si dovrebbe andare a rimuovere”. M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 28.
[44] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 4.
[45] G. Silvestri parla di “felix culpa” della Corte costituzionale, facendo riferimento a qualche “eccesso o disinvoltura” che in questi anni hanno caratterizzato le sue decisioni, le quali, però, al contempo, sono riuscite a realizzare una coraggiosa opera “di «bonifica» costituzionale della legislazione”. G. Silvestri, “Legge (controllo di costituzionalità)”, in Dig./pubb., IX, Torino 1994, p. 32; A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 106.
[46] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, cit., p. 126.
[47] M. Luciani, “Ogni cosa al suo posto”, Milano, 2023, pp. 207 e ss.
[48] Ibidem.
[49] M. Luciani, “Ogni cosa al suo posto”, cit., p. 209.
[50] R. Pinardi, “Costituzionalità «a termine» di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021)”, cit., pp. 290-291.
[51] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 106.
[52] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 40.
[53] In senso contrario, invece, Spadaro, che ritiene che sia avvenuta ormai “una sorta di abrogazione tacita della seconda parte dell’art. 28, l. n.87/1953”, in quanto la Corte costituzionale sembra decidere, di volta in volta, quando sussiste la discrezionalità del Parlamento, e quando invece non sussiste. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., pp. 133-134.
[54] R. Bin, “Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, cit., p. 2.
[55] Ibidem.
[56] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., pp. 17-18.
[57] Ibidem, p. 18.
[58] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 18.
[59] Ibidem, p. 19.
[60] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 19.
[61] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 34.
[62] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 35.
[63] Ibidem, p. 36.
[64] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 36.
[65] Intervento del Giudice Prof. Gaetano Silvestri, in Aa. Vv. “Atti della giornata in ricordo del Giudice emerito della Corte Costituzionale Vezio Crisafulli”, Corte costituzionale, Roma, 2011, pp. 54 ss. (www.cortecostituzionale.it/documenti/pubblicazioni/Giornata_Crisafulli.pdf ).
[66] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 106.
[67] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., pp. 44-45.
[68] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., pp. 38-39.
[69] Ibidem.
[70] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 40.
[71] Ibidem.
[72] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 105.
[73] A. Ruggeri, “Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)”, cit.
[74] G. Amato, “Dal garantismo alla democrazia governante”, in Mondoperaio, Fascicolo 6/1981, pp. 17 ss.
[75] A. Formisano, “La tendenziale convergenza della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica nelle situazioni di emergenza”, in Nomos. Le attualità del diritto, Fascicolo 1/2023, www.nomos-leattualitaneldiritto.it , p. 2.
[76] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 136.
[77] “L’attuale «sistema di relazioni inter-istituzionali”» presenta alcuni rischi, ma esso può ancora essere letto, soprattutto se contestualizzato in un quadro più ampio, quale inevitabile e più generale risposta di supplenza concreta che, a ben vedere, «tutti» gli organi costituzionali di controllo (quindi anche il Presidente della Repubblica), svolgono di fronte alle costanti carenze e ripetute omissioni di «tutti» gli organi di indirizzo politico (dunque anche del Governo)”. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 105.
[78] Spadaro, ad esempio, si augura che venga realizzata una “razionalizzazione normativa autogestita” dalla stessa Corte, in quanto, in fondo, è proprio nell’interesse di quest’ultima che si dovrebbe mettere ordine nella “quasi sconfinata panoplia di tipi e sottotipi di decisioni che usa”, invece di aspettare che sia il Parlamento ad intervenire in tal senso; quest’ultimo, infatti, potrebbe intervenire “nella forma che più gli aggrada/ rassicura – plausibilmente la legge costituzionale – e nella sostanza”, forse, “solo per contenere pro domo sua i poteri del Giudice delle leggi”. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 140.
Foto di Francesco Ammendola - Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica
L’art. 578 c.p.p. tra Sezioni unite e Corte costituzionale
di Aniello Nappi
Dopo l’intervento delle Sezioni unite del 2009 la giurisprudenza della Corte di cassazione è consolidata nel senso che «allorquando, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., il giudice di appello - intervenuta una causa estintiva del reato - è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova». Sicché è indiscusso che «all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l'impugnazione del pubblico ministero proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p.».
Nel 2021 è tuttavia intervenuta in tema la Corte costituzionale, affermando che l’art. 578 c.p.p. non viola il diritto dell'imputato alla presunzione di innocenza, «perché nella situazione processuale che vede il reato estinto per prescrizione e quindi l'imputato prosciolto dall'accusa, il giudice non è affatto chiamato a formulare, sia pure "incidenter tantum", un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili», ma «nel decidere sulla domanda risarcitoria, anziché verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, deve accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell'illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.)».
Si è dunque prospettata la possibilità che la decisione della Corte costituzionale abbia così contraddetto la giurisprudenza di legittimità, che in presenza della parte civile esige sempre l’accertamento pieno in ordine alla responsabilità penale dell’imputato nonostante la sopravvenuta estinzione del reato per amnistia o prescrizione.
Con ordinanza dell’8 giugno 2024 la Quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha dunque rimesso la questione alle Sezioni unite, ritenendo che il principio di diritto enunciato nel 2009 dalla sentenza Tettamanti potrebbe appunto essere ormai incompatibile con la sopravvenuta decisione della Corte costituzionale del 2021.
