ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Città “immaginata” e città “realizzata” secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2024, n. 14)
Sommario: 1. La vicenda. – 2. L’orientamento (sino ad ora) consolidato del giudice amministrativo e le ragioni della remissione della questione all’Adunanza Plenaria. – 3. Per una interpretazione in senso sostanziale del concetto di totale difformità dal permesso di costruire. – 4. Conclusioni: l’eterogeneità delle ipotesi di “incompiutezza” e la consequenziale esigenza di regimi differenziati.
1. La vicenda.
L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a pronunciarsi sul regime giuridico applicabile alle opere edilizie regolarmente assentite ma solo parzialmente realizzate entro il termine di efficacia del titolo, con specifico riferimento all’ipotesi nella quale - a seguito della decadenza del permesso di costruire - non vi sia alcuna iniziativa da parte del soggetto interessato volta a conseguire il completamento dei lavori.
Come noto, ai sensi dell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, l’opera deve essere completata non oltre tre anni dall'inizio dei lavori, con la conseguenza che, decorso tale termine “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga”[1]. La norma, in effetti, non chiarisce espressamente il regime giuridico delle opere incomplete realizzate nel corso della vigenza del titolo, limitandosi a disporre che “la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività”.
Il fenomeno non è affatto secondario. Nell’intera penisola si registra la presenza di numerosi manufatti – spesso di notevoli dimensioni e, quindi, particolarmente impattanti – i cui lavori vengono iniziati a seguito del rilascio di un legittimo titolo abilitativo, ma mai portati a termine. Mura non intonacante e prive di copertura, pilastri da cui emergono armature di ferro arrugginite, scheletri di cemento del tutto privi di funzione e spesso da tempo abbandonati, che non solo deturpano la bellezza del nostro territorio, ma rappresentano altresì un chiaro ostacolo per il pianificatore, nonché per l’attuazione di processi di rigenerazione urbana.
Come emergerà nel prosieguo, la questione va ben al di là del profilo estetico, interessando aspetti di tipo ambientale (consumo dei suoli e inquinamento derivante dal deterioramento dei materiali), economico (deprezzamento dell’intera area), e sociale (attesa l’influenza del degrado urbano sulla qualità della vita).
La gran parte dei manufatti non ultimati è di proprietà privata[2], e solo in piccola percentuale si tratta di volumi abusivi in senso proprio, ovvero realizzati in assenza di un titolo abilitativo; molti di essi sono, al contrario, il frutto di lavori legittimamente assentiti – quindi originariamente dotati di regolare permesso di costruire – ma poi, per le più diverse ragioni, non ultimati.
La vicenda oggetto di pronuncia rientra per l’appunto in quest’ultima fattispecie, originando dal rilascio di un permesso di costruire finalizzato alla realizzazione di garages interrati, i cui lavori venivano sospesi poco dopo il loro avvio e non più ripresi. La sospensione avveniva in ragione di una sentenza penale con la quale erano stati condannati sia il commissario ad acta che aveva rilasciato il titolo sia il soggetto richiedente, sentenza che aveva incidenter accertato la assoluta illegittimità del permesso di costruire rilasciato. L’amministrazione comunale, tuttavia, non annullava il titolo abilitativo, bensì – decorsi i tre anni dalla comunicazione di inizio lavori – ne dichiarava la decadenza. Successivamente, su sollecitazione di WWF Italia, il comune dapprima ordinava il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in epoca antecedente all’esecuzione delle opere e, in seguito – attesa la mancata ottemperanza all’ordine da parte del proprietario – acquisiva la particella al patrimonio comunale.
Entrambi i provvedimenti (ordine di demolizione e acquisizione) venivano impugnati innanzi al T.A.R. Campania, che tuttavia concludeva per la legittimità degli stessi, affermando che la decadenza del permesso di costruire “travolgerebbe” anche le opere realizzate entro il termine di efficacia del titolo, salvo il caso in cui sia consentito ultimare l’intervento, circostanza esclusa nel caso di specie, atteso che nell’area di riferimento risultavano ammissibili unicamente interventi edificatori di iniziativa pubblica.
Avverso tale decisione veniva proposto appello, fondato essenzialmente sulla considerazione che le opere eseguite in virtù di un titolo edilizio legittimo ed efficace, poi decaduto (ma non annullato), non avrebbero potuto essere oggetto di una sanzione demolitoria. L’amministrazione, infatti, avrebbe erroneamente ritenuto potersi configurare nel caso di specie un’ipotesi di abuso edilizio, laddove, al contrario, l’inefficacia del titolo scaturente dalla decadenza del medesimo opererebbe ex nunc, ovvero unicamente nei confronti degli eventuali interventi eseguiti senza titolo successivamente alla scadenza del termine di tre anni dall’inizio dei lavori.
Ebbene, in sede di appello, il Collegio[3] – pur ricordando che la giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato si è più volte espressa nel senso di ritenere non applicabile la sanzione demolitoria nei confronti delle opere (anche parziali) realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio, ove conformi al progetto assentito – prospetta una possibile differente ricostruzione della fattispecie, consistente nella configurazione dell’opera solo parzialmente eseguita in termini di manufatto difforme dal titolo abilitativo (e, quindi, abusivo), con conseguente inclusione della fattispecie nell’ambito applicativo dell’ordine di demolizione di cui all’art. 31 d.P.R. n. 380/2001. Ciò posto, il giudice remittente ha ritenuto opportuno, ai fini della soluzione della controversia, rinviare previamente la questione all’Adunanza Plenaria, sottoponendole il seguente quesito: “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio”.
2. L’orientamento (sino ad oggi) consolidato del giudice amministrativo e le ragioni della remissione della questione all’Adunanza Plenaria.
L’interrogativo di fondo è se l’amministrazione possa intervenire con l’esercizio del potere sanzionatorio anche quando l’opera incompiuta sia il risultato di un’attività originata da un titolo abilitativo legittimo, attesa l’assenza di modifiche alle caratteristiche tipologiche del progetto presentato, nonché la mancanza di volumi ulteriori rispetto a quelli assentiti. La fattispecie comprende, in altri termini, le ipotesi nelle quali il privato si sia limitato a realizzare solo una parte di quanto avrebbe potuto (dovuto), ma sempre nei confini di quanto autorizzato.
La lacuna normativa dalla quale origina il quesito sottoposto all’Adunanza Plenaria concerne, quindi, la qualificazione – in termini di abuso o meno – di un immobile incompleto, in relazione al quale o manchi qualsiasi iniziativa volta a concludere i relativi lavori o, come nel caso di specie, un’eventuale iniziativa in tal senso sarebbe destinata a fallire in ragione dell’incompatibilità con la normativa urbanistico-edilizia di riferimento. Come già ricordato, la norma si limita a prevedere che, una volta decorso il termine, il permesso decada “per la parte non eseguita”, il che sembrerebbe configurare quanto costruito come perfettamente legittimo, indipendentemente dallo stato di avanzamento dei lavori raggiunto.
Queste sono, in effetti, le conclusioni sulle quali si è assestata l’esigua giurisprudenza che sino ad oggi si è occupata della questione, laddove afferma che “la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini non implica l'obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio, le quali non possono essere ritenute abusive ove risultino conformi al progetto approvato con il permesso di costruire, ma comporta semplicemente la necessità del titolare decaduto di chiedere un nuovo permesso per l'esecuzione delle opere non ancora ultimate”[4].
Tale orientamento si fonda sul presupposto (invero non contestabile) che la decadenza operi unicamente ex nunc, non travolgendo quindi l’efficacia del titolo ab initio[5]. Da qui deriverebbe come immediata conseguenza (questa volta, come si vedrà, contestabile) l’inapplicabilità al caso di specie del regime sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001: l’ordine di demolizione sarebbe legittimo solo laddove avesse ad oggetto non le opere realizzate in costanza di efficacia del permesso, bensì eventuali interventi posti in essere successivamente alla scadenza del termine di tre anni, senza il previo ottenimento di una proroga o di un nuovo titolo.
In questa prospettiva, il giudice remittente svolge anche ulteriori riflessioni, con particolare riferimento alla disciplina di cui all’art. 38 del t.u. edilizia, ai sensi del quale – in caso di interventi eseguiti in base ad un permesso di costruire successivamente annullato – è prevista la possibilità di comminare una sanzione pecuniaria in luogo della restituzione in pristino[6]. Ebbene, osserva il Collegio, se la ratio dell’introduzione di un regime sanzionatorio più mite in relazione ad opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso rispetto ad interventi ab origine abusivi si giustifica in ragione dell’opportunità di tutelare il legittimo affidamento del privato[7], “striderebbe con i principi ritraibili dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art.31 del T.U. prima citato, in una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo (nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto”.
3. Per una interpretazione in senso sostanziale del concetto di totale difformità dal permesso di costruire.
In uno scritto di qualche anno addietro, chi scrive aveva provato a porre in discussione il descritto orientamento consolidato del giudice amministrativo, valorizzando, da un lato, la funzione sociale del diritto di proprietà e, dall’altro lato, la centralità del fattore temporale nelle dinamiche di trasformazione del territorio[8].
Una lettura non superficiale della funzione di pianificazione del territorio, così come risultante dalle coordinate costituzionali e dai principi generali di riferimento, non può limitarsi a valorizzarne la portata “spaziale”, dovendosi attribuire alla stessa anche il ruolo di strumento per la definizione di un determinato modello di sviluppo socioeconomico del territorio. L’esercizio del potere pianificatorio e dei correlati c.d. poteri conformativi, in altri termini, non è finalizzato alla sola ordinata distribuzione di volumi e infrastrutture, in una prospettiva, quindi, meramente quantitativa e dimensionale: al pianificatore, piuttosto, è richiesta la definizione di un vero e proprio “disegno” del territorio, che tenga conto delle potenzialità edificatorie non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze economico-sociali della comunità[9]. In tale ottica, si giustifica la previsione di una zonizzazione funzionale, oltre che strutturale, volta a rivestire i singoli volumi di una dimensione anche qualitativa, con la conseguenza che il rilascio di un titolo abilitativo finisce per rappresentare il frutto di una valutazione (effettuata in sede di pianificazione) che va ben oltre la mera verifica quantitativa circa la compatibilità tra l’assetto del territorio ed i volumi in progetto[10].
Se si aderisce a tale ricostruzione, è bene chiarirlo sin d’ora, deve coerentemente ritenersi che al cittadino al quale venga rilasciato un permesso di costruire non possa essere consentito realizzare anche solo una parte di quanto progettato (purché nell’ambito dei volumi assentiti), come invece pure sostenuto da una parte della giurisprudenza[11]: egli, piuttosto – essendo chiamato (anche) a contribuire al complessivo disegno di sviluppo del territorio – è tenuto ad attuare esattamente quanto richiesto, e per di più nei tempi previsti. Non può ritenersi ammissibile, in altri termini, fissare gli obiettivi di sviluppo nel piano e lasciare alla libera iniziativa dei singoli la scelta circa il “se” e il “quando” attuarli, dovendosi al contrario dotarsi di strumenti in grado di incentivare e indirizzare la realizzazione di quanto prescritto, attraverso la definizione di mezzi, procedure e, per l’appunto, tempi[12].
A tale idea si ispira evidentemente il modello di pianificazione definito «a due stadi», laddove si affianca ad una parte strutturale, contenente le c.d. invarianti, una parte operativa, chiamata invece a definire concretamente le trasformazioni da realizzarsi e, soprattutto, entro quanto tempo ciò debba avvenire[13]: il piano, si ribadisce, nella sua dimensione operativa non si limita a riconoscere in capo al privato la possibilità di “calare” una certa volumetria sulla propria area, ma impone allo stesso anche il rispetto di una determinata tempistica per realizzare (esattamente) quanto autorizzato.
La centralità del fattore “tempo” trova, poi, piena conferma nella stessa disciplina del permesso di costruire e nella relativa indicazione dei termini di inizio e ultimazione dei lavori. Come ricorda la pronuncia in commento, “l’indicazione dei termini nel titolo abilitativo trova la sua ragione nella necessità di avere una certezza temporale riguardo le attività di trasformazione urbanistico edilizia del territorio, che per propria natura è frazionata nel tempo, al fine di impedire che l’eventuale modifica delle previsioni pianificatorie possa essere condizionata senza limiti temporali da antecedenti permessi di costruire”. Al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che entro il termine di ultimazione dei lavori l’opera deve essere realizzata sia nella sua dimensione strutturale che funzionale, dovendo la costruzione essere potenzialmente idonea ad assolvere alla destinazione prevista. La stessa nozione di “opera completata” è, allora, legata non solo alla circostanza che il manufatto risulti materialmente realizzato nelle sue strutture portanti, ma anche che esso si riveli funzionalmente adeguato allo scopo per il quale era stato progettato[14].
Ebbene, come già osservato, nelle ipotesi in cui i lavori non risultino completati entro il termine indicato nel titolo, la norma dispone la decadenza dello stesso “per la parte non eseguita”. La centralità riconosciuta alla coordinata temporale, tuttavia, non comporta una assoluta rigidità della stessa, se solo pensiamo che il legislatore ha previsto la possibilità per l’interessato, da un lato, di ottenere la proroga del termine prima della scadenza del permesso di costruire[15], e, dall’altro lato, in caso di avvenuta decadenza, di richiedere un nuovo titolo (o, nel caso, di presentare una s.c.i.a.) per il completamento delle opere[16].
Alla luce del contesto delineato, è allora possibile ricostruire correttamente la fattispecie in esame, facendone emergere la complessità e la correlata esigenza di effettuare puntuali distinguo. Come detto, a fronte di un intervento non ultimato e della relativa decadenza del titolo, il legislatore si limita ad indicare al soggetto interessato le modalità attraverso cui portare a compimento i lavori (la richiesta di un nuovo permesso o la presentazione di una s.c.i.a.), dando in qualche modo per scontata la volontà di ultimare l’opera iniziata: manca del tutto, dunque, una disposizione atta a regolare il caso (invero, come è emerso, niente affatto raro) nel quale questa volontà non sussista.
Ciò posto, la Plenaria affronta la questione in una prospettiva, pienamente condivisibile, secondo la quale occorrerebbe in primo luogo verificare di volta in volta il livello di incompiutezza rilevabile: se gli interventi ancora da realizzarsi sono circoscritti e, di fatto, la loro assenza non preclude una (anche parziale) funzionalità dell’opera, appare coerente con la complessiva disciplina del regime dei suoli che la mancata realizzazione dell’intero intervento entro il termine finale comporti semplicemente l’inefficacia del titolo per la parte non eseguita. Al contrario, a fronte di un volume gravemente incompleto e, quindi, del tutto inidoneo a soddisfare quella funzione a cui era stato destinato (o altra analoga), la reazione dell’ordinamento non può che essere di diverso tenore, nella misura in cui l’inerzia del privato finisce per assumere un significato che va ben oltre la sua posizione individuale di proprietario[17]. Se, infatti, ci ricorda il Collegio, la ratio del previo rilascio del titolo abilitativo riposa nella necessaria verifica che il nuovo manufatto sia coerente con il complessivo disegno del pianificatore, assolvendo alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio, allora trova conferma la tesi secondo la quale il permesso di costruire non riconoscerebbe al cittadino la facoltà di realizzare ciò che desidera “entro” un certo volume, bensì “gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.)”.
La (grave) non conformità (strutturale e funzionale) del manufatto non permette, quindi, di tollerarne la permanenza sul territorio, con consequenziale dovere dell’amministrazione di ordinarne la demolizione. E ciò nel pieno rispetto della tassatività del regime sanzionatorio[18], nella misura in cui la fattispecie in questione non rappresenta affatto un’ipotesi ulteriore di abuso, rientrando piuttosto nella tipologia della totale difformità. L’accezione che di quest’ultima viene tralatiziamente proposta da parte della giurisprudenza, sia amministrativa che penale – ovvero di intervento connotato dalla esecuzione di volumi ulteriori rispetto a quelli autorizzati – si rivela a ben vedere errata o, meglio, parziale[19]. La totale difformità, infatti, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, si configura ogniqualvolta si realizzi un organismo edilizio integralmente diverso - per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche o di utilizzazione - da quello oggetto del permesso stesso, ovvero si eseguano volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto[20]. Il che consente di qualificare come abusivo un immobile ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non sia in alcun modo riferibile a quella assentita, con la specificazione che la realizzazione di un incremento volumetrico non consentito rappresenta solo una delle possibili fonti di tale difformità, configurabile, sottolinea la Plenaria, anche nel caso in cui vi sia il “mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio”.
Ebbene, nel condurre alle logiche conseguenze il proprio percorso argomentativo, il Collegio inquadra la fattispecie in esame nella categoria del “non finito architettonico”[21] – ravvisabile quando le opere realizzate risultano incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da condurre ad un manufatto diverso da quello autorizzato – facendone poi derivare la piena sussistenza del fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino, consistente nella configurazione di un abuso, sub specie di difformità totale dal permesso di costruire.
Interessante, al riguardo, una pronuncia del Consiglio di Stato che già nel 2021 sembrava accogliere tale prospettiva, laddove specificava come si potesse configurare la legittimità degli interventi realizzati prima della decadenza del titolo solo a condizione che “dette opere siano autonome e scindibili”, ovvero abbiano una loro seppur parziale funzionalità[22]. Del resto, a supporto delle conclusioni cui giunge la pronuncia in commento, l’amministrazione giammai avrebbe potuto rilasciare il permesso di costruire nell’ipotesi in cui il progetto originariamente presentato dal privato fosse stato quello poi effettivamente realizzato, ovvero lo scheletro edilizio; pertanto, afferma la Plenaria, il principio di simmetria impone all’amministrazione di “ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire”.
In definitiva – una volta sollecitato, senza esito, il privato ad attivarsi al fine di portare a compimento l’opera – l’amministrazione non potrebbe non reagire di fronte ad un’ipotesi di grave abuso edilizio, con conseguente configurazione in capo alla stessa del dovere di emanare l’ordinanza di demolizione del manufatto, attesa la natura di atti obbligatori a contenuto non discrezionale riconosciuta ai provvedimenti repressivi in materia edilizia[23]. Tali conclusioni, osserva la Plenaria, non configurano affatto una violazione del principio di proporzionalità rispetto al regime meno lesivo di cui all’art. 38 del T.U. edilizia (come pure invece prospettato dalla Sezione remittente), trattandosi di due fattispecie del tutto differenti: in caso di non finito architettonico, il ripristino dello stato dei luoghi si giustifica a fronte della accertata divergenza tra quanto autorizzato e quanto realizzato, divergenza “che non sussiste nell’ipotesi dell’art. 38 cit., in quanto in quel caso il legislatore ha ritenuto di disciplinare una fattispecie peculiare, caratterizzatadall’annullamento del permesso di costruire e dalla conformità delle opere al titolo ormai annullato”.
4. Conclusioni: l’eterogeneità delle ipotesi di “incompiutezza” e la consequenziale esigenza di regimi differenziati.
Alla luce delle considerazioni svolte, emerge con chiarezza come il fenomeno del non finito architettonico sia connotato da una notevole complessità intrinseca e abbia un impatto che va ben al di là del singolo episodio. A ben vedere, infatti, esso intercetta tre elementi centrali delle politiche di governo del territorio: la differenza tra città pianificata e città realizzata, la lotta al degrado urbano, la valorizzazione del fattore temporale. La mancata concretizzazione, nei tempi stabiliti, di quanto autorizzato rende “incompleto” il disegno del pianificatore, frustrando le istanze di sviluppo insite nel piano, con l’aggravio rappresentato dall’inserimento nel contesto urbano di un elemento (lo “scheletro” edilizio) fonte di per sé di degrado ambientale, paesaggistico e sociale.
Il fenomeno è, poi, direttamente legato a quello che forse oggi rappresenta il “tema per eccellenza” del governo del territorio: il consumo di suolo[24]. Gli episodi di incompiutezza architettonica e urbana concorrono, infatti, a rendere incoerenti gli insediamenti e ad incrementare il c.d. sprawl urbano, una delle principali fonti di perdita delle aree di valore ambientale[25].
Ciò premesso, appare evidente la rilevanza delle conclusioni cui giunge la Plenaria con una pronuncia attenta alle reali dinamiche e agli interessi sottesi alle trasformazioni edilizie. Il superamento del precedente orientamento e la consequenziale configurazione del “non finito architettonico” in termini di abuso edilizio, consente finalmente di valicare diversi ostacoli che sino ad oggi hanno spesso impedito di portare a termine processi di rigenerazione urbana, fornendo una soluzione ad un problema di grave degrado, e ottemperando, nel contempo, anche alle pressanti esigenze di razionalizzazione dell’utilizzo della risorsa territorio nell’ottica della riduzione del consumo di suolo. Tra le linee di azione volte ad ottimizzare le politiche di governo del territorio in considerazione della scarsità del suolo vi è, infatti, proprio l’esigenza di tenere in debito conto tutte le risorse inutilizzate, quali siti dismessi e, per l’appunto, edifici la cui costruzione non sia stata terminata.
Non secondaria, poi, la risoluzione di quella evidente contraddittorietà che si registrava tra l’assoggettare alle eventuali sopravvenienze urbanistiche il proprietario che non avesse chiesto per tempo la proroga del permesso di costruire, e il ritenere legittimo (e, quindi, “intangibile”) il manufatto incompleto, con conseguente impossibilità per l’amministrazione di ri-pianificare diversamente l’area.
Permangono, tuttavia, anche a seguito della pronuncia della Plenaria, alcuni elementi di incertezza nella interpretazione del fenomeno in questione. La sentenza, infatti, non chiarisce appieno quello che probabilmente rappresenta il profilo più delicato, laddove afferma che il non finito architettonico si configura qualora – a fronte di un manufatto incompleto – vi sia stata la decadenza del permesso di costruire e “non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessato non lo richieda”. L’incertezza si rinviene nella circostanza che il legislatore non indica affatto un termine entro il quale il privato sia tenuto a chiedere il nuovo titolo finalizzato a completare l’opera, il che rende se non altro problematica l’individuazione della sussistenza dell’ultimo presupposto indicato dalla Plenaria. In assenza di un termine legale, infatti, non vi è certezza su quando il titolo non possa essere più richiesto (se non nelle ipotesi in cui la disciplina urbanistico-edilizia dell’area sia mutata e non contempli più quel tipo di intervento edilizio), né tantomeno su quando si possa affermare che il privato non abbia intenzione di chiedere il nuovo titolo. De iure condendo,al fine di giungere ad un assetto di interessi davvero connotato da assoluta certezza, occorrerebbe stabilire ex lege un termine massimo entro cui il privato possa attivarsi per portare a compimento i lavori, ad esempio introducendo una modifica del seguente tenore all’art. 15 co. 3 del d.P.R. n. 380/2001: “La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, da richiedere entro un anno dalla decadenza del precedente titolo”.
