ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Attorno a questo corpo dalle mille paludi.
Introduzione al V Convegno di Giustizia insieme, Roma 6 giugno 2025
Il corpo umano ha da sempre rappresentato un mistero.
Le radici più antiche del pensiero occidentale ne hanno tramandato la considerazione alternata tra il platonico carcere dell’anima e la singolare e indissolubile combinazione aristotelica di materia e forma.
Un’ambivalenza che la prima cristianità ha saputo tradurre, a partire dal mistero dell’incarnazione divina, in modelli teologici esemplari e in raffinati sistemi morali.
A questa costitutiva ambivalenza ontologica del corpo umano il pensiero scientifico moderno ha ritenuto di potersi sottrarre sollecitando una visione del corpo dominata dall’esclusiva considerazione dei suoi elementi quantitativi (o artificialmente quantificabili), e relegandone ogni dimensione qualitativa (la mente, il pensiero, l’anima o lo spirito) al dominio della metafisica o della religione.
Proprio in questo contesto del pensiero moderno, con riguardo alla considerazione del corpo, il diritto ha smarrito la sua strada: perdutamente distratto, negligente o disinteressato, ha presupposto il Soggetto (di ascendenza cartesiana) come datità trascendentale, ne ha arredato il mondo con il caleidoscopio dei beni scambiabili o producibili, e ha abbandonato la sorte del corpo agli arbìtri dei giovani Stati sovrani, ai disegni manipolatori della loro biopolitica, e alla disciplina morale delle chiese.
Nella misura in cui il contenuto dei codici borghesi andava costruendo il governo delle società moderne attorno alla regolazione dell’autonomia del Soggetto nella gestione economica del suo patrimonio, il corpo scompariva da ogni orizzonte della giuridicità civile, per ricomparire, ora brutalizzato, torturato, più spesso rinchiuso, tra gli arnesi punitivi del potere pubblico, quelli correttivi dei sanatori o delle istituzioni manicomiali, quando non mortificato dalle severe censure morali delle autorità religiose.
Quando finalmente riapparve in un testo normativo ufficiale (fuori dai misteriosi regolamenti o dalle nascoste circolari del potere), il codice civile italiano del 1942 guardò al corpo (o più propriamente, alle sue parti) al solo fine di regolarne la disponibilità da parte del suo ‘titolare’; una disponibilità riconosciuta e consentita nei rigorosi limiti della sua pur sempre preservata integrità, a beneficio degli interessi della collettività o della Nazione, secondo i toni consueti della stanca retorica del tempo.
Il corpo come mero oggetto, dunque, affidato alle mani del suo ‘padrone’ spirituale, in coerenza ai canoni classici della tradizione idealistica.
Ma sono, quelli, gli anni in cui la riduzione del corpo a mero oggetto veniva rivelando il suo risvolto più oscuro e terrificante, attraverso il racconto del corpo (o, meglio, dei corpi) orrendamente ritratti dalla pagina di Primo Levi.
È, dunque, un uomo quello il cui corpo diventa programmaticamente la ‘cosa’ voluta dagli altri? L’oggetto che (in contrasto con ogni imperativo di ascendenza kantiana) è destinato a fornire il mezzo per la realizzazione d’interessi altrui?
Sono queste le premesse storico-culturali che, dalla metà del secolo scorso, hanno ispirato e animato l’elaborazione delle carte giuridiche di respiro internazionale per cui al singolo è restituito (o, forse, realmente consegnato per la prima volta nella storia) l’esercizio di una piena sovranità su se stesso: il principio del consenso informato della persona per ogni azione che ambisca a toccarne il corpo; la considerazione della salute, non più come assenza di patologie funzionali di una quantità materiale, ma come completo stato di benessere fisico, psicologico e sociale.
Se, dunque, corpo e mente non appaiono ormai più districabili agli occhi del più avvertito pensiero scientifico contemporaneo, neppure al diritto (come all’orizzonte della cultura contemporanea) è più consentito guardare al corpo come a qualcosa di dissociabile dalla ‘persona’ in cui consiste: la conferma, l’ennesima, dell’insufficienza o della banalità della frusta distinzione categoriale di un mondo arredato di soli soggetti e oggetti tra loro ontologicamente contrapposti.
Eppure, il racconto del mondo contemporaneo ci ammonisce che la considerazione del corpo alla stregua di una cosa, la sua oggettivazione; lo sforzo di ridurlo a pura quantità biologica; il recupero di una sua pretesa natura meramente strumentale, costituiscono i tratti di una tentazione permanente, o quantomeno ricorrente, nella storia dell’uomo; il segno, quasi, della fatale attrazione a cui conducono i sotterranei percorsi della volontà di potenza; ora travestita degli interessi della politica, talora dei panni della tecnica, più spesso della cupa avidità del denaro, fino a precipitare nel travestimento abissale dell’istintualità ferina.
È, in definitiva, il ‘potere’ (nelle multiformità delle sue manifestazioni) il vero antagonista, foucaultianamente, della libertà del corpo; la minaccia che insidia senza tregua i progetti della persona e gli spazi della sua fioritura.
Sullo sfondo di queste considerazioni, il convegno che oggi si presenta ambisce a sollecitare una comune riflessione sullo stato attuale del corpo alla luce degli assetti dei poteri contemporanei.
Si tratta di tornare a guardare i contesti o le situazioni della vita individuale o collettiva all’interno dei quali la vita del corpo rinnova il suo confronto con le criticità più antiche, o si avvia all’incontro con quelle proprie del tempo nuovo, secondo una dialettica che guarda, da un lato, all’esercizio delle libertà della persona e delle sue prerogative di liberazione e, dall’altro, alle forme della coercizione, della sua istituzionalizzazione e dei sistemi che la gestiscono.
Da qui l’interrogativo sui poteri che minacciano la condizione del corpo sofferente, segnato dal dolore fisico o dai tormenti del disagio psicologico; sui limiti entro i quali le esigenze morali o il sentimento religioso della collettività o le ambizioni del pensiero scientifico valgano ancora a giustificare l’imposizione, contro ogni volontà o convinzione personale, di trattamenti o cure non accettate né sollecitate da chi sperimenta direttamente, sulla propria persona, l’esperienza del dolore.
E ancora, gli interrogativi sulla condizione del corpo della donna o di quello, in formazione, del minore, sulla consistenza delle esigenze, nuove o antiche, che quei corpi continuamente esprimono e sulle forme in cui si manifesta la violenza delle culture, delle ideologie e delle forme di sfruttamento o di soggezione che ancora quei corpi opprimono o si propongono di farlo.
Sul piano della coercizione agìta in chiave istituzionale (o latamente politica), la riflessione che intende sollecitarsi vorrebbe fermarsi sui limiti entro i quali la detenzione all’interno delle istituzioni carcerarie, l’imprigionamento o il trattamento generale delle popolazioni civili nei contesti bellici, e ancora la gestione politica dei fenomeni migratori (sul cui ‘contrasto’ sin troppo disinvoltamente appaiono costruiti percorsi e programmi strumentali di natura politica) possano considerarsi ancora compatibili con quel ‘senso di umanità’, che pure l’art. 27 della Costituzione italiana richiama come limite (non solo negativo) dei trattamenti sanzionatori interni, e che, riferito all’esperienza della guerra, conferisce almeno uno dei significati del suo ‘ripudio’ come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11 della Costituzione).
Il desolante racconto della cronaca dei giorni presenti richiama la nostra attenzione sul dovere della ‘sacralità’ e, dunque, sul dovere di avvertire il senso del limite che la barriera del corpo pur sempre esprime sul piano simbolico, a fronte delle troppe stragi che tornano a raffigurare masse di corpi straziati, trasformati (ora in chiave offensiva, talora in chiave difensiva) alla stregua di strumenti umani nelle mani di un odio che appare inestinguibile.
Se una responsabilità è oggettivamente imputabile all’essere umano, questa è senz’altro la negligente dissipazione delle proprie memorie storiche e culturali; se ancora non è distinguibile un senso del mondo a venire - la pronuncia della parola profetica - è tuttavia senz’altro doveroso il discernimento di ciò che, per comune e generalizzata nozione, ha reso la memoria materia di giustizia; che ha scolpito sulla carne dei nostri corpi ciò “che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Attorno a questo corpo dalle mille paludi è il titolo che abbiamo scelto per il nostro Convegno di quest'anno. Si tratta di un prestito da un verso di Amelia Rosselli da Serie ospedaliera, 1969. L'immagine è La danse di Henri Matisse, dipinto nel 1909, esposto al MOMA di New York.
Questo è il programma del Convegno, che si terrà nella Sala Alessandrina presso S.Ivo alla Sapienza, sede dell'Archivio di Stato di Roma, il 6 giugno 2025.
Nel corso della giornata sarà presentato il volume L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere di Donatella Stasio (Castelvecchi, 2025).
9.00
Saluti di Antonella Parisi (vicedirettrice Archivio di Stato di Roma)
Introduzione di Paola Filippi (direttrice scientifica di Giustizia Insieme)
Presentazione del restauro e della digitalizzazione di un registro generale della Corte di assise speciale di Roma a cura di Alessandra Terrei (restauratrice)
SESSIONE I
9.25-10.35
IL CORPO DELLA DONNA discussant Marco Dell'Utri (consigliere della Corte di Cassazione)
Marilisa D’Amico (professoressa ordinaria di diritto costituzionale Università di Milano)
Valentina Calderai (professoressa associata di diritto privato Università di Pisa)
10.35-11.45
IL CORPO SOFFERENTE discussant Corrado Caruso (professore ordinario di diritto costituzionale Università di Bologna)
Stefano Canestrari (professore ordinario di diritto penale Università di Bologna)
Paolo Flores D’Arcais (filosofo e giornalista)
11.45-12.55
IL CORPO DEL MINORE discussant Gabriella Luccioli (già presidente di sezione della Corte di Cassazione)
Mirzia Bianca (professoressa ordinaria di diritto civile Università di Roma Sapienza)
Elisabetta Lamarque (professoressa ordinaria di diritto costituzionale Università di Milano Bicocca)
12.55-14 pausa pranzo
SESSIONE II
14-15.10
IL CORPO DETENUTO discussant Donatella Stasio (giornalista)
Susanna Marietti (coordinatrice nazionale Associazione Antigone)
Mario Serio (componente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale)
15.10-16.20
IL CORPO PRIGIONIERO discussant Paola Filippi (sostituta procuratrice generale della Corte di Cassazione)
Emanuela Fronza (professoressa associata di diritto penale Università di Bologna)
Raffaele Piccirillo (sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione)
16.20-17.30
IL CORPO MIGRANTE discussant Sibilla Ottoni (giudice del Tribunale di Tivoli)
Luigi Patronaggio (procuratore generale di Cagliari)
Giovanna Pistorio (professoressa associata di diritto costituzionale Università Roma Tre)
17.30-17.45
Conclusioni di Costantino De Robbio (vicedirettore scientifico di Giustizia Insieme)
La partecipazione è gratuita, ma è necessaria l’iscrizione.
È prevista la possibilità di partecipare anche da remoto grazie a Radio Radicale.
Il convegno è accreditato presso l’Ordine degli Avvocati di Roma e dà diritto a 8 crediti formativi ordinari.
Per informazioni e iscrizioni:
Comitato scientifico per il convegno: Paola Filippi, Costantino De Robbio, Michela Petrini, Sibilla Ottoni, Riccardo Ionta, Marco Dell'Utri, Angelo Costanzo, Corrado Caruso, Gabriella Luccioli, Giuliano Scarselli.
Comitato organizzatore: Margherita Occhilupo, Michela Petrini, Sibilla Ottoni, Riccardo Ionta, Costantino De Robbio, Paola Filippi, Corrado Caruso.
Immagine: Henri Matisse, La danse, olio su tela, 1909, MOMA, New York.

Dopo averci raccontato, sempre per i tipi di Laterza, di brigate rosse (Colpirne uno. Ritratto di Famiglia con Brigate Rosse, 2022) e di anarchici (La pista anarchica. Dai pacchi bomba al caso Cospito, 2023), Mario Di Vito ci racconta dei Nar e della galassia del terrorismo fascista.
Con il piglio del cronista giudiziario (l’autore segue i temi della giustizia per Il Manifesto) e con molta sicurezza nel maneggiare materiale giudiziario e di archivio, Di Vito ci racconta la storia di Mario Amato, magistrato.
Dopo la prima sede a Rovereto, arriva nel giugno del 1977 alla Procura di Roma, il “porto delle nebbie”, come l’avevano battezzata.
Arriva in un ufficio senza personale, senza schedari o banche dati dove conservare ed organizzare i dati emersi nel corso delle indagini, con i centralinisti assenti sin dal pomeriggio. Lui però tornava per pranzo a casa e sbobinava da solo le intercettazioni telefoniche.
Arriva a Roma ed eredita i fascicoli sull’eversione neofascista romana che furono di Vittorio Occorsio, pubblico ministero, ammazzato da mano fascista quasi un anno prima, il 10 luglio 1976. Agghiacciante la rivendicazione dell’omicidio di Occorsio accusato di «avere, per opportunismo carrieristico, servito la dittatura democratica perseguitando i militanti di Ordine Nuovo e le idee di cui essi erano portatori». Nonostante questo, i fascicoli sul terrorismo nero rimangono “orfani”, per quasi un anno, finché vengono assegnati ad Amato, l’ultimo arrivato.
Come Occorsio, Amato non ha colleghi che lo affiancano, nonostante i mille rivoli delle indagini sulle organizzazioni neofasciste ed il sangue che scorreva per le strade della Capitale. Un solo magistrato per seguire le trame nere mentre erano in quattro per seguire lo scandalo del calcio scommesse esploso quella stessa estate, fa notare Di Vito.
Come Occorsio, Amato gira senza scorta, senza auto di servizio.
Come Occorsio, Amato viene ammazzato, il 23 giugno 1980, mentre è solo, sulla strada verso il lavoro. Il primo a bordo della sua auto, il secondo mentre attende un autobus perché la sua auto era in panne.
Come Occorsio, Amato viene ammazzato da terroristi fascisti: gli spara Gilberto Cavallini, che poi scappa a bordo di una moto guidata da Luigi Ciavardini, entrambi nei Nuclei Armati rivoluzionari, come i fratelli Fioravanti e la Mambro. Tutti, poi, condannati per la strage di Bologna.
Nei due anni in cui ha lavorato a Roma, Amato ha incrociato, fra indagini e processi, tutti i personaggi della galassia fascista romana, da Concutelli, anello fra i vecchi ed i nuovi fascisti, agli esponenti dei NAR come i fratelli Fioravanti e la Mambro, e poi Carminati, Signorelli, Semeraro. Fanatici fascisti e delinquenti comuni e poi fanatici fascisti che, a furia di consumare rapine per finanziarsi, sono diventati delinquenti comuni. Ha attraversato la parte finale della strategia della tensione, la stagione romana degli omicidi politici, l’età della sottovalutazione della capacità militare ed eversiva dei gruppi neofascisti.
Ha dovuto lavorare nello stesso ufficio di Antonio Alibrandi, magistrato e padre di Alessandro, detto Ali Babà, militante del Fronte della Gioventù e del Movimento Sociale, poi componente dei NAR, i “nuovi” fascisti dopo la stagione di Ordine Nuovo, coinvolto in tutti i fatti più eclatanti di quella stagione criminale, latitante per anni, poi, morto in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Con un figlio così, il padre interveniva per fermare le perquisizioni delle sedi del Movimento Sociale, insolentiva i colleghi che indagavano fino a compiacersi dell’omicidio di Emilio Alessandrini “giudice della Repubblica”, minacciava i poliziotti che notificavano avvisi a comparire per il figlio, interrompeva i dibattimenti a carico dei terroristi neri. Chi sa cosa direbbero di un uno così, oggi, i tifosi dell’apparenza di imparzialità dei magistrati. Allora, venne condannato dalla sezione disciplinare del CSM alla censura, ma solo dopo che Amato era stato ucciso.
Ha dovuto lavorare con il Procuratore Giovanni De Matteo, che scriveva sulla rivista Politica e Strategia, vicina alla destra radicale, e non riassegnò tempestivamente i fascicoli di Occorsio dopo dopo il suo omicidio, non affiancò nessuno ad Amato per consentirgli di lavorare meglio, contribuì al suo isolamento in ufficio e nei rapporti con la polizia giudiziaria, fino a concludere, dopo avere appreso della sua morte, «Mario Amato è morto per un eccesso di zelo. Se non si fosse tanto preoccupato di arrivare puntuale in aula, lunedi mattina avrebbe avuto la scorta».
Amato ha sopportato una campagna di delegittimazione del foro e della stampa locale. Meno di dieci giorni prima di essere ammazzato l’Ordine degli avvocati di Roma ha diffuso, sui giornali, un documento in cui lo criticava per un ordine di cattura.
Insomma, a Roma allora la destra non era solo quella delle spranghe, delle pistole e delle bombe.
Amato era consapevole di indagare su un «ambiente con legami e diramazioni dappertutto», e di essere «solo…esposto ad attacchi della stampa e dei legali che sono legati a certa gente», come raccontava nella sua audizione innanzi alla prima commissione del CSM.
Fra fascisti, rivoluzionari o borghesi che fossero, Mario Amato è rimasto un giudice normale che cercava di fare il suo lavoro. Tutta la sua umanità traspare dalla continua ricerca di aiuto fra i colleghi, dalle richieste al Procuratore di essere affiancato dai colleghi od esonerato da parte del lavoro, dalla restituzione di fascicoli che non riusciva a lavorare.
Ha continuato il suo lavoro con scrupolo come quando, tornato dalle ferie, ha scovato per caso un fascicolo che la Procura romana stava inviando per competenza altrove e, consultando i suoi appunti personali, ha scoperto che riguardava bombe a mano già usate in attentati consumati a Roma.
Un uomo normale ma determinato, sempre alla ricerca di una “verità di assieme”. Innanzi al CSM ha invitato a non sottovalutare la pressione degli ambienti eversivi sul movimento giovanile del Movimento sociale: «ci sono ragazzi e ragazzini… come i nostri figli… figli di persone per bene, che vengono armati o comunque istigati ad armarsi e che poi ci trovano e ci ammazzano».
Ed in effetti dieci giorni dopo quell’audizione venne ammazzato mentre aspettava un autobus per andare al lavoro.
Il referendum abrogativo parziale dell’art. 8 della l. 15 luglio 1966, n.604, sui licenziamenti individuali nell’ambito delle piccole imprese, con riferimento al limite massimo della tutela indennitaria
V. A. Poso. Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data 12 aprile 2024 dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024).
Il secondo, sinteticamente denominato dai promotori “Piccole imprese - Licenziamenti” ha ad oggetto il seguente quesito: «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?».
Il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro dignitoso”, è inteso, in estrema sintesi, ad innalzare le tutele contro i licenziamenti illegittimi per le lavoratrici e i lavoratori che operano nelle imprese con meno di 15 dipendenti, eliminando il tetto massimo all’indennizzo, affinché sia il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite.
Chiedo, in particolar modo, ai giuslavoristi, in cosa consista la disciplina normativa oggetto di referendum.
Innanzitutto, un quadro sintetico dei soggetti ai quali si applica, spiegando, anche, le ragioni di politica del diritto poste a fondamento della l. n. 604/1966, che è rimasta, nel suo impianto originario, sostanzialmente immune, nonostante le riforme successive, dallo statuto dei lavoratori in poi, dovendosi, comunque, considerare le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108.
L. Zoppoli. La l. n. 604/1966 è la base di tutto l’edificio in cui albergano le tutele contro i licenziamenti arbitrari e/o viziati nella forma, nella motivazione, nella tempistica, nella procedura.
Si tratta di una disciplina importante e complessa, ripresa da accordi interconfederali degli anni ’50, che nell’insieme si può dire abbia resistito piuttosto bene al tempo con l’importante eccezione dei regimi sanzionatori, entrati in crisi solo pochi anni dopo con l’art. 18 della l. n. 300/1970.
Di quella originaria disciplina faceva parte anche il quadro sanzionatorio previsto dall’art. 8 che riguardava il licenziamento viziato in quanto carente della giusta causa o del giustificato motivo. Tale licenziamento era da considerarsi annullabile e il lavoratore godeva di una tutela c.d. obbligatoria: cioè aveva diritto ad essere riassunto entro tre giorni oppure (“in mancanza”) al risarcimento del danno consistente in un’indennità predeterminata nel minimo (5 mensilità dell’ultima retribuzione) e nel massimo (12 mensilità, che diventavano 8, se il lavoratore era in servizio da meno di trenta mesi, o 14, se aveva invece un’anzianità superiore a vent’anni), da graduare in base a tre parametri (dimensione dell’impresa, anzianità di servizio del lavoratore, comportamento delle parti).