Risolvendo la questione loro rimessa, le Sezioni hanno però ribadito ora, con sentenza depositata il 27 settembre 2024, che «nel giudizio di appello avverso la sentenza di condanna dell'imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l'estinzione del reato per prescrizione, non può limitarsi a prendere atto della causa estintiva, adottando le conseguenti statuizioni civili fondate sui criteri enunciati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 182 del 2021, ma è comunque tenuto, stante la presenza della parte civile, a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, la sussistenza dei presupposti per l'assoluzione nel merito».
Ha precisato la Corte che «la situazione processuale oggetto della pronuncia della Consulta riguarda il caso in cui “il giudice dell'impugnazione penale (giudice di appello o Corte di cassazione), spogliatosi della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia), deve provvedere — in applicazione della disposizione censurata — sull'impugnazione ai soli effetti civili”»; mentre «il principio espresso da Sez. U, Tettamanti opera, invece, nel caso in cui non sia venuta meno per il giudice dell'impugnazione penale la cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato». Sicché «l'esigenza di tutela della presunzione d'innocenza nei rapporti tra proscioglimento in rito dall'accusa penale e potere cognitivo del giudice dell'impugnazione sugli interessi civili non si pone nell'ambito applicativo del principio espresso da Sez. U, Tettamanti, concernente la possibilità per il giudice penale di privilegiare l'assoluzione nel merito dall'accusa penale sulla declaratoria di prescrizione, con parallela revoca delle statuizioni civili».
Tuttavia la Corte non ha chiarito a quali condizioni il giudice dell’impugnazione possa ritenersi “spogliato” «della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia)». Infatti l’esercizio da parte del giudice dell'impugnazione penale della cognizione piena sulla responsabilità penale dell'imputato dovrebbe escludere che quello stesso giudice possa pervenire alla dichiarazione di estinzione del reato limitando la sua cognizione all’illecito civile.
Come ha rilevato l’ordinanza di rimessione alle Sezioni unte, non è che «dapprima debba essere condotta l’indagine secondo le direttive della Sez. U. Tettamanti e successivamente, ove esclusa la possibilità di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma secondo, c.p.p.». nel merito, dovesse farsi applicazione di quelle dettate dalla Corte costituzionale».
In realtà la decisione delle Sezioni unite è corretta, perché non è un’impossibile cesura tra i due accertamenti a rendere la sentenza Tettamanti compatibile con la decisione della Corte costituzionale, ma è l’effetto devolutivo dell’impugnazione a determinare l’ambito della cognizione del giudice adito.
Infatti l’accertamento pieno ai fini dell'eventuale assoluzione nel merito, richiesto dalla giurisprudenza di legittimità «anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie», presuppone che al giudice dell’impugnazione sia devoluto appunto l’accertamento della responsabilità dell’imputato, ai sensi dell’art. 597 o dell’art. 606 c.p.p.: presuppone ad esempio che il giudice sia chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione ai fini penali proposta dall’imputato che neghi la sua colpevolezza. Mentre può accadere che il giudice dell’impugnazione sia chiamato a pronunciarsi su questioni che non pongano in discussione la colpevolezza dell’imputato, con la conseguenza che in tal caso potrebbe trovare applicazione solo l’art. 129 comma 2 c.p.p., laddove prevede che anche «quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta». E in questi casi il giudice, esclusa l’evidenza della non colpevolezza dell’imputato, potrà pronunciarsi sulla sola azione civile in conformità alla decisione della Corte costituzionale.
Potrà accadere ad esempio che, quando il solo P.M. abbia impugnato una sentenza di condanna anche al risarcimento dei danni in favore della parte civile (lamentando ad esempio l’erronea esclusione di un’aggravante a effetto speciale o l’irrogazione di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato), il giudice dell’impugnazione, non sia chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza dell’imputato e dunque, ove sopravvenga comunque l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia e non risulti applicabile l’art. 129 comma 2 c.p.p., dovrà pronunciarsi sull’azione civile ai sensi dell’art. 578 c.p.p.; e potrà allora ribadire la condanna agli effetti civili anche nel caso in cui la responsabilità penale sarebbe stata in realtà da escludere indipendentemente dall'estinzione del reato, perché, come chiarito da C. cost., n. 182/2021, il giudice dovrà in tal caso attenersi alle regole di giudizio e allo standard probatorio del processo civile.
Ma anche quando fosse l’imputato a impugnare la sentenza di condanna, per lamentare ad esempio solo l’eccessività della pena o il mancato riconoscimento di un’attenuante, la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione o amnistia renderebbe possibile un proscioglimento nel merito solo in applicazione dell’art. 129 comma 2 c.p.p.; e dunque il giudice dell’impugnazione, esclusa l’evidenza di non colpevolezza dell’imputato e dichiarato estinto il reato, dovrebbe ribadire la decisione in favore della parte civile, eventualmente anche solo in applicazione delle regole di giudizio e dello standard probatorio del processo civile.
Si deve pertanto concludere che correttamente le Sezioni unite hanno escluso l’ipotizzabilità della dedotta incompatibilità tra la giurisprudenza di legittimità e la decisione della Corte costituzionale, perché, per gli effetti devolutivi delle impugnazioni, C. cost., n. 182/2021 risulterà applicabile solo quando non sia applicabile la sentenza Tettamanti.
Per leggere la sentenza: https://www.cortedicassazione....
La certezza del diritto penale e l’incertezza del resto: la nozione di pubblico servizio tra diritto penale e altri diritti
Maria Sabina Calabretta
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il punto di vista della legge penale – 3. L’incertezza del resto – 4. La nozione di incaricato di pubblico servizio nella sua declinazione giurisprudenziale penale - 5. L’attività “BANCOPOSTA” - 6. Ultime riflessioni in tema di coerenza interna del sistema normativo.
