ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Marie Gulpin” di Marco Mantello l’inedito camouflage dell’odio. Recensione di Paola Filippi
In Francia, in un futuro distopico, l’estrema destra è al potere.
È Marie Gulpin che guida il paese, la leader del partito Figli della Patria.
È arrivata al potere cavalcando le paure e le insicurezze dei francesi. Il collante lo ha facilmente rinvenuto nell’odio razziale che ha sapientemente coltivato, insieme a populismo e complottismo.
Tutti i francesi sono con lei, uniti contro i neri, contro gli immigrati e soprattutto contro i musulmani. Nell’immaginario collettivo, manipolato da Gulpin e dai suoi sodali, gli stranieri sono i nemici mortali della Francia, e il popolo francese è saldamente unito nel comune sentimento di rabbia e istinto di prevaricazione contro il diverso.
La leader del partito Figli della Patria – come già è accaduto in altri paesi europei dove i fasciti sono al governo e il sovranismo ha vinto – reintroduce in Francia la pena di morte.
Chi sarà il primo decapitato, dopo l’introduzione della ghigliottina? Sarà Luigi Gulpin, il figlio, appena diciottenne, di Marie? È lui che, con i suoi amici, ha organizzato il poussez le mannequin e gettato Abdel Hakim Hadiudi, un anziano immigrato di origine tunisina, tra le rotaie del metrò? Abdel Hakim Hadiudi meritava di morire?
Il romanzo di Marco Mantello, scrittore e poeta romano che vive tra Parigi e Berlino, autore del romanzo “La rabbia”, finalista al Premio Strega nel 2012, inizia così, con il drammatico poussez le mannequin, e di lì si dipana, almeno apparentemente, secondo gli ordinari schemi del thriller psicologico; nessuno dei personaggi è veramente come appare, la realtà è presentata su diversi piani e differenti angoli visuali.
Immagini carpite da misteriose riprese video, spedite al narratore Cesare Cannelutti, terzo marito di Marie Gulpin, da un mittente anonimo, restituiscono vicende inaspettate e sconvolgenti. Rappresentazioni di vita vissuta che modificano repentinamente i tratti dei personaggi e i loro ruoli. La storia si fa sempre più avvincente.
Marco Mantello, con “Marie Gulpin”, in maniera magistrale, offre al lettore, intrecciandole in un'unica storia, tre diverse narrazioni: quella che si dipana nel thriller; quella che affronta i temi legati all’ascesa dell’estrema destra, al populismo nazionalista, all’ossessione identitaria e antislamica che attraversa l’Europa, quella che descrive, senza veli, la personalità e l’ascesa della leader sovranista.
Il giallo è intrigante: Luigi Gulpin sarà condannato? Ci saranno altri morti? Chi è veramente Davide? Il Soleil Noir esiste? Quale è il ruolo assegnato all’ultimo discendente dei boia, chiamato a rimettere in funzione la Petite Louison?
L’analisi politica dell’ascesa dell’estrema destra è estremante lucida: la paura droga la ragione, l’odio razziale è il nuovo oppio che obnubila il popolo francese.
Il sovranismo, con la proclamazione dell’obiettivo dell’esclusione è il vessillo che rassicura gli animi. La solidarietà è bandita e i diritti fondamentali sono sostituiti dai valori della patria. Ma in cosa consistono i valori della patria? Quali sono questi valori proclamati e da difendere strenuamente? Ebbene, si tratta di valori dei quali si sa solo che sono da difendere; alla loro mera enunciazione corrisponde il vuoto; un vuoto potente perché riesce a cancellare non solo l’egalité – cancellazione scontata per i diversi – ma anche la liberté e la fraternité.
In questo nuovo regime gli showman e i pagliacci diventano, a pieno titolo, uomini politici di successo, nella facile declinazione di una ideologia populista, senza idee, senza rispetto dei diritti fondamentali dei diversi ove solo i francesi possono ridere, essere felici e vivere. I giudici sono sostituiti dai talkshow.
Il processo mediatico delle vittime è formalizzato – diventa Cour d’Assises con il nome di Giudice delle vittime. Secondo la filosofia per cui “il sangue non si nutre di una colpa dei carnefici ma di un sentimento diffuso di colpevolezza attribuito alla vittima” l’immigrato, vittima, diventa imputato. Il sistema penale è particolarmente repressivo con l’introduzione di crimini tipici dei regimi di polizia, la giustizia oltre che mediatica è sommaria. I nuovi crimini sono quelli da strada, mentre, contestualmente, i reati dei colletti bianchi vengono depenalizzati.
La descrizione della Francia è desolante, trapela come scenario di fondo un occidente ripiegato su stesso, chiuso nelle proprie ossessioni, sterile e contaminato da “democrazie identitarie” e “sovranismi”.
Nella descrizione di Mantello – alla fine non così immaginaria – l’Occidente è in pericolo. Non sono i neri, gli immigrati o l’Islam a collocarlo sull’orlo del baratro quanto piuttosto è l’Occidente che è in fase di autoeliminazione; processo iniziato con la drastica sostituzione della politica dell’esclusione alla politica della solidarietà e dell’accoglienza, con la sostituzione dei principi di Jean-Jacques Rousseau con i vacui valori della patria.
In questo nuovo occidente – con la o minuscola – tutto ruota attorno al doppelwirKung, come scrive nella sua tesi Davide Cannelutti, figlio del narratore e amico di Luigi Gulpin, con lui nel poussez le mannequin. La nuova cristianità che anima l’occidente ha sostituito Dio con il culto dell’apparire, del piacere e della ricchezza; in nome di divinità commerciali e ha poi trovato la regola per autoassolversi da ogni delitto. L’odio verso il diverso è giustificato dall’amore verso l’uguale o l’assimilato. L’introduzione della pena di morte è un atto di amore di Gulpin verso la Francia. In nome della sicurezza degli uguali è stata elaborata la distinzione tra costi umani e omicidi. Il terrorismo islamico è omicida mentre l’occidente è innocente per definizione, perché agisce a difesa di sé stesso e, per il resto, i danni sono effetti collaterali, non importa se le vittime sono civili innocenti o addirittura bambini.
L’intento di Marco Mantello è quello di «recuperare la vista» sulle identità collettive e la violenza in Europa, per accendere i riflettori sui «pericoli insiti in una mentalità collettiva che si alimenta in modo ossessivo del terrore prodotto dagli “altri”»[1].
L’occidente descritto da Mantello è un occidente con la “o” minuscola, che non ha fatto i conti con il suo lato oscuro, che non ha preso le distanze da fenomeni politico-culturali come il nazismo e il fascismo.
La terza narrazione che si intreccia nel racconto riguarda nell’intimo Marie Gulpin.
Gulpin si svela come una donna qualunque, solo ben “lanciata”, altro non è che un marchio di successo, il cui slogan è tratto dall’ancestrale paura della morte.
È instabile e psicotica – straordinario il suo rapporto con il boia della Bastiglia, lo gusterà il lettore – ma ciò non altera il rapporto della Gulpin con il suo popolo. È significativo che la leder del partito nazionalista sia una donna. Come ha scritto Marco Mantello «È un qualcosa di altamente manipolativo, perché si usano argomenti condivisi per rendere incontestabile il fine, reazionario, attraverso la condivisione del mezzo, progressista»[2].
Il messaggio è che chiunque, con un buon lancio pubblicitario, può diventare un leader sovranista, un dittatore; tutto inevitabilmente si snoda attorno al pericolo correlato alla desertificazione della cosa pubblica, al disinteresse per il collettivo e all’abbandono della politica.
Il messaggio di Marco Mantello è chiaro: la partecipazione politica va costantemente coltivata per impedire che vengano occupati da uno solo al comando – una sola nel nostro caso – gli spazi che, in uno Stato democratico devono, necessariamente, essere occupati da una pluralità di soggetti.
Le idee vanno coltivate con il confronto; le ideologie non possono essere sostituite dai c.d. valori della patria, concentrati esclusivamente attorno all’identità nazionale, il centro dell’etica della polis è l’essere umano, senza distinzioni riferite a diversità, come recita la Carta fondamentale dei diritti dell’Uomo.
La pochezza di Marie Gulpin, l’assenza di un’ideologia contro la quale confrontarsi, l’inconsistenza dei valori della patria, cuciti con la stessa stoffa del vestito dell’imperatore[3], avvertono che non è poi così difficile che un leader fascista prenda il potere. La ricetta è sempre la stessa fomentare la paura e assicurare sicurezza e protezione.
Il romanzo di Marco Mantello, con questa stupenda descrizione di una surreale Francia fascista, che purtroppo richiama criminalizzazioni, depenalizzazioni, razzismi e nuove diseguaglianze del nostro quotidiano, richiama alla memoria il monito di Primo Levi “È accaduto, quindi può di nuovo accadere”.
“Marie Gulpin” va letto.
Marco Mantello, "Marie Gulpin", Neri Pozza, 2023.
https://www.ibs.it/marie-gulpi...
Inedito camouflage dell’odio è un’espressione tratta dal titolo dell’intervista a Marco Mantello apparsa su il Manifesto il 25.4.2023 https://media.gruppoathesis.it/media/attach/2023/05/il_manifesto.pdf
[1] V. Marco Mantello e l’inedito camouflage dell’odio dal titolo dell’intervista di Guido Caldiron a Marco Mantello apparsa su il Manifesto il 25.4.2023.
[2] V. nota 1.
[3] Il vestito della fiaba danese di Hans Christian Andersen - Keiserens Nye Klæder.
L'immagine è un’installazione dalla serie «Human condition» di Antony Gormley
Applicare i principi fondamentali, rispettando le regole.
Con le sentenze gemelle n. 128 e n. 129 del 16 luglio 2024 continua la revisione costituzionale dei licenziamenti come disciplinati dal Jobs Act
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Oronzo Mazzotta
V. A. Poso. Continuano gli interventi demolitorio-ricostruttivi della Corte costituzionale sul “contratto a tutele crescenti” (d.lgs. n. 23 del 2105). I più recenti sono le sentenze 16 luglio 2024, n. 128 e n.129.
In estrema sintesi, con la sentenza n. 128 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage). Mentre con la sentenza n. 129 è stata ritenuta non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevata in riferimento ad un licenziamento disciplinare basato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione conservativa, a condizione che se ne dia un’interpretazione adeguatrice in base alla quale deve essere disposta la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la regolamentazione pattizia preveda solo sanzioni conservative.
Tutto inizia con la sentenza n. 194 dell’8 novembre 2018 oggetto – come spesso accade in materie come questa – di letture contrastanti. Tu cosa ne pensi? Il tuo giudizio su questa sentenza costituzionale è positivo?
O. Mazzotta. La sentenza del 2018 è di grande rilevanza perché tocca il nucleo duro dell’intervento legislativo. Si tratta del cuore delle cc.dd. “tutele crescenti”. L’idea che fa da sfondo alla legge si riannoda alla ormai antica prospettiva (se si pensa che risale ai primi anni Ottanta) secondo cui la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro all’interno dell’impresa avrebbe dovuto favorire maggiore occupazione, attraendo gli investitori esteri. Per smentire la fondatezza della prospettiva in questione forse sarebbe sufficiente acquisire che, nonostante il fatto che tali politiche siano state messe in atto da oltre 40 anni, la situazione dell’occupazione non si è molto modificata; anzi in alcuni settori è aumentata la precarizzazione del lavoro.
Più nello specifico la legge intendeva segnalare agli imprenditori due cose: (a) che, dopo il 7 marzo 2015, licenziare un lavoratore sarebbe costato molto meno rispetto al passato e (b) che comunque il costo del licenziamento (tendenzialmente monetizzato) avrebbe potuto essere millimetricamente calcolabile a priori. Infatti, come è noto, le “tutele crescenti” questo sono: lungi dal rappresentare un nuovo modello negoziale (il famoso “contratto a tutele crescenti”) consistono in nient’altro che in una tecnica per determinare l’entità dell’indennizzo dovuto in caso di licenziamento illegittimo, entità che viene ancorata agli anni di servizio. Punto e basta. Il coté nobile di tale presupposto di fondo è quello di assicurare la certezza del diritto, quello un po’ meno nobile risponde al nome di “giustizia predittiva”.
I miei (meno di) venticinque lettori conoscono le obiezioni che ho formulato nei confronti di tale prospettiva.
V. A. Poso. Ce le puoi ripetere?
O. Mazzotta. In primo luogo, tutti i barocchismi sul costo del licenziamento si infrangono contro una constatazione assai banale: un licenziamento legittimo non costa nulla. Ne deriva che tutta l’enfasi politica riposta sulla riforma si riduce in nient’altro che in un espediente per restituire al datore di lavoro un potere di libera recedibilità un po’ (un bel po’ dopo il decreto dignità) più costoso.
In secondo luogo, mi continua a sfuggire la ragione per cui l’imprenditore, quel capitano coraggioso che affronta impavido i mille rischi che il mercato gli propone (dal costo delle materie prime alle insidie della concorrenza) debba poter misurare con il bilancino del farmacista quanto gli costerà un licenziamento illegittimo.
La verità è ovviamente un’altra. La pianificazione del costo del licenziamento è nient’altro che l’altra faccia del timore dell’intervento del giudice in materia, quel timore che il c.d. “collegato lavoro” del 2010 aveva cercato maldestramente di attutire se non di evitare del tutto.
Sennonché la discrezionalità giudiziale (e quindi la conseguente incertezza circa l’esito delle relative liti) è strutturalmente inevitabile perché è lo stesso legislatore che ha affidato il potere di liberarsi dal vincolo obbligatorio di lavoro a delle norme (o clausole) generali, che, al pari della buona fede, della correttezza, della diligenza, etc., sono gli strumenti giuridici meno controllabili a priori. E la ragione è ovvia: è lo stesso legislatore che non potendo risolvere una volta per tutte il conflitto fra le due parti del rapporto di lavoro, ha rinviato la soluzione di tale conflitto ad un’altra autorità, per l’appunto quella giudiziale.
Ecco, dunque, che si ritorna al punto di partenza del discorso, che il legislatore del 2015 ha cercato invano di eludere: il licenziamento è atto irriducibilmente individuale inserendosi all’interno della dinamica di un singolo rapporto di lavoro e la reazione sanzionatoria in termini economici non può essere standardizzata ed applicata a tutte le (diversissime) situazioni che quella dinamica presenta. È questo il messaggio più profondo che ci lancia la Corte costituzionale, che, non a caso, senza intaccare la scelta per l’indennizzo economico, invita a tener conto, nella sua determinazione, di una serie di parametri che restituiscono il senso della individualità e specificità del singolo recesso e che sono poi quelli descritti dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966. Per la Corte, infatti, e giustamente, è irragionevole e fonte di diseguaglianze trattare allo stesso modo situazioni profondamente diverse.
In questo senso la Corte è rispettosa dell’insegnamento mengoniano che vuole che il ricorso al “sistema”, per non ricadere nel vizio di arbitrarietà, sia ammissibile solo in presenza di una lacuna dell’ordinamento; che è quanto ha fatto la Consulta evitando di creare nuovi parametri, ma limitandosi ad importare quelli già esistenti in materia di licenziamento.
V. A. Poso Da quanto dici traggo la conclusione secondo cui il “difetto” della disciplina introdotta nel 2015 è originario, se tanti sono stati gli interventi della Corte Costituzionale.
O. Mazzotta. È quanto mi sembra di poter dire, anche rispetto ad altre decisioni altrettanto importanti.
V. A. Poso. Tralasciando la sentenza, non meno importante, n. 150 del 16 luglio 2020, meramente conseguenziale rispetto alla prima, c’è stata, qualche anno dopo, la sentenza 22 febbraio 2024, n. 22 con la quale la Corte Costituzionale (in maniera del tutto condivisibile, secondo me) ha risolto il problema delle nullità – testuali e virtuali – ampliando la platea delle ipotesi alle quali consegue la reintegrazione nel posto di lavoro con integrale risarcimento dei danni.
O. Mazzotta. Sono d’accordo con te. In questo caso direi che la Corte è stata assai rispettosa della volontà del legislatore, essendosi basata sull’evidente eccesso di delega (la legge di delegazione non distingueva infatti fra nullità espresse e nullità virtuali). A mio avviso avrebbe anche potuto ritenere del tutto irragionevole la scelta di limitare la reintegrazione alle sole ipotesi di nullità espressa.
La distinzione fra nullità virtuali ed espresse poggia su basi assai poco solide. Si tratta di una contrapposizione che non costituisce un discrimine negativo, tale da escludere alcune fattispecie, collocabili certamente entro lo spettro della nullità, dalla relativa sanzione. Essa ha la sola funzione di distinguere fra nullità espresse e nullità rimesse alla valutazione del giudice in punto di “violazione di norma imperativa”. In sostanza mentre nel primo caso il compito del giudice è alleggerito dalla circostanza che il legislatore ha sancito la sanzione applicabile alla specie, nel secondo il medesimo legislatore ha rinviato all’interpretazione giudiziale la verifica del carattere imperativo della norma violata. Mai invece si dà che una nullità possa essere considerata in sé e per sé non sanzionabile con gli effetti che le sono propri (la caducazione dell’attività del privato).
In effetti deve valere l’aureo (e permanentemente vigente) principio secondo cui ogni atto di autonomia che si ponga in violazione di norma imperativa è affetto dalla sanzione della nullità ex art. 1418 cod. civ., salvo che non sia diversamente disposto dalla legge. Si ribalta quindi l’idea del legislatore del 2015: non deve la legge prefigurare le conseguenze della nullità in modo “espresso”, ma queste sono ricollegate direttamente dai principi civilistici, salvo che non venga esplicitamente negatatale conseguenza.
Ciononostante – con apprezzabile senso del proprio ruolo – la Corte costituzionale sposa l’idea che il legislatore delegato fosse andato oltre l’incarico conferitogli dal Parlamento delegante, nel momento in cui ha voluto introdurre l’avverbio “espressamente”, laddove nel criterio direttivo della legge di delega manca del tutto la distinzione fra nullità espresse e nullità non sanzionate come tali, con la conseguenza che la reintegrazione deve far capo ad ogni ipotesi di licenziamento riconducibile alla categoria della nullità. E dunque sotto questo profilo non mi pare che si possa rimproverarle nulla.
V. A. Poso Si tratta di capire, a questo punto, come incide questa sentenza nella concreta applicazione dei giudici comuni.
O. Mazzotta. Non mi pare complicato. È la Corte stessa che, nell’ampia motivazione, con pazienza certosina, elenca tutte le ipotesi di nullità del licenziamento, nel gioco combinato di legislazione e (soprattutto) giurisprudenza, fra le quali colloca, fra l’altro, il licenziamento durante il periodo di comporto per malattia; quello per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ.; quello ritorsivo sulla base della normativa di cui alla l. 179/2017 (il c.d. whistleblower); quello in violazione del blocco dei licenziamenti disposto durante il periodo del Covid; il licenziamento in violazione dell’art. 4 della l. 146/90 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali; quello in violazione della disciplina degli stupefacenti (art. 124, 1° co. d.p.r. 309/90), etc.
V. A. Poso. Tornando agli aspetti generali, sistematici, mi sembra che passi indenne dalle censure il discrimen temporale dell’assunzione a far data dal 7 marzo 2015.
O. Mazzotta. Il punto è quello meno discutibile. Si tratta di una pacifica applicazione del principio, da sempre invalso nella giurisprudenza della Corte costituzionale (si pensi alla materia pensionistica), secondo cui la diseguaglianza di trattamento va valutata in maniera sincronica e non diacronica. E nel caso il legislatore del d.lgs. 23/2015 ha applicato la disciplina solo ai nuovi assunti, la cui posizione non è comparabile con quella dei lavoratori già in forza al momento dell’entrata in vigore della legge.
V. A. Poso. Torniamo alle ultime due sentenze costituzionali. Prima di tutto la n. 128/2024 che ricompone il requisito dell’ “insussistenza del fatto” cercando di omogeneizzare la disciplina riguardante i licenziamenti economici e quelli disciplinari. È proprio così o ci sono margini di incertezza?
O. Mazzotta. Direi che è proprio così. Il filo conduttore che guida le due importanti decisioni della Consulta è proprio la nozione di “fatto”. Lo scopo è quello di rendere omogenee le discipline riguardanti l’illegittimità del licenziamento per ragioni oggettive e soggettive eliminando le evidenti storture, in termini di lesione del principio di eguaglianza, causate dalla differenziazione di regimi. Alla base del discorso c’è l’idea, cui ho fatto già cenno in precedenza, secondo cui il licenziamento è un fatto traumatico che incide sulla vita del lavoratore e la cui regolamentazione deve di necessità rispettare la dignità del lavoratore colpito da un evento così devastante.
V. A. Poso. In termini generali cosa si intende per “fatto” al fine di potere apprezzare la sussistenza o no dello stesso.
O. Mazzotta. Il “fatto” è nient’altro che la proiezione in termini concreti della descrizione che ne fornisce la legge per giustificare la rottura del vincolo. È una species concreta di una definizione astratta (di qui l’espressione “fattispecie”). Esso va quindi inquadrato entro la definizione normativa per coglierne la rilevanza e legittimare il recesso.
V. A. Poso. Mi sembra evidente che, in base ai criteri generali dell’onere della prova in tema di licenziamento, sia il datore di lavoro, e non il lavoratore, a dover dimostrare la sussistenza del fatto, di un fatto genuino e rilevante, posto a fondamento del recesso per motivi oggettivi.
O. Mazzotta. Sono perfettamente d’accordo; questo è quanto de plano risulta dall’art. 5 della legge n. 604 del 1966.
V. A. Poso. La Corte, però, considera fuori dalla nozione di “fatto” rilevante ai fini della tutela reintegratoria l’obbligo di repêchage la cui violazione da parte del datore di lavoro comporta solo una compensazione indennitaria del danno. Ciò, peraltro, in evidente contrasto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione.
O. Mazzotta. Il contrasto è solo apparente. Il primo passaggio argomentativo ruota intorno all’idea della necessaria causalità del recesso datoriale (sostenuta, se fosse necessario, dai riferimenti costituzionali al diritto al lavoro e alla tutela del lavoro in tutte le sue forme). Da questa idea – ripeto: sostenuta dal richiamo a fondamentali principi costituzionali – scaturisce la logica conseguenza, pur nel rispetto della discrezionalità del legislatore, di una “adeguata e sufficiente” dissuasività della sanzione avverso il licenziamento illegittimo.