Altro profilo critico è rappresentato dall’indeterminatezza del concetto di “non finito” o “incompleto” architettonico[26]: non sempre, infatti, ci si trova di fronte a ipotesi come quella oggetto della pronuncia della Plenaria, ovvero nelle quali il grado di incompiutezza è tale da rendere non dubitabile l’assenza di una autonoma funzionalità degli interventi realizzati[27]; in molti casi, il manufatto incompiuto è dotato di una propria (magari minima) funzionalità, sebbene differente e incompatibile con quella originariamente prevista nel titolo: ci si chiede, allora, se anche in tale ipotesi si configuri una fattispecie di abuso per totale difformità. Sul punto, la Plenaria non assume una posizione chiara: in alcuni passaggi, infatti, essa sembra legare l’operatività dell’art. 31 cit. alle sole ipotesi di grave incompiutezza, ad esempio quando richiama la figura dello “scheletro” edilizio come paradigma del non finito architettonico (pag. 19); tuttavia, tale assunto si rivela in contrasto con quanto si legge in altra parte della medesima pronuncia, laddove si afferma che le trasformazioni edilizie sarebbero da considerarsi lecite solo allorquando vi sia “coincidenza tra quanto è stato assentito e quanto è stato realizzato”, potendo essere ritenuti conformi unicamente i manufatti “autonomi funzionalmente” ai quali “manchino soltanto opere marginali” (pag. 20).
Quel che è certo è che, a seguito delle precisazioni della Plenaria, non è più possibile ritenere che la categoria della totale difformità dal titolo edilizio sia connotata da uniformità: occorre, piuttosto, che l’amministrazione “misuri” di volta in volta le divergenze (strutturali e funzionali) e valuti se si configurino o meno i presupposti per l’ipotesi di non finito architettonico, con tutte le conseguenze in termini non solo di legittimità, ma anche di doverosità del successivo ordine di demolizione. Laddove, invece – nonostante l’incompiutezza di quanto realizzato – le opere dovessero comunque risultare autonome, scindibili e funzionali, le determinazioni del comune potrebbero essere tanto nel senso di considerarle sostanzialmente conformi al titolo abilitativo, quanto nel senso di ritenere applicabile la disciplina di cui all’art. 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) o all’art. 36 (Accertamento di conformità) del T.U. Edilizia[28].
In conclusione, gli approdi cui giunge la Plenaria – per quanto non esenti da perduranti profili di incertezza – sono senza dubbio da salutare con favore, in quanto consentono, da un lato, di attribuire valenza sostanziale al concetto di difformità edilizia e, dall’altro, di riconoscere appieno la centralità del fattore “tempo” nelle dinamiche di trasformazione urbana. La prospettiva delineata, infatti, impone che gli interventi edilizi si compiano non solo in conformità alla disciplina urbanistico-edilizia di riferimento, ma anche nel solco di una linea temporale ben definita, al fine di garantire effettiva concretezza allo sviluppo del territorio prospettato negli atti di pianificazione: solo in tal modo la “città immaginata” potrà coincidere con la “città realizzata”[29].
[1] In generale, sull’istituto della decadenza del permesso di costruire v. R. De Nictolis, F. Grassi, Efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire, in AA.VV., Testo unico dell’edilizia, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2015, 409 ss.; F. Saitta, Efficacia e decadenza del permesso di costruire, in Riv. giur. urbanistica, 3-4/2014, 588 ss.; M. Occhiena, Breve ricostruzione storica dell’istituto della decadenza della concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori, in Riv. giur. edilizia, 1998, 366 ss. Sulla natura dichiarativa della decadenza v. Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2024, n. 8672; T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 31 agosto 2023, n.4945, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In relazione alle opere pubbliche incompiute, si segnala che il legislatore statale ha istituito nel 2011 (art. 44-bis, d.l. 6 dicembre 2011 n. 201) l’Anagrafe delle Opere Incompiute presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, avente l’obiettivo non solo di fornire una mappatura completa e sempre aggiornata, ma anche di identificare modalità e strumenti (anche finanziari) atti a consentire il completamento delle opere stesse, ovvero la loro riconversione.
[3] Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2024, n. 2228, in Riv. giur. edilizia, 3/2024, 459.
[4] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 2 agosto 2021, n. 9113, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso analogo v. Cons. Stato, sez. IV, 25 marzo 2020, n. 2078, in Riv. giur. edilizia, 3/2020, 562; T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 14 novembre 2014, n. 449, in Riv. giur. edilizia, 6/2014, 1225. In dottrina, sul punto, v. G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019, 457 ss.
[5] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11195, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Toscana, sez. III, 5 marzo 2021, n. 345, in Foro amm., 3/2021, 543; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 3 gennaio 2014, n. 2, in Foro amm., 2014, 197; T.A.R. Toscana, Sez. III, 26 novembre 2013, n. 1637, in Foro amm.-TAR, 2013, 3360.
[6] A. Fabri, E.A. Taraschi, La c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio: alcune questioni aperte, in Dir. e proc. amm., 3/2022, 625.
[7] “L' art. 38, d.P.R. n. 380/2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato e la ratio è proprio quella di introdurre un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall' origine in assenza di titolo, per tutelare un certo affidamento del privato, sì da ottenere la conservazione di un bene che è pur sempre sanzionato” (T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 2 dicembre 2022, n. 7543, in Foro amm., 2022, II, 1662). In termini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 aprile 2018, n. 2155; Cons. Stato, sez. VI, 28 novembre 2018, n. 6753, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it. In generale, sui presupposti applicativi dell’art. 38 cit., v. Cons. Stato, Sez. II, 25 ottobre 2023, n. 9243, in questa Rivista, 2024, con nota di R. Parisi, Profili applicativi della fiscalizzazione degli abusi edilizi.
[8] M. Calabrò, Decadenza del permesso di costruire e “non finito architettonico”. La rilevanza della coordinata temporale nelle trasformazioni edilizie, in Riv. giur. edilizia, 5/2015, 229 ss.
[9] Cfr. Corte Cost., 31 maggio 2000, n. 164, in Giur. Cost., 200, 1465; Cons. Stato, Sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5081, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 8 luglio 2013, n. 3606, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 1950; Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, in Urb. e app., 2013, 59 ss., con nota di P. Urbani, Conformazione dei suoli e finalità economico sociali, 64 ss. In tale ottica, Giannini parlava del piano urbanistico come documento volto a fornire coordinate di ordine spaziale e temporale «a fini di risultato», (M.S. Giannini, Pianificazione, voce in Enc dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, 629 ss.).
[10] Sul tema v. M. R. Spasiano, M. Calabrò, M. Brocca, A. Giusti, G. Mari, A. G. Pietrosanti, Fondamenti di diritto per l’architettura e l’ingegneria civile, Napoli, 2023, 70 ss.; F. Saitta, Governo del territorio e discrezionalità dei pianificatori, in Riv. giur. edilizia, 6/2018, 421 ss.
[11] Cfr. T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 755, in Riv. giur. edilizia, 2012, 177, ove – nel sancire l’illegittimità di un’ordinanza di demolizione di opere realizzate nel periodo che ha preceduto la decadenza del titolo – si afferma che il permesso di costruire abiliterebbe “non solo la realizzazione della costruzione, ma anche l’esecuzione di ogni fase intermedia in quanto parte del risultato finale”.
[12] In termini, v. P. Lombardi, Il governo del territorio tra politica e amministrazione, Milano, 2012, 114. Evidente è il richiamo anche al Programma pluriennale di attuazione, documento cui è affidato proprio il compito di evitare che lo sviluppo degli insediamenti possa avvenire in maniera episodica e irrazionale. E’ noto, tuttavia, che questo strumento si è rivelato sostanzialmente fallimentare, anche in ragione del fatto che l’unico rimedio previsto in caso di eventuale inerzia da parte dei privati consiste nell’espropriazione dell’area interessata, eventualità remota per evidenti ragioni di ordine economico. Sul tema v. F. Saitta, Jus aedificandi o….dovere di costruire, in Riv. giur. edilizia, 2002, 1416 ss.
[13] F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, Milano 2021, 108 ss.; M.A. Cabiddu, Il governo del territorio, Roma-Bari, 2019, 26; P. Stella Richter, Diritto urbanistico, Milano, 2012, 31; F. Pagano, Il “piano operativo” nel processo di pianificazione, in Riv. giur. edilizia, 2010, 67 ss.; A. Bartolini, Questioni problematiche sull'efficacia giuridica della pianificazione strutturale e operativa, in Riv. giur. urb., 3/2007, 262 ss.
[14] T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. II, 30 novembre 2022, n. 817, in Foro amm., 2022, 1546. In termini cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 1° giugno 2012, n. 2612, in Foro amm.- TAR, 2012, 2022; Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 1991, n. 1239, in Riv. giur. urbanistica, 1992, 421.
[15] “Risponde ad un principio generale dell'ordinamento, la regola secondo cui la proroga del termine per il compimento di una certa attività deve essere richiesta prima della scadenza del termine medesimo, per esigenze di chiarezza, di trasparenza e di pubblicità, a garanzia delle parti e, più in generale, dei terzi; la presentazione della richiesta di proroga è infatti funzionale ad evidenziare la sussistenza e la perduranza dell'interesse del privato alla realizzazione dell'intervento programmato, sia nei rapporti con l'Amministrazione che aveva rilasciato il titolo, sia rispetto ai terzi che, per ragioni di vicinitas, potrebbero avere un qualche interesse ad opporsi all'altrui iniziativa edificatoria” (Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2023, n.2757, in Riv. giur. edilizia, 3/2023, 624).
[16] E’ bene sottolineare che, in base al principio del tempus regit actum, il nuovo titolo (permesso o s.c.i.a.) presuppone la perdurante compatibilità degli interventi ancora da realizzare con la disciplina urbanistica vigente. Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 16 aprile 2014, n. 2170, in Foro amm., 2014, 1269; Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2012, n. 2471, in Foro amm. CDS, 4/2012, 923; T.A.R. Umbria, Sez. I, 15 settembre 2010, n. 465, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 2060.
[17] “La decadenza stabilita dall'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380/2001 sanziona l'inerzia dei privati, sia come disinteresse soggettivo sia come potenziale intralcio alla futura attività di pianificazione. Quest'ultima, infatti, verrebbe resa meno efficace se fosse consentito ai privati di mantenere indefinitamente i diritti edificatori non consumati” (T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 14 ottobre 2021, n. 871, in www.giustizia-amministrativa.it). P. Capriotti, L’inerzia proprietaria al tempo della rigenerazione urbana, in Riv. giur. urbanistica, 1/2020, 49 ss.
[18] Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. I, 16 marzo 2009, n. 752, in Foro amm. TAR, 3/2009, 610.
[19] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 30 giugno 2022, n. 4401; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II-quater, 16 novembre 2020, n. 12035; Cass. pen., sez. III, 23 aprile 1990, n. 5891, tutte citate da R. Musone, La disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e non oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio, in Urb. e appalti, 6/2024, 749-751.
[20] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 29 gennaio 2024, n. 906, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si afferma che “si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione”. In dottrina, v. F. Vetrò, Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, in AA.VV., Testo unico dell’edilizia, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2015, 751 ss.
[21] Concetto originariamente approfondito dai teorici della progettazione urbana. Cfr. F. Costanzo (a cura di), L'architettura del non finito. Una strategia progettuale per l'edificio incompiuto, Melfi, 2015.
[22] Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2021, n. 1377, in Foro amm., 2021, 505: “Ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 380/2001, l’inutile decorso del termine triennale d’efficacia del titolo edilizio comporta la decadenza dello stesso titolo per la parte non eseguita alla scadenza dei relativi termini e inibisce l’ulteriore corso dei lavori, ma non determina l’illiceità di quanto già realizzato nella vigenza del titolo stesso, purché dette opere siano autonome e scindibili rispetto a quelle da demolire”. In termini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2022, n. 5258, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Cfr. Cons. Stato, sez. II, 8 febbraio 2024, n. 1297, in Riv. giur. edilizia, 3/2024, 497; Cons. Stato, sez. VI, 6 settembre 2017, n. 4243, in Riv. giur. edilizia, 2017, 1330; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 1 giugno 2012, n. 2616, in Foro amm. TAR, 2012, 2025; Corte Cost., 14 aprile 1988, n. 447, in Giur. cost., 1988, I, 2057. In dottrina v. M.A. Sandulli, Sanzione-IV) Sanzioni amministrative, (voce) in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Roma, 1992, 15; A. Cagnazzo, S. Toschei, F.F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia edilizia, Torino, 2014.
[24] A.G. Pietrosanti, Consumo di risorse naturali non rinnovabili. Tra diritti della natura, bilanciamento di interessi e tutela giurisdizionale, Napoli, 2023; G.A. Primerano, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana, Napoli, 2022; G. Pagliari, Governo del territorio e consumo di suolo. Riflessioni sulle prospettive della pianificazione urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 5/2020, 325 ss.
[25] Su tale profilo v. E. Boscolo, Le periferie in degrado (socio-territoriale) e i (plurimi) fallimenti dell'urbanistica italiana, in Riv. giur. urbanistica, 1/2021, 54 ss.; W. Gasparri, Consumo di suolo e sviluppo sostenibile nella destinazione agricola dei suoli, in Dir. pubbl., 2/2020, 421 ss.
[26] Sul piano definitorio, invero, la Plenaria non “brilla” per chiarezza, nella misura in cui qualifica la medesima fattispecie prima come “non finito architettonico” (pag. 16) e poi come “incompleto architettonico” (pag. 18).
[27] Nel caso di specie, prima della sospensione dei lavori era stato effettuato unicamente lo scavo delle fondamenta, con l’installazione di alcuni pilastri strutturali.
[28] R. Musone, La disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e non oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio, cit., 744.
[29] M. Calabrò, Il tempo “certo” ed il tempo “giusto” nell’azione amministrativa: spunti per un dialogo, in A. Carbone, F. Aperio Bella, E. Zampetti (a cura di), Dialoghi di diritto amministrativo, Roma, 2024, 159.
Sommario: 1. La genesi – 2. Il ribaltamento di una prospettiva: dal formalismo all’effettività – 3. Uno Statuto, non solo una legge – 4. Superare o rifondare lo Statuto? – 5. Verso il referendum.
I 55 anni sono un anniversario speciale per lo Statuto dei lavoratori. Tra il 20 maggio della ricorrenza e l’8-9 giugno del referendum passano venti giorni. È primavera, la stagione che meglio si addice all’idea della rinascita e della fioritura, speriamo anche dei diritti. Ottima occasione, dunque, per ricordare cosa fu lo Statuto per questo Paese e riflettere su cosa resti di un’epoca che segnò una svolta nella vita di milioni di cittadini.
1. La genesi
Le lotte sindacali del primo dopoguerra procedettero di pari passo con l’industrializzazione del Paese e con la coscienza che le categorie dei lavoratori avevano acquisito già durante l’opposizione al fascismo, prima con l’opposizione nelle fabbriche, poi con la resistenza. L’idea di uno statuto comune, concepita dal segretario generale Giuseppe Di Vittorio, era stata presentata al congresso CGIL di Napoli del 1952 ponendo al centro la figura del “cittadino lavoratore”, con la sua personalità, le sue opinioni, la sua fede religiosa, la sua dignità.
L’incubazione di quel progetto viene rallentata dagli eventi del 1960, dalle barricate in strada che risvegliano improvvisamente i ricordi una guerra civile ancora vicina nel tempo. I tempi diventano maturi quando il governo Moro ottiene a dicembre ’63, per la prima volta, l’appoggio decisivo dei socialisti. Pietro Nenni condiziona il loro voto all’approvazione di uno Statuto dei lavoratori[1] e in breve affida a Gino Giugni la stesura insieme a Giuseppe Tamburrano del testo di tre disegni di legge dedicati a commissioni interne, giusta causa di licenziamento e diritti sindacali.
Giugni stesso va a comporre la Commissione istituita dal ministro del lavoro Giacinto Bosco per impostare un progetto che il 15 giugno 1966 diventerà il primo compendio di “Norme sui licenziamenti individuali”. Viene superata la regola codicistica (art. 2118 c.c.) della libera recedibilità dal contratto di lavoro subordinato, previo preavviso. L’art. 1 della legge n. 604/66 detta un vero e proprio principio: il prestatore di lavoro può essere licenziato solo per giusta causa o per giustificato motivo.
Il Sessantotto e le manifestazioni che da allora si succedono hanno un ulteriore effetto acceleratorio. La protesta organizzata dai braccianti ad Avola il 2 dicembre 1968, sfociata nell’uccisione di due lavoratori e il ferimento di altri cinquanta per opera della polizia, è l’occasione per la promessa da parte del ministro del lavoro Giacomo Brodolini, pochi giorni dopo, di forzare i tempi per approvare lo Statuto[2].
La storia del ministro si lega allo Statuto drammaticamente. Brodolini – già azionista, poi socialista e segretario della federazione lavoratori edili della CGIL – è gravemente malato, sa di avere poco tempo. L’altro principale artefice dell’opera ne racconta così l’impegno straordinario di quei giorni: “sembrava quasi aver fretta di portare a termine il suo compito. Riuscì a realizzare tre importanti obiettivi: la mediazione nella vertenza sulle cosiddette gabbie salariali, che favorì un accordo tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria sull’unificazione progressiva dei salari nel paese; una riforma delle pensioni che ancorando la pensione all’80% delle ultime retribuzioni ebbe effetti duraturi e venne modificata solo con Amato nel 1992, e, da ultimo ma certamente non in ordine di importanza, lo Statuto dei lavoratori”[3].
Giugni dirige allora l’ufficio legislativo del ministero del lavoro. Si dedica al testo con l’impellenza scandita da Brodolini nella nuova commissione istituita ad hoc. Il Consiglio dei ministri ne approva in breve i contenuti, così come integrati nella commissione lavoro del Senato, aule in cui il disegno di legge viene presentato il 24 giugno 1969, per esservi approvato l’11 dicembre. Il giorno dopo esplodono le bombe nella Banca dell’agricoltura in piazza Fontana. La stagione dello stragismo inizia al culmine della condivisione, da parte della politica, delle tutele dei diritti sociali.
Il 14 maggio con 217 voti favorevoli, 10 contrari e 125 astensioni lo Statuto viene approvato alla Camera. Sei giorni dopo viene pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Brodolini morirà l’11 luglio, dopo che già da mesi aveva dovuto cedere l’incarico ministeriale a un altro ex sindacalista, il democristiano Carlo Donat-Cattin.
2. Il ribaltamento di una prospettiva: dal formalismo all’effettività
Nel nuovo corpus normativo la centralità della persona invocata da Di Vittorio vent’anni prima è già nel titolo. È uno Statuto dei “lavoratori”, non del “lavoro”. La parola lavoratori è quasi una dedica alla battaglia condotta nella Costituente da Palmiro Togliatti, che aveva visto respingere la sua proposta di emendamento per inserirla nell’art. 1 della Costituzione[4].
Sul piano delle relazioni sindacali, lo Statuto “si proponeva di incivilire il potere aziendale sostituendo all’autorità-autoritaria un’autorità basata sulla rilegittimazione dell’impresa mediante l’adeguamento della sua gestione ai valori di cui è portatrice il lavoro, anche di quelli non negoziabili né monetizzabili”[5].
La vera rivoluzione si pone sul piano giuridico. La visione commerciale del contratto di lavoro ancorata al codice civile, che non a caso tratta del lavoro subordinato nel capo dedicato all’impresa in generale, viene ribaltata. Le parti del contratto non sono più considerate in una situazione giuridico-soggettiva paritaria; si prende invece atto della loro effettiva dinamica di squilibrio, riconducibile più correttamente al binomio potere-soggezione[6].
L’effettività della dimensione interna al rapporto di lavoro permea da allora la cultura giuslavorista. La Corte costituzionale ha infatti spiegato che, pur operando sul piano della fattispecie, i limiti alla “disponibilità del tipo contrattuale” di lavoro subordinato sono diretti a realizzare degli “effetti” perseguiti. Dall’assenza di tali limiti potrebbe derivare l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato” [7]
Lo Statuto offre dunque le prime componenti di quel “patrimonio costituzionale comune” che, includendo il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale, trova base negli obblighi internazionali, nell’ordinamento comunitario e nella legislazione nazionale[8]. La Corte di giustizia assumerà poi le redini di tale visione, collocando il criterio dell’effettività in una dimensione sovranazionale come parametro interpretativo desumibile anche dalle tutele processuali riconosciute al lavoratore nel Paese membro[9].
3. Uno Statuto, non solo una legge
La prospettiva costituzionale della legge n. 300 del 1970 si coglie anche nella sua struttura. Vi convivono due complessi di norme che trattano del prestatore di lavoro tanto nella dimensione individuale quanto in quella collettiva. Alla disciplina garantistica, che introduce disposizioni inderogabili nel rapporto individuale, si assomma infatti quella di sostegno all’attività sindacale. La seconda è complementare alla prima, giacché concorre a rendere effettivi i diritti individuali all’interno dell’impresa.
L’articolazione e la completezza di questo corpo normativo danno la misura dell’atto giuridico fondamentale di settore, del suo essere, appunto, uno Statuto. Il testo è esemplare anche per chiarezza espositiva. Il suo carattere basilare è dimostrato dal fatto che il legislatore vi si misura ancora oggi, rinunciando non di rado a tecniche legiferative più dirette per innestare le disposizioni di nuovo conio in quell’atto fondamentale. Basterebbe già questa sola considerazione a dimostrare la perdurante rilevanza dello Statuto come fonte normativa del nostro ordinamento.
Le innovazioni che esso ha apportato alla disciplina del lavoro sono state innumerevoli: si sono poste le basi per il diritto antidiscriminatorio, a tutela delle opinioni e degli altri fattori che connotano la dignità della persona lavoratrice (artt. 1, 8, 15, 16); si sono limitate le azioni datoriali d’ingerenza nella sfera di riservatezza individuale all’interno del luogo di lavoro (artt. 2-6); nel luogo di lavoro si è riconosciuto l’esercizio di diritti di libertà di natura personale e sindacale (10, 11, 14, 20, 21; 23 e 24); si è procedimentalizzato l’iter di accertamento della responsabilità disciplinare (art. 7); si sono importate le norme imperative statutarie anche nel lavoro pubblico, che prima di allora conosceva un regime del tutto autonomo (art. 37)[10].
L’art. 13 St. ha inoltre modificato in modo radicale l’art. 2103 c.c., delimitando lo jus variandi riconosciuto al datore di lavoro nei presupposti legali per modificare il contenuto della prestazione lavorativa del dipendente e per trasferirlo; e, se sulla reale portata di quest’ultima innovazione la dottrina si è presto divisa[11], è indubbio che la nuova disciplina delle mansioni abbia spostato drasticamente il baricentro del controllo dalle esigenze dell’impresa all’interesse del lavoratore per la protezione della professionalità acquisita[12].