1. Introduzione
Spesso l’interprete affronta acque perigliose quando deve risolvere problemi applicativi che coinvolgono ambiti e materie diverse, ciascuna connotata da profili peculiari: così è per l’interprete penale che deve risolvere, spessissimo, il problema dell’applicabilità delle norme che puniscono condotte del pubblico ufficiale e dell’esercente un pubblico servizio. In casi come questo, gli strumenti interpretativi del diritto penale sostanziale si intersecano, indubitabilmente, con quelli propri del diritto amministrativo. Verrebbe da dire che nel mondo del perfetto sistema, del legislatore unico e quasi “creatore” di un mondo perfetto, tutto dovrebbe corrispondere e nessun problema dovrebbe sorgere nella concreta casistica applicativa. Ma, indubbiamente, la realtà giuridica vive di regole, eccezioni e diversità e l’operatore penale, ogni volta che si trovi ad applicare una fattispecie inclusa tra i reati contro la pubblica amministrazione, deve verificare se il soggetto che esercita una determinata attività percepita e disciplinata secondo le regole del servizio pubblico sia un esercente un pubblico servizio. Proprio così: perché non è così scontato che ad ogni servizio pubblico corrisponda un esercente un pubblico servizio quale descritto dall’art. 358 c.p.
2. Il punto di vista della legge penale
Sia consentita una premessa preliminare: il codice sostanziale non prevede una nozione universalmente valida né di pubblico ufficiale né di pubblico servizio. Tanto è vera questa premessa, che sia l’art. 357 c.p. che il successivo art. 358 c.p. contengono un inciso chiarificatore: “agli effetti della legge penale”. E ciò si comprende alla luce del fatto che scopo della norma penale è quello di individuare soggetti e condotte di soggetti meritevoli di sanzione penale.
Il legislatore, pertanto, con le disposizioni citate si riferisce alla materia penale e pone dei confini precisi. Quanto ai pubblici ufficiali dispone:
Quanto invece agli incaricati di un pubblico servizio:
L’osservazione che si può fare, sulla base del dato letterale della norma, è che il punto di vista del legislatore penale oltre ad essere metodologicamente mirato all’ambito strettamente penale, è altresì indubbiamente connotato da una prevalente dimensione sostanzialistica. Sia il pubblico ufficiale che l’incaricato (cioè, chi riceve un incarico) di pubblico servizio tali sono in quanto svolgono una determinata attività.
Quanto alle caratteristiche di tale attività essa, sia nel caso del pubblico ufficiale che nel caso del pubblico servizio, di sicuro può dirsi che le stesse rivestano un interesse ultra individuale le cui insopprimibili esigenze di tutela sono proprio quelle che giustificano inasprimenti sanzionatori (si pensi alle differenza tra appropriazione indebita e peculato) o previsioni di sanzioni penali per comportamenti altrimenti di mero rilievo civilistico (turbativa d’asta e violazione di regole concorrenziali) o meramente amministrativo.
Ebbene, l’impostazione sostanzialistica delle anzidette nozioni è evidentemente desumibile dal tenore letterale degli articoli citati, e ciò vale sia per la pubblica funzione che per il pubblico servizio. Quanto alla funzione pubblica, posto che nessun particolare dubbio ponevano le funzioni legislativa e giudiziaria, il legislatore del 1992 ha inserito nell’art. 357 c.p. il secondo comma, specificatamente rivolto alla funzione amministrativa, elencando una serie di indici rivelatori della natura pubblica di una funzione di amministrazione (ulteriori rispetto alla natura pubblicistica delle norme che la disciplinano) ovvero: l’agire per atti non paritari rispetto al destinatario, il contenuto tendenzialmente volitivo di questi atti ed il loro estrinsecarsi mediante poteri autoritativi o certificativi (o entrambi) .
La declinazione della nozione di pubblici ufficiali a fini penali si è per l’effetto attuata, nella applicazione giurisprudenziale, attraverso percorsi che possono definirsi condivisi: si riconosce la qualità di pubblici ufficiali (alle condizioni previste dalla legge) agli appartenenti alle forze armate e alle forze dell’ordine che commettano fatti previsti dalla legge come reato nell’esercizio delle loro funzioni, ai docenti universitari, di scuole statali e di istituti parificati nell’esercizio delle attività certificative e autorizzative e, alle stesse condizioni, ai dipendenti degli enti locali (si pensi al dipendente del Comune addetto all’ufficio tecnico) ed al personale delle aziende sanitarie e del servizio sanitario nazionale, con particolare riferimento alla tipologia di attività svolta (Cass. pen., Sez. V, Sentenza, 16/12/2019, n. 9393 (Rv. 278665-01), così massimata: “L'infermiere operante in una struttura sanitaria privata, anche se non accreditata con il servizio sanitario nazionale, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto l'attività svolta, come evidenziato anche dall'art. 1 della legge 10 agosto 2005, n. 251, persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute individuale e collettiva ed esercita, quindi, un'attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del pubblico ufficiale quando redige la cartella o la scheda infermieristica. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di cui agli artt. 476 e 479 cod. pen. per le false attestazioni compiute in una scheda infermieristica di una casa di cura privata, in quanto atto destinato a confluire nella cartella clinica, condividendone, quindi, la natura di atto pubblico munito di fede privilegiata).”