Messa in questi termini la questione, risulta evidente la discrasia fra giustificazione soggettiva e giustificazione oggettiva in termini di sanzione applicabile al licenziamento illegittimo. Nel primo caso il legislatore del 2015 lascia uno spazio alla tutela reintegratoria in talune situazioni specificamente individuate, nel secondo appiattisce la sanzione, sempre e comunque, al piano meramente indennitario. Ed è qui che si annida il sospetto di incostituzionalità. In sostanza è l’irrilevanza del requisito della “insussistenza del fatto” che risulta contraria ai principi fondamentali, per due assorbenti ragioni. La prima ragione è che, così facendo, si viola proprio l’essenziale presupposto della causalità del recesso. La seconda è che si lascia il datore di lavoro arbitro di qualificare ed etichettare il licenziamento a suo libito (nella gran parte dei casi celando un licenziamento arbitrario dietro la parvenza di una giustificazione oggettiva). Ne deriva che il licenziamento per g.m.o. in cui il fatto sia insussistente (in cui cioè non vi sia una effettiva soppressione del posto e/o manchi del tutto il nesso di causalità con la posizione del lavoratore) è addirittura equiparabile ad un licenziamento pretestuoso e/o discriminatorio.
Ecco, dunque, che l’allargamento della tutela reale al fatto insussistente anche nell’ambito del licenziamento economico si traduce, in termini sostanziali, in una sorta di alleggerimento per il lavoratore dell’onere della prova (sempre complicato) della discriminatorietà e/o pretestuosità.
V. A. Poso. Secondo una prima lettura, se “fatto materiale” è espressione equivalente, nella sostanza, a “fatto (in senso ampio)”, e se quest'ultimo ricomprende, per come affermato ripetutamente dalla giurisprudenza di legittimità, anche il repêchage, non sembra possibile che nell’area del “Jobs Act” la prospettiva possa mutare. Condividi questa opinione?
O. Mazzotta. Mi rendo conto che l’idea che, rispetto alla disciplina del contratto a tutele crescenti, il concetto di “fatto” non inglobi anche il c.d. repêchage può apparire eterodossa rispetto all’opinione espressa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 125 del 2022, da subito fatta propria dalla giurisprudenza ordinaria, a proposito dell’art. 18 dello statuto. Sennonché nel diverso caso delle tutele crescenti c’era da rispettare la volontà legislativa diretta a valorizzare, in linea di massima, la sanzione indennitaria. Di qui la decisione della Corte di restringere la tutela reale ad ipotesi apparentabili al licenziamento pretestuoso, per lasciare in tutti gli altri casi la tutela indennitaria.
Del resto, che l’obbligo di repêchage costituisca l’anello debole dei requisiti giustificativi del g.m.o. è pacifico. È sufficiente riandare alle perplessità manifestate dal nostro comune Maestro Giuseppe Pera nello storico saggio apparso all’indomani della legge n. 604 del 1966 e che ha costituito la base di tutti i ragionamenti successivi sul tema.
V.A. Poso. Nel dispositivo della sua sentenza la Corte Costituzionale, mutuando la locuzione utilizzata dal Legislatore per i licenziamenti disciplinare, fa riferimento alle “ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro”. Sembrerebbe, questa, una scelta consapevole adottata dai giudici costituzionali che consente di lasciare ogni operazione interpretativa affidata ai giudici comuni.
O. Mazzotta. Sono d’accordo con questa lettura.
V.A. Poso. Ritieni che i principi accolti dalla Corte nella sentenza n. 128/24 possano modificare l’atteggiamento circa l’apparato sanzionatorio previsto dal d.lgs. 23/2015 per i licenziamenti collettivi? Ricorderai che, allo stato, la Consulta ha rigettato i dubbi di legittimità costituzionale con la sentenza n. 7 del 2024.
O. Mazzotta. Non credo proprio che l’atteggiamento della Corte rispetto ai licenziamenti collettivi possa modificarsi. Proprio nella sentenza da te richiamata vi è una lunga motivazione diretta a diversificare strutturalmente le due vicende, se pure accomunate dall’espressione “licenziamenti economici”. L’argomento forte per i giudici della Consulta, al di là dei nominalismi (su cui vi sarebbe molto da discutere, ma non è qui il luogo), è che le due vicende non possono essere parificate non foss’altro perché non l’ordinamento non prevede un controllo di merito sulla sussistenza delle ragioni invocate per la riduzione di personale, ma solo un controllo di natura procedurale. Il che risponde alla ben nota acquisizione secondo cui mentre nel licenziamento individuale il controllo è successivo ed affidato al giudice, nei licenziamenti collettivi il controllo è preventivo ed è affidato alle parti sociali.
Quanto al piano della deterrenza della sanzione economica la Corte, anche nella sentenza n. 7 del 2024 (oltre che in varie altre decisioni), ha ribadito che un indennizzo, che nel massimo attinge a 36 mensilità, è esente da vizi di costituzionalità, perché realizza un «adeguato contemperamento degli interessi in conflitto».
V. A. Poso. Passando all’esame della sentenza n. 129/2024 (particolarmente apprezzabile anche per la completa ricostruzione normativa e giurisprudenziale dei licenziamenti disciplinari) al punto 7.3 (nel richiamare i punti 6 e 7 della sentenza n. 44 del 19 marzo 2024), la Corte ribadisce che lo “scopo” complessivo del legislatore del 2015 è stato quello di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo». Ritieni condivisibile questa affermazione, anche alla luce della applicazione giurisprudenziale e degli sviluppi che si sono verificati nel mercato del lavoro?
O. Mazzotta. In generale rilevo che è vero che nella sentenza n. 129/24 l’atteggiamento della Corte è maggiormente attento alla ratio normativa, nel momento in cui essa richiama lo scopo complessivo del d.lgs. 23/2015 diretto a favorire l’allargamento dell’occupazione.
Se mi chiedi però se tale finalità è legittimamente perseguibile intervenendo in maniera restrittiva sulla tutela contro i licenziamenti arbitrari e/o illegittimi il mio dissenso è abbastanza netto, per ragioni di metodo e di merito.
Sul piano del metodo ritengo che l’allargamento dell’occupazione – come del resto hanno dimostrato i fatti successivi – è legato a fattori che poco o niente hanno a che fare con la disciplina dei licenziamenti. Una disciplina restrittiva delle tutele può solo consentire una riduzione dei costi per l’impresa, ma non c’è alcuna garanzia che a tale riduzione di costi si accompagni un allargamento della base occupazionale. Del resto, la vicenda del licenziamento si inserisce all’interno di un contratto privatistico che deve trovare un punto di equilibrio al proprio interno, un equilibrio che deve tenere in conto le aspettative che le parti individuali ripongo sulla relazione giuridica, aspettative che niente hanno a che fare con problemi occupazionali.
Sotto altro profilo poi – e vengo al merito – la riduzione delle tutele deve comunque trovare un punto di equilibrio fra le posizioni e le aspettative delle parti (si ripete: individuali), rispettoso dei diritti fondamentali cioè del diritto alla libera gestione dell’attività di impresa, da una parte, e della protezione delle aspettative di reddito del lavoratore nonché della sua dignità.
V. A. Poso. Nel merito della motivazione, sono due, a detta della Corte, le innovazioni di assoluto rilievo in tema di licenziamento disciplinare nel regime del Jobs Act: «la qualificazione del fatto come “materiale” e l’espressa esclusione, ai fini della individuazione del fatto rilevante per la selezione della tutela applicabile, del giudizio di proporzionalità con la conseguente eliminazione del riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva».
O. Mazzotta. Non attribuirei particolare rilievo alla enfatizzazione del concetto di “materialità” del fatto, dal momento che l’opinione comune ritiene che l’attributo “materiale” nulla toglie e nulla aggiunge al concetto di fatto, come ho detto prima.
Più importante è rilevare che in realtà al centro della discussione c’è il tema della proporzionalità della sanzione, del quale la Corte ribadisce la centralità nella vicenda del licenziamento disciplinare e l’eterodossia di una legge che intenda prescindervi.
Ciò posto però l’intervento ablativo non si spinge fino al punto di eliminare la scelta legislativa ripristinando in pieno il rilievo del principio, ma si assesta su una linea per così dire intermedia.
V. A. Poso. Infatti, nel momento in cui il legislatore considera applicabile la tutela reintegratoria attenuta in caso di “fatto materiale insussistente”, resta del tutto irrilevante, a questi fini, il giudizio di proporzionalità. Scrive la Corte: «Il licenziamento potrà risultare “sproporzionato” rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore – e quindi, sotto questo profilo illegittimo – ma la tutela sarà quella indennitaria del comma 2 dell’art. 3 citato».
O. Mazzotta. Certamente. Sotto questo profilo il giudizio della Corte è ampiamente rispettoso della volontà legislativa.
Vi si discosta soltanto quando l’irragionevolezza della scelta tracima in una violazione dell’art. 39 Cost., ledendo quella autonomia collettiva che, proprio in materia disciplinare, da sempre svolge una funzione essenziale che preesiste alle scelte legislative.
Senza voler ricercare il fondamento teorico di tale scelta nella teoria giugniana dell’ordinamento intersindacale è sufficiente ricordare il contributo di Luigi Montuschi, il massimo studioso del potere disciplinare, che riconosceva all’autonomia collettiva proprio il ruolo di edificatrice della tipicità del potere disciplinare, una tipicità che si afferma anzitutto sul piano sociale per poi rifluire sul piano legislativo.
Va comunque anche ricordato che la Corte, per affermare tale principio, si avvale di uno strumento, almeno formalmente, meno traumatico rispetto ad un intervento ablativo, dal momento che ritiene sufficiente una interpretazione adeguatrice, che guarda proprio al ruolo essenziale dell’autonomia collettiva in materia disciplinare.
La conseguenza più che condivisibile del ragionamento è che se il fatto materiale imputato al lavoratore è per così dire del tutto atipico, cioè non previsto da alcuna fonte come passibile di sanzione conservativa, la tutela (pur in presenza di una sproporzione) sarà solo indennitaria. Ove invece il fatto sia rubricato dalla contrattazione collettiva come suscettibile di sanzione minore, la violazione del principio di proporzionalità comporterà la tutela reale.
V. A. Poso. Ritieni complessivamente che nelle due sentenze del luglio 2024 la Corte Costituzionale abbia scavalcato i compiti interpretativi della Corte di legittimità?
O. Mazzotta. Ho già risposto di volta in volta ai vari profili tematici. Vedrei solo un problema di coordinamento con la giurisprudenza in materia di g.m.o., avendo particolare riferimento al problema del c.d. repêchage, rispetto al quale nella interpretazione dell’art. 18 dello statuto (come novellato nel 2012) la Corte costituzionale e sulla sua scorta il giudice di legittimità, hanno inserito tale elemento nel “fatto” posto a base del licenziamento economico.
Sennonché, nella diversa temperie del contratto a tutele crescenti, si giustifica bene una diversificazione all’interno del concetto di fatto rilevante, dovendosi comunque assegnare un qualche significato all’alternativa fra tutela reale e tutela indennitaria. Sarebbe stata certamente più grave e foriero di ben più aspre polemiche l’appiattimento della protezione sul solo piano della tutela reintegratoria.
V. A. Poso. Più in generale anche con il Jobs Act la Corte Costituzionale, pur affermando, come in altre occasioni, il suo self restraint nei confronti del legislatore, ha però pronunciato un monito invitandolo ad intervenire, pena il successivo intervento costituzionale. Mi riferisco alle sentenze n. 150 del 2020, n. 183 del 2022, n. 7 del 2024, n. 22 del 2024. Come giudichi questa doverosa apertura della Corte Costituzionale?
O. Mazzotta. La giudico così come la giudichi tu stesso, che, non a caso, giustapponi al sostantivo “apertura” l’aggettivo “doverosa”. La Corte che è stata indotta ad intervenire su molti profili problematici posti sia dalla riforma Monti che dalla riforma Renzi, ha portato a compimento un’opera ablativa e (parzialmente) ricostruttiva entro i limiti delle proprie funzioni.
È chiaro che solo il legislatore potrà rimettere mano (e sperabilmente ordine) nell’universo dell’apparato sanzionatorio in materia di licenziamenti. Ovviamente in quest’opera di riedificazione non potrà ignorare i ripetuti moniti della Consulta circa il carattere di necessaria deterrenza che deve rispettare un apparato sanzionatorio per essere indenne da censure di incostituzionalità.
In questo ambito però mi pare che il sentiero per l’ipotetico legislatore non sia così stretto. Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale può infatti dedursi agevolmente che, ferma la sicura deterrenza della tutela reale, una tutela indennitaria, così come è risultata corretta dal decreto dignità, sia altrettanto esente da censure.
V. A. Poso. Una battuta finale. La CGIL ha promosso il referendum per l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 (ma anche dell’art. 8 della l. n. 604 del 15 luglio 1966). È questa la soluzione di tutti i problemi?
O. Mazzotta. Credo proprio di no. Si tratta di problemi complessi che non possono essere risolti solo con un tratto di penna. A parte il significato politico che la CGIL annette all’iniziativa, vi potrebbe essere l’arrière-pensée che, ove il referendum passi il vaglio di ammissibilità, magari il legislatore metta mano ad una riforma, come già avvenuto in passato.
Il Consiglio di Stato alla prova del giudizio contro il silenzio: verso una tutela maggiormente effettiva? (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 2024, n. 3945)
di Clara Silvano
Sommario: 1. La vicenda oggetto del contenzioso. 2. L’azione contro il silenzio: caratteri essenziali 3. L’azione contro il silenzio nel caso di specie: in particolare la verifica dell’inadempimento da parte dell’amministrazione. 4. E la condanna da parte del giudice. 5. Conclusioni.
1.La vicenda oggetto del contenzioso
La sentenza qui in esame presenta spiccati profili di originalità rispetto al tipo di tutela normalmente riconosciuta al soggetto privato nei confronti del silenzio-inadempimento[1] della pubblica amministrazione e alla conseguente natura da riconoscersi all’azione contro il silenzio esperita ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a.[2], ponendosi per entrambi questi aspetti, come si vedrà, in discontinuità rispetto agli orientamenti giurisprudenziali prevalenti.
Il caso di specie è originato dal ricorso presentato da due Associazioni – la Clientearth Aisbl e la Lega Italiana Protezione Uccelli Lipu Odv[3] - avanti al T.a.r. Lazio per la dichiarazione dell’illegittimità del silenzio serbato dalla Regione Lazio sull’istanza-diffida a provvedere presentata in data 15.06.2022 dalle medesime alla Regione Lazio e, per quanto di competenza, all’Ente Monti Cimini – Riserva Naturale regionale del lago di Vico, avente ad oggetto l’adempimento dell’obbligo di adozione delle opportune misure volte a evitare il degrado degli habitat naturali presenti nel SIC/ZSC IT6010024 e, in subordine, dell’obbligo di avvio della relativa istruttoria[4].
Tale ricorso si inserisce in un quadro di articolate iniziative, procedimentali e giurisdizionali, portate avanti dalle Associazioni a seguito delle quali è già intervenuta la sentenza del Consiglio di Stato n. 8897 del 2023[5], che ha accertato l’obbligo della Regione Lazio di esercitare i propri poteri sostituivi, ai sensi dell’art. 152 del d.lgs. n. 152 del 2006, al fine di assicurare l’avvio delle azioni preventive e correttive per contrastare il fenomeno della proliferazione delle alghe nel lago di Vico, nonché la sentenza del T.a.r. del Lazio n. 1926 del 2023[6], che ha accertato l’obbligo di provvedere della Regione Lazio in ordine alla designazione di una Zona Vulnerabile ai Nitrati corrispondente all’intero bacino idrografico del lago di Vico, ai sensi della Direttiva 91/676/CEE.
Con sentenza del 3 febbraio 2023 n. 1925[7], il T.a.r. Lazio rigettava il ricorso in ragione dell’inesistenza di un’inerzia imputabile all’amministrazione, atteso che con la nota di risposta sub. prot. n. 692791 del 13 luglio 2022 la Regione aveva dato conto dell’attività istruttoria e delle valutazioni compiute con specifico riferimento al degrado degli habitat naturali presenti nel SIC/ZSC IT6010024, escludendone peraltro la eventuale natura soprassessoria[8].
Avverso tale decisione le ricorrenti hanno proposto appello, evidenziando, in primo luogo, come la nota di riscontro regionale si limitasse ad una elencazione esemplificativa delle attività e valutazioni svolte negli anni per il lago di Vico, senza però dare conto delle misure imposte ex paragrafo 6.2 della Direttiva Habitat[9], come trasposto dall’art. 4 comma 1, D.P.R. n. 357 del 1997[10], né di azioni volte a contrastare il fenomeno di degrado in atto degli habitat 3130 e 3140.
In seconda battuta, le ricorrenti hanno impugnato la sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex artt. 39 c.p.a. e 112 c.p.c.[11], in quanto il T.a.r avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda di annullamento della nota regionale, presentata in via subordinata, e di valutare se la stessa avesse o meno preso in esame gli elementi di degrado e le misure obbligatorie di cui si invocava l’adempimento. Secondo le appellanti, infatti, anche lì dove il T.a.r. avesse invece ritenuto di rigettare implicitamente la domanda di annullamento[12] presentata in via subordinata dalle ricorrenti, avrebbe errato perché la nota della Regione non contiene alcun riferimento alle misure ex art. 6.2. della Direttiva Habitat.
Prima di analizzare la sentenza del Consiglio di Stato, si ritiene opportuno tracciare i caratteri essenziali dell’azione contro il silenzio della pubblica amministrazione, così come interpretati dalla giurisprudenza prevalente, per poter cogliere al meglio i profili di novità della pronuncia qui in commento.
2.L’azione contro il silenzio: caratteri essenziali
In seguito all’approvazione del d.lgs. 4 luglio 2010, n. 104, l’azione contro il silenzio si trova oggi disciplinata dall’art. 31 c.p.a. e dall’art. 117 c.p.a che ne specifica il rito[13].
L’art. 31 delimita espressamente l’oggetto del giudizio all’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere violato dall’amministrazione nel caso di specie e alla conseguente condanna a provvedere[14]. Al fine di esperire questa azione, è dunque necessario che sussista un obbligo di provvedere, che l’amministrazione sia rimasta inerte[15], e che il ricorrente abbia interesse a tale azione[16].
Nella generalità dei casi, quando il giudice condanna la p.a. a provvedere, non dispone nulla circa l’esito finale del procedimento da concludere[17]
Una pronuncia maggiormente satisfattiva per il ricorrente può essere ottenuta nei casi in cui il giudice può pronunciarsi sulla pretesa dedotta in giudizio[18], ossia, secondo quanto espressamente previsto dal comma 3 dell’art. 31, «quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione».
Pertanto, il ricorrente potrà modellare il ricorso contro il silenzio sulla base del proprio bisogno di tutela[19], limitandosi a chiedere l’accertamento della violazione dell’obbligo di provvedere dalla amministrazione, con conseguente condanna[20], oppure chiedendo al giudice, una volta valutata la fondatezza della propria pretesa, l’emanazione di quello specifico provvedimento dal quale dipende la soddisfazione dell’interesse finale.
La valutazione in merito alla fondatezza della pretesa del ricorrente va effettuata entro i limiti imposti dall’art. 31, comma 3, c.p.a., la cui interpretazione si rivela, allora, di importanza centrale[21] per comprendere l’attuale ampiezza dell’oggetto del giudizio avverso il silenzio.
A tal proposito, si riscontra in giurisprudenza un’interpretazione estremamente restrittiva degli spazi riconosciuti al giudice per poter sondare la fondatezza della pretesa del ricorrente, con la tipica cautela che caratterizza il sindacato del nostro giudice amministrativo nei confronti dell’azione della pubblica amministrazione[22].
In primo luogo, la giurisprudenza, riprendendo peraltro un orientamento interpretativo già esistente ante codicem[23], ritiene che l’accertamento relativo alla fondatezza della pretesa potrà essere utilmente svolto all’interno del giudizio disciplinato dall’art. 31 c.p.a, unicamente nei casi in cui la fondatezza (o l’infondatezza)[24] sia manifesta[25] e quindi facilmente accertabile anche in un giudizio caratterizzato da un rito accelerato, svolto in camera di consiglio[26].
Oltre alle ragioni legate al rito, il giudice amministrativo opera un deciso self-restraint del proprio sindacato in merito alla verifica della fondatezza della pretesa anche nelle ipotesi di attività vincolata, sia quando richiedono l’accertamento di fatti semplici sia in presenza di fatti complessi[27].
I limiti, già noti, del giudice amministrativo rispetto all’accertamento del fatto nel processo sono acuiti nel caso del giudizio contro il silenzio proprio dalla circostanza per cui è estremamente probabile che l’accertamento dei fatti non sia stato proprio compiuto dall’amministrazione nella preposta fase istruttoria, dal momento che quest’ultima è rimasta, per l’appunto, inerte.
Tale circostanza pone l’ulteriore questione interpretativa volta a definire quali sono gli adempimenti istruttori che il giudice amministrativo ritiene possano essere utilmente e legittimamente eseguiti o completati in sede giudiziaria e quali invece sono qualificati quali “adempimenti istruttori necessari” che possono essere compiuti solo dall’amministrazione.
Dall’analisi della giurisprudenza[28] si può constatare come per il giudice amministrativo gli adempimenti istruttori che non sono stati svolti dall’amministrazione a causa della sua inerzia, siano in realtà tutti “adempimenti istruttori necessari” che la stessa deve svolgere in prima persona. In altri termini la giurisprudenza non opera alcun reale distinguo tra le ipotesi in cui concretamente si tratti di adempimenti istruttori che, per la loro complessità o per caratteristiche peculiari, debbono essere compiuti solo ed esclusivamente dalla amministrazione, da quelli che possono essere svolti in giudizio, nel pieno rispetto della giurisdizione di legittimità.
Ancora si segnala un’ulteriore tendenza della giurisprudenza amministrativa, opportunatamente segnalata dalla dottrina[29], in virtù della quale alla richiesta del privato di vagliare la fondatezza della propria pretesa si oppone l’esistenza di un potere discrezionale dell’amministrazione, fondato su esigenze organizzative o comunque su valori di stampo generalissimo, come, ad esempio, l’esigenza di garantire il servizio nel suo complesso, o l’esigenza di rispettare la corretta modulazione della spesa pubblica[30].
Infine, il giudice amministrativo, a sugello della propria interpretazione restrittiva, invoca il divieto di pronunciarsi su poteri non ancora esercitati, sancito dall’art. 34, comma 2, c.p.a[31].
Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali fin qui analizzati, si evince come l’azione contro il silenzio porti, nei casi di suo accoglimento, ad una condanna dell’amministrazione inerte ad un generico provvedere dalla quale deriva unicamente un obbligo procedimentale e strumentale, consistente nel portare a conclusione il procedimento[32].
Il dictum giudiziale che si intende portare in esecuzione[33] è dotato di un potere conformativo poco incisivo rispetto alla successiva azione della pubblica amministrazione che dovrà attuarlo, la quale è chiamata solo a provvedere entro il nuovo termine assegnatole, senza che dalla sentenza le derivino ulteriori vincoli[34].
