ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Vivere e morire nella modernità: la fulminante lezione di Luciano Violante
Recensione al libro "Ma io ti ho sempre salvato". La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri, 2024).
di Andrea Apollonio
Da tempo Luciano Violante si interroga sulle cause della "scomparsa" della politica, che si è trascinata dietro i corpi intermedi, e sulle conseguenti mutazioni delle strutture sociali. Egli ha proiettato le sue riflessioni sul principale nomosdell'Occidente, la democrazia (solo da ultimo: "La democrazia non è gratis" è dello scorso anno), sulla giustizia (ben noto il suo pamphlet "Magistrati" del 2009), sull'etica individuale ("Il dovere di avere doveri", del 2014, inaugurava l'approfondimento di un tema fin lì molto poco esplorato, a dispetto della sua centralità); tutti lavori che, a valle di una biografia scientifica e istituzionale senza termini di paragone, e assieme a molti altri dall'ampio respiro civile (pensiamo agli innumerevoli testi, dall'angolatura sempre diversa, sulla lotta alla mafia), si saldano e formano la trama di un pensiero coerente tutto incentrato sull'uomo e permeato di un umanesimo mai retorico, sempre vigoroso e franco.
Le riflessioni di Luciano Violante transitano adesso – parallelamente – per l'ultima tappa "terrena" dell'uomo: la morte; ma in realtà è il nomos di segno opposto a caratterizzarle: quello della vita. "Ma io ti ho sempre salvato". La maschera della morte e il nomos della vita" (Bollati Boringhieri, 2024 – una casa editrice, lo si tenga a mente, che ha pubblicato tra i più importanti testi della moderna filosofia) non è infatti un libro sulla morte, ma sulla vita. «Riprendere il senso della vita per governare la tecnica e dare un senso anche alla morte»: questa è forse la felice sintesi di un messaggio che, senza essere trattato come una questione di fede, viene lanciato guardando ad una realtà paradossale, centrata sul predominio della morte e – ciò che è ancora più tragico – alla sua banalizzazione.
È paradossale che «per un complesso di tabù, per abitudine, per la terribilità che la circonda, per il vuoto di pensiero, non si parla della morte», sebbene tutt'attorno a noi, attorniati da guerre sempre più insensate e micidiali, da dittature sempre più sanguinose, da migrazioni sempre più disperate, «la morte domina». E «resta singolare la contraddizione di un bene come la vita, che è sacro in quanto tale, e che poi nella concretezza della vita quotidiana, se appartiene a un immigrato irregolare, a un povero, a un debole, è abbandonata a ogni sorta di aggressione in un vuoto di diritti». D'altro canto, gli ultimi, nelle pagine di Luciano Violante, trovano ampio spazio: sono enumerate molte colpevoli indifferenze del nostro tempo, e quando si richiama il disastro di Cutro, viene ricordato ciò che in pochi hanno voluto ricordare: e cioè che è parte del mestiere di uomo, del faber, la ricerca, la lotta e la speranza, in vista di condizioni migliori di vita, anche per quelli che verranno; un mestiere la cui traduzione costituzionale sembra rintracciarsi all'art. 4 della nostra Carta. Eppure, in questo nostro sistema costituzionale e democratico, la vita degli ultimi vale sempre di meno. Forse va posto un problema morale?
La vita degli ultimi, sopratutto di quelli che esercitano consapevolmente il mestiere di uomo (e di quelli che non si determinano ma sono determinati, anch'essi sono tra gli ultimi: troppo spesso, ad esempio, «tacciamo delle vite dei giovani russi mandati a morire da Putin. Come se stare – giustamente – con gli ucraini ci debba rendere indifferenti di fronte alla morte dei loro coetanei russi»), è continuamente a rischio. «Sarebbe eticamente inaccettabile porre alla democrazia un problema morale?».
Ma è paradossale anche come alla morte, che ha da sempre un ruolo sociale ineludibile (e qui, come in altre parti del testo, si inseriscono a mo' di fotogrammi brevi racconti dell'adolescenza nell'assolata provincia barese, ove di fronte alla morte «si osservavano elaborati codici di comportamento»), oggi la modernità abbia dedicato i suoi non-luoghi: primi tra tutti le piattaforme social, dove «vita e morte sono mescolate insieme; reale e virtuale, il comico e il tragico, il dolore e la gioia. Il rischio è la perdita del senso del reale, con l'interruzione dei rapporti vitali che è la prima conseguenza della morte». Ci si avvia, così, verso la sua tragica banalizzazione.
Una riflessione colta e mai fine a se stessa: che da un lato pesca a piene mani nella storia e nel mito (e torna alla mente "Giustizia e mito", scritto con Marta Cartabia), che assume nel libro la valenza di una chiave di lettura, perché «i miti non sono favole; sono narrazioni che aiutano a dare un senso alla vita»; che dall'altro guarda oltre il tempo presente, agli strumenti che possano consentire la «ripresa della politica attraverso un nuovo umanesimo, come guida per un futuro a misura dell'uomo». Molto futuro e molto passato: «Mondo capitalistico e mondo sovietico avevano idee inconciliabili, ma entrambe parlavano del futuro, e per questa ragione ponevano la speranza, il progresso, la fiducia, la vita al centro dei progetti politici».
E nel mezzo? Nel mezzo ci siamo noi, impauriti; e siamo nel guado, impantanati in un presente di fatuo sviluppo che non rappresenta più una prova della nostra evoluzione ma la maschera del nostro declino – la maschera della morte, appunto.
Questo libro ultimo di Luciano Violante riesce a scuoterci, anche perché è diverso dagli altri – forse il punto non è cosa dice il libro, ma perché questo libro è stato scritto – financo nello stile, che rimane indefinibile: è uno scambio di battute fittissimo, che si espande, si dilata, davanti al quale siamo chiamati a far agire nel tempo minimo i nostri riflessi, la nostra indignazione, ma anche la nostra carica di futuro, quella che ancora rimane. Il messaggio, a questo punto, si fa ancora più chiaro: bisogna uscire dalla contemplazione, spiegare che è in gioco il valore dell'umanità e che il mondo non può dividersi tra quelli che muoiono e quelli che ne decidono la morte come danno collaterale. Le democrazie devono riacquisire la loro ragion d'essere; «produrre idee e politiche che facciano nascere speranza».
Ecco un'altra felice sintesi: «il potere politico, nella sua dimensione biopolitica, deve costruire speranza e quindi fiducia nella vita». Ma la politica non era "scomparsa"? Appunto, è necessario ricominciare, ripartire dal basso, dal «vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale», per dirla con le parole di Aldo Moro richiamate nel testo. Produrre idee e politiche che ridiano valore alla vita in un tempo di morte, che facciano nascere speranza nel futuro e ci liberino dall'illusione che la magistratura, ma sopratutto le leggi e le regole, sempre di più e sempre più inutili, possano risolvere l'enigma della vita: che va piuttosto compresa nel suo nomos.
Un libro densissimo, fulminante, necessario. Che trascina velocemente il lettore nei meandri di una modernità che non ha mantenuto le sue promesse; e che nella sua ultima parte si ferma, con l'affanno di chi, ad un certo punto, deve lasciare spazio alle parole più intime: quelle sì, davvero necessarie, davvero definitive.
L'unicità di questo libro sta infatti nell'ultimo capitolo: "Le mie morti".
Luciano Violante vi richiama con intensità le morti di sua nonna, di sua madre, infine di sua moglie: di quest'ultima, ne ripercorre gli ultimi giorni, l'agonia, e poi l'assenza. Giulia De Marco è stata una delle prime otto donne a diventare magistrato; come presidente del Tribunale dei Minorenni di Torino, ha introdotto importanti innovazioni ancora oggi ricordate dagli specialisti; ma sopratutto era «una parte di sé, quella che si era costruita attraverso il dialogo e la vita comune per 56 anni».
Perché scendere così a fondo nella propria biografia, nei ricordi, in fratture mai sanate, e da ultimo nei dolori più intensi?
Non lo so, o forse lo intuisco: Luciano Violante non ha mai accettato l'insostenibile retorica del nostro tempo, quella che gira a vuoto, che sfugge dai significati per rifugiarsi in slogan sempre più grezzi e vuoti; che è, in ultima analisi, la causa prima della scomparsa della politica. L'unico modo per opporsi alla crisi culturale (e quindi politica) della modernità è la cultura autenticamente reale – accompagnata dalla forza del proprio pensiero – della propria biografia: che configura, con il linguaggio immediato della fisicità – una fisicità che in questo caso drammaticamente svanisce – un mezzo espressivo potentissimo.