Più problematica, nello stesso approccio ermeneutico, la nozione a fini penali dell’incaricato di pubblico servizio. Il secondo comma dell’art. 358 c.p. sebbene non contenga lo stesso inciso di rinvio “ agli effetti penali” deve intendersi riferito e limitato ad essi e specifica la nozione non mediante l’utilizzo del verbo essere (come sarebbe delle definizioni, laddove ogni cosa o concetto è o non è altra cosa o un altro concetto astratto) bensì attraverso una “convenzione”: dice infatti la legge che “…Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale.”
Nel definire si dice sia cosa “deve essere” (un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione”) sia cosa “non deve essere”, ovvero una semplice mansione di ordine o una prestazione di opera meramente materiale.
Nel diritto penale, diritto vivente e del fatto, la declinazione di pubblico servizio (ulteriormente declinata con riferimento ai servizi di pubblica necessità ex art. 359 c.p.) prescinde dall’inserimento del soggetto attivo in un determinato contesto soggettivo pubblicistico: nell’art. 358 c.p. la legge, infatti, espressamente prevede che l’esercente un pubblico servizio è tale a prescindere dal titolo in ragione del quale svolga l’attività riconducibile al canone definitorio (posto che il primo comma della norma prevede che “Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.”). Sotto tale profilo, indubbiamente, il legislatore ha delineato una nozione oggettiva di pubblico servizio, derivante dalla disciplina normativa dell'attività considerata, indipendentemente dalla natura, pubblica o privata, del soggetto da cui l'attività è svolta. A confortare la declinazione oggettiva delle definizioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, vale altresì citare il disposto dell’art.360 c.p., “Cessazione della qualità di pubblico ufficiale” a norma del quale ove il fatto reato sia commesso da soggetto che riveste la qualità, ovvero anche solo aggravato in ragione della stessa, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude la esistenza di questo né la circostanza aggravante, se il fatto si riferisce all'ufficio o al servizio esercitato[1].
Simmetricamente, quindi, il pubblico ufficiale è tale quando agisce nell’esercizio dei poteri legislativo, giudiziario, amministrativo e l’esercente un pubblico servizio tale è quando svolga un’attività (non di mero ordine né meramente materiale) che sia disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione.
Questa premessa ci induce a ritenere che, delle molte possibili (e particolarmente care al diritto amministrativo, che tradizionalmente declina la nozione di pubblico servizio secondo impostazioni soggettive, oggettive o miste), il legislatore penale abbia inteso fare propria una nozione sostanzialistica del pubblico servizio.
3. L’incertezza del resto
Il diritto amministrativo conosce la categoria del pubblico servizio e del servizio pubblico locale, ed ancora del servizio pubblico essenziale (art. 43 Cost.) sebbene fatichi, e non poco, ad approdarne ad una definizione esaustiva e finale dell’uno e dell’altro.
Si sono nel tempo variamente confrontate tra loro nozioni di pubblico servizio (locale e non) improntate ad una prevalente dimensione soggettiva, ovvero oggettiva o, infine, mista.
Nella presente riflessione non si pretende certo di individuare una nozione condivisa in quell’ambito, piuttosto, da interprete penale, si tenta di raccogliere, con sporadiche incursioni nel diritto pubblico, indizi che possano risultare altresì utili a declinare la corrispondente nozione penalistica.
Ebbene, alla nozione di servizio pubblico fa senz’altro riferimento l’art. 43 della Costituzione per il quale “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”: la norma certamente collega la nozione di servizio e quella di impresa, con una connotazione in termini di rilievo ultra individuale ed economico dell’attività svolta e, altresì, individua, tra i servizi pubblici, un sottoinsieme dedicato ai servizi pubblici “essenziali”. L’impostazione costituzionale sembrerebbe quindi optare per una nozione del pubblico servizio in senso oggettivo
In via di prima approssimazione interpretativa, può certamente affermarsi che la nozione di “servizio pubblico” è comunque declinata dal legislatore costituzionale in correlazione con la funzionalizzazione di una determinata attività al soddisfacimento di bisogni di carattere collettivo.
Così letta, la norma costituzionale sembra superare (anche in ragione della natura della fonte) l’originaria impostazione della legge Giolitti (legge 29 marzo 1903 n. 103), che istituiva le aziende municipalizzate e del TU n. 2578 del 1925, e conteneva, all’art. 1[2], un elenco dei servizi pubblici (che il Comune poteva assumere) ripartiti in n. 19 categorie : la legge citata seguiva, quindi, un’impostazione prevalentemente soggettiva del servizio pubblico al contempo temperato dalla elencazione di attività finalizzate al soddisfacimento di bisogni collettivi (acqua, luce, fognature, trasporti ecc. ecc.).
La materia risulta oggi ampiamente trattata nel Decreto legislativo 23 dicembre 2022, n. 201, “Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, sempre però con un occhio assolutamente privilegiato alla dimensione, appunto, economica del servizio: ebbene la citata dimensione economica non risulta invece necessariamente valutata come coessenziale ai fini del diritto penale, rispetto al quale, ad esempio, valgono piuttosto, oltre al rilievo ultra individuale dell’interesse sotteso, la presenza di eventuali poteri attestativi, certificativi, valutativi e di controllo connaturati all’attività svolta (come nel caso del capocantiere Anas, cfr. Cass. Sez. 6, sent. n. 3342 del 20/12/2023 Ud. (dep. 26/01/2024) Rv. 285906 – 01, così massimata: “In tema di reati contro la pubblica amministrazione, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il "capo cantiere sorvegliante" dipendente di Anas s.p.a., il quale non è assegnatario di semplici mansioni d'ordine, né prestatore di opere meramente materiali, ma svolge attività disciplinate nella stessa forma della pubblica funzione, essendo titolare di numerosi compiti di guida, sorveglianza e vigilanza sull'operato degli altri lavoratori, di sottoscrizione di verbali di accertamento, di redazione di un rapporto settimanale dei lavori eseguiti.”.