Come anticipato, la sentenza qui in esame sembrerebbe offrire ai ricorrenti una tutela maggiormente piena ed effettiva, discostandosi dagli orientamenti giurisprudenziali propri dell’azione contro il silenzio.
Si tratta allora di verificare se effettivamente tale impressione è confermata da un’analisi più puntuale della sentenza e, soprattutto, quali sono le specificità del caso di specie che hanno consentito al giudice di allargare il proprio raggio di azione.
3.L’azione contro il silenzio nel caso di specie: in particolare la verifica dell’inadempimento da parte dell’amministrazione
Una prima peculiarità del caso qui in esame rispetto alla configurazione classica dell’azione contro il silenzio è rappresentata dal fatto che il silenzio si sarebbe formato su una domanda volta a sollecitare l’esercizio di poteri officiosi riconosciuti alla Regione ai fini della tutela degli habitat naturali e non quindi rispetto all’esercizio di poteri attivabili su istanza di parte.
Con riferimento a questo profilo, la sussistenza di un obbligo di provvedere da parte della Regione nel caso di specie, e soprattutto della sussistenza di un interesse differenziato e qualificato delle due associazioni ricorrenti in relazione all’attivazione dei suddetti poteri, non sono messe in discussione, né dal T.a.r. né dal Consiglio di Stato, accreditando così un’interpretazione estensiva dell’obbligo sancito all’art. 2 della L. 241/90 anche ad ipotesi non specificamente previste dalla legge, nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l’obbligo per la pubblica amministrazione di attivarsi e di dare così riscontro all’istanza del privato; ciò avviene tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell’Amministrazione[35]. Pur nella varietà delle ipotesi nelle quali il giudice amministrativo riconosce l’obbligo della pubblica amministrazione di provvedere su istanze atipiche[36], l’obbligo di attivarsi per la pubblica amministrazione si concretizza, però, solo quando l’istante si assume portatore di un interesse giuridico differenziato e qualificato ad un bene della vita per il cui conseguimento è richiesto l’esercizio del potere amministrativo, come è stato evidentemente giudicato nel caso di specie.
Acclarato, almeno in via implicita, l’esistenza dell’obbligo di provvedere in capo alla Regione Lazio, nel caso di specie la verifica dell’inadempimento da parte dell’amministrazione rispetto all’obbligo di provvedere richiede un’analisi più approfondita da parte del giudice rispetto ai casi di pura inerzia, in quanto, come visto, l’amministrazione competente non è rimasta inerte, ma ha emanato un proprio atto amministrativo[37].
È allora rispetto a tale atto che il Consiglio di Stato è chiamato a verificare se lo stesso, come sostenuto dal giudice di prime cure, costituisca effettivo adempimento degli obblighi previsti dall’art. 6.2. della Direttiva Habitat.
Per inquadrare correttamente quanto previsto da tale articolo, si ricorda che la Direttiva Habitat, in maniera coordinata con la Direttiva Uccelli, si propone di salvaguardare la biodiversità – considerata patrimonio naturale e comune dell’Unione europea, identitario e unificante dei suoi popoli – a fronte delle molteplici ed eterogenee minacce, naturali e sempre più frequentemente antropiche, che minano la conservazione degli habitat e delle specie selvatiche, compresi gli uccelli[38].
Per conseguire tale obiettivo, il legislatore comunitario ha previsto la costituzione di una rete ecologica europea di zone da conservare denominata rete Natura 2000 che comprende al suo interno i Siti di Importanza Comunitaria (SIC)[39],che possono essere designati a livello nazionale quali Zone Speciali di Conservazione (ZSC)[40] e le Zone di Protezione Speciale (ZPS)[41].
Nelle Zone Speciali di Conservazione, qual è l’area relativa al bacino del lago di Vico, gli Stati membri sono tenuti ad adottare apposite misure di conservazione che la normativa distingue in misure proattive, previste dal paragrafo 1[42], e quelle preventive, disciplinate dal paragrafo 2, rilevanti nel caso qui in esame.
Le misure relative al paragrafo 2 – in attuazione del principio di prevenzione[43] – sono volte a evitare, che si realizzi del tutto o che possa proseguire, il “degrado degli habitat” e la significativa “perturbazione delle specie” per i quali i siti sono stati designati e inclusi all’interno della rete Natura 2000.
La Corte di Giustizia, nel definire la natura delle misure opportune che ciascuno Stato membro deve adottare per prevenire o comunque per evitare il peggioramento del degrado di un habitat[44], ha evidenziato come debba trattarsi di un regime giuridico specifico, coerente e completo, in grado di garantire la gestione sostenibile e la protezione efficace dei siti interessati[45].
Inoltre, si tratta di misure che, nel caso di degrado già in atto, devono essere misure “attive” e “anticicliche”, in grado di invertire il processo che, in assenza di tali iniziative, proseguirebbe in maniera irreversibile[46].
Chiarita la portata del paragrafo 2 dell’art. 6 della Direttiva Habitat e degli obblighi sussistenti in capo alle amministrazioni nazionali per realizzare gli obiettivi di suddetta direttiva, in punto di fatto, il Consiglio di Stato evidenzia come, nel caso di specie, sia stata ampiamente documentata in corso di causa l’esistenza di una situazione di degrado dell’ecosistema del lago di Vico, dovuta, in particolare, al fenomeno della c.d. “eutrofizzazione”[47].
Ravvisati quindi, in fatto e in diritto, i presupposti che avrebbero dovuto condurre la Regione Lazio ad adottare le misure imposte dall’art. 6, par. 2, della Direttiva, il Consiglio di Stato ritiene, a differenza del giudice di prime cure, che la Regione sia stata inadempiente rispetto a tale obbligo.
In particolare, il giudice dell’appello ravvisa come le misure adottate dalla Regione Lazio nel caso di specie[48], richiamate nella nota del 13 luglio 2022 n. 692791 e oggetto peraltro di un apposito approfondimento istruttorio in sede giudiziale[49], «riguardano le misure di conservazione, e quindi le disposizione relative alle attività ammesse o vietate ai fini dell’ordinaria gestione del sito e della tutela della biodiversità, per le finalità stabilite dall’articolo 6, paragrafo 1, della Direttiva Habitat, ma non contengono misure ai sensi del paragrafo 6.2., ovvero misure proattive tali da invertire efficacemente il trend attuale, e quindi specificamente indirizzate a prevenire e contrastare il progressivo deterioramento del sito, ovvero ad assicurare il ripristino delle caratteristiche ecologiche esistenti al momento della sua designazione quale sito di importanza comunitaria, in particolare per quanto concerne gli habitat 3140 e 3130»[50].
Accertata la fondatezza nell’an dell’originario ricorso avverso il silenzio-inadempimento della Regione Lazio, il compito del giudice, secondo la classica configurazione dell’azione contro il silenzio richiamata al paragrafo che precede, dovrebbe ritenersi concluso.
Invece, nel caso di specie, il Consiglio di Stato, in maniera innovativa, si interessa espressamente anche dei «contenuti e del quomodo dell’adempimento», con delle conseguenze rilevanti rispetto alla particolare forza del giudicato proprio della sentenza di condanna emessa.
4.E la condanna da parte del giudice
La sentenza di condanna emanata dal Consiglio di Stato nel caso di specie non assume le vesti di una condanna a un generico provvedere, quanto piuttosto una condanna della Regione Lazio e dell’Ente Monte Cimini ad «adottare – per quanto di rispettiva competenza – le “opportune misure” di cui al paragrafo 6.2. della Direttiva Habitat per evitare il degrado degli habitat naturali presenti nel SIC/ZSC IT6010024».
Questo perché, sebbene il giudice, nella generalità dei casi, non possa «pronunciarsi nel merito della pretesa azionata, essendo tale eventualità limitata ai soli atti vincolati e a quelli in relazione ai quali si sia effettivamente esaurito lo spettro di discrezionalità riconosciuto all’Amministrazione e per i quali, al contempo, non siano necessarie attività istruttorie»[51], nel caso in esame «appare chiara al Collegio l’esistenza dei presupposti dell’obbligo di adottare le misure di cui al paragrafo 6.2. della Direttiva Habitat».
Il Consiglio di Stato aggiunge poi che, sebbene il contenuto delle misure di prevenzione e di contrasto al degrado degli habitat protetti sia di natura tecnico-discrezionale e pertanto l’individuazione del loro contenuto specifico compete alle amministrazioni competenti a emanare le suddette misure, tale discrezionalità è ridotta dall’interpretazione della Corte di Giustizia rispetto alla portata di queste misure, che, come sopra visto, devono risultare “effettive”, “efficaci”, “adeguate”, con effetti misurabili.
Nello specifico, «a fronte dell’accertato stato di crescente compromissione ambientale del Lago di Vico, la Regione Lazio è tenuta ad adottare misure attive e non solo conservative, ovvero misure idonee a invertire chiaramente il processo di degrado attraverso un adeguato sistema di protezione, per impedire che la prosecuzione tout court delle attività umane incorso produca ulteriori deterioramenti degli habitat e perturbazioni delle specie di interesse. Solo tali misure “anticicliche” ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 2, possono ormai migliorare lo stato dell’ecosistema, che nel caso di specie – come si è già detto – non si presenta stabile (il che renderebbe sufficienti le misure conservative del paragrafo 1), ma denota un preciso trend di degrado (il che, si ripete, impone l’attivazione anche delle misure proattive del paragrafo 2)».
Pertanto, oltre a condannare la Regione ad adottare le misure opportune ai sensi dell’art. 6.2. della Direttiva Habitat, il Consiglio di Stato precisa, con efficacia di giudicato[52], come devono essere queste misure nel senso sopra visto.
Il contenuto tecnico specifico delle misure suddette rimane, invece, appannaggio dell’amministrazione e ciò anche tenendo in considerazione la domanda delle ricorrenti, che non «era volta ad imporre alla Regione l’adozione di misure aventi un contenuto determinato, o comunque di specifiche soluzioni tecniche, quanto a stimolarne l’iniziativa, al fine di assicurare l’adozione di “opportune misure” conformi all’articolo 6, paragrafo 2, della Direttiva Habitat, nei sensi dianzi precisati»[53].
In definitiva, la sentenza di condanna assicura una tutela maggiormente effettiva alle ricorrenti, in quanto, in esecuzione del giudicato derivante dalla sentenza suddetta, la Regione Lazio è obbligata non solo ad adottare le misure opportune per contrastare il degrado del Lago di Vico, ma tali misure devono avere le caratteristiche richiamate dalla sentenza e risultare quindi “effettive”, “efficaci”, “adeguate”, con effetti misurabili.
Qualora le ricorrenti ritenessero che le future misure adottate dalla Regione o dal commissario ad acta in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione competente in esecuzione della sentenza suddetta non avessero i requisiti sopra richiesti, potrebbero infatti chiedere l’accertamento della nullità del provvedimento adottato per violazione e/o elusione del giudicato ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. c) del c.p.a. nel più disteso termine di 10 anni previsto per l’actio iudicati[54].
5.Conclusioni
La maggior tutela riconosciuta al privato all’esito del presente giudizio azionato contro il silenzio della pubblica amministrazione rappresenta certamente il frutto del sapiente utilizzo da parte del giudice amministrativo dei propri poteri di cognizione, unitamente a quelli istruttori, rispetto ad una attività dell’amministrazione di natura vincolata.
Se, infatti, si va ad analizzare la norma europea e la sua trasposizione nazionale che disciplina l’obbligo dell’amministrazione competente di emanare le misure opportune ad evitare il degrado di una zona protetta, ci si avvede di come si tratti di una norma costruita come “norma-fatto-effetto”[55], per cui, una volta accertata la sussistenza della situazione di degrado, l’amministrazione è vincolata ad adottare le misure opportune.
Nel caso di specie, come visto, il giudice ritiene dimostrata la situazione di degrado del sito relativo al lago di Vico, dalla quale sorge necessariamente il conseguente obbligo posto in capo alla Regione per interrompere il processo di degrado in atto.
Tuttavia, il Consiglio di Stato, nel caso di specie, non si è limitato ad accertare lo stato di degrado del sito – peraltro riconosciuto dalla stessa amministrazione regionale in suoi diversi provvedimenti e non contestato in sede giudiziale – ma ha compiuto un sindacato estremamente pregnante rispetto alle misure asseritamente adottate dalla Regione per adempiere a tale obbligo.
In altre parole, il giudizio sul silenzio si è trasformato in un giudizio sull’atto – nello specifico sulla nota della Regione Lazio del 13 luglio 2022, n. 692791 – al fine di verificarne la rispondenza al modello normativo europeo, alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia, vincolante per il giudice e, ancora prima, per le amministrazioni dei singoli Stati membri[56].
Si ritiene dunque, in primo luogo, che la maggior incisività del sindacato operato dal giudice derivi proprio dalla circostanza che il giudizio, nel caso qui in esame, non è un “classico” giudizio sul silenzio dell’amministrazione, ma ha al suo centro l’esame di un atto, proponendo così uno schema all’interno del quale il giudice amministrativo si muove con maggior disinvoltura[57].
In secondo luogo, la vincolatezza nell’an, che si traduce nell’obbligo della Regione di adottare le misure opportune ai sensi del paragrafo 6.2. della Direttiva Habitat in presenza di uno stato di degrado, si espande anche al contenuto di queste “misure opportune” che devono avere le caratteristiche enunciate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Infine, in via più generale, è possibile che la maggior tutela riconosciuta al ricorrente nel caso di specie derivi anche dal fatto che il contezioso si è sviluppato in una materia quale quella ambientale in cui gli spazi di tutela riconosciuti, anche proprio grazie all’influenza del diritto europeo[58], sono più ampi.
Per rispondere allora al quesito che ci si è posti nel titolo del presente contributo, in conclusione si può certamente affermare che la sentenza qui in esame si discosta dagli orientamenti giurisprudenziali formatasi in relazione alla tutela contro il silenzio, fornendo ai ricorrenti una tutela maggiormente effettiva.
Il Consiglio di Stato, diversamente dal giudice di primo grado, non si è limitato a verificare se la Regione Lazio avesse provveduto o meno in merito all’istanza-diffida presentata dalle ricorrenti, ma una volta verificato che rispetto a quella istanza vi era stata una risposta da parte dell’amministrazione ha voluto verificarne il contenuto e, soprattutto, la sua rispondenza alla norma, così come interpretata a livello europeo.
Ciò è stato fatto senza alcuna indebita ingerenza nel campo di azione riservato all’amministrazione, dal momento che il contenuto specifico e tecnico delle “misure opportune” che dovranno essere adottate rimane di stretto appannaggio della Regione Lazio.
Si tratterà allora di verificare se gli approdi raggiunti nella pronuncia qui in esame saranno generalizzati anche ad altri casi di giudizio contro il silenzio oppure se la sentenza qui esaminata rimarrà un unicum isolato, frutto delle speciali e specifiche condizioni che hanno potuto condurre il giudice amministrativo ad una pronuncia di tal fatta.
[1] In dottrina è d’obbligo il rimando a F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1963, il quale mette a nudo la natura fattuale del silenzio, quale omissione rispetto al dovere giuridico di emanare il provvedimento, costruendo la sua teoria sul silenzio sulla base del concetto di funzione. Si vedano in particolare pp. 31- 32 nelle quali l’Autore scrive: «È partendo dal concetto di funzione che si può e si deve arrivare alla qualificazione giuridica del silenzio. Questo, considerato come una pausa dell’azione amministrativa, come inerzia della Pubblica Amministrazione mantenuta di fronte allo scopo dell’attuazione dell’interesse pubblico, deve essere inteso come punto di crisi nello sviluppo della funzione amministrativa». La tesi del silenzio come inadempimento rispetto all’obbligo di provvedere incontrò il favore di diversi autori; si veda in particolare F. La Valle, Profili giuridici dell’inerzia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 360; Id., Azione di impugnazione e azione di adempimento nel giudizio amministrativo di legittimità, in Jus, 1965, 159; S. Cassese, Inerzia e silenzio della pubblica amministrazione, in Foro amm., 1962, I, 34; A.M. Sandulli, Sull’impugnabilità giurisdizionale del silenzio serbato dall’amministrazione sul ricorso straordinario, in Giust. Civ., 1962, II, 179; F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964, 163 e ss.
[2] A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti dell’azione di condanna, in Dir. proc. amm., 2/2017, 450; C. Guacci, La tutela avverso l’inerzia della pubblica amministrazione secondo il codice del processo amministrativo, Torino, 2015.
[3] La legittimazione delle due associazioni a proporre il ricorso non costituisce una questione controversa nel giudizio in esame e si ricava dalla qualificazione delle due associazioni, in particolare che: «La ClientEarth AISBL, quale organizzazione non-profit con sede in Bruxelles avente con finalità di protezione degli ecosistemi, le persone ed il pianeta, nonché la Lega Italiana Protezione Uccelli – Lipu ODV, a sua volta in qualità di associazione ambientale riconosciuta, ai sensi degli artt. 13 e 18 della L. 8 luglio 1986, n. 349, mediante decreto del Ministero dell’Ambiente (oggi, della Transizione Ecologica), con scopo di conservazione della biodiversità e promozione della cultura ecologica». In merito alla legittimazione degli enti posti a presidio dei c.d. interessi collettivi si confronti la recente Adunanza Plenaria del 20 febbraio 2020 n. 6. In tale sentenza il Consiglio di Stato, chiamato a definire se «alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento, fermo il generale divieto di cui all’art. 81 c.p.c., possa ancora sostenersi la sussistenza di una legittimazione generale degli enti esponenziali in ordine alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, o se sia invece necessaria, a tali fini, una legittimazione straordinaria conferita dal legislatore» osserva che: «il percorso compiuto dal legislatore sia stato piuttosto contraddistinto dalla consapevolezza dell’esistenza di un diritto vivente che, secondo una linea di progressivo innalzamento della tutela, ha dato protezione giuridica ad interessi sostanziali diffusi (ossia condivisi e non esclusivi) riconoscendone il rilievo per il tramite di un ente esponenziale che ne assume statutariamente e non occasionalmente la rappresentanza. In altri termini, secondo questa Adunanza plenaria, l’evoluzione del dato normativo positivo non può certamente essere letto in una chiave che si risolva nella diminuzione della tutela». Per un meditato commento di questa sentenza si confronti P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 135 e ss.
[4] In merito alla portata di questi obblighi si rimanda al par. 3 del presente contributo.
[5] Cons. St., sez. IV, 12 ottobre 2023, n. 8897.
[6] T.a.r. Lazio, Roma, sez. V, 3 febbraio 2023, n. 1926.
[7] T.a.r. Lazio, Roma, sez. V, 3 febbraio 2023, n. 1925.
[8] La giurisprudenza ha riconosciuto al privato la legittimazione a impugnare i c.d. atti soprassessori, emanati dall’amministrazione in elusione al proprio dovere di provvedere, mediante il rito contro il silenzio. Si confronti sul punto Cons. Stato, sez. IV, 9 maggio 2013, n. 2511, nel quale si compie una corretta distinzione tra atti endoprocedimentali che comportano un arresto del procedimento e atti soprassessori, prima invece accomunati dalla giurisprudenza con riguardo alle modalità di impugnazione. In particolare si sottolinea che: «Il varo del codice del processo amministrativo, ma, ancor prima, la configurazione di poteri speciali del giudice per l’ipotesi di azione avverso l’inerzia, estesi in via eccezionale alla cognizione dell’eventuale fondatezza dell’istanza (già previsti dall’art. 6 bis della legge n. 80/2005), ha fatto venir meno la necessità di accomunare le due fattispecie, rendendo possibile anche in presenza di un atto soprassessorio l’azione sul silenzio: e ciò sul presupposto che siffatto atto non costituisca il provvedimento terminativo del procedimento, che l’amministrazione ha l’obbligo di emanare quale che sia il contenuto, ma un rinvio sine die della conclusione del procedimento in violazione dell’obbligo di concluderlo entro il termine fissato. L’atto è in questo caso essenzialmente conosciuto dal giudice non già in relazione ai suoi aspetti di satisfattività per l’istante, ma in relazione alla sua idoneità ad integrare adempimento della primaria obbligazione di provvedere, con il corollario che la sentenza è dichiarativa dell’obbligo generico di provvedere o, nei casi in cui l’attività è ab origine o ex post divenuta vincolata, anche dell’obbligo di adottare un provvedimento di tenore predeterminato. È evidente tuttavia che poiché l’interesse a ricorrere deriva non dall’inerzia assoluta ma dal comportamento soprassessorio, l’azione è ritualmente introdotta attraverso l’impugnazione del sedicente provvedimento conclusivo, ma esso è traguardato e stigmatizzato per il contenuto elusivo dell’obbligo di provvedere, ossia quale atto sussumibile nella fattispecie composita dell’inerzia. L’impugnazione è cioè strumentale ad una pronuncia che constatata la natura soprassessoria dell’atto e dichiarata la permanenza dell’obbligo di provvedere, condanni l’amministrazione ad emanarlo immediatamente».
[9] Art. 6, par. 2 della c.d. Direttiva Habitat (Direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992 relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche) «Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente direttiva».
[10] Art. 4, comma 1, del Decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche) «Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano assicurano per i proposti siti di importanza comunitaria, le opportune misure per evitare il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie, nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi del presente regolamento».
[11] Sull’operatività di questo principio nel processo amministrativo si confronti V. Domenichelli, Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1/2020, 26 e ss.
[12] Sulla differenza tra il vizio di omessa pronuncia e il rigetto implicito della domanda nel processo amministrativo si confronti M. Trimarchi, Omessa pronuncia in primo grado e regime dell’appello (sull’alternativa tra ritenzione della causa e annullamento con rinvio, in Dir. proc. amm., 2/2020, 347 «La presenza di una pluralità di domande in giudizio comporta innanzitutto che il vizio di omessa pronuncia si possa configurare, oltre che nella forma della trattazione parziale della domanda, anche nella forma più grave dell’omissione della pronuncia su una delle domande proposte, perché tale omissione, pur in assenza di extra petizione, non impedisce di pervenire comunque ad una sentenza cui sia riferibile il vizio. Il silenzio del giudice su una delle domande cumulativamente proposte non integra però l’omessa pronuncia quando la domanda rimasta senza espressa decisione sia da intendere comunque implicitamente decisa, in ragione dei rapporti sussistenti tra la stessa e quella o quelle espressamente decise. In particolare, è implicitamente decisa (nel senso del rigetto) la domanda il cui accoglimento sia precluso dalla decisione assunta in relazione ad un’altra domanda, in ragione dei nessi obiettivi di pregiudizialità-dipendenza, accessorietà, incompatibilità, alternatività tra le stesse».