Tutte le indennità venivano dimezzate per le imprese con meno di sessanta dipendenti (art. 8 c. 3). Per completezza occorre anche ricordare che la legge del 1966 non si applicava alle imprese con meno di trentacinque dipendenti (art. 11c. 1).
Con lo Statuto dei lavoratori la tutela obbligatoria divenne la sanzione per i licenziamenti ingiustificati solo nelle imprese che occupavano fino a sessanta dipendenti con eccezione delle unità produttive con più di quindici dipendenti o cinque, se agricole (c.d. “tutele parallele” frutto di una tribolata interpretazione giudiziaria assestatasi a fine anni ‘70 e avallata dalla Corte costituzionale). Questo assetto ha resistito fino alla l. 108/1990, adottata per scongiurare un referendum che avrebbe potuto generalizzare la reintegrazione.
Questa legge ha modificato entità e criteri di determinazione delle indennità risarcitorie, ma non il campo di applicazione dell’art. 8, conservando così la tutela obbligatoria nelle imprese che occupano fino a sessanta dipendenti con eccezioni delle unità produttive (o imprese ubicate nello stesso comune) con più di quindici dipendenti o cinque se agricole (art. 2 l. 108/90). Con la riforma del 1990 le indennità venivano fissate tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità (elevabili per i datori di lavoro con più di quindici dipendenti a 10, in caso di lavoratore con anzianità superiore a 10 anni, e a 14, in presenza di anzianità superiore a vent’anni); ed andavano calcolate sulla base non più di tre parametri ma di cinque (si aggiungono con qualche duplicazione: numero dei dipendenti occupati e anzianità di servizio del prestatore di lavoro).
Questo regime sanzionatorio, da un lato miserrimo e dall’altro frutto di cervellotiche ponderazioni, rende evidente come nelle piccole imprese la disciplina del licenziamento sia diventata sempre più frutto di compromessi all’insegna del pragmatismo più marcato dove il “valore della stabilità” per il lavoratore conta davvero poco rispetto alle miriadi di piccole imprese in cui sembra evidentemente inaccettabile indebolire anche minimamente la posizione contrattuale del datore di lavoro.
Con il Jobs Act anche gli assunti con contratto a tutele crescenti (d’ora in poi catuc, usato come acronimo) nelle piccole imprese (le stesse di cui all’art. 2 della l. 108/1990, ripreso dall’art. 18 Stat. lav. novellato nel 2012) si son visti rimaneggiare le tutele contro i licenziamenti illegittimi: queste divengono sempre solo indennitarie (con eliminazione della riassunzione, per la verità alternativa quasi mai praticata), ma mai possono superare le sei mensilità (art. 9 c. 1 del d.lgs. 23/2015).
Pertanto, il referendum sull’art. 8 della l. 604/1966 riguarda specificamente solo i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, che vedrebbero cadere il limite massimo ora previsto per le sanzioni indennitarie e avventurarsi nel mare aperto del diritto dei contratti. Come del resto, grazie alla Corte Cost. (194/2018), già parzialmente sembra accaduto sia per i lavoratori delle imprese medio-grandi assunti con catuc (per i quali la determinazione dell’indennità è ora rimessa al giudice seppure in una forbice legale di 4/36 mesi) sia per gli assunti con catuc nelle imprese più piccole, che un’altra sentenza della Corte (183/2022) ha considerato in via di espunzione dall’ordinamento.
O. Razzolini. Mi sembra che Lorenzo Zoppoli abbia già efficacemente tratteggiato il complesso quadro normativo vigente in materia di licenziamento nelle piccole imprese, dando conto anche della sua evoluzione storica.
Posso solo aggiungere che la scelta di diversificare il regime del licenziamento illegittimo in base al numero dei dipendenti sollevò un vivace dibattito parlamentare sin dall’approvazione della l. n. 604 del 1966 che, all’art. 11, ne sanciva la non applicabilità ai datori di lavoro che occupavano fino a trentacinque dipendenti per i quali avrebbe continuato ad operare il recesso ad nutum (v., in particolare, il resoconto del dibattito parlamentare del 12 maggio 1966).
Il requisito dimensionale dei 35 dipendenti, in parte mutuato dalla contrattazione collettiva, venne ampiamente criticato dalla minoranza e, in particolare, dall’on. Francesco Cacciatore(PSI, prima, PSIUP, poi)che respinse sia l’argomento fondato sull’elemento fiduciario che caratterizzerebbe i rapporti di lavoro nelle piccole imprese, giustificando l’esigenza di una maggiore libertà nel recesso, sia quello economico che faceva riferimento alla necessità di non gravare queste ultime di costi eccessivi. In subordine, la minoranza proponeva di abbassare il requisito da 35 a 10. Affermava Cacciatore in modo un po’ lapidario che «se il datore di lavoro non si trova nelle condizioni di affrontare la penalità o di riassumere il dipendente», nel caso il licenziamento venga ritenuto illegittimo, «vuol dire che non si deve concedere il lusso di licenziare ingiustamente».
L’on. Angelo Abenante (PCI) aggiunse che il requisito numerico si sarebbe tradotto in un incentivo per gli imprenditori ad eludere la legge frammentando l’impresa in tante unità o stabilimenti produttivi. Un’affermazione quest’ultima che va al cuore di un problema ancor oggi attuale. Il requisito numerico costituisce infatti un incentivo alla frammentazione di un’attività economica sostanzialmente unitaria non solo in una pluralità di stabilimenti e unità produttive riconducibili al medesimo soggetto di diritto, bensì in una pluralità di imprese e soggetti distinti sul piano giuridico formale (gruppi di imprese, reti, filiere).
Prevalsero, come noto, la proposta della maggioranza e i due argomenti – fiduciario ed economico – su cui essa si fondava.
Se il criterio della fiduciarietà del rapporto oggi non è più la ratio della libertà di recesso concessa alle piccole imprese, per contro tenute ad addurre sempre una giusta causa o un giustificato motivo, esso continua a costituire la spiegazione del perché in tali contesti organizzativi resti preferibile non attuare il rimedio della reintegrazione. La Corte costituzionale ha altresì richiamato l’«esigenza di salvaguardare la funzionalità delle unità produttive» in cui la reintegrazione potrebbe comportare situazioni di tensione nelle relazioni umane e di lavoro (Corte cost., n. 152 del 1975).
L’idea di diversificare il regime del licenziamento alla luce di un criterio dimensionale basato sul numero dei dipendenti non è certamente isolata né circoscritta al solo contesto italiano.
La loi Macron, che adotta un regime di tutela in caso di licenziamento ingiustificato molto simile a quello del Jobs Act, diversifica le conseguenze in caso di licenziamento illegittimo, fissando tetti minimi e massimi all’indennità dovuta al lavoratore a seconda di due elementi oggettivi: il numero dei dipendenti occupati nell’impresa (meno di 20, tra 20 a 299, 300 dipendenti e oltre) e l’anzianità di servizio del dipendente licenziato (meno di 2 anni, 2-10 anni, più di 10 anni). Anche in Germania la disciplina in materia di licenziamento (KSchG) è applicabile soltanto alle imprese che occupano più di dieci dipendenti; pertanto, al di sotto di tale soglia vale il principio della libertà di recesso (salvi i casi del licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza o del licenziamento discriminatorio).
A mio parere, tuttavia, alla base del quesito referendario non vi è tanto la volontà di rivedere i criteri alla base della scelta di escludere le piccole imprese dalla tutela reale, quanto l’intento di mettere in discussione la legittimità dei tetti massimi all’indennizzo dovuto al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, in omaggio al principio dell’integrale risarcimento del danno affermato anche dal Comitato europeo per i diritti sociali (v. CGIL vs Italy, 11 settembre 2019). Un principio la cui affermazione, pur limitata ad un contesto assai circoscritto (lavoratori occupati nelle piccole imprese e assunti prima del 7 marzo 2015), avrebbe una grande importanza sul piano valoriale.
V. A. Poso. Siamo arrivati, poi, al testo vigente, che riguarda, comunque, i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, ai quali, invece, si applicano le disposizioni normative del d. lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 (c.d. Jobs Act).
Chiedo, in particolare, a Lorenzo Zoppoli di tracciare un quadro sintetico delle diverse posizioni emerse in dottrina su questa norma.
L. Zoppoli. Direi che la dottrina è unanime nel ritenere che non si possa uniformare la disciplina dei licenziamenti per tutte le imprese ignorandone le differenze dimensionali, specie per quanto attiene alla solidità patrimoniale. Però è divisa sui parametri per valutare tale solidità. Molti ritengono che ormai non regga più il solo parametro del numero dei dipendenti, che dovrebbe essere almeno affiancato da altri come il fatturato o la redditività dell’impresa o la considerazione del grado di evoluzione tecnologica dell’organizzazione aziendale. Altri ritengono invece che il dato numerico rispecchi l’importanza dell’elemento fiduciario che sarebbe maggiore laddove a lavorare si è in pochi. Quest’ultimo era probabilmente il fattore determinante nell’escludere la reintegrazione per le imprese con pochi lavoratori. Ma se invece si tratta di graduare sanzioni indennitarie (come nella proposta referendaria) senza imporre alcuna prosecuzione del rapporto mi pare venga meno la rilevanza del numero dei lavoratori occupati.
V. A. Poso. Orsola Razzolini hai qualcosa da aggiungere rispetto a quanto evidenziato da Lorenzo Zoppoli, con riferimento alle applicazioni giurisprudenziali più importanti e alla nozione di piccola impresa?
O. Razzolini. Mi sembra che anche la giurisprudenza abbia sempre condiviso la necessità di differenziare le conseguenze del licenziamento illegittimo sulla base del requisito dimensionale. Va segnalata tuttavia la giurisprudenza in materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato in violazione dell’art. 2110 c.c. e della contrattazione collettiva. L’orientamento più recente lo reputa nullo e pertanto improduttivo di effetti a prescindere dal numero dei dipendenti occupati nell’impresa (Trib. Pesaro, 27.4.2022; Cass., 22.5.2018, n. 12568; Cass., 22.7.2019, n. 19661). Un discorso diverso vale per il licenziamento inefficace per assenza di motivazione.
Non si può poi non soffermarsi sulla sentenza della Corte costituzionale n. 183 del 2022 che ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1, d.lgs. n. 23 del 2015, che circoscrive l’indennità dovuta ai lavoratori occupati nelle piccole imprese e assunti dopo il 7 marzo 2015 nel ristretto margine di 3-6 mensilità, richiamando tuttavia l’urgenza di un intervento legislativo che riveda la materia in termini complessivi sia con riferimento ai requisiti dimensionali sia con riferimento alla funzione effettivamente dissuasiva delle diverse indennità. La Corte punta in particolare il dito sulla perdurante idoneità del requisito numerico a denotare l’effettiva capacità economica dell’impresa.
Ed in effetti si deve convenire che nel contesto attuale vi sono imprese immobiliari e fondi di investimento con fatturati estremamente elevati e pochissimi dipendenti e, per contro, imprese con molti dipendenti ma poco margine in termini di utili e fatturato prodotto.
Il numero dei dipendenti è dunque un criterio senz’altro indicativo ma non più esclusivo. Ancora andrebbe ripensato il perimetro dell’impresa da considerare per calcolare il numero dei dipendenti. Ad esempio, nei gruppi, i dipendenti di una società controllata al 99% andrebbero sommati con quelli della controllante; del pari, nelle filiere, l’impresa leader, che controlla saldamente le imprese parte della filiera, non può scaricare su queste ultime dipendenti e relativi costi senza assumerne alcuna responsabilità. In definitiva, nelle organizzazioni complesse ma fortemente integrate il principio della formale separazione soggettiva non può più operare in modo automatico e assoluto.
È infine la stessa scelta dei 15 dipendenti quale requisito numerico a destare perplessità.
È noto come, per l’Istat, più che le piccole imprese rilevino le microimprese (0-9 addetti), che costituiscono il 95,2% delle imprese attive, occupano il 43,8% dei dipendenti (con una spesa media di 21.800 euro per dipendente) e portano solo il 26,8% di valore aggiunto complessivo. Forse occorrerebbe tornare al requisito dei 10 dipendenti suggerito nel 1966. È utile, in proposito, ricordare la definizione di “microimpresa” (perché è in fin dei conti delle micro, non delle piccole imprese che stiamo discutendo) contenuta nel Decreto del Ministero delle attività produttive del 18 aprile 2005 sulla scorta della Raccomandazione della Commissione europea 2003/361/CE: è microimpresa l’impresa che ha meno di dieci occupati e un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro dove per “bilancio annuo” si intende “il totale dell’attivo patrimoniale”. Credo questa sia la definizione di “piccola impresa” che dovrebbe essere accolta sul piano legislativo.
Vorrei osservare, infine, che questa definizione solo in parte interseca quella di cui all’art. 2083 c.c. in base alla quale “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Requisito essenziale del piccolo imprenditore, per il Codice civile, è quello di essere titolare di un’organizzazione di mezzi e persone che tuttavia non prevale mai sul contributo personale diretto dell’imprenditore e dei suoi familiari. Difficilmente un’organizzazione che occupa nove dipendenti può dirsi non prevalente, salvo il caso dell’impresa artigiana dove è maggiore il rilievo, in termini specialmente qualitativi, del lavoro diretto anche manuale del titolare dell’organizzazione tanto giustificarne un trattamento speciale e differenziato.
V. A. Poso. Lorenzo Zoppoli hai qualcosa da aggiungere alle osservazioni di Orsola Razzolini?
L. Zoppoli. Mi pare che Orsola abbia dato le indicazioni necessarie, con qualche utile spunto di riflessione che va oltre gli orientamenti della giurisprudenza. Aggiungerei che la più recente giurisprudenza costituzionale si lascia apprezzare anche di più se si considera quella (v. la sentenza n. 26 del 2017) che bloccò il precedente referendum sull’art. 18, che, come scrissi tempestivamente (v. il Quaderno n. 4 di Diritti lavori mercati (a cura di Sandro Staiano, Antonello Zoppoli, Lorenzo Zoppoli, Il diritto del lavoro alla prova del referendum, Editoriale Scientifica, 2018), impedì una utile verifica popolare sulla svolta legislativa realizzata con il d.lgs. 23/2015 che confermava e anzi, come si è detto prima, peggiorava le tutele contro i licenziamenti illegittimi anche nelle piccole imprese, cristallizzando il discrimine basato sul solo numero di dipendenti per di più individuato in valori troppo alti.
V. A. Poso. Come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria sulla norma in questione? Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito è che “Il lavoro deve essere dignitoso e perciò ben retribuito”. L’abolizione del tetto massimo del risarcimento consentirebbe al giudice di quantificarlo in base ai diversi parametri (età, carichi familiari, capacità economica dell’azienda), senza limitazioni imposte dalla legge, riconoscendo così una tutela più adeguata al lavoratore licenziato; e ciò rafforzerebbe la funzione dissuasiva della norma, come rimodulata in caso di esito positivo del referendum abrogativo.
Condividete questa prospettazione?
L. Zoppoli. In linea di massima condivido la necessità di adeguare le sanzioni per i licenziamenti ingiustificati nelle piccole imprese. Nutro solo la preoccupazione che l’eliminazione del massimo venga utilizzata dai giudici al ribasso.
O. Razzolini. Il quesito referendario affronta il tema della natura dell’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo. Parliamo di un risarcimento in senso tecnico, nel qual caso la previsione di tetti massimi costituisce un oggettivo e inaccettabile impedimento per il giudice di modulare il risarcimento al fine di garantire al lavoratore un integrale ristoro del danno subito? O parliamo di un’indennità che non aspira a garantire al lavoratore un risarcimento integrale ma un equo indennizzo, tenendo conto anche delle esigenze di salvaguardare l’impresa e i suoi interessi? A me sembra che questo sia il punto.
È evidente che il Comitato sociale europeo, nelle decisioni CGIL vs Italy e Finnish Society vs Finland, ha adottato la prima delle due posizioni e che, in parte, anche la Corte costituzionale con la sent. n. 192 del 2018 ha seguito questa linea pur confermando poi la legittimità dei tetti. Tuttavia, è altrettanto evidente che gli stati europei hanno sul punto una posizione ben diversa. Non solo l’Italia, ma la Spagna, la Francia, la Grecia, la Finlandia, il Regno Unito, prevedono tetti minimi e massimi all’indennizzo dovuto al lavoratore per non parlare del metodo di calcolo fondato sull’automatismo, da noi dichiarato incostituzionale, ma ancora vigente in Spagna dove al licenziato spetta un’indennità pari a 33 giorni di retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio con un massimo di 24 mensilità. E la ragione dei tetti è, spiega il Tribunal Constitucional spagnolo, proprio il fatto che l’indennità non ha natura pienamente risarcitoria ma è funzionale al contemperamento degli interessi del lavoratore con quelli di politica economica e sociale.
In altri termini, il legislatore, prevedendo dei limiti, ammette che l’indennizzo – che pure deve essere adeguato e anche dissuasivo – non è rivolto all’integrale ristoro del danno patito dal lavoratore poiché vengono in rilievo esigenze di tutela dell’impresa che impongono un contemperamento. Alla stessa conclusione giunge il Conseil constitutionnel in Francia.
A me sembra che gli stati e le legislazioni nazionali abbiano tutto il diritto di scegliere, nell’esercizio della loro discrezionalità, di continuare a seguire questa impostazione. Naturalmente il fatto che la compensazione dovuta al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo abbia natura indennitaria e non risarcitoria non esclude che l’ammontare della stessa possa essere soggetto al giudizio della Corte costituzionale sotto il profilo dell’adeguatezza, della ragionevolezza e anche della dissuasività. Anzi, si può parlare di adeguatezza e ragionevolezza proprio perché parliamo di indennizzo; se parlassimo di risarcimento, in senso tecnico, non vi sarebbe alcuno spazio per ragionare di tetti minimi e massimi o di adeguatezza poiché in contrasto con il principio dell’integrale risarcimento del danno alla persona. E sotto questo profilo la previsione di un indennizzo compreso tra 3 e 6 mensilità, una forbice ristretta ed esigua, desta notevoli perplessità.
C. Caruso. Colgo l’occasione di questa domanda per fare un discorso più ampio.
Il “lavoro degno” è l’obiettivo verso cui devono convergere le politiche del lavoro in Italia. Non un lavoro purchessia, ma un’attività lavorativa che, a prescindere dalle mansioni in cui si concretizza e dai contesti in cui viene svolta, sia in grado di emancipare la persona, ne consenta la completa realizzazione e, allo stesso tempo, la piena partecipazione alla vita politica, economica e sociale della Repubblica.
Questi, in fondo, sono gli imperativi che discendono, con diversità di accenti, dai primi quattro articoli della nostra Costituzione. Lo ha ricordato anche il Presidente Sergio Mattarella nelle dichiarazioni rese in occasione della Festa dei Lavoratori, quando con vigore e insistenza, ha rimarcato come i salari bassi e la insicurezza sul posto di lavoro siano le emergenze che il nostro Paese deve immediatamente affrontare. La stagnazione delle retribuzioni, nonostante l’aumento della produttività e la alta qualificazione dei lavoratori, deprimono, nelle parole del Presidente, il nostro “capitale umano”. “[L]e morti del lavoro [sono] una piaga che non accenna ad arrestarsi e che, nel nostro Paese ha già mietuto, in questi primi mesi, centinaia di vite, con altrettante famiglie consegnate alla disperazione. Non sono tollerabili né indifferenza né rassegnazione”.
Il lavoro è “espressione della creatività e della dignità umana”. Secondo il nostro Capo dello Stato, gli stravolgimenti portati dalla società della tecnica non possono incidere sui suoi significati di “libertà e coesione”. È la dignità umana che deve costantemente ispirare le politiche del lavoro, l’orizzonte verso cui deve volgere lo sguardo la nostra società nel suo complesso (istituzioni, forze politiche, organizzazioni sociali, lavoratori e datori nelle loro azioni quotidiane). Va collocata in questo contesto la generale strategia referendaria del principale sindacato italiano, che ha proposto, tra i diversi quesiti, quello relativo alla abrogazione del tetto massimo dell’indennizzo per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese più piccole.