Altri “indizi”, potenzialmente utili all’interprete penale (ferma restando l’impostazione definitoria del legislatore penale attuata attraverso l’inciso “a fini penali”) li ritroviamo nel nuovo Codice degli appalti (decreto legislativo 31 marzo 2023 n. 36), in particolare, nel capo dedicato al partenariato pubblico privato di tipo contrattuale o istituzionale (anche menzionato come PPP) disciplinato dagli artt. 174-208. Il raccordo, non intuitivo, tra il concetto di servizio pubblico e quello di partenariato pubblico privato diviene evidente avuto riguardo alla declinazione della relativa nozione, contenuta nell’art. 174 del decreto legislativo citato[3],: indubbiamente la norma segue una impostazione sostanzialistica e privilegia una valutazione di tipo economico dell’istituto (basti pensare che il legislatore al riguardo prevede una programmazione, ed altresì la valutazione di fattibilità ed efficienza, art. 175 commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 36 citato).
Resta ferma la assoluta rilevanza del tema relativo alla individuazione della nozione di servizio pubblico nel diritto processuale amministrativo, posto che l’art. 133 del codice di quel processo espressamente prevede che tale materia costituisca ipotesi di giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo (in particolare la lettera c) del citato articolo testualmente prevede che siano devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: “c) le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità;…”.
Quanto alle fonti eurounitarie, l’art. 106 del TFUE prevede al secondo paragrafo che “le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione”. Le citate fonti sovranazionali paiono quindi approcciare ad una prevalente valutazione della dimensione economica del servizio/prestazione, astrattamente idonea a soddisfare una “missione” di rilievo ultra-individuale (e perciò di interesse pubblico).
Concludendo, queste rapide e senz’altro sintetiche incursioni nel diritto pubblico interno e nel diritto euro unitario, di certo non sembrano risolvere i dilemmi dell’interprete penale (cui il legislatore ha indicato, come detto, una via “riservata”): in esse, tutte, prevale, all’evidenza, una valutazione economica del servizio pubblico (inteso come attività che produce prestazioni o beni di interesse per la collettività) che non risulta del tutto corrispondente a quella utilizzata in sede penale.
4. La nozione di incaricato di pubblico servizio nella sua declinazione giurisprudenziale penale
Premessa la nozione di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 c.p., valutata la sua diversità rispetto alle nozioni proprie del diritto amministrativo, pare doveroso verificare in quali casi concreti la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto sussistente la qualifica di incaricato di pubblico servizio.
La prima e più ampia categoria certamente comprende i dipendenti di enti che svolgono un pubblico servizio: così è stato affermato che fosse incaricato di pubblico servizio il gestore del servizio di ambulanza, il gestore del servizio di soccorso stradale, il depositario di veicoli coinvolti in incedenti stradali, il ricevitore autorizzato a ricevere giocate, il custode del cimitero, l’addetto alle casse dell’azienda sanitaria locale ed altre variegate ipotesi.
Si osserva che di frequente si ritiene ricorra tale particolare qualifica nei casi in cui il soggetto movimenti denaro proveniente dallo Stato o da enti locali (così ad esempio l’amministratore di una comunità per il recupero di tossicodipendenti beneficiaria di erogazioni finanziarie pubbliche vincolate) ovvero sia preposto alla raccolta dai privati di somme di denaro destinate all’erario (il caso più evidente quello del soggetto autorizzato alla raccolta delle giocate, con specifico riferimento al versamento del c.d. PREU).
Questo, si intende, perché in ipotesi di tale specie senz’altro risulta agevolmente individuabile la norma che impone comportamenti doverosi analoghi a quelli previsti per la pubblica funzione, ovvero una norma che vincola l’agire del soggetto nell’interesse di una collettività e segna le direzioni dei suoi comportamenti.
Così, ad esempio, nel caso del soggetto esercente attività di raccolta di giocate, la convenzione sottoscritta tra il predetto e l’ente concessionario dei monopoli, impone all’esercente tanto le modalità della raccolta tanto l’esazione del PREU ed il suo successivo pagamento all’Erario.
Sembra quindi possa affermarsi che, dopo la riformulazione dell’art. 358 c.p. ad opera del legislatore del 1990, si è adottato un criterio oggettivo-funzionale per la definizione del pubblico servizio, sicché la qualifica pubblicistica dell'attività prescinde dalla natura dell'ente in cui è inserito il soggetto e dalla natura pubblica dell'impiego. Possiamo altresì affermare, con un certo grado di convinzione, che un ulteriore indice rivelatore della qualità di pubblico servizio e del soggetto incaricato risiede nella disciplina dell’attività ad esso correlata: deve essere quindi possibile rinvenire una norma di natura pubblicistica che indichi un comportamento doveroso per il soggetto che lo esercita al precipuo fine di consentire la realizzazione di interessi propri della collettività (in ciò il servizio è pubblico). Se il soggetto è totalmente libero nella realizzazione di una determinata attività, nella scelta del contraente, nella individuazione dei propri scopi di impresa e delle modalità con cui perseguirli, sarà ben difficile che lo stesso possa ritenersi incaricato di pubblico servizio, anche se l’ambito in cui opera sia di interesse pubblico.