[13] Esprime biasimo rispetto alla scelta del legislatore di non aver dedicato alla tutela giurisdizionale avverso il silenzio della pubblica amministrazione una disciplina organica e omogenea, disseminata invece in diversi capi del codice, C. Guacci, La tutela, cit., 62. Per un’analisi della disciplina dell’azione contro il silenzio prima dell’entrata in vigore del c.p.a. si confronti B. Tonoletti, Silenzio della pubblica amministrazione (voce), in Digesto Pubbl., 1999, XIV, 156; S. Mirate, Silenzio della pubblica amministrazione e azione di condanna: riflessioni sul sindacato del giudice amministrativo nel giudizio ex art. 21 bis della L. 1034/71, in Giur.it., 2001, I, 1993.
[14] Secondo A. Scognamiglio, Rito speciale, cit., 456 «La giurisprudenza pratica attribuisce all’azione contro il silenzio una natura mista e ne afferma la scindibilità concettuale in due distinte domande. La prima è rivolta a ottenere una pronuncia dichiarativa, la quale ha ad oggetto l’accertamento della violazione da parte dell’amministrazione dell’obbligo di definire il procedimento entro il termine prescritto dalla normativa legislativa o regolamentare. La seconda è inquadrabile nelle azioni di condanna ed è diretta a ottenere una pronuncia che impartisca un ordine alla pubblica amministrazione» che, secondo l’Autrice, nella maggior parte dei casi, ha ad oggetto un «ordine a provvedere, quale che sia il contenuto del provvedimento».
[15] Come ribadito in una recentissima sentenza del T.a.r. Napoli (sez. VI, 06 giugno 2024 n. 3587), per giurisprudenza costante «l’azione contro il silenzio-inadempimento ex art. 31 e 117 c.p.a. non è esperibile avverso qualsiasi tipologia di inerzia dell’Amministrazione ma solo quando l’obbligo di provvedere implichi l’esercizio di una potestà autoritativa. La possibilità di contestare davanti al giudice amministrativo il silenzio serbato dall'Amministrazione costituisce, infatti, uno strumento processuale che non determina un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dovendosi avere riguardo invece, in ordine al riparto, alla pretesa sostanziale cui si riferisce la dedotta inerzia amministrativa (cfr., tra le altre, Cons. Stato, sent. n. 987 e 860 del 2016; n. 4689 del 2018; Tar Campania, Napoli, sent. n. 3031 del 2018, n. 5999 del 2018, n. 5127 del 2015)».
[16] Su questi profili dell’azione contro il silenzio si confronti S. Franca, L’azione di condanna a fronte dell’inerzia dell’amministrazione, in P. Cerbo, G. D’Angelo, S. Spuntarelli (a cura di), Amministrare e giudicare. Trasformazioni ordinamentali, 2022, 76 e ss.
[17] N. Posteraro, L’azione avverso il silenzio-inadempimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Il giudizio amministrativo. Principi e regole, Napoli, 2024, 275.
[18] Osserva giustamente C. Guacci, La tutela, cit., 155-156, «Cognizione del giudice non è la fondatezza dell’istanza, come originariamente previsto dall’art. 2 della legge n. 241/1990, bensì la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio. La modifica non ha una valenza puramente terminologica, conseguenza della decisione del legislatore di voler utilizzare un termine tecnicamente più preciso, ma possiede una portata normativa di ordine sostanziale. Quando si parla di “fondatezza dell’istanza” si fa riferimento alla richiesta formulata all’amministrazione, vale a dire all’istanza che avrebbe dovuto dare corso al procedimento rimasto interrotto. Invece, quando si parla di fondatezza della pretesa dedotta in giudizio si fa riferimento alla domanda processuale e, in particolare, a quella parte dell’istanza rimasta inevasa dall’amministrazione, che il ricorrente ha ritenuto di coltivare in sede giurisdizionale. Il giudice conosce quello che è oggetto della domanda giudiziale e, quindi, conosce l’istanza inoltrata all’amministrazione se e nella misura in cui il ricorso giurisdizionale lo abbia investito della sua cognizione».
[19] Sottolinea questo aspetto A. Scognamiglio, Rito speciale, cit., 471, per la quale la pluralità dei rimedi messi a disposizione dei soggetti lesi dall’azione o dall’inazione della pubblica amministrazione «comporta la libertà per il ricorrente di individuare, tra gli strumenti forniti dal legislatore, quello più acconcio rispetto alla propria specifica esigenza».
[20] Evidenzia A. Carbone, L’azione di condanna ad un facere. Riflessioni sul processo amministrativo fondato su una pluralità di azioni, in Dir. proc. amm., 1/2018, 201, nota 56, come sia che la decisione del g.a. si sostanzi nella mera declaratoria dell’obbligo dell’Amministrazione a provvedere, sia a fortiori nel caso in cui indichi il contenuto del provvedimento richiesto, ciò che interessa al ricorrente non è la sussistenza di un obbligo a provvedere in quanto tale, ma l’ottenimento (perlomeno) di un provvedimento esplicito, se non (ricorrendone i requisiti) del provvedimento richiesto. In ogni caso, dunque, si riscontrano quei caratteri che permettono di qualificare l’azione in esame come azione di condanna.
[21] Come, infatti, osserva P. Carpentieri, Azione di adempimento e discrezionalità tecnica (alla luce del codice del processo amministrativo), in Dir. proc. amm., 2/2013, 391 «Ed è proprio intorno alla possibilità che il giudice si sostituisca (sin dalla fase di cognizione) all’amministrazione, ordinandole di adottare un determinato atto, che si avvolge il nodo problematico più importante e interessante in tema di azione di adempimento nel diritto processuale amministrativo».
[22] Osserva S. Franca, L’azione di condanna, cit., 89 per il quale «i limiti posti dall’art. 31, co. 3, c.pa. si mostrino più funzionali a mantenere consistenti sacche di insindacabilità dell’operato della pubblica amministrazione, piuttosto che preservare, come talvolta argomentato, il principio di divisione dei poteri».
[23] È noto, infatti, che nel momento in cui il giudizio contro il silenzio si trasformò in un giudizio che aveva per oggetto non l’impugnazione di un ipotetico atto fittizio, ma un giudizio sul comportamento inerte della pubblica amministrazione, si crearono all’interno della giurisprudenza due distinti orientamenti in relazione all’oggetto di questo giudizio: all’indirizzo più restrittivo, che riteneva che il giudice dovesse limitarsi ad acclarare l’inosservanza del dovere di provvedere gravante sull’amministrazione, se ne affiancò un altro, per il quale l’oggetto della cognizione del giudice doveva spingersi anche alla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, nei casi di provvedimenti vincolati o a basso contenuto di discrezionalità. Il dibattito si è riproposto in termini identici anche in seguito all’introduzione nel nostro ordinamento del rito speciale contro il silenzio, avvenuta per mezzo dell’articolo 2 della legge n. 205/2000 che ha aggiunto l’art. 21-bis alla legge n. 1034/1971, ed è culminato nell’emanazione della sentenza n. 1/2002 da parte dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato In controtendenza rispetto all’ordinamento prevalente, l’Adunanza plenaria accolse l’interpretazione restrittiva, ritenendo che il giudizio disciplinato dall’art. 21-bis l. n. 1034 del 1971 fosse diretto ad accertare se il silenzio violi l’obbligo di adottare un provvedimento esplicito sull’istanza del privato e che il giudice, in nessuna fase del giudizio, si potesse sostituire all’Amministrazione, limitandosi ad accertare se il silenzio fosse o meno illegittimo, e nel caso di accoglimento del ricorso imporre all’amministrazione medesima di provvedere sull'istanza entro il termine assegnato. Approvano il tenore della decisione A. Travi, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, 227; F. Saitta, Impugnativa del silenzio e motivi di merito, in Foro amm. C.d.S., 2002, 49. Si esprimono criticamente sulla scelta della Plenaria F. Giglioni, Il ricorso avverso il silenzio tra tutela oggettiva e tutela soggettiva, in Dir. proc. amm., 4/2002, 936; E. Sticchi Damiani, La diffida a provvedere nel giudizio avverso il silenzio dell’amministrazione, in Foro amm., T.a.r., 2002, 4217 ss.; Id, L’accertamento della fondatezza dell’istanza nel giudizio sul silenzio, in Foro amm., T.a.r., 2005, 3365 ss., il quale, in quest’ultimo saggio afferma come la pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 1/2002 costituisca un arretramento sul versante della tutela, iscritto in una complessiva logica conservatrice, volta a ribadire la natura attizia e impugnatoria del processo amministrativo; S. Mirate, La natura del giudizio ex art. 21 bis l. 1034/1971: l’Adunanza plenaria limita il sindacato del giudice amministrativo all’illegittimità del silenzio, in Giur.it., 2002, III, 1285.
[24] Nei casi in cui il giudice amministrativo ravvisi la manifesta infondatezza della pretesa, non accerta l’obbligo della pubblica amministrazione di provvedere, ma rigetta semplicemente il ricorso, ritenendo diseconomico obbligare la pubblica amministrazione a provvedere nei casi in cui il privato non avrebbe comunque diritto a ottenere quel bene della vita. Come però giustamente osserva A. Carbone, L’azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, 112, «in tal modo, il giudizio avverso il silenzio, di regola volto a valutare il mero inadempimento dell’autorità amministrativa, si estende alla fondatezza dell’istanza solo “in malam partem”, solo laddove, cioè, ciò sia necessario per negare l’accoglimento del ricorso». Ritiene invece N. Posteraro, Riflessioni a proposito del rito avverso il silenzio inadempimento, in Foro amm., 2017, 802 e ss., che il giudice possa esprimere anche d’ufficio un giudizio sulla fondatezza della pretesa del privato nei casi in cui essa sia manifestamente infondata «in ossequio al principio di economicità e nell’ottica di un corretto bilanciamento interesse pubblico-interesse del privato», purché comunque si pronunci relativamente alla domanda volta a chiedere l’accertamento del silenzio della pubblica amministrazione. L’Autore conferma questa visione in N. Posteraro, L’azione avverso il silenzio-inadempimento, cit., 278.
[25] In verità, anche nei casi in cui la fondatezza della pretesa non sia immediatamente manifesta, sarà comunque possibile per il ricorrente chiedere al giudice di pronunciarsi su questa questione, proponendo contestualmente all’azione contro il silenzio l’azione di adempimento ex art. 34, comma 1, lettera c), che segue i ritmi più distesi del rito ordinario. Osserva giustamente A. Scognamiglio, Rito speciale, cit., 474, «al rito ordinario è del resto sicuramente soggetta l’azione di adempimento quando è proposta contestualmente a quella di annullamento del provvedimento negativo. Alla stessa conclusione si deve giungere quando la medesima è proposta contestualmente all’azione contro il silenzio. Un trattamento processuale differenziato, nelle due ipotesi, risulterebbe del tutto ingiustificato».
[26] L’art. 87 c.p.a., analogamente a quanto stabiliva l’art. 21 bis legge n. 1034/1971, prevede che il giudizio in materia di silenzio deve essere trattato in camera di consiglio. L’intento acceleratorio è percepibile, oltre che dalla scelta di trattare la causa in camera di consiglio, anche dalla disposizione (art. 117, comma 2), che prevede che il ricorso debba essere deciso con sentenza in forma semplificata. Critica questa interpretazione M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 3/2014,717, per la quale «l’introduzione di un rito speciale è divenuta strumento di diminuzione della tutela giurisdizionale: la specialità del rito è stata invocata per giustificare una cognizione limitata del giudice, con un cortocircuito tra accertamento della fondatezza della pretesa e carattere accelerato e semplificato del rito processuale».
[27] L’accertamento del fatto complesso nel processo amministrativo intreccia, inevitabilmente, il tema del sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione. A dimostrazione di tale biunivoca corrispondenza, S. Lucattini, Fatti e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015 p. 208, nota 11: «nel giudizio amministrativo il rapporto tra giudice e fatto complesso è stato studiato, essenzialmente, in relazione al
controverso tema del sindacato sulla discrezionalità tecnica».
[28] T.a.r. Lazio, Roma, sez. II, 11 dicembre 2017, n. 12204; Cons. Stato, sez. VI, 23 febbraio 2016, n. 736; T.a.r. Lazio, Latina, sez. I, 16 febbraio 2015, n. 167, in www.giustiziamministrativa.it.
[29] P. Cerbo, L’azione di adempimento nel processo amministrativo e i suoi confini, in Dir. proc. amm., 1/2017, 21.
[30] P. Cerbo, op. ult.cit., 22.
[31] T.a.r.. Campania Napoli Sez. VII, 23 luglio 2018, n. 4892, dove si legge, «Il ricorso avverso il silenzio serbato dall'amministrazione su di un'istanza sulla quale essa ha l'obbligo di provvedere è finalizzato ad ottenere un provvedimento esplicito che elimini lo stato di incertezza ed assicuri al contempo al privato una decisione che investe la fondatezza della sua pretesa, fermo restando tuttavia che al giudice adito non è concesso di sindacare il merito del procedimento amministrativo non portato a compimento, dovendo egli limitarsi a valutare la astratta accoglibilità della domanda, senza sostituirsi agli organi dell'amministrazione quanto agli apprezzamenti, alle valutazioni ed alle scelte discrezionali, pronunciando quindi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati». Tuttavia, come puntualmente osservato da G. Corso, Commento all’art. 34, in A. Quaranta, V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, 340 e A. Carbone, L’azione di adempimento, cit., 201 e ss., tale divieto si riferisce alle domande giudiziali con le quali il privato richiede un’inibitoria sull’esercizio di un potere futuro, oppure con le quali si chiede di condizionare un procedimento non ancora concluso, e mai può essere riferito all’ipotesi di inerzia della pubblica amministrazione fatta valere tramite l'azione contro il silenzio, dal momento che, in questo caso, si è in presenza di un potere opportunamente sollecitato dal privato che, tuttavia, non è stato esercitato. In termini anche P. Cerbo, Il limite dei poteri amministrativi non ancora esercitati: una riserva di procedimento amministrativo? in Dir. proc. amm., 1/2020, 96.
[32] Cons. Stato, sez. V, 09 ottobre 2018, n. 5794, che rievoca quanto affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 9 giugno 2016, n. 11, la quale ha statuito che dal giudicato «deriva solo un obbligo procedimentale e strumentale (quello di portare a conclusione il procedimento), non un obbligo sostanziale e finale (quello di concluderlo riconoscendo il diritto alla stipula del contratto o, addirittura, alla realizzazione dell'opera). Utilizzando una distinzione offerta dalla dottrina civilistica, si può dire che dalla sentenze in esame deriva una obbligazione di mezzi (o, comunque, una obbligazione di risultato strumentale), non una obbligazione di risultato finale.", nonché, più ampiamente, "In quel giudizio (sul silenzio - inadempimento), come è noto, il giudice amministrativo non può sindacare la fondatezza della pretesa e predeterminare il contenuto del provvedimento finale se non nei casi in cui l'attività sia vincolata o si siano comunque esauriti gli spazi di discrezionalità riconosciuti alla pubblica amministrazione. Si tratta di una regola, ora chiaramente enunciata dall’art. 31, 2° comma, cod. proc. amm., operante anche nella vigenza dell’art. 21 bis l. n. 1034 del 1971, applicabile ratione temporis. Tale limite al potere di cognizione del giudice è, infatti, la naturale conseguenza della natura della giurisdizione amministrativa che non ammette, tranne i casi eccezionali e tassativi di giurisdizione di merito, che il giudice amministrativo possa sostituirsi all'amministrazione nell'esercizio di valutazioni discrezionali».
[33] Con riferimento alle particolarità del giudizio di ottemperanza nelle ipotesi del giudizio contro il silenzio e del ruolo particolare assunto dal commissario ad acta che adotta l’atto al posto dell’amministrazione rimasta inerte, senza ricavare alcun vincolo o indicazione dalla sentenza del giudice, atteggiandosi alla stregua di un organo straordinario dell’amministrazione si confronti M. Ramajoli, Forme e limiti, cit., 742. Tale ricostruzione è stata però rivista dal Consiglio di Stato con l’Adunanza Plenaria 25 maggio 2021, n. 8. In tale pronuncia, ai fini che più interessano, si legge che: «la disciplina normativa, nel definire espressamente, come si è visto, il commissario ad acta quale ausiliario del giudice, esclude, al tempo stesso, che a questi possa essere riconosciuta la natura di organo (straordinario)dell’amministrazione. E ciò ricorre anche nei casi in cui il commissario, più che dare seguito a specifici aspetti già definiti dalla pronuncia in un’ottica stricto sensu esecutiva, per le finalità del proprio incarico esercita poteri discrezionali, come nel caso in cui, stante la perdurante inerzia dell’amministrazione, egli debba provvedere sulla istanza del cittadino o dell’impresa, senza che la sentenza abbia determinato il contenuto del potere da esercitare». Con riguardo invece al rapporto tra commissario ad acta e amministrazione soccombente il Consiglio di Stato afferma che: «il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto», specificando che: «gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio». Per un commento alla sentenza si confronti A. Scognamiglio, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), in Questa rivista, 16 settembre 2021,
[34] Ciò in verità non è altro che il riflesso dell’inidoneità della sentenza di condanna di definire compiutamente il rapporto tra privato e amministrazione sottoposto alla sua cognizione in presenza di poteri discrezionali (si confronti, ad esempio, M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018, 123 e ss. Altra questione si pone quando il giudice, nei limiti previsti dall’art. 31, co. 3, c.p.a. arriva a pronunciarsi sulla fondatezza (o sull’infondatezza) della pretesa. In questa ipotesi, come puntualmente evidenziato da A. Carbone, L’azione di condanna ad un facere, cit., 234, «il giudice adotta una decisione idonea a ̕chiudere̕ definitivamente il potere amministrativo, operando nei suoi confronti come preclusione a porsi in contrasto con la determinazione della pretesa nel senso effettuato dalla sentenza».
[35] Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7955; Cons. Stato, sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318; Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2010, n. 3487; Cons. Stato., sez. IV, 24 aprile 2012, n. 2468; Cons. Stato, sez. IV, 20 maggio 2014, n. 2545; Cons. Stato, sez. V, 9 marzo 2015, n. 1182; Cons. Stato, sez. IV, 29 maggio 2015, n. 2688; T.a.r. Roma, Lazio, sez. II, 4 gennaio 2016, n. 43; T.a.r. Salerno, Campania, sez. II, 19 dicembre 2017 n. 1765; Cons. St., sez. VI, 9 gennaio 2020, n. 183.
[36] Per le diverse ipotesi in cui la giurisprudenza rinviene l’obbligo di provvedere in presenza di istanze atipiche si confronti S. Vernile, Il provvedimento amministrativo in forma semplificata, Napoli, 2017, 54 e ss.
[37] Tale circostanza è estremamente rilevante perché consente al giudice di operare un sindacato maggiormente penetrante nel caso di specie. Sottolinea questa circostanza in via generale D. Vaiano, L’azione di adempimento nel processo amministrativo: prime incertezze giurisprudenziali, in Giur. it., 2012, 719, e cioè che «la situazione che si viene a delineare in un’azione di adempimento promossa nei confronti di un diniego espresso che sia già stato adottato dall’amministrazione è completamente diversa rispetto a quella che si presenta all’attenzione del giudice nel caso dell’azione nei riguardi del silenzio-inadempimento, nella quale ultima, non essendovi stata attività dell’amministrazione, non potendosi sindacare la congruità della motivazione apposta al diniego, non essendo intervenuti atti procedimentali in grado di orientare i ragionevoli esiti del procedimento amministrativo, ben si comprende come assai più raramente il giudice amministrativo potrà riscontrare la presenza dei presupposti necessari per pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa».
[38] Per un’analisi complessiva di queste due normative si segnalano A. Porporato, La tutela della fauna, della flora e della biodiversità, in A. Crosetti (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, Vol. III, La tutela della natura e del paesaggio, Milano, 2014, pp. 737 ss.; A. Conio, F. Dinelli, Tutela della biodiversità e protezione della natura e del mare, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2021.
[39] La ricomprensione di un determinato territorio all’interno di un SIC avviene mediante l’adozione da parte della Commissione Europea della Decisione contenente la lista dei Siti di Importanza Comunitaria (SIC), elaborata sulla base delle liste nazionali proposte dagli Stati membri.
[40] Si tratta di zone individuate formalmente dagli Stati membri volte al mantenimento e al ripristino di differenti tipi di habitat (selezionati per le loro caratteristiche naturali o per le specie che vi vivono).
[41] Si tratta di territori idonei, per estensione e localizzazione geografica, alla conservazione degli uccelli selvatici e dell’avifauna migratoria, che vengono designate dagli Stati membri sulla base della Direttiva Uccelli.
[42] Art. 6, par. 1 della Direttiva Habitat «Per le zone speciali di conservazione, gli Stati membri stabiliscono le misure di conservazione necessarie che implicano all'occorrenza appropriati piani di gestione specifici o integrati ad altri piani di sviluppo e le opportune misure regolamentari, amministrative o contrattuali che siano conformi alle esigenze
ecologiche dei tipi di habitat naturali di cui all'allegato I e delle specie di cui all'allegato II presenti nei
siti». Secondo la “Guida all’interpretazione dell’art. 6 della direttiva 92/43/CEE (2019/C 33/01)”, elaborata dalla Commissione Europea, il paragrafo 1 dell’art. 6 «prevede misure di conservazione positive, che comportano, ove necessario, piani di gestione, e misure regolamentari, amministrative o contrattuali che siano conformi alle esigenze ecologiche dei tipi di habitat naturali di cui all'allegato I e delle specie di cui all'allegato II presenti nei siti. A
tale proposito, l'articolo 6, paragrafo 1, si distingue dagli altri tre paragrafi dello stesso articolo che
prevedono misure preventive per evitare il degrado, la perturbazione delle specie e conseguenze
significative per i siti di Natura 2000».
[43] Sul principio di prevenzione si confronti F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia
di rifiuti, in Rivista quadrimestrale di diritto dell'ambiente, 2/2011, in particolare pp. 16-26; M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, 1-2/2012, 77-78.
[44] Il valore delle statuizioni della Corte in relazione all’interpretazione delle disposizioni del diritto UE è riconosciuto dallo stesso Consiglio di Stato nella sentenza qui in esame, riconoscendo alle stesse «operatività immediata negli ordinamenti interni, vincolando il giudice nazionale all’interpretazione da essa fornita sia in sede di rinvio pregiudiziale che in sede di procedura di infrazione».
[45] Corte giust., sez. II, sentenza dell’11 dicembre 2008, Commissione/Grecia, C-293/07, EU:C:2008:706, punti 26–29; Corte giust., sez. IV, sentenza del 10 giugno 2010, Commissione / Italia, C-491/08, Corte giust., sez. IV, sentenza del 22 settembre 2011, Commissione europea/Regno di Spagna, C-90/10.