Non vi è dubbio che la mobilitazione referendaria lanci un sasso nello stagno e stimoli, nell’attuale immobilismo della compagine di governo, le forze politiche a rimettere al centro del pubblico dibattito la questione del lavoro e delle sue tutele.
Peraltro, allo stato attuale, l’inerzia della maggioranza, sullo specifico oggetto di questa intervista, si traduce in una vera e propria omissione legislativa in odore di incostituzionalità, solo si consideri il monito espresso dalla Corte costituzionale nella sent. n 183/2022. In quell’occasione (sul punto si tornerà infra), il Giudice delle leggi aveva rilevato come la disciplina del Jobs Act sull’indennizzo nei licenziamenti ingiustificati nelle piccole imprese non realizzasse un “sistema” in grado di attuare “quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi”. Pur senza pronunciare l’incostituzionalità della normativa, la Corte segnalava al legislatore “che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente”.
Senonché la via referendaria, imboccata dalla CGIL, pone alcuni problemi sia a livello di equilibri generali sia per ciò che concerne la soluzione che, con l’abrogazione, si vorrebbe introdurre.
Quanto ai primi, è evidente che, attraverso la battaglia referendaria, il sindacato mira ad ergersi a referente e terminale principale delle politiche del lavoro. Non è una novità: in passato non sono mancati casi simili (si pensi all’iniziativa referendaria di inizio anni 2000 volta ad estendere la tutela reale alle piccole imprese), ma è evidente che, in questo modo, uno strumento di democrazia diretta, che i Costituenti consideravano di natura oppositiva (quasi un atto di controllo), viene utilizzato a fini propositivi e, in qualche modo, piegato alle logiche di funzionamento della democrazia rappresentativa. Il referendum diviene il mezzo per emergere nella competizione con i principali attori politici (e le altre organizzazioni sindacali), guadagnare visibilità, accrescere i propri consensi, e in qualche misura, dettare l’ordine di priorità dell’agenda politica. Una fuga in avanti, dunque, che non aiuta la composizione di una piattaforma programmatica volta a costruire una credibile alternativa di governo.
Inoltre, come ben sanno i politologi, il referendum è un gioco a somma zero, nel senso che la vittoria (o la sconfitta) è totale e senza sconti (chi vince prende tutto e chi perde lascia tutto). In caso di vittoria, qualsiasi soluzione diversa, capace di introdurre una qualche forma di mediazione rispetto alle scelte del legislatore referendario, potrebbe essere considerata in fraudem alla volontà popolare (e a rischio di incostituzionalità, a voler prendere sul serio la sent. n. 199/2012, con cui la Corte ha dichiarato illegittimo un intervento del legislatore rappresentativo di segno contrario all’esito del referendum del 2011 sui servizi pubblici locali).
La sconfitta o il mancato raggiungimento del quorum di validità potrebbe, all’opposto, cristallizzare l’attuale scelta normativa, rendendo politicamente assai complicato, di fronte a un governo che non brilla certo per attenzione alla questione sociale, riaprire il discorso delle tutele del lavoratore. E questo senza considerare i paradossi e le criticità, già evidenziate dai colleghi lavoristi, che deriverebbero dall’abrogazione del tetto indennitario: imprevedibilità delle soluzioni equitative fornite dal giudice, paradossale corsa al ribasso nella liquidazione del quantum, possibile disarmonia nei regimi tra i lavori assunti in un momento successivo o precedente al Jobs Act (in caso di un improbabile ma non impossibile esito diverso di tale quesito parziale rispetto a quello totale sul Jobs Act).
V. A. Poso. Resta fermo, però, il limite minimo dell’indennità risarcitoria( che va valutato nella sua congruità).
C. Caruso. Sì, il “taglia e cuci” realizzato dalla abrogazione referendaria “salva” il minimo ed elimina il massimo indennitario, restituendo una norma così strutturata: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo minimo di 2,5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”.
O. Razzolini. Sì, è così. In teoria, a voler trasformare l’indennizzo in risarcimento in senso tecnico, anche la soglia minima non ha senso. Per come è formulato il quesito il limite minimo resta. La ragione politica è prevalsa in questo caso sulla coerenza tecnica.
L. Zoppoli. Il minimo di 2,5 mensilità previsto dalla norma rimane, essendo ancora espressamente qualificato come tale. Casomai il problema è che viene fissato a un livello davvero irrisorio e che poco si poteva fare con lo strumento referendario.
V. A. Poso. È opportuno, credo, fare una riflessione sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale, anche alla luce delle fonti internazionali, sulla adeguatezza della tutela meramente indennitaria, rispetto a quella reintegratoria, trattandosi di due regimi sanzionatori alternativi, ma compatibili con i principi di tutela del lavoro nel nostro ordinamento complessivamente inteso, anche se il quesito referendario non è diretto ad eliminare la tutela indennitaria per i licenziamenti illegittimi nelle imprese minori, ma solo il tetto massimo del risarcimento stabilito per legge.
In diverse occasioni, infatti, la Corte Costituzionale ha affermato la necessità di realizzare un equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi.
L. Zoppoli. Come dici tu stesso, la questione non riguarda il referendum sull’art. 8. E comunque, sebbene sia vero che la Corte costituzionale non sembra ritenere in alcun modo garantita la reintegrazione dalla nostra Carta, il ragionamento deve a mio parere essere più ampio dovendosi approfondire sia la questione della effettività e dissuasività dell’apparato sanzionatorio sia la valutazione di coerenza interna dell’ordinamento qualora la tutela indennitaria prevista per i lavoratori subordinati fosse peggiorativa rispetto ai risarcimenti previsti per danni similari nel diritto generale dei contratti.
O. Razzolini. Come dicevo prima, in teoria, se accogliamo l’idea che l’indennità sia un risarcimento in senso tecnico, allora la reintegrazione, in quanto tutela in forma specifica, dovrebbe sempre essere la via privilegiata.
In questo senso, il Comitato europeo dei diritti sociali nel caso Finnish Society e successivamente in quello italiano promosso dalla CGIL nel 2020 ha valutato la non conformità alla Carta di tutti quei sistemi (caso finlandese e italiano) che non solo prevedono limiti massimi al risarcimento (24 mensilità nel caso finlandese, 36 in quello italiano) ma che escludono a priori la reintegrazione (considerata qui una forma di risarcimento in forma specifica).
Questa conclusione interpretativa però non solo non si evince dalla lettera dell’art. 24 della Carta sociale europea che parla di “congruo indennizzo” (adequate compensation, non full compensation) o “altra adeguata riparazione” (appropriate relief), ma, come ricordavo molto sommariamente prima, si pone in contrasto con la tradizione degli stati europei e, pertanto, a mio parere, difficilmente potrà avere un seguito. Per tale ragione, i proponenti il quesito referendario hanno seguito ma non portato fino alle sue estreme conseguenze la linea interpretativa del Comitato.
In fondo, gli ordinamenti considerano le conseguenze del licenziamento illegittimo un ambito in cui non si può tenere conto del solo punto di vista della vittima dell’illecito, assicurandone l’integrale ristoro, laddove possibile in forma specifica, bensì un ambito in cui le esigenze di tutela del lavoratore vanno contemperate con quelle, altrettanto importanti, dell’impresa e delle sue caratteristiche. Esigenze che, in modo coerente, non vengono invece rilievo, dando pieno spazio al risarcimento integrale, nei casi in cui il licenziamento appaia intollerabile, contrario alla dignità della persona, limite invalicabile dell’iniziativa economica: ad esempio il licenziamento discriminatorio, per motivo illecito o della lavoratrice madre.
C. Caruso. Per quanto riguarda le imprese più grandi, a partire dalla sent. n. 194/2018, che tutto sommato non ha fatto altro che sanzionare una sorta di automatismo legale, irragionevole nella sua rigidità, la Corte costituzionale ha progressivamente ricostruito un sistema di tutele alternativo rispetto a quello disegnato dal legislatore, pur mantenendosi in apparenza fedele all’assunto, radicato nella sua stessa giurisprudenza, secondo cui non può dedursi dalla Costituzione una unica soluzione costituzionalmente obbligata (la tutela reale non sarebbe cioè il solo punto di approdo di una adeguata protezione del lavoratore).
Le pronunce successive non fanno altro che rapportare le differenziate ipotesi introdotte dal legislatore all’unico tipo legale considerato di fatto compatibile con la Costituzione, e cioè alla tutela ripristinatoria (attenuata) prevista per il licenziamento illegittimo senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo. È la identità della causa dell’illegittimità del recesso a postulare l’identità delle tutele, sia nel regime Fornero sia nel regime del Jobs Act.
L’univocità costituzionale del tipo legale viene ricostruita attraverso alcuni passaggi che, anzitutto, si preoccupano di rivedere il regime previsto dalla l. n. 92/2012: in primo luogo, in caso di insussistenza del fatto, anche il licenziamento oggettivamente ingiustificato deve essere sanzionato con la tutela reale, e non è possibile lasciare alcuna valutazione al giudice, il quale deve, in ogni caso e a prescindere dalle risultanze del caso concreto, procedere alla reintegra; in seconda battuta, attraverso una sorta di presunzione legale, la Corte si è premurata di demolire l’ordine di priorità delle tutele definito dal legislatore (nel senso di lasciare la reintegra solo in caso di manifesta insussistenza del fatto), così costruendo un sistema che, nei casi dubbi, dia comunque prevalenza alla stabilità del posto di lavoro.
Non vi è dubbio che queste sentenze traccino una preferenza per un determinato modello, sia nei presupposti (insussistenza del fatto) sia negli effetti (reintegra). E questa preferenza prevale a prescindere dal motivo e, più in generale, dalle circostanze del caso (ad esempio, dal rapporto che in concreto il lavoratore intrattiene con il datore di lavoro, dal tipo di impresa in cui presta la sua attività, dalle effettive ragioni che hanno portato al licenziamento): queste non assurgono mai ad elementi di valutazione giurisdizionale, che deve invece attenersi allo schema legale tipizzato dall’unica forma di tutela costituzionalmente ammissibile.
In virtù di tale prospettiva, focalizzata sulla stabilità del posto di lavoro, la garanzia del lavoratore sembrerebbe esprimersi solo e soltanto con la protezione ripristinatoria, con alcune rilevanti e contradditorie eccezioni (tutela indennitaria per mancato repêchage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, reintegra in caso di violazione delle clausole disciplinari del contratto collettivo, ma solo per le fattispecie determinate, licenziamenti collettivi).
Non è inusuale che la Corte costituzionale progressivamente costruisca un disegno sistematico, nelle diverse branche dell’ordinamento, alternativo a quello positivizzato dalle istituzioni rappresentative. Della complessiva razionalità di tali regimi, che vengono a crearsi per via di progressiva sedimentazione alluvionale di origine giurisprudenziale, è però lecito dubitare: la naturale vocazione casistica porta la giurisdizione costituzionale a rispondere alla singola questione proposta, lasciando inevasa tutta una serie di problemi che, in via consequenziale, possono presentarsi a causa degli innesti progressivamente apportati dalla Corte. Una sorta di ius singulare su cui lo stesso Giudice costituzionale è spesso costretto a tornare più volte, per correggere o specificare le soluzioni o le combinazioni normative risultanti dai suoi stessi interventi. Questa produzione continua di giustizia costituzionale a mezzo di giustizia costituzionale è conseguenza di una rincorsa casistica al fatto, che produce sistemi normativi dotati di scarsa o debole coerenza interna.
Anche per superare tali incongruenze, frutto delle numerose dissociazioni compiute dalla Corte, si rende necessario un nuovo intervento di stabilizzazione sistematica da parte del legislatore.
L’iniziativa della CGIL, che pure ha ad oggetto un ambito non direttamente toccato da questa giurisprudenza (salvo quanto si dirà dopo), si inserisce nel quadro di una giurisprudenza che ritiene comunque sbilanciato, a sfavore del lavoratore, l’attuale quadro normativo. Introducendo però un ulteriore elemento di incongruenza: se, infatti, la tipizzazione giurisprudenziale della tutela ripristinatoria delimita la discrezionalità giudiziale, il referendum in oggetto la allarga a dismisura. La tutela del lavoratore, calata a mo’ di asso pigliatutto, deve prevalere sempre nei confronti dell’impresa, anche a costo di incidere sulla sua sostenibilità e capacità di programmazione finanziaria nel medio-lungo periodo (con evidenti ricadute sulle capacità occupazionale e reddituali garantite agli altri lavoratori).
V. A. Poso. Qualche considerazione dobbiamo fare sulla base della sentenza della Corte Costituzionale 22 luglio 2022, n. 183, che pronunciandosi su un’altra norma, l’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (indennità dimezzate per piccole imprese e organizzazioni di tendenza e limite massimo di sei mensilità) ha dichiarato inammissibile la q. l. c., sollevata con riferimento a diverse norme della Costituzione e all’art. 24 della Carta Sociale Europea, con l’avvertimento al legislatore di essere costretta a intervenire, ove nuovamente investita, in caso di sua prolungata inerzia.
Si legge nella motivazione, al punto n. 5.2 « Quanto al secondo profilo, si deve evidenziare che il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a ben vedere, non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete. - Invero, in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. - Il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza».
L. Zoppoli. Questa sentenza conferma pienamente quanto dicevo inizialmente. E va considerato che, nel silenzio del legislatore che ha fatto seguito al monito di Corte Cost. 183/2022, già il Tribunale di Livorno con l’ordinanza pronunciata il 29 novembre 2024 ha sollevato una nuova eccezione di incostituzionalità dell’art. 9 c. 1 del d. lgs 23/2015.
O. Razzolini. Su questo punto ho già risposto sopra.
Concordo con la valutazione della Corte costituzionale e ritengo che il legislatore dovrebbe intervenire e modificare la nozione di piccola impresa, ai fini del licenziamento, adottando quella di “microimpresa” proposta del D.M. del 2005 che utilizza il triplice criterio del numero dei dipendenti (fino a 10), del fatturato e dell’attivo patrimoniale (non superiore a 2 milioni di euro).
È vero però che, come ha sottolineato di recente il “Gruppo Freccia Rossa”, i criteri del fatturato e dell’attivo patrimoniale sono di difficile applicazione mentre assai più semplice risulta quello numerico, non a caso privilegiato dalla legge non soltanto italiana.
E tuttavia affidarsi al solo requisito numerico rischia di costituire un incentivo per operazioni di frammentazione dell’impresa.
Sotto questo profilo, sarebbe opportuno aprire una riflessione sul perimetro dell’impresa che si prende in considerazione. In altri termini, il requisito numerico deve essere oggi letto alla luce delle realtà organizzative complesse dove un’attività economica sostanzialmente unitaria viene frammentata fra una pluralità di soggetti di diritto fortemente integrati e che perseguono uno scopo imprenditoriale comune e condiviso. In questo senso, la giurisprudenza anche di Cassazione che riconosce la codatorialità a determinati fini, tra i quali il ripescaggio e il computo del requisito numerico selettivo del regime di licenziamento, offre indicazioni importanti.
C. Caruso. Due sono i profili censurati dalla sent. n. 183/2022, relative alla norma del Jobs Act concernente la tutela indennitaria nelle piccole imprese: il requisito numerico, di per sé non idoneo a giustificare la differenziazione di trattamento per i lavoratori delle imprese più grandi, e il tetto del massimo indennitario o, meglio, “l’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità”. Su questi due aspetti il legislatore è chiamato, dalla Corte, ad intervenire, secondo soluzioni libere, cui lo stesso Giudice delle leggi non accenna se non per sommi capi (quando fa riferimento, ad esempio, ai “cospicui investimenti in capitali” e al “consistente volume di affari” da tenere in considerazione per valutare la dimensione della impresa). Nella individuazione della soglia dimensionale, il legislatore dovrebbe, per un verso, evitare, come già sottolineato da Orsola Razzolini, l’eccessiva frammentazione della regolazione e, per altro verso, aumentare la forbice indennitaria, che allo stato attuale “vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio”.
V. A. Poso. Ritorno sulla risposta precedente di Lorenzo Zoppoli che ha anticipato che la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi nuovamente sulla stessa questione di legittimità costituzionale, sollevata, questa volta, dall’ordinanza del 29 novembre 2024 del Tribunale di Livorno (stando al calendario delle udienze della Consulta, la q. l. c. dovrebbe essere decisa il 23 giugno prossimo). Qualche vostra considerazione in proposito, anche sui possibili esiti, tenuto conto della precedente sentenza n. 183/2022 della Corte Costituzionale.
C. Caruso. L’esito non appare così scontato, come si potrebbe pensare alla luce dei toni usati della Corte costituzionale nella sentenza, che in effetti non sembravano lasciare vie di fuga alla dichiarazione di incostituzionalità. La sent. n. 183/2022 è una decisione che può essere ricondotta al genere letterario delle sentenze di incostituzionalità accertata ma non dichiarata: la Corte accerta, nella parte motiva, il vulnus di incostituzionalità ma omette di sanzionarlo con un dispositivo coerente con la motivazione. La pronuncia, infatti, è di inammissibilità, non formale ma sostanziale: a mancare non è una condizione o un requisito processuale, che rende impossibile l’esame nel merito della questione, ma un elemento che attiene alla sostanza della questione sollevata: nella specie, a difettare è una grandezza normativa, presente nell’ordinamento, che consenta alla Corte di sostituire il frammento legislativo ritenuto viziato.
È stato sostenuto, in letteratura, che le inammissibilità sostanziali fossero destinate a essere progressivamente abbandonate dall’armamentario decisorio della Corte. In effetti, a partire da un trittico di sentenze adottate tra il 2017 e il 2019, la Corte ha abbandonato la dottrina, risalente a Vezio Crisafulli, delle rime obbligate, secondo cui l’addizione o sostituzione, realizzabile in via pretoria dal Giudice delle leggi, sarebbe solo quella univocamente desumibile dal tertium comparationis evocato dal giudice remittente e ispirato all’eadem ratio della norma impugnata. Era questa una teoria pensata per limitare la creatività della Corte e tentare, in qualche modo, di rispettare la discrezionalità del legislatore, valore di rango costituzionale esplicitato dall’art. 28 della l. n. 87/1953, secondo cui “il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento”.
Da qualche anno la Corte si accontenta, invece, di intervenire a “rime adeguate”, rinvenendo, anche d’ufficio, nella trama dell’ordinamento soluzioni che le consentano di corregge il vizio di incostituzionalità prospettato dal giudice a quo. È verosimile ritenere che la ragione della inammissibilità pronunciata con la sent. n. 183/2002 sia da rinvenire proprio nella difficoltà di reperire una grandezza idonea a esprimere un ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti.
Tale difficoltà permane anche nella nuova questione prospettata dal Tribunale di Livorno. Bene avrebbe fatto il giudice a quo a ipotizzare una soglia indennitaria massima, argomentando sulla adeguatezza dell’ipotesi così suggerita e, così facendo, tutelarsi da una seconda pronuncia di inammissibilità. Il Tribunale ha invece chiesto una caducatoria secca dell’art. 9 del d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui prevede che “l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall'articolo 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”. Viene così richiesta la completa espunzione del quantum indennitario (non solo del massimo!), con il rischio di lasciare impregiudicata persino il tipo di tutela, e, in ogni caso, senza alcuna indicazione circa l’eventuale sostituzione chiesta alla Corte. In altri termini, se non vi fosse il precedente del 2022, la Corte avrebbe avuto buon gioco a dichiarare inammissibile la questione proposta. Non viene invece attinto, dal petitum della questione, il requisito dimensionale (interessato solo genericamente dagli argomenti spesi dal remittente in relazione alla scarsa dissuasività della tutela).
È quindi verosimile ritenere che la Corte costituzionale, peraltro in una composizione radicalmente diversa da quella del 2022, non si pronuncerà sul requisito dimensionale.
In relazione al massimo indennitario, invece, la Corte dovrà scegliere se rimanere fedele al proprio precedente o appoggiarsi alla laconica ordinanza di rimessione per trovare un commodus discessus. Nel caso in cui voglia dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione, la Corte sarà chiamata a determinare la soglia quantitativa massima, andandola a individuare in via equitativa. Da questo punto di vista, una misura ragionevole potrebbe essere quella prevista dalla proposta di ddl elaborata dal “Gruppo Frecciarossa”, che immagina di raddoppiare, fino a 12 mensilità, la tutela indennitaria, pari alla metà del quantum stabilito dalla legge Fornero per la tutela indennitaria nelle imprese maggiori.