Quest'ultimo e più intimo capitolo si rivela quindi uno strumento di contaminazione stilistica, provoca l'occhio – attraverso una scrittura così potente – a vedere diversamente e a riflettere sul vedere stesso. A riflettere sulla maschera della morte e sul nomos della vita, che la società, da tempo priva di riferimenti politico-culturali, ha irrimediabilmente smarrito, assieme alla tenerezza palingenetica della frase che dà il titolo al libro: «Ma io ti ho sempre salvato», diceva la madre ormai agonizzante, «e io pensavo che quel corpo prima mi aveva fatto nascere e poi mi aveva salvato più di una volta». La vita è questo.
Perché, in fondo, non ha alcun senso parlare di politica, di società, di democrazia, di giustizia, di etica individuale, se prima non riacquistiamo il senso della vita: che va compresa nel suo nomos.
Nicolò Lipari Maestro di passione civile e di rigore antidogmatico. Le Sue tante lezioni.
di Mirzia Bianca
La scomparsa di Nicolò Lipari ha lasciato la comunità scientifica in uno stato di grande smarrimento. La Sua presenza costante e attiva ha attraversato la vita di generazioni di giuristi, accademici e giudici, studiosi di altre discipline, arricchendo i dibattiti con una personalità poliedrica affascinante e intrisa di grande umanità.
Non sono stata Sua allieva ma ho avuto la fortuna di averlo come Presidente all’ultimo concorso di professore associato su base nazionale, in cui ero candidata. Per me e, credo per i miei colleghi di concorso, è stata un’esperienza unica, che ci ha consentito di conoscere anche le Sue doti umane. Il Professore arrivava la mattina prima di noi e la Sua puntualità era da noi avvertita come segno di grande rispetto nei nostri confronti. Prima dello svolgimento dei lavori in Sala delle Lauree della Facoltà di Giurisprudenza di Roma La Sapienza, in cui ha insegnato per tanti anni, si soffermava a chiacchierare con noi nell’atrio. Quel dialogo era per noi indispensabile per sciogliere l’ansia che ci assaliva per una prova su cui avevamo puntato la nostra vita. Ricordo la Sua autorevolezza mista a grande gentilezza ed eleganza. Dopo tanti anni, grazie all’iniziativa di Andrea Mora, ci siamo ritrovati ancora una volta tutti insieme all’Università di Modena con il Professore che coordinava i lavori di un Convegno in cui esponevamo la tesi delle nostre opere monografiche che avevamo presentato al concorso, per saggiarne l’applicazione e le linee evolutive. Abbiamo continuato a dialogare con Lui e grazie a Lui abbiamo avuto la sensazione di appartenere ad una comunità.
Per Nicolò Lipari, come per i grandi Maestri, era impossibile scindere il piano personale da quello professionale. La Sua onestà intellettuale e la Sua forte impronta etica erano i tratti caratterizzanti dell’uomo e del giurista. Il legame tra l’uomo e il giurista spiega il forte legame che egli avvertiva tra il diritto e la società, un diritto che lui concepiva ex latere societatis. Si comprende così la Sua passione per le scienze sociologiche, già anticipata nella Prolusione del 1968 intitolata “Il diritto civile tra sociologia e dogmatica”. Non si tratterà solo di una passione ma della costruzione delle fondamenta della Sua dottrina e della Sua concezione del ruolo del diritto nella società. Per questa ragione il Suo pensiero può definirsi rivoluzionario perché ha cambiato completamente le coordinate della scienza giuridica. Vissuto in un periodo di transizione tra la tradizionale cornice dogmatica e le nuove istanze della postmodernità, enfatizzate dalla complessità delle fonti e dal passaggio dal sistema monistico del codice civile al sistema pluralistico composto dalla Costituzione e dalle fonti europee, egli ci ha donato la bussola che ci ha consentito di navigare nel nuovo mare della modernità con una nuova consapevolezza. Ne sono una testimonianza i volumi dedicati al Diritto privato europeo. Nicolò Lipari ci ha insegnato a ragionare in modo diverso dal passato, regalandoci una nuova cultura che ha definito un nuovo modo di intendere il diritto, che ha prodotto frutti in ogni campo. Il passaggio da lui predicato con costanza e coerenza da una scienza teoretica ad una scienza pratica, ci ha consentito di superare gli steccati dei settori scientifico-disciplinari, riportandoci ad un diritto senza attributi, quale strumento a servizio dell’uomo e della società. La Sua battaglia contro le categorie giuridiche[1] è stata una battaglia contro il formalismo e il dogmatismo che egli ci ha insegnato con rigore. Tale battaglia è stata da lui condotta a tutto campo, non solo in sede di elaborazione scientifica, ma in sede di insegnamento universitario. La Sua preoccupazione per la formazione degli studenti nasceva proprio dal disagio di avvertire uno scollamento tra realtà empirica e un insegnamento universitario ancora fortemente ancorato al dogmatismo e alle categorie giuridiche. Da questa preoccupazione nasce la Sua opera “Diritto privato. Una scienza per l’insegnamento”[2], opera da Lui concepita con grande preveggenza negli anni ’70 e condotta insieme ad altri colleghi ed allievi. La ritrosia a concepire il diritto quale scienza teoretica ci ha aiutato inoltre a cogliere le criticità di nuovi istituti del diritto civile, come la convivenza di fatto che la dottrina tradizionale cercava di imbrigliare in categorie precostituite[3]. Inoltre la Sua impostazione ha inciso profondamente sulla comprensione del ruolo del giudice[4]. Convinto che la funzione del giudice non potesse limitarsi come in passato a fedele custode della legge, ruolo che con linguaggio simbolico Egli paragonava a quello del farmacista “chiamato a prendere dagli scaffali delle regole la regola corrispondente ad una regola da altri confezionata e offrirla all’utente”[5], egli ha delineato i confini di una professione volta a realizzare il difficile compito di coniugare la complessità delle vicende umane con i principi dell’ordinamento, inteso nella sua dimensione anche sovranazionale.
Il Suo insegnamento ci ha consentito così di comprendere la portata di decisioni importanti, come la sentenza Englaro, prendendo le distanze da critiche troppo affrettate, arroccate sul tradizionale ruolo del giudice e cieche a cogliere la portata di giustizia di quella decisione. Ci ha così insegnato l’importanza del dialogo tra accademia e magistratura. In linea generale Nicolò Lipari era un giurista del dialogo e della condivisione e per questo era molto generoso intellettualmente. Amava dialogare con i Suoi allievi, con gli studenti a lezione, con i giudici, con i colleghi più giovani, amava condividere subito i Suoi preziosi scritti. Alla fine dei numerosi convegni, cui era costantemente invitato a partecipare, si creava sempre attorno a Lui un capannello di persone, con le quali il Maestro si soffermava a parlare con passione. Con Lui abbiamo avuto tutti il privilegio di sentirci parte di una comunità scientifica, affidata alla Sua mirabile direzione. La Sua generosità intellettuale è testimoniata dalle interviste che ha rilasciato su temi cruciali del diritto[6].
Il forte legame che egli avvertiva tra il diritto e la società e la Sua impostazione valoriale sono state la ragione del Suo impegno civile e politico, impegno non usuale per un accademico. Tale impegno politico è stato il corollario di una prospettiva che vede il giurista calato attivamente nei problemi della società e chiamato a dare ad essi una soluzione. Il Suo impegno nel dibattito sul divorzio e in quello che ha preceduto la Riforma del diritto di famiglia del 1975 sono alcune significative testimonianze della Sua spinta ideale[7].
Il connubio ideale tra diritto e società, che ha attraversato la parabola del Suo pensiero, gli ha consentito di concepire il diritto quale fenomeno culturale e di cogliere così le assonanze tra diritto e letteratura. Suggestive sono le Sue pagine dedicate all’opera di Sciascia[8] e di Dante Alighieri[9].
Oltre a questo mosaico di insegnamenti che renderanno imperitura la Sua figura di giurista, credo che la lezione più significativa che Nicolò Lipari ci ha lasciato riguarda proprio la funzione del diritto. Nella Sua opera “Elogio della giustizia”, che raccoglie ad unità e armonia le Sue tesi antidogmatiche, egli svela il mistero della funzione del diritto, scienza finalizzata alla realizzazione del valore della giustizia, sciogliendo così l’eterno conflitto tra Nomos e Dike a favore di quest’ultima Con questa lezione il Maestro, abbandonando le tesi formalistiche volte a scindere diritto ed etica, ci restituisce la vera funzione del diritto e ci dà speranza nella rivalutazione di una disciplina troppo spesso intesa esclusivamente quale mera interpretazione della norma giuridica. Uscita dalla polvere del formalismo la scienza giuridica si proietta così in una dimensione di utilità sociale, quale strumento a servizio dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali. Questa lezione impone una riflessione profonda sui metodi di formazione universitaria e post-universitaria e sulla importanza dell’insegnamento del diritto, riflessione che non avrà confini temporali. Per questo Nicolò Lipari e il Suo pensiero ci accompagneranno nel tempo e ci saranno sempre da guida.