[46] Corte giust., sez. IV, sentenza del 24 novembre 2011, Commissione/Spagna, C-404/09, EU:C:2011:768, punto 135; più di recente Corte giust., sez. VI, 22 giugno 2022, Commissione/Repubblica slovacca, C-661/20, punti 98-111.
[47] Secondo l’Enciclopedia Treccani si tratta di un «fenomeno di arricchimento trofico di laghi, di stagni e, in genere, di corpi idrici a debole ricambio; è dovuto al dilavamento dei fertilizzanti usati nella coltivazione delle terre circostanti o all’inquinamento organico prodotto dalle attività umane o a prodotti di rifiuto industriali. Provoca le cosiddette fioriture del fitoplancton che, abbassando il tasso di ossigeno, rendono l’ambiente inadatto per altre specie (per es., pesci)». Con riferimento al lago di Vico, il Rapporto ISPRA 2020 richiamato nella sentenza aveva evidenziato come le attività di coltivazione (in particolare del nocciolo) hanno comportato un continuo apporto di nutrienti nelle acque del lago, che ha alterato lo stato del corpo idrico, aggravandone l’eutrofizzazione, con conseguente progressivo costante degrado degli habitat tutelati e, in particolare, la contrazione o la scomparsa di molte comunità vegetali.
[48] Si tratta, nello specifico: della D.G.R. n. 162 del 14 aprile 2016 con la quale sono state adottate misure di conservazione specifiche per quanto concerne le Zone Speciali di Conservazione (ZSC) IT6010023 “Monte Fogliano e Monte Venere” e IT6010024 “Lago di Vico”; della D.G.R. n.612 del 16 dicembre 2011 recente le misure di conservazione da applicarsi nelle Zone di protezione Speciale (ZPS) e nelle Zone Speciali di Conservazione (ZSC) della “Rete Natura 2000”, in sostituzione della D.G.R. 16 maggio 2008 n. 363;; della D.G.R. n. 795 del 23 novembre 2021 recente l’adozione definitiva del “Quadro di azioni prioritarie” (Prioritized Action Framework, PAF) per la programmazione 2021-2027 per la “Rete Natura 2000” nel territorio della Regione Lazio ai sensi dell’articolo 8 della Direttiva 92/43/CEE (c.d. Direttiva Habitat) e dell’art. 3, comma 4, del d.P.R. n. 357 del 1997; della Determinazione Dirigenziale n. G10519 del 4 agosto 2022 relativa al trasferimento d fondi all’Ente Monti Cimini Riserva naturale Lago di Vico finalizzati ad interventi per la salvaguardia ambientale del Lago. Tutti questi provvedimenti sono richiamati nella nota della Regione Lazione del 13 luglio 2022 n. 692791 e nella relazione istruttoria predisposta su richiesta del giudice secondo quanto precisato alla nota che segue.
[49] Con l’ordinanza collegiale n. 8865 dell’11 ottobre 2023 la Sezione aveva disposto incombenti istruttori nei confronti della Regione Lazio e dell’Ente Monti Cimini, consistenti nell’acquisizione di una documentata e dettagliata relazione di chiarimenti concernente le misure eventualmente adottate, o in corso di elaborazione, aventi il fine specifico di contrastare il degrado ambientale del lago di Vico.
[50] Cons. Stato, n. 3945/2024, par. 11.1.
[51] Cons. Stato, n. 3945/2024, par. 11.5 che richiama quale autorevole precedente conforme Cons. St., Ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11, la quale, in relazione al giudizio contro il silenzio precisa che: «In quel giudizio, come è noto, il giudice amministrativo non può sindacare la fondatezza della pretesa e predeterminare il contenuto del provvedimento finale se non nei casi in cui l'attività sia vincolata o si siano comunque esauriti gli spazi di discrezionalità riconosciuti alla Pubblica Amministrazione. Si tratta di una regola, ora chiaramente enunciata dall'art. 31, comma 2, c.p.a., operante anche nella vigenza dell'art. 21-bis l. n. 1034 del 1971, applicabile ratione temporis. Tale limite al potere di cognizione del giudice è, infatti, la naturale conseguenza della natura della giurisdizione amministrativa che non ammette, tranne i casi eccezionali e tassativi di giurisdizione di merito, che il giudice amministrativo possa sostituirsi all'Amministrazione nell'esercizio di valutazioni discrezionali».
[52] Sull’efficacia oggettiva del giudicato e, in particolare, sull’estensione del giudicato oltre il dispositivo della sentenza, si confronti, da ultimo, il lavoro monografico di S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, in particolare 232 e ss. Si confronti altresì C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, 257 e ss.
[53] Ciò risulta in maniera chiara dalla sentenza di prime cure, ove si legge che il giudizio era volto all’accertamento e alla declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dalla Regione Lazio e alla conseguente condanna della Regione a pronunciarsi sull’istanza presentata entro il termine di 30 giorni, senza la proposizione di una autonoma azione di adempimento ai sensi dell’art. 34, comma 2, c.p.a.
[54] Sul punto si confronti G, Mari, Il giudizio di ottemperanza, in M.A. Sandulli (a cura di), Il giudizio amministrativo, cit., 681 e ss.
[55] Con l’opportuna precisazione che l’effetto giuridico non deriva direttamente dalla legge, ma pur sempre dall’esercizio del potere nonostante non sussista possibilità di scelta in ordine al contenuto del provvedimento. In questo senso si confronti F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in S. Amorosino (a cura di), Le trasformazioni del diritto amministrativo. Scritti degli allievi per gli ottant’anni di M.S. Giannini, Milano, 1955, 278 per il quale: «da un lato c’è il potere di figurare (o disegnare) l’effetto, determinando la disciplina (il regolamento) degli interessi; dall’altro c’è il potere di costituire l’effetto, realizzando l’assetto di interessi prefigurato».
[57] A. Squazzoni., L’azione di accertamento con riferimento al silenzio-assenso: amministrare giudicando? Un’analisi della giurisprudenza, in Dir. proc. amm., 4/2021, 764.
[58] Si ritiene, ad esempio che l’influenza del diritto europeo in materia ambientale abbia indotto il giudice amministrativo a disegnare la legittimazione e l’interesse a ricorrere in modo da garantire una maggiore effettività della tutela giurisdizionale. In merito si rimanda all’analisi di B. Marchetti, Il sistema integrato di tutela, in L. De Lucia, B. Marchetti
(a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, Bologna, 2015, 199, che sottolinea come le modifiche ai
Trattati in punto di ampliamento della legittimazione dei privati siano guidate, per l’appunto, dal principio di effettività della tutela.
Per gli altri contributi su Giacomo Matteotti pubblicati su questa rivista, si veda: Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo, Machiavelli, Mussolini e il fascismo di Giacomo Matteotti.
Indipendenza dei giudici e riforme della giustizia ai tempi dell’omicidio Matteotti. Uno sguardo alle pagine di cento anni fa della Rivista “La Magistratura”
di Simone Pitto
Nel quadro dell’approfondimento tematico avviato da Giustizia Insieme su magistratura e indipendenza a cento anni dall’omicidio Matteotti, il presente scritto si propone di rievocare il dibattito dell’epoca attorno alle medesime questioni, commentando articoli tratti dalla Rivista “La Magistratura” nel periodo tra il 1922 ed il 1924. Particolare attenzione è inoltre rivolta alle riforme della giustizia approvate in quegli anni, nonché alla reazione del giudiziario al caso Matteotti.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Origini della Rivista e contesto storico. – 3. I brani de “La Magistratura”. – 3.1. 1922: dall’elettività del CSM alle richieste di maggiore indipendenza della magistratura. – 3.2. 1923: verso la riforma Oviglio. – 3.3. 1924: il clima di violenza delle elezioni e la reazione all’omicidio Matteotti
1. Premessa
È stato affermato che “la storia dell’associazionismo giudiziario italiano si divide in un prima e in un dopo” e “[q]uel prima e quel dopo si riferiscono al fascismo, dal quale l’Associazione generale fra i magistrati d’Italia (Agmi) fu costretta allo scioglimento”[1].
Oltre allo scioglimento dell’Associazione, il fascismo ha significato la riduzione al silenzio della “voce” dell’AGMI dell’epoca: la Rivista La Magistratura, la quale ha pubblicato l’ultimo numero nel 1926 prima della successiva riapertura avvenuta solo nel 1945.
Muovendo dal centenario dall’omicidio dell’On. Giacomo Matteotti e dalla riflessione sulla voce del dissenso, lasciataci dalla vita più che dalla morte di Matteotti[2], vale la pena ripercorrere, dal punto di vista della magistratura, alcune di quelle tappe che hanno condotto verso il totalitarismo in anni chiave per gli sviluppi successivi.
In queste brevi pagine, attraverso le parole dei protagonisti della giustizia dell’epoca espresse in alcuni brani tratti dai numeri de “La Magistratura” tra il 1922 e il 1924, si riprendono momenti drammatici della storia italiana che forniscono, però, un lucido spaccato dell’attività e della reazione di parte della magistratura del tempo di fronte al precipitare degli eventi.
A cento anni da quelle discussioni, ritroviamo anche alcuni temi di perdurante interesse per l’attualità: la riflessione sull’indipendenza della magistratura, l’imparzialità e il rapporto con la politica, la libertà di espressione, i problemi ordinamentali e le carenze di organico; ma anche rivendicazioni e richieste di ulteriori garanzie strumentali al libero svolgimento dell’attività giudiziaria, rivelatesi fondamentali nell’equilibrio dei poteri e, forse, date talvolta per scontate in quanto ritenute radicate nell’attuale assetto istituzionale. Garanzie che, tuttavia, si riescono ad apprezzare pienamente nel proprio significato storico-costituzionale solo se comprese e rapportate con i drammatici eventi che hanno condotto alla loro formalizzazione nella Costituzione Repubblicana e, forse, anche alla luce delle inquietudini di chi, cento anni fa, non ne poteva beneficiare.
2. Origini della Rivista e contesto storico
Preliminarmente, vale la pena ricostruire per sommi capi il contesto storico in cui si collocano i testi riportati.
Come noto, l’associazionismo giudiziario in Italia ha radici che risalgono agli inizi del XX secolo, da rinvenirsi nel Proclama di Trani del 1904[3].
Nel 1909 viene fondata a Milano l’Associazione Generale fra i Magistrati d’Italia (di seguito “AGMI”), dichiaratamente apolitica, la quale in pochi anni avrebbe raggiunto diverse migliaia di iscritti[4].
Risale a due anni dopo il primo “Congresso Nazionale della Magistratura”, che vede la partecipazione di centinaia di magistrati da tutta Italia. Sempre nel 1911 viene avviata l’attività della Rivista dell’AGMI “La Magistratura”. In questa fase, l’Associazione tentava di rispondere alle nuove esigenze in materia di giustizia in un Paese oggetto di profondi mutamenti economici e sociali, i quali esigevano altrettanti adeguamenti nel funzionamento degli uffici giudiziari.
Si può notare come, proprio nelle fasi di avvicinamento alla dittatura, la vita dell’AGMI si sia intrecciata strettamente alla figura di Vincenzo Chieppa. In magistratura dal 1914, il dott. Chieppa contribuì alle attività dell’AGMI di cui divenne anche segretario nel 1923, assumendo così la guida de “La Magistratura”. La sua gestione fu caratterizzata dalla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, in un periodo in cui questa e l’associazione subivano forti pressioni dal regime, nel disegno generale di eliminazione dei corpi intermedi avviato dal fascismo.
L’associazione, rifiutando la trasformazione in sindacato fascista nell’ambito del programma di eliminazione dei corpi intermedi avviato dal regime, deliberò il proprio scioglimento nel dicembre 1925, mentre l’ultima uscita de “La magistratura” risale al 15 gennaio 1926.
Come ricorda G. Scarselli, l’ultimo numero della Rivista riportava un editoriale anonimo (che viene però ricondotto proprio a Chieppa) dal titolo “L’idea che non muore”, ove si rivendica con orgoglio la scelta dell’associazione affermando che “la «vita a comodo» è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire”[5].
L’impegno di critica all’involuzione illiberale avviata dal regime del dott. Chieppa e di altri magistrati proseguì comunque, anche dopo lo scioglimento dell’AGMI e la chiusura de La Magistratura, grazie alla collaborazione con il giornale indipendente, “La Giustizia Italiana”.
Vincenzo Chieppa ed altri magistrati pagarono un caro prezzo per tale impegno. Col Regio decreto 16 dicembre 1926, Chieppa e gli altri magistrati vennero destituiti dall’ordine giudiziario, per aver assunto “un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura”[6].
Vincenzo Chieppa e gli altri magistrati destituiti vennero reintegrati solo nel 1944, quando Chieppa tornò in servizio in Cassazione, ove rimase fino al 1960.
Anche la Rivista “La Magistratura”, a seguito della nascita dell’ANM e grazie all’impegno di questa, ritornò alle stampe nello stesso 1945, diretta da Ernesto Battaglini e, ancora una volta, con il contributo di Vincenzo Chieppa[7].
3. I brani de “La Magistratura”
3.1. 1922: dall’elettività del CSM alle richieste di maggiore indipendenza della magistratura
Il 1922 rappresenta, come tristemente noto, un anno di svolta verso l’ascesa al potere di Mussolini.
In quello stesso anno e almeno fino alla Marcia su Roma, l’interesse della Magistratura associata si concentra sul dibattito intorno all’elezione dei componenti del Consiglio Superiore[8] da parte dei magistrati, recentemente introdotta nel 1921 per poi essere nuovamente abbandonata nel 1923[9]:
“La buona vittoria
L’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura ha potuto finalmente avere luogo, nonostante il più grave, a man ultimo, tentativo di siluramento della riforma, organizzato con mezzi potenti in grande stile e naufragato miseramente tra le acide e povere polemiche soccorritrici del Giornale d’Italia. Non mai il pretesto dell’antisindacalismo più goffamente sfruttato per aggredire simultaneamente da più parti Associazione e col disgregamento di essa rendere vana questa riforma che soltanto l’opera sua onesta volle e seppe ottenere”[10].
L’importanza epocale dell’evento e la portata sistematica dell’elettività per la magistratura nel suo complesso è ben nota all’epoca:
“Il grande vantaggio, forse non ancora da tutti compreso, di questa riforma (saranno mai capaci d’intenderlo gli anonimi collaboratori del Giornale d’Italia?) non sta in una quistione di persone, ma di principio. Da oggi la magistratura non può essere considerata più come il gregge vile che si lascia indifferentemente guidare al pascolo od al macello, secondo il capriccio dell’archimandrita. Meditino su questo i nostri soci, lo considerino i non associati estranei agl’intrighi ed alle clientele, e si ricordino che se un passo innanzi si è fatto per l’indipendenza della magistratura, lo sforzo ed il merito sono stati proprio dell’Associazione, che ora per spirito di antica e mal dissimulata vendetta si vorrebbe travolgere da alcuni che non sono riusciti altra volta ad asservirla, come era nel loro desiderio”[11].
Dopo la marcia su Roma e l’assegnazione dell’incarico di Governo a Mussolini il 31 ottobre 1922, il nuovo Ministro della giustizia e dei culti a entrare nelle funzioni è Aldo Oviglio[12]. Senza entrare nel merito alle vicende politiche che hanno condotto all’incarico a Mussolini in ossequio alla natura “apolitica” dell’associazione[13], l’interesse de La Magistratura si concentra sulla sostituzione del Ministro della giustizia degli affari di culto. Attorno al nuovo Guardasigilli si forma in un primo momento un’aurea di ottimistica aspettativa, vendendo nell’annunciato rinnovamento promesso dal governo appena instaurato una possibile occasione per l’attesa riforma della giustizia ed una sua modernizzazione.
“Rinnovamento e reazione
Ogni rivolgimento politico determina col suo impulso trasformatore la prevalenza d’idee e di sentimenti rinchiusi da primo nel campo delle aspirazioni. Molte rosee speranze stanno ora fiorendo negli spiriti giovani ed è augurabile che diventino presto una realtà viva e vitale. Ma parecchie idee tarlate e non poche sentimenti e maniere d’altri tempi si forzano d’insinuarsi nella corrente trasformatrice e deviarla ad irrigare il loro campicello isterilito. Per il bene della nazione è necessario che le tendenze reazionarie non prevalgano.
(…)
Abbiamo talvolta creduto che il momento potesse essere propizio per una riforma moderna e radicale dell’amministrazione della giustizia. Ma le occasioni sono passate, ed il problema che he varie quistioni e necessità connesse, aspetta ancora la completa soluzione. Ora, forse, potrebbe averla, se, oltre la volontà ed il coraggio, non difettino le buone inspirazioni, lo spirito di modernità e la competenza tecnica dei collaboratori”[14].
In quel periodo, del resto, l’Associazione vedeva un’occasione importante per dare seguito alle richieste di maggiori garanzie di indipendenza della magistratura che avevano già trovato nell’elettività del CSM un importante risultato ma che richiedevano nuovi interventi.
“Le nostre conquiste morali
L’elettività del Cons. Superiore
Se non conoscessimo bene i fini reconditi della campagna così detta antisindacalista dei nostri avversari; se non avessimo compreso che, di fronte ad essi, la nostra vera colpa consiste, non nell’asserita tendenza sindacale a carattere prettamente economico, ma nel dichiarato nostro proposito di combattere lo spirito di clientela e di scuotere certe posizioni di ingiusto privilegio, cui alcuni pochi sono già pervenuti, ed altri agognano di pervenire, ci sarebbe facile - con la storia delle nostre lotte, delle sconfitte come delle conquiste dimostrare quanta luce di ideale abbia sempre guidato l’azione nostra.
(…)
La questione dell’indipendenza è stata da noi sempre considerata come il problema fondamentale dell’ordinamento giudiziario. Non è possibile concepire la giustizia come una funzione del potere esecutivo, o dei partiti che trovansi di volta in volta al governo del paese. Una relativa indipendenza è senza dubbio indispensabile, e nella ricerca dei limiti l’Associazione, con intuito pratico, man tenendosi lontana dagli eccessi delle contrapposte teorie, ha saputo scegliere il mezzo attuabile, la strada dell’equilibrio, sulla quale ha sempre insistito. senza sconfinare in nessun momento[15].
La richiesta della garanzia di maggiore indipendenza rappresenta quindi l’anelito fondamentale dell’Associazione, persino al di sopra di un più ampio governo autonomo che, in questa fase, non pare configurabile:
“Alla dottrina che vorrebbe ridurre la giustizia a funzione dell’organo esecutivo o del partito dominante, si è da alcuni teorici opposta l’altra dell’autogoverno della magistratura. Ebbene, anche quest’ultima noi abbiamo sempre ripudiata, convinti che fra i poteri statuali non sia possibile una, assoluta separazione. D’altra parte, credere alla indipendenza della funzione giudiziaria, senza garantire una certa indipendenza agli organi della giustizia, ai magistrati – come si è fatto in Italia in mezzo secolo di vita costituzionale – equivale a credere all’assurdo. Diciamo pure che, in tali condizioni, l’indipendenza della giustizia è una semplice finzione. Per essere perfettamente liberi nei loro giudizi, i magistrati hanno bisogno di determinate garanzie anche quanto al loro trattamento al loro avvenire, i quali vanno perciò sottratti, in certi limiti, all’arbitrio del potere esecutivo. Né possono ottenersi queste garanzie da organi di nomina ministeriale, che perciò siano emanazione dello stesso potere che dovrebbe essere controllato. Questi organi non possono che sorgere dalla magistratura, senza alcuna ingerenza governativa”[16].
Altra specifica preoccupazione dell’Associazione riguarda l’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo; un tema che si sarebbe rivelato centrale meno di due anni dopo proprio alla luce degli avvenimenti successivi all’omicidio Matteotti:
“è certo che la concezione del pubblico ministero, secondo l’art. 129 dell’Ordinamento giudiziario del 1865, quale organo rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, non è più in armonia con la comune coscienza giuridica, la quale al contrario, tende a considerare il Pubbl. Ministero come un organo esclusivamente giudiziario” (..) “La completa equiparazione nelle garanzie costituzionali tra i magistrati giudicanti e quelli del Pubblico Ministero, o almeno la destinazione di magistrati giudicanti in missione alle funzioni del P. M. sarebbe il modo di attuare praticamente la riforma. L’idea non è nuova, e fu accolta fino dal 1879 nel progetto Taioni, il quale stabiliva che le funzioni del P. M. dovessero essere esercitate da magistrati giudicanti in missione, scelti specialmente fra i consiglieri di Corte di Appello”. (…) “Per quanto riguarda il Pubblico Ministero, bisogna notare che un passo indietro assai grave su fatto con la riforma Orlando del 1907, che introdusse nell’ordinamento giudiziario la disposizione relativa al collocamento in disponibilità dei Procuratori Generali di Corte d’Appello. Questa innovazione così illiberale fu allora accolta senza notevoli proteste nel campo politico, e anche dalla Magistratura, pel solito miserevole vantaggio di una promozione più rapida che essa consentiva a qualche magistrato di grado elevato, in sostituzione di tre o quattro procuratori generali colloca- ti in disponibilità. Fu lasciata intatta - nel progetto di riforma Mortara, che - pure assicurava la inamovibilità ai magistrati del P. M. Ma essa deve sparire dal moderno ordinamento giudiziario, non essendo tollerabile che un magistrato, il quale esercita funzioni di giustizia di tanto delicata importanza sia trattato alla stregua del prefetto, organo essenzialmente politico”[17].
3.2. 1923: verso la riforma Oviglio
Il 1923 si apre, nei numeri de La Magistratura, con i preparativi per il IV Congresso della Magistratura italiana ma anche con le molteplici discussioni sui contenuti e le (sempre attuali) problematiche da risolvere attraverso un’auspicata riforma della giustizia[18].
“I cardini della riforma giudiziaria
I pessimisti hanno parole roventi contro i disservizi giudiziari. La Giustizia va in isfacelo, se questa mastodontica macchina non funziona o funziona con tale lentezza da costituire la bazza per i delinquenti e dei pessimi pagatori, se i processi si prescrivono, se le sentenze si attendono per lunghissimi mesi, se i cosidetti tempi giudiziari sono pieni di immondizie di polvere e di ragnatele. E poiché la giustizia è il fondamento dei regni ne traggono conclusioni catastrofiche”[19].