Due parole a parte meritano le norme-simbolo.
La sua collocazione all’interno del titolo dedicato alle libertà sindacale non dà la misura dell’impatto che l’art. 18 St. ha avuto e che ancora conserva nella società italiana. La reintegrazione nel posto di lavoro è diventata l’emblema di conflitti ideologici e culturali mai sopiti, spesso strumentalizzato a favore di interventi riformatori o di movimenti di opposizione, strumento identificativo anche di una magistratura invasiva dell’autonomia imprenditoriale, tuttora fattore di divisione politica e di tutele tra gruppi di lavoratori (pubblici e privati; dipendenti di imprese grandi o piccole; subordinati e parasubordinati).
L’art. 28 ha a sua volta inverato l’identificazione tra diritto sostanziale e tutela processuale. La celerità e l’informalità del rito, insieme con l’apparato sanzionatorio approntato dai commi 2, 4 e 5, hanno segnato un’epoca della storia della giurisdizione, definendo i pretori del lavoro come l’autorità più efficace, influente, temibile, problematica per il mondo aziendale negli anni Settanta e Ottanta. Secondo la franca testimonianza di un protagonista di quell’esperienza, l’art. 28 “esaudiva anche un desiderio, diffuso tra i giudici progressisti, di incidere in qualche modo sul sociale, in funzione riequilibratrice delle ingiustizie e delle storture che per anni la classe operaia aveva dovuto subire”[13].
La miscela “esplosiva... tra la fattispecie aperta, ma teleologicamente determinata, che tipizza il comportamento illegittimo attraverso la direzione in cui si muove la lesione del bene protetto, il riconoscimento della rilevanza degli interessi collettivi del lavoro, attraverso la legittimazione ad agire attribuita direttamente a(gli organismi locali de)lle organizzazioni sindacali nazionali e, infine, un meccanismo processuale agile e di notevole capacità dissuasiva e ripristinatoria”[14], ha reso finalmente rapidi processi che prima duravano anni. L’art. 28 St. è stato perciò preludio alla riforma del rito del 1973 e modello successivo per l’adozione di altre procedure deformalizzate nell’ambito lavoristico (vedasi il rito per la repressione delle condotte discriminatorie) e non, se solo si guarda al rito sommario di cognizione introdotto quasi quarant’anni dopo.
Oggi, diversamente dalla tutela reintegratoria, la repressione della condotta antisindacale è diventata quasi un totem riverito: lo ricopre un po’ della polvere del tempo per effetto delle, spesso stravaganti, forme di regolamentazione delle relazioni industriali, dell’affievolirsi dell’unità e della forza rappresentativa del sindacato, della maggiore accortezza dell’imprenditoria, della scala diversa in cui si misurano i rapporti di forza tra datore e prestatore di lavoro.
L’art. 28 St. conserva un’attualità prevalentemente come misura di prevenzione, legata alla mancata consultazione del sindacato nelle scelte organizzative prima ancora che queste abbiano qualche ricaduta occupazionale, o come misura di salvaguardia del pluralismo sindacale nel conflitto, diretto o indiretto, tra diverse associazioni di lavoratori.
4. Superare o rifondare lo Statuto?
Esaminate una per una, molte norme dello Statuto presentano rughe profonde e alcune sono defunte, frutto inevitabile di un’economia e di una realtà imprenditoriale completamente alterate dall’evoluzione tecnologica, dal neocapitalismo e dalla globalizzazione.
Le materie dei controlli audiovisivi, delle mansioni, dei licenziamenti sono state al centro di profonde revisioni anche se, negli ultimi due casi, mantengono solidi riferimenti all’impostazione statutaria. In linea più generale, è in corso un ripensamento della distinzione tradizionalmente rigida tra subordinazione e autonomia, con la conseguente protezione limitata alla prima fattispecie, e del ruolo del sindacato nazionale e nell’azienda.
È sintomatico il fatto che, nel nuovo scenario, l’idea di una nuova disciplina generale del rapporto di lavoro venga coltivata non tanto nell’ottica dell’introduzione di nuove forme di tutela per il lavoratore, quanto piuttosto come fonte regolatrice del cambiamento che vede al centro della riflessione l’impresa, quale produttrice di ricchezza e di opportunità occupazionali[15].
Storicamente, l’unico intervento assimilabile a quello statutario risale al Libro bianco sul mercato del lavoro, presentato nell’autunno 2001 da Marco Biagi, quale coordinatore di una commissione di giuristi, economisti e sociologi: evoluzione del mercato del lavoro e differenziazione delle tutele erano i due poli intorno a cui ruotava il progetto. Ne è sortita la legge delega n. 30/2003, attuata con il d. lgs. 276/2003. Anche stavolta il suo mentore non ha potuto vedere i frutti del suo operato, poiché, proprio a causa di questo, Biagi era già stato uucciso per mano delle Nuove Brigate Rosse il 19 marzo dell’anno precedente.
Un tentativo di varare un altro Statuto dei lavori è stato compiuto, in memoria di Biagi, dall’allora ministro del lavoro e delle politiche sociali Maurizio Sacconi, durante la XVI legislatura, prima del subentro, a novembre 2011, del governo Monti al quarto governo Berlusconi. L’iniziativa è stata ripresa nella legislatura successiva, senza mai incontrare un consenso sufficiente, a fronte dell’aperta ostilità del sindacato.
Oggi i tempi non sembrano maturi per un intervento che non sia meramente ricognitivo dell’esistente. La congerie di norme via via introdotte dai governi succedutisi nel tempo e le decisioni della Corte costituzionale, che hanno superato anche l’impostazione del più recente Jobs act in tema di licenziamento, necessiterebbero di un riordino almeno sistematico. Ma la polarizzazione del dibattito pubblico che ha investito anche la materia del lavoro rende impensabile la possibilità di trovare un’adesione diffusa su linee d’indirizzo dotate di stabilità e concretezza. Conviene forse affidarsi, al momento, a un approccio pragmatico, condensabile in un pensiero figlio del periodo pandemico: “già le tecnologie e la globalizzazione hanno sconvolto il mercato del lavoro, ora investito anche dalla nuova crisi; da giurista dico che serve una moratoria normativa. Quando inizieremo a vedere chiaro e ad affrontare la ricostruzione del modo di lavorare, non avremo bisogno di un altro Act né tanto meno una legge che sia omnicomprensiva; piuttosto ci serve una costruzione progressiva con il coinvolgimento di vari attori, sull’esempio di come è stata affrontata la sicurezza sul lavoro in questa emergenza”[16].
Le incertezze applicative provocate dalle operazioni legislative di questo secolo consigliano, in effetti, prudenza. È meglio consentire un qualche assestamento almeno della giurisprudenza, invece che provocare nuovi scossoni dettati magari da opzioni teoriche chiare, ma dalla scarsa visione d’insieme.
5. Verso il referendum
Quattro dei cinque quesiti referendari in programma per le giornate dell’8 e 9 giugno prossimi toccano, come noto, temi lavoristici. Soltanto il primo investe formalmente le regole dello Statuto: proponendo l’abrogazione del d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, sul cosiddetto contratto a tutele crescenti, tende a riportare le lancette dell’orologio al tempo della tutela reintegratoria, quale regola generale in presenza di un licenziamento di cui sia stata accertata l’illegittimità.
L’enumerazione di norme e sentenze della Consulta riportate nel quesito[17] dovrebbe fare riflettere sull’esercizio oggi richiesto all’interprete in una materia che, pure, è tra le più sviscerate da giuristi e corti. A prescindere da ciò, se prevalessero i consensi all’abrogazione, tornerebbe a dispiegarsi integralmente la disciplina della legge Fornero, n. 92/2012, attualmente invece sempre più residuale a causa della progressiva riduzione delle assunzioni avvenute prima del 7 marzo 2015. Verrebbero così ad ampliarsi i casi di tutela “reale”, ben oltre le ipotesi di licenziamento nullo, e si porrebbe una pietra tombale su annose questioni ermeneutiche che la Corte costituzionale ha potuto risolvere, a oggi, soltanto in parte.
I quattro quesiti omogenei per materia sono accomunati dall’intento di ridurre la dimensione di precarietà in cui si muove oggi il lavoratore dipendente e, prima ancora, di responsabilizzare l’imprenditore nelle scelte relative, rispettivamente, al recesso dal contratto di lavoro, all’apposizione di un termine negoziale risolutivo, all’affidabilità dell’azienda appaltatrice. Non sarebbe un ritorno allo Statuto, ma sarebbe certamente l’occasione per rimettere al centro del giuslavorismo il lavoratore come persona, piuttosto che come mera risorsa, in un’epoca in cui le politiche della cosiddetta “flessibilità in entrata”, della formazione qualificante e dei controlli sulla sicurezza hanno denunciato il loro fallimento.
[1] A. Moro – P. Nenni. Il carteggio ritrovato (1957-1978), Arcadia edizione, 2024.
[2] Per un resoconto storico più completo, cfr. Era di maggio. Lo “Statuto dei lavoratori” compie cinquant’anni. Quasi un racconto, di V. A. Poso, in questa rivista, 20 maggio 2020.
[3] Da una parte sola, dalla parte dei lavoratori, di I. Romei, in collettiva.it, 5 febbraio 2021.
[4] “Si dà così anzitutto corpo a una nota lettura dell’art. 1 della Costituzione, secondo la quale il Costituente ha assunto a riferimento «l’essere reale, visto nella concretezza dei bisogni che ricercano nuovi strumenti di soddisfazione». Così C. Mortati, in Commento all’art. 1 del Commentario alla Costituzione, Principi Fondamentali a cura di G. Branca, Zanichelli-Il Foro it., 1975, p. 10.
[5] U. Romagnoli, Lo Statuto ha 50 anni!, in Quad. DLM, 2020, n. 8, p. 34.
[6] “Il tratto più eterodosso della Statuto è dunque quello dell’effettività”, scrive O. Mazzotta, Le molte eredità dello Statuto dei lavoratori, in LD, 2010, p. 33. Su questo punto cfr., anche F. Dorssemont, Lo Statuto all’avanguardia: uno strumento pionieristico per l’Europa e oltre, e L. Zoppoli, Dall’effettività alla sostenibilità: mezzo secolo di pragmatismo dei giuslavoristi, entrambi in Quad. DLM, 2020, n. 8, rispettivamente p. 57 e p. 75.
[7] Corte cost. sentenza 29 marzo 1993, n. 121; successivamente, 13 aprile 1994, n. 115, nonché 7 maggio 2015, n. 75.
[8] M. De Luca, Diritti dei lavoratori: patrimonio costituzionale comune versus declino delle garanzie, in Foro It., 2011, V, p. 216.
[9] Corte giust., 4 luglio 2006, causa C-212/04, n. 73 e segg.; Corte giust., 7 settembre 2006, c-53/04, n. 51.
[10] Cfr. M. Rusciano, Lo Statuto dei lavoratori e il pubblico impiego, in LD, 2010, p. 106.
[11] Basta confrontare, tra gli altri, le tesi e richiami di P. Ichino, Note in tema di disciplina legislativa del trasferimento del prestatore di lavoro, in RGL, 1974, II, 41; G. Suppiej, Art. 13, in Commentario dello Statuto dei lavoratori, a cura di U. Prosperetti, Giuffré, 1975, 360; G. Pera, Sul trasferimento del lavoratore, in Foro it., 1976, V, p. 65; M. V. Ballestrero, Il trasferimento dei lavoratori, in L’applicazione dello statuto dei lavoratori. Tendenze e orientamenti, F. Angeli, 1973, p. 167.
[12] Così U. Romagnoli, Art. 13, in Statuto dei diritti dei lavoratori. Commentario del Codice Civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, 222.
[13] R. Canosa, Storia di un pretore, Einaudi, 1978, 36.
[14] Così G.A. Recchia, Processo del lavoro e Sindacato: l’art. 28 St. lav. come apripista della riforma del 1973, in Lavoro diritti e Europa, numero speciale 2023, p. 5, che richiama anche un passaggio di U. ROMAGNOLI, Intervento, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi (Atti del Convegno di Studio di Pavia, 11-12 giugno 1974), Cedam, 1976, 294.
[15] Cfr., seppure in prospettive non coincidenti, M. Trifirò, in blog.trifiro.it/lo-statuto-dei-lavoratori-ieri-e-oggi, 19 maggio 2020; R. Brunetta e M. Tiraboschi Riscrivere lo Statuto dei lavoratori per regolare e tutelare il lavoro che cambia in bollettinoadapt.it, 4 ottobre 2021;
[16] T. Treu, paroledimanagement.it, 3 maggio 2020.
[17] Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, come modificato dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018, n. 96, dalla sentenza della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194, dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145; dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla L. 5 giugno 2020, n. 40; dalla sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 2020, n. 150; dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147; dal d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79 (in G.U. 29/06/2022, n. 150); dalla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2024, n. 22; dalla sentenza della Corte costituzionale del 4 giugno 2024, n. 128, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?
Sommario: 1. Lo spunto di partenza - 2. L’efficacia dissuasiva dei luoghi indicati: in particolare, Chiese e luoghi di culto - 3. L’efficacia dissuasiva delle farmacie nella commissione dei reati di violenza - 4. Conclusioni.
1. Lo spunto di partenza
L’attuale compagine governativa, come noto, non sembra avere un rapporto facile con la giustizia e in generale con il potere giudiziario.
Tale difficoltà di rapporti non deriva, come si potrebbe intuire (e persino auspicare) dalla constatazione della inefficienza generale del sistema della tutela giurisdizionale dei diritti e da divergenze tra politici e magistrati sui modi di affrontare e risolvere questa vera e propria emergenza del Paese, ma da un conclamato fastidio per l’agire di giudici e pubblici ministeri, accusati di “remare contro il lavoro del Governo del paese”[1].
In attesa di una riforma del titolo della Costituzione dedicato alla Magistratura ritenuta così impellente da superare qualsiasi esigenza di confronto parlamentare (una sorta di inedita questione di fiducia su riforma costituzionale, come è stata autorevolmente definita[2]), giudici e pubblici ministeri ancora uniti sono stati piacevolmente stimolati alla riflessione sul loro operato grazie alla dichiarazione comparsa sui giornali di oggi ed attribuita al Ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Scopo di questo breve scritto è di aderire all’invito alla riflessione scaturito dalle parole del Ministro.
Eccole: “Il funzionamento del braccialetto elettronico è molto spesso incompatibile con i mezzi di trasporto delle persone: nel momento dell’allarme nei confronti di una persona, molto spesso la vittima si trova ad una distanza non compatibile con l’intervento delle forze dell’ordine. Dobbiamo coniugare questi due elementi dando un’allerta alla vittima, affinché sia in grado - nel momento in cui coglie questo momento di pericolo – di trovare delle forme di autodifesa, magari rifugiandosi in una chiesa o in una farmacia, in un luogo più protetto”[3].
Il Ministro della Giustizia solleva dunque l’accento su un problema serio e molto avvertito in questi giorni, costituito dal vulnus di efficacia dissuasiva dello strumento del cosiddetto “braccialetto elettronico” per il contrasto alla violenza di genere.
Come noto, il dispositivo previsto dall’articolo 275 bis del codice di procedura penale è stato introdotto nel 2000 come misura aggiuntiva agli arresti domiciliari, per consentire il monitoraggio a distanza degli indagati e limitarne la libertà di circolazione in modo meno invasivo della custodia in carcere ma altrettanto efficace.
Recentemente, tale modalità di controllo è divenuta obbligatoria per le misure cautelari adottate per i reati di violenza di genere.
Applicando lo strumento elettronico al soggetto indagato per reati di genere, gli si impedisce infatti di avvicinarsi alla vittima dei suoi comportamenti delittuosi, che in questo tipo di delitti sono notoriamente soggetti a reiterazione con modalità ingravescenti fino alle conseguenze estreme della soppressione fisica della persona offesa.
Come correttamente osservato dal Ministro, notoriamente attento alle problematiche pratiche riscontrate nell’applicazione delle misure cautelari (tanto da averle praticamente abolite per buona parte dei delitti mediante l’introduzione dell’interrogatorio preventivo), l’attivazione dell’alert generato dalla trasgressione del divieto di avvicinamento alla persona offesa non dà sempre i risultati sperati a causa dell’inevitabile iato temporale tra il momento dell’allarme e quello dell’intervento delle forze dell’ordine a protezione della vittima.
In altri termini, è stato riscontrato che in alcuni casi l’attivarsi della Polizia Giudiziaria non è (né può essere) tempestivo e non impedisce che il trasgressore della prescrizione porti a compimento il proprio proposito delittuoso aggredendo nuovamente la vittima.
Per colmare questo vero e proprio vulnus che vanifica – con conseguenze a volte drammatiche – il sistema di protezione, il Ministro indica alle donne di tutta Italia un rimedio in grado di supplire alla temporanea assenza dello Stato sul luogo del delitto: il raggiungimento immediato da parte della vittima della potenziale aggressione di alcuni luoghi al cui interno risulterebbe impossibile o comunque disagevole il compimento di reati di violenza: le chiese e le farmacie.
Viene reintrodotto nel nostro ordinamento, al momento solo in via di fatto, l’antico istituto dell’ager sacrum di antichissima memoria.
2. L’efficacia dissuasiva dei luoghi indicati: in particolare, Chiese e luoghi di culto
Poiché i luoghi indicati presentano caratteristiche differenti e difficilmente assimilabili, almeno ad una prima considerazione, conviene esaminarli distintamente, partendo dalle Chiese, luoghi sacri per eccellenza nell’immaginario collettivo.
Non è chiaro se il termine evocato dal Ministro si riferisca ai soli luoghi di culto della religione cattolica o vada esteso anche a moschee, sinagoghe ed altri luoghi ritenuti sacri per altre religioni.
Nel dubbio, converrà all’interprete attenersi ad un criterio rigidamente restrittivo, anche in omaggio alla italianità che connota l’operato dell’attuale compagine governativa di cui il Ministro fa parte.
Come detto in precedenza, il concetto di ager sacrum come luogo invalicabile appartiene alla tradizione più antica del diritto romano ed indicava una porzione di territorio urbano nel quale era proibito entrare in armi.
È evidente dunque che il porsi all’interno di questo perimetro proteggeva da azioni violente, perché queste non erano considerate come aggressioni all’individuo ma vero e proprio sacrilegium.
Invero, già nei poemi omerici si rinvengono scene di esponenti di città aggredite e saccheggiate in cui i cittadini si rifugiavano all’interno dei templi per ottenere la salvezza, facendo leva sulla pietas (o sulla superstizione) dell’aggressore al cospetto del dio.
Con la caduta dell’Impero Romano, la funzione di luogo sacro come invalicabile è stata ereditata dai luoghi di culto e nei secoli si tramandano innumerevoli esempi di aggrediti che trovavano scampo all’interno delle mura di chiese e conventi.
È dunque verosimile che il Ministro faccia riferimento a tali nobili tradizioni, nella ragionevole certezza che lo stalker, il predatore sessuale o il femminicida arrestino le proprie pulsioni delittuose, non potendo perseverare nel proprio intento criminoso tra le navate di una chiesa o al cospetto di Dio, o magari sperando in una reminiscenza degli istituti antichi del quale può avere appreso l’esistenza negli anni degli studi o per proprio personale desiderio di cultura.
La storia insegna in verità che in moltissimi casi rifugiarsi nei luoghi di culto o persino ai piedi dell’altare non ha avuto l’effetto deterrente auspicato. Ma tentar non nuoce.
Inoltre, la diffusione di questo tipo di reazione potrebbe agevolare le forze dell’ordine nella ricerca dell’aggressore, poiché carabinieri e polizia potrebbero concentrare la loro attenzione ai soli luoghi di culto presenti in zona, ciò che abbatterebbe sensibilmente i tempi di intervento a protezione della vittima.
3. L’efficacia dissuasiva delle farmacie nella commissione dei reati di violenza
Più articolato si presenta necessariamente il ragionamento sull’efficacia dissuasiva delle farmacie in relazione ai reati di violenza di genere.
Il ricorso alla origine sacra della medicina e il riferimento al dio Esculapio porterebbe forse l’interprete troppo lontano, e sembra difficile ritenere che un soggetto che ha intenzione di compiere un delitto quali quelli menzionati possa arrestarsi solo tenendo a mente il serpente solitamente ricollegabile alla medicina (serpente che comunque compare, in duplice copia, nelle insegne delle farmacie moderne).
Maggiore rilevanza dissuasiva potrebbe avere la croce verde, simbolo universale delle farmacie ma istintivamente ricollegabile al segno per eccellenza della Chiesa cattolica, ciò che potrebbe indurre il reo frettoloso ad una assimilazione di tali esercizi commerciali a luoghi di culto.
In realtà, non esistono allo stato appigli idonei a giustificare l’asserita efficacia dissuasiva delle farmacie nei reati d violenza di genere: si tratta invero di luoghi solitamente affollati e ben illuminati, ma lo stesso potrebbe dirsi di un pizzicagnolo o di una tintoria.
Tra i primi commentatori dell’accostamento in esame, alcuni hanno evocato la presenza di garze e disinfettanti per tamponare gli effetti delle violenze[4], mentre altri hanno rilevato la presenza di farmaci in grado di agire, calmandoli, sugli impulsi del reo[5], anche se rimane da chiarire in che modo vittima o farmacista possano, nella concitazione del momento, convincere l’aggressore ad assumerli.
Occorrerà probabilmente anche in questo caso uno sforzo interpretativo della giurisprudenza per assegnare connotato concreto ad istituti che, seppur ancorati ad antiche tradizioni, sono da considerare di nuovo conio.
4. Conclusioni
La breve e necessariamente incompleta disamina che precede costituisce una debole e insoddisfacente risposta allo stimolo alla riflessione delle parole del Ministro.
Ciò che è possibile però sin da ora desumere è che verosimilmente si è aperta una nuova strada per il contrasto a reati particolarmente allarmanti, che richiede uno sforzo di creatività non disgiunta da competenza[6] per evitare che l’auspicio del Guardasigilli rimanga un mero sogno[7].
[1] Dichiarazione del Presidente del Consiglio dei Ministri, 31 gennaio 2025, Il Fatto Quotidiano.
[2] IONTA, “Prolegomeni di diritto costituzionale moderno”, in Giustizia Insieme, 2025.
[3] Dichiarazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio, in ANSA on line, 16 maggio 2025.
[4] In tal senso PETRINI, Garze e tamponi nei reati da Codice Rosso, Giustizia Insieme 2025
[5] È la ricostruzione di REALE, nel noto pamphlet Xanax agli aguzzini, in questa Rivista, 2025
[6] L’importanza della competenza emerge dal commento di MANZON, Magistrati virtuali e intelligenza artificiale, Giustizia Insieme, 2025
[7] L’accostamento alla materia onirica si deve ad APOLLONIO, Di questi anni ed altre memorie di un giovane magistrato, in corso di pubblicazione.