[1] N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013.
[2] Bari, 1974.
[3] V. la sua bellissima Voce Famiglia (evoluzione dei modelli sociali e legali), in Enc. del diritto. I Tematici, IV, Famiglia, Volume diretto da F. Macario, Milano, 2022, 417.
[4] N. LIPARI, Il diritto civile tra legge giudizio, Milano, 2017 e le riflessioni al volume di R. CONTI, Leggendo l’ultimo Lipari, pubblicate in Questione Giustizia l’11 novembre 2017.
[5] V. testualmente N. LIPARI, in Vivere il diritto. A colloquio con G. Carapezza Figlia, V. Cuffaro e F. Macario, Napoli, 2023, 59.
[6] V. l’intervista sul ruolo della Cedu coordinata da R.Conti per questa rivista, intervista cui hanno partecipato N. Lipari e E. Navarretta e pubblicata su questa rivista il 9 gennaio 2020. Al genere letterario dell’intervista è dedicato il volume Vivere il diritto. A colloquio con G. Carapezza Figlia, V. Cuffaro e F. Macario, cit.
[7] V. la lettera inviata il 31 agosto 2024 dal Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma La Sapienza, Prof. Oliviero Diliberto, in occasione della scomparsa del Maestro.
[8] N. LIPARI, Diritto e letteratura in “Todo modo”, in L. CAVALLARO – R. CONTI, (a cura di), Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, Bari, 2021, 93 e ss.
[9] N. LIPARI, “Onde convenne legge per fren porre”. Dante e il diritto, Presentazione del volume di L. TERRUSI, edito da Cacucci (2022) per la Collana Biblioteca di cultura giuridica, diretta da P. Curzio, in Questione Giustizia, 14 maggio 2022.
L’”inquietante aurora” della “prima” magistratura tributaria
Postilla di Cesare Glendi
Sommario: 1. Divagazioni, più o meno pertinenti, a livello meteorologico-lessicale - 2. Una prima pienissima condivisione su quello che “al fondo” dovrebbe essere il quid proprium della “magistratura tributaria”. – 3. Diversi modi d’intendere la “specialità” della magistratura e della giurisdizione tributaria. - 4. Sulla cruciale necessità di riorganizzare il terzo grado del processo tributario a livello istituzionale secundum constitutionem. – 5. Silloge conclusiva.
1. Divagazioni, più o meno pertinenti, a livello metereologico -lessicale.
Da chi egregiamente ha scritto “L’incerta alba della quinta magistratura” [1] mi è stato rivolto, con quella cortesissima insistenza cui resisti non potest, l’invito ad una breve “postilla” con l’espressione in libero contrappunto di una personale opinione sul suo contenuto, al fine, magari, d’incentivare un aperto confronto d’idee sull’avviata stagione della c.d. magistratura tributaria professionale italiana, di cui alla legge 130/2022 e al bando di concorso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7 giugno 2024.
Ottempero all’”ordine” sinteticamente, siccome tassativamente imposto dal novellato art. 121 c.p.c., permettendomi, soltanto, in limine, una piccolissima puntualizzazione, o divagazione, semantica sul titolo, sostituendo, per mio conto, alle parole virgolettate (che annunciano “l’incerta alba”) quelle, forsanche non proprio esatte, ma ossimoricamente icastiche, che, secondo una qualche più realistica e pessimistica previsione, inducono a pronosticare una ”inquietante aurora”, parlando, inoltre, non tanto, generalmente, di “quinta magistratura”, bensì, specialmente, di “prima magistratura tributaria”.
2. Una prima pienissima condivisione su quello che “al fondo” dovrebbe essere il quid proprium della “magistratura tributaria”.
Dopo questa, più o meno pertinente, digressione “meteorologico-lessicale”, vengo subito al dunque, per esprimere, anzitutto, pienissimo assenso a quanto si è scritto affermando, lucidamente, che “l’ordinamento della giustizia tributaria attuale è un vestito di Arlecchino, con molte toppe e tanti buchi” e che “il d.lgs. 545/1992, stravolto dalla legge 130/2022 e modifiche successive, fotografa la ‘transizione’”, da ciò che non è, ma dovrebbe diventare, “la nuova magistratura tributaria”, introiettando, com’è stato ancora ben detto, “l’autonomia, l’indipendenza, l’imparzialità, ossia le caratteristiche consustanziali dell’essere giudice nel quadro costituzionale italiano ed unionale europeo”. Il che, però, è solo facile a dirsi, come, del resto, si è subito puntualizzato, ma nient’affatto facile da concretizzarsi.
Perché per “fare una giurisdizione”, e tanto più per fare una magistratura come quella tributaria, vorrei aggiungere, che non è riuscita a “farsi autonomamente”, non ostante (ma forse proprio a causa di) un sin troppo stratificato e travagliato pellegrinaggio evolutivo ultracentenario (in una continua serie di “sinechie” con altre magistrature, e tra queste, in specie, la c.d. magistratura ordinaria [2], riducendosi, nella sostanza, ad una vera e propria “Cenerentola giurisdizionale” [3]), non bastano leggi e leggine, o normicciuole varie, sempre più, tra l’altro, deficitarie. Occorrendo, invece, ineludibilmente, l’attenta formazione in un corpo specializzato realmente vivificato e dotato dell’autonomia, indipendenza, imparzialità, ossia delle “caratteristiche consustanziali dell’essere giudice nel quadro costituzionale italiano ed unionale europeo”.
3. Diversi modi d’intendere la “specialità” della magistratura e della giurisdizione tributaria.
Nello scritto qui “postillato” si conclude, par di capire, dando atto, de iure condito, che il vero significato della riforma postagostana del 2022, tuttora in itinere, si pone comunque verticalmente nel segno della specialità. Trovando in questa connotazione di specialità la sua precisa ragione d’essere.
Il che appare assolutamente ineccepibile.
Anche se occorre, a mio parere, ben intendersi sul vero senso di quest’aggettivazione, di per sé suscettibile di qualche gamma di possibili accezioni e polarizzazioni, entro le quali si affacciano naturaliter, com’è ovvio, inevitabili frange di variegate divergenze di opinioni. In quanto, nello scritto a cui vien qui fatta postilla, si tende ad individuare il quid proprium del giudice tributario nell’essenziale finalizzazione del “determinare la “giusta imposta, che è lo specifico compito costituzionale ed unionale del giudice tributario”, che “implica, infatti, una grande competenza tecnica, ma una ancora più grande cultura degli obblighi e dei diritti; richiede un particolare equilibrio di pensiero; impone un’interpretazione davvero sentita della funzione giudicante, ovviamente senza ‘esagerazioni di senso’”. Il che, sia ben chiaro, non si vuole certo qui mettere in discussione. Anche se, penso, attiene ad una prospettiva teleologica, che non incide, negativamente, sul versante strutturale della specialità. Il quale, a mio fermo avviso [4], verte propriamente sul modo in cui la funzione del giudice dispositivamente si attua, e così, per l’appunto, connotando il quid proprium della sua pronuncia in una statuizione di annullamento del provvedimento impugnato, se valutato (nella sottostante cognitio) difforme dal paradigma normativo che regola la funzione impositiva lato sensu intesa, o in una statuizione di non annullamento di tale provvedimento, qualora la valutazione (sottostantemente alla cognitio) non incida sull’atto e sui relativi effetti (già prodotti dal provvedimento impugnato).
Se si riconosce, come si deve riconoscere, che l’avvento della magistratura tributaria istituzionalizzata dalla legge n. 130/2022 e disposizioni a seguire, è germinata nel segno della specialità della magistratura tributaria, questa dev’essere guarentigiata, sul piano specialisticamente strutturale, in termini di controllo dell’esercizio della funzione impositiva lato sensu intesa, diversamente dai modelli giudiziali di cui alla magistratura ordinaria e financo alle magistrature speciali cc.dd. ordinarie (amministrativa e contabile). In piena autonomia, strutturale, pur nell’uguale rispetto dei requisiti d’indipendenza e d’imparzialità che ne garantiscono la giurisdizionalità.
4. Sulla cruciale necessità di riorganizzare il terzo grado del processo tributario a livello istituzionale secundum constitutionem.