Certamente questa conclusione costituisce approdo certo della giurisprudenza della Corte di la quale ha recentemente affermato che “Il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è dunque identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata, con esclusione in ogni caso dall'area pubblicistica delle mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835; Sez. 6 n. 39359 del 07/03/2012, Ferrazzoli, Rv. 254337).” (cfr. Cass. Sez. 6, sent. N. 21624 del 2022)
5. L’attività “BANCOPOSTA”
La questione relativa all’ambito di operatività della nozione di esercente un pubblico servizio si è recentemente posta con specifico riferimento alla attività c.d. di “BANCOPOSTA” svolta dal Poste s.p.a.: come noto la soluzione della questione, ritenuta controversa, circa la natura dell’attività bancoposta è stata recentemente rimessa alle Sezioni Unite della Corte (notizia di decisione n. 10/24).
Poste S.p.a., ente avente forma giuridica di società per azioni, nel nostro sistema può svolgere attività “bancaria” o “finanziaria”, attività oggi pacificamente privatistica sebbene vigilata dalle competenti Autorità (Banca d’Italia, in particolare, per il settore dell’attività bancaria e Consob per quello del mercato finanziario): entrambe tali attività si estrinsecano in negozi giuridici sottoposti a regime privatistico, nonostante l’interesse delle Autorità di Vigilanza al rispetto di determinati standard di tutela finalizzati ad assicurare sana e prudente gestione dell’attività bancaria ed i controlli necessari e opportuni per l’attività finanziaria.
Tuttavia, non si ritiene di poter affermare che Poste svolga attività bancaria in regime parificabile a quello degli altri operatori, rispetto ai quali le attività di vigilanza sono comunque successive e di gestione ed estranee alla concreta disciplina dei singoli rapporti: ed invero, in virtù di una specifica normativa Poste s.p.a. svolge tale attività in regime “concessorio” da Cassa Depositi e Prestiti ed è proprio la relazione genetica con tale ente che deve essere valutata al fine di verificare se dalla stessa sorgano obblighi comportamentali e precetti di disciplina che realizzano proprio quella particolare condizione cui la giurisprudenza della Corte riconnette l’operatività dell’art. 358 c.p., ovvero quella “regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata”. La questione, come noto, è controversa ed oggetto di una recente rimessione alle Sezioni Unite, proprio al fine di scongiurare pronunce tra loro contrastanti sul punto.
Ebbene, tornando alla eventuale esistenza di una regolazione pubblicistica, l’analisi delle norme vigenti pare fornire elementi indizianti in tal senso: ciò varrebbe, in particolare, proprio con riferimento a quella attività di raccolta del risparmio che si estrinseca attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi (cfr. sul punto Cass. Sent. Sez. 6 n. 44146 del 22 giugno 2023) e tanto si desume dalla circostanza che tali forme di risparmio abbiano un regime fiscale agevolato e l’esenzione da taluni oneri in materia successoria e, ancor prima, che tale attività sia svolta per conto della Cassa Depositi e Prestiti, anch’essa ente con forma societaria sebbene con una “spiccata vocazione al sostegno degli investimenti pubblici”.
Quanto a tale ultimo aspetto, val la pena considerare che l’art. 5, comma 7) lett. a) del DL 30 settembre 2003 n. 269 (convertito con modificazioni dalla l. 24 novembre 2003 n. 326) prevede tra l’altro che “La CDP S.p.A. finanzia, sotto qualsiasi forma:
Risulta quindi, per quanto di interesse ai fini della individuazione della rilevanza della qualifica di esercente un pubblico servizio, la circostanza che a monte dell’attività Banco Posta ci sia una norma primaria che prevede espressamente che Cassa depositi e prestiti nello svolgimento delle proprie finalità si finanzi attraverso prodotto nominativamente definiti (libretti di risparmio postale, buoni fruttiferi postali) assistiti dalla garanzia dello stato e distribuiti attraverso Poste Italiane Spa. Tanto significherebbe, altresì, che quale mera distributrice il prezzo di distribuzione non sia necessariamente determinato da Poste: se nel contratto tipico di offerta al pubblico dei predetti prodotti si rinvenissero disposizioni limitative della concreta volontà contrattuale non tanto dell’acquirente ma dell’offerente-distributore Bancoposta, ecco che si invererebbe proprio la condizione già ritenuta dalla cassazione come coessenziale alla natura del pubblico servizio.
Dalla consultazione del sito delle Poste è possibile acquisire ulteriori informazioni: si tratta di prodotti emessi da Cassa Depositi e Prestiti che appunto li distribuisce attraverso Poste spa, con agevolazione fiscale sia su interessi che su eventuali premi (con tassazione al 12,50%) e che sono esenti da imposte di successione.
Va da sé che già per esempio la determinazione ad opera di CDP del prezzo di vendita del prodotto potrebbe costituire argomento utilizzabile al fine di ritenere che la libertà contrattuale di Poste non sia del tutto priva di limiti, non sia una libertà contrattuale piena e che, per l’effetto, vi siano i presupposti per ritenere che l’attività relativa alla collocazione sul mercato di quel tipo di prodotti si sostanzi nell’esercizio di un pubblico servizio ai sensi e per gli effetti dell’art. 358 c.p. : tuttavia, occorre ben ponderare, in ottica più ampia, la circostanza che anche nei rapporti giuridici privati sono possibili vincoli contrattuali in virtù dei quali un determinato soggetto assume l’obbligo di collocare sul mercato beni o servizi a prezzi predeterminati dalla propria controparte contrattuale. Il discrimine potrebbe, quindi, rinvenirsi nella circostanza che la ratio del vincolo contrattuale risponda ad interesse non meramente individuale, ovvero ad interesse collettivo, senza peraltro trascurare che comunque attraverso la vendita di tali prodotti CDP, ente che svolge attività di rilievo ed interesse pubblicistico, si finanzia.