Volete voi l’abrogazione… ?
Così iniziano i 5 quesiti per l’abrogazione di norme che ostacolano il diritto alla dignità del lavoro e della persona.
Sono quesiti semplici?
Tecnicamente rispondono a domande complesse che però sono facilmente comprensibili perché unificati da un unico intento: aumentare il livello di sicurezza personale e sociale dei lavoratori, diminuire le disuguaglianze e la precarietà, aumentare il livello di democrazia e di libertà del nostro Paese.
Allora è importante andare a votare?
È fondamentale non restare indifferenti e votare SÌ.
Premessa
Da quando si è appreso che tra i compiti della Scuola Superiore della magistratura vi sarebbe stato anche quello di “formare” gli aspiranti magistrati la comunità dei giuristi – forse più quella degli accademici - ho cominciato a pormi delle domande su questa nuova competenza.
Da qui la necessità di attivare un confronto fra diverse opinioni provenienti da autorevoli esponenti di quel mondo coinvolgendo personalità che da diversi osservatori hanno maturato esperienze rilevanti, tale da fornire elementi di riflessioni, suggestioni, suggerimenti, prospettive ed orizzonti rispetto al “nuovo” che non ha trovato ancora pratica attuazione.
Da qui una prospettiva rivolta all’ascolto più che alla proposta.
Per fare questo torna ancora una volta utilissima la tecnica dell’intervista e dunque della predisposizione di un gruppo di domande intese a suscitare direttamente risposte e mediatamente riflessioni.
È però non lontano dal vero, per dirla con Gadamer[1] che, se si vuole comprendere il contenuto di una proposizione essa scaturisce dalla domanda, alla quale spetta il primato nella logica, al punto che la domanda stessa “è ancora una risposta”, rispondendo all’esigenza di una ricerca mossa da un ragionamento proposto a chi è intervistato. Il primato della domanda del quale il filosofo tedesco parlava rispetto alla proposizione intendeva significare che “quando si intende una domanda, non si può evitare di porla a sé stessi.” “Sia la domanda che la risposta, in quanto proposizioni, hanno dunque una funzione ermeneutica. Tutte e due sono un rivolgersi ad altri”. Al punto che è proprio questa prospettiva a garantire la “verità” “perché questa verità è sempre situata in un orizzonte, nel quale è incluso anche colui a cui è diretta la proposizione”.
Il lavoro che segue, in cui sono state nel tempo raccolte le impressioni di Ernesto Lupo, Giovanni Canzio, Renato Rordorf, Guido Raimondi, Gabriella Luccioli, Giacomo Fumu, Umberto Scotti, Giovanni Fiandaca, Antonio Ruggeri, Antonio Carratta, Tecla Mazzarese, Elena D’Alessandro, Mario Serio, Vincenzo Cuffaro e Claudio Scognamiglio è dunque una raccolta di tante “verità” sul tema, accomunate dall’obiettivo di stimolare il confronto.
Del resto, alla domanda su cosa sia la verità Gadamer risponde con questa espressione: “Verità significa non-essere-nascosto. Presentare ciò che non è nascosto, render evidente, questo è il senso del discorso”. Ed aggiunge, ancora: “Nel nostro continuo sforzo di intendere la verità, ci accorgiamo con stupore di non potere dire la verità senza interrogare, senza rispondere e quindi senza stabilire un accordo comune. L’aspetto più sorprendente del linguaggio e del dialogo è che io stesso, nel parlare con un altro, non sono legato a quello che penso, che nessuno di noi abbraccia l’intera verità nel suo pensiero, ma che pure l’intera verità può abbracciarci entrambi nel nostro singolo pensiero.”
È dunque con lo spirito di offrire al lettore un florilegio di “verità plurali” degli intervistati sul tema del ruolo della SSM nelle attività di preparazione degli aspiranti magistrati senza che questa possano rappresentare le conclusioni che si è andato componendo questo scrigno di idee, corredato e composto, in sequenza, da un essenziale quadro normativo di riferimento[2], dalle domande e dalle risposte.
Agli intervistati che hanno avuto la pazienza e la disponibilità di dedicare il loro tempo a questa iniziativa non può che andare un caloroso ed affettuoso ringraziamento che parte dal cuore e passa dalla ragione. r.c.
Domande
1. Trovi nelle innovazioni previste per il concorso di accesso la base di un nuovo modo di fare formazione per gli aspiranti magistrati?
2. Il senso del richiamo ai principi (dell'ordinamento, costituzionali, dell'Unione europea) non scompagina il quadro della formazione?
3. Nel campo civile e penale come si dovrebbe fare, secondo te, a formare gli aspiranti per garantire quel "ruolo del giudice" che sembra emergere, nettamente, dalle modalità di svolgimento delle prove. Un giudice partecipe, critico, attivo, nell'attuazione dei diritti?
4. Quali sono i punti di forza dei moduli formativi che la SSM in atto utilizza che, a tuo avviso, potrebbero rendere appetibile la partecipazione di aspiranti magistrati ai corsi di preparazione al concorso in magistratura da questa approntati?
5. Immagini che sia uno stesso docente a dovere seguire una parte dei programmi elaborati?
6. Chi, secondo te, dovrebbe elaborare questi programmi? Sarebbe opportuno nominare esperti formatori che appunto predispongano le linee generali dei corsi nelle tre materie?
7. I docenti dovrebbero farsi loro stessi carico di elaborare tracce scritte su temi specifici ovvero dovrebbero essere, secondo te, diverse professionalità capaci di correggere le tracce ed offrire spunti di interesse al discente anche in punto di correzioni? Insomma, come potrebbe declinarsi la figura di un tutor?
8. Pensi che la partecipazione a questi corsi potrebbe danneggiare la funzionalità degli uffici di appartenenza dei soggetti nominati e, a questo punto, questa nomina creerebbe problemi di coordinamento con il divieto, in atto vigente per i magistrati ordinari, di svolgere lezioni a corsi di preparazione al concorso in magistratura?
9. Quale tipo di sinergia dovrebbe crearsi fra l’Accademia, l’Avvocatura e la magistratura (CSM) per realizzare al meglio il compito affidato alla Ssm in materia? La da più parti prospettata osmosi fra Ssm e scuole di specializzazione per le professioni forensi ti sembra un obiettivo utile e, se sì, da realizzare con quali modalità?
10. Pensi che il corso debba sperimentare nuovi percorsi metodologici di apprendimento o abbia unicamente la finalità di raggiungere l’obiettivo del superamento delle prove di concorso?
11. Il metodo di apprendimento dovrebbe prediligere la formazione a distanza o in presenza?
12. Pensi che il corso debba prevedere un tirocinio pratico negli uffici giudiziari e/o negli studi professionali di avvocato?
Risposte
Ernesto Lupo, Primo Presidente emerito della Corte di cassazione
I corsi previsti dal nuovo titolo 1-bis del d. lgs. n.26/2006, introdotto dall’art.3 d. lgs. n.44/2024, sono del tutto nuovi rispetto alla attività finora svolta dalla Scuola, perché non attengono all’aggiornamento e formazione di coloro che sono già magistrati (art.1, comma 2, del citato d. lgs. n.26). Essi devono tendere al superamento del concorso, o, con maggiore precisione, al superamento delle prove scritte, ove avviene la vera selezione dei concorrenti. Effetto indiretto è, ovviamente, la preparazione anche per il superamento delle eventuali prove orali nelle stesse materie e l’apprendimento, più in generale, di un metodo di studio idoneo alla preparazione anche nelle altre materie. Unica aggiunta alle materie delle prove scritte (diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo, alla luce anche dei principi costituzionali e dell’Unione europea: art.5 del citato d.lgs. n.44/2024) mi sembra debba essere la deontologia e l’etica del magistrato: altrimenti non avrebbe senso l’affidamento del corso alla Scuola. Consegue che non sono utilizzabili i moduli formativi finora seguiti dalla Scuola.
Per l’idonea preparazione alle prove scritte del concorso sono essenziali due caratteristiche, assenti nelle scuole di specializzazione per le professioni forensi, che sono perciò fallite (i laureati che li frequentavano spesso erano iscritti anche a qualche scuola privata, mentre consideravano la scuola di specializzazione utile solo a conseguire il titolo per la partecipazione al concorso): a) la continuità didattica, b) l’effettuazione di numerosi compiti scritti (se possibile anche riproducendo le condizioni di tempo e di disponibilità di codici previste per le prove di esame), compiti che ovviamente vanno poi corretti.
La continuità didattica rileva ai fini della scelta dei docenti: uno (o al massimo due) per ogni materia, assistito dalle persone incaricate della correzione dei compiti, che devono essere da lui coordinate. La limitazione dei docenti deve consentire di realizzare anche un continuo colloquio tra discente e docente, sulla correzione dei compiti una volta effettuata, su qualsiasi domanda dello studente, ecc. Le linee generali dei corsi non dovrebbero essere molto complesse perché le prove di esame sono soltanto teoriche e la preparazione deve riguardare l’intera materia, studiata soprattutto dal punto di vista sistematico e nei principi generali. Il nuovo comma 3 del d. lgs. n.160/2006 dovrebbe evitare che si diano tracce di temi molto dettagliate, come è avvenuto negli anni recenti (spero che il CSM vigili sul rispetto della nuova disposizione). È più importante, mi sembra, il coordinamento dei diversi docenti, soprattutto della stessa materia (se, come è prevedibile, il corso sarà strutturato in diverse sedi). Imputerei questi due compiti (elaborazione delle linee generali e coordinamento dei diversi docenti) al comitato direttivo della Scuola, attraverso suoi componenti aiutati da qualche magistrato o docente esterno, stando attento a non coinvolgere molte persone perché la continuità didattica presuppone anche linee chiare e costanti.
I docenti potrebbero essere scelti anche tra i magistrati che siano recenti pensionati (non vi sono perciò compreso) con la voglia di continuare a studiare, selezionati ovviamente in modo da privilegiare la preparazione teorica rispetto alla esperienza pratica. Questa soluzione avrebbe il vantaggio di non sottrarre risorse alla attività degli uffici giudiziari, tenuto conto dell’impegno a tempo pieno che la docenza potrebbe o, a mio avviso, dovrebbe comportare.
Il numero e la localizzazione dei corsi dipendono dalla quantità dei discenti. Potrebbe essere prevista anche la partecipazione a distanza, potendosi presumere l’interesse dei partecipanti a seguire le lezioni. Esigerei invece la presenza per le lezioni relative alla deontologia dei magistrati, la quale, non essendo materia di esame, rischierebbe di non essere seguita “da remoto”.
Con riferimento alle domande sul punto, la natura soltanto teorica delle prove di esame rende non consigliabili un tirocinio pratico e l’osmosi con le scuole di specializzazione forense. Si può non condividere il mantenimento di un tipo di esame che era stato concepito con l’integrazione, dopo il tirocinio, delle prove pratiche (tre sentenze) dell’esame per aggiunto giudiziario, ma la realtà è che, per superare le prove scritte, occorre studiare sui libri di diritto (che oggi tengono conto anche della giurisprudenza) e acquisire un linguaggio tecnico idoneo a esporre chiaramente e organicamente argomentazioni giuridiche.
Giovanni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di cassazione
Ho riflettuto e provo a rispondere ai tuoi quesiti.
I tirocinanti e gli AUPP già vivono e operano insieme con i giudici e respirano ogni giorno l’aria della giurisdizione civile o penale. Non ritengo perciò proficua una loro separazione nei corsi della SSM aventi ad oggetto materie di diritto civile o penale oggetto della prova scritta per il concorso in magistratura. Agli esperti formatori sarà affidato il compito di inserire gli aspiranti in adeguati e specifici gruppi di lavoro, dove la ricchezza e la pluralità del dialogo cui parteciperanno potranno offrire loro importanti chiavi di lettura critica degli istituti e di logica del ragionamento per una esposizione chiara e incisiva. Ai candidati potrebbe essere affidato l’incarico di redigere sintetici report delle relazioni e degli interventi. Fatta eccezione per la materia del diritto e della giustizia amministrativa (ove occorre organizzare autonomi e dedicati corsi per gli aspiranti), sono quindi contrario a prassi e metodologie che vedano i candidati magistrati separati dai contesti e dalle esperienze ove si opera e si forma la comune cultura della giurisdizione. La SSM quindi come luogo di incontri qualificati e coesi, in cui si implementano le occasioni di ascolto studio ricerca riflessione crescita dei saperi del candidato.
Renato Rordorf, Primo Presidente aggiunto emerito Corte di Cassazione
1. Le prove di concorso prescritte dalla recente normativa non mi sembrano discostarsi di molto da quelle che già conoscevamo e sono propenso a credere che anche i criteri di giudizio che verranno applicati al riguardo dai futuri commissari d’esame non si discosteranno granché da quelli adoperati in passato. Il richiamo ai principi costituzionali mi appare oggi quasi un’ovvietà: nessun laureato in giurisprudenza dovrebbe ormai ignorare che la legge va interpretata ed applicata alla luce di quei principi e, quindi, un elaborato di concorso che mancasse di tenerne conto, quando l’argomento lo richieda, sarebbe già solo per questo insufficiente. E credo che lo stesso possa dirsi anche per i principi dell’Unione europea. I giudici nazionali dei paesi membri dell’Unione sono anche, com’è noto, giudici europei, chiamati perciò a dialogare con le corti di Strasburgo e Lussemburgo contribuendo con esse alla formazione del diritto vivente europeo. Come dubitare, allora, che chi ambisca a svolgere una tale funzione debba dar prova di conoscere anche i principi del diritto unionale e saperli coniugare con la normativa interna?
Per quanto appena detto, non credo proprio che il richiamo ai principi della Costituzione e dell’Unione europea “scompagini il quadro della formazione”. Anzi, mi sembra che ne costituisca un elemento fondamentale.
2. La questione, ovviamente, è qui da porre in relazione alla prospettiva didattica che il nuovo compito affidato alla SSM richiede. Ed allora, sintetizzando al massimo il mio pensiero, credo si dovrebbe porre l’accento soprattutto su quattro aspetti:
a. la necessità di intendere il ruolo del giudice in modo non burocratico e non meramente volto a realizzare una plausibile tecnica combinatoria delle diverse disposizioni normative applicabili ad una determinata fattispecie, bensì tendente ad un componimento degli interessi delle parti in causa che sia il più vicino possibile ad un criterio di giustizia (non soggettivamente inteso, ma ricavabile dai principi costituzionali e sovranazionali ai quali il nostro ordinamento di ispira);
b. il rifiuto da atteggiamenti esasperatamente formalistici, nella consapevolezza che le regole processuali sono ovviamente sempre da tenere ben presenti, ma che il giudice, se vuole essere fedele al compito affidatogli dalla società, deve fare ogni sforzo per riuscire a dare una risposta effettiva alla domanda di giustizia che gli viene rivolta;
c. l’attenzione ai precedenti, non perché li si debba sempre pigramente seguire, ma per valutarli criticamente (anche alla stregua delle specificità che ogni singolo caso presenta) ed eventualmente discostarsene solo se si è convinti di poter portare valide argomentazioni in contrario e di poterle adeguatamente motivare (e motivarle nel modo che sia il più comprensibile possibile anche per i non addetti ai lavori, ed anzitutto per le parti in causa);
d. il rispetto di tutti gli altri attori presenti sulla scena processuale, a cominciare dai difensori delle parti, evitando atteggiamenti arroganti e senza, perciò, la pretesa di “dare lezioni”, anche quando si debba rigettare una tesi difensiva più o meno audace, rimanendo sempre aperti alla discussione con i colleghi e pronti ad accettare opinioni diverse dalle proprie quando appaiono migliori.
Si capisce che dei corsi di preparazione ad un concorso debbono soprattutto fornire ai candidati gli strumenti tecnici più idonei a conseguire il risultato, ma credo che il compito formativo proprio della SSM non possa prescindere dal dare anche un minimo di indicazioni su come il futuro giudice possa essere all’altezza del ruolo che la società gli confiderà.
Mi sentirei, in generale, senz’altro di raccomandare la massima attenzione al ruolo di garanzia che non soltanto al giudice ma al magistrato in generale compete. Quanto al penale, sarebbe importante, a mio sommesso avviso, inculcare l’idea che il compito del giudice – ma anche del pubblico ministero – non è quello di combattere il crimine, bensì di garantire che la legge penale sia correttamente applicata, nel pieno rispetto tanto della indispensabile funzione punitiva (ma con finalità rieducative) dello Stato, quanto dei diritti di difesa dell’imputato e delle parti lese. La partecipazione anche di avvocati all’attività formativa dei futuri magistrati (di cui dirò poi) può assai giovare al raggiungimento di questo obbiettivo.
3. Non trovo facile rispondere neppure al quesito concernente i moduli formativi che potrebbero rendere appetibile la partecipazione di aspiranti magistrati ai corsi di preparazione al concorso in magistratura approntati dalla SSM.
Collegherei questo quesito a quello concernente la finalità dei corsi e, in particolare, se essi debbano soprattutto mirare all’obiettivo del superamento delle prove di concorso da parte dei candidati. Qui credo che davvero occorra fare un bagno di realismo. È indubbiamente auspicabile che il giovane laureato, il quale ambisca a diventare magistrato, avverta la necessità di un approccio non soltanto libresco alla professione, ma che ne intenda i valori e comprenda che l’esercizio della giurisdizione non si esaurisce nella meccanica applicazione di precetti legali che il magistrato deve ben conoscere. Tuttavia, l’esperienza delle molteplici organizzazioni di corsi di preparazione al concorso tenuti da privati dimostra che – del resto comprensibilmente – nell’aspirante magistrato fa sempre comunque premio la preoccupazione immediata di superare l’esame di concorso. Perciò, se la SSM vuole, meritoriamente, porsi l’obiettivo di competere con i corsi privati per fornire ai futuri magistrati una formazione più elevata e completa, non può trascurare che un tale obiettivo non è realisticamente raggiungibile se i corsi da essa tenuti non appariranno funzionali al superamento delle prove di concorso, quanto e più di quelli privati. Solo a questa condizione si potrà tentare di veicolare anche contenuti formativi di più alto livello.
Ciò premesso, mi pare che le modalità con le quali attualmente la SSM si rivolge ai magistrati già in servizio possano costituire certamente una buona base di partenza ma non sarebbero certo di per sé soli sufficienti, occorrendo anche insegnare ai candidati al concorso a cimentarsi con quel particolare esercizio che consiste nella redazione degli elaborati scritti: un esercizio tanto più necessario in quanto, per lo più, i neolaureati in giurisprudenza hanno con esso poca dimestichezza.
Fermo quanto sopra, sono convinto che il valore aggiunto dei corsi tenuti dalla SSM possa consistere anche nel fatto che, come poi dirò meglio tra un momento, i moduli formativi comprendano anche forme di tirocinio pratico e che si tengano anche lezioni su tematiche non sempre altrove adeguatamente approfondite, quali la teoria dell’interpretazione giuridica e la deontologia.
4. Mi sembra inevitabile che per ogni corso vi sia una pluralità di docenti, ma credo necessario che ad uno di essi sia affidato il compito di elaborare e poi coordinare le diverse attività del corso. Bisogna cercare di evitare il rischio, talvolta da me riscontrato nelle scuole di specializzazione forense postuniversitarie, di lezioni o iniziative didattiche affidate unicamente all’iniziativa di singoli docenti ma del tutto slegate tra loro. Tenuto conto della tripartizione delle prove di concorso, mi parrebbe opportuno designare tre coordinatori del corso – ai quali, volendo, si potrebbe anche dare il nome di esperto formatore o di tutor – rispettivamente incaricati di occuparsi dei settore civile, penale ed amministrativo, i quali dovrebbero farsi carico di elaborare i relativi programmi discutendone con i singoli docenti, previamente individuati (una sorta di collegio docenti), ed eventualmente aggiornandoli in fase di svolgimento. La correzione degli elaborati potrebbe esser affidata al docente che ne ha dettato la traccia (l’ideale sarebbe che gli elaborati fossero corretti collegialmente da tutti i docenti del settore, a guisa delle commissioni d’esame dei concorsi, ma temo risulterebbe troppo complicato). Il tutto, ovviamente, sotto la supervisione di un componente del direttivo della SSM, che potrebbe prendersi cura degli aspetti trasversali (quali ad esempio, quelli dell’interpretazione giuridica e della deontologia, già prima menzionati).
5. Provo a rispondere cumulativamente ai quesiti sulla collaborazione con le scuole di specializzazione forese, sulla designazione di magistrati come docenti e sulle possibili sinergie con l’avvocatura e l’accademia.
Sono assolutamente convinto della grande utilità di questa sinergia (ne ho già implicitamente fatto cenno prima, parlando della formazione del magistrato penale), ma resto dell’avviso che il nerbo dei docenti nei corsi affidati alla SSM debba esser formato da magistrati. Non perché siano più bravi degli avvocati o degli accademici, ma per la banale ragione che essi hanno avuto diretta e personale esperienza tanto delle prove di concorso quanto del successivo esercizio della professione alla quale i discenti vorrebbero accedere. La difficoltà derivante dalla disposizione che vieta ai magistrati ordinari la possibilità di svolgere lezioni nell’ambito di corsi di preparazione al concorso in magistratura mi sembra superabile con un’interpretazione che circoscriva la portata di tale divieto ai corsi privati, quella essendo – se non mi inganno – la ratio legis (si potrebbe eventualmente chiedere in proposito al CSM una delibera di indirizzo).
L’affidamento di tali docenze a magistrati comporterebbe, inevitabilmente, il loro (direi parziale) esonero dai compiti giurisdizionali, con conseguente sacrificio per le esigenze di funzionamento dei rispettivi uffici giudiziari. C’è poco da fare: la coperta è corta, ma credo ne valga la pena.
Ribadisco che la partecipazione ai corsi in veste di docenti anche di avvocati ed accademici sarebbe molto utile: quella degli avvocati per abituare i futuri magistrati a tener conto del punto di vista dell’altra fondamentale componente del mondo forense; quella degli accademici (spesso, del resto, a loro volta anche avvocati) per il necessario contributo di dottrina cui attingere nell’elaborazione delle prove di concorso.
Ho invece qualche per perplessità quanto alla prospettata osmosi con le scuole di specializzazione per le professioni forensi. L’idea di una formazione comune di magistrati ed avvocati (e magari anche notai), alla maniera di quel che accade in Germania, è in teoria molto affascinante, ma di assai difficile realizzazione allo stato del nostro ordinamento. Non mi è perciò ben chiaro come una l’anzidetta osmosi si potrebbe in concreto realizzare, anche in considerazione della diversa dislocazione geografica delle sedi universitarie che ospitano le scuole di specializzazione.