Indipendentemente da quanto sopra precisato, ma in logica prossimità, s’impone, com’è stato, infine, lucidamente avvertito, con encomiabile tempestività [5], l’esigenza di un rinnovato assetto apicale della magistratura tributaria. Non potendosi non tener conto dell’intrinseca criticità dovuta dall’attuale permanenza di un vertice assegnato de lege lata ad un giudice ordinario, qual è, pur al culmine, la nostra Suprema Corte di Cassazione, da un lato, e l’ormai disposta istituzionalizzazione, dall’altro, di una vera e propria magistratura speciale tributaria per i due gradi di merito, le cui decisioni, peraltro, restano asservite al sindacato finale di un organo giudiziale di vertice di cui, sempre de lege lata, non possono far parte proprio gli appartenenti alla magistratura speciale tributaria, infine pervenuta alla sua ormai prossima, finale configurazione.
Di ciò si è reso responsabilmente conto Enrico Manzon [6], il quale, ineccepibilmente, osserva che “tra le, molte, contraddizioni, della riforma della giustizia tributaria, forse quella di percezione meno immediata è il mantenimento della ’scissione’ ordinamentale tra giurisdizione di merito e giurisdizione di legittimità, speciale la prima, ordinaria la seconda” e che questo vero è proprio vulnus “è destinato nel medio-lungo periodo a diventare un problema serissimo”, in quanto, a ben vedere la creazione di quella che l’A. chiama la “quinta magistratura”, ma che preferirei definire, al momento, la “prima magistratura tributaria”, “non subito, ma presto, sicuramente tra qualche anno, realizza la situazione – anomala - che un ordine professionale specializzato dedicato farà una ‘giurisprudenza sotto tutela’ del vertice di una giurisdizione con la quale, nemmeno di fatto, avrà più niente a che fare. Infatti, tra non molti anni, l’ampio serbatoio di giudici tributari del ‘ruolo unico’ che appartengono alla giurisdizione ordinaria sarà esaurito. Quindi, le pronunce dei giudici tributari verranno sindacate, pur nei limiti della legittimità, da una Sezione ‘specializzata’ della Corte di Cassazione (ex art. 3, legge 130/2022) formata, a quel punto, da magistrati che non hanno mai esercitato, nemmeno part time, la funzione dei primi” ed “è davvero difficile pensare che questa sia una buona cosa e soprattutto che possa reggere nel tempo”.
Alla stregua di queste “argute” premesse, con il più che lodevole proposito che “dunque bisognerà fare qualcosa”, si è, infine, suggerito, nell’ambito di una indispensabile revisione costituzionale, “l’istituzione medio tempore di una Corte di giustizia tributaria centrale” che, secondo i proponenti, oltre ad “altri pregi” [7], “porterebbe con sé questa ‘dote essenziale’: rendere attuabile, volendolo, nel medio periodo, un percorso di avvicinamento alla completa autonomia ordinamentale e funzionale del nuovo plesso giurisdizionale”. Avvertendo, quasi “accoratamente”, verrebbe da dire, “l’esigenza di un lavoro comune per la realizzazione della riforma della giustizia tributaria”.
In assoluta umiltà d’intenti, ma propositivamente, chiedendo comunque anticipatamente venia per l’incontrollabile franchezza, la prospettiva di una sostanziale “risurrezione” della Commissione tributaria centrale, sia pure diversamente denominata, riaggiustata e rimodellata, mi lascia estremamente perplesso. Probabilmente in ragione di pregresse reminiscenze dovute all’eccessiva età e a vecchi ricordi di quel che avveniva e “lentamente” si consumava in Via Cernaia. Mi pare oggettivamente preferibile dimenticare, pensando ad un diverso futuro, pur tenendo conto delle assai buone ragioni da cui è maturata l’idea di un “cuscinetto giurisdizionale intermedio”, che, nella sostanza, faciliti la transizione dal vecchio al nuovo ordineiudiciorum in materia tributaria.
E dunque, in estrema sintesi.
Sul piano dell’architettura costituzionale, dovrà certamente intervenirsi sulla formulazione dell’art. 111, ultimo comma, Cost. Che dovrebbe ormai essere rivivificato aggiungendo alle decisioni per le quali è ammesso il ricorso in cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione anche le decisioni delle corti di giustizia tributaria di secondo grado.
Altra disposizione, su cui occorrerà intervenire, è la VI transitoria e finale, ormai storicamente superata. In vece della quale dovrebbe trovare posto una nuova disposizione transitoria, nella quale dovrebbe fissarsi un termine, scaramanticamente diverso da quello rimasto troppo a lungo “canzonatorio” della vecchia VI disposizione transitoria e finale di cui sopra si è detto, entro il quale istituire di bel nuovo la Suprema Corte della giustizia tributaria. Che s’immagina composta da quindici componenti della magistratura tributaria, da sei della Suprema Corte di Cassazione, da due per il Consiglio di Stato e da due per la Corte dei Conti. I quali componenti tutti dovrebbero poi eleggere il Primo presidente della Corte Suprema della giustizia tributaria, suddivisa in cinque sezioni, distintamente per materie, dotate dei correlativi Presidenti, destinati anche a far parte, obbligatoriamente (salvo deroghe motivate) del corpo, rigidamente strutturato, delle Sezioni Unite della Corte Suprema della giustizia tributaria, con poteri nomofilattici, per lo meno, ad instar di quanto attualmente disposto dall’art. 374, 4° comma c.p.c. Salva ulteriore più dettagliata disciplina, da predisporre mediante legge ordinaria sapientemente congegnata. Ma con la previsione, già in sede di normativa costituzionale, che, sino alla istituzione della Corte Suprema della giustizia tributaria, resteranno ancora in vigore tutte le attribuzioni normativamente previste per il sindacato da parte dell’attuale Sezione tributaria della Corte di Cassazione su tutte le decisioni di secondo grado emesse dai giudici tributari esistenti.
5. Silloge conclusiva.
Quanto sopra sommariamente “abbozzato”, ben s’intende, al solo fine di porre in discussione un’idea, e niente più, eviterebbe l’insorgenza di una macchinosa e costituzionalmente opinabile istituzione di una sorta di stravagante “cassazione” a tempo con funzioni essenzialmente smaltitorie. Lasciando, invece, alla Sezione tributaria della Corte di Cassazione, che tra l’altro mostra, da ultimo, segni di miglioramenti quantitativo e qualitativo di non poco momento, il ben più nobile ruolo di “tedoforo” dalla precedente alla nuova nomofilachia tributaria di vertice, così da prefigurare adeguatamente il sorgere del culmine finale di una giurisdizione speciale tributaria tout court.
Voilà le firmament, le reste est procédure [8].
[1] E. MANZON, L’incerta alba della quinta magistratura, in questa Rivista, 28 giugno 2024.
[2] C. GLENDI, La “speciale” specialità della giurisdizione tributaria, in A. GUIDARA, Specialità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele, Torino, 2021, specialmente ai paragrafi 2, 3, 4, 5, pag. 415 ss.
[3] Confinata, lo si può ben dire, a gestire “a costo zero” contenziosi miliardari, come non è dato riscontrare in nessun altro paese, più o meno civilizzato.
[4] V. ancora, C. GLENDI, La “speciale” specialità della giurisdizione tributaria, cit., loc. cit., paragrafi 10 a 14.
[5] E. MANZON – F. PISTOLESI, Una “cassazione speciale” da affiancare alla cassazione ordinaria: brevi appunti sull’idea di una Corte di giustizia tributaria centrale, in questa Rivista, 28 marzo 2024.
[6] E. MANZON, L’incerta alba della quinta magistratura, cit., loc. cit., segnatamente al punto 4, Un “tema speciale”: la Corte di giustizia tributaria centrale.
[7] Più diffusamente illustrati da E. MANZON – F. PISTOLESI, op. loc. cit., specialmente ai paragrafi 2.2. e 2.3.
[8] A meno che, invece, si tratti solo, di un irrequieto sogno di mezza estate, destinato a dissolversi nei più complicati e imprevedibili meandri della Storia.
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Per Nicolò Lipari
di Vito D'Ambrosio
L’altro ieri è finito luglio. L’altro ieri è finito anche il filo lungo dell’esistenza di Nicolò Lipari.
Dopo un primo momento di stupore (mai pensato che Lipari potesse morire), mi si è affollata la mente di ricordi.
Nicolò, il professore esigente.