O. Razzolini. Il caso affrontato da Tribunale di Livorno – licenziamento per giusta causa illegittimo intimato da un’impresa con 14 dipendenti e 4 milioni di fatturato – ben dimostra l’opportunità di intervenire sul piano legislativo rivedendo la nozione di piccola impresa alla stregua del triplice criterio dipendenti (fino a 10), fatturato annuo e attivo patrimoniale (non superiore a 2 milioni di euro).
La questione è come potrà reagire la Corte costituzionale dopo la sentenza di tipo monitorio n. 183/2022. In effetti, come sottolinea il Tribunale di Livorno, sono passati già più di due anni da quella sentenza e il legislatore, nonostante il monito della Consulta, non è intervenuto (anche se pare nelle intenzioni farlo a breve).
La Corte potrebbe dunque dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 poiché la forbice estremamente ridotta (da tre a sei mensilità) entro la quale deve essere determinata l’indennità da licenziamento illegittimo nelle piccole imprese non appare rispondente ai criteri della adeguatezza e della dissuasività, senza contare che definire le piccole imprese sulla base del solo criterio numerico dei 15 dipendenti appare, in effetti, per le ragioni dette, anacronistico.
A mio parere, il giudizio di illegittimità costituzionale potrebbe tuttavia investire il solo limite massimo delle 6 mensilità, lasciando viceversa integra la previsione per cui nelle piccole imprese l’importo previsto dagli artt. 3, co. 1, 4, co. 1 e 6, co. 1 è dimezzato. In questo modo, nel caso di licenziamento ingiustificato nelle piccole imprese, l’indennità potrebbe arrivare a ben 18 mensilità, una cifra certamente congrua, adeguata e sufficientemente dissuasiva anche nel caso di piccole imprese con fatturati elevati. Verrebbe al contempo rispettata l’esigenza di mantenere un regime differenziato per le piccole imprese.
Resterebbe certamente l’anacronismo dell’unico criterio numerico utilizzato per selezionare queste ultime, ma sul punto sembra difficile che la Corte possa pienamente sostituirsi al legislatore tracciando direttamente una diversa e più circoscritta nozione, tratta ad esempio dalla raccomandazione europea e dal decreto ministeriale, da valere “fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento”, come fatto ad esempio nella nota sentenza sul fine vita (Corte cost. n. 242/2019).
La semplice declaratoria di illegittimità del limite delle 6 mensilità appare sufficiente a garantire la “tenuta” costituzionale della disciplina vigente, ferma restando la necessità di un più complessivo intervento legislativo che metta ordine in una materia ormai pressoché inestricabile.
L. Zoppoli. A mio avviso, le motivazioni della nuova ordinanza di rimessione sembrano abbastanza diverse da quelle che hanno condotto alla sentenza 183/2022 di tipo monitorio.
In effetti riprendono puntualmente le censure della sentenza 183 della Corte costituzionale e non si vede come la medesima Corte possa evitare una pronuncia di accoglimento.
Per come è formulata la questione di costituzionalità a me pare che la Corte potrebbe anche semplicemente dichiarare l’incostituzionalità della differenziazione dell’ indennità in ragione del numero dei dipendenti che non risulta un indicatore razionale e convincente della forza economica dell’impresa (nel caso livornese l’impresa ha 14 dipendenti, ma fattura oltre 4 milioni di euro nel 2023). Una pronuncia simile aprirebbe però più problemi sistematici rispetto all’esito positivo del referendum sull’art. 8, che in fin dei conti, pur eliminando i limiti massimi alle indennità, lascia in piedi il criterio del numero di dipendenti che il giudice anzi, insieme agli altri, dovrebbe continuare ad utilizzare.
V. A. Poso. Prima di rivolgere la successiva domanda, cerco di illustrare, a beneficio dei lettori, l’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024, che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo all’art. 8 della l. n. 604/1966, nel testo vigente a seguito delle modifiche apportate dall’art 2,comma 3, l. n. 108/1990 e per le parti piò sopra indicate. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito è stato assegnato il seguente titolo sintetico, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Piccole imprese - Licenziamenti e relativa indennità: abrogazione parziale”.
Nessun problema si pone per la vigenza del testo normativo in questione per il quale l’Ufficio Centrale per il Referendum richiama, anche, l’art. 1, comma 1, d. lgs 1° dicembre 2009, n. 179( recante: “Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell'articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246”), che, in combinato disposto con l’Allegato 1 allo stesso decreto, ha dichiarato indispensabile la permanenza in vigore delle disposizioni di cui agli artt. da 1 a 10, 11, comma2, 12,13 e 14 della l. n. 604/1966. Mi sembra di poter dire che si tratti di una legge «ricognitiva».
Vado oltre. Merita segnalare - ne dà conto anche l’Ufficio Centrale per il Referendum nella sua ordinanza – che la Corte Costituzionale, con sentenza 6 febbraio 2003,n. 41 ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione della medesima norma oggi oggetto di nuova richiesta referendaria( oltre che dell’art. 18, commi primo, secondo e terzo della l. 20 maggio 1970,n.300, come modificato dall’art. 1 della l. n. 108/1990 e degli artt. 2, comma1, e 4, comma 1, secondo periodo, sempre della l. n. 108/1990); richiesta dichiarata legittima, con ordinanza del 9 dicembre 2002, dall’Ufficio Centrale per il Referendum.
Per quanto di nostro interesse, a chi vuole rispondere chiedo una valutazione di questa sentenza.
L. Zoppoli. Due osservazioni. La prima è che la sentenza citata si legge con vero piacere perché è scritta in modo piano e convincente: non a caso la “penna” è quella di Gustavo Zagrebelsky. La seconda è che quel referendum avrebbe avuto un effetto molto più profondo ed ampio di quello attuale: eppure, come mette in rilievo la sentenza, non avrebbe omologato il regime sanzionatorio dei licenziamenti per tutti i lavoratori (alcune categorie ne sarebbero rimaste fuori).
Questo però non era imputabile al quesito referendario, ma ad antiche scelte legislative non tutte nel radar del comitato promotore. Perciò la Corte non ritiene che la permanenza di esclusioni infici la scelta abrogativa proposta agli elettori incentrata sull’eliminazione della differenziazione basata sul numero dei dipendenti. L’esito del referendum proposto nel 2024 sarebbe assai più ristretto perché omologherebbe il regime dei licenziamenti solo con riguardo all’eliminazione dei limiti massimi alle indennità sanzionatorie/risarcitorie mantenendo la reintegrazione fuori dalle imprese più piccole (salvo per vizi formali e discriminatori).
Dopo vent’anni l’esigenza di giustizia uguale per tutti i lavoratori si accontenterebbe così di un risultato parecchio ridimensionato? Forse no, perché a me pare piuttosto che l’universalizzazione delle tutele contro i licenziamenti si muova oggi all’interno della logica che ha ispirato le riforme del nuovo millennio che hanno posto la tutela indennitaria/risarcitoria al centro del sistema purché il giudice possa ragguagliarla al danno effettivamente procurato al lavoratore.
Non sono sicuro però che così si raggiunga realmente un sistema universale ed equilibrato. Anche perché i criteri di determinazione delle indennità introdotti dalla L.n.108/90 (non soggetti a referendum e da integrare con quelli indicati dall’ art. 30 c. 3 della L. n. 183/2010) mi pare obblighino il giudice a differenziare sensibilmente le indennità in base anche alle dimensioni dell’impresa. Che fine fa così anche una pur minima garanzia di universalizzazione delle tutele?
V. A. Poso. L’Ufficio Centrale per il Referendum ha rilevato - a me pare correttamente - che non sussiste la condizione ostativa prevista dall’art. 38 della l. n. 352 del 25 maggio 1970, in ragione della riproposizione del quesito referendario dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.41/2003, sopra richiamata, e dopo l’espletamento del voto popolare indetto con d.P.R. 9 aprile 2003,in mancanza della partecipazione della maggioranza degli aventi diritto al voto, come richiesto dall’art. 75, comma quarto, Cost.,« posto che il citato articolo 38 limita, per il periodo di cinque anni, la possibilità di promuovere nuovamente la medesima iniziativa referendaria solo nel caso in cui i cittadini si siano effettivamente espressi per il mantenimento della normativa sottoposta al loro sindacato, ovvero nell’ipotesi in cui la consultazione abrogativa sia risultata invalida ai sensi dell’art.75, quarto comma, Cost.(n.d.r.: che ritiene necessari i requisiti del voto espresso dalla maggioranza degli aventi diritto e della maggioranza dei voti validamente espressi), limitazione temporale non operante nel caso di specie, dato il maggior tempo trascorso dalla precedente iniziativa». L. Zoppoli. La posizione dell’Ufficio Centrale per il Referendum, che tu hai efficacemente riassunto, mi pare ineccepibile.
Si può ancora sottolineare che, dopo il Jobs Act, le questioni riguardanti le piccole imprese si sono aggravate perché le tutele contro i licenziamenti illegittimi sono state ulteriormente indebolite. È un tema sul quale sarebbe bene invitare gli elettori ad esprimersi invece di auspicare un assenteismo che faccia nuovamente mancare il quorum, come molti più o meno esplicitamente dicono.
Il cittadino deve capire bene su cosa deve pronunciarsi. Ma non mi pare ci sia bisogno di essere geni per pronunciarsi su alcune domande essenziali che si possono così sintetizzare: “ritenete che i 4/5 milioni di lavoratori italiani occupati in imprese con meno di sessanta dipendenti e/o in articolazioni delle imprese con meno di quindici dipendenti debbano ancora essere esposti alla decisione di un licenziamento del tutto arbitrario? Ritenete che la normativa attuale, che prevede l’obbligo di corrispondere al massimo 5/6 mensilità al lavoratore licenziato senza alcun motivo o per un motivo futile, sia efficace per indurre il piccolo imprenditore a non licenziare?”.
Certo oggi la situazione occupazionale è ancora tale che nelle piccole imprese le assunzioni a tempo indeterminato non sono frequentissime. E il cittadino potrebbe giustamente temere che aumentare anche di poco le tutele possa ancor più favorire lavoro precario e nero. Mi pare però più che giusto sul piano della crescita culturale e civile che ogni elettore italiano si prenda la responsabilità di andare a votare e avallare una situazione antica in cui esistono lavoratori di serie A (imprese medio-grandi e pubbliche amministrazioni) e lavoratori di serie B (occupati nell’80/90% delle piccole imprese italiane).
Non sono scelte da fare in modo opaco o elitario. E, oltretutto, bisogna anche sapere che così diritti fondamentali previsti dalla Carta dei cittadini europei - tra cui rientra il diritto di ogni lavoratore alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (art. 30) - vengono tutelati nel nostro ordinamento in modo enormemente squilibrato.
C. Caruso. Ineccepibile nel merito, la decisione dell’Ufficio Centrale per il Referendum è invece criticabile là ove equipara, ai fini del divieto di esperibilità della consultazione referendaria, il voto negativo al mancato raggiungimento del quorum. L’art. 38 della legge n. 352/1970 prevede infatti il divieto di riproposizione solo in caso di esito negativo, non certo per il mancato raggiungimento del quorum di validità posto dall’art. 75 Cost. Nonostante il passaggio argomentativo non sia altro che un obiter dictum, irrilevante nel caso di specie (posto che la consultazione del 2003 risale a più di venti anni fa), inconsapevolmente l’UCR ha individuato, in via pretoria, un nuovo limite alla consultazione referendaria non previsto dalla legge (un limite che non avrebbe consentito, ad esempio, di riproporre, nel 2000, il referendum per l’abolizione della quota proporzionale, che nel 1999 non raggiunse il quorum per un pugno di voti). Non resta che sperare si tratti di un lapsus calami.
V. A. Poso Mi sembra di poter dire che l’Ufficio Centrale per il Referendum, a differenza di quanto ha dovuto fare per il requisito relativo all’abrogazione del d. lgs. n. 23/2015, nella sua interezza, proposto dai promotori con riferimento al testo originario, nel caso che ci occupa si è trovato facilitato negli adempimenti che ad esso competono in quanto la norma oggetto di quesito referendario è stata indicata con riferimento al testo vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 108/1990; come abbiamo più volte precisato sopra.
L. Zoppoli. Credo proprio che questa sia una giusta considerazione.
V. A. Poso. Con la sentenza n.13 del 7 febbraio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della norma e per le parti indicate oggetto del quesito.
La Corte Costituzionale, correttamente, ha precisato, nel delineare il perimetro della norma, «che l’odierno quesito referendario è destinato a incidere su una previsione (la fissazione del tetto massimo, pari a sei mensilità, maggiorabile fino a quattordici, per la liquidazione dell’indennità da licenziamento illegittimo) che, nella sua attuale vigenza – espressamente confermata, come rilevato dall’Ufficio centrale, dal combinato disposto tra l’art. 1, comma 1, e l’Allegato 1 del d.lgs. n. 179 del 2009 –, riguarda esclusivamente i lavoratori assunti presso datori di lavoro di “piccole” dimensioni prima del 7 marzo 2015».
Quali sono le Vostre valutazioni, di carattere generale, in merito? È, questa, una pronuncia attesa, quanto meno prevedibile?
C. Caruso. La giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità del referendum abrogativo ha dimostrato, negli anni, un elevato tasso di creatività, individuando una ampia congerie di limiti che sono andati ben al di là di quelli previsti dall’art. 75 Cost. Questa elevata creatività è stata accompagnata da una spiccata imprevedibilità decisoria, che spesso non ha arriso all’ammissibilità dei quesiti. Nel caso di specie, il quesito non sembrava porre particolari problematiche se non, forse, per la possibile contraddizione, in caso di esito negativo o mancato raggiungimento del quorum, che verrebbe a crearsi all’interno dell’ordinamento nel caso della permanenza in vigore il d.lgs. n. 23/2015. D’altro canto, i promotori non avevano altra scelta se non mostrare il fianco a questo possibile inconveniente di fatto (ancorché di non poco momento). Se, infatti, non fosse stata coinvolta, attraverso la proposizione di un altro quesito, la analoga disposizione contenuta nel Jobs Act, la richiesta di abrogazione del solo art. 8, l. n. 604/1966, sarebbe stata inammissibile. La Corte infatti richiede, ai fini dell’ammissibilità del quesito, l’autosufficienza dello stesso, nel senso che l’eventuale approvazione della richiesta non deve lasciare intatte «disposizioni idonee a garantire la perdurante operatività di interi plessi normativi di cui si chiedeva l’eliminazione ad opera del voto popolare» (tra le tante, sent. n. 57/2022).
O. Razzolini. A me sembra una pronuncia coerente con l’impostazione adottata dalla Corte costituzionale che ben spiega peraltro quale sarebbe la ricaduta di un risultato referendario positivo. Certo, qualora passasse questo quesito referendario ma non quello sul contratto a tutele crescenti si arriverebbe ad una situazione di disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima o dopo il 7 marzo 2015 ben poco razionale e tollerabile e che solo in parte sarebbe mitigata da un eventuale accoglimento della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Livorno con riferimento all’art. 9, d.lgs. n. 23 del 2015.
L. Zoppoli. Non so dire se fosse attesa nel senso di “prevista”; e probabilmente qualche dubbio si poteva avere vista la ridotta propensione della Corte in altre pronunce a considerare giuridicamente problematica la differenziazione di disciplina in materia basata sulla data di assunzione dei lavoratori. Credo però che la Corte abbia correttamente messo in rilievo l’effetto che avrebbe l’esito abrogativo di questo referendum considerato ex se. Se invece dovesse prevalere il sì anche nell’altro referendum sull’ abrogazione integrale del d.lgs. 23/2015, la nuova disciplina per le imprese minori riguarderebbe tutti i lavoratori. È abbastanza evidente che solo questo secondo risultato eleverebbe il tasso di razionalità del sistema: il che, anche per questa ragione, lo rende massimamente auspicabile.
V. A. Poso. Detto questo, è ammissibile, a Vostro avviso, e con quali limiti il referendum parziale abrogativo della norma in esame? Nessuna preclusione è ravvisabile in ragione dei divieti posti dall’art. 75, comma 2, Cost., tantomeno sono risultano profili attinenti a disposizioni a contenuto costituzionalmente obbligato: sotto questo aspetto mi sembra condivisibile la pronuncia della Consulta.
A Vostro avviso, e sotto altro profilo, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale? Mi riferisco, in particolare, alla c.d. tecnica del ritaglio operato sulle parole oggetto di abrogazione.
C. Caruso. Tutti i requisiti manipolativi non sano mai chiari o, meglio, autoevidenti in sé. La matrice razionalmente unitaria del quesito manipolativo non può che delinearsi alla luce dell’intenzione dei proponenti, per come obiettivata nel titolo e nella lettera del quesito (e, dunque, anche nella conformazione della normativa di risulta). Nel caso in esame non mi pare che la proposta referendaria presentasse problemi tali da inficiarne l’ammissibilità.
Lorenzo Zoppoli. Sotto il profilo della tecnica utilizzata dal comitato referendario non vedo alcun problema e condivido pienamente il giudizio di ammissibilità. Come ho già detto, non sono così certo che l’abrogazione del tetto massimo dell’indennità induca i giudici a muoversi con più libertà rispetto alle previsioni riguardanti le imprese più grandi. A mio parere resterà una sorta di implicita parametrazione al ribasso che indurrà la magistratura a non equiparare nel massimo le sanzioni risarcitorie tra imprese grandi e imprese “sotto soglia”.
O. Razzolini. Non sono una costituzionalista, ma anche a me la decisione della Corte sembra del tutto condivisibile.
V. A. Poso. Ritorno sulla precedente domanda e mi chiedo se, per come è stato confezionato, il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (sentenza n. 57 del 2022). Si potrebbe sostenere, infatti, che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999), proprio con riferimento all’abolizione del limite massimo del risarcimento, venendo meno il carattere prettamente abrogativo.
Sotto questo profilo a Vostro avviso risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?
C. Caruso. Ho molti dubbi, in generale, sulla adeguatezza del requisito che richiede al quesito manipolativo di non essere “eccessivamente” manipolativo. Si tratta di uno dei tanti limiti, opposti al referendum, creati ad hoc dalla Corte costituzionale, la cui applicazione dà esiti difficilmente prevedibili (si pensi, in positivo, al referendum del 1993, sulla soglia dei collegi uninominali al Senato, al quesito sulla cittadinanza o, in negativo, al referendum “Calderoli” sulla estensione dei collegi uninominali nel c.d. Rosatellum, o all’estensione, tramite ritaglio, della tutela reale in caso di licenziamento illegittimo all’impresa con più di 5 dipendenti, che avrebbe reso generale una norma speciale, pensata per il solo imprenditore agricolo).
Una volta ammessa la possibilità di proporre referendum manipolativi (una possibilità in fondo coerente con la natura stessa del referendum abrogativo, almeno a volere prendere sul serio la tesi crisafulliana secondo cui persino la mera abrogazione esprime una innovazione dell’ordinamento giuridico, posto che abrogare non è altro che “disporre diversamente”) non ha molto senso chiedersi, in astratto, quale sia il grado manipolatività consentito dall’art. 75 Cost. Se in ogni proposta referendaria l’elemento innovativo è insopprimibile, l’inammissibilità delle proposte manipolative dovrebbe essere confinata ai soli quesiti formulati in modo da incidere sulla univocità della richiesta, su quella «matrice razionalmente unitaria» che consente di determinare, oggettivamente, la direzione del quesito.
Solo qualora non fosse assolutamente desumibile il verso dell’abrogazione sarebbe impossibile l’autodeterminazione del corpo elettorale, e cioè l’esercizio di quel voto consapevole che, a partire dalla sent. n. 16/1978, la Corte costituzionale ritiene requisito imprescindibile per l’ammissibilità del referendum.
La sent. n. 32/1993, nell’ammettere il referendum “Segni” sulla legge elettorale del Senato, ha evidenziato come fosse «per sé irrilevante il modo di formulazione del quesito, che può anche includere singole parole o singole frasi della legge prive di autonomo significato normativo, se l'uso di questa tecnica è imposto dall'esigenza di "chiarezza, univocità e omogeneità del quesito" e di "una parallela lineare evidenza delle conseguenze abrogative", sì da consentire agli elettori l'espressione di un voto consapevole». È l’univocità del quesito, ricostruita alla luce della ratio obiettivata nella richiesta e dell’intenzione dei promotori, a consentire la razionalizzazione del referendum e il suo innesto nella democrazia rappresentativa: una volta garantita tale condizione, l’innovatività propositiva del referendum non dovrebbe rappresentare un pericolo, ma anzi un salutare elemento di partecipazione capace di sparigliare l’oligarchia delle forze politiche organizzate.