Aggiungo che, benché la mia personale esperienza con riguardo alle scuole di specializzazione forense sia alquanto risalente nel tempo, ho l’impressione che i risultati da esse conseguiti in questi anni siano molto diseguali e, nel complesso, non del tutto soddisfacenti: forse anche a causa del fatto che i docenti accademici tendono a considerare il relativo impegno come secondario rispetto ai loro tradizionali compiti universitari. Naturalmente ciò non toglie che sarebbe invece assai opportuno tenere aperto un dialogo con gli ordini professionali, ed in particolare col Consiglio nazionale forense, per possibili scambi di esperienze.
6. Quanto, infine, alla modalità di svolgimento dei corsi, privilegerei senz’altro le lezioni in presenza, che rendono più facile e sciolto il dialogo tra docente e discenti, molto importante soprattutto quando si tratta di trasmettere delle esperienze prima ancora che delle nozioni. L’uso degli ormai consueti mezzi di comunicazione a distanza può ovviamente servire, ma dovrebbe avere carattere accessorio.
Come ho già accennato, sarei senz’altro favorevole a che i corsi diano spazio anche a momenti di tirocinio pratico, la cui utilità credo sia dimostrata dagli stage fatti in uffici giudiziari da molti giovani laureati entrati poi in magistratura. È ben vero che le prove da superare per vincere il concorso conservano un carattere eminentemente teorico, ma sovente i temi proposti sono modellati su noti precedenti giurisprudenziali e le commissioni di esame sono in prevalenza composte da magistrati, abituati a confrontarsi col diritto vivente. Pertanto, anche a prescindere dall’utilità formativa del praticantato in vista del successivo esercizio della funzione di magistrato, mi pare che esso possa risultare utile pure al superamento delle prove d’esame ed altresì a comprendere in cosa davvero consiste la professione che un giovane neo-laureto aspira ad intraprendere e se egli sia fino in fondo persuaso di questa scelta di vita. Per questa ragione mi parrebbe preferibile che il tirocinio pratico degli aspiranti magistrati sia svolto presso uffici giudiziari e non presso studi di avvocato.
Guido Raimondi, Presidente emerito della Corte europea dei diritti dell’uomo, già Presidente titolare della Sezione Lavoro della Corte di cassazione
1. Direi che con le nuove norme si recupera un po’ lo spirito del concorso in magistratura quale era ai tempi della mia laurea (1975). Quando si considera funzione prevalente della prova scritta quella di “verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati”, credo si voglia privilegiare l’esigenza di una solida preparazione dei candidati a livello istituzionale, e la loro capacità di ragionamento, piuttosto che la loro conoscenza specialistica. Troppe tracce, nei concorsi degli ultimi anni, presupponevano nozioni specialistiche, se non la padronanza dei temi trattati in specifiche e complesse recenti sentenze delle Sezioni unite civili e penali della Corte di cassazione e dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Chiaramente i corsi non dovranno trascurare la giurisprudenza recente delle supreme giurisdizioni, ma credo che l’accento dovrà essere posto sulla completezza e la solidità di una preparazione istituzionale nelle tre materie oggetto delle prove scritte.
2. Non credo che il richiamo ai principi (dell'ordinamento, costituzionali, dell'Unione europea) scompagini il quadro della formazione. La dimensione costituzionale, quella del diritto dell’Unione europea, e anche quella della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che mi sembra implicitamente richiamata attraverso il riferimento all’Unione europea (art. 6.3 Trattato Unione europea) sono oramai un elemento imprescindibile nell’apprendimento di tutte le materie di diritto interno, in particolare delle tre che formano oggetto delle tre prove scritte, per cui credo che anche senza il richiamo del legislatore tutte queste dimensioni sarebbero da integrare nei futuri programmi formativi relativi ai corsi di preparazione al concorso.
3. Effettivamente dal modo nel quale il legislatore configura le prove scritte emerge l’esigenza di un giudice, come dici tu, “partecipe, critico, attivo, nell'attuazione dei diritti”. Non limiterei però questa esigenza al settore penale, ma la vedrei dispiegarsi a tutto campo in tutte le possibili attività del magistrato. Capisco che in materia penale l’attività del giudice incide più direttamente nella sfera personale dei soggetti interessati, con effetti potenzialmente devastanti, per cui questa esigenza è avvertita in modo più intenso. Credo che in tutti campi, ma probabilmente maggiormente nel settore penale, il percorso formativo debba avere cura di coltivare il messaggio della natura “umanistica del diritto”, cioè della finalità ultima di questo, che è quello di protezione sì della società, ma anche – almeno in un ordinamento come il nostro, per come è stato configurato dalla Costituzione – della persona umana e della sua dignità. Soccorre qui il riferimento che facevo all’inizio all’opportunità di integrare nei percorsi formativi la dimensione etica e quella deontologica.
4. Non posso dire di avere una conoscenza approfondita dell’offerta formativa dalla SSM. Credo però, anche in considerazione della natura specialistica di almeno la maggior parte dei moduli esistenti, che occorra progettare dei moduli totalmente nuovi, mirati, per quanto dicevo prima, al conseguimento di una solida e completa preparazione istituzionale, per cui i candidati siano effettivamente messi in grado di impadronirsi – a livello istituzionale, ma con completezza – delle materie di esame.
5. La domanda sul se debba essere uno stesso docente a dovere seguire una parte dei programmi elaborati è difficile, anche perché è legata a quella successiva sulla funzionalità degli uffici e quindi al possibile gravoso impegno per i colleghi che saranno coinvolti come docenti. Direi che, anche alla luce di quanto già detto sull’orientamento della formazione, sono evidenti i vantaggi dell’affidamento a un numero ristrettissimo di docenti (idealmente solo uno) di ciascuna delle tre materie oggetto di prova scritta. Una visione frammentata di ciascuna materia non sarebbe funzionale all’acquisizione di quella preparazione “solida e completa” cui accennavo. Per questa ragione la mia preferenza sarebbe per la scelta di docenti provenienti dall’università, da individuare in seno al Comitato direttivo. L’unico criterio dovrebbe essere quello della “chiara fama”; eviterei procedure concorsuali, a meno che non se ne possa fare a meno normativamente. L’opinione maggioritaria del Comitato dovrebbe essere una garanzia sufficiente. Il sistema della cooptazione avrebbe il vantaggio di evitare la presentazione di candidature, fonte di frustrazione per gli esclusi.
6. Sempre per le stesse ragioni legate all’orientamento generale del percorso formativo – nella mia prospettiva - credo sia veramente opportuno, ferma restando la necessità di accordare un minimo di libertà ai docenti che saranno poi nominati (nella mia prospettiva, pochissimi e luminari riconosciuti nelle loro materie), predisporre le linee generali dei corsi nelle tre materie. La libertà dei docenti non potrà essere assoluta, nel senso che i programmi dovranno garantire quella preparazione “solida e completa” più volte menzionata. Quindi sarei d’accordo sull’idea di nominare a questo scopo esperti formatori. Mi permetterei però di sottolineare l’opportunità che si tratti, anche qui, di accademici di chiara fama, dello stesso livello di quelli che saranno poi chiamati alla docenza.
7. La figura del tutor mi sembra indispensabile. Ce ne vorrebbe forse più d’uno per ciascuna materia (con specializzazioni diverse). Mi sembrerebbe però altrettanto necessaria una loro subordinazione ai docenti veri e propri. I tutor potrebbero coadiuvare i docenti nella scelta dei temi e nella correzione degli elaborati, ma le decisioni finali dovrebbero appartenere ai docenti, pochi e, auspicabilmente, eminenti.
8. Come dicevo, la mia preferenza sarebbe per docenti di provenienza accademica (immagino che la magistratura associata non sarebbe d’accordo), scelta che ovviamente taglierebbe in radice i problemi evocati. In ogni caso, la partecipazione di colleghi ai corsi su base puntuale, coordinata dai docenti, non sarebbe da escludere e sarebbe anzi auspicabile. Non credo che il divieto per i magistrati ordinari di svolgere lezioni a corsi di preparazione al concorso in magistratura, evidentemente disegnato per le scuole private, possa aver alcun effetto rispetto ai futuri corsi della SSM.
9. Naturalmente ogni forma di collaborazione e di consultazione tra tutte le entità menzionate è assolutamente opportuna, come pure la tensione verso la costruzione di una cultura comune, nella diversità dei ruoli, tra tutti gli operatori del diritto. Francamente però credo che la responsabilità finale dei futuri corsi, a tutti livelli, di ideazione, di programmazione e di realizzazione, debba restare saldamente nelle mani della SSM. Questo vale anche relativamente ai rapporti con il CSM, la cui voce deve essere ovviamente ascoltata, ma in un quadro nel quale le decisioni finali è opportuno che siano vostre, quelle cioè di una istituzione la cui vocazione è essenzialmente culturale.
10. Non mi pare che la possibile sperimentazione di nuovi percorsi metodologici sia, in sé, in contraddizione la finalità di raggiungere l’obiettivo del superamento delle prove di concorso. A meno che la domanda non sconti il rischio che i possibili nuovi percorsi metodologici siano di ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo; se è così, hai già la mia risposta: la finalità principale è quella del raggiungimento dell’obiettivo.
11. Anche la domanda sul metodo di apprendimento --formazione a distanza o in presenza-è particolarmente difficile. Ovviamente la formazione in presenza è, in sé, da preferire. Il rischio è quello di escludere potenziali candidati per ragioni essenzialmente economiche, il che andrebbe esattamente contro quanto dicevo prima sulla mobilità sociale. Anche la moltiplicazione dei corsi sul territorio sarebbe da evitare, a mio sommesso giudizio, per le considerazioni che facevo sull’eccellenza dei docenti. Forse bisognerebbe pensare, oltre che a un sistema di borse di studio, a una modalità mista, che consenta di seguire i corsi a distanza a chi non può farlo in presenza.
12. Penso, infine, che il corso per aspiranti magistrati non debba prevedere un tirocinio pratico negli uffici giudiziari e/o negli studi professionali di avvocato. La pratica verrà dopo. Prima bisogna vincere il concorso.
Gabriella Luccioli, già Presidente titolare prima sezione civile della Corte di cassazione
Nello svolgere qualche rapida considerazione in risposta ai molti e complessi quesiti rivoltimi da Roberto osservo innanzi tutto in via generale che i nuovi compiti attribuiti alla SSM dall' art. 3 del d.lgs. n. 44 del 2024 chiamano in causa la capacità dell’istituzione di fornire ai discenti strumenti di conoscenza che non possono identificarsi con quelli generalmente adottati dalle scuole private. Viene qui in gioco non tanto la idoneità a far superare le prove di concorso, e soprattutto quelle scritte, sulla base di pronostici più o meno plausibili circa la scelta dei temi, ma la finalità di fornire agli aspiranti magistrati un metodo di lavoro, una capacità di inquadramento teorico- sistematico delle questioni, una visione generale dei grandi principi che sono alla base dell’ordinamento costituzionale ed europeo. In questa impostazione ampio spazio dovrebbe essere assegnato al diritto dell’Unione europea e a quello internazionale, nonché al dialogo tra le varie Corti.
A tale impegno dovrebbe associarsi quello di insegnare la deontologia e l’etica del magistrato, con opportuni approfondimenti sia in tema di responsabilità disciplinare sia sulla natura e la funzione del codice deontologico.
Nessun rischio quindi di concorrenza con l’attività delle sempre più numerose ed attrezzate scuole private, perché ben diverso è il ruolo della Scuola in ogni momento della sua attività formativa.
Occorrerà sottoporre i discenti a numerose prove scritte, onde abituarli a scrivere di diritto ovviando alle carenze della formazione universitaria.
È importante, inoltre, che venga trasmessa ai giovani la consapevolezza del ruolo del giudice, della sua funzione di garante dei diritti costituzionalmente garantiti, della necessità di fornire una risposta di giustizia anche quando il legislatore è silente.
È importante anche che essi conoscano i precedenti non per restarne inesorabilmente vincolati, ma per saggiarne l’attualità e la valenza in un contesto sociale e culturale in piena evoluzione.
È importante ancora che riconoscano il valore della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni, ma siano capaci di affrontare con coraggio le nuove sfide che attendono i giudici soprattutto in materia di diritti fondamentali.
È altresì importante che introiettino il rispetto di tutti gli attori del processo, che riconoscano la funzione fondamentale del difensore ed imparino a coltivare l’ascolto di tutte le opinioni, anche di quelle che appaiono le più lontane.
2. Come ha osservato in un suo scritto Costantino De Robbio, un corso adeguato richiede un programma che si sviluppi almeno per un anno, con lezioni a cadenza bisettimanale. Nell' alternativa tra lezioni in presenza o a distanza, sono senz' altro favorevole alla prima ipotesi, che consente prestazioni molto più coinvolgenti e controllabili.
Gli esperti formatori dovrebbero essere distaccati presso la SSM, come avviene nel sistema francese, e predisporre le linee generali dei corsi.
Nell’ambito delle linee generali tracciate dagli esperti formatori i corsi dovrebbero essere affidati a docenti, uno per ciascuna delle materie scritte, in grado di assicurare la continuità ed il rispetto dei programmi, di elaborare tracce, individuare temi specifici e garantire la correzione delle prove scritte. Come è evidente, si tratta di un impegno gravoso, che non può cumularsi con il normale lavoro dei magistrati in servizio. Ad una opportuna riduzione per questi del carico di lavoro potrebbe associarsi un’ampia utilizzazione di magistrati in pensione, specie di quelli che hanno lasciato la magistratura da poco tempo e che hanno tenuto in passato corsi di formazione. La scelta di magistrati in pensione eviterebbe ovviamente ripercussioni sulla funzionalità degli uffici giudiziari. L' attività di ogni corso dovrebbe poi esser sottoposta alla supervisione di un componente del direttivo della Scuola. Escluderei senz' altro l’operatività del divieto di legge per i magistrati di svolgere lezioni ai corsi di preparazione ai concorsi, stante la natura istituzionale della SSM.
Credo che i moduli formativi ora adottati per i magistrati possano essere utilizzati anche su questo fronte, con le opportune integrazioni rese necessarie dalle descritte finalità dei corsi.
La sinergia tra accademia, avvocatura e magistratura sarebbe realizzata con la nomina di docenti di tutte le categorie.
Ritengo infine estremamente utile la previsione di un periodo non eccessivamente lungo di tirocinio pratico negli uffici giudiziari, da ritenere preferibile, anche per motivi di controllo e di ampiezza dell’esperienza, a quello presso studi legali.
Giacomo Fumu, già Presidente titolare quarta sezione penale della Corte di cassazione, già Presidente della Commissione di concorso per l’accesso in magistratura (D. M. 29.10.2019 e, in precedenza, D. M. 25.10.2006)
Innovazioni secondo le nuove regole: si amplifica la platea dei concorrenti; dunque, non è più necessaria una formazione “rafforzata” da esperienze professionali “specifiche” dopo la laurea; è richiesta quindi una preparazione solo teorica (essenzialmente teorica) quale solo può essere quella di chi è appena uscito dall’università (ove, peraltro, non si impugna mai la penna per sperimentare e affinare la capacità espositiva).
Comunque, una preparazione solamente teorica è quella che è stata finora sufficiente (utile) per affrontare il concorso e adeguatamente redigere la relativa prova scritta.
Prima delle recenti nuove disposizioni si possono registrare in tal senso le norme speciali varate ai tempi della pandemia, e cioè l’articolo 11 del decreto-legge numero 44 del 2021 e l’articolo 2 del decreto-legge numero 118 del 2021 nei quali espressamente si richiedeva ai candidati (riducendosi il tempo dello svolgimento della prova rispettivamente a 4 e 5 ore) l’elaborazione di “ sintetici elaborati teorici” e si prescriveva alla commissione di tenere conto in sede di correzione “ delle capacità di sintesi nello svolgimento degli elaborati”.
Le stesse norme prevedevano che le commissioni di concorso nella formulazione dei criteri per la valutazione omogenea degli scritti, dovessero tenere conto “della capacità di sintesi manifestata dal candidato”.
Nella elaborazione dei predetti criteri le ultime commissioni che hanno pubblicato il relativo provvedimento nel sito del ministero (in allegato) hanno posto l’accento proprio sulla dimostrazione di conoscenza degli istituti oggetto delle tracce e dei principi fondamentali della materia.
Dunque, preparazione teorica come base per il superamento del concorso sulla quale innestare la successiva formazione iniziale ad opera della Scuola nel corso del tirocinio. Concluderei sul punto osservando che l’obiettivo della formazione e le modalità di preparazione non sono innovati dai recenti interventi legislativi.
La conoscenza dei ed il riferimento ai principi dell’ordinamento, costituzionali, dell’unione europea (ed il Consiglio d’Europa?) hanno necessariamente sempre fatto parte del bagaglio di conoscenza richiesto al candidato. Per esempio, nel recente concorso da me presieduto è stata molto apprezzata, con riferimento al quesito sulla natura della responsabilità delle persone giuridiche, la discussione sul concetto di sanzione penale come elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Il concorso ha lo scopo di selezionare i giovani giuristi (i migliori giovani giuristi) destinati a svolgere la funzione di magistrato, la introduzione alla quale è compito della Scuola nel corso del tirocinio. Sono del parere che la preparazione al concorso si debba concentrare sulla formazione teorica, cioè sulla conoscenza degli istituti e, in particolare, dei loro collegamenti che il sistema inserisce e pretende per realizzarne l’unità.
Nei corsi svolti a Scandicci per i magistrati in tirocinio ho molto apprezzato e ritenuto utilissimi i seminari riservati ad un numero ristretto di partecipanti con la possibilità per ciascuno di interloquire. In questo ambito è destinata a produrre buoni frutti la discussione sugli argomenti ed il commento, da parte del tutor, sullo svolgimento dei “temi” assegnati in prova ai discendenti, ferma restando la necessità della interlocuzione privata fra tutor e allievo sulle questioni (pregi e difetti) più specifiche poste da ogni elaborato.
La medesimezza del docente è fondamentale. Si deve creare un rapporto personale fra docente ed allievo. Ciò implica la organizzazione di corsi con un numero ragionevole di partecipanti ed un docente – tutor - per ogni settore, con tuttavia fondamentali rapporti e sinergie fra gli esperti nelle differenti materie di prova scritta, i quali devono garantire l’insegnamento e l’apprendimento del sistema nella sua globalità e nelle sue connessioni (anche con riferimento ai principi costituzionali e dell’Unione europea, senza escludere direi quelli del Consiglio d’Europa).
Ritengo necessaria la nomina di esperti formatori che predispongano programmi e caratteristiche generali dei corsi nell’ambito delle linee guida dettate dalla Scuola, fermo restando che devono essere individuati “formatori” veramente “esperti” nella preparazione del concorso e quindi alieni dal replicare la fallimentare esperienza delle scuole di specializzazione per le professioni legali, che si sono risolte in una ripetizione disorganica dei corsi universitari, per di più affidata a docenti operanti senza un vero coordinamento tra loro.
La preparazione finalizzata a sostenere una prova di concorso così impegnativa è cosa diversa assai da un “ripasso”, seppur approfondito. È non solo studio e conoscenza, ma sviluppo della capacità di inquadramento della questione proposta, di ragionamento e lucido esame degli argomenti da trattare, di esposizione chiara e sintetica dei concetti.
Ecco perché è fondamentale il contatto frequente e diretto con il tutor che queste capacità deve sviluppare conoscendo il suo allievo. Non bastano docenti “random”.
7. Per rispondere al quesito mi richiamo a quanto detto finora. Gruppi non numerosi di discenti, tutor “dedicato” che formula le tracce, seguendo anche l’evoluzione del corso e degli argomenti trattati, che corregge gli elaborati discutendo collegialmente con il gruppo i tratti generali (eventuali mancanze) dei vari elaborati e con il singolo gli aspetti più particolari.
Così il tutor conosce meglio ogni allievo e costruisce “su misura” i suoi interventi.
8. Certamente un tutor è molto assorbito dal lavoro “sul campo”. Lo svolgimento delle lezioni, dei seminari con partecipazione collegiale degli allievi, lo studio per la preparazione delle tracce, la correzione dei compiti sono impegni direi quasi “totalizzanti”.
Dunque, mi sembra che l’ufficio giudiziario di appartenenza del tutor risenta necessariamente dell’attività così gravosa svolta da un suo componente.
Peraltro, non vedrei ostacoli nel divieto posto a carico dei magistrati per lo svolgimento di attività di preparazione al concorso.
La nuova legge (articolo 17 septies somma 2 dlgs 26/06) indica come docenti gli iscritti all’albo esistente presso la Scuola superiore, senza nessuna esclusione.
Inoltre, è pacifica la differenza fra chi insegna “in privato “, cioè sostanzialmente in forma professionale e commerciale e chi opera all’interno di un ente pubblico senza scopo di lucro. Solo ai primi è evidentemente rivolto il divieto.
9/12. Direi che la fallimentare esperienza delle scuole di specializzazione, frequentate solo per i bonus derivanti dal titolo e non per stimoli culturali (tanto che si sommava regolarmente la frequentazione di una scuola privata), ci induce a pensare di non replicarne l’esperienza e di non chiederne la collaborazione.
Avvocatura e magistratura potrebbero certo fornire validi docenti: ma attenzione - e qui rispondo anche al quesito numero 12 - con il concorso in magistratura si selezionano giuristi (giovani giuristi) che conoscano il sistema e su questo e attraverso questo sappiano ragionare e quindi affrontare qualsiasi questione giuridica, con l’aiuto delle norme (codici sono consultabili) e della preparazione generale.
Del tutto inutile che conoscano prima, frequentando uffici giudiziari e studi legali, la realtà dei decreti ingiuntivi o dei sequestri per equivalente; è la stessa ragione per cui non serviva a nulla al fine di preparare il concorso il tirocinio (allora abilitante) presso gli uffici: è la conoscenza del sistema, insieme alla capacità di inquadrare nel suo interno gli istituti, che consente al candidato di mostrare la completezza della preparazione, la razionalità dell’esposizione e l’adeguatezza del linguaggio, ciò che serve a superare la prova.
10. Il corso deve servire a sviluppare capacità e conoscenze, a formare con metodo costante giovani giuristi che possano, preparati e consapevoli, superare il concorso e quindi affrontare con solide basi il tirocinio (nella Scuola e negli uffici giudiziari) che li forgi anche come magistrati.
11. Da quanto precede è chiaro che opto per la formazione in presenza, con il contratto empatico fra docente (tutor) e discente.
Se saltiamo il rapporto “fisico” e costante fra tutor e allievo torniamo alla scuola di specializzazione ed alla sua sostanziale inutilità.