Io ero amico di Nicolò, un’amicizia cominciata con il mio esame di diritto civile all’Università La Sapienza di Roma. Conoscevo Lipari come assistente del titolare della cattedra, Santoro- Passarelli, un vero barone, che veniva a farci lezione seguito da uno stuolo di assistenti, tra i quali Rodotà e, appunto, Lipari. L’esame lo avevo preparato bene, in vista della possibilità di essere interrogato proprio da Lipari, docente notoriamente esigente, che infatti mi trovai di fronte, dall’altro lato della cattedra. L’interrogazione fu lunga, minuziosa, direi addirittura “accanita”; il responso fu “D’Ambrosio, la conosco bene per i suoi interventi alle lezioni del professor Santoro. Le assegno soltanto 28, perché da lei, francamente, mi aspettavo di più”. Fece una risata alla mia risposta “con la stessa franchezza, professore, anche io mi aspettavo di più”. La scena si è ripetuta, con mia irritazione, quando gli feci avere, in bozza, buona parte della mia tesi di laurea, che seguiva lui, anche se il relatore ufficiale era Santoro-Passarelli. La telefonata di Nicolò fu gentile, ma ferma “D’Ambrosio, la sua tesi non mi convince, perché poteva ampliare la motivazione, come mi aspettavo da lei. Provi a ripartire da capo”. Bofonchiai una risposta e ripartii veramente da capo. La riscrittura fu approvata e la tesi superò l’esame di laurea a vele spiegate, con il canonico 110 e lode. Nicolò, subito informato, mi fece i complimenti, facendomi notare la giustezza del suo intervento di correzione, e mi chiese se ero disposto a seguirlo a Bari, la cui università gli aveva attribuito la cattedra di diritto civile. Non si offese per la mia risposta negativa, ed anzi accettò di farmi da testimone alle mie nozze vicine. Non molto tempo dopo mi spedì la sua prolusione barese, cresciuta fino a diventare un volume, dal titolo molto stuzzicante per me “Il diritto civile tra sociologia e dommatica”. Lessi velocemente, apprezzai molto, ma gli spedii una risposta laconica, impegnato fino al collo per il concorso in magistratura. (Del libro Nicolò mi spedì una copia anni dopo, avendone io lamentato la perdita).
La correttezza dei e nei rapporti istituzionali.
Incontrai Il mio prof., come lo chiamavo, in altra occasione, per me fondamentale, il concorso per l’accesso in magistratura. L’unico mio vantaggio, per la presenza di Nicolò nella commissione di esame, fu l’informazione in via breve sul superamento della prova scritta, e sulla data fissata per l’orale. Questa seconda notizia fu occasione di un messaggio, che non mi stupì, dato che avevo ben imparato il carattere del mio interlocutore. Infatti, la conversazione fu breve “La commissione ha fissato per il suo esame orale la data di… Ovviamente io non ci sarò”.
Seguii l’esperienza politica di Nicolò, eletto per due volte al Senato, sicuro che anche in ambito politico avrebbero imparato a conoscerlo, e non mi sbagliai.
Una prova molto dura fu la vicenda che coinvolse sua figlia Chiara come teste (quasi) decisivo nel processo per l’omicidio della studentessa Marta Russo, colpita da un proiettile mentre passeggiava per i viali dell’Università La Sapienza di Roma. Processo molto seguito dai mezzi di comunicazione, che, come sempre accade, si sbizzarrirono anche sui personaggi non protagonisti, specie quando i misteri del caso non vennero mai chiariti a sufficienza. Nicolò, chiamato in causa indirettamente, fu assai amareggiato e si chiuse in una reazione oscillante, che non superò mai i limiti della correttezza. Quando lo cercai per esprimergli solidarietà, infatti, trovai abbastanza difficile superare la sua riservatezza.
I rapporti ultimi.
Dopo il suo ritorno a Roma e le mie vicende politico-giudiziarie, ci siamo perduti di vista, per rincontrarci poi nell’associazione Bachelet, fondata da Mario Almerighi, amico mio carissimo, per fissare il ricordo di Vittorio Bachelet, ucciso sulle scale della sua università – La Sapienza – dopo essere stato eletto vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ritrovarsi negli incontri dell’Associazione e recuperare, immediatamente, i legami di amicizia con Nicolò, fu per me una bellissima esperienza. Ci incrociammo anche, qualche volta, su temi che ci interessavano entrambi; una volta, dopo un intervento sull’articolo 27 della Costituzione, Nicolò volle dirmi, ad alta voce “sei stato davvero bravo”, procurandomi un grande piacere, data la fonte dell’apprezzamento.
Tempo dopo, mi arrivò un libretto, autore Nicolò, dal titolo significativo “Elogio della giustizia”, nel quale viene spiegata con un linguaggio abbastanza lontano da ogni tecnicismo, la sua teoria che propone una vera e propria riforma del diritto civile, capovolgendo le costruzioni più diffuse sulla natura delle leggi e sull’intervento di chi le applica e le interpreta, a cominciare dai magistrati, tema proposto e approfondito a lungo negli ultimi anni. Per dire la verità, nemmeno io ero e sono del tutto convinto dalle riflessioni di Nicolò, però mi affascinano sempre le sue capacità argomentative, dietro le quali si intravedono la lucidità dell’analisi, il rifiuto di acquietarsi dietro le maggioranze del caso, e, soprattutto, la solidità della rete di valori che tiene insieme il tutto, una rete radicata anche in quel cattolicesimo democratico al quale Lipari faceva riferimento, pure senza sbandierarlo, e che condividevo con lui.
Qualche spunto di conclusione.
Ad altri, più “addetti ai lavori”, gli approfondimenti del Lipari giurista, figura cardine tra quelli che si addentrano nei e si appassionano dei mutamenti del diritto. In questa sede mi limito a sottolineare, sul punto, la profonda sensibilità civile di Nicolò Lipari, che ha voluto, secondo me, riformare profondamente i percorsi necessari per individuare le “fonti del diritto”, con un processo che si muova non dall’alto verso il basso, come si sostiene tradizionalmente, ma all’opposto, dal basso, dall’esperienza di vita, verso l’alto.
Non credo di potermi annoverare né tra gli allievi, né tra chi condivide comunque le tesi di Lipari, ma senz’altro la notizia della sua scomparsa mi ha colpito e mi colpisce, perché quella parte di mondo, di idee, di valori, di radici nel quale mi sono sempre ritrovato, dall’altro ieri, con la morte di Nicolò, manca di un punto di riferimento sostanziale, di un modello a cui ispirarsi. In questi momenti e ancor più nei passaggi che ci attendono, i rischi di un appannamento morale, di un allineamento immotivato alle tesi maggioritarie del momento, di una inconsulta accettazione dello svilimento dei principi cardine della democrazia, questi rischi continuano a crescere, e ci accorgeremo di che cosa significava la presenza di Nicolò Lipari, e di che cosa significa la sua scomparsa.
A me, inoltre e soprattutto, è venuto a mancare un Amico.
Il procedimento per la decisione accelerata (art. 380-bis c.p.c.)
di Elena Bruno
L’art. 380 bis c.p.c. oggi prevede che nei casi di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso il Presidente di sezione o un Consigliere da lui delegato comunichi alle parti una proposta di definizione accelerata del giudizio. Il ricorrente ha, a questo punto, quaranta giorni per ribellarsi alla proposta e, munito di una nuova procura speciale, può depositare un’istanza con cui può chiedere la decisione. In mancanza, il ricorso si intende rinunciato e la Corte provvede ai sensi dell’art. 391 c.p.c. Se entro i quaranta giorni la parte chiede la decisione e la Corte definisce il giudizio in conformità alla proposta, applica il terzo e il quarto comma dell’articolo 96 c.p.c. In molti commenti all’art. 380 bis si legge che esso si pone in linea di continuità con i tentativi di deflazionare l’accesso alla giustizia, il cui abuso causa un appesantimento del lavoro dei giudici, specialmente di quelli di Cassazione. Io per la verità ho un’idea parzialmente diversa. È senz’altro vero che il legislatore, in ciò compulsato dalla stessa Corte, stia cercando di ridurre le pendenze in Cassazione. Ma a me pare che questa misura abbia qualcosa in più rispetto a quelle passate, dal momento che lo Stato scarica sul cittadino gli effetti delle proprie inefficienze. Lo Stato non ce la fa a rispondere alla domanda di giustizia, sicché tale domanda va scoraggiata.
Difatti mi pare volersi in qualche modo colpevolizzare quanti accedono alla Corte perché non si sentono soddisfatti della pronuncia che hanno avuto in appello, senza minimamente considerare che il problema potrebbe essere l’insoddisfacente risposta alla domanda di giustizia che viene offerta nei gradi di merito. Anzi: con l’introduzione del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. è stata compiuta un’operazione che, dal punto di vista economico, è magistrale. Prevedendo che in caso di lite temeraria si debba corrispondere una somma anche a favore della cassa delle ammende, dunque dello Stato, è stato fatto di ciò che era un minus, cioè una giustizia inefficiente, un plus, cioè un apparato che (proprio per essere inefficiente) produce denaro. Io, Stato, ti offro un prodotto con difetti e poi, sul presupposto che quel prodotto abbia dei difetti e debba essere usato con cautela, traggo profitto dall’uso che se ne faccia (ove tale uso sia “sconsiderato” perché non tiene in conto i difetti del prodotto). In buona sostanza, lo Stato guadagna dai difetti del servizio che offre. Eccezionale.