La questione di diritto (controversa) del “Se, nell'ambito delle attività di "bancoposta" svolte da Poste Italiane s.p.a., ai sensi del D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, la "raccolta del risparmio postale”, (raccolta di fondi attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi effettuata per conto della Cassa depositi e prestiti art. 2 comma 1 lett. b) d. lgs. 30 luglio 1999 n. 284) -, abbia natura pubblicistica e, in caso positivo, se l'operatore di Poste Italiane s.p.a. addetto alla vendita e gestione di tali prodotti rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 cod. pen.” risulta, come detto, di recente rimessa alle Sezioni Unite della Corte con l’ordinanza n. 31605 del 29 maggio 2024.
In attesa della decisione delle Sezioni Unite, pare ragionevole affermare comunque che proprio la correlazione dell’attività bancaria svolta da Poste Spa rispetto a quella della Cassa Depositi e Prestiti, unitamente alla circostanza che quella specifica categoria di prodotti sia presidiata da garanzia dello Stato, porta ad evidenziare a monte una “vocazione pubblicistica in senso oggettivo” dell’attività bancaria svolta da Poste e relativa a questi prodotti.
Si verte, quindi, nel caso di specie di una duplice corrispondenza tra l’attività bancoposta ed il pubblico servizio, trattandosi di attività che da una lato è relativa, anche se in senso ampio, al patrimonio destinato dello stato, dall’altro finalizzata, in senso oggettivo, al finanziamento dello stato, delle regioni, degli enti locali, degli enti pubblici e degli organismi di diritto pubblico, attività che ex se e in senso oggettivo integra un pubblico servizio (anche prescindere dall’utilizzo che gli enti destinatari facciano di queste risorse).
Il regime di tassazione agevolata, l’esenzione dalle imposte di successione e, ultimo ma non per importanza, la strumentalità dell’attività Bancoposta al raggiungimento dell’obiettivo senz’altro di rilievo pubblicistico, di finanziare soggettività di rilievo pubblico, in particolare, concreta quella particolare ipotesi di delimitazione esterna del pubblico servizio che vincola l'operatività dell'agente (se non Poste spa, strumento di collocazione sul mercato di prodotti emessi da Cassa Depositi e Prestiti, direttamente quest’ultima, vincolata ad utilizzare la provvista ricavata per il surriferito finanziamento pubblico) e che costituisce presupposto per l’operatività dell’art. 358 c.p., limitatamente all’attività di collocamento sul mercato dei prodotto emessi da CDP.
6. Ultime riflessioni in tema di coerenza interna del sistema normativo
Posta la non corrispondenza tra i concetti di esercente un pubblico servizio in ambito penale e quello in materia penale, è interessante chiedersi se possano esservi incompatibilità tra norme che disciplinano l’esercizio del servizio pubblico nella declinazione propria del diritto amministrativo e norme che mirano ad individuare condotte sanzionabili penalmente poste in essere dall’esercente ex art. 358 c.p.
Ora, questa distanza tra i due sistemi, astrattamente configurabile ad esempio con riferimento a comportamenti “efficienti” (in ambiti nei quali è ammessa discrezionalità) non pienamente conformi alle previsioni di una norma di rango qualificato, deve pur trovare un momento di applicazione coerente.
In tali casi, se di certo non può giungersi a ritenere lecito per il diritto amministrativo un comportamento meramente predatorio posto in essere dall’esercente un pubblico servizio, potrebbe valutarsi invece lecito il caso in cui l’esercente un pubblico servizio tenga un comportamento diverso da quello previsto dalla norma che disciplina l’attività, senza recare nocumento ( ed anzi recando un vantaggio all’amministrazione): si ponga il caso di scelta non conforme ad un criterio predefinito ma vantaggiosa (e non illecita, posto che l’illiceità costituisce sempre ragione di anno per l’amministrazione).
La giurisprudenza della Corte di Cassazione dimostra come questo potenziale conflitto sia stato già affrontato: il caso che si vuole richiamare è quello risolto (in senso favorevole all’imputato) dalla Corte di legittimità con la sentenza delle sez. 6, n. 25173 del 13/04/2023 Ud. (dep. 09/06/2023) Rv. 284790 – 01). In essa, si afferma tra l’altro , per quanto di interesse in questa sede quale concetto condiviso, che il legale rappresentante di una società a totalitaria partecipazione pubblica, deputata allo svolgimento di attività di pubblico servizio corrispondente a quello affidato all'ente pubblico controllante riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio e che parimenti rivesta la medesima qualità anche il legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, interamente controllata da una società "in house", deputata all'espletamento di attività di carattere tecnico che si pongano in rapporto ausiliario e strumentale rispetto ai compiti pubblicistici perseguiti dalla società controllante. Tuttavia, riconosciuta la sussistenza del profilo soggettivo, nel merito la Corte è giunta ad escludere la configurabilità del cd. peculato per distrazione nella condotta di uno degli imputati in ragione di una destinazione da questi impressa a somme di denaro che, sebbene non corrispondente a quella astrattamente prevista, non giungeva comunque ad integrare un fatto appropriativa in senso stretto, in ragione della sussistenza di un interesse pubblico anche alla diversa e non prevista destinazione (ovviamente destinazione non privatistica).