In tal senso, e sotto tale profilo, non può che essere apprezzata la decisione “aperturista” della Corte costituzionale.
L. Zoppoli. Come può dedursi anche dalla mia risposta al quesito precedente, la mia opinione al riguardo è esattamente all’opposto: l’esito referendario è troppo poco manipolativo e rischia di lasciare di fatto in vigore una norma “occulta” dal tenore assai simile a quella che si vuole abrogare.
O. Razzolini. A mio parere, il risultato pratico consistente nel lasciare al giudice, anziché prevedere per legge, la modulazione nel quantum dell’indennità non stravolge del tutto la ratio della disposizione, come maturata nel contesto originario, poiché, come sottolinea Lorenzo Zoppoli, i giudici terranno comunque ampiamente in considerazione la natura e le dimensioni dell’impresa, in base all’art. 8 della l. n. 604 del 1966. In definitiva, l’esito positivo del referendum non sembra comportare la “mutazione genetica” dell’indennizzo in risarcimento in senso pieno perché, come molti autori hanno rilevato, l’art. 8 impone al giudice di modulare l’indennizzo tenendo conto di criteri estranei alle tecniche di valutazione del danno ed assumendo il punto di vista non solo della vittima dell’illecito ma dell’autore (si pensi al riferimento alle “dimensioni dell’impresa” e alle condizioni “delle parti”).
V. A. Poso A Vostro avviso l’approvazione della richiesta referendaria, genererebbe o no «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017)? Insomma, la normativa di risulta sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020), considerato che in ogni ipotesi di risarcimento del danno conseguente a licenziamento è stato previsto dal legislatore sempre un limite minimo e un limite massimo?
O. Razzolini. Certo, togliere il limite massimo cambia notevolmente ma, come dicevo prima, non comporta una vera trasformazione o mutazione genetica dell’indennizzo in risarcimento pieno.
L. Zoppoli. Ripeto: assolutamente no!
C. Caruso. Sul punto rimando alle risposte dei colleghi lavoristi.
V. A. Poso Quindi, mi pare di capire che, anche secondo Voi, il ritaglio operato non determina lo stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo, come argomenta la Corte che anche per questo si è pronunciata per l’ammissibilità di questo quesito referendario.
Lorenzo Zoppoli. Proprio così.
O. Razzolini. Direi di sì.
V. A. Poso. C’è da dire, però, che in caso di esito positivo della consultazione referendaria, fermo restando il mantenimento della soglia minima (pari a 2,5 mensilità) la liquidazione dell’indennità, nel tetto massimo, resterebbe affidata all’equo apprezzamento del giudice sulla base dei criteri indicati dallo stesso art. 8 della legge n. 604 del 1966, non incisi dal quesito, che si riferiscono «al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti». Questo dice la Corte nella sentenza. E, aggiungerei, anche in base a quanto previsto dall’art. 30, comma 3, secondo cpv, della legge 4 novembre 2020 n. 183. Ritenete ammissibile questo ampio potere discrezionale, di valutazione, attribuito al Giudice?
O. Razzolini. Mi sembra tu faccia bene a ricordare anche l’art. 30, co. 3, secondo cpv della l. n. 183 del 2010 che aggiunge il riferimento alle “condizioni dell'attività esercitata dal datore di lavoro” e alla “situazione del mercato del lavoro locale”.
Certo il giudice viene dotato di un ampio potere discrezionale che d’altra parte ha già nel caso delle imprese con più di 15 dipendenti dove l’art. 18, testo vigente, prevede una forbice elevatissima: 6-36 mensilità. In mancanza di una definizione “aggiornata” di piccola impresa ancorata a parametri non solo dimensionali, ma economici e finanziari è in effetti solo il giudice, sulla base di una valutazione case by case, che può far sì che questi elementi giochino un ruolo effettivo nella determinazione del quantum dell’indennizzo.
Personalmente, per le ragioni che ho provato ad illustrare in precedenza, sono comunque favorevole alla previsione per legge di tetti massimi – purché certamente non irrisori – ma qui stiamo discutendo della legittimità di un quesito referendario sul piano tecnico, non sul piano del merito. Mi limito ad osservare che proprio le interessanti considerazioni di Lorenzo Zoppoli sulla probabile tendenza dei giudici, in caso di esito positivo del referendum, a liquidare comunque indennità molto basse mi spingono a pensare che il tetto massimo potrebbe giocare a favore dei lavoratori. In particolare, il tetto massimo di 18 mensilità potrebbe costituire per i giudici un invito a liquidare indennizzi ben superiori alle 6 mensilità, tenendo pur sempre conto dei criteri previsti dall’art. 8.
Lorenzo Zoppoli. Il potere del giudice è ampio ma non è illimitato: basti pensare ai criteri generali che riguarderebbero la determinazione delle indennità anche nelle imprese minori.
Qui c’è il problema da molti rilevato di una sensibile differenza stavolta a vantaggio dei lavoratori delle piccole imprese che non avrebbero il limite massimo di 24/36 mensilità. Non sono d’accordo. Anzitutto le differenziazioni ci sono sempre state e non sono incostituzionali se razionali. Scontata la limitata tecnica referendaria (solo abrogativa), non mi stupirei poi, come ho anticipato, se i giudici si orientassero a ritenere che i limiti massimi di cui all’art. 18 o al d.lgs. 23/15 (di cui si attende l’espunzione dall’art. 9 ad opera della Corte Costituzionale anche a prescindere dal referendum) valgano tendenzialmente anche per le imprese minori, che dovrebbero caratterizzarsi per la più ampia gamma di criteri legali per quantificare il danno dai quali deriverebbe la più attenta ponderazione tra gli interessi del lavoratore e quelli delle imprese.
Questa giustificazione darebbe razionalità alle residue differenziazioni, ferma restando l’auspicabile prospettiva di una più chiara e coordinata utilizzazione dei tanti criteri di determinazione delle indennità contenuti in una legislazione cresciuta più per affastellamento di suggestioni che in base a valutazioni oggettive.
Nell’era dell’intelligenza artificiale inaccettabile appare una simile approssimazione nel calcolo di una pur ambigua indennità che rimane a cavallo tra risarcimento e sanzione, ma che può certamente essere utilizzata dai giudici senza eccessivi soggettivismi. Insomma, con un po’ di ottimismo, non mi pare impossibile che uno degli esiti referendari possa essere la ricerca di un sistema sanzionatorio dei licenziamenti ispirato a maggiore universalismo, ma senza ignorare né le esigenze delle persone né quelle delle imprese in cui la dimensione personale e di relativa debolezza economica riguardi realmente anche il datore di lavoro.
C. Caruso. L’esito positivo del referendum contribuirebbe a segnare la completa trasfigurazione delle politiche del lavoro inaugurate dal Jobs Act. Questo sistema, che disegnava un sistema di tutele indennitarie concentrato sulla predeterminazione legale e conseguente prevedibilità del firing cost, è stato fortemente ridimensionato dalle pronunce adottate dalla Corte. Il successo del referendum sarebbe la pietra tombale di quel sistema, superato a favore di un assetto che, nelle piccole imprese, riconoscerebbe al prudente apprezzamento del giudice il quantum indennitario da riconoscere. Molte sarebbero le considerazioni teoriche che simile passaggio solleciterebbe. Mi limito a segnalare la paradossale eterogenesi dei fini sottolineata da Lorenzo Zoppoli: non sempre la fiducia illimitata nel giudice, la cui decisione, al contrario di quella realizzata dalla intermediazione legislativa, tende ad assolutizzare un certo punto di vista, può essere favorevole al lavoratore. Il rischio non è solo quello di avere una moltiplicazione di pronunce diverse per casi simili, ma anche di andare incontro a una giurisprudenza minuta e pulviscolare capace di rendere imprevedibile buona parte del contenzioso lavoristico di questo Paese.
V. A. Poso Già subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si potevano prospettare per evitare il voto popolare erano problematici, considerati i tempi ristretti e tenuto conto dell’attuale maggioranza parlamentare. Oggi è possibile solo il voto popolare. Si fa per ragionare: quale intervento avrebbe potuto adottare il legislatore (non solo quello demolitorio, ovviamente) sufficiente ad evitare il referendum abrogativo?
L. Zoppoli. La domanda mi pare molto teorica: non vedo nessuna iniziativa diretta ad evitare i referendum e mi pare piuttosto diffusa la fiducia (spero mal riposta) in un ampio astensionismo. Rilevo che nell’unico sforzo recente, di matrice puramente dottrinale, volto a prospettare una riforma dei licenziamenti (mi riferisco alla proposta del gruppo Frecciarossa: ne ho scritto in LDE, 2025, n. 1) il tema delle piccole imprese è stato accantonato. Credo che, se il referendum non giungesse in porto, l’unico scenario plausibile è quello di un nuovo intervento della Corte Costituzionale, che però non si prospetta foriero di una soluzione definitiva in questa delicatissima materia.
O. Razzolini. Anche a me sembra non vi sia alcuna iniziativa diretta ad evitare i referendum. Sarebbe stato invece opportuno cogliere l’occasione per mettere mano ad una complessiva riforma dei licenziamenti, rendendola più omogenea e meno irrazionale, e modificare la nozione di piccola impresa, passando almeno dai 15 ai 10 dipendenti. Ma questo non è stato fatto. Credo anche io che la complessità tecnica dei quesiti e la loro attinenza a questioni non universalmente percepite come prioritarie abbiano convinto il Governo che sarà davvero difficile raggiungere il quorum necessario alla validità del referendum.
V. A. Poso Sono così ovvi e scontati gli scenari che si prospettano in caso di esito positivo del voto popolare? Lo chiedo anche nella prospettiva di una bocciatura del referendum relativo al D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, venendosi così a creare un notevole divario tra le tutele indennitarie applicabili ai dipendenti delle piccole imprese: smisurata, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, assai compressa (fatto salvo il possibile intervento della Corte Costituzionale) per i lavoratori assunti in data successiva.
O. Razzolini. Ho risposto in gran parte sopra. Certo si arriverebbe ad un sistema irrazionale e incoerente a cui potrebbe porre rimedio solo in minima parte un’eventuale sentenza di accoglimento della questione di costituzionalità sollevata con riferimento all’art. 9, d.lgs. n. 23 del 2015.
L. Zoppoli. Anche io ho già risposto in precedenza. Posso ancora precisare che, se fosse bocciata la richiesta di abrogazione dell’intero d.lgs. n.23/2015, saremmo davanti a non minori incongruenze di quelle attuali. Mi pare però difficile che i due referendum abbiano destini diversi: li vedo quasi gemellati, nel bene e nel male. Ma forse il mio auspicio personale - già espresso - fa velo sulla lucidità previsionale.
Immagine: Laurence Stephen Lowry, Operai, 1948.
Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti. E crediamo che le duemila visite giornaliere al suo sito internet siano testimonianza della rilevanza per una cerchia più ampia di persone, a tal punto che Ristretti, straordinario strumento di informazione e di apprendimento, appare un bene culturale immateriale da tutelare. Ad esempio, il Notiziario quotidiano dal carcere è un appuntamento che ciascuno attende e dal quale trae beneficio per le attività che svolge. Il tutto senza considerare che Ristretti coinvolge da tempo un cospicuo numero di detenuti in attività aventi come scopo la rieducazione, costituzionalmente imposta.
Siamo quindi preoccupati delle conseguenze che si potranno verificare sul lavoro di Ristretti Orizzonti a seguito della nota del 27 febbraio 2025 del Direttore Generale della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del DAP, avente ad oggetto le modalità di custodia dei detenuti di Alta Sicurezza.
Da un lato, l’art. 13 della Costituzione esige che i “modi” della detenzione siano “previsti dalla legge”. Siamo consapevoli che già si è fatto ricorso a note, linee guida, circolari e simili per intervenire sulle modalità della detenzione, non di meno è il momento di adottare una posizione più netta, anche perché la giurisprudenza costituzionale ha esteso all’esecuzione della pena una serie di principi fino a qualche anno addietro ritenuti validi solo per la fase della cognizione (su tutti, un corollario proprio della legalità, il divieto di retroattività di modifiche in peius: sentenza 32/2020, seguita da decisioni conformi). Esistono spazi di attuazione da riconoscere alla fonte regolamento, ma una questione così importante, come quella delle modalità di custodia dei detenuti (nel nostro caso, di AS), deve trovare nella fonte legislativa la sua prima e insostituibile disciplina.
Dall’altro lato, nel merito, ci domandiamo quanto possa essere costituzionalmente legittima la scelta delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di AS. I riferimenti corrono a diverse disposizioni della Costituzione. Da quelle che assegnano alla Repubblica compiti inequivocabili – quali garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2) e rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3) – a quelle che disegnano il volto costituzionale del sistema penale, come la responsabilità penale personale, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e il finalismo rieducativo (art. 27).
Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse”, laddove si dice che solo in questo modo si rende possibile la individualizzazione del trattamento. Allo stesso modo, non pare opportuno fare discendere conseguenze così gravose sulla generalità dei detenuti in AS. Laddove si sono verificate criticità è giusto intervenire, non lo è farlo in modo indistinto, a tutto detrimento proprio della individualizzazione.
Chiediamo pertanto che il DAP intervenga in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale. Le persone non sono “reati che camminano”, il diverso trattamento e il differente regime di custodia devono sempre basarsi su valutazioni attuali e individualizzate. Siamo convinti che questo sia il modo più costituzionalmente orientato per garantire insieme l’ordine e la sicurezza entro gli istituti penitenziari e il pieno sviluppo della persona umana.
Davide Galliani, Università degli Studi di Milano (estensore)
Roberto Bartoli, Università degli Studi di Firenze
Francesco Palazzo, Università degli Studi di Firenze
Roberto Cornelli, Università degli Studi di Milano
Renzo Orlandi, Università degli Studi di Bologna
Giovanni Fiandaca, Università degli Studi di Palermo
Emilio Dolcini, Università degli Studi di Milano
Marco Pelissero, Università degli Studi di Torino
Luciano Eusebi, Università Cattolica di Milano
Angela Della Bella, Università degli Studi di Milano
Stefano Simonetta, Università degli Studi di Milano
Emilio Santoro, Università degli Studi di Firenze
Stefano Canestrari, Università degli Studi di Bologna
Patrizio Gonnella, Università degli Studi Roma Tre
Giandomenico Dodaro, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Lina Caraceni, Università degli Studi di Macerata
Franco Della Casa, Università degli Studi di Genova
Laura Cesaris, Università degli Studi di Pavia
Andrea Pugiotto, Università degli Studi di Ferrara
Carlo Fiorio, Università degli Studi di Perugia
Silvia Buzzelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Pasquale Bronzo, Università La Sapienza di Roma
Marco Ruotolo, Università degli Studi di Roma Tre
Gian Luigi Gatta, Università degli Studi di Milano
Costantino Visconti, Università degli Studi di Palermo
Gian Paolo Demuro, Università degli Studi di Sassari
Claudia Pecorella, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Mauro Palma, Università degli Studi di Roma Tre
Adolfo Ceretti, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Donato Castronuovo, Università degli Studi di Ferrara
Vittorio Manes, Università degli Studi di Bologna
Antonia Menghini, Università degli Studi di Trento
Alberto Di Martino, Università Sant’Anna di Pisa
Fabrizio Siracusano, Università degli Studi di Catania
Stefania Carnevale, Università degli Studi di Ferrara
30 aprile 2025
Il presente contributo rappresenta la ideale prosecuzione di quanto già espresso su questa rivista in “Sulla soglia dell’Umanità. Un dialogo interrotto tra Roma e Strasburgo” cui si rimanderà per brevità su alcuni temi che saranno oggetto di indagine. Se in quella sede ci si era interrogati sulla congruità dei parametri assunti dalla giurisprudenza di legittimità, giudicando non condivisibili le statuizioni di principio emerse in seno alla Corte di Cassazione rispetto agli standard di tutela dell’art. 3 CEDU nell’interpretazione attualmente offerta dalla giurisprudenza di Strasburgo, a questo scritto spetta il compito arduo di rappresentare la pars construens di quel discorso, per rintracciare tra le interpretazioni possibili e nel solco della Carta Costituzionale una via italiana per la tutela della dignità delle persone ristrette avverso il sovraffollamento carcerario, eventualmente anche oltre l’art. 3 CEDU.
Una proposta radicale e radicata nell’art. 27 c. 3 Cost., che si offre al dibattito ed alla riflessione di chi per professione, per passione o mero senso civico, si interessa al mondo penitenziario.
Sommario: 1. Introduzione: il sovraffollamento carcerario, un tema ricorrente – 2. Nozioni e definizioni del fenomeno: il sovraffollamento tra scienze tecniche e diritto – 3. Spazio detentivo minimo e tecniche di tutela: l’art. 35 bis O.P. e l’art. 35 ter O.P. – 4. Il rilievo del sovraffollamento nell’art. 35 bis O.P.: norme rilevanti e criteri ermeneutici – 5. Gli standard di tutela dell’art. 3 CEDU, tra C.P.T. e Corte di Strasburgo – 6. Il letto di Procuste[1]: i criteri Mursic nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Cassazione – 7. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte I “Verso Mursic...” – 8. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte II “.... e oltre” – 9. La tutela dal sovraffollamento in chiave costituzionale: una proposta radicale.
1. Introduzione: il sovraffollamento carcerario, un tema ricorrente
Il tema del sovraffollamento carcerario occupa indubbiamente un posto di primario rilievo nel discorso pubblico e nella riflessione degli operatori in materia di esecuzione penale.
Al sovraffollamento - oltre che alla cronica carenza di risorse per il trattamento penitenziario - si imputano gran parte delle storture e delle inefficienze del “sistema carcere”, a sua volta messo ulteriormente sotto pressione dall’elevato tasso di recidiva che si registra nel nostro paese, in un moto circolare dove la causa scolora nell’effetto e viceversa, dipingendo un quadro a tinte fosche e scure.
In questo scenario, a farla da padrone è un uroboro asfissiante che ciclicamente ritorna a bussare alla porta delle coscienze di chi, per professione, per passione o mero senso civico, si interessa al mondo penitenziario, convinto che è dalla condizione delle carceri che si giudica la civiltà di un popolo[2].
Un serpente che si rigenera ed auto divora e che, talvolta, stringe le sue spire a guisa di nodo[3] - se è vero che a stento si muore e che di stenti si può anche morire[4] - senza lasciare apparente scampo.
E nonostante qualcuno, da lontano, gracchi un “Nevermore”[5], l’eterno ritorno delle carceri che scoppiano, inadeguate e che uccidono perseguita operatori penitenziari, avvocati e magistrati.
È chiaro: si tratta di problema complesso, che coinvolge la società tutta e chiama ad un’assunzione di responsabilità non solo i diversi operatori della giustizia, ma anche l’azione della politica, la cui soluzione richiederebbe interventi sinergici, coraggiosi e lungimiranti da parte di tutte le istituzioni coinvolte; doti rare, nell’evo contemporaneo (tam saeva et infesta virtutibus tempora, per dirla con Tacito[6]).
Quel che qui ci si propone è di indagare le risposte ordinamentali al tema dall’angolo prospettico degli strumenti di tutela giurisdizionale e del potere di intervento del giudice cui, sostanzialmente, l’intera materia è stata tralaticiamente demandata dal legislatore.
Giudice che (secondo una felice immagine della dottrina) nel labirinto delle fonti[7], pare aver perso il suo filo d’Arianna, la stella polare della Costituzione, avventurandosi per approdi lontani da porti sicuri, in cui l’esercizio della giurisdizione cede il passo alla fredda calcolatrice del geometra.
È, dunque, necessario recuperare il Nord, orientare la bussola e porre al centro del proprio cammino l’orizzonte costituzionale, nella cui roccia potrebbero (e secondo lo scrivente possono) riscoprirsi filoni auriferi nuovi, da cui trarre materia per plasmare, in via ermeneutica, il volto costituzionale della pena.
2. Nozioni e definizioni del fenomeno: il sovraffollamento tra scienze tecniche e diritto
Quando si parla di sovraffollamento carcerario, ci si riferisce ad un tema che coinvolge numerosi aspetti della realtà detentiva, ma che affonda le proprie radici anzitutto sul terreno dell’edilizia penitenziaria e della capacità ricettiva degli istituti.