La riforma si è sin da subito palesata come poco gradita agli operatori del diritto e devo dire che non è stato fatto nulla per renderla, per quanto possibile, digeribile. Mi riferisco in particolare al fatto che, come noto, nella relazione illustrativa si legge che la previsione dell’applicazione dell’art. 96 c.p.c. “non risponde ad un intento punitivo o sanzionatorio, ma è la realistica presa d’atto del fatto che la giurisdizione è una risorsa limitata”. Tale concetto è richiamato in maniera pressoché identica dalla relazione del Massimario del 6 ottobre 2022. Purtroppo, però, la natura sanzionatoria della condanna ex art. 96 c.p.c. era già stata affermata dalla Cassazione (v. pronuncia Cass., Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601) ed è stata anche successivamente affermata più volte (per es. Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195).
Dunque, francamente è parso che il legislatore e la relazione del Massimario semplicemente non volessero chiamare le cose con il loro nome, ben consci del fatto che una sanzione a carico del ricorrente sarebbe stata mal vista, con il risultato di rendere la riforma, se possibile, ancora più indigesta.
Ulteriore profilo che caratterizza l’istituto – e che contribuisce a non renderlo popolare - è che l’intento deflattivo che anima la riforma dell’art. 380 bis è realizzato in ottica se così si può dire “di respingimento”, con buona pace della CEDU. Difatti la Sezione Sesta decideva anche i ricorsi manifestamente fondati, cui era così riservata una corsia accelerata, mentre con l’art. 380 bis ciò non è più possibile. Eppure, è proprio il ricorso manifestamente fondato che merita di essere definito quanto prima, sia perché c’è un cittadino che ha ragione e merita di avere risposta nel tempo più breve possibile, sia perché evidentemente è stato emesso un provvedimento ingiusto che deve essere rimosso quanto prima dal nostro ordinamento. Stranamente, invece, in appello è stata introdotta una corsia più veloce per le impugnazioni manifestamente fondate, al terzo comma del 350 c.p.c.
Né a mio avviso vale – per giustificare la riforma – dire che l’art. 380 bis c.p.c. è il rimedio alle esagerazioni di quanti si ostinano a proporre ricorsi in maniera spregiudicata.
Difatti una sanzione per il mancato rispetto delle regole del gioco - perché chiaramente tutti i requisiti di ammissibilità e procedibilità attengono al patrimonio di regole del gioco – può essere prevista solo se le regole del gioco sono chiare e certe. Ed invece più e più volte abbiamo visto che sulla stessa questione una sezione è in contrasto con l’altra ed una pronuncia è in contrasto con la pronuncia del giorno dopo.
E dunque già non è accettabile perdere un ricorso perché si è avuta la sfortuna di capitare con un collegio orientato in un certo modo invece che con il collegio orientato in altro modo; certamente è ancora meno accettabile essere per questo condannati anche alla lite temeraria. Ed è ancora meno accettabile che lo Stato lucri su questo.
Ciò a maggior ragione ove si consideri che con l’art. 380 bis abbiamo subito un vulnus significativo alla nomofilachia sull’ammissibilità e sulla procedibilità. Difatti, quando c’era la Sesta Sezione, io potevo studiare le pronunce della Sesta e capire con un certo margine di certezza – nei limiti dati da una nomofilachia che con i numeri che ci sono oggi in Cassazione non può essere esatta - come approcciarmi al giudizio di cassazione. Potevo avere contezza di quali fossero le regole del gioco. Oggi, invece, la proposta non è pubblicata e nel decreto di estinzione non si dà atto delle ragioni per cui quella proposta avesse ritenuto il ricorso inammissibile o improcedibile. Ragion per cui oggi mi trovo nella situazione di conoscere le regole del gioco meno di prima e di rischiare di pagare un prezzo più alto per la loro violazione.
Si sentiva il bisogno di una tale impostazione? Credo proprio di no, sinceramente. Scaricando sul cittadino i costi delle inefficienze statali non si fa che ampliare la distanza fra lo Stato ed il cittadino. Senza contare che le modalità di deflazione adottate si risolvono in una grossa difficoltà per gli avvocati che, al di là dei casi estremi, si trovano fra l’istanza del cittadino che chiede giustizia e la necessità di spiegare al cittadino che - magari per questioni di forma- egli non avrà una pronuncia e che, se insiste nel chiederla, sempre per quelle stesse questioni di forma, magari nemmeno condivise dal Consigliere della porta accanto, sarà condannato anche alla lite temeraria. Inoltre, mentre per le questioni di improcedibilità vi è una maggiore chiarezza su cosa si debba fare e come farlo – con il limite anche in questo caso dettato dal cambiamento di orientamento dimostrato proprio di recente dalla Terza Sezione sulla questione del glifo della sentenza (ordinanza 5204 del 27.02.2024 e sentenza 12971 del 13.05.2024) - non tutte le inammissibilità sono uguali. Un conto è proporre un ricorso chiaramente tardivo ed un conto è proporre un ricorso tardivo nel caso in cui - ad esempio - sia discussa l’applicabilità della sospensione feriale alla causa. Non vedo in quest’ultimo caso la possibilità di addossare al ricorrente una qualche forma di colpa grave nell’aver proposto il ricorso.
Pertanto, sono d’accordo con quella parte della dottrina che ha fatto notare che l’art. 380 bis quantomeno si sarebbe dovuto applicare, per quanto riguarda l’inammissibilità, solo ai casi di inammissibilità manifesta, così come è previsto per l’infondatezza, che è rilevante ai fini del 380 bis solo quando è manifesta.
In ogni caso, trovo in generale inaccettabile la presunzione di colpa grave in capo al ricorrente per questioni attinenti all’ammissibilità. Posso capire che si voglia punire chi porti avanti delle ragioni manifestamente infondate, magari a fini meramente dilatori, ma per questo bastava l’impostazione precedente al 380 bis perché l’art. 96 era già nel codice. Certo, forse la Cassa delle ammende non avrebbe guadagnato abbastanza.
Devo ancora notare che l’esperienza della Sesta Sezione ci aveva dimostrato che il meccanismo della proposta funzionava.
Si trattava forse del miglior strumento decisorio attuato nel nostro ordinamento, visto che essa consentiva il pieno contraddittorio e probabilmente il miglior esercizio della giurisdizione. Essa riduceva al minimo gli errori di giudizio (che sono gravi in generale, ma lo sono di più quando vengono commessi dal giudice di ultima istanza), consentendo alle parti di segnalare ciò che la relazione aveva sbagliato, o semplicemente di far emergere degli aspetti che forse non erano stati considerati, o non lo erano stati adeguatamente. I casi in cui il collegio ha fatto marcia indietro rispetto alla proposta del relatore ed ha rimesso la causa alla Sezione Semplice – seppure numericamente nettamente inferiori rispetto a quelli di conferma – rappresentano probabilmente la migliore essenza dell’esercizio della giurisdizione, del diritto di difesa delle parti e della collegialità della decisione. Ciò vale anche per i casi in cui la causa, la cui trattazione era stata originariamente fissata dinnanzi alla Sesta Sezione, sia poi stata rimessa alle Sezioni Unite (Cass., Sez. VI-3, 2 marzo 2022, n. 6947 e Cass., Sez. un., 8 marzo 2022, n. 7514) o alla Corte costituzionale (Cass., Sez. III, 9 dicembre 2019, n. 32033) e per i casi in cui il ricorso chiamato dinnanzi alla Sesta Sezione con la previsione di un determinato esito sia stato poi deciso in senso notevolmente difforme (Cass., Sez. VI-3, 23 settembre 2022, n. 27929 ha dichiarato l’improcedibilità di un ricorso di cui il relatore aveva proposto l’accoglimento per manifesta fondatezza; Cass., Sez. VI-2, 6 maggio 2021, n. 11867 ha dichiarato inammissibile un ricorso che era stato avviato alla trattazione con proposta di manifesta fondatezza); con ciò rivelandosi che la decisione, che pure al relatore sulle prime era apparsa facile, non lo era affatto.
A me pare, come detto, che questo istituto funzionasse bene ed anzi meritasse di essere esteso a tutte le decisioni, comprese quelle di merito: quante impugnazioni si sarebbero evitate se i giudici avessero sottoposto alle parti una sorta di bozza del provvedimento, pronunciando poi la sentenza vera e propria dopo delle brevi memorie dei litiganti ?