Si può notare un’ulteriore problematica spesso evidenziata nei dibattiti del periodo – quella della scopertura del personale degli uffici – che pare perennemente al centro delle discussioni sulla giustizia ad oltre un secolo di distanza:
“Il giuoco degli egoismi
Nessuno dubita che in Italia vi sia un lusso eccessivo di uffici giudiziari ed una soverchia scarsezza di personale negli uffici più importanti: e tutti ammettono, in principio, che la migliore riforma in questa materia sarebbe quella che, sopprimendo gli uffici inutili, consentisse una maggiore assegnazione di personale a quelli più importanti. Ciò nonostante, ogni tentativo di risolvere per questo verso il problema è, da circa mezzo secolo, naufragato nel mare morto dei piccoli interessi contrastanti”[20].
L’attenzione della Rivista è però anche rivolta a tematiche di interesse sistematico per l’ordinamento giudiziario. Basti pensare al dibattito parlamentare sul decreto cpagina.d. Rodinò[21] che – va ricordato – introdusse innovazioni quali l’inamovibilità del pretore e l’elettività del Consiglio superiore. In questo brano, si risponde alla provocazione di un parlamentare secondo cui, se Mussolini fosse stato al governo nel 1921, la riforma Rodinò non sarebbe andata in porto:
“Antiche memorie e speranze nuove
(…) Ma quello che, nella discussione al Senato, ci ha sorpreso ancora di più di qualche principio futurista di diritto costituzionale, è stata l’invocazione fatta all’attuale presidente del Consiglio, che un senatore ha creduto di poter tirare in ballo, affermando che, se all’epoca di quel decreto, l’on. Mussolini fosse stato al Governo, quella riforma non si sarebbe avuta. E perché? Senza avere alcuna pretesa d’interpretare il pensiero dell’on, Mussolini, crediamo peraltro che nessuno possa ritenersi autorizzato a prestargli il proprio. Ci sembra piuttosto vero invece che, se l’on. Mussolini fosse stato allora presidente del Consiglio, tutte le manovre palesi e segrete poste in opera per sabotare il decreto, sarebbero scomparse come nebbia al vento e il prudente coraggio dei loro sostenitori non avrebbe trovato l’opportunità di manifestarsi”[22].
Il brano è significativo di una lettura ancora in parte fiduciosa rispetto alla novità portata dal governo appena instauratosi che, tuttavia, si sarebbe presto rivelata malriposta.
Nel frattempo, a seguito del IV Congresso, l’Associazione riportava sulla Rivista parte dei punti fermi discussi in sede congressuale per alimentare il dibattito sulla nuova riforma dell’ordinamento giudiziario in corso di stesura:
“Per l’indipendenza della Magistratura”
Nell’imminenza della pubblicazione di una nuova riforma giudiziaria, sentiamo il dovere d’insistere nei postulati, che in un quindicennio di vita associativa, la magistratura ha fermati per assicurare il minimo d’indipendenza indispensabile alle sue funzioni. L’Associazione che al Congresso di Firenze, in un periodo di depressione dell’autorità statale, con coscienza e con fede solennemente affermò il principio allora incompreso e travisato, oggi comunemente accettato) che ogni persona partito, associazione o classe debba coordinare la propria azione con gli interessi generali della collettività e subordinarla alle esigenze dello Stato sovrano (…). Pertanto, a nostro mezzo, (…) [l’Associazione N.d.r.] ritiene di dover riassumere i propri antichi voti perché la prossima riforma dell’ordinamento giudiziario, al di sopra di ogni interesse, di ogni preconcetto e di ogni misoneismo, risponda al fondamentale bisogno della indipendenza della magistratura. La giustizia non indipendente non è giustizia, e non appaga il comune sentimento giuridico. La magistratura ha bisogno, per l’essenza stessa delle sue funzioni, di muoversi in un’atmosfera respirabile, di relativa libertà, di relativa indipendenza[23]“.
Ciò non significa, secondo l’Associazione, che vi debba essere una libertà totale della magistratura, posto che:
“la vita dello Stato deve essere unica ed organica, e che la funzione giudiziaria non può del tutto separarsi dalle altre attività dei pubblici poteri, e procedere per suo conto, in disarmonia o in contrasto con l’indirizzo generale[24]“.
Ed infatti:
“La funzione giudiziaria è pure essa soggetta alla legge di relatività; ma deve mantenere la sua speciale caratteristica, se non vuole corrompersi presto, e trascinare nel discredito e nella morale rovina lo Stato stesso. Questa caratteristica, fissata dal fondamento etico, dalla necessità sociale, dall’origine storica dell’amministrazione della giustizia, consiste nella possibilità di ristabilire il diritto violato contro chiunque, e di difendere in ogni caso i deboli e gli oppressi”.
È proprio lo svolgimento di questa fondamentale funzione che si ricollega all’esigenza di una piena indipendenza, posto che “senza un minimo d’indipendenza, questa missione non può adempiersi”[25].
Le proposte fondamentali dell’Associazione al Ministro della giustizia sono quindi essenzialmente tre:
(1) La “Semplificazione della carriera” e, in particolare, lotta al carrierismo, laddove “[r]ipugna al concetto di giustizia indipendente il sistema dell’ordinamento carrieristico dei giudici” e perché:
“[l]a speranza di vantaggi ed il pericolo di danni nella carriera sono i principali nemici della indipendenza”[26].
(2) La seconda richiesta riguarda l’”Inamovibilità del pubblico ministero”, alla quale si accosta un altro tema che ritroviamo ancora oggi al centro della discussione pubblica, cioè la parificazione della magistratura requirente a quella giudicante:
“Essendo la funzione del pubblico ministero intimamente connessa con la funzione giudiziaria, sulla quale esercita senza alcun dubbio grande influenza, uno dei nostri voti più ardenti ha mirato sempre alla parificazione della magistratura requirente con la giudicante in ordine allo stato giuridico. Per quanto l’ordinamento del 1865 consideri la funzione del pubblico ministero come esplicazione del potere esecutivo, la realtà e la coscienza pubblica hanno sempre reagito contro questa concezione, Gli atteggiamenti del pubblico ministero sono stati sempre attribuiti, dall’opinione pubblica, all’autorità giudiziaria, od in verità la pratica mal si adatta a distinguere fra le due funzioni, ed a tener separate le varie responsabilità”.
Se oggi si discute della possibile rivisitazione della scelta delle Costituenti e dei Costituenti repubblicani di introdurre eguali garanzie per magistrati requirenti e giudicanti, nel 1923 tale risultato era indicato dall’Associazione come un’auspicabile conquista nell’ottica di una maggiore indipendenza della magistratura.
“Se però le condizioni politiche non si considerano ancora mature per la concessione della inamovibilità ai funzionari del pubblico ministero, noi riproponiamo quel temperamento che anche altre volte è stato prospettato dalla nostra Associazione. Siano unificati a tutti gli effetti i ruoli della magistratura giudicante e della requirente, ed ogni anno si designino, fra i magistrati i funzionari del pubblico ministero, come oggi si fa pei giudici istruttori e pei presidenti d’assise”[27]
(3) La terza richiesta è l’”Elettività del Consiglio Superiore”, ottenuta nel 1921 e definita come “La garanzia a cui più tiene la magistratura, e che rappresenta la più alta conquista dell’Ordine” e da questo rivendicata da tempo e con vigore di fronte alle voci di un possibile superamento dell’elezione da parte dei magistrati:
“Se la conquista è recente non può davvero dirsi che essa sia il prodotto di una improvvisazione, né che risponda al desiderio di pochi. Da tempo si è combattuto per raggiungerla; e nessuna voce discorde si è mai levata apertamente contro la riforma, sostenuta dall’unanime consenso dei magistrati, elaborata in decenni di studi e di esperienze. Non essendo possibile concepire la giustizia come una funzione del potere esecutivo o dei partiti che pervengono di volta in volta al governo del paese né credere alla indipendenza della funzione, giudiziaria senza garantire una certa indipendenza agli organi cui affidata”.
Tutte queste aspirazioni, come noto, saranno invece frustrate dal fascismo e ciò diventerà particolarmente evidente dagli ultimi mesi del 1923, quando la riforma della giustizia prenderà forma:
“L’inevitabile
Le nostre previsioni, effetto di conoscenza psicologica e d’ambiente, si sono malauguratamente avverate. Le notizie ufficiali della nuova riforma giudiziaria confermano, di fatto, quelle che noi, paventando, avevamo dato già da qualche mese. Abolizione del Consiglio Superiore elettivo, intensificazione del sistema della carriera e dei gradi, concorsi anticipati, scrutinii anticipati, niente specializzazione dei magistrati per l’adattamento alla varietà delle funzioni, niente garanzia d’inamovibilità del pubblico Ministero. E un complesso di provvedimenti e di omissioni che rattristerà certamente la magistratura, ma che bisogna in questo momento, per disciplina, accettare con rassegnata costernazione, forti del convincimento e della fiducia che una revisione fondamentale non potrà, fra breve, mancare, giacché l’applicazione di questa riforma dimostrerà assai presto, e meglio forse che le nostre preventive osservazioni non abbiano potuto fare, il turbamento e il danno che essa è destinata a produrre nell’amministrazione della giustizia[28]“.
Ma la disillusione sarà ancora più evidente nel 1924, con le elezioni svoltesi sulla base della Legge Acerbo[29], i drammatici fatti del caso Matteotti ed altri crimini del regime.
3.3. 1924: il clima di violenza delle elezioni e la reazione all’omicidio Matteotti
La riforma della giustizia[30] ed il clima elettorale precedente alle elezioni del 1924 non giovarono ai rapporti tra l’associazione e il Ministero della giustizia[31], particolarmente tesi anche alla luce di attacchi rivolti dallo stesso ministro all’associazionismo giudiziario:
“Rampogne
Non avremmo più ragione di vivere se lasciassimo senza una doverosa parola di risposta la rampogna del Guardasigilli alla magistratura associata. Parlando del Consiglio Superiore elettivo da lui abolito, il Ministro ha detto nel suo discorso di Bologna: «Il sistema di recentissima istituzione, in una conseguenza di quelle tendenze che avevano purtroppo inquinato, fortunatamente in minima e trascurabile parte, anche l’ordine giudiziario, nel periodo turbinoso nel quale parve che l’autorità dello Stato dovesse scomparire. Le tendenze sindacaliste per quanto timidamente affermate, nell’ultimo congresso della magistratura associata, ne avevano dato il sicuro indizio»[32].
L’ostilità verso l’Associazione pare apprezzabile anche nella vicenda dell’abbandono della sede della stessa:
“Cambiamo casa...
A richiesta del Ministro Guardasigilli, on. Oviglio, la Commissione per la manutenzione del Palazzo di Giustizia, presieduta dal Comm. Nonis, con lettera del 19 novembre 1923, invitava il cessato Consiglio Centrale a lasciare i locali occupati dalla nostra Associazione, entro il 31 gennaio successivo, per adibirli ad altro uso. Il nuovo Consiglio Centrale, nell’assumere le sue funzioni alla metà di gennaio, si occupò della questione, ottenendo soltanto una proroga fino al 29 febbraio. Cost il primo marzo abbiamo lasciato il Palazzo di Giustizia. Quantunque rimasti senza sede, abbiamo provveduto perché la vita dell’Associazione e del giornale non subissero un solo attimo d’arresto”[33].
Va anche ricordato che la diffidenza verso la magistratura associata era diffusa all’epoca anche in soggetti meno vicini al fascismo, inclusi giuristi di riconosciuta reputazione dell’epoca come il Sen. Luigi Lucchini, di cui Matteotti sarà allievo[34]. Proprio ad un attacco del Senatore si riferisce la risposta ironica pubblicata sul numero del 10 maggio 1924 de La Magistratura:
“Decrepitezza.
Il sen. Lucchini scrive verde. La bile, abusando di una vecchiaia inquieta, gli fa vedere nel trasloco dei nostri uffici di amministrazione un principio di morte del nostro sodalizio. Povero vecchio! Anche questa magra soddisfazione gli è negata dopo l’astiosa campagna di 18 anni. Ci onoriamo infatti d’informarla che l’Associazione conta ancora 2000 soci, i quali, insieme ai dirigenti vecchi e nuovi, godono buona salute. Il sen. Lucchini cerchi altri morti da sotterrare; e ad multos annos. Per la professione di necroforo non ci Sono limiti di età”.
Ma l’Associazione non è la sola a risentire del clima di intimidazione e violenza che circondava le elezioni dell’aprile 1924, sebbene essa stessa si adoperi per denunciare alcuni episodi a danno di magistrati:
“Il prestigio della magistratura
Adesso che le discussioni elettorali sono finite, sia consentito a noi qualche rilievo estraneo alle querele di parte, estraneo anche a qualsiasi interesse particolare di categoria o di individui. Molte cose si son scritte sulla sorte toccata a questo o quel magistrato nel corso delle operazioni elettorali; com’e nostra abitudine, però, trascuriamo le cose vaghe e ci fermiamo ad un caso ben accertato, che dovrebbe dar molto a pensare a quanti son premurosi di tener salde nella coscienza pubblica la fede ed il rispetto per l’amministrazione della giustizia. Il fatto è di pubblica ragione. Il pretore De Martino Carlo, decorato di guerra, fu destinato presiedere il seggio elettorale di Mugnano di Napoli; ma, messo nella impossibilità, di far rispettare la legge e minacciato di violenze, fu costretto ad abbandonare la presidenza del seggio ed a chiedere alle autorità competenti le forze necessarie per la tutela della legge, della libertà dei cittadini e del proprio prestigio personale. (…) Le violenze cui è stato fatto segno un giudice geloso della propria indipendenza e del proprio dovere costituiscono, di per sé, un fatto dolorosissimo, per il quale la nostra protesta ed il nostro rammarico non saprebbero esser troppo forti. L’ordine giudiziario si sente colpito nella sua fierezza e nella sua dignità ed augura al paese che simili episodi siano cancellati per sempre dalle cronache nostre”[35].
Più che per l’episodio riportato, l’Associazione si mostra preoccupata per il “sistema” che vi sta a monte:
“Tuttavia, non è delle violenze che vogliamo qui particolarmente occuparci. Gli episodi son episodi; ma i sistemi che essi rivelano sono più d’ogni cosa preoccupanti e meritano una di commento. Nella vita di un paese possono avverarsi transitoriamente circostanze eccezionali che, per deficienza di forze armate ad esempio, non rendono possibile garantire in maniera assoluta l’applicazione della legge in qualsiasi eventualità. Il calcolo di probabilità avverte in tali casi che infrazioni irreprimibili alla legge avverranno in proporzioni più o meno ristrette e dovrebbe consigliare, per conseguenza, alla saggezza delle autorità di far sì che l’inevitabile offesa alla giustizia porti seco il minor numero possibile di inconvenienti e soprattutto che non si ripercuota in maniera duratura sulla educazione morale e civile dei cittadini. (…) La magistratura avrà perduto tre quarti della sua influenza sullo spirito pubblico il giorno che i cittadini si saranno abituati ad avere il giudice testimonio impotente dei loro delitti”[36].
Ma, anche in questi giorni difficili, resta ferma nelle pagine della Rivista la visione che dovrebbe assumere la magistratura nella vita del Paese:
“Per tutti i popoli la difesa della Patria è sacra; e tuttavia quante volte nella storia le istituzioni militari, or qua or là, sono precipitate nella più ignominiosa decadenza! Così è pure per la giustizia. La sua amministrazione risponde alla prima esigenza di una società civile: ma la magistratura grandeggia o decade a misura che sprona o uccide la fede nell’opera propria. Un popolo che non crede nell’indipendenza dei suoi giudici, nella loro moralità e nella loro scienza, non può più credere nella giustizia e ricorre ad altri presidi per la difesa della sua libertà e dei suoi beni”[37].
Una rivendicazione dell’indipendenza del giudiziario che – quasi naturalmente – non può trovare il favore del regime:
“Magistratura e paese
(…) è inutile sperare l’indipendenza della magistratura e della giustizia dalla azione illuminata dei governi. Quanto più si consolida e si allarga la sfera dell’indipendenza giudiziaria, tanto più si restringe quella dell’arbitrio governativo. Tra le due non c’è solidarietà, ma netta opposizione d’interessi: se l’una si muove in un senso, l’altra si muove nel senso contrario; l’una limita gravemente l’altra. Or sarebbe troppo ottimistico e fare credito illimitato all’eroismo politico, credere a governi che aspirino con tutte le forze dell’anima loro ad autolimitarsi e ad elevare barriere alla pienezza della propria potenza sulla vita dei cittadini e del paese. Logicamente, lo sforzo verso una reale autonomia della magistratura non potrà incontrare nei governi che ostilità profonde anche se paludate con le più alte considerazioni giuridiche e sociali”[38].
Di qui una riflessione anche sul ruolo e la missione dell’Associazione, proposta (forse non a caso) nel primo numero della Rivista uscito dopo il rapimento dell’On. Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924:
“La conclusione è una sola; che per compiere azione efficace, bisogna portare il problema giudiziario dinanzi allo spirito pubblico, con tanta maggiore insistenza, quanto più pungente si fa sentire il bisogno che, fra i contrasti, qualcosa resti veramente fermo, al di sopra della mischia, a garanzia granitica della legge, della certezza del diritto, dell’uguaglianza fra i cittadini; quanto dire a garanzia delle premesse d’ogni vita civile. L’Associazione dei magistrati ha questa grande missione. Uscire dall’ombra discreta d’organismo di categoria e dal campo chiuso di una lotta d’interessi particolari, per farsı rappresentante, innanzi all’Italia, di uno sforzo che investe dalle radici la vita stessa dello Stato ed il suo ordinamento costituzionale, è il suo grande compito in questo profondo rinnovarsi della vita italiana attraverso le più varie esperienze, in questo ingrandirsi di tutte le aspirazioni”[39]. (…) Sta all’Associazione spronare e maturare nello spirito pubblico questa esigenza che già da sé per virtù di eventi, ha fatto tanta strada. Se poi essa, debole nella fede, crederà pessimisticamente rinchiudersi nella polemichetta come ministeri e nel piagnucolio dei pezzenti peggio per lei costruirà sulla sabbia e non otterrà né benefizi economici né morali”[40].
Il clima di sistematica intimidazione e violenza raggiunge l’apice proprio con lo scoppiare del caso Matteotti, che viene commentato esplicitamente sulle colonne della Rivista pochi giorni prima della Secessione dell’Aventino:
“Oltre l’indignazione
Nell’impeto di una santa indignazione, da molti giornali è salita in questi giorni verso la magistratura un’onda di proteste e di ammonimenti. Ci vuole, in Italia, lo shoc del delitto più turpe per richiamare l’opinione pubblica e la stampa sulle cose della giustizia; ci vuole il sussulto di sentimenti elementari d’umanità per far sentire quell’inadeguatezza dei congegni giudiziari che la tortura quotidiana di chi amministra giustizia, e che invece, in una arroventata atmosfera di risentimenti e di passioni, diviene senz’altro motivo d’esecuzione sommaria della magistratura. Gli italiani non vorranno attribuire una inesistente freddezza di sentimento, se li invitiamo ad una più serena valutazione delle cose. A nulla gioverebbe il dolore esasperato che avvince oggi, se non sapessimo trarne utili ammaestramenti per l’avvenire. Chi da molti e molti anni vien esponendo invano alla stampa ed agli organi politici italiani le strettole in cui si dibatte l’amministrazione della giustizia, avrebbe oggi ragione di negare ogni diritto ad indignate proteste. Non è con i piagnistei delle grandi giornate di lutto che si cambia qualcosa, non è lanciando accuse e sospetti, che si risolve o si avvia a soluzione un problema complesso e oramai stravecchio come quello della giustizia. (…) Ebbene tutto ciò non è serio. Se una voce in Italia ha invocato con tutta l’anima sua un rinnovamento ab imis fundamentis della vita giudiziaria, essa è venuta solo o quasi dalla magistratura. Nessuno ha dunque diritto oggi di farsi accusatore”[41].
Il pezzo si riferisce alle accuse mosse alle autorità investigative e alla magistratura nelle prime fasi di ricerca degli esecutori materiali del delitto ma rappresenta l’occasione per ribadire le critiche alla scarsa indipendenza del pubblico ministero:
“Si grida oggi, con accento di scandalo, alla lentezza d’iniziativa del Pubblico Ministero ed alla manchevolezza dei suoi rapporti con la polizia giudiziaria. Ma perché si grida? Perché se ne fa colpa alla magistratura? Bisogna chiederne conto al nostro ordinamento giudiziario, la cui inadeguatezza ha formato oggetto di accorato quanto sterile esame su queste colonne, nei nostri memoriali e nei nostri congressi con una monotonia ossessionante. Il Pubblico Ministero – abbiamo sempre detto - dovrebbe essere il propulsore libero e imparziale della azione penale ed avere totalmente alle sue dipendenze, per i fini esclusivi della giustizia, la polizia giudiziaria. Ed invece ci si aggira in un equivoco dei più dannosi. Il Pubblico Ministero, nelle nostre leggi, non è un organo giudiziario puro, né un organo proprio del potere esecutivo e la polizia giudiziaria sfugge quasi completamente al controllo della magistratura”[42].
Lo sgomento per i fatti di cronaca è apprezzabile nelle lettere indirizzate alla redazione dai soci, come in una lettera di un magistrato piemontese che evidenzia le ambiguità del regime:
“L’ora della giustizia
La lettera che segue esprime uno tato d’animo così diffuso tra i magistrati, che crediamo di non aderire al desiderio del collega di astenerci dalla pubblicazione: «On.le Direz. de la “Magistratura” Sono sicuro che cotesta Direzione avrà già colto l’occasione di quanto in questi giorni sta accadendo e di quanto i giornali vanno scrivendo a favore della Giustizia per farne oggetto di un qualche articolo di attualità. Ma poiché essa raccomanda sempre ai soci l’affiatamento attivo col giornale, io mi faccio un dovere di rispondere, nel mio piccolo, all’invito, con questa lettera di suggerimenti (…) Venendo a noi: II «Giornale d’Italia del 14-15 corrente, uscito in edizione straordinaria, in un articolo sul «Compito della Magistratura» ha chiamato questa uno degli istituti fondamentali dello Stato e ne ha detto, giustamente, gran bene. Il Popolo d’Italia e l’Idea Nazionale di lunedì 16 corr., in edizione straordinaria, in un articolo “Alto là, signori!” che si attribuisce allo stesso Mussolini, ha chiamato “sovrana e indipendente la Magistratura”. Viceversa che cosa succede? Che proprio sotto questo Regime il nostro giornale ha dovuto sopprimere il motto del frontespizio «Il potere giudiziario è in Italia una metafora: ma l’indipendenza della magistratura deve essere una realtà ». Proprio sotto l’attuale Proprio sotto l’attuale Guardasigilli, anziché concedersi la più volte reclamata inamovibilità dei funzionari del P. M., si è invece sancita la possibilità di collocare a disposizione, come un prefetto o un questore qualsiasi, i Procuratori Generali, e la amovibilità dei giudici inamovibili «ad libitum» del Ministero, colla formula «per gravi e imprescindibili esigenze di servizio ». Aggiungasi a ciò che, a quanto pare, vi sono anche magistrati tesserati in partiti politici e poi vedasi come sia salvaguardata l’indipendenza nostra. (…) È così che la Stampa del 19 corrente, nel suo articolo di fondo, con un certo fondamento di vero scrivere quanto segue “è stato affermato che tutto quanto concerne il delitto Matteotti sia stato affidato all’autorità giudiziaria. Questo va benissimo in linea teorica: occorre però che ha la decisione di principio corrispondono i fatti... Osserviamo ad ogni modo due cose: che l’autorità giudiziaria per sua natura non è organo di esecuzione è volontà e non braccio; e pertanto le sue disposizioni intanto possono essere attuate in quanto le autorità del potere esecutivo sappiano e vogliano far tutto il loro dovere: e che la stessa autorità giudiziaria non può riacquistare d’un colpo l’autonomia e la forza sminuita da anni”[43].