Umberto Scotti, già Consigliere delle Sezioni Unite civili e della prima sezione civile della Corte di Cassazione
A mio parere il modulo formativo da privilegiare è quello basato sul metodo dell’esperto formatore che coordina un gruppo di relazioni c.d. «frontali» su argomenti di attualità legati a un grande tema o macroarea del diritto civile, penale e amministrativo (per esempio, quanto al civile: diritti reali, obbligazioni e contratti, responsabilità civile, società associazioni e consorzi, diritti della personalità…).
I temi delle relazioni dovrebbero essere basati sugli sviluppi più recenti della giurisprudenza (per esempio pronunce delle Sezioni Unite o delle Corti europee o nuove questioni agitate nella giurisprudenza di merito).
Escluderei il metodo dei gruppi di lavoro.
Viceversa, mi parrebbe opportuno assegnare successivamente alle lezioni almeno un compito scritto per ciascuna macroarea soggetto a correzione.
Le figure professionali che occorre coinvolgere sarebbero quindi:
a) l’esperto formatore (EF)
b) il relatore sul singolo tema
c) il tutor correttore di temi scritti
Tali soggetti potrebbero in parte anche coincidere.
Secondo me la formazione dei programmi, nel senso della individuazione delle macroaree e degli esperti formatori, dovrebbe competere alla Scuola o a un responsabile generale da essa individuato.
Gli EF dovrebbero invece organizzare il programma per la loro macroarea.
Gli EF dovrebbero organizzare il corso per la loro macroarea, scegliere i temi e individuare i relatori da sottoporre all’approvazione della SSM o di chi per essa.
A mio parere le tracce dovrebbero essere scelte dall’EF con la collaborazione dei relatori scelti.
La correzione delle tracce dovrebbe essere affidata ad alcuni tutor che potrebbero coincidere con EF, relatori, della macroarea, ma potrebbero (e probabilmente dovrebbero per ragioni numeriche) essere anche ulteriori soggetti, caratterizzati da una specifica professionalità (magistrati ed ex magistrati con esperienze di formazione o di membro di commissione d’esame, ad esempio).
Ci dovrebbe essere un momento iniziale di coordinamento per concordare i criteri di correzione delle tracce.
Per risultare efficaci i tutor non dovrebbero avere che un gruppo relativamente ridotto di temi da correggere e di studenti da assistere (in un eventuale momento esplicativo delle correzioni).
Non credo che ci possa essere alcuna incompatibilità quanto allo svolgimento dell’attività di formatore ai corsi per aspiranti, ma se dubbio vi fosse va risolto normativamente.
Certamente si può fare in parte affidamento anche sugli ex magistrati, ma bisogna coinvolgere assolutamente anche i magistrati in servizio, soprattutto quelli con esperienze di formazione e i magistrati di legittimità, e non restringere la platea dei collaboratori a soli relatori provenienti dall’Accademia o dal Foro.
Per i magistrati in servizio la linea di compatibilità da seguire mi pare che dovrebbe essere quella in atto per le altre collaborazioni alle attività della SSM.
Accademia e Avvocatura dovrebbero essere coinvolte nella scelta dei relatori ma non nella individuazione dei programmi, che direi che dovrebbe competere alla SSM nella sua equilibrata composizione prevista dalla legge.
Quanto alle modalità di formazione ed alla sperimentazione di nuovi percorsi metodologici di apprendimento, direi essenzialmente, seppur non unicamente. La sperimentazione di nuovi metodi può essere utile, ma l’interesse principale dei giovani discenti è quello della partecipazione e del superamento del concorso in magistratura. Per le relazioni frontali sarebbe meglio la partecipazione in presenza, ma credo che per essere efficace si dovrebbe virare sulla partecipazione a distanza o almeno adottare un metodo misto.
La qualità e il livello del corso, così come pure gli oneri organizzativi, ne risentirebbero negativamente se si dovesse frammentare l’attività in troppe sedi territoriali.
A mio parere, sarebbe il caso di organizzare le lezioni in presenza in posti diversi facilmente accessibili in modo itinerante (qualche volta a Milano, qualche volta a Roma, qualche volta a Napoli, per esempio) con collegamento da remoto per gli altri discenti.
L’interlocuzione per la correzione dei temi dovrebbe avvenire per iscritto e via Teams.
Quanto al tirocinio pratico non lo credo essenziale. Lascerei che l’integrazione avvenga in via di fatto.
Giovanni Fiandaca, emerito di Diritto penale Università di Palermo
Premetto che le mie risposte – che seguiranno in un ordine tendenzialmente corrispondente a quello delle domande – sono certamente influenzate da due convinzioni, che ho maturato da tempo. La prima è che il tradizionale concorso di accesso alla magistratura sia del tutto inidoneo a verificare la preparazione e le attitudini dei giovani aspiranti a rivestire il ruolo di magistrato, per cui a mio avviso piccoli aggiustamenti della prova concorsuale non sono sufficienti a produrre i miglioramenti che sarebbero necessari. La seconda convinzione è che la preparazione e la formazione dovrebbero essere concepite e impartite nella maniera meno settoriale e autoreferenziale possibile, il che vuol dire con una compartecipazione equilibrata di tutti i soggetti (professori di diritto, magistrati e avvocati) che concorrono alla gestione del diritto quale impresa collettiva, senza che nessuna parte possa unilateralmente pretendere di esserne padrona. Da questo punto di vista, che alla SSM come tale sia assegnato anche il compito di svolgere corsi di preparazione al concorso in magistratura non mi sembra la migliore delle soluzioni possibili per i rischi, appunto, di eccessiva autoreferenzialità culturale e tecnica che ciò comporta.
Fatte queste premesse, rispondo alle domande specifiche.
1. La innovazione prevista dal decreto legislativo n. 44/2024, secondo cui la prova scritta ha la prevalente funzione di verificare "la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati, alla luce dei principi generali dell'ordinamento" e anche "alla luce dei principi costituzionali e dell'Unione europea", mi sembra in sé positiva a condizione di intenderla bene; vi sono anche rischi di fraintendimento, stante anche la notevole genericità della formula adottata. Si tratta a mio avviso senz'altro di un passo avanti rispetto a una prassi concorsuale che, come era ripetutamente avvenuto nel corso degli ultimi anni, tendeva a incentrare la prova scritta su micro-questioni molto specifiche, desunte da decisioni giurisprudenziali più o meno recenti: per cui la previa conoscenza da parte del candidato della problematica applicativa in questione spesso era frutto, piuttosto che di una preparazione approfondita e di ampio respiro, dell'essersi casualmente (e fortunosamente) imbattuto nel repertorio o nella rivista in cui veniva riportata.
Ma in che misura si tratti di un autentico progresso dipende, a mio giudizio, da come si intenda la capacità di "inquadramento teorico-sistematico" e di argomentare in base ai principi. Se l'idea sottostante fosse quella di riesumare modelli di astratta teorizzazione sistematica e di dogmatica concettualistica divenuti ormai obsoleti anche in sede accademica, si tratterebbe di un regresso. Limitando ad esempio il discorso al settore di mia competenza, non dico certo qualcosa di nuovo se rilevo che un sistema penale rigorosamente inteso non esiste più da tempo quale riflesso più o meno diretto di un diritto legislativo organico e coerente nelle sue varie parti, per cui si è invece assistito nel corso del tempo a una progressiva disintegrazione sistematica: sicché l'approccio teorico degli studiosi non pretende più di desumere dal diritto positivo una sistematica generale sulla base di categorie concettuali astratte, bensì tende a utilizzare i principi di fonte costituzionale ed europea per riconcepire i diversi istituti su di una base più principialista che legalistico dogmatica. È a questo mutato quadro dottrinale di riferimento che dovrebbe, dunque, essere rapportata anche la valutazione della capacità degli aspiranti magistrati di inquadramento teorico- sistematico e di argomentare in base ai principi. Con una integrazione però, a mio avviso indispensabile. Nel riconcepire cioè la prova scritta di diritto penale non si dovrebbe mai perdere di vista che gli inquadramenti teorici e l'impiego dei principi non sono fine a se stessi, ma sono pur sempre funzionali all'attività di sussunzione dei casi concreti sotto fattispecie incriminatrici o istituti di portata generale: per cui si dovrebbe altresì verificare, in sede di valutazione della prova, l'ulteriore capacità del candidato di utilizzare le premesse generali di partenza in vista della soluzione di questioni interpretativo-applicative di portata più specifica.
Una prova concepita su questa doppia falsariga consentirebbe infatti di valutare, oltre alla preparazione libresca a carattere teorico, la capacità personale di far interagire teoria e prassi applicativa.
Non so, poi, quanto sia possibile ricavare da queste rinnovate modalità di svolgimento delle prove un preciso modello (idealtipico) di giudice. A influenzare e caratterizzare i diversi modelli possibili di magistrato concorrono un insieme eterogeneo di fattori (anche di natura sistemica esterna), che ben trascendono le aspettative implicite nel tipo di esame concorsuale. Una cosa però, almeno, mi sembra certa: una prova scritta riveduta nel senso sopra auspicato non sarebbe coerente con un modello di giudice passivo, servo acritico (se non sciocco) del dettato legislativo.
2.Non ho avuto molte occasioni, in tempi recenti, di partecipare come docente a corsi di formazione organizzati dalla SSM, per cui anche per questo mi manca una sufficiente conoscenza di moduli formativi che meriterebbero di essere replicati anche nell'ambito di corsi di preparazione per aspiranti magistrati. In base alla mia passata esperienza di partecipazione a iniziative di formazione, ho peraltro maturato la convinzione che non fosse felice e produttivo il modello tradizionalmente consolidato di far interagire docenti universitari e magistrati, vale a dire con I' anticipazione all'inizio di ogni corso della dimensione teorica affidata ai primi e la successiva dimensione pragmatico-applicativa di competenza dei secondi: con questo tipo di distinzione di competenze i professori rischiano di assumere il ruolo di dotti introduttori con prevalente funzione esornativa, mentre la parte effettivamente rilevante del corso finisce con l'essere quella gestita soprattutto dai magistrati. Insomma, teoria e prassi, lungi dal comunicare realmente, restano così due circuiti separati che nella sostanza finiscono con l'ignorarsi. Non so se questo schema, secondo me abbastanza discutibile, abbia subìto modifiche grazie a nuovi moduli formativi che però non mi sono noti.
3. In linea di massi ma, sono contrario a una accentuata suddivisione dei ruoli e dei compiti, che comporta frammentazione e rischia di compromettere una visione unitaria di sintesi. Di conseguenza, non vedrei con molto favore l'attribuzione ad esperti formatori del compito di predisporre le linee generali programmatiche dei corsi, che poi spetterebbe ai docenti specificare e concretizzar e. E, d'altra parte, ritengo che docenti di verificata bravura ed elevata competenza siano in grado di elaborare programmi generali, e che sia anche opportuno che ne seguano in qualche misura la messa in opera.
4. In base a quanto ho poco prima rilevato, penso che l'elaborazione delle tracce dei tempi possa essere effettuata dagli stessi docenti.
5. Non appartenendo all'ordine giudiziario, non dispongo di dati empirici di conoscenza per rispondere con cognizione di causa all'interrogativo se la nomina anche di magistrati come docenti possa pregiudicare il funzionamento degli uffici di ap partenenza. Non vedrei invece motivi di conflitto col persistente divieto per i magistrati ordinari di svolgere lezioni nell'ambito di corsi per il concorso in magistratura, una volta che questi corsi siano organizzati da una istituzione pubblica come la SSM.
6. I1 mio punto di vista in proposito deriva da considerazioni che ho esplicitato nelle premesse di partenza, prima cioè di rispondere alle singole domande: a mio giudizio, la sinergia da perseguire non dovrebbe riproporre il consueto schema che vede la magistratura (CSM) in posizione di netta predominanza, ma dovrebbe ispirarsi a una prospettiva di collaborazione che assegna all'accademia e all'avvocatura ruoli di più equilibrata compartecipazione sul duplice fronte della individuazione dei presupposti culturali e tecnici dei corsi e della scelta delle loro modalità di svolgimento.
7. Pur non disponendo anche in proposito di dati sufficienti di conoscenza, sarei tendenzialmente scettico sulla possibilità di far più efficacemente interagire la SSM con le scuole di specializzazione per le professioni forensi.
8. Mi piacerebbe che i corsi non perseguissero la finalità limitata di far superare le prove di concorso, ma si inquadrassero in un orizzonte formativo ben più ampio tale da indurre gli aspiranti magistrati a riflettere su questioni di fondo di particolare rilievo in una democrazia costituzionale, e attinenti al significato di cultura della giurisdizione, al modo di concepire il principio della divisione dei poteri, ai possibili modelli di magistrato ecc.
Certo, possono anche sperimentarsi nuovi percorsi metodologici; ma a mio avviso, prima ancora di pensare alle metodologie didattiche, occorrerebbe arricchire il retroterra culturale complessivo che fa appunto da sfondo all'esercizio della funzione giudiziaria.
Ritengo infine che sia da privilegiare, perché risulta più efficace in vari sensi, la didattica in presenza. Sarebbe anche opportuno prevedere un tirocinio pratico.
Antonio Ruggeri, emerito di diritto costituzionale Università di Messina
Mi permetto di offrire solo qualche riflessione sul quesito relativo alla rilevanza dei principi costituzionali e dell’Unione europea nelle tracce alle quali allude la disciplina recentemente riformata relative alle prove di concorso per l’accesso alla magistratura.
La questione pone una serie di problemi di carattere teorico perché i principi generali dell'ordinamento giuridico sono come l'araba Fenice: si sa che ci sono se non altro perché ne è riconosciuta l'esistenza, ma non si sa esattamente che cosa sono. Non va dimenticato che, anche se usualmente sono richiamati come canone di interpretazione quando altri criteri più sicuri non sono in grado di risolvere un problema i principi generali dell'ordinamento giuridico non hanno solo funzione e finalità interpretative ma costituiscono un parametro fondamentale al quale le leggi statali devono sottostare, non potendo le stesse derogarvi.
Ora, quello che mi sembrerebbe importante è che nella la preparazione dell’aspirante magistrato dovrebbe essere accertata la preparazione proprio con riferimento alla conoscenza dei grandi principi che stanno a base dell'ordinamento giuridico più che andare a verificare se sono in grado di risolvere una questione minuta. Provo ad esemplificare. Non è importante che il candidato sappia qual è la distanza legale fra gli edifici o se si può aprire una finestra che dà sul fondo altrui al fine di potere fare il magistrato anche se poi i problemi che saranno chiamati a risolvere i magistrati sono spesso proprio queste questioni minute, ma il candidato dovrebbe padroneggiare proprio i grandi principi che sono il principio dello Stato di diritto, il principio della separazione dei poteri, il principio della gerarchia delle fonti. Dunque, i grandi principi che stanno alla base dell'ordinamento giuridico. Almeno questo sembrerebbe ricavarsi da quella formula. Ne consegue che anche le tracce dei temi dovrebbero essere strutturate in modo tale da verificare una conoscenza ampia dei candidati e soprattutto la capacità di fare collegamenti fra una parte e l’altra e dunque di collegare norme anche apparentemente distanti proprio per vedere a quali principi generali sono in entrambe riportabili che hanno in comune. Non a caso si parla di capacità di inquadramento teorico sistematico. Infatti, la parola sistematico ha un significato molto importante che evidenzia questo collegamento strutturale con i principi dell'ordinamento giuridico. A me pare che le tracce dovrebbero verificare questo tipo di conoscenza per cui per esempio in materia penale è ben possibile un tema che sui vari tipi di dolo e delle sue applicazioni o della colpa piuttosto che un tema dove si chiede di descrivere una fattispecie di reato del tutto specifica.
Vorrei poi aggiungere due cose.
La prima è che anche laddove si trovassero disposizioni normative che specificamente si riferiscono ad una data fattispecie le stesse vanno comunque interpretate tenendo conto dei principi come appunto il principio dello Stato di diritto nel campo civile, la buona fede, la leale cooperazione, ecc. Intendo dire che i principi generali dell'ordinamento giuridico non è che rilevano solo come dice l'articolo 12 disp. sulle preleggi al cod. civ. quando mancano le previsioni normative, ma trovano applicazione anche come norme di secondo grado, cioè come punto di riferimento in sede di interpretazione di disposizione puntuale. D'altronde anche questo è un modo di far valere l'ordinamento come sistema.
La seconda notazione. Penso sia importante non tralasciare di considerare il riferimento ai principi alla luce dei principi costituzionali e dell'Unione europea. Dalla lettura del dato normativo sembrerebbe che ci siano dei principi specifici dell’Unione europea o risultati da tradizioni costituzionali comuni dotati di una certa autonomia da quelli costituzionali. Qui si rileva una contraddizione in atto esistente, cioè, che da un lato c'è una centralità di rilievo del diritto dell'Unione europea sia dal punto di vista teorico che nella pratica giuridica; dall'altro però paradossalmente il diritto dell'Unione europea continua a essere materia non obbligatoria in molte Università e questa a me pare sia una contraddizione da sanare. A mio sommesso avviso la SSM dovrebbe esprimere un auspicio o anche solo un'indicazione ferma affinché questa materia diventi materia fondamentale.
Come che sia, sulla centralità di rilievo dei principi non avrei dubbi alla luce di quanto detto. Basti solo considerare che ogni disposizione normativa dovrebbe essere interpretata orientandola proprio verso i principi.
Esistono, d’altra parte, carenze formidabili che si rilevano proprio sul versante del raccordo fra mondo universitario dove avviene la preparazione di base dei giuristi ed il mondo della pratica del diritto, il mondo degli operatori pratici. Quando vengono definiti i titoli delle prove di concorso spesso trascurano ciò che poi il giudice dovrà fare in concreto.
Va poi considerato che la preparazione degli studenti universitari molte volte non contempla il diritto dell'Unione europea direi che siccome voi potete esprimere solo auspici per quanto riguarda la conformazione degli studi universitari per non avere potere dispositivo per un verso bisogna sollecitare un approfondimento adeguato della preparazione a livello universitario con riferimento appunto al diritto dell'Unione europea ed anche al diritto internazionale.
Vedrei per questo di buon grado che la SSM si proietti verso gli aspiranti magistrati prevedendo una sorta di corso intensivo di diritto eurounitario, con particolare riguardo ai rapporti inter-ordinamentali fra giurisprudenza Cedu e giurisprudenza Corte di Lussemburgo. Ritengo che ciò sia fondamentale come anche l’approfondimento del diritto comparato. Penso ad esempio alle c.d. cosiddette tradizioni costituzionali comuni ed a come le stesse si ricavino attraverso la comparazione dei principi costituzionali relativi ai diritti di libertà.
Tecla Mazzarese, già Ordinaria Filosofia del diritto Università di Brescia
1. Un’osservazione preliminare
La risposta alle domande in esame – quale che essa possa essere – condiziona, e non può non condizionare, il modo di affrontare e/o valutare la questione della discrezionalità / creatività / funzione supplettiva della giurisdizione riguardo a quella legislativa. Non può non condizionare, in particolare, il modo di leggere le trasformazioni già da tempo in atto nella giurisdizione e, forse, tentare di influenzarne l’evoluzione. E, a mio avviso, proprio per evitare contrapposizioni ideologiche fra (presunta) creatività del giudice e richiamo alla rigida soggezione alla legge, è necessario avere il coraggio di prendere sul serio tutti i problemi relativi all’attuale “disordinamento” giuridico e, contestualmente, quelli relativi alla proliferazione di forme di produzione del diritto nella (dis)armonica pluralità delle loro possibili interrelazioni e contrapposizioni.
2. Perplessità sull’articolo 5 del decreto legislativo 2006, n.160
E ora, per rispondere alle domande in esame, prendo le mosse dalla formulazione dell’articolo 5 del decreto legislativo 2006, n.160, distinguendo (a) perplessità relative ai termini in cui è formulato e (b) perplessità relative alle presupposizioni e/o conseguenze della sua formulazione.
Sono tre, in particolare, le perplessità relative ai termini in cui l’articolo 5 è formulato.
La prima è che l’uso di “anche”, nella parte conclusiva della formulazione dell’articolo, è spia di una valutazione sussidiaria, e per così dire secondaria, dei principi costituzionali e del diritto dell’Unione Europea nello svolgimento degli elaborati di diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo. Valutazione, questa, in sé censurabile perché non tiene conto di quanto di fatto già da tempo emerge nella giurisdizione anche ma non solo con riguardo al diritto dell’Unione Europea. E inoltre, valutazione ancora più censurabile, come si chiarirà di seguito, perché tradisce la convinzione della scarsa rilevanza del diritto non statale nelle decisioni dei giudici.
Non solo – questa è la seconda perplessità – la formulazione dell’articolo 5, oltre a tradire nella sua formulazione una sorta di sussidiarietà dei principi (costituzionali e) del diritto UE rispetto al diritto civile, penale e amministrativo, ignora platealmente qualsiasi forma di diritto non statale diverso da quello dell’UE. Nell’articolo in esame non si fa menzione, cioè, né della pluralità di forme di soft law, né della pluralità di forme del diritto internazionale dei trattati, né delle sentenze della pluralità di Corti internazionali, né delle regole relative al variegato e complesso mondo della lex mercatoria. Forme di produzione del diritto, quelle dell’EU e quelle di tutte le altre forme di diritto transnazionale e sovranazionale – soft e hard – che di fatto da tempo giocano un ruolo tutt’altro che secondario nel processo di decision making.
E, non da ultimo – questa è la terza perplessità – la menzione del solo diritto EU come forma di diritto non statale di cui tener conto nelle decisioni giudiziali è ancora più angusta e restrittiva della riformulazione, nel 2001, dell’articolo 117 della Costituzione, là dove oltre al diritto Eu esplicitamente si fa menzione degli obblighi internazionali dei quali la potestà legislativa dello stato e delle regioni deve tener conto e, quindi, di cui deve tener conto anche il giudice che è soggetto alla legge.
Due invece gli ordini di perplessità relativi alle presupposizioni e/o conseguenze della formulazione dell’articolo 5.
Il primo è che là dove l’articolo in esame parla di “inquadramento teorico-sistematico dei candidati, alla luce dei principi generali dell’ordinamento”, le presupposizioni neppure troppo implicite sono: (i) l’assunto dell’unità completa e coerente e dell’identità dell’ordinamento; (ii) l’assunto dell’univocità della gerarchia delle sue fonti (che ignora come la varietà e pluralità di fonti di produzione giuridica diverse non di rado sono fra loro in contrasto e alternative), e (iii) l’assunto dell’univocità dei termini in cui continuare ad intendere e a rivendicare la soggezione del giudice alla legge a dispetto della varietà e pluralità di fonti astatuali del diritto delle quali il giudice da tempo tiene conto anche ma non solo là dove intenda garantire la maggiore tutela di un diritto fondamentale.