Oggi invece, con lo strumento della proposta, il contraddittorio con la proposta del relatore è consentito solo assumendosi il rischio di essere condannati al risarcimento danni per lite temeraria ed al pagamento in favore della Cassa delle ammende.
Eppure non sono rari i casi in cui le proposte di definizione accelerata hanno dimostrato la loro fallacia. Io ho rinvenuto una nutrita casistica in proposito: abbiamo casi in cui, pur essendo stata formulata la proposta di definizione accelerata, la Corte, dopo la richiesta di decisione, ha cassato la sentenza impugnata e addirittura deciso nel merito (Cass. civ., Sez. V, Ord., 27/05/2024, n. 14717).
Casi in cui, nonostante la proposta, la Corte, decidendo poi il ricorso a seguito della ribellione del ricorrente, lo ha accolto: Cass 20237 del 14.07.2023; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10556; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10555; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10531; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10519; Cass. civ., Sez. II, Ord., 26/04/2024, n. 11213; Cass. civ., Sez. II, Sent., 22/05/2024, n. 14342; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord.,17/05/2024, n. 13822.
Vi è poi un caso che ha avuto un iter particolarmente tortuoso: Cass., sezione II, sentenza n. 14342 del 22 maggio 2024.
Vi sono altri casi in cui addirittura la Corte, nonostante la proposta e dopo l’istanza di decisione del ricorrente, ritenuta la valenza nomofilattica della pronuncia, rinvia la causa alla pubblica udienza: Cass. civ., Sez. II, Sent., 16/04/2024, n. 10272.
Senza contare naturalmente i casi in cui il ricorso viene rigettato o dichiarato inammissibile o improcedibile per ragioni diverse da quelle prospettate nella proposta, il che, come noto, esclude l’applicazione dell’art. 96 c.p.c.
Segnalo, però, un paio di pronunce che mi paiono interessanti. Parto dall’ordinanza Civile Ord. Sez. 3 Num. 28574 del 13/10/2023, in cui era stata fatta una Proposta di Definizione Accelerata per la ritenuta inammissibilità del ricorso ed invece, a seguito dell’istanza di decisione, esso è stato dichiarato improcedibile. In questa ordinanza la Corte afferma che il ricorrente debba essere condannato per lite temeraria “in particolare, ai fini dell’applicazione delle richiamate norme la decisione di improcedibilità del ricorso è assimilabile (ed è anzi connotata da una più marcata connotazione di violazione di norme processuali, la cui valutazione era appunto pregiudizialmente fatta salva nella richiamata proposta)a quella di inammissibilità, che costituiva il fulcro della proposta originariamente formulata”. La stessa operazione è compiuta dal collegio che ha pronunciato l’ordinanza 16899/2024: in quel caso la proposta evidenziava un profilo di manifesta infondatezza mentre il collegio ravvisa l’inammissibilità del ricorso. Nonostante l’esito decisorio non sia conforme alla proposta, viene applicato l’art. 380 bis c.p.c.
Vi è poi un’altra questione: alcune volte, nonostante ve ne siano i presupposti, il ricorso sfugge alle maglie del filtro dell’art. 380 bis. Si sono verificati casi in cui il ricorso era affetto da improcedibilità manifesta eppure esso è stato trattato in camera di consiglio, senza che fosse formulata una PDA: Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 04/06/2024, n. 15611. In quel caso in particolare il ricorso era fondato su un unico motivo che atteneva la violazione del CCNL e il ricorrente non aveva depositato il contratto collettivo. Si tratta di un caso di improcedibilità piuttosto semplice e lampante eppure non è stata formulata la proposta ex art. 380 bis c.p.c. È ben vero che ciò accadeva già prima, tuttavia prima ciò non incideva sulla tasca del ricorrente. A me non pare giusto che il costo della giustizia cambi sulla base della strada che prende il ricorso.
***
Dopo le considerazioni generali appena svolte sull’istituto, vorrei focalizzare l’attenzione sul compito e sulla posizione dell’avvocato che deve confrontarsi con la proposta di definizione accelerata, anche perché se guardiamo più da vicino il meccanismo congegnato con l’art. 380 bis c.p.c. emergono alcuni problemi applicativi.
Come noto, il legislatore delegato ha introdotto, con il nuovo filtro, due elementi di enorme rilevanza: il necessario rilascio di una nuova procura speciale al difensore ad opera della parte che voglia comunque ottenere la decisione e la condanna ex art. 96 c.p.c. (nella formulazione modificata dal decreto delegato).
In primo luogo vale la pena di evidenziare che il presupposto per la proposta di definizione accelerata è che non sia stata fissata l’udienza o l’adunanza, senza nessun’altra specificazione applicativa. Lo strumento è stato dunque utilizzato sin da subito anche nei giudizi davanti alle Sezioni Unite: all’uopo segnalo le ordinanze 28550/2023 Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195 e Cass. civ., Sez. Un., ord., 27.09.2023, n. 27433.
Ne deriva che chiunque si trovi a dover affrontare il giudizio di cassazione, anche davanti alle SS.UU., corre il rischio di doversi misurare con la proposta ex art. 380 bis c.p.c.
Con riferimento alla necessità di munirsi di nuova procura speciale per ottenere la decisione della causa, la previsione ha suscitato immediatamente indignazione fra i commentatori perché appare un evidente segno di sfiducia nei confronti della classe forense, come se l’avvocato potesse non comunicare al cliente l’esistenza della proposta o, peggio, potesse ignorare la volontà del cliente che intendesse rinunciare.
A parte ciò, il problema concreto per l’avvocato esiste ed attiene, innanzitutto, al fatto che in genere l’esame del ricorso da parte della Corte interviene dopo un tempo significativo dalla sua proposizione, anche quattro o cinque anni. In questo lasso di tempo l’avvocato potrebbe non aver avuto nessun contatto con la parte assistita. Ciononostante, si lasciano a disposizione del legale solamente quaranta giorni per fare una serena disamina della situazione, rintracciare la parte, spiegarle tutto, aspettare le sue valutazioni, farsi rilasciare nuova procura e, infine, chiedere la decisione.
Si pensi ai casi, frequenti nelle controversie di lavoro, di ricorsi proposti da numerosi ricorrenti, che magari fisicamente si trovano in diverse parti d’Italia.
Ma essa appare poi del tutto eterodossa rispetto al sistema generale del giudizio di legittimità dato che, come sappiamo, il processo di cassazione è dominato dall’impulso d’ufficio, tanto che le cause interruttive non operano; sono irrilevanti il fallimento della parte, l’estinzione della persona giuridica, la morte della persona fisica e per certi versi finanche quella del difensore. Il giudizio di cassazione, una volta avviato, va avanti da sé fino alla sua naturale conclusione.
A parte i disagi nel raccogliere la procura, deve dirsi che sin da subito ci si è interrogati su cosa sia la nuova procura speciale di cui all’art. 380 bis e come debba essere conferita. In verità il testo della norma non pare essere felice, poiché la nuova procura speciale sembra essere una procura non dissimile dalla prima procura speciale conferita per la proposizione del ricorso ma semplicemente successiva alla proposta. In realtà un’interpretazione che tenga in debito conto il fine a cui è teso il conferimento della nuova procura non può non condurre a ritenere che la nuova procura speciale sia una procura a compiere l’atto che è necessario compiere, ovvero la proposizione dell’istanza di decisione.
Chiarito ciò - e su questo pare che pochi dubbi possano residuare - ci si è posti il problema di dove possa essere collocata la procura in esame e se l’avvocato possa attestare l’autografia della firma del conferente. Il problema è posto da un difetto di coordinamento dell’art. 380 bis con l’art. 83 c.p.c., dal momento che, come tutti sappiamo, l’art. 83 elenca gli atti al cui margine o in calce ai quali può essere apposta la procura specificando che, quando essa acceda a tali atti, il difensore può certificare l’autografia della firma. Dunque il potere del difensore di attestare l’autografia è strettamente dipendente dal fatto che essa corredi uno degli atti menzionati nell’art. 83 c.p.c. L’inghippo sta dunque nel fatto che fra gli atti a margine o in calce ai quali può essere apposta la procura elencati nell’art. 83 non vi è l’istanza di decisione. E, conseguentemente, il testo della norma non dà al difensore il potere di certificare l’autografia della firma della procura che correda la detta istanza.
In realtà se dopo la proposta la parte decidesse di munirsi di un nuovo difensore il problema non si porrebbe, dal momento che l’art. 83 prevede che uno dei loci ove può trovarsi la procura sia proprio la memoria di nomina del nuovo difensore. Dunque un escamotage per evitare tutti i dubbi connessi alla regolarità della nuova procura speciale potrebbe essere quello di nominare un nuovo difensore che poi proponga l’istanza di decisione.