Una struttura carceraria o una cella in tanto può essere definita sovra-affollata, in quanto ospita un numero di persone eccedente quello che potrebbe ordinariamente accogliere; il che postula che a monte esista un dato numerico che definisca la capienza dell’istituto o della camera detentiva.
Ma poiché la capienza degli istituti deve essere definita sulla base di criteri di abitabilità e vivibilità degli ambienti, e che questi, a loro volta, discendono da scelte valoriali ed assiologiche sullo spazio vitale minimo di cui ciascun detenuto ha bisogno, la definizione di un numero di capienza massima può essere giudicata più o meno accettabile nella misura in cui rispetta i criteri posti a monte della definizione stessa.
Esemplificando, si potrebbe pure stabilire che una cella di 10 mq sia idonea ad ospitare dieci persone; ma, chiaramente, tale indicazione si colorerebbe in termini di non accettabilità in quanto restituirebbe l’immagine di un ambiente non vivibile.
In questo senso, assume estrema rilevanza la definizione di standard di abitabilità/vivibilità minimi che definiscano quanto spazio occorre perché un ambiente possa essere considerato adeguato ad ospitare una o più persone.
Nella valutazione sulla abitabilità, ovviamente, al di là dello spazio rilevano ulteriori fattori, quali illuminazione, areazione, condizioni di temperatura etc.
Ai fini di interesse per l’odierna indagine, occorre limitare l’analisi al tema dello spazio vitale minimo, quale presupposto di partenza per un giudizio che porti a riscontrare una condizione di sovraffollamento.
Si tratta di un tema che è stato oggetto di approfondimento per lo più in ambito internazionale.
In particolare, le tre istituzioni che da un punto di vista tecnico si sono occupate di affrontare la materia sono le seguenti: nell’ambito del Consiglio d’Europa e della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo il Comitato di Prevenzione della Tortura; il Commissariato della Croce Rossa Internazionale; da ultimo, in seno alle Nazioni Unite, il Cometee Against Torture, istituito nell’ambito della Convention Against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984.
Seppur con approcci e standard non sempre omogenei, le fonti citate hanno dedicato particolare attenzione al tema, elaborando una serie di criteri per valutare l’adeguatezza delle condizioni detentive in termini di spazio personale, con specifico riferimento al fenomeno del sovraffollamento carcerario; standard che saranno oggetto di approfondimento nel corso del presente scritto.
Sul piano giuridico, invece, un ruolo di primaria importanza per l’evoluzione dell’ermeneutica in materia deve essere riconosciuto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ad essa, in particolare, si deve nel nostro ordinamento l’introduzione dei due strumenti normativi offerti agli operatori del diritto ed all’interprete per la tutela giurisdizionale della dignità dei ristretti (anche) rispetto a condizioni di sovraffollamento carcerario: gli artt. 35 bis e 35 ter L. 354/1975.
3. Spazio detentivo minimo e tecniche di tutela: l’art. 35 bis O.P. e l’art. 35 ter O.P.
Il tema dello spazio personale minimo all’interno delle celle detentive e del sovraffollamento carcerario è stato coltivato dalla giurisprudenza interna in massima parte nell’ambito del reclamo ai sensi dell’art. 35 ter L. 354/1975, di cui si è detto ampiamente in altra sede, cui si rinvia[8].
Si tratta, in estrema sintesi, di un rimedio indennitario e risarcitorio, che riconosce uno sconto di pena o una liquidazione monetaria nei casi in cui si riscontri una lesione dell’art. 3 dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (d’ora innanzi CEDU), per come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
La norma è stata introdotta quale completamento della tutela astrattamente garantita dal reclamo giurisdizionale ex art. 35 bis L. 354/1975 (d’ora innanzi anche O.P.), sulla base della sentenza Torregiani v. Italy del 2013, nell’ambito del piano concordato tra il Consiglio d’Europa e lo Stato italiano per l’esecuzione della condanna. La sentenza citata, infatti, aveva tra le altre statuizioni, censurato ai sensi dell’art. 13 CEDU l’assenza di un rimedio effettivo che consentisse a livello di legislazione interna di ristorare i pregiudizi già esauritisi del diritto dei detenuti a non subire trattamenti disumani o degradanti ai sensi dell’art. 3 CEDU - da intendersi quale violazione degli obblighi positivi di tutela discendenti dalla Convenzione - a causa delle condizioni di sovraffollamento carcerario sistemiche del nostro paese, giudicando a tal fine insufficiente il reclamo ai sensi dell’art. 35 O.P.
Ma, a ben vedere, è la stessa sentenza Torregiani v. Italy ad indicare che lo strumento fisiologicamente più adatto a garantire effettiva tutela al diritto leso, sarebbe un reclamo giurisdizionale di tipo preventivo[9], oggi disciplinato dagli artt. 35 bis e 69 c. 6 lett. b O.P.
Gli articoli citati, infatti, consentono al detenuto o all’internato di proporre reclamo al Magistrato di Sorveglianza avverso l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni della legge sull’ordinamento penitenziario e del relativo regolamento da cui derivi un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti.
La normativa, sebbene l’art. 69 c. 6 lett. b) O.P. faccia riferimento a violazioni di disposizioni previste “dalla presente legge e dal relativo regolamento”, è pacificamente letta dalla giurisprudenza di merito e costituzionale alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata come volta a rendere giustiziabile innanzi alla Magistratura di Sorveglianza l’esercizio dei diritti in ambiente detentivo, consentendo al detenuto di ottenere una tutela effettiva avverso quegli atti o comportamenti dell’amministrazione penitenziaria che, impedendo tout court o limitando oltre misura tale esercizio, realizzino delle gravi lesioni di diritti costituzionalmente tutelati.
In questa prospettiva, la norma può essere viatico per censurare quelle scelte amministrative e quelle condotte attive o omissive dell’amministrazione che, pur attuate nell’ambito della discrezionalità propria dell’ente penitenziario, compromettano l’esercizio dei diritti dei detenuti oltre la misura necessaria rispetto a quella già insita nella privazione della libertà personale determinata dall’esecuzione inframuraria.
Si tratta di un giudizio che, evidentemente, consente alla Magistratura di Sorveglianza di vagliare, secondo canoni di proporzionalità e adeguatezza, anche la discrezionalità delle scelte amministrative di pertinenza dell’amministrazione penitenziaria.
Tale sindacato, tuttavia, può essere ammissibile (vertendosi in terreno particolarmente esposto ad una possibile ingerenza del potere giudiziario su quello esecutivo-amministrativo, con lesione della separazione dei poteri) solo ove la lesione attinga un diritto del detenuto o dell’internato e ove la lesione eventualmente riscontrata sia connotata dai caratteri di gravità ed attualità.
Non sempre, infatti, la limitazione di un diritto rappresenta, per ciò solo, una lesione dello stesso.
L’ermeneutica costituzionale ed internazionale in tema di diritti fondamentali è chiara nell’indicare che l’esercizio dei diritti da parte della persona in concreto può (e a volte deve) essere operativamente limitato in presenza di interessi contrapposti, eventualmente a loro volta espressivi di diritti fondamentali di altri soggetti o di interessi parimenti meritevoli di tutela tali da porsi, nel caso di specie, in termini antinomici rispetto alla piena soddisfazione dell’interesse fatto valere dalla persona.
Si ritiene di dover richiamare, sul punto, l’ampia giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha più volte chiarito come i diritti sanciti dalla Convenzione, ad eccezione di quelli incomprimibili di cui agli artt. 3, 4 e 7, non debbano essere intesi in termini assoluti nel loro esercizio e che possano subire una compressione o financo un sacrificio, laddove ciò risulti necessario per garantire altri diritti o esigenze egualmente meritevoli di tutela[10].
Quel che preme rilevare, in questa sede, è come la Corte di Strasburgo, nelle materie in cui è stata chiamata ad esprimersi, abbia indicato le condizioni (generalmente mediante l’elaborazione di test) che possono portare a ritenere adeguato al caso concreto il sacrificio imposto ai diritti tutelati nella Convenzione, adottando un approccio che, lungi dall’esaurirsi ad una statica considerazione dei diritti fondamentali, legge gli stessi nel loro dinamico farsi e comporsi, alla ricerca di quell’equilibrio che realizzi, a parità di tutela dell’uno, il minor sacrificio possibile dell’altro; ma che, astrattamente, non preclude anche l’instaurazione di legittimi rapporti di subvalenza/prevalenza tra diritti antinomici.
Si tratta, in verità, di concetti che non sono estranei all’ermeneutica della Corte Costituzionale italiana, che, seppur in un contesto di civil law tendenzialmente a trazione lege-centrica, ha da tempo enucleato come criterio di risoluzione delle antinomie tra i diritti e di valutazione delle opzioni normative il canone della ragionevolezza (in parte mutuato dalla giurisprudenza espressa dal Bundesverfassungsgericht a partire dalla Sentenza Apotheken-Urteil del 11.6.1958).
In origine costruito quale corollario dell’art. 3 Cost., ed ancorato nella sua operatività dal raffronto con un tertium comparationis, si tratta di un principio che negli ultimi anni la Corte ha utilizzato per garantire un sindacato sempre più attento e puntuale alla proporzionalità delle scelte legislative nell’ottica di garantire tutela adeguata ai principi costituzionali, valutando che il legislatore eserciti ponderatamente la discrezionalità che gli è propria[11] (sino a sanzionarne il mancato esercizio, con conseguente vuoto di tutela per i diritti costituzionalmente e convenzionalmente tutelati; si veda da ultimo C. Cost. 10/2024 in tema di sessualità-affettività inframuraria).
Anche in questo contesto, tuttavia, la Consulta ha più volte indicato che alcune esigenze pur costituzionalmente rilevanti, possono in concreto subire una compressione laddove sussistano ragionevoli elementi per limitare la soddisfazione delle stesse, accettando opzioni normative che hanno accordato prevalenza a taluni interessi a discapito di altri laddove l’opzione prescelta non risultasse manifestamente irragionevole, sproporzionata, incongrua o inadeguata[12].
Queste considerazioni, operate su un piano di teoria generale, servono ad inquadrare il metodo con cui occorre approcciarsi alla materia del reclamo giurisdizionale.
Perché possa ammettersi un sindacato sulle scelte amministrative in ambito penitenziario devono, dunque, ricorrere i seguenti presupposti:
- il detenuto deve vantare un diritto soggettivo/fondamentale, protetto dalla legge o dalla Costituzione (o dalla CEDU, tramite l’art. 117 Cost.);
- tale diritto deve subire una limitazione da parte di scelte organizzative o da condotte attive/omissive dell’amministrazione penitenziaria;
- la limitazione deve risultare grave, dovendo intendersi questo requisito integrato tutte le volte in cui la stessa si presenti come particolarmente incongrua e sproporzionata rispetto alla tutela che assicura ad eventuali diverse esigenze rilevanti nel caso di specie, sì da ledere irragionevolmente il diritto del detenuto;
- la lesione deve essere attuale, nel senso di perdurante al momento della decisione da parte del Magistrato di Sorveglianza, avendo lo strumento in esame l'obiettivo di fornire una tutela ripristinatoria in forma specifica al diritto leso, posto che eventuali pregiudizi esauritisi possono trovare forme di ristoro secondo gli ordinari strumenti previsti dall’ordinamento (innanzi al giudice civile ovvero, laddove la lesione attinga l’art. 3 CEDU con reclamo ex art. 35 ter O.P.).
Solo a queste condizioni, dunque, può consentirsi al potere giudiziario di valutare la congruità dell’assetto degli interessi nel caso concreto e, dunque, offrire tutela al diritto del detenuto.
Tale tutela si concreta in un potere del giudice di ordinare all’amministrazione penitenziaria ed alle amministrazioni coinvolte un facere specifico, vale a dire rimuovere entro un termine indicato dal provvedimento gli ostacoli all’esercizio del diritto da parte del detenuto, adottando le scelte necessarie in tal senso.
Laddove l’amministrazione non adempia, è poi consentito al detenuto o al suo difensore di agire per ottenere l’ottemperanza dell’ordinanza emessa dal Magistrato di Sorveglianza, garantendo, in un’ottica di effettività della tutela, la realizzazione coattiva del diritto da parte del giudice.
Questi potrà, ai sensi dell’art. 35 bis c. 6 O.P. ordinare l’ottemperanza, indicando modalità e tempi di adempimento (di fatto anche con facoltà di sostituirsi all’amministrazione), nominare un commissario ad acta per l’esecuzione dell’ordinanza, e dichiarare la nullità degli atti amministrativi adottati in violazione-elusione del giudicato (riecheggia, nella normativa citata, l’eco degli artt. 21 septies L. 241/1990 e dell’art. 114 D.Lgs. 104/2010).
Dalla rapida disamina dell’istituto, dunque, appare abbastanza evidente che le frecce nella faretra del Magistrato di Sorveglianza nell’ambito del reclamo giurisdizionale siano particolarmente perforanti, sì da poter aprire dei significativi varchi nella corazza apparentemente impenetrabile dell’azione amministrativa.
Nel reclamo ai sensi dell’art. 35 bis O.P. una condizione di sovraffollamento strutturale, infatti, potrebbe essere affrontata di petto dalla magistratura di sorveglianza, con l’adozione di provvedimenti cogenti e capaci di imporre all’amministrazione azioni concrete per rimuoverne le cause, ove occorra anche sul piano strutturale.
Eppure, statisticamente, il problema sovraffollamento carcerario viene affrontato nelle aule di giustizia quasi sempre sul piano risarcitorio del reclamo ai sensi dell’art. 35 ter O.P., con un approccio che pare preferire il risarcimento/indennizzo alla tutela effettiva dei diritti. E ciò, se del caso, brandendo la sentenza Torregiani e l'art. 35 ter O.P. quale arma formidabile contro l’amministrazione e panacea dei mali del sistema, in quella che pare a chi scrive una chiara deviazione da quella che la Corte EDU aveva, effettivamente, indicato come la via maestra per garantire tutela all’art. 3 CEDU: l’art. 35 bis O.P.
Le tecniche di tutela dei diritti, infatti, classicamente si articolano, quantomeno su tre livelli.
Il livello minimo è rappresentato dal risarcimento per equivalente mediante attribuzione di una somma di denaro, tecnica di tutela che è utilizzata nei casi in cui non è possibile il ripristino né l’esatta realizzazione del diritto leso, ma solo ripararne simbolicamente il pregiudizio sul piano economico, anche laddove l’interesse del titolare del diritto non avesse ad oggetto una pretesa di tipo patrimoniale.
Forme intermedie possono essere quelle di tipo ripristinatorio quali il risarcimento in forma specifica, che sono utilizzate laddove il diritto leso viene ristorato nel suo esercizio mediante l’eliminazione del pregiudizio, che realizza di per sé l’accesso al bene della vita sotteso al diritto stesso.
Ma, occorre ricordare che la forma più elevata di tutela che un ordinamento giuridico può apprestare ad un diritto è quella preventiva, vale a dire quella che orienta le scelte normative nel senso di fissare regole volte a non consentire, quantomeno in astratto, che il diritto tutelato venga posto in pericolo.
Tale tecnica di tutela è, in genere, adottata per garantire beni giuridici particolarmente significativi per l’ordinamento, la cui sola messa in pericolo è considerata non accettabile.
È quest’ultima, secondo la Corte, la tutela che si dovrebbe garantire in via prioritaria all’art. 3 CEDU[13].
4. Il rilievo del sovraffollamento nell’art. 35 bis O.P.: norme rilevanti e criteri ermeneutici
Chiarito questo punto, occorre chiedersi, tecnicamente, in che termini il sovraffollamento carcerario potrebbe sorreggere una doglianza deducibile ai sensi degli artt. 35 bis e 69 c. 6 lett. b L. 354/1975.
Evidentemente, un eventuale reclamo sul punto dovrebbe mettere in discussione l’adeguatezza della camera di pernottamento sotto lo specifico profilo della carenza di spazio personale, che trova un proprio addentellato normativo nella legge sull’ordinamento penitenziario all’art. 6 L. 354/1975, laddove si afferma che le persone ristrette devono essere inserite in locali di pernottamento strutturalmente congrui e “di ampiezza sufficiente”.
La legge italiana, tuttavia, non stabilisce a monte una nozione o un indice numerico che definisca il concetto di “ampiezza sufficiente” (come avviene nella legislazione di altri paesi); con ciò rimettendo sostanzialmente alla discrezionalità amministrativa il compito di individuare cosa debba intendersi per spazio insufficiente e, dunque, quale sia il parametro minimo di spazio personale nelle camere detentive.
Laddove, tuttavia, l’amministrazione, spinta dalla contingenza di dover gestire un numero di ingressi superiore all’ordinario, provvedesse a sistemare nelle celle più persone del dovuto, potrebbe venire in rilievo il diritto costituzionalmente e convenzionalmente riconosciuto ai detenuti di non subire trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27 c. 3 Cost.) ovvero disumani o degradanti (art. 3 CEDU e 117 Cost.), ribadito anche dall’art. 1 L. 354/1975.
La lesione di tale diritto può ben presentarsi, oltre che per gravi carenze strutturali della singola cella o dell’istituto, in quelle situazioni in cui, a causa del sovraffollamento carcerario, vengano allocati nella camera un numero di detenuti eccedente il limite di vivibilità all’interno della stessa.
In questo caso, spetterebbe al giudice valutare l’adeguatezza della condizione detentiva e delle scelte operative dell’istituto, e, ove riscontrasse una violazione dei diritti del condannato, censurare la condotta dell’amministrazione nell’ambito del reclamo giurisdizionale.
Ma, un tale giudizio, richiederebbe l’individuazione di uno standard minimo, che consenta di esprimere l’incidenza del sovraffollamento sul diritto leso.
Il rapporto tra sovraffollamento e spazi minimi di detenzione nelle camere di pernottamento non trova, però, una specifica elaborazione nella giurisprudenza interna, essendo stato in principalità affrontato nell’ambito del rimedio di cui all’art. 35 ter O.P., che, come detto, richiama espressamente l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’art. 3 CEDU; da ciò è comprensibile che l’analisi della tematica sia stata condotta in massima parte con un approccio di tipo derivativo.
Approccio che, però, non pare aver vagliato in termini approfonditi alcuni aspetti di contraddizione insiti nell’attuale assetto della tutela convenzionale rispetto all’art. 3 CEDU in punto di vivibilità degli ambienti e condizioni minime di detenzione.
Il sistema di tutela garantito dal Consiglio d’Europa all’art. 3 CEDU, infatti, poggia su due pilastri: da un lato le indicazioni provenienti dal Comitato di Prevenzione della Tortura (C.P.T.), compendiate nei Reports e nelle European Prison Rules; dall’altro, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Le due fonti, tuttavia, sono al momento in uno stato di disallineamento sul punto specifico dello spazio personale minimo, individuando standard detentivi parzialmente divergenti.
Su tale asimmetria, appare opportuno soffermarsi.
5. Gli standard di tutela dell’art. 3 CEDU, tra C.P.T. e Corte di Strasburgo
Il Comitato di Prevenzione della Tortura è un ente del Consiglio d’Europa che ha il compito di promuovere l’adozione di standard comuni per il rispetto dell’art. 3 CEDU.
Nei vari anni di attività, questa autorità indipendente e tecnica, ha elaborato numerosi report, culminati nella redazione delle European Prison Rules[14], in cui sono fissati diversi parametri orientativi per migliorare le condizioni detentive negli Stati aderenti perché non si realizzino violazioni dell’art. 3 CEDU.
Il Comitato, per quanto di specifico interesse in questa sede, ha dedicato particolare attenzione al tema del sovraffollamento carcerario, quale fenomeno capace di imprimere alla detenzione un portato afflittivo che, per carenza di spazio personale, ridondi in un trattamento inumano o degradante.
Nell’elaborazione del Comitato sono ben delineati i criteri di valutazione dello spazio personale nelle camere detentive al fine di riscontrare o meno una condizione di sovraffollamento carcerario, distinguendo tra misure auspicabili e misure minime.
Quanto ai parametri auspicabili cui gli Stati dovrebbero tendere, il Comitato indica che una cella singola dovrebbe avere misure di almeno 6 mq al netto del bagno, mentre le celle con più occupanti, fino ad un numero massimo di quattro, dovrebbero prevedere 4 mq netti in più per ciascun detenuto rispetto alla cella singola. Dunque, a titolo esemplificativo, una cella doppia dovrebbe misurare auspicabilmente 10 mq (6+4), una cella tripla 14 (6+4+4) e così via[15].