La sottolineatura del momento infausto per la giustizia e la magistratura italiana proviene anche da un episodio simbolico: la caduta del braccio destro di una statua della Giustizia posta sopra l’ingresso monumentale del Palazzo di Giustizia di Roma, alla quale nessuno sembra voler porre rimedio[44].
Il caso Matteotti, la risposta agli attacchi rivolti al giudiziario e le accuse (neppure troppo velate) all’instaurando regime ritornano anche nei numeri seguenti sulle colonne de La Magistratura. Ciò si apprezza particolarmente nelle lettere rivolte dai soci all’Associazione:
“Dopo il caso Matteotti e gli altri..
Agli onorevoli di ogni settore, alla stampa di ogni colore. Tutte le volte che qualche terribile tragedia insanguina il Paese, l’anima del popolo, istintivamente, si leva a gridare il suo monito solenne, e il cuore di ogni galantuomo ama volgersi fidente a un povero altare, ove una Dea regge in una mano una bilancia, e mostra dall’altra, invece di una spada fiammante... un moncherino! E in nome di questa Dea, che Voi, Onorevoli Signori, andate da tempo combattendo una ben aspra battaglia; son di tutti i giorni le proteste, le accuse, le requisitorie pungenti contro le innumerevoli violenze impunite, contro le infamie di gente che dite prezzolata e miserabile, e nel furore della vostra battaglia non risparmiate neanche gli assenti, i vostri Giudici, questo pugno di galantuomini, che, soli, dinanzi a Dio e alla loro coscienza, sono ad ogni ora ridotti al disgustoso spettacolo di questa immensa miseria morale che li circonda. Noi, che non siamo uomini di parte, devoti al nostro dovere e abituati al più severo controllo di noi stessi, non dobbiamo seguirvi né entrare in lizza nella aspra polemica, ma guardando un poco al passato ed al presente, ricordiamo e constatiamo, e constatando osiamo porvi ancora una volta qualche domanda. Constatiamo che ormai un’atmosfera di diffidenza e di sospetto pervade tutto e tutti come se una farsa immonda si vada recitando, mentre sono in gioco terribili responsabilità di ordine morale, giuridico e politico, come se la commedia più ributtante si sia da tempo recitata in nome della Patria. Per esser più precisi notiamo che più specialmente, dopo l’ultimo spaventoso misfatto [l’omicidio Matteotti N.d.R.], anche la stampa cosiddetta imparziale, lancia accuse di mostruosi salvataggi, di vergognosi favoreggiamenti, di indegne corruzioni, di miserabili adattamenti. Con questo crescendo impressionante la Pubblica Sicurezza sarebbe diventata (orribile a dirsi)la complice diretta di un assassinio nefando e per desiderio di cercare i ripari, avrebbe dapprima taciuto e poi proceduto agli atti più importanti della istruttoria senza la presenza del Giudice (…)”.
Le indagini vengono affidate, a seguito della richiesta di avocazione del procuratore generale Vincenzo Crisafulli, a Umberto Guglielmo Tancredi[45] e Mauro Del Giudice[46]. Quest’ultimo, peraltro, aveva già avuto modo di collaborare in passato con la Rivista “La Magistratura”. I due assunsero, però, l’incarico in un difficile clima di pressioni e controlli da parte di un ufficio già parzialmente simpatizzante per il fascismo[47].
Il Paese, dopo una prima fase di perplessità (anche alimentata dalle polemiche governative), pare mostrare fiducia e attenzione per il lavoro della magistratura nelle settimane successive al delitto, almeno fino al ritrovamento del corpo dell’On. Matteotti il 16 agosto 1924:
“Rinnovamento
Dopo le prime e parziali perplessità sulla condotta della magistratura all’indomani del più ignominioso delitto politico, autorità politiche, parlamentari illustri e giornali gareggiano da qualche giorno in testimonianze di fiducia illimitata verso l’opera della giustizia e si lasciano andare a significative dichiarazioni di principio sulla necessità di restaurare nelle coscienze, negli ordinamenti e nelle consuetudini politiche il potere giudiziario. Riappare nel linguaggio politico, piena di senso, questa formula tradizionale e statutaria, che ormai suonava vuota e retorica anche alle orecchie degli ottimisti impenitenti; riappare in una delle ore più difficili della vita nazionale, non come illusoria metafora, ma come il segno ultimo di speranze e di ansie profonde, come l’invocata suprema garanzia del vivere civile e della pace sociale. In questo immane fermento di passioni, di rancori, di dolore esasperato e d’insofferenza, è l’istinto stesso della conservazione che ispira la fede nella giustizia, sola ancora di salvezza. Istinto che ci auguriamo operoso e creativo oltre l’avvenimento e l’indignazione dell’ora, e che si placherà solo innanzi ad una restaurazione completa della vita giudiziaria, se non è ingannevole proiezione di un attimo pieno di disagi, destinata con questo a svanire nel nulla. (…) Noi ci proponiamo di rimanere a guardia di quest’ansia che si protende oggi verso la giustizia. La magistratura non deve dimenticare, gli italiani non devono dimenticare, gli ammaestramenti di quest’ora non devono andare smarriti. Una giustizia più indipendente e intangibile non si forgia in un’ora sull’incudine delle sacre indignazioni e delle proteste patriottiche, ma bisogna volerla con serietà tutti i giorni, dai più banali ai più solenni, per tutti i cittadini e per tutti i luoghi; bisogna crearla negli istituti giuridici, nell’ordinamento giudiziario, nelle consuetudini quotidiane con la magistratura, nel taglio di quel cordone ombelicale che – attraverso i sistemi delle promozioni, delle onorificenze, degli incarichi speciali, attraverso la piaga del carrierismo [ in corsivo nel testo, N.d.R.] e dell’arrivismo [ in corsivo nel testo, N.d.R.] – grande possibile i legami della magistratura con la politica”[48].
L’occasione è anche buona per ribadire l’ennesimo appello per una maggiore indipendenza del giudiziario, frustrata dalla riforma Oviglio e dal passo indietro sull’elezione del Consiglio superiore:
“Potere giudiziario, si grida oggi a perdifiato. Ebbene, questa cesserà di essere una frase solo il giorno in cui la designazione del Consiglio Superiore della magistratura e la scelta dei capi saranno attribuiti alla stessa magistratura; il giorno in cui i funzionari del P. M., la polizia giudiziaria, e l’assegnazione delle residenze saranno disciplinati con rigorose norme obbiettive e sottratti alle mutevoli vicende della politica. Gli ordinamenti odierni non sono fatti per facilitare ai magistrati l’adempimento dei loro doveri. I vecchi ed i nuovi amici della giustizia se lo ricordino dunque: noi non lasceremo cadere nell’oblio le loro parole. Ciò detto, peraltro, ci riesce impossibile sottrarci alla commozione che questo appello ansioso degli italiani alla magistratura desta nell’animo nostro. Non è per noi ragione di sorpresa la fiducia del popolo nell’opera dei suoi giudici” (…) Dalle forze sane del paese sorgerà il rinnovamento della vita giudiziaria[49]“.
Nei primi numeri dopo la scoperta del cadavere dell’On. Matteotti, le pagine de La Magistratura ospitano un accorato appello a tutti i magistrati:
“L’ora del potere giudiziario
(…) E questa l’ora del Potere Giudiziario: ciascun magistrato faccia il suo esame di coscienza. Sarebbe illusorio attendersi la restaurazione del potere giudiziario con una magistratura inerte ed apatica. L’Associazione dei magistrati non ha personalismi, interessi egoistici, vanità e ripicche da far trionfare, essa è una delle forze più vigorose della restaurazione del potere giudiziario e per questa grande opera fa appello a quanti nell’ordine giudiziario sono accessibili all’ispirazione di una vera fede e sono capaci di lottare per qualcosa che vince ogni interesse di uomini e di categoria”[50].
La conflittualità con i vertici del regime, ancora indebolito politicamente dopo la vicenda Matteotti, e l’intransigenza nel voler piegare tutti i corpi intermedi e l’associazionismo giudiziario non sarà interrotta neppure da questa ondata di fiducia dell’opinione pubblica nell’operato della magistratura. In questo estratto, l’Associazione replica direttamente alle accuse di “sindacalismo” ad essa rivolte da Mussolini in persona:
“Amnesie
(…) Molte cose, del resto, ha avuto modo di dimenticare l’on, Mussolini tra il 19 ed il 25. Ben amare infatti sarebbero le conclusioni che dovrebbe fare la magistratura se volesse valutare l’opera dell’attuale Guardasigilli alla stregua delle idee esposte nel 1919 dal presidente del Consiglio nell’articolo su citato. Ci limiteremo a notare che mai come imperante Oviglio la Magistratura non è stata consultata per la Riforma Giudiziaria ». Potremmo commentare con le parole dell’On. Mussolini: «Sembra uno scherzo di cattivo genere ed è la verità»[51],
Altre accuse e attacchi arrivano nelle settimane seguenti da ulteriori esponenti fascisti, anche di primo piano, come Italo Balbo:
“Accuse
Una paurosa ondata di discredito assale da ogni parte la magistratura. Sarebbe idiota mostrare di non accorgercene. Ecco in poco più di una settimana : «...e sarà bene che il prefetto faccia capire al procuratore del Re, che per eventuali bastonature (che dovranno essere di stile) non si desiderano imbastiture di processi... Se scrivo da Roma è segno che so quello che dico» (Italo Balbo, generalissimo della Milizia: nella lettera al suo fiduciario Beltrani). «La legge non esiste più, la magistratura non reagisce più – è tempo che lo diciamo apertamente, pur riconoscendo le particolari benemerenze di quei pochi magistrati, ai quali domani la patria sarà grata – l’autorità pubblica non esiste più se non a vantaggio delle fazioni dominanti... ». (On, Facchinetti: nell’Assemblea delle opposizioni a Milano). «Per quanto riguarda la giustizia purtroppo non possiamo dire che lo Stato in questi due anni abbia sempre assunto la figura dell’ente superiore a tutti i partiti e giusto verso tutti i cittadini » (Sen. Conti: nella discussione al Senato sulla politica interna). «Come cittadino, come senatore io elevo la più alta protesta contro tanta offesa recata al diritto del Popolo italiano di non riconoscere se non le leggi approvate dal Parlamento, diritto di cui poco a poco, per adattamenti progressivi, esso è stato privato dalla sopraffazione del potere esecutivo e dalla compiacenza delle due Camere come della Magistratura» (Sen. Albertini id, id)”[52].
La ferma risposta dell’Associazione agli attacchi a mezzo stampa si trasforma in denuncia sempre più chiara del clima di violenza a danno dei magistrati, nonostante la consueta misura che accompagna i toni della Rivista e la sua attenzione a mantenere, per quanto possibile, il carattere di apoliticità tanto caro all’AGMI. Lo si apprezza in particolare in questo frammento, riferito alla svolta illiberale impressa dalla nuova legge sulla stampa:
“La nuova legge sulla stampa
L’indole di questo giornale c’interdice qualsiasi commento politico al nuovo progetto di legge sulla stampa. Ma poiché con esso sono create nuove forme di reato e si addossa ad un ramo della magistratura la non invidiabile facoltà del sequestro dei giornali, non possiamo esimerci dal notare, sotto l’aspetto tecnico-giuridico, la pericolosa evanescenza di alcune ipotesi delittuose che, faranno fremere nei loro sepolcri le ossa di Francesco Carrara e di Enrico Pessina. Intendiamo alludere ai reati consistenti nella pubblicazione di notizie allarmanti relative alla politica interna ed alla politica estera del governo. L’essenza e la severità delle sanzioni punitive ora escogitate contrastano con la più pura e gloriosa tradizione della scuola giuridica italiana e ricordano troppo da vicino il decreto 23 maggio 1915 sulla stampa e quello Sacchi del 4 ottobre 1917 sul disfattismo. Si era però allora in tempo di guerra e non si poteva badare tanto pel sottile alle esigenze normali del diritto. Ma ora dovremmo essere in un periodo di pace, nel quale gioverebbe non violentare, né corrompere quella comune coscienza giuridica che è la migliore difesa dello Stato costituzionale. Per ciò che ha riguardo poi all’incarico attribuito dal progetto ai magistrati del pubblico ministero, dobbiamo fare le più ampie riserve, e ne spieghiamo subito le ragioni. Non ignoriamo certamente che l’ordine di sequestro è una funzione di polizia giudiziaria, la quale, anche prima della legge Sonnino che aboliva il sequestro preventivo dei giornali, era affidata all’iniziativa del pubblico ministero. Ma quelli erano altri tempi. Prima di tutto i casi di sequestro non erano, nella legislazione dell’epoca, così frequenti ed elastici come quelli creati ora. La sensibilità della coscienza pubblica, inoltre, non era così esasperata come ora, e, ciò nonostante, le critiche al funzionamento del l’istituto furono tante che ne consigliarono l’abolizione. E, finalmente, allora si aveva un maggiore rispetto per la funzione giudiziaria, anche dei magistrati del pubblico ministero. Questi erano, per principio, amovibili, ma di fatto nessuno osava toccarli; ed il tramutamento, nonché di un procuratore generale, ma di un procuratore del Re, o di un semplice sostituto, eseguito per ragioni politiche, avrebbe costituito tale uno scandalo da mettere in pericolo il portafoglio di quel guardasigilli che avesse osato disporlo. In seguito i sistemi sono andati rapidamente mutando e degenerando. I magistrati del pubblico ministero, e, sotto parecchi aspetti, anche gli altri, senza che nessuno mostri comprendere a fondo la gravità del fatto, sono abbandonati alla completa mercé del potere esecutivo”[53].
V’è spazio anche per un richiamo all’onore della magistratura – che pare quasi rivolto ai posteri e al giudizio della storia più che ai contemporanei – e per un monito riguardo al peso della condotta di quei magistrati asserviti al compromesso col regime. Di contro, l’Associazione, per la sua “fierezza” nella difesa dell’indipendenza della magistratura, sa già di essere destinata a “prove dolorose”:
“Purtroppo, la cronaca dei giornali suona più grave dei discorsi politici: vi sono dei pretori bastonati, dei giudici blanditi e dei giudici minacciati o assassinati nell’onore, dei magistrati che han chiesto il trasloco d’urgenza, qualche magistrato che ha indossato la camicia nera, qui si agita un caso Occhiuto, là un caso Tramonte, qua e là, a mesi e mesi di distanza, si riesumano dagli archivi polverosi processi che parevano esauriti. I casi si succedono; ma la risultante, nel giudizio del pubblico, pesa infinitamente più della loro addizione. È una progressione geometrica crescente, nella quale ogni termine si potenzia di tutti gli altri messi insieme. Dall’episodio alla regola, dal singolo alla classe, nelle valutazioni collettive, il passo è breve. Quanti italiani si rassegneranno a pensare che una volta sola il generalissimo Balbo abbia usato del privilegio feudale di inviare ordini anche per un procuratore del re e che un Balbo solo ne fosse investito in tutta Italia? Vi sono magistrati che hanno piegato la loro coscienza al compromesso? Se vi sono, certo quei pochissimi le finiranno col pesare terribilmente sul nostro onore! E il loro peso purtroppo non potrebbe essere alleviato da nessuna protesta, neanche se essa potesse vantare a testimonianza della sua sincerità, come nel caso della nostra associazione, un passato di indiscutibile fierezza e pertanto di prove dolorose”[54].
Un esempio della compromissione di parte della magistratura col fascismo si riporta in La Magistratura, 27 dicembre 1924 nell’articolo “La toga e le armi”. Viene in tale sede riportata la segnalazione di un magistrato relativa a un suo collega che accompagnava Farinacci nella propaganda fascista nel mantovano, vestito in abiti cerimoniali fascisti; ma vengono anche segnalati altri magistrati che “vestono nella solennità da fascisti e fanno parti di coorti”. Il frammento è anche d’interesse per la (sempre attuale) riflessione su imparzialità e apparenza di imparzialità della magistratura:
“C’è l’inconveniente che i cittadini del mantovano si sentiranno balzare il cuore di gioia o di timore a vedere i loro giudici in certe compagnie o in divisa di decurione, a seconda che questi cittadini siano o non siano in teneri rapporti con quel determinato partito e coi suoi esponenti. C’è il pericolo di poter scambiare un ordine di partito con... un articolo di codice o almeno di correr rischio che il grosso pubblico lo creda. Ci sono questi ed altri inconvenienti, ma, in fondo in fondo, sono bazzecole, che fanno impressione agli spiriti deboli e alle anime romantiche. E si sa, al giorno d’oggi, la vita è di chi non sogna ma agisce, di chi fortifica il suo spirito in durezza di macigno. Però... però, vedano questi nostri colleghi in divisa d’un partito di convincere alle loro idee il Ministro della Giustizia, il quale ha proclamato che i magistrati devono essere lasciati sereni all’esercizio del loro ministero. E questo privilegio non può per sé richiedere il giudice che si fa parte in contese di partito”[55].
La mancanza di unità all’interno della stessa magistratura riaffiora anche in altri numeri con riguardo alle critiche rivolte da alcuni “capi” (degli uffici giudiziari) all’Associazione.
Si conclude questa breve rassegna riportando la risposta pubblicata nel numero 40 del 15 novembre 1924 de La Magistratura, ove la Redazione si rivolge direttamente alla magistratura e a noi lettori degli anni Duemila, nella speranza che le molte rivendicazioni di una maggiore indipendenza possano in quel tempo esser state attuate:
“Un nostro socio scrive: Si può sapere perché alcuni capi hanno da qualche tempo un atteggiamento di aperta o velata ostilità verso la nostra associazione? E un fallo, che va studiato e ricordato... » Ecco un perché non difficile a capire ma difficilissimo a spiegare. E del resto il nostro socio – dica la verità –non ha proprio bisogno dei nostri lumi. Chi ha seguito le vicende dell’associazione sa che la cosa non è nuova: una parte della magistratura e dei capi è stata sempre con noi di umore molto variabile, trattandoci un giorno da reprobi ed un altro da apostoli, dichiarandoci la pace al mattino e la guerra al tramontar del sole. (…) Il nostro socio chiuda per un momento gli occhi e faccia un sogno romanzesco. Si porti al mondo dell’anno Duemila, un mondo dove il magistrato non ha più nulla in comune col funzionario, ed il Ministero della giustizia non ha più ordini da impartire a capi di corte, a Consigli Superiori, a rappresentanti del P.M.; un mondo, in cui il giudice rappresenta il cardine vero e la garanzia dell’eguaglianza civile di fronte a tutti i cittadini, e nella sua vita nella sua carriera e, quel che più monta, nei suoi orbiti psicologici è immune da ogni preoccupazione e timore, nulla temendo o sperando dall’avvicendarsi dei ministri, dalla loro collera come dal loro favore; un mondo giudiziario, insomma, senza febbre di carrierismo, senza concorsi straordinari a getto continuo, senza incarichi speciali, senza arrembaggio di onori e di prebende, senza gabinettismo...Sogni, il nostro amico, per una buona mezz’ora e veda se in un tal ambiente d’indipendenza giuridica e morale, di fierezza, e di tranquillità intima gli riuscirà d’inserire idealmente i casi di cui si lamenta. Crediamo che no, ed allora bisogna concludere che l’umore variabile verso l’opera nostra sia parte di quell’ingranaggio di mali che pesa sulla vita giudiziaria italiana ed è una fra le tante manifestazioni di quella suggestione profonda che dagli ambienti della politica giudiziaria s’irradia sugli ambienti della giustizia[56]“.
* L’autore ringrazia per i suggerimenti ricevuti nelle fasi iniziali di stesura di questo contributo. Un ringraziamento particolare va anche alla Biblioteca del Consiglio superiore della magistratura e al personale bibliotecario per la gentile disponibilità offerta per la consultazione dei numeri storici della Rivista “La Magistratura”.
[1] A. MENICONI, La storia dell’associazionismo giudiziario: alcune notazioni, in Questione giustizia, 4, 2015.
[2] Cfr. A. FUNICIELLO, La vita (e non la morte) di Matteotti, Rizzoli, Milano, 2024.
[3] In tale occasione, oltre cento magistrati del distretto di Corte d’Appello di Trani firmarono un documento rivolto al governo per sollecitare una riforma dell’ordinamento giudiziario, dando vita a un movimento che non smise di crescere.
[4] Cfr. https://www.associazionemagistrati.it/print/32/storia.htm
[5] G. SCARSELLI, La Magistratura al tempo di Giacomo Matteotti, in Giustizia insieme, 23 marzo 2024. L’estratto è tratto da La Magistratura, 15 gennaio 1926.
[6] Vale la pena riportare per estratto il testo del Regio decreto perché indicativo del clima e delle ragioni di risentimento del regime. Verbatim: “Per grazia di dio e per volontà della nazione, Ritenuto che il Consigliere della Corte di Cassazione, Saverio Brigante, il Sostituto Procuratore Generale di Corte di Appello Roberto Cirillo, i giudici Occhiuto Filippo Alfredo e Chieppa Vincenzo ed il Sostituto Procuratore del Re Macaluso Giovanni sono stati i principali e più attivi dirigenti dell’Associazione Generale tra I Magistrati Italiani; Ritenuto che ad opera di essi l’Associazione assunse un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura” dai medesimi redatto e pubblicato; Ritenuto che tale indirizzo sostanzialmente venne mantenuto anche dopo l’avvento del Governo Nazionale, che essi avversarono criticandone astiosamente gli atti, nonché facendo insinuazioni ed affermazioni di pretese ingiustizie e persecuzioni personali tanto da incorrere in reiterate diffide ufficiali; Ritenuto che solo per normale ossequio alla Legge sui sindacati essi deliberarono lo scioglimento dell’Associazione, la soppressione del periodico e la liquidazione della Cooperativa (a suo tempo creata per fornire stabile sede all’Associazione), ma in sostanza mantennero saldi i vincoli associativi mediante atti simulati continuando, tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto, che si ostinò nell’avversione al Governo sino ad incorrere nel novembre scorso, dopo reiterate diffide, nella soppressione ordinata dall’autorità politica; Ritenuto che per le manifestazioni compiute i magistrati suddetti non offrono garanzie di un fedele adempimento nei loro doveri di ufficio e si sono posti in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo; Viste le giustificazioni presentate dagli interessati; Visto l’art. I° della legge 24 dicembre 1925 n. 2300; Sentito il Consiglio dei Ministri; Sulla proposta del Nostro Guardasigilli Ministro Segretario di Stato per la Giustizia e gli Affari di Culto; Abbiamo decretato e decretiamo Chieppa Vincenzo – giudice – ed altri sono dispensati dal servizio, a decorrere dal 31 dicembre 1926, ai sensi dell’art. I° della Legge 24 dicembre 1925 n. 2300”.