Ecco, quindi, che il sistema già dimostra di essere in grado di porre rimedio a quei potenziali conflitti interni (derivanti dalla diversità tra regole amministrative di efficiente amministrazione e regole penali) valorizzando l’esistenza di un concreto vulnus quale presupposto essenziale per l’operatività della sanzione penale.
Il principio di offensività, unito alla valutazione della sussistenza del dolo quale elemento psicologico che connota i delitti contro la pubblica amministrazione, costituiscono strumenti attraverso i quali risolvere le pur configurabili diversità tra comportamenti doverosi nelle diverse sedi penale e amministrativa. Ovvia la considerazione (finale) che ogni intervento normativo che “riempia” le fattispecie incriminatrici in tema di reati contro la pubblica amministrazione di elementi connotanti (l’intenzionalità del dolo, la sussistenza del danno) costituisce strumento di ausilio per l’interprete nella individuazione del discrimine tra incriminazioni di pura forma ed incriminazioni rispondenti al principio di offensività, oltre a garantire, al contempo, la giusta reazione del sistema rispetto a condotte invece pacificamente meritevoli di rilievo nella sede penale.
[1] Interessante sul punto la recente sentenza della Corte di Cassazione sez 6, n. 33016 del 2024 udienza 11 luglio 2024 in tema di peculato dell’amministratore di sostegno così massimata “ …La ratio sottesa all'art. 360 cod. pen. è volta ad estendere gli effetti della qualifica pubblicistica, anche ad un periodo successivo alla sua cessazione, nella misura in cui sussiste un rapporto di strumentalità tra la qualifica precedentemente ricoperta e il reato commesso, la cui realizzazione deve essere stata possibile proprio sfruttando la pregressa posizione.”
[2] “Art. 1 I Comuni possono assumere, nei modi stabiliti dilla presente legge, l'impianto e l'esercizio diretto dei pubblici servizi, e segnatamente di quelli relativi agli oggetti seguenti: 1° costruzione di acquedotti e fontane e distribuzione di acqua potabile; 2° impianto ed esercizio dell'illuminazione pubblica e privata; 3° costruzione di fognature ed utilizzazione delle materie fertilizzanti; 4° costruzione ed esercizio di tramvie, a trazione animale o meccanica; 5° costruzione ed esercizio di reti telefoniche nel territorio comunale; 6° impianto ed esercizio di farmacie; 7° nettezza pubblica e sgombro di immondizie dalle case; 8° trasporti funebri, anche con diritto di privativa, eccettuati i trasporti dei soci di congregazioni, confraternite ed altre associazioni costituite a tal fine e riconosciute come enti morali; 9° costruzione ed esercizio di molini e di forni normali; 10° costruzione ed esercizio di stabilimenti per la macellazione, anche con diritto di privativa; 11° costruzione ed esercizio di mercati pubblici, anche con diritto di privativa; 12° costruzione ed esercizio di bagni e lavatoi pubblici; 13° fabbrica e vendita del ghiaccio; 14° costruzione ed esercizio di asili notturni; 15° impianto ed esercizio di omnibus, automobili, e di ogni altro simile mezzo, diretto a provvedere alle pubbliche comunicazioni; 16° produzione e distribuzione di forza metrico idraulica ed elettrica e costruzione degl'impianti relativi; 17° pubbliche affissioni, anche con diritto di privativa, eccettuandone sempre i manifesti elettorali e gli atti della pubblica autorità; 18° essicatoi di granturco e relativi depositi; 19°stabilimento e relativa vendita di semenzai e vivai di viti ed altre piante arboree e fruttifere.”
[3] Art. 174
Art. 174 “Nozione”:
1.Il partenariato pubblico-privato è un'operazione economica in cui ricorrono congiuntamente le seguenti caratteristiche: a) tra un ente concedente e uno o più operatori economici privati è instaurato un rapporto contrattuale di lungo periodo per raggiungere un risultato di interesse pubblico;
b) la copertura dei fabbisogni finanziari connessi alla realizzazione del progetto proviene in misura significativa da risorse reperite dalla parte privata, anche in ragione del rischio operativo assunto dalla medesima; c) alla parte privata spetta il compito di realizzare e gestire il progetto, mentre alla parte pubblica quello di definire gli obiettivi e di verificarne l'attuazione;
d) il rischio operativo connesso alla realizzazione dei lavori o alla gestione dei servizi è allocato in capo al soggetto privato.
2. Per ente concedente, ai sensi della lettera a) del comma 1, si intendono le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori di cui all'articolo 1 della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014.
3. Il partenariato pubblico-privato di tipo contrattuale comprende le figure della concessione, della locazione finanziaria e del contratto di disponibilità, nonché gli altri contratti stipulati dalla pubblica amministrazione con operatori economici privati che abbiano i contenuti di cui al comma 1 e siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela. L'affidamento e l'esecuzione dei relativi contratti sono disciplinati dalle disposizioni di cui ai Titoli II, III e IV della Parte II. Le modalità di allocazione del rischio operativo, la durata del contratto di partenariato pubblico-privato, le modalità di determinazione della soglia e i metodi di calcolo del valore stimato sono disciplinate dagli articoli 177, 178 e 179. 4. Il partenariato pubblico-privato di tipo istituzionale si realizza attraverso la creazione di un ente partecipato congiuntamente dalla parte privata e da quella pubblica ed è disciplinato dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, e dalle altre norme speciali di settore. 5. I contratti di partenariato pubblico-privato possono essere stipulati solo da enti concedenti qualificati ai sensi dell'articolo 63.
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