E ancora, le perplessità relative alla sua formulazione congiuntamente alle perplessità relative alle presupposizioni (implicite) che essa giustifica, concorrono, le une e le altre, a denunciare che l’articolo in esame tradisce una sostanziale sottovalutazione e/o elusione della portata di quello che, con espressione felice, Giulio Itzcovich ha denominato “disordinamento giuridico”. Concorrono, in altri termini, a condividere la tesi di chi ritiene che sì, vabbè, ci sono fonti nuove e diverse ma alla fine tutto sommato nulla cambia rispetto al buon vecchio apparato categoriale fondato sull’unità e identità degli ordinamenti giuridici e agli assunti (i) - (iii) che da sempre ne accompagnano la declinazione del modello esplicativo. Al riguardo, valga per tutti, l’esplicita formulazione di questa posizione da parte di Giuseppe De Vergottini (Garanzia della identità degli ordinamenti statali e limiti della globalizzazione, 2006, p. 7), là dove, dopo aver decretato: (a) l’ovvia «banalità» del «fatto che ci muoviamo in uno spazio “globale” in cui interagiscono soggetti e interessi privati e pubblici», (b) la manifesta insufficienza della «tradizionale visione dell’ordinamento internazionale come realtà in cui si muovono soltanto gli stati e le organizzazioni internazionali tradizionali classiche» e (c) l’esistenza di «uno spazio giuridico (globale) in cui si muovono soggetti in parte nuovi, con rapporti che si regolano a prescindere dai meccanismi tradizionali del diritto internazionale», sorprendentemente (d) contesta che «concetti tradizionali dell’armamentario del giuspubblicista, quali sovranità, territorio, gerarchia di ordinamenti e fonti, siano da considerarsi non più determinanti nell’analisi dei fenomeni giuridici» e sbalorditivamente conclude che «in larga parte il concetto di globalizzazione per il diritto pubblico è privo di utilità e non ha alcuna rilevanza sulle categorie che abitualmente utilizziamo».
3. E allora?
Tutto questo per dire che sono d’accordo con la rilevanza del dubbio sollevato dalla seconda domanda in esame. Da decenni ormai, nella prassi giudiziale, il diritto internazionale – nella forma del diritto dei trattati e della giurisprudenza delle Corti internazionali – ha un ruolo, per dirla con le tue parole, che “scompagina il quadro della formazione” tradizionale dei magistrati. Un ruolo che ha non solo il diritto internazionale ma hanno anche forme altre di produzione giuridica – soft o hard – di diritto transnazionale o sovranazionale. E allora? È necessaria una formazione dei giudici che renda consapevoli i magistrati di questi nuovi tratti caratterizzanti della giurisprudenza. Che li renda consapevoli, soprattutto, della necessità di un uso avvertito di queste nuove fonti di diritto, degli effetti e della contaminazione fra fonti diverse. Che li renda consapevoli, quindi, della possibilità e/o necessità di un loro ruolo istituzionale che contempli la possibilità e/o necessità di muoversi in un contesto non più confortevolmente scandito in termini di un ordinamento giuridico completo e coerente, armonicamente caratterizzato dall’univocità della gerarchia delle proprie fonti.
Antonio Carratta, Ordinario di diritto processuale civile e Direttore del dipartimento di Giurisprudenza Università Roma Tre
Dopo l’esperienza per certi versi fallimentare delle Scuole per le professioni forensi all’interno delle Università si sta ragionando su cosa proporre ai laureati per il post-laurea. Il processo di riforma in corso dovrebbe prevedere una strutturazione di corso di durata ancora da definire con attività didattica strutturate su due anni. Negli incontri ai quali ho preso parte sia presso l'ufficio legislativo del Ministero della giustizia che al Miur l’idea sarebbe di costruire delle scuole riformate con diretta collaborazione con la SSM per i corsi di preparazione al concorso in magistratura. Sarebbe così interessante strutturare queste scuole riformande in modo tale che già costituiscano un modello su cui lavorare per future sinergie.
L'idea sulla quale stiamo lavorando è quella di costruire come un contenitore per il post lauream, al cui interno inserire attività che i Dipartimenti svolgeranno in collaborazione da un lato con i consigli dell'ordine degli Avvocati (quindi corso obbligatorio di accesso all'esame d'avvocato è di 160 ore) dall'altro lato, sul versante magistratura, con attività collegate agli incontri ed i corsi di preparazione all'esame in magistratura. Non credo abbia senso che i Dipartimenti realizzino questi corsi in solitudine. La formula che vedrei come vincente è quella della sinergia.
Ora in questa situazione ancora non definita dal punto d vista dell’Accademia, abbiamo tra l'altro ad aprile organizzato un convegno fra i vari settori scientifici proprio sul tema della formazione post lauream e del ruolo dell'Accademia nella formazione dei laureati, vista la fuga che abbiamo riscontrato in questo ambito dalle scuole di specializzazione.
Siamo ciononostante convinti che una buona formazione senza il coinvolgimento dell'Accademia non possa esserci per varie ragioni, prima fra tutte quella che la ricerca si fa in Accademia, in università. Sicché è impossibile immaginare una formazione di qualità senza un livello di ricerca qualitativamente elevato. Da qui l’idea di cui parlavo all’inizio di una riforma radicale delle scuole per le professioni forensi, proprio per riaffermare il principio fondamentale di cooperazione sia dal lato dell’Avvocatura sia dal lato magistratura con l’Accademia.
Non sembra particolarmente utile in questo momento esaminare le cause del fallimento delle scuole di specializzazione. Certo, non può negarsi che le scuole furono impostate come una prosecuzione degli studi universitari.
Ora, a me pare che la scuola superiore della magistratura sia avvantaggiata nel compito di formazione degli aspiranti magistrati proprio perché è riuscita a modulare la formazione dei magistrati a volte più sul versante teorico, altre su quello pratico, altre ancora su quello seminariale. Dunque, non vedo la formazione degli aspiranti magistrati come proiettata verso l’organizzazione di minicorsi universitari.
Il modello di riferimento dovrebbe essere, dunque, quello dei corsi di formazione organizzati dalla Scuola anche a livello decentrato con i necessari adattamenti, in considerazione dei destinatari che, appunto non sono già magistrati formati.
Quindi, esemplificando, non un corso di diritto processuale civile o di procedura penale ma corsi su temi specifici, di attualità, che potrebbero essere argomenti da sviluppare in sede di prova di concorso ma che, se anche non lo fossero, consentirebbero di trasmettere il modo attraverso il quale il discente deve prepararsi a impostare la sua preparazione per affrontare i l'esame.
In questo senso, il modello dei corsi privati per la preparazione al concorso in magistratura ha questa impostazione, prevedendo una parte teorica che però intende trasmettere una impostazione teorica che sta al centro fra teoria accademica e quella pratica, con quest’ultima espressione intendendo l’approfondimento degli orientamenti giurisprudenziali e della loro evoluzione, le obiezioni che possono esprimersi su tali orientamenti.
Gian Luigi Gatta, Ordinario Diritto penale Università Statale di Milano
Le innovazioni apportate alla disciplina delle prove del concorso sono a mio parere molto apprezzabili perché coniugano esigenze di ammodernamento (ad es., il rilievo maggiore a materie di nuova emersione e alla prospettiva dei rapporti con il diritto UE) con la migliore tradizione della formazione giuridica. A tale ultimo proposito, ritengo importante che a livello normativo si sia dato espresso rilievo, nell’ambito della prova scritta, alle capacità di inquadramento teorico-sistematico considerate prevalenti rispetto ad altri elementi, a partire dal mero possesso di nozioni. Il rilievo attribuito altresì al dominio dei principi del sistema, nella dimensione tanto interna quanto sovranazionale, è funzionale ad accertare l’attitudine dei nuovi magistrati ad applicare i pertinenti principi, facendoli vivere anche, tra l’altro, nella loro dimensione di tutela dei diritti. È ormai acquisita anche tra i penalisti l’idea di un magistrato che non si limita a evocare i principi, ma li applica nell’ambito dell’ordinario processo interpretativo. Basti pensare, tra i tanti esempi possibili, al ruolo assunto dai principi di offensività in concreto e di colpevolezza come canoni ermeneutici. In tal direzione, ritengo importante l’apporto dell’accademia, il cui compito scientifico è non solo quello di promuovere la ricerca in ambito giuridico rispetto a nuovi orizzonti problematici (come ad esempio l’intelligenza artificiale), ma anche di tramandare e sviluppare le coordinate del sistema giuridico, nel quadro costituzionale delle fonti sovranazionali. L’aspirante magistrato è stato formato dall’Università e, nell’affrontare la preparazione per il concorso, deve poter trovare una continuità sul piano del metodo e dei contenuti rispetto agli studi universitari. Ancor più oggi che è consentito l’accesso al concorso subito dopo la laurea. Penso a un candidato che si forma sui classici manuali e trattati universitari (è stato così ad esempio, per intere generazioni di magistrati, nel penale, con il Manuale di Antolisei, per fare un esempio, o con il Trattato di Manzini). Naturalmente, è fondamentale che alla preparazione teorico-sistematica si associ una conoscenza profonda della giurisprudenza, nazionale e sovranazionale. Quale che non deve farsi, a mio avviso, è ridurre la preparazione allo studio di rassegne ragionate di giurisprudenza, inseguendo l’ultima sentenza. Il candidato deve dimostrare di sapere come fare a inquadrare e risolvere un problema con argomentazioni coerenti con il diritto vivente o che se ne discostino motivatamente. Il sapere come fare è più importante del sapere, in un mondo in cui dal proprio smartphone qualunque giudice o avvocato può accedere a banche dati di normativa e di giurisprudenza. Al futuro magistrato non mancheranno le informazioni. Ne avrà anzi troppe e dovrà sapere come selezionarle, organizzarle e gestirle in modo coerente.
A mio avviso un valore aggiunto dell’esperienza della SSM è la ricchezza di prospettive che nasce dal connubio tra i docenti chiamati quali relatori a confrontarsi, anche tra loro: magistrati, di legittimità e di merito, professori universitari, avvocati ed esperti di discipline non giuridiche. L’aspirante magistrato è un laureato in giurisprudenza abituato a confrontarsi con professori universitari. Associare a quello dei professori il ruolo e il bagaglio di esperienza di magistrati e avvocati è un valore aggiunto inestimabile. Il mero approccio teorico accademico non è in grado di cogliere appieno la complessità dei temi dell’approccio giurisdizionale. D’altra parte, il mero approccio pratico rischia di essere autoreferenziale e di perdere le coordinate del sistema, fondamentali anche per favorire orientamenti e decisioni giudiziarie non contraddittorie.
Penso che, per ragioni di uniformità, i programmi debbano essere predisposti dalla SSM (così come oggi avviene per i corsi della permanente o dei MOT, ad esempio). Per ogni modulo si potrebbe incaricare un esperto formatore. Non per ogni materia, ma per ogni modulo all’interno della materia, lasciando alla SSM il compito di delineare i moduli.
L’esperienza delle scuole private di preparazione del concorso insegna che è fondamentale poter trovare in un corso di preparazione chi propone e corregge temi. Il successo dei corsi di preparazione della SSM dipenderà a mio avviso in gran parte dalla capacità di saper organizzare la somministrazione e la correzione delle tracce, attraverso vere e proprie simulazioni delle prove scritte. Il tutor dovrebbe far precedere la somministrazione delle tracce da lezioni sul metodo: su come si scrive, si struttura e si argomenta un tema in ambito giuridico. La correzione dovrebbe essere prima individuale e poi collettiva. Le prove dovrebbero svolgersi preferibilmente in presenza, replicando la situazione del concorso. Si dovrebbe assicurare un numero congruo di correzioni (paragonabile a quello delle scuole private). I tutor potrebbero essere sia magistrati sia docenti universitari, cioè le stesse figure che fanno parte per legge della commissione di concorso. Penso che per evitare questo problema la SSM possa avvalersi al 50% di magistrati e al 50% di universitari (analogamente a quanto avviene per la formazione permanente). Potrebbero essere nominati prioritariamente come tutor, tra i magistrati, i vincitori di concorsi degli ultimi 5 o 10 anni che siano posizionati nei primi 50 posti della graduatoria. La natura istituzionale della SSM e dei corsi esclude a mio avviso l’operatività del divieto di cui sopra. Si potrebbe valutare di suggerire al CSM o al legislatore la previsione di una incompatibilità tra il ruolo di tutor e di commissario del concorso (per questo ricorrere a giovani magistrati, quali tutor, potrebbe essere opportuno: non solo perché sono freschi di concorso e possono portare la loro esperienza, ma anche perché non fanno parte delle commissioni di concorso). Per un aspirante candidato magistrato è importante e molto appetibile sapere di poter avere tra i tutor dei giovani vincitori di concorso.
Ritengo fondamentale questa sinergia, per quanto detto sopra. Si potrebbero promuovere accordi di collaborazione, se del caso anche per decentrare presso le sedi universitarie alcuni corsi, ove non si intenda collocarli nelle sedi della SSM. Il vantaggio potrebbe essere quello di appoggiarsi alle strutture didattiche delle università favorendo la prossimità con i formatori decentrati della SSM e con i consigli dell’ordine degli avvocati.
Penso che le Scuole di specializzazione siano ormai fallite e debbano essere superate per come sono oggi e profondamente riformate, anche e proprio in linea con le esigenze di preparazione del concorso per magistratura. La SSM potrebbe coinvolgere ora le università (oltre ai singoli docenti) nell’organizzazione dei corsi per la preparazione al concorso.
Penso che, pur con metodi innovativi, il corso debba prioritariamente puntare al superamento del concorso. Non bisogna dimenticare la concorrenza con le scuole private, che hanno oggi il pieno e assoluto dominio del mercato della formazione per il concorso. La SSM, quale istituzione pubblica, deve offrire un “prodotto” competitivo, per costi e qualità, consentendo anche a chi ha meno risorse di poter diventare magistrato, in linea con i principi costituzionali.
Penso che sia preferibile la formazione in presenza, anche per la simulazione delle prove scritte. Non prevederei alcun tirocinio, come nelle scuole private.
Vincenzo Cuffaro, emerito di Diritto privato, Università Roma Tre
Non vedo nelle innovazioni previste per il concorso di accesso la base di un nuovo modo di fare formazione per gli aspiranti magistrati. La formazione degli aspiranti magistrati continua ad essere affidata allo studio (condotto su testi più o meno dedicati alla preparazione per il concorso) delle materie sulle quali vertono le prove. Certo, la nuova previsione che consente l’ammissione al concorso subito dopo la laurea, segna e conferma il fallimento delle precedenti esperienze (prima i test, poi la scuola ed in analogia con quanto avveniva per le altre professioni legali) escogitate come ‘filtro’ di accesso. Esperienze necessariamente destinate a fallire perché non accompagnate da un adeguato apparato organizzativo razionalmente strutturato.
La scelta di consentire l’accesso alla magistratura immediatamente dopo il termine del percorso universitario risponde ad una logica aziendalistica finalizzata al reclutamento e segna un ritorno al passato, ma ignora (volutamente?) che la formazione universitaria è insufficiente da sola a consentire di svolgere le prove scritte (non è certo una novità che, durante i corsi, allo studente non si chiede di redigere elaborati scritti, né tantomeno di predisporre testi su tracce articolate).
La riduzione del numero delle materie oggetto della prova orale dovrebbe consentire un maggior approfondimento e dovrebbe quindi tradursi in un maggior rigore nella selezione, potendo esigersi una conoscenza più approfondita delle materie. Ma si tratta di vedere come verrà attuata.
In termini provocatori, aggiungerei che occorrerebbe preoccuparsi anche della formazione delle commissioni esaminatrici, i cui componenti sono selezionati con criteri casuali, dando per presupposto che la funzione che svolgono li renda di per sé idonei a valutare i candidati, il che sovente non è.
Non credo nemmeno che il richiamo ai principi (dell'ordinamento, costituzionali, dell'Unione europea) scompagini il quadro della formazione. La conoscenza dei principi costituzionali e dell’Unione europea dovrebbe appartenere al bagaglio del laureato in giurisprudenza. Sottolineo che il condizionale è d’obbligo e rimanda ai problemi, di più vasta portata, del contenuto dei corsi universitari, delle modalità d’insegnamento del contenuto dei manuali offerti agli studenti (e taccio della qualità dei docenti).
Ben venga una formazione che faccia comprendere che le ‘materie’ non possono essere ridotte all’esegesi dei codici ed instilli negli aspiranti magistrati l’idea che anche nella fase attuativa l’ordinamento è aperto ad una pluralità di fonti (e di valori).
Piuttosto, vien fatto di chiedersi come potrebbero essere formulate le tracce delle prove d’esame (e prima delle esercitazioni) per consentire nello svolgimento la dimostrazione di quanto richiesto.
Un’altra provocazione: mi sa che nel testo della legge, il richiamo sia stato inserito solo ad pompam
Non credo che la figura del giudice che tu auspichi quale esito della formazione possa essere affidata ad una specifica modalità né verificata con le prove d’esame.
L’arte di giudicare si apprende ‘sul campo’ (rectius in aula) e la tensione all’attuazione dei diritti appartiene alle qualità intellettuali del singolo che dovrebbero affinarsi nell’esercizio delle funzioni (al riguardo, continuo a ritenere che la cancellazione del giudizio collegiale e l’enfatizzazione del giudice monocratico siano deleteri per la formazione del giovane magistrato, essendo obiettivamente insufficiente il periodo di tirocinio).
Ciò che nella formazione andrebbe spiegato è che l’amministrazione della giustizia richiede abnegazione e impegno costanti.
Confesso che ignoravo che la SSM approntasse corsi di preparazione al concorso. L’iniziativa è senz’altro auspicabile, soprattutto se affidata ad un corpo docente particolarmente preparato e motivato, consentendo agli aspiranti magistrati di formarsi acquisendo maggior consapevolezza delle questioni che dovranno poi affrontare nell’esercizio delle funzioni.
Non ritengo che debba essere uno stesso docente a dovere seguire una parte dei programmi elaborati. Se è vero che la predisposizione dei programmi può condizionare i docenti incaricati della formazione, è altresì vero che affidare alla medesima persona l’approntamento dei programmi e la loro attuazione, finirebbe per determinare un impegno assai gravoso e forse troppo assorbente. Ritengo che ad elaborare questi programmi debba essere un gruppo formato da magistrati e professori. Avendo cura che tra magistrati siano selezionati appartenenti alle magistrature di merito e di legittimità (ma forse già è così) e tra i professori quelli che coniughino attività scientifica ed esperienza professionale, e siano soprattutto attenti allo studio della giurisprudenza pratica. Sarebbe opportuno nominare esperti formatori che appunto predispongano le linee generali dei corsi nelle tre materie. Il problema, è ovvio, è quello della individuazione delle persone.
La domanda fa riferimento a ‘linee generali’ e si tratta allora di stabilire cosa si intende con tale espressione.
Poiché i corsi sono diretti alla formazione degli aspiranti magistrati, l’attenzione dovrebbe essere rivolta non solo alla conoscenza approfondita della materia (alla luce di significativi apporti della giurisprudenza) ma anche al metodo per affrontare i nuovi problemi posti dalla prassi. In questa prospettiva, il riferimento ai principi costituzionali e unionali mi sembra senz’altro prezioso.
Il docente è logicamente la figura più adatta per elaborare le tracce, svolgendo le quali il discente potrebbe esercitarsi a mettere a frutto le proprie conoscenze (auspicabilmente precedenti e comunque acquisite nel corso).
Anche a questo riguardo, accollare al docente il duplice compito di predisporre le tracce e correggere gli elaborati potrebbe risultare assai gravoso (ma certo dipende dal numero dei discenti).
Il tutor ‘terzo’ potrebbe allora svolgere il compito di revisionare gli elaborati e spiegare le eventuali manchevolezze dello svolgimento, ma dovrebbe essere in buona sintonia con il docente.
La domanda sugli effetti che potrebbero prodursi negli uffici giudiziari dai quali la SSM potrebbe attingere il gruppo di esperti per i corsi destinati agli aspiranti magistrati ed esige una risposta difficile. Il magistrato convinto del proprio lavoro potrebbe avere difficoltà a distogliersi dalle incombenze dell’ufficio. Dedicarsi seriamente alla formazione potrebbe assorbire tutte le energie a scapito del ‘servizio giustizia’. Solo persone particolarmente brave e preparate (e non mancano) riuscirebbero a conciliare le due funzioni di svolgimento dei compiti dell’ufficio e cura delle incombenze dell’insegnamento, anche se in un arco di tempo limitato.
Vorrei aggiungere che analoga considerazione vale per i professori e per gli avvocati.
Il divieto vigente per i magistrati è formulato con riferimento a corsi privati (la cui proliferazione ritengo deprecabile anche se risponde ad una domanda del ‘mercato’) e forse (ma francamente non saprei come) potrebbe essere superato rispetto a corsi organizzati dalla SSM.
Quanto alla sinergia fra l’Accademia, l’Avvocatura e la magistratura (CSM) per realizzare al meglio il compito affidato alla Ssm in materia si tratta, anche in questo caso, di un tema complesso.
Personalmente ho scarsa considerazione nell’attività didattica svolta da avvocati, non perché tra loro non vi siano persone preparate, ma perché altro è esercitare bene la professione, altro è insegnare. L’apporto della classe forense potrebbe essere fornito su singoli temi che richiedono elevata professionalità e conoscenze di materie specifiche (ad esempio, la normativa bancaria o quella antitrust ed ancora, per assonanza, l’argomento del trust) ma mal si concilia con la formazione per la preparazione di aspiranti magistrati che richiede invece un apporto sistematico.
Quanto ai rapporti fra Ssm e scuole di specializzazione per le professioni forensi, vale al riguardo la risposta data alla precedente domanda: l’obiettivo non mi sembra auspicabile.
Le scuole di specializzazione affidate agli Ordini professionali sono assai discutibili: nelle rare occasioni nelle quali ho avuto modo di assistere a corsi impartiti da avvocati, ho dovuto constatare che si esauriscono nel raccontare novità normative, con una limitata, se non inesistente, cognizione di problematiche interpretative ovvero ad esporre recenti sentenze.
Analogamente, le scuole di specializzazione affidate alle Università non mi sembra abbiano dato buona prova, risolvendosi in corsi ai quali non sono dedicati docenti specifici.
Non ignoro, tuttavia, che il problema potrebbe essere politico.
Come ho detto, l’attenzione all’approccio metodologico sarebbe auspicabile, anche se richiede un impegno particolare del corpo docente ed una consapevole disponibilità dei discenti.
Quanto al metodo di apprendimento e se dovrebbe prediligere la formazione a distanza o in presenza proponendo per la prima soluzione. La formazione a distanza è un nonsenso. Il tirocinio presso gli uffici giudiziari sarebbe utile ma credo che i problemi organizzativi siano assai complessi se non insormontabili.