[7] A. MENICONI, cit., passim. Sull’importanza della figura di Vincenzo Chieppa (e del figlio Riccardo) per la storia recente della magistratura si veda V.M. CAFERRA, Riccardo e Vincenzo Chieppa nella tradizione della magistratura italiana, in Rivista di diritto privato, 2, 2012, 275 ss.
[8] In argomento, cfr. anche G. SANTALUCIA, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, in Giustizia insieme, 10 ottobre 2020.
[9] Cfr. AA. VV., Storia della Magistratura, Roma, 2022, reperibile all’indirizzo https://www.scuolamagistratura.it/documents/20126/1750902/ssm_q6_v1.pdf.
[10] La Magistratura, 28 giugno 1922.
[11] La Magistratura, 28 giugno 1922
[12] Sulle riforme del periodo e sul superamento della c.d. Riforma Rodinò, si veda G. SCARPARI, Il giudice del Novecento: da funzionario a magistrato, in Questione Giustizia.
[13] Si veda in particolare il seguente passaggio tratto da La Magistratura, 2 novembre 1922: “L’assoluto carattere di apoliticità della nostra Associazione e di questo Periodico c’impone l’astensione da qualunque commento intorno alle circostanze che hanno determinato l’avvento del nuovo ministero”.
[14] La Magistratura, 22 novembre 1922.
[15] La Magistratura, 29 novembre 1922.
[16] La Magistratura, 29 novembre 1922.
[17] La Magistratura, 6 dicembre 1922.
[18] Si veda in particolare La Magistratura.
[19] La Magistratura, 17 gennaio 1923.
[20] La Magistratura, 25 gennaio 1923.
[21] Regio Decreto n. 1978 del 1921.
[22] La Magistratura, 15 febbraio 1923.
[23] La Magistratura, 19 aprile 1923.
[24] Ivi, prima colonna.
[25] Ivi, seconda colonna.
[26] La Magistratura, 19 aprile 1923, seconda colonna.
[27] La Magistratura, 19 aprile 1923, 62, seconda colonna.
[28] La Magistratura, 22 settembre 1923.
[29] L. 18 novembre 1923, n. 2444.
[30] Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 2786 recante il Testo unico delle disposizioni sull’ordinamento degli uffici giudiziari e del personale della magistratura. Tra le altre previsioni, la riforma introdusse
[31] Le ragioni di questo mutato clima sono ben spiegate da G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, Bologna, Il Mulino, 2019, 159 ss., cui si rinvia. Ci si limita qui a citare il seguente passaggio dal volume, ove si afferma che “La magistratura non aveva certo creato difficoltà all’ascesa del fascismo: quando vi fu la marcia su Roma, nelle carceri di molte città che avevano registrato le loro imprese delittuose non un solo fascista era detenuto per scontare una pena. Eppure, la magistratura era comunque un potere diffuso sul territorio e costituiva una variabile che non poteva essere controllata sempre con le minacce o le interferenze politiche; per un partito già animato da uno spirito totalitario era necessario agire in profondità: e questo cominciò a fare Oviglio con la sua riforma dell’ordinamento giudiziario”.
[32] La Magistratura, 3 aprile 1924.
[33] La Magistratura, 25 aprile 1924.
[34] Come ricorda G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, cit., 191.
[35] La Magistratura, 10 maggio 1924.
[36] La Magistratura, 10 maggio 1924.
[37] La Magistratura, 26 maggio 1924.
[38] La Magistratura, 17 giugno 1924.
[39] La Magistratura, 17 giugno 1924.
[40] La Magistratura, 17 giugno 1924.
[41] La Magistratura, 24 giugno 1924.
[42] La Magistratura, 24 giugno 1924.
[43] La Magistratura, 24 giugno 1924.
[44] L’episodio è commentato nell’articolo “La spada della giustizia”, in La Magistratura, 24 giugno 1924, 72.
[45] Il quale verrà poi sostituito da Nicodemo Del Vasto, su provvedimento di Vincenzo Crisafulli.
[46] Sulla figura di Del Giudice e della sua strenua difesa dell’indipendenza si vedano A. APOLLONIO, “Il delitto Matteotti” e quel giudice che voleva essere indipendente, in Giustizia Insieme, 14 febbraio 2019 e G. SCARSELLI, La Magistratura al tempo di Giacomo Matteotti, cit., passim.
[47] G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, Bologna, Il Mulino, 2019 , pp. 194 ss.
[48] La Magistratura, 7 luglio 1924.
[49] La Magistratura, 7 luglio 1924, seconda e terza colonna.
[50] La Magistratura, 16 settembre 1924.
[51] La Magistratura, 15 ottobre 1924.
[52] La Magistratura, 15 dicembre 1924.
[53] La Magistratura, 23 dicembre 1924.
[54] La Magistratura, 15 dicembre 1924.
[55] La Magistratura, 27 dicembre 1924
[56] La Magistratura, 15 novembre 1924.
Il principio di non discriminazione tra i sessi e norme e tutela della maternità e della prole nell’ambito dell’esecuzione penale.
Commento all’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna del 9.4.2024
di Chiara Gallo
Sommario: 1. L’art. 47 quinquies OP e le norme a tutela del rapporto genitori figli. Brevi cenni - 2. La vicenda all’esame del Tribunale di Sorveglianza - 3. Le questioni prospettate e gli argomenti a sostegno - 4. Gli interventi della Corte Costituzionale riguardanti la questione dell’accesso del padre alle forme di detenzione domiciliare con finalità di cura dei figli - 5. Principio di non discriminazione e diritto alla bigenitorialità. Qualche considerazione.
Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 quinquies comma 7 OP (detenzione domiciliare speciale) che prevede la possibilità di accesso alla misura per il padre di figli di età inferiore a 10 anni solo in caso nel caso in cui la madre sia deceduta o impossibilitata e non vi sia modo di affidare la prole ad altri che al padre.
1. L’art. 47 quinquies OP e le norme a tutela del rapporto genitori figli. Brevi cenni.
L’art. 47 quinquies OP, rubricato detenzione domiciliare speciale, disciplina l’accesso ad una forma di detenzione domiciliare per le madri di figli di età inferiore a 10 anni e si inserisce nell’ambito di una serie di modifiche normative volte a garantire la maternità e la cura della prole delle persone detenute.
Introdotta con la legge 40\2001, intitolata Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori (nota come legge Finocchiaro), unitamente ad altre norme tese ad incentivare forme di esecuzione penale esterna nei confronti di detenute incinte e madri di figli in tenera età, ha realizzato l’obiettivo di un rafforzamento della tutela costituzionalmente garantita del diritto alla cura dei figli.
Le originarie disposizioni di cui agli articoli 146 e 147 c.p. che disciplinavano, rispettivamente, il rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena per la donna incinta e con prole di età non superiore a sei mesi e il rinvio facoltativo per la madre di prole di età non superiore ad un anno sono state nel tempo affiancate da norme che hanno ampliato e strutturato tale diritto.
Con la legge 663\1986 (legge Gozzini) veniva introdotta nel sistema penitenziario la detenzione domiciliare umanitaria quale strumento di tutela di beni di rilevanza costituzionale come la salute, la maternità e l’infanzia attraverso le norme di cui all’articolo 47 ter OP che, nell’ipotesi di cui al comma I lett a), consente l’accesso a tale forma di espiazione della pena alla donna incinte o madre di prole di età inferiore a 10 anni con lei convivente (l’età originalmente fissata a tre anni è stata progressivamente innalzata a seguito di successivi interventi legislativi a cinque e infine a dieci anni) nei casi in cui la pena da espiare non sia superiore a quattro anni.
A seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, con la pronuncia 215\1990, che dichiarava l’illegittimità dell’art. 47 ter primo comma lett a) OP nella parte in cui non prevedeva che la detenzione domiciliare, potesse essere concessa nelle stesse condizioni anche al padre detenuto qualora la madre fosse deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, interveniva la legge 165\1998 (legge Simeone) che modificava la norma, introducendo la lettera b) al comma I, consentendo l’accesso alla misura anche al padre di prole inferiore a 10 anni che non abbia perso la responsabilità genitoriale qualora i figli siano con lui conviventi e la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a crescerli.
La legge 40\2001 ha arricchito il quadro degli strumenti diretti a tutelare il rapporto genitori figli, sia modificando le norme sul rinvio dell’esecuzione della pena innalzando i limiti di età della prole - ad un anno per il rinvio obbligatorio e a tre anni per il rinvio facoltativo - sia introducendo nel sistema la norma di cui all’art. 47 quinquies OP con lo scopo di offrire in modo più incisivo quella protezione che l’art. 31 della Costituzione vuole assicurare alla maternità ed all’infanzia e di abolire la carcerazione dei minori, consentendo l’assistenza materna dei figli minori in modo continuato e in ambiente familiare. La norma appariva infatti rivolta principalmente a chi fosse divenuto genitore nel corso della detenzione ed aveva il compito di ricomporre l’unità familiare attraverso il ricongiungimento della madre detenuta con i figli minori.
L’art. 47 quinquies OP consente l’accesso alla detenzione domiciliare alla madre di prole di età inferiore a 10 anni laddove, indipendentemente dal quantum di pena da espiare, sia possibile ripristinare la convivenza con i figli e non sussista il pericolo di commissione di ulteriori delitti. L’ammissione al beneficio è condizionata all’espiazione di un terzo di pena - o di quindici anni in caso di condanna all’ergastolo - che nella formulazione originaria della norma, doveva avvenire in ambito intramurario. Attraverso l’introduzione del comma I bis ad opera della legge 62\2011 la misura ha mutato la propria fisionomia, attraverso un’anticipazione della tutela dell’interesse al ripristino dell’unità familiare con lo scopo di evitare del tutto la permanenza dei bambini negli istituti penitenziari, prevedendo che la soglia di pena necessaria all’accesso alla misura possa anche essere espiata presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ma anche, ove non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, in forme extramurarie, quali l’abitazione o in altro luogo di privata dimora o in luoghi di cura assistenza o accoglienza e, da ultimo, in caso di caso di impossibilità di espiare la pena in tali luoghi anche in case famiglia protette. Dopo il compimento di 10 anni di età del figlio il Tribunale di Sorveglianza ha la possibilità di prorogare il beneficio se sussistono i presupposti per l’accesso alla misura alternativa della semilibertà o disporre l’assistenza all’esterno dei figli minori.
Analogamente a quanto previsto dall’art. 47 ter OP anche per la detenzione domiciliare speciale è prevista la possibilità di accesso al beneficio da parte del padre, sia pure a differenti condizioni rispetto alla norma ordinaria. Il comma 7 dell’art. 47 quinquies prevede infatti che la detenzione domiciliare speciale possa essere concessa alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre. A differenza dell’art. 47 ter OP la norma non impone che il padre sia convivente o che abbia la responsabilità genitoriale del minore, ma prevede un intervento dello stesso in via ulteriormente sussidiaria rispetto a quanto previsto dalla norma ordinaria consentendo l’accesso alla misura solo ove la prole, priva della madre perché deceduta o impossibilitata, non possa essere affidata a terzi.
L’importanza riconosciuta nel nostro ordinamento al diritto dovere di cura dei figli ha condotto ad ulteriori interventi della Corte Costituzionale volti ad ampliare l’ambito di operatività della norma sulla detenzione domiciliare speciale e renderne più agevole l’iter applicativo.
Con la sentenza 239\2014 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 4 bis OP nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione di benefici penitenziari da esso stabilito la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall'articolo 47quinquies OP (estendendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale alla medesima disposizione contenuta nell’art. 47 ter comma I lett. a) e b) OP e con sentenza 76\2017 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 47 quinquies comma I bis OP nella parte in cui esclude dalla possibilità dell'espiazione della soglia di pena in ambito extramurario le madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'articolo 4 bis OP.
Da ultimo, con sentenza n. 30\2022 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell'articolo 47 quinquies commi 1, 3 e 7 OP nella parte in cui non prevede che, ove vi sia un grave pregiudizio per il minore derivante dalla protrazione dello stato di detenzione del genitore, l’istanza di detenzione domiciliare possa essere proposta al magistrato di sorveglianza che può disporne l'applicazione provvisoria, estendendo a tale misura alternative la disciplina prevista per le misure ordinarie.
L'attuale assetto della norma presenta, dunque, un deciso favor verso l'espiazione della pena nelle forme della detenzione domiciliare per le madri di figli in tenera età.
Gli interventi del legislatore e del Giudice delle Leggi hanno progressivamente spostato il baricentro del bilanciamento tra il diritto alla cura della prole e le esigenze di sicurezza verso il primo dei due termini, costruendo una norma che consente l'accesso ad una misura alternativa senza limiti di pena e con possibilità di evitare completamente la detenzione carceraria (grazie alle previsioni che consentono di usufruire dell'applicazione provvisoria della misura senza attendere la decisione del Tribunale, di espiare la soglia di pena per l’accesso alla misura anche in forma extramuraria e della possibilità di proseguire l’espiazione inframuraria anche dopo il compimento di 10 anni dei figli) anche in relazione a condanne a pene molto elevate, per reati molto gravi, anche in materia di criminalità organizzata.
2. La vicenda all’esame del Tribunale di Sorveglianza
Il caso all’attenzione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna riguarda un’istanza di ammissione alla detenzione domiciliare speciale avanzata da un detenuto padre di figli di età inferiore a dieci anni. La situazione prospettata vede la madre non presente nel nucleo familiare - dalla stessa abbandonato da tempo - e il padre richiedente quale unico affidatario dei figli minori sulla base di un provvedimento del Tribunale per i Minorenni. L’assistenza dei minori è assicurata dalla sorella maggiore, figlia di primo letto dell’istante e dal compagno di quest’ultima, i quali convivono con i bambini nel medesimo nucleo familiare esistente prima della carcerazione del padre.
3. Le questioni prospettate e gli argomenti a sostegno.
Il Tribunale di Sorveglianza, dopo aver escluso, nel caso in esame, la possibilità di un’interpretazione della norma che consenta di accogliere la richiesta di detenzione domiciliare da parte del richiedente valorizzando l’assoluto impedimento della madre, stante l’esplicito tenore della disposizione della stessa che limita l’intervento del padre alle situazioni in cui né la madre né terzi possano curare i figli, ne prospetta l’illegittimità costituzionale sotto un duplice profilo.
Il primo profilo è quello che attiene alla scelta del legislatore di operare a monte una differenziazione tra le due figure genitoriali nella cura dei figli minori, stabilendo una cornice più favorevole per le detenute di sesso femminile, ancorando tale scelta esclusivamente al sesso del genitore. Tale scelta contrasterebbe con gli artt. 3 comma 2 , 29,30 e 31 della Costituzione e con l’art.11 della Costituzione quale parametro interposto rispetto all’art. 14 CEDU, espressivo in ambito convenzionale del principio di non discriminazione, in relazione all’art. 8 CEDU , che tutela la vita privata e familiare.
Si tratterebbe di un’opzione irragionevole e foriera di ingiusta disparità di trattamento, posto che la norma in esame non ha come primario interesse la tutela della maternità, cui invece presiedono le norme sul differimento dell’esecuzione della pena, bensì quello di garantire l’assistenza ai figli e non pregiudicarne lo sviluppo psico-affettivo.
Il rimettente perviene a tale conclusione sulla base di un’analisi dell’evoluzione della normativa sulle detenute madri e sui rapporti tra genitori detenuti e figli, osservando che, attraverso aggiustamenti progressivi, quali l’innalzamento dell’età dei figli, l’eliminazione del riferimento all’allattamento della prole e l’intervento della Corte Costituzionale 215\1990, la norma sulla detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter comma I OP è stata ridisegnata quale misura prevalentemente tesa alla tutela del minore. Sulla stessa linea, si pone l’art. 47 quinquies OP, pensato specificamente in un’ottica di rafforzamento delle esigenze di tutela della prole.
Se tale è l’interesse primario tutelato dalla norma in esame la scelta di privilegiare la madre nell’accesso alla misura, basata su dati empirici e tradizioni culturali che assegnano alla donna e alla madre un ruolo prioritario di cura e tutela dei figli, non risulta più attuale rispetto ai mutamenti che hanno interessato l’ambito familiare.
Il giudice rimettente osserva che, da tempo, la letteratura scientifica ha messo in discussione l’assunto per cui le funzioni dei genitori siano biologicamente determinate in ragione del genere del soggetto accudente e che, sebbene in una prima fase dello sviluppo non possa negarsi un ruolo di cura primario della madre, legato prevalentemente all’allattamento, successivamente le differenze nel rapporto tra genitori e figli non sono collegate al sesso del genitore. L’ambiente più idoneo allo sviluppo armonico della personalità del minore è quello del c.d. coparenting, ovvero la cooperazione tra i ruoli genitoriali fondata sulla intercambiabilità e condivisione del ruolo di cura. Rileva inoltre che plurime fonti normative, tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 e le norme sul diritto di famiglia, hanno riconosciuto un generale diritto del minore alla bigenitorialità, inteso quale necessità del mantenimento del rapporto tra il minore ed entrambe le figure genitoriali senza distinzioni legate al sesso.
La scelta del legislatore, basata su una presunzione non più attuale, senza alcuna valutazione in ordine alla capacità del genitore di sesso maschile di adempiere al ruolo di cura, non soltanto non appare adeguata alle evoluzioni della società e del fenomeno familiare, ma conduce ad effetti distorsivi in danno dei figli minori e a disparità di trattamento tra figli di coppie “madre libera -padre detenuto” e “madre detenuta -padre libero” posto che nel primo caso i figli avranno meno chances di ricostituire il nucleo familiare. Ritenere che il genitore beneficiario possa essere il padre solo in assenza della madre comporta che lo stesso dovrà sempre sobbarcarsi da solo l’onere della cura della prole accanto a quello lavorativo. Ancora più evidenti risultano le disparità di trattamento dei figli in caso di famiglie omosessuali o famiglie di fatto omogenitoriali.
È, dunque, la differenziazione del ruolo sulla base del sesso del genitore ad introdurre un trattamento disomogeneo e irragionevole di condizioni materialmente sovrapponibili ed in cui sussiste un’istanza di tutela costituzionale egualmente intensa della prole bisognosa di cure.
Nell’ordinanza si prospettano due possibili soluzioni modificative della norma volte a sanare il contrasto con le norme costituzionali, optando per l’eliminazione, al comma 7, della locuzione “se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri” al fine di garantire un accesso paritario alla misura alternativa ai genitori dei due sessi. Tale soluzione, oltre a garantire il principio di parità tra i sessi, consentirebbe il mantenimento del rapporto di cura con entrambi i genitori laddove non sussistano pericoli per la collettività, andando quindi ad offrire maggiore tutela all'interesse della cura della prole oggetto degli artt. 30 e 31 comma II della Costituzione.
La diversa opzione, ovvero quella di omologare la condizione della madre a quella del padre valutando se l'assenza del “genitore donna” pregiudichi in concreto lo sviluppo dei figli a fronte della presenza dell'altro partner uomo o di terzi in grado di assicurare assistenza, sebbene rispettosa del principio di non discriminazione tra i sessi condurrebbe ad una modifica in malam partem della norma restringendo la possibilità per la madre di accedere alla misura alternativa, ad oggi non preclusa dalla presenza del padre convivente o comunque dedito alla cura dei figli. Si tratterebbe dunque di una strada non percorribile attraverso una pronuncia additiva della Corte Costituzionale.
Il Tribunale affronta anche il tema, non peregrino, della rilevanza, della questione prospettata, osservando che, ove ritenuta fondata il giudice, nella valutazione dell’istanza non dovrebbe confrontarsi con i temi dell’impedimento della madre e dell’assenza di terzi, richiamando la nozione di “rilevanza giuridica” più volte affermata dalla Corte Costituzionale che prescinde da una diretta incidenza sull'esito del giudizio ma è comunque idonea a incidere anche solo nel senso di imporre a un giudice un diverso percorso logico giuridico argomentativo pur rimanendo in ipotesi identico l’esito del giudizio.
Il secondo profilo di illegittimità costituzionale, preso in esame in via gradata, riguarda il comma 7 della norma che prevede che la misura possa essere concessa al padre non solo in condizioni di assenza per decesso o impedimento della madre ma anche “se non vi è possibilità di affidare la prole ad altri che al padre”. Il rimettente osserva che il ruolo del padre non soltanto viene discriminato rispetto a quello della madre, ma viene addirittura ritenuto subvalente anche in caso rappresenti l’unico riferimento genitoriale rispetto a situazioni di accudimento della prole da parte di soggetti diversi dai genitori. L’illegittimità costituzionale della norma oltre che su un profilo intrinseco di irragionevolezza rispetto alla tutela degli interessi sottesi, si misura rispetto al tertium comparationisrappresentato dalle norme di cui all’art. 47 ter comma I lett b) OP e dall’art. 275 comma IV c.p.p. in materia di misure cautelari, norme che consentono l’accesso alle misure domiciliari al padre convivente esercente la potestà genitoriale laddove la madre sia deceduta o altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole, senza prevedere l’ulteriore condizione dell’assenza di terzi possibili affidatari.
Con rifermento al rapporto con l’art. 47 ter OP si sottolinea che, pur trattandosi di norme in astratto non del tutto sovrapponibili, la casistica ne dimostra la concreta frequente sovrapponibilità e la Corte Costituzionale, con la richiamata sentenza 30\22 ha sottolineato che nonostante la diversità delle fattispecie regolate connesse alla diversa entità della pena da espiare, le due misure alternative perseguono la medesima finalità, cioè quella di evitare, fin dove possibile, che l’interesse del bambino sia compromesso dalla perdita delle cure parentali determinata dalla permanenza in carcere del genitore.
Rispetto all’articolo 275 comma IV c.p.p. viene richiamata la sentenza