Viceversa, il parametro minimo al di sotto del quale il Comitato ritiene sussistano profili di lesione dell’art. 3 CEDU nelle celle con più occupanti è indicato costantemente in 4 mq di spazio personale ciascuno; esemplificando, una cella doppia non dovrebbe mai misurare sotto gli 8 mq, una cella tripla avere dimensioni inferiori ai 12 mq e così via.
Nel calcolo dello spazio personale, inoltre, il C.P.T. considera esclusivamente le dimensioni della cella, intendendo con essa la sola camera di pernottamento ad esclusione del locale bagno, dividendo poi il dato metrico per il numero di occupanti.
Sono, dunque, inclusi all’interno dello spazio disponibile nella metodologia di calcolo del C.P.T. anche gli arredi quali letti e/o armadi, trattandosi di suppellettili necessarie ed utili a rendere l’ambiente vivibile.
Si consideri, a tale proposito, che la presenza di un letto per ogni singolo occupante è valutata dal C.P.T. quale misura positiva, avendo riscontrato diverse situazioni in cui ai detenuti non era garantito un proprio luogo per il riposo, ma questi erano costretti o a dormire a terra, o in due per ogni singolo letto, ovvero ancora a turno. Parimenti dicasi per gli altri arredi, che rendono l’ambiente abitabile, consentendo lo svolgimento delle attività ordinarie di vita dentro la cella.
Preme evidenziare che lo stesso C.P.T. indica che i propri standard non sono dotati di valore tassativo, potendo escludersi una violazione dell’art. 3 CEDU laddove, a prescindere dallo spazio personale, sussistano congrui elementi ulteriori che consentano di valutare positivamente le condizioni detentive.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, viceversa, è l’organo giurisdizionale, interprete della Convenzione, chiamata a giudicare se in un caso concreto vi sia stata una violazione delle norme di principio da essa stabilite.
Rispetto alla tematica di interesse, la Corte, sulla premessa dell’impossibilità di stabilire in maniera certa e definitiva lo spazio personale che deve essere riconosciuto a ciascun detenuto ai termini della Convenzione, ha adottato un parametro orientativo di spazio personale minimo di 3 mq per ciascun ristretto all’interno delle camere detentive.
Nella copiosa giurisprudenza della Corte EDU sul punto, occorre fare primario riferimento alla sentenza della Grande Camera Mursic v Croatia del 20.10.2016[16].
La sentenza citata, infatti, rappresenta certamente il leading case della giurisprudenza EDU in materia, non solo perché proveniente dal più ampio consesso della Corte di Strasburgo, ma anche perché con tale pronuncia la Grande Camera ha individuato le regole di giudizio e le situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 3 CEDU attraverso un’opera di raccordo e selezione degli orientamenti emersi in seno alla Corte negli anni precedenti.
È con la sentenza Mursic v. Croatia ,infatti, che la Corte ha accolto e stabilizzato l’indirizzo per cui la soglia orientativamente idonea a porsi in contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti debba essere fissata nelle celle con più occupanti in 3 mq pro capite, calcolati secondo la metodologia adottata dal Comitato di Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa (vale a dire calcolando la superficie della cella al netto del bagno e dividendola per il numero di occupanti)[17].
Tale condizione, infatti, secondo la Corte, implica un disagio o una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione, a causa della promiscuità degli ambienti tra più detenuti e della scarsa libertà di movimento all’interno della cella.
L’individuazione della soglia in 3 mq di spazio personale è stato un approdo non del tutto scontato né condiviso all’unanimità dai giudici di Strasburgo, atteso che vi era forte dibattito in seno alla Grande Camera circa la necessità di adottare il più elevato standard minimo indicato dal C.P.T. di 4 mq di spazio personale, che era stato accolto in alcune pronunce minoritarie (Cotleţ v. Romania (no. 2), n. 49549/11, §§ 34 e 36, 1.10.2013; Apostu v. Romania, n. 22765/12, § 79, 3.2.2015).
Tuttavia, la Grande Camera, a maggioranza, ha inteso ribadire che gli standard del C.P.T. indicano livelli minimi ed auspicabili e svolgono, dunque, una funzione preventiva e di indirizzo per gli Stati membri, laddove la Corte è chiamata a valutare situazioni reali ed effettive; pertanto, l’adozione di un parametro auspicabile per la valutazione dell’esistente, comporterebbe un giudizio non coerente con il tipo di tutela che la Corte EDU può assicurare nel sistema della Convenzione, andando a sovrapporsi a quella del Comitato.
La Corte, a ben vedere, non ha del tutto ignorato l’elaborazione del C.P.T. stabilendo che laddove lo spazio sia compreso tra i 3 ed i 4 mq, pur non essendovi applicazione dello strong presumption test, sussistono condizioni valutabili come problematiche, che richiedono adeguati elementi compensativi, per escludere la produzione di una lesione dell’art. 3 CEDU.
Laddove, da ultimo, lo spazio sia superiore ai 4 mq, non si evidenziano condizioni di pregiudizio sotto il profilo della carenza di spazio personale.
Sul punto della mancata adozione dello standard di 4 mq fissato dal C.P.T. non sono mancate le voci critiche dei giudici che avevano espresso orientamento di senso contrario in seno alla Grande Camera.
I giudici Sajò, López, Guerra and Wojtyczek hanno redatto una dissenting opinion congiunta, rimarcando la necessità che la Corte adottasse, quantomeno, gli standard minimi del C.P.T., posto che i 3 mq rappresentano un dato metrico particolarmente basso, che comporta per i detenuti una costante lesione dello spazio personale reciproco e che si colloca, peraltro anche al di sotto degli standard elaborati da altre organizzazioni internazionali[18].
Particolarmente approfondita è, ancora, la dissenting opinion del giudice Pinto de Albuquerque[19], il quale ha, in sintesi, osservato come la maggioranza dei giudici della Grande Camera, scegliendo di adottare uno standard di spazio minimo inferiore a quello accolto dal C.P.T. abbia sostanzialmente tradito la premessa maggiore da cui muove tutta l’ermeneutica della Corte EDU in materia di art. 3 della Convenzione: l’inderogabilità dell’art. 3 CEDU.
Se, argomenta il giudice portoghese, l’art. 3 CEDU individua un diritto inderogabile dell’individuo - concetto che nel sistema convenzionale significa non solo non violabile ex professo, ma soprattutto incomprimibile e, come tale, non bilanciabile nel suo esercizio con altri interessi o altri diritti, pur se garantiti dalla stessa Convenzione – non dovrebbe essere possibile accettare una soglia di tutela inferiore a quella minima fissata dal C.P.T.
E ciò anche in considerazione del fatto che il documento del C.P.T. contenente gli EPR (European Prison Rules) è stato espressamente adottato per impegnare i Governi degli Stati aderenti alla Convenzione a dotarsi di una legislazione nazionale che fissi chiari e specifici standard minimi di spazio personale (“the EPR are intended to compel Governments to declare by way of national law specific standards, which can be enforced” and these enforceable standards include certain European “minimum standards” in terms of accommodation: first and foremost, “there must be a clear minimum space”).
Alla luce delle chiare intenzioni del Consiglio e del Comitato nell’elaborazione del documento sugli standard detentivi minimi europei, ritenere lo stesso espressivo di indicazioni con mero valore programmatico anche nella parte in cui fissa gli standard minimi è giudicato dal giudice portoghese frutto di una lettura superficiale del testo.
La critica del giudice dissenziente è poi estesa anche al metodo adottato dalla Grande Camera: mentre lo standard C.P.T. di 4 mq è stato elaborato dal Comitato sulla base di un lungo lavoro di osservazione statistica e scientifica sugli effetti del sovraffollamento carcerario in termini di correlazione tra ovecrouding e inadeguatezza degli spazi personali, problematiche psicologiche ed insorgenza di agiti autolesivi, il parametro dei 3 mq è frutto della mera elaborazione della Corte EDU e non si confronta con gli argomenti a sostegno della soluzione più ampia (il paragrafo termina un irridente “in umbris est potestas”).
In conclusione, la dissenting opinion del giudice De Albuquerque evidenzia come con giudizi come quello reso nel caso Mursic v. Croatia la Corte non solo indebolisce e scredita il lavoro degli altri organi del Consiglio d’Europa, ma rinforza l’impressione che il sistema di tutela Europeo ai diritti fondamentali sia complessivamente incoerente.
Al netto della severità del giudizio conclusivo, le due dissenting opinion citate pongono all’attenzione dell’interprete un tema: un disallineamento tra Corte di Strasburgo e Comitato in punto di individuazione dello spazio personale minimo ai fini del rispetto della Convenzione.
L’analisi di tale distonia tra i due organi del Consiglio d’Europa sarà oggetto delle considerazioni e delle proposte successive.
Ma, prima, appare necessario confrontarsi sinteticamente con la giurisprudenza interna.
6. Il letto di Procuste[20]: i criteri Mursic nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Cassazione
La giurisprudenza convenzionale in materia, come detto, è stata approfondita dai giudici nazionali (di merito e di legittimità), prevalentemente nell’ambito del reclamo ex art. 35 ter O.P., con esiti che però appaiono allo stato non coerenti con il complessivo sistema di tutela convenzionale.
In particolare, l’ermeneutica della Corte di Cassazione ha inteso alcuni passaggi della sentenza Mursic in termini difformi rispetto a quanto effettivamente ivi indicato dalla Grande Camera, elevando lo standard di tutela dell’art. 3 CEDU in via ermeneutica.
In particolare, la Corte EDU, indicando lo spazio di 3 mq, ha precisato che, una volta calcolato questo al lordo del bagno e al netto del mobilio, deve poi verificarsi se, in concreto, i detenuti potessero muoversi liberamente/normalmente nello spazio così determinato.
Le Sezioni Unite[21], dunque, hanno proposto una interpretazione che sconti già gli arredi tendenzialmente fissi, sovrapponendo le nozioni di spazio personale e spazio di libero movimento già per la determinazione della regola di giudizio, detraendo arredi e letto a castello (anche qui, si consenta di rimandare ad altro scritto sul tema, in questa rivista).
Si tratta di operazione che, se non del tutto censurabile sul piano assiologico - in quanto sospinta dalla volontà di dare la maggiore tutela possibile - sul piano metodologico è stata compiuta interpretando in modo creativo e adattando le indicazioni della giurisprudenza di Strasburgo fino a stravolgerne la fisionomia (come nel proverbiale letto di Procuste), nonché esercitando un potere di interpretazione della giurisprudenza convenzionale che appare, come minimo, discutibile rispetto alla collocazione della CEDU nel sistema delle fonti indicata dalla Corte Costituzionale[22].
In particolare, la più recente ermeneutica emersa in seno alla Corte di Cassazione circa lo scomputo degli arredi fissi e, da ultimo, anche solo tendenzialmente fissi (quali il letto singolo[23]) per la determinazione dello spazio personale è frutto di una premessa maggiore non in linea con la giurisprudenza convenzionale, data dalla sovrapposizione delle distinte nozioni di spazio personale, calcolato al lordo degli arredi e funzionale ad individuare in via tendenziale la regola di giudizio (se strong presumption test o meno), e spazio di libero movimento, concetto che è calcolato in ambito EDU al netto di tutti gli arredi – anche mobili – e valorizzato per valutare l’effettiva realtà detentiva sperimentata dal ricorrente quale criterio suppletivo e concreto.
Si tratta di tema apparentemente di scarso respiro, ma che assume particolare rilevanza per stabilire, secondo la giurisprudenza convenzionale, il test e la regola di giudizio applicabile al caso di specie e che, dunque, se non correttamente inquadrato, rischia di portare ad esiti non coerenti con il sistema di tutela convenzionale.
E ciò non soltanto nell’ambito di quanto stabilito dalla giurisprudenza Corte di Strasburgo ma, anche, rispetto alle indicazioni dettate in ottica preventiva dal C.P.T.
Come si è già detto, infatti, il Comitato, pur adottando uno standard più elevato, utilizza un criterio di calcolo che individua lo spazio pro capite al netto del bagno e al lordo del mobilio.
In questo senso, l’ermeneutica interna, detraendo gli arredi tendenzialmente fissi già in fase di determinazione dello spazio personale, finisce con il far scivolare sotto soglia situazioni che rispetterebbero non solo gli standard minimi, ma persino quelli auspicabili indicati dal C.P.T.
Così ricostruito il quadro giurisprudenziale interno, può dubitarsi dell’effettiva validità dei canoni ermeneutici affermati in sede di legittimità.
Posto che le regole di giudizio assunte dalla Corte di Cassazione nell’ambito dell’art. 35 ter O.P. paiono frutto di un travisamento dei criteri espressi dalla giurisprudenza di Strasburgo ed eccedono nella sostanza la stessa elaborazione del C.P.T., queste non possono essere utilizzate per valutare se sussistano condizioni di sovraffollamento carcerario, semplicemente perché si discostano senza congrua motivazione dagli standard internazionali nella subjecta materia.
Il tema, dunque, allo stato attuale dell’elaborazione Costituzionale e Convenzionale, dovrebbe essere affrontato facendo riferimento alla sola giurisprudenza convenzionale tanto nell’ambito del reclamo ai sensi dell’art. 35 ter O.P. (ed anzi, a fortiori in tale ambito, in cui la giurisprudenza EDU è legge per relationem) quanto dell’art. 35 bis O.P., considerando il rispetto dell’art. 3 CEDU quale obbligo internazionale dello Stato ai sensi dell’art. 117 c. 2 Cost.
In questo senso, il limite di spazio personale oltre il quale dovrebbe potersi riconoscere una condizione di sovraffollamento carcerario è rappresentato dai 3 mq indicati dalla sentenza Mursic da calcolarsi al netto del bagno ed al lordo del mobilio, salva la verifica in concreto sulla effettiva possibilità di movimento normale all’interno della cella.
7. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte I “Verso Mursic...”
Quanto sinora affermato appare necessario per fondare le considerazioni che seguiranno.
L'approdo cui si è giunti, per quanto coerente con il sistema della Convenzione e coi limiti costituzionali all’interpretazione del giudice comune rispetto alla CEDU, appare non soddisfacente e, invero, sollecita ulteriori interrogativi sul piano della sua congruità costituzionale.
In particolare, a parere di chi scrive, non ci si può esimere dal considerare che la sentenza Mursic ha adottato standard minimi inferiori a quelli provenienti dall’elaborazione del C.P.T., scelta su cui la stessa Grande Camera non ha raggiunto una decisione unanime.
Fondate e ampie ragioni di dissenso sul punto sono state espresse da molti giudici.
A fronte di questo dato, verrebbe da chiedersi se non possa immaginarsi la possibilità di valutare la congruità delle condizioni detentive di un carcere sovraffollato non tanto con riferimento all’art. 3 CEDU per come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma alla stregua dell’art. 27 c. 3 Cost., quest’ultimo da leggersi alla luce delle fonti internazionali che hanno affrontato il tema, elaborando una nozione autonoma di trattamento contrario al senso di umanità, che non si appiattisca sulla giurisprudenza EDU[24].
L’operazione ermeneutica qui proposta potrebbe, invero, risultare di primo acchito di tipo creativo, esponendosi dunque a critiche non dissimili da quelle rivolte all’interpretazione dell’art. 3 CEDU proposta dall’attuale giurisprudenza di legittimità.
Tuttavia, la stessa è in verità costruita sulla ritenuta possibilità di individuare in ambito internazionale dei parametri più tutelanti, frutto di elaborazione scientifica e di puntuale osservazione statistica, valevoli come riferimento costituzionalmente adeguato a riempire di significato la nozione di “trattamento contrario al senso di umanità” sancito dalla Costituzione.
Tale operazione, peraltro, sarebbe possibile esclusivamente nell’ambito del reclamo ex art. 35 bis O.P., posto che l’art. 35 ter O.P., richiamando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 3 CEDU, vincola l’interprete al formante giurisprudenziale espresso dalla Corte.
Viceversa, nella sede del reclamo giurisdizionale, è compito del giudice individuare una posizione di diritto tutelabile e di specificarne il relativo contenuto, con il solo limite di radicare la stessa nell’alveo della normativa penitenziaria e nella Costituzione.
8. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte II “.... e oltre”
Ora, è indubbio che l’art. 27 c. 3 Cost., nella parte in cui vieta che la pena si traduca in un trattamento contrario al senso di umanità, faccia riferimento ad un concetto pre- o para- giuridico, appartenente alla sfera del pensiero, del sentimento e dello spirito, di difficile definizione anche perché inevitabilmente mutevole nello spazio e nel tempo (cosa è umanamente inaccettabile qui ed ora, infatti, un tempo era, o altrove lo è, ritenuto pacificamente tollerabile).
Potremmo descrivere l’umanità come un sentimento di solidarietà, di comprensione e di indulgenza verso gli altri uomini, che porta ad attribuire a ciascuno un portato minimo di dignità intangibile, derivante dal solo fatto di esser parte del consorzio umano. Alla base di questo sentimento vi è l’intuizione della comune natura, di un atto di riconoscimento reciproco tra l’io e l’altro da sé, fino alla costruzione di una identità condivisa (potrebbe dirsi uno specchiarsi nell’altro).
Contrario al senso di umanità, dunque, è ogni atto o trattamento che, tradendo la solidarietà tra pari, viene agito non riconoscendo la comunanza di destino con l’altro, che viola il perimetro intangibile dell’altrui dignità, che reifica o degrada la persona al punto da disconoscere ad essa il valore di uomo.
Sul concetto di umanità, nonché sui corollari principi di uguaglianza e dignità tra gli uomini, poggia l’intera costruzione del pensiero liberale (dal celeberrimo motto kantiano “Agisci in modo da trattare sempre l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo”) che ha posto le basi per il costituzionalismo moderno (a partire dalla Costituzione Americana: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”) e che ha condotto, dopo la deflagrazione dei totalitarismi e gli orrori delle Guerre Mondiali, al costituzionalismo contemporaneo ed alle Carte internazionali dei diritti, tra cui la CEDU.
Ad esso, la Carta Fondamentale della nostra Repubblica ha informato il proprio orizzonte programmatico, ponendo la persona umana al centro del progetto politico e organizzativo sancito in Costituzione (si vedano, in particolare l’art. 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”; e l’art. 3 c. 2 “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”).
Nell’ambito dell’esecuzione penale, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che dagli artt. 2 e 27 della Costituzione debba trarsi il principio di civiltà giuridica per cui i detenuti mantengono la titolarità di diritti soggettivi e vedono garantita quella “parte di personalità umana” che la pur legittima privazione della libertà personale non può intaccare (ex multiis Sentenze n. 114/1979 e 349/1993).
In questa cornice si colloca il divieto di cui all’art. 27 c. 3 Cost., ribadito anche dall’art. 1 della L. 354/1975.
L’ermeneutica Costituzionale sulla nozione di trattamento contrario al senso di umanità evidenzia la già esposta indeterminatezza del concetto, facendo però alcune precisazioni.
In particolare, si è affermato che un trattamento contrario al senso di umanità è tale se caratterizza oggettivamente la detenzione stessa (Corte Costituzionale, sentenza 104/1982) sì da determinare una incompatibilità assoluta con il protrarsi della carcerazione.
Con specifico riferimento al sovraffollamento carcerario, sovviene poi la sentenza 274/2013 della Corte Costituzionale, che ha affrontato direttamente il tema.
In sintesi, a seguito della sentenza Torregiani, si voleva sollecitare la Corte ad introdurre nell’art. 147 c.p. una ipotesi di differimento della pena per sovraffollamento carcerario e violazione dell’art. 3 CEDU; la Corte, pur dichiarando inammissibili le questioni sollevate per carenza di soluzioni a rime obbligate, ha evidenziato che il sovraffollamento carcerario è fenomeno idoneo pregiudicare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale e ad incidere, comprimendolo, sul “residuo” irriducibile della libertà personale del detenuto.
Tuttavia, non esistendo in ambito nazionale una chiara nozione di sovraffollamento carcerario, la giurisprudenza Costituzionale nella sentenza citata (anche perché in tali termini era stata posta la questione) si è limitata a richiamare l’art. 3 CEDU per come interpretato dalla Corte EDU; ciò sulla base della ritenuta coincidenza tra il concetto di “trattamento contrario al senso di umanità” espresso dalla Costituzione e quello di “trattamento inumano o degradante” espresso dall’art. 3 CEDU.
La giurisprudenza interna, però, non considerando il già richiamato disallineamento nella tutela offerta all’art. 3 CEDU venutosi a creare tra le sentenze della Corte di Strasburgo e gli EPR elaborati dal C.P.T., non ha vagliato l’opzione che qui si intende sostenere: vale a dire che ai sensi dell’art. 27 c. 3 Cost. non sarebbe accettabile una tutela inferiore rispetto a quella minima indicata dal C.P.T., che individua un livello di protezione più elevato di quello offerto dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Tale asserzione trova le sue premesse nella considerazione per cui l’elaborazione del C.P.T., come indicato dal giudice Pinto de Albuquerque nella sua dissenting opinion alla sentenza Mursic v. Croatia, non è frutto di scelte arbitrarie e/o politiche, ma piuttosto il punto di arrivo di una lunga osservazione tecnica e scientifica delle realtà detentive europee, condotta dal Comitato, che ha il pregio di fissare dei parametri sia auspicabili che minimi per la definizione dello spazio vitale di cui necessita una persona ristretta.
La soglia di 4 mq al netto del bagno e al lordo del mobilio, in altri termini, è stata calcolata sulla base di una concreta valutazione degli effetti che uno spazio inferiore a tale limite produce nella persona detenuta, evidenziando che ad esso si associano statisticamente l’insorgenza di agiti autolesivi, l’emersione di disturbi del comportamento, maggiore frustrazione ed aggressività.
Per il C.P.T., dunque, al di sotto di tale soglia sussiste già sovraffollamento carcerario ed una condizione valevole ad integrare, quantomeno, un trattamento degradante o a mettere a rischio la dignità delle persone detenute.
È in questa cornice che, l’interprete dovrebbe chiedersi se, a prescindere dal rilievo che una certa condizione detentiva può assumere rispetto all’art. 3 CEDU (quale fonte sub-costituzionale, che trova ingresso nell’ordinamento tramite l’art. 117 Cost.), possa considerarsi o meno “contraria al senso di umanità” e, dunque, valevole per riscontrare una violazione dell’art. 27 c. 3 Cost. l’allocazione in una camera in cui sia garantito uno spazio personale inferiore allo standard minimo che un organismo internazionale indipendente (al quale il nostro paese da aderito) abbia giudicato di per sé indicativo di una condizione di sovraffollamento carcerario e fissato come limite minimo di accettabilità.
Con ciò attribuendo alla norma costituzionale un significato più ampio e tutelante di quello espresso dalla Corte di Strasburgo e, dunque, interpretando la normativa interna, laddove parla di spazio sufficiente, nel senso che non sia sufficiente uno spazio inferiore ai 4 mq calcolati con la metodologia C.P.T.
Ulteriore argomento a sostegno della possibilità di riempire di significato più ampio il concetto di trattamento contrario al senso di umanità può venire anche dalla considerazione che il limite di 3 mq al netto del bagno e al lordo del mobilio fissato dalla sentenza Mursic v. Croatia è, in ambito internazionale, lo standard più basso tra quelli emersi nell’elaborazione sul tema.
Si è già citato, in premessa, il Comittee Against Torture delle Nazioni Unite, istituito nell’ambito della Convention Against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984, ratificata dall’Italia il 12.1.1989.
Il Comitato (anche C.A.T.), infatti, nel proprio report del 2018[25] sui temi inerenti all’oggetto della Convenzione ha indicato che, sebbene sia impossibile stabilire con certezza degli standard uniformi, vi sono due organismi internazionali dotati di sufficiente autorevolezza che hanno indagato il tema del sovraffollamento carcerario e fissato dei parametri minimi per prevenire il fenomeno, che a sua volta si correla alla sottoposizione dei ristretti a trattamenti inumani e degradanti. Uno è il C.P.T., di cui si è già detto; l’altro è il Commissariato della Croce Rossa Internazionale, che il C.A.T. indica quale proprio modello primario e con cui ha redatto uno specifico documento in tema di sovraffollamento: il “Handbook on strategies to reduce overcrowding in prisons” del 2013.
L’I.C.R.C. ha elaborato, sulla base dell’esperienza maturata (verrebbe da dire sul campo), che lo spazio congruo da garantire ad un prigioniero perché possa dormire indisturbato, allocare i propri oggetti personali e muoversi dovrebbe essere di 5,4 mq per le celle singole, escluso il bagno ma inclusi 1.6 mq almeno di letto/spazio per dormire, mentre dovrebbe attestarsi in 3,4 mq a persona in camere condivise o dormitori comuni, incluso lo spazio in cui sono allocati i letti.
La Croce Rossa, tuttavia, evidenzia che anche spazi inferiori potrebbero essere adeguati, in considerazione delle condizioni complessive del regime detentivo, non potendo esaurirsi il sindacato nella mera valutazione dello spazio disponibile[26].
È chiaro a chi scrive che le fonti richiamate sono appartenenti al cosiddetto soft law, sicché attribuire ad esse valore direttamente cogente non sarebbe possibile.
Tuttavia, alcuni elementi rinforzano l’idea che le indicazioni in esse contenute possano essere utilizzate non tanto come parametro normativo, quanto piuttosto quali fonti di conoscenza, descrittive di quel che in ambito internazionale è considerato sovraffollamento carcerario; nonché di come, ed in che misura, su base scientifica e di osservazione statistica, al sovraffollamento così descritto venga associata una condizione di sofferenza ulteriore, data dalla carenza di spazio vitale.
Le fonti indicate, anzitutto, (così come la giurisprudenza EDU), convergono nell’individuare un metodo di calcolo lo spazio personale al netto del bagno e al lordo del mobilio; particolarmente chiare sul punto le indicazioni del ICRC e del CAT che specifica come rientrino nello spazio personale sia i letti singoli che i letti a castello (il che, ancora una volta, evidenzia la non adeguatezza della giurisprudenza interna sul tema).
In secondo luogo, le stesse indicano dei parametri minimi che fissano lo spazio personale che occorre garantire per evitare che la detenzione si connoti in termini di ill-treatment (maltrattamento).
Pur adottando, poi, un approccio multifattoriale per verificare se, in concreto, il trattamento degradante sussista, la base di partenza del ragionamento di entrambe le fonti citate è che quella soglia rappresenta il minimo accettabile in termini di spazio per escludere che possa porsi un problema di carenza di sufficiente vivibilità degli ambienti ed al di sotto del quale si verte già in una condizione di ovecrowding.
Da ultimo, entrambi gli organismi internazionali citati hanno fissato soglie più elevate di quelle accolte dalla giurisprudenza EDU nella sentenza Mursic.
In un quadro siffatto, l’interprete non può esimersi dal chiedersi quale opzione possa essere costituzionalmente accettabile ai sensi dell’art. 27 c. 3 Cost.: 3 mq, minimo fissato dalla giurisprudenza della Corte EDU; 3,4 mq, minimo fissato dal I.C.R.C. ed adottato dal C.A.T.; 4 mq, secondo l’elaborazione del C.P.T.
Tale ultima opzione appare quella più coerente con il sistema costituzionale nel suo complesso.
Se, come si è detto, il senso di umanità si caratterizza per l’essere frutto di un atto di riconoscimento reciproco che porta ad attribuire alla persona umana un minimo di dignità intangibile, ed è contrario ad esso ogni condotta che viola il perimetro intangibile di questa dignità, ponendo la persona in una condizione di sofferenza che finisce per disconoscere ad essa il valore di uomo, non potrebbe accettarsi costituzionalmente una tutela inferiore a quella che individua il punto oltre il quale la detenzione viene esperita in condizioni di sovraffollamento.
E ciò per la valida ragione che già questa soglia 4 mq di spazio personale, al lordo del mobilio e al netto del locale bagno, individua una condizione di pregiudizio per la persona ed uno spazio che viene giudicato insufficiente, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza EDU che, pur accogliendo uno standard più basso, valuta comunque come idonee a richiedere un sindacato per una potenziale violazione le condizioni in cui lo spazio personale è compreso tra i 3 ed i 4 mq.
L’assunzione di questo parametro è, dunque, comunque coerente anche con la giurisprudenza EDU, che pur non applicando lo strong presumption test considera già al di sotto dei 4 mq la sussistenza di una condizione problematica ai fini della tutela dell’art. 3 CEDU.
Giova, poi, evidenziare che una nozione autonoma eccedente l’art. 3 CEDU costruita in questi termini sarebbe ben compatibile con la tutela convenzionale. Lo stesso art. 53 CEDU, infatti, consente agli Stati di adottare standard più elevati di quelli espressi dalla convenzione; circostanza che, anche in un’ottica di sistema, rende la presente costruzione compatibile sia con il rispetto della Costituzione che della Convenzione.
Merita di essere segnalata sul tema la recentissima sentenza n. 33/2025 della Corte Costituzionale, in cui, ai paragrafi 7.1 e seguenti, la Corte ha ribadito che in virtù dell’art. 53 CEDU la tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione può essere assicurata dagli Stati membri anche in assenza di specifiche pronunce della Corte di Strasburgo su un determinato aspetto di quel diritto.
È chiaro che in questa sede si è di fronte ad un tema molto arato in ambito convenzionale e dove vi è, viceversa una stabile giurisprudenza a Strasburgo, il che non consentirebbe all’interprete-giudice comune di andare oltre la Corte deputata all’interpretazione della Convenzione (secondo Corte Costituzionale 49/2015).
Tuttavia è interessante ai fini del discorso qui in costruzione la pronuncia citata perché individua il metodo che potrebbe portare ad una corretta integrazione dei sistemi di tutela tra Costituzione e Convenzione: considerare la Convenzione parte del sistema costituzionale e elevare la protezione dei diritti allineando, ai sensi dell’art. 53 CEDU, la minor tutela in ambito convenzionale a quella (che qui si intenderebbe costruire) più elevata costruita sulla norma costituzionale[27].
9. La tutela dal sovraffollamento in chiave costituzionale: una proposta radicale
Alla luce della disamina condotta e richiamando le tecniche di tutela dei diritti, può dirsi che la dignità umana sia un bene che non meriterebbe costituzionalmente la più ampia forma di tutela possibile?
E se diversi organismi internazionali, pur adottando diverse soglie, concordano sul fatto che già tra i 3 ed i 4 mq di spazio personale ci si colloca in un range già insufficiente, capace di porre in dubbio il rispetto della dignità dei ristretti, non è costituzionalmente doveroso fare del parametro dei 4 mq il limite di riferimento ai sensi dell’art. 27 c. 3 Cost., alla luce del quale leggere poi le altre norme dell’ordinamento?
A questi interrogativi, si ritiene di poter dare risposta affermativa.
La carenza di spazio determinata dalla disponibilità di meno di 4 mq per ciascun ristretto, infatti, individua una caratteristica oggettiva della detenzione, che viene esperita in condizioni di chiara non adeguatezza ed insufficienza degli spazi detentivi, sino a porsi in termini non compatibili con il pieno rispetto della dignità dei ristretti; sarebbero, dunque, riscontrati in questo senso anche i criteri ermeneutici già accolti dalla giurisprudenza costituzionale sulla nozione di trattamento contrario al senso di umanità, sopra richiamati.
In questo senso emergerebbe una nozione autonoma di trattamento contrario al senso di umanità con specifico riferimento alle condizioni minime di spazio personale, ancorata all’art. 27 c. 3 Cost.
Sembrerebbe, dunque, poi possibile addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata degli art. 1 e 6 L. 354/1975, alla luce dell’art. 27 c. 3 Cost. nel senso di ritenere che, ai fini di individuare l’adeguatezza delle dimensioni delle camere detentive, lo spazio personale all’interno di ogni cella da garantirsi ordinariamente a ciascun detenuto debba essere pari a 6 mq nelle celle singole e 4 mq per detenuto nelle celle con più occupanti, calcolati al netto del locale bagno ed al lordo del mobilio, secondo lo standard C.P.T.
Una interpretazione in questi termini, ove venisse accolta e sostenuta, infatti, individuerebbe una opzione coerente sul piano assiologico, costituzionalmente adeguata e convenzionalmente conforme, orientata alla tutela dei diritti secondo standard effettivi.
Un’ermeneutica di questo tipo, inoltre, consentirebbe alla magistratura di offrire ai ristretti una ben più articolata, elevata ed adeguata risposta al problema del sovraffollamento carcerario, distogliendo la Magistratura di Sorveglianza da una mole defatigante di reclami tesi ad ottenere meri risarcimenti - spesso infondati, adottando l’effettiva giurisprudenza convenzionale sull’art. 3 CEDU - ed impegnando la stessa in una più puntuale valutazione delle effettive condizioni di detenzione nelle carceri del nostro paese, con poteri di intervento ben più pregnanti di quelli che attualmente la stessa sta esercitando.
Infatti, attraverso l’individuazione di un limite minimo di spazio personale costituzionalmente adeguato e superiore a quello rilevante per l’art. 3 CEDU secondo la giurisprudenza di Strasburgo, si potrebbe riempire di significato il dato normativo di cui all’art. 6 O.P., alla luce dell’art. 27 c. 3 Cost., e considerare grave ed attuale ogni allocazione in celle non compatibili con gli standard C.P.T.
Ciò consentirebbe al magistrato di intervenire nel caso specifico, disponendo ad esempio una diversa allocazione del detenuto, vietando di allocare in celle più detenuti di quelli che consentano il rispetto del limite indicato, eventualmente imponendo all’amministrazione con provvedimenti vincolanti di cessare nella condotta lesiva dei diritti delle persone ristrette, piuttosto che limitarsi ad offrire un magro ristoro (ristoro che, comunque, rimarrebbe azionabile in altra sede per i pregiudizi esauritisi).
Forse, un’ermeneutica di questo tipo potrebbe consentire interventi più efficaci e risolutivi di quelli sinora messi in campo, realizzando la tutela piena ed effettiva della dignità dei detenuti.
Una proposta, come detto, provocatoriamente radicale, ma che, lungi dal porsi quale imprudente balzo oltre la CEDU che dal labirinto ci schianti in mare, getta i suoi passi nel dedalo delle fonti seguendo il filo che promana dalla Costituzione, superando la paura ed il senso di impotenza; come quel del pastore che addenta il serpente e spezza il giogo dell’eterno ritorno.
[1] Cfr.“Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale”, F. Gianfilippi, in questa rivista.
[2] Celebre motto di Voltaire.
[3] F. Nietzsche, “Così parlò Zarathustra – Un libro per tutti e per nessuno”, Adelphi, 1976.
[4] Il riferimento è qui al brano La Ballata degli Impiccati, di Fabrizio De Andrè: “Tutti morimmo a stento/ ingoiando l’ultima voce/ tirando calci al vento/ vedemmo sfumare la luce”; dall’album Tutti Morimmo a stento, 1968.
[5] Si allude a E. A. Poe, “The raven” poesia pubblicata sull’“American Review” nel febbraio 1845.
[6] P.C. Tacito, “De vita et moribus Iulii Agricolae”, Introduzione § 1-2, ed. Rizzoli, 1990.
[7] V. Manes, “Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni fra diritto penale e fonti sovranazionali” ed. Dike, Roma, 2012.
[8] Si rimanda, per una analisi esaustiva allo scritto “Sulla soglia dell’Umanità. Un dialogo interrotto tra Roma e Strasburgo”, in questa rivista.
[9] Cfr. Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, Causa Torregiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013, nella traduzione disponibile sul sito del Ministero della Giustizia, al paragrafo 50: “In particolare, la Corte ha già avuto modo di indicare che, nella valutazione dell’effettività dei rimedi riguardanti denunce di cattive condizioni detentive, la questione fondamentale è stabilire se la persona interessata possa ottenere dai giudici interni una riparazione diretta ed appropriata, e non semplicemente una tutela indiretta dei diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione (si veda, tra l’altro, Mandić e Jović c. Slovenia, nn. 5774/10 e 5985/10, § 107, 20 ottobre 2011). Così, un’azione esclusivamente risarcitoria non può essere considerata sufficiente per quanto riguarda le denunce di condizioni d’internamento o di detenzione asseritamente contrarie all’articolo 3, dal momento che non ha un effetto «preventivo» nel senso che non può impedire il protrarsi della violazione dedotta o consentire ai detenuti di ottenere un miglioramento delle loro condizioni materiali di detenzione (Cenbauer c. Croazia (dec.), n. 73786/01, 5 febbraio 2004; Norbert Sikorski c. Polonia, n. 17599/05, § 116, 22 ottobre 2009; Mandić e Jović c. Slovenia, sopra citata § 116; Parascineti c. Romania, n. 32060/05, § 38, 13 marzo 2012). In questo senso, perché un sistema di tutela dei diritti dei detenuti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione sia effettivo, i rimedi preventivi e compensativi devono coesistere in modo complementare (Ananyev e altri c. Russia, nn. 42525/07 e 60800/08, § 98, 10 gennaio 2012).”
[10] L’ermeneutica di Strasburgo sul punto è ingente, trattandosi di tema che riveste nell’interpretazione della Corte carattere metodologico; per un approfondimento si vedano in dottrina: V. Zagrebelski - R. Chenal - L. Tomasi “Manuale dei Diritti Fondamentali in Europa”, ed. il Mulino, 2022, Cap. 7, pagg. 147 e ss. dedicato al tema della giustificazione dell’interferenza Statale; J. Gerards, “General Principles of the European Convention on Human Rights”, ed. Cambridge University Press, 2019.
[11] Si segnala, sul tema generale, G. Silvestri, “La discrezionalità tra legalità e giurisdizione, in Sistema Penale, rivista online, 17.5.2024.
[12] Si veda A. Ruggeri – A. Spadaro “Lineamenti di giustizia costituzionale”, ed. Giappichelli, Torino, 2009; più di recente F. Viganò, “La proporzionalità nella giurisprudenza recente della corte costituzionale: un primo bilancio”, in Sistema Penale, rivista online, 8.1.2025.
[13] Cfr. Torregiani c. Italia, cit., § 50 e § 90 e ss.
[14] Cfr. European Prison Rules, 2006 Printed at the Council of Europe, aggiornate al giugno 2020 dalla “Recommendation Rec(2006)2-rev of the Committee of Ministers to member States on the European Prison Rules”.
[15] Si veda, in particolare “Living space per prisoner in prison establishments: C.P.T. standards” (C.P.T./Inf./2015/44).
[16] ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., 2016.
[17] ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., cit. § 103-123: “The Court has stressed on many occasions that under Article 3 it cannot determine, once and for all, a specific number of square metres that should be allocated to a detainee in order to comply with the Convention. Indeed, the Court has considered that a number of other relevant factors, such as the duration of detention, the possibilities for outdoor exercise and the physical and mental condition of the detainee, play an important part in deciding whether the detention conditions satisfied the guarantees of Article 3 […] Accordingly, the Court’s assessment whether there has been a violation of Article 3 cannot be reduced to a numerical calculation of square metres allocated to a detainee. Such an approach would, moreover, disregard the fact that, in practical terms, only a comprehensive approach to the particular conditions of detention can provide an accurate picture of the reality for detainees”.
[18] Si veda la ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., 2016, “Joint Partly Dissenting Opinion Of Judges Sajò, López, Guerra and Wojtyczek”, p. 65 e ss.
[19] Si veda ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., 2016, “Partly Dissenting Opinion of Judge Pinto de Albuquerque” p. 73 e ss.
[20] Cfr.“Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale”, F. Gianfilippi, in questa rivista.
[21] Cassazione, SS. UU. Sentenza n. 6551 del 29.4.2021.
[22] Si veda la Sentenza n. 49/2015 del 14.1.2015, § 7“Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011). Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non poter «prescindere» (ex plurimis, sentenza n. 303 del 2011), salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza di questa Corte.
Mentre, nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale.”.
[23] Cfr. Sez. 1, n. 11207 del 08.02.2024, Barone, Rv. 286126 “In tema di rimedi risarcitori ex art. 35-ter Ord. pen. nei confronti di detenuti o internati, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati da assicurare affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti stabilito dall'art. 3 della Convenzione EDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, non deve essere computato lo spazio occupato dal letto singolo del soggetto ristretto, in quanto arredo tendenzialmente fisso al suolo, non suscettibile, per il suo ingombro o peso, di facile spostamento da un punto all'altro della cella e tale da compromettere il movimento agevole del predetto al suo interno”.
[24] Si allude, in termini inversi, all’ermeneutica delle nozioni autonome elaborate in ambito CEDU.
[25] Si veda il “General Comment No. 4 (2017) on the implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22”, pubblicato il 9.2.2018.
[26] Cfr. “Handbook on strategies to reduce overcrowding in prisons”, United Nations, October 2013, p. 10-11.
[27] Il tema meriterebbe spazio maggiore, ma ci si ferma qui per brevità.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