Mario Serio, già ordinario di Diritto comparato Università di Palermo, componente il Garante nazionale delle persone private della libertà personale
Mi piace dirti con franchezza il mio pensiero su ciò che oggi serve al magistrato.
Quello che gli inglesi chiamano stylus curiae, cioè lo stile espositivo delle sentenze. Ed infatti, oggi riscontro un deficit di conoscenza su come vada scritta una sentenza e sulle parti che la compongono. Pur non occupandomi di penale mi capita di leggere delle esposizioni in fatto che in buona sostanza non sono altro che la trascrizione dei verbali d’udienza, cioè di ciò che hanno riferito le persone ascoltate durante il dibattimento. Ora, a me pare che questo modo di procedere non sia una forma brillante di esposizione delle ragioni, della decisione, perché si dà pericolosamente luogo alla sostituzione della motivazione con la riproposizione verbali di udienza. Personalmente sono molto più affezionato al metodo classico in cui il giudice, anche nel riportare il fatto, lo fa in forma critica sintetizzando in un periodo un singolo atto processuale in modo da mostrare di avere colto il cuore del suo contenuto. Il modo che è attualmente invalso finisce col restituire al lettore l'impressione di una rinuncia al ruolo di decisore criticamente consapevole che non sempre sembra dimostrare capacità selettiva del materiale istruttorio che è propria del giudicare. Quello che occorre salvaguardare, al contrario mi pare appunto la funzione di interpolazione tra l'atto processuale e la sua considerazione critica proprio per scongiurare i pericoli che, al contrario, sono all’orizzonte in ragione dell'avvento dell'intelligenza artificiale. È’ proprio l’interpolazione critica del giudice a dovere contrastare l’AI.
Ecco, dunque, una delle principali funzioni proprie della SSM anche e soprattutto per i futuri magistrati: una scuola che abitui il giudice a ragionare e a farsi comprendere anche attraverso il coinvolgimento di filosofi del linguaggio .E questo allo scopo di render chiaro che il giudice è saldamente al comando della barca e non può farsi trascinare dalle onde emotive o dalle ridondanze verbali La mia prospettiva di cittadino e di giurista è quella di avere un giudice del quale si sente palpitare la mente raziocinante. È desiderabile avere di fronte una persona umana con sentimenti e ragione, tra loro congruamente combinati. Ora, questa responsabilizzazione argomentativa del ruolo deve non soltanto permanere ma deve costituire il cuore dell’attività giurisdizionale proprio perché il giudice non può che continuare a caricarsi sulle spalle la responsabilità della decisione; altrimenti si porrebbe in una direzione di arretramento gravissimo sul piano della controllabilità diffusa della decisione. La Scuola Superiore della Magistratura deve dare quel valore aggiunto che non consiste semplicemente nell'approfondimento della giurisprudenza più recente o nella segnalazione della monografia più approfondita su un dato tema; dovrebbe, al contrario, offrire all’'ethos del magistrato messaggi in termini culturalmente e metodologicamente formativi. In questa prospettiva, quello dello stile è un aspetto rilevante; quello del modello comportamentale deontologicamente ispirato non è meno fondamentale. Questo, a mio avviso è il terreno che può rendere assolutamente ineguagliabile l'apporto della scuola superiore della magistratura rispetto, ad esempio, alle scuole private di preparazione al concorso, naturalmente preoccupate di diffondere la giurisprudenza più recente, essendo questo obiettivo capace di coprire solo una frazione dell’intera formazione del futuro magistrato. Il compito formativo della SSM è invece elevatissimo. Non è allettante l’idea che la scuola superiore della magistratura debba entrare in concorrenza con le scuole private. E tuttavia, pur provando un certo rammarico nell’affrontare questo argomento provo a ragionare sul come rendersi competitivi. In questa prospettiva la SSM ha i mezzi e le risorse culturali per affrontare al meglio la sfida che proviene dalle fonti sovranazionali, sensibilizzando i giovani alla loro fruizione, in modo da formare al meglio i futuri magistrati ed offrire loro un approccio sistematico alla loro futura professione. Certo, occorre fare i conti con un altro attore, rappresentato dai criteri di giudizio dei commissari concorsuali, non riscontrandosi fin qui una continuità contenutistica fra le tracce indicate negli anni dalle singole commissioni. L’assenza di un registro uniforme rende dunque complicato sistematizzare un modulo formativo costante. Ma il dato di partenza, rappresentato dalla riforma Cartabia, laddove ha previsto espressamente che le prove d'esame debbano includere anche i principi costituzionali e del diritto dell'Unione europea costituisce una conquista. Una scelta che rafforza la prospettiva di un magistrato che non sia mero applicatore della legge ma si riveli capace di inquadrare il sistema giuridico, ricostruendolo attorno ai grandi principi generali, pure di matrice sovranazionale, in modo da affrontare efficacemente le infinite diversità delle vicende che saranno sottoposte al suo esame.
Questi valori di base rappresentano, in realtà, il cuore del ruolo del giudice del futuro e del presente. Il fatto che al nuovo magistrato sia richiesta, al fine di consentirgli l’accesso in magistratura, la capacità di ragionare sui principi e di coglierne l’essenza e di governarne l’applicazione appare determinante. Mi viene in mente un costruttivo itinerario di formazione sul principio di solidarietà nelle sue concrete applicazioni nel campo del lavoro, in quello civilistico, nell’ambito dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino. Penso ancora al principio che incoraggia l'utilizzazione in forma non egoistica della proprietà, all’idea della libertà di impresa connessa ai sensi dell'articolo 41 Cost. con l'utilità sociale, alla funzione rieducativa della pena. Ecco, affrontare in blocco questi temi con i loro sicuri collegamenti al piano eurounitario diventa la sfida della SSM ed una prospettiva esaltante. Realizzare questo progetto significa rinnovare la formazione tradizionale in modo da mettere l'aspirante magistrato di fronte a nuovi e più complessi compiti non sempre e non necessariamente esercitabili soltanto con il ricorso alle banche dati giurisprudenziali Diversamente organizzando l’attività di formazione, ossia sottraendo il fondamentale tratto valoriale, sminuirebbe il ruolo genuino della SSM e la renderebbe vulnerabile nella competizione con i corsi privati di preparazione, comprensibilmente votati all’esaltazione del versante dell’apprendimento.
È da ritenere in questo senso che la sinergia con l’Accademia e l'apporto dell'avvocatura siano mezzi da dispiegare insieme all’obiettivo dell’affinamento del legal reasoning, di cui prima si è detto. Ed in questa prospettiva dovrebbe svolgersi l’attività di correzione degli elaborati preparatori, nell’auspicio che a questa stagione riformatrice del metodo formativo vogliano fattivamente partecipare sappiano e vogliano collocarsi le commissioni giudicatrici.
Elena D’Alessandro, Ordinaria di diritto processuale civile Università di Torino
I quesiti proposti sono di estremo interesse.
Mi sembra che il punto di partenza dal quale partire sia una carenza esistente attualmente nel sistema della formazione universitaria per cui i laureati aspiranti magistrati o aspiranti avvocati hanno a mio avviso tre lacune: la prima lacuna legata al non sapere scrivere. La maggior parte degli esami nell'università italiani sono in forma orale. Alcuni docenti universitari, me compresa, hanno introdotto l’esame scritto proprio per aiutare gli studenti a questo fine. La redazione della tesi non basta è troppo poco perché i ragazzi non sono stati formati, durante il periodo dell’istruzione secondaria.
Ora, di questa lacuna la scuola che si occuperà della formazione degli aspiranti magistrati dovrà tenere conto, anche se è vero che alcune università sul punto si stanno attrezzando.
Il secondo punto dal quale partire è che, secondo la mia esperienza, i laureati in giurisprudenza non hanno chiare le categorie del diritto sostanziale. Ciò si nota quando vengono a seguire il corso di diritto processuale civile perché le università sono adesso organizzate anche quelle di giurisprudenza in semestri. È una vera e propria corsa contro il tempo e per di più spesso è obbligatorio unicamente il corso di diritto privato e non quello di diritto civile, divenuto facoltativo a fronte del proliferare di un numero davvero rilevante di insegnamenti secondari, molto appetibili per gli studenti per vari ordini di ragioni.
In questa situazione, una delle priorità della formazione degli aspiranti magistrati dovrebbe dunque essere quella di offrire loro la conoscenza delle categorie. Io credo ancora che in un mondo complesso le categorie facciano la differenza, proprio perché quello che salva in un mondo complesso e appunto avere le categorie, pochi concetti ma semplici di diritto sostanziale.
Un altro grandissimo problema, il terzo, è che gli studenti non sanno approcciare il caso concreto, sanno rispondere dopo aver seguito il tutorial a una domanda aperta ma se tu poni loro un problema concreto che avrà il giudice non lo sanno approcciare. Anche questo è un problema che affonda le sue origini nell’università.
Questo è comunque il panorama degli studenti che la scuola dovrà formare per consentirgli l'accesso al concorso in magistratura. I laureati di oggi sono diversi dai laureati del nostro tempo, hanno sete di pratica e sono molto meglio predisposti verso le nuove tecnologie di insegnamento; preferiscono ascoltare un podcast, un vocale, un video piuttosto che leggersi la scheda scritta e di questo, secondo me, la formazione degli aspiranti magistrati dovrà tenere conto.
Alla domanda se i moduli formativi della SSM attuali sono compatibili con quelli che si dovranno realizzare per gli aspiranti magistrati la risposta è complessa.
Per colmare le lacune che ho provato a rassegnare la SSM credo dovrà attrezzarsi anche se ha già ha dei corsi che mette a disposizione il cui punto di forza, secondo me, è dato dal fatto che riguarda argomenti che non possono essere ignorati per superare il concorso in magistratura. Ho dato uno sguardo ai corsi che fate per i morti e ho trovato per esempio un corso sulla causalità nella responsabilità civile e quello, per esempio, è un corso utile perché fa capire all'aspirante magistrato che quel tema sicuramente non può essere ignorato.
Detto questo, secondo il mio avviso occorrerà arricchire i corsi della scuola sulle lacune che ho rassegnato, offrendo insegnamenti sul come scrivere su come ci si approccia a un caso concreto. Per questo, secondo me, è utile avere un responsabile del corso magari più di uno magari avere una terna, un magistrato o avvocato e professore responsabili del modulo di diritto civile che si impegnino innanzitutto a spiegare come si affronta la prova scritta per poi a dare i contenuti. Sul come offrire i contenuti mi sento di dire che i giovani oggi hanno bisogno un estremo bisogno di chiarezza, devono avere chiara qual è la scaletta, qual è il percorso formativo che affronteranno, qual è il punto di partenza qual è il punto di approdo, quali istituti saranno trattati. Si tratta di obiettivi che i corsi attuali della SSM ovviamente non ha ma che può certamente realizzare. Saranno fondamentali le modalità di insegnamento; secondo me la presenza di tecnici bravissimi nella SSM potrebbe favorire la realizzazione di podcast sui vari argomenti, per esempio sul tema della causalità. Se al posto di una relazione scritta si offrisse ai giovani un podcast, un video, una pillola di non più di 15/20 minuti in modo da spiegare le caratteristiche dell'istituto e poi si offre danno la bibliografia essenziale, indicando quali sono le pronunce giurisprudenziali importanti da conoscere questo podcast, questo video resterebbe a disposizione di tutti e avrebbe un valore fondamentale e lo potreste condividere anche con gli avvocati. Ma questi podcast non possono essere messi a caso a disposizione dei partecipanti, occorrerà una struttura logica, un albero che faccia capire agli studenti qual è il percorso da compiere per la preparazione. In questo la sinergia con gli avvocati è fondamentale proprio per evitare una formazione ghettizzata che distingue nettamente magistrati e avvocati. Quindi mi sento di esprimere un sì incondizionato alla sinergia fra avvocatura e magistratura in modo da offrire più punti di vista ai discenti. Per tale motivo potrebbe essere una buona idea nominare come responsabili dei singoli moduli un magistrato, un avvocato ed un professore. Anche l’idea di una didattica esperienziale mi sembrerebbe importante; costruire un processo simulato con gli avvocati potrebbe essere utile per favorire, anche a distanza, moduli formativi comuni. Se gli aspiranti avvocati si formano su questo format ridurranno gli atti di parte ed impareranno a redigere gli atti, al pari degli aspiranti magistrati che, letti gli atti ed esaminati i fatti del processo simulato, redigeranno una sentenza.
Sulla base di questo format si potrebbe pensare alla correzione degli elaborati. In una prima fase il responsabile del corso, anche il magistrato, dovrebbe poter correggere gli elaborati.
Resta da esaminare la questione relativa al divieto dei magistrati a partecipare come docenti ai corsi di formazione della magistratura che era stato pensato per i corsi privati. Ritengo che quel divieto vada delimitato e rivisto alla luce della competenza adesso attribuita alla SSM. Il magistrato che mette il suo know-how a disposizione dei giovani non mi pare un qualcosa di negativo, a parte il divieto di partecipare alla commissione di esame che almeno in una prima fase credo vada garantito.
Mi permetto, infine, di insistere sulla necessità che gli aspiranti magistrati abbiano a disposizione dei docenti capaci di offrire ai discenti la capacità di affinare la capacità di dare logicità al ragionamento. Il fatto che possano esserci UPP non credo sia significativo e possa attenuare il punto critico rappresentato dal livello di preparazione in entrata degli aspiranti magistrati.
Un’ultima amara riflessione dedicata al diritto internazionale privato. In tutte le università, prodighe nel prevedere materia facoltative le più varie fra loro non dedicano attenzione alla materia che dà delle categorie fondamentali che insegnano come approcciare un contenzioso transfrontaliero. Credo che una riflessione congiunta tra magistratura avvocatura e Accademia sia proficua. Anche a livello universitario abbiamo provato a fare qualcosa: un manuale innovativo di diritto inglese su casi specifici, coinvolgendo alcuni studenti per sentire il loro punto di vista e inserendo una serie di casi pratici per capire come approcciare un caso concreto.
Claudio Scognamiglio, Ordinario diritto privato Università Tor Vergata
Trovi nelle innovazioni previste per il concorso di accesso la base di un nuovo modo di fare formazione per gli aspiranti magistrati?
1. Credo che le innovazioni abbiano una finalità essenzialmente produttivistica, per così dire, che certamente può rendere ancora più importante il ruolo della SSM nella formazione anche in questa fase.
2. Ritengo che, accanto ad una formazione teorica il più possibile ‘dialogante’, nel senso che tenterò di chiarire infra, possano rilevare – ed anche sul punto ritornerò – momenti formativi ‘sul campo, attraverso la partecipazione – assistenze a udienze. La sensibilità del giudice nel raccogliere la prova ritengo possa essere acquisita solo in questo modo.
3. Il richiamo ai principi mi sembra che espliciti – opportunamente – un’indicazione di metodo (della formazione del magistrato, prima, e dei processi argomentativi e decisionali che quest’ultimo è chiamato a svolgere, poi) che probabilmente poteva già ritenersi presente nei più recenti approdi della comunità degli interpreti. In fondo, e senza cedere a quella che uno scrittore francese ha efficacemente definito la ‘principolatrie’, la capacità dell’interprete, e specificamente del giudice, di attingere ai principi i referenti motivazionali della propria decisione rappresenta senza dubbio un fattore di progresso nella costruzione della regola; ciò che naturalmente non vuol dire che il giudice debba ‘saltare’, ove esistente, la regola specificamente presente nel sistema per la decisione del caso, ma solo che egli deve essere pronto a guardare anche ai principi nel caso in cui sia possibile estrarre una pluralità di possibili norme dalla disposizione che viene in considerazione per la risoluzione della controversia per stabilire quale norma sia più coerente rispetto ai principi.
Dal punto di vista dell’organizzazione della formazione, le innovazioni previste renderanno sicuramente utile che, nelle singole occasioni formative, vi siano una o più lezioni calibrate specificamente sulla dimensione dei principi che possano venire in considerazione nel caso di specie.
4. Ritengo che gli aspiranti magistrati possano apprezzare in modo particolare la struttura dialogica che, nella mia esperienza, i moduli formativi della SSM hanno: struttura dialogica nel duplice senso che, su una stessa questione, intervengono – solitamente – uno studioso ed un magistrato e che vi è, al termine delle singole sessioni, uno spazio riservato alle domande del pubblico. Quanto a quest’ultimo aspetto, e benché talora – forse, e banalmente, per comprensibili ragioni di ritrosia dei partecipanti al corso a prendere la parola in pubblico – non vi siano molti interventi, ritengo che la ‘provocazione’ ai partecipanti al corso a (provare ad) argomentare anche per principi, nelle loro domande/interventi, possa aiutare a superare le ritrosie sopra accennate.
5. Certamente, potrebbe essere utile che sia uno stesso docente a dovere seguire una parte dei programmi elaborati per dare un taglio il più possibile unitario al corso, ferma restando sempre la necessità di interazione con il co – docente magistrato.
6. Naturalmente, avere un tutor – o forse, a questo punto più plausibilmente, visto che si tratta di compiti di un certo impegno, un ‘nucleo’ di tutor – che segua tutti gli aspetti indicati nel quesito potrebbe essere utile. In particolare, il passaggio della predisposizione delle tracce e della correzione degli elaborati, collocate entrambe anche all’interno di un confronto con il singolo candidato, mi pare sicuramente significativo ai fini di una preparazione ottimale dei candidati
7. Quanto agli effetti della partecipazione a questi corsi di magistrati sugli uffici di appartenenza devo riconoscere che non una conoscenza dell’organizzazione degli uffici. Credo, comunque, e per quel che concerne il divieto di cui si fa cenno nel quesito, che – data la funzione dei corsi somministrati dalla SSM e la qualificazione istituzionale della medesima – un’interpretazione razionale del divieto non dovrebbe estenderlo anche a questi corsi.
8. Non so fino a che punto una sinergia tale da implicare la partecipazione di esponenti dell’Accademia e dell’Avvocatura già in sede di macro – organizzazione dei corsi possa essere realizzata ‘a legislazione vigente’. Forse la sinergia potrebbe essere perseguita più facilmente nell’ambito dei singoli corsi, articolando, o arricchendo di ulteriori contenuti, la figura dell’esperto formatore.
9. A mio avviso, più che ad un’osmosi o ad una compenetrazione, sarebbe opportuno pensare a forme di collaborazione attuate di volta in volta sui singoli corsi. Il ‘mondo’ delle scuole di specializzazione per le professioni forensi ha conosciuto negli ultimi anni una significativa crisi, dovuta alla progressiva sottrazione alle medesime di una serie di funzioni a suo tempo assegnategli, e forse sarebbe complesso tornare indietro, da questo punto di vista.
10. Riterrei che una formazione ‘a compasso allargato’, e non appiattita sull’obiettivo del superamento del concorso, sia senz’altro da preferirsi: è vero che i vincitori del concorso fruiscono, poi, di un adeguato periodo di tirocinio, ma forse porre l’accento anche in questa fase sulla metodologia di apprendimento può rappresentare un guadagno per l’aspirante magistrato.
11. La formazione a distanza ha sicuramente pregi logistici dei quali non si può più fare a meno; credo che la soluzione migliore sia una combinazione tra le due modalità, assegnando una posizione di prevalenza a quella in presenza, che consente di realizzare al meglio il momento del dibattito e dello scambio di idee.
12. Forse più che un vero e proprio tirocinio pratico negli uffici giudiziari – per svolgere il quale ci sarà, se non erro, tutta la fase successiva all’esito positivo del concorso – vedrei con favore singoli momenti formativi negli uffici giudiziari, soprattutto per quello che concerne l’assistenza alle udienze, che può consentire di apprendere con maggiore facilità le nozioni relative all’attività istruttoria ed al ‘contatto’ del giudice con le fonti di prova. Mi parrebbero invece francamente un fuor d’opera momenti formativi presso gli studi professionali.
Le interviste nascono da conversazioni svolte a titolo personale del curatore e non sono in alcun modo riferibili alla SSM.
[1] Che cos’è la verità? in Riv. di filosofia, 1956, Torino 251 ss.
[2] Art. 4 della legge 17 giugno 2022, n. 71: Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina dell’accesso in magistratura sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere che i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni possano essere immediatamente ammessi a partecipare al concorso per magistrato ordinario […omissis.]d) prevedere che la prova scritta del concorso per magistrato ordinario abbia la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati e consista nello svolgimento di tre elaborati scritti, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo, anche alla luce dei principi costituzionali e dell’Unione europea; e) prevedere una riduzione delle materie oggetto della prova orale del concorso per magistrato ordinario, mantenendo almeno le seguenti: diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale, diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto dell’Unione europea, diritto del lavoro, diritto della crisi e dell’insolvenza e ordinamento giudiziario, fermo restando il colloquio in una lingua straniera, previsto dall’articolo 1, comma 4, lettera m), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160″. Il decreto legislativo 28 marzo 2024, n. 44, ha sostituito l’art. 1 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, introducendo il nuovo comma 3: “la prova scritta ha la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati, alla luce dei principi generali dell’ordinamento, e consiste nello svolgimento di tre elaborati scritti, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo, anche alla luce dei principi costituzionali e dell’Unione europea“. L’art. 3, d.lgs. n. 44/2024-Modifiche al decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26- ha previsto che al decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 sono apportate le seguenti modificazioni: a) all'articolo 2, comma 1, dopo la lettera o) è inserita la seguente: «o-bis) all'organizzazione di corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario.» b) Dopo il titolo I è inserito il seguente: TITOLO I-bis Disposizioni in tema di corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario. Cfr., poi, l’art. 17-sexies. Oggetto: La Scuola organizza corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario riservati a laureati che sono in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 73 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98 e che svolgono o hanno svolto il periodo di tirocinio formativo, oppure hanno prestato la loro attività presso l’ufficio per il processo ai sensi dell'articolo 14 del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, o presso le strutture organizzative disciplinate dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 151. La Scuola, nell'esercizio della propria autonomia, tenuto conto delle proprie risorse, stabilisce, per ogni corso, il numero massimo di partecipanti ammessi e i criteri di preferenza per il caso in cui gli aspiranti siano in numero superiore ai posti disponibili. Inoltre, l’art. 17-septies. Programma e modalità, prevede che “I corsi vertono sulle materie oggetto della prova scritta del concorso per magistrato ordinario e possono essere organizzati in tutto o in parte in sede decentrata. I corsi consistono in sessioni di studio tenute da docenti di elevata competenza e professionalità, individuati nell'albo esistente presso la Scuola. I corsi sono organizzati secondo le modalità previste nello statuto della Scuola.” Infine, l’art. 17-octies -Costi- ha disposto che “I costi di organizzazione gravano sui partecipanti in una misura che tiene conto delle condizioni reddituali loro e dei loro nuclei familiari, secondo le determinazioni del Comitato direttivo.”
Foto via Wikimedia Commons.
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