Ma se il difensore resta lo stesso? Qualcuno ha sostenuto che, con la proposta, la nomina del difensore originario perda efficacia, ragion per cui, proponendo l’istanza di decisione, in realtà egli diventerebbe un nuovo difensore. Da ciò potrebbe discendere la possibilità che la procura sia in calce all’istanza di decisione, che sarebbe quindi qualificabile come nomina di nuovo difensore. Conseguentemente l’avvocato potrebbe attestare l’autografia della firma del conferente. A me pare un’interpretazione un po’ forzata.
L’idea che mi ero fatta in sede di prima interpretazione della norma, e che confermo, è che innanzitutto il requisito della novità fosse da ricondursi alla posteriorità della procura rispetto alla PDA. Ma su questo credo che possano esserci pochi dubbi. Il problema che si poneva era chiaramente la specialità. Che cosa significa procura speciale? Io credo che la specialità della procura richiesta dall’art. 380 bis sia da ricondurre al concetto di specialità della procura in Cassazione che è diverso dalla specialità della procura nel merito, come predicato sin dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1161 del 1961 (citata ampiamente in SS.UU. 35466/2021). Nel merito, specialità significa specificità, cioè conferimento del potere a rappresentare e difendere la parte in quel singolo giudizio. In Cassazione la specialità è invece intesa nel senso di ricondurre il conferimento della procura ad una scelta consapevole e meditata della parte, che deve essere ben conscia di ciò che va a fare. Vi sono dunque degli indici attraverso i quali si estrinseca la consapevolezza della scelta della parte, e qui si apre tutta la problematica ormai nota - e si spera risolta - della collocazione topografica della procura, della data, del grado di specificità del testo della stessa etc., di cui già si è approfonditamente parlato nel primo incontro di questo ciclo. Dunque, a mio avviso, la specialità della nuova procura di cui all’art. 380 bis c.p.c. significa consapevolezza e riferibilità all’atto da compiere, per cui secondo me hanno agito bene quei colleghi che si sono premurati di inserire nella procura anche il testo della proposta. Ciò non solo garantisce la sicura riferibilità della procura alla richiesta di decisione, ma è anche utile per evitare eventuali contestazioni da parte del cliente, che non potrà dirsi non informato dei fatti processuali.
La possibilità che la sottoscrizione della procura ex art. 380 bis fosse invece dichiarata autografa dal difensore non mi ha mai convinto, per due motivi: in primo luogo perché nell’art. 83, nell’elenco degli atti che possono essere corredati dalla procura, l’istanza di decisione non è menzionata e quindi, specialmente nel giudizio di cassazione, connotato da un rigore formale superiore rispetto agli altri procedimenti, non mi sembra possibile sostenere che la procura possa accedere anche ad atti diversi dal ricorso, dal controricorso e dalla memoria di nomina del nuovo difensore. Dunque in primo luogo la procura non può essere apposta in calce all’istanza. In secondo luogo, ove anche fosse apposta in calce all’istanza, il difensore non potrebbe dichiarare l’autografia di quella firma, proprio perché egli può attestare l’autografia della firma solo quando essa si trovi sugli atti menzionati nell’art. 83. Di recente è intervenuta la Terza Sezione, con una pronuncia in cui si sente chiaro il senso di solidarietà nei confronti degli avvocati e per quale il Collegio merita di essere ringraziato. Mi riferisco alla sentenza n. 13555 del 15/05/2024. In questo caso il ricorrente aveva proposto l’istanza di decisione munito di una nuova procura speciale conferita in modo generico e depositata unitamente alla busta telematica contenente l’istanza di decisione. La Corte ritiene che il requisito della novità sia integrato dalla data successiva a quella della proposta; quello della specialità, da intendersi in questo caso come procura conferita per il compimento di un singolo atto (si parla di procura ad actum, diversa da quella ad litem di cui al 365 c.p.c., così per vero avvicinandosi più al concetto di specialità di cui all’art. 83 c.p.c.), può essere integrato dalla collocazione topografica che, in questo caso, è assicurata dalla congiunzione materiale tra procura e atto cui accede. Quanto alla possibilità di attestare l’autografia della firma, si legge: “Ritiene il Collegio, in primo luogo, che debba condividersi l’opinione che non esclude il potere del difensore di autenticare la sottoscrizione della parte relativa a tale procura e, dunque, non implica la necessità in ogni caso di una procura notarile. Anche se l’art. 83 c.p.c. non include l’istanza di decisione di cui all’art. 380 bis c.p.c. tra gli atti in calce o a margine dei quali il difensore può autenticare la sottoscrizione della parte in relazione alla procura difensiva, è possibile giungere ad escludere che sia richiesta, sempre e necessariamente, una procura notarile a tal fine, anche sulla base di una interpretazione "costituzionalmente orientata" della disposizione, in base ai seguenti argomenti sistematici: a) il rilievo che, nella legge delega sulla base della quale è stata introdotta la nuova formulazione dell’art. 380 bis c.p.c. non era specificamente imposto il requisito di una nuova procura per l’istanza di decisione; b) la considerazione che una interpretazione eccessivamente rigorosa del suddetto requisito potrebbe costituire, in qualche modo, una ingiustificabile limitazione al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.; c) l’indirizzo consolidato secondo il quale viene comunemente ritenuta possibile l’autenticazione da parte del difensore della sottoscrizione della parte che personalmente effettua la dichiarazione di rinuncia, ai sensi dell’art. 306 c.p.c. e anche dell’art. 390 c.p.c., in calce alla rinuncia stessa, sebbene anche in tal caso non vi sia una previsione espressa che consenta tale autentica in calce a quell’atto”.
Ebbene, per quanto apprezzi lo sforzo del Collegio, non posso dirmi d’accordo. Ciò in quanto la prima argomentazione svolta non mi pare dirimente: se anche nella legge delega non era specificamente imposto il requisito di una nuova procura per l’istanza di decisione, una volta che tale procura sia prevista, essa deve essere conforme a legge. Quanto alla seconda argomentazione, essa è certamente apprezzabile, ma a mio avviso sono ben altri i profili del nuovo filtro che ledono il diritto di difesa. In riferimento al terzo argomento, non credo che esso si attagli al caso, in cui si tratta di valutare le modalità di conferimento di un potere all’avvocato (senza contare che parte della giurisprudenza non ritiene necessaria l’autentica della firma nei casi di rinuncia) e soprattutto non risolve il problema della tipicità degli atti previsti nell’art. 83 c.p.c.
In conclusione, pur ringraziando il Collegio, io continuo a consigliare la procura notarile perché fare diversamente mi pare un modus agendi rischioso, almeno finché non vi sarà un orientamento consolidato.
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In riferimento all’applicazione dell’art. 96 c.p.c. vorrei solo evidenziare che, sebbene in molte pronunce si legga che la conferma della proposta sia idonea a radicare in capo al ricorrente una presunzione di colpa grave, vi sono pronunce che escludono l’automatica applicazione del detto art. 96 c.p.c., ritenendo che debba operarsi una valutazione caso per caso (Cass. civ., Sez. V, Sent., 19/06/2024, n. 16899; Cass. civ., Sez. Unite, Ord., 19/06/2024, n. 16840; Cass. civ., Sez. Unite, Ord., 19/06/2024, n. 16840; SS.UU.36069/2023). Sull’applicazione automatica dell’art. 96 c.p.c. segnalo invece le seguenti pronunce: Cass. civ. 33468/2023 che richiama Cass. civ., Sez. Un., ord., 27.09.2023, n. 27433; Cass. civ., Sez. I, 11.07.2023, n. 19749; Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195.
Infine, un paio di casi degni di nota. Ci siamo molto concentrati sulla procura speciale, ma non bisogna dimenticare che è necessario proporre anche l’istanza. Segnalo, all’uopo, il decreto del 13.06.2024, n. 16562 della Sezione Terza in cui si dichiara l’estinzione del giudizio perché il ricorrente aveva depositato soltanto la procura speciale senza, tuttavia, chiedere la decisione.
Inoltre, segnalo una recente ordinanza, la n. 10131 del 15 aprile 2024. In quel caso il ricorrente, ritenendo che fosse stata dichiarata ingiustamente l’estinzione del giudizio, aveva proposto istanza per la revoca del provvedimento di estinzione. La Corte ha riqualificato la detta istanza come opposizione ex art. 391 c.p.c. dichiarandola poi inammissibile perché proposta oltre i dieci giorni.
Credo che le mie riflessioni sull’art. 380 bis c.p.c. possano concludersi qui, convinta come sono che, come si usa dire, “the best is yet to come”.
Immagine: particolare di Giacomo Balla, Velocità d'automobile (Velocità n. 1), china acquerellata su carta foderata, 1913, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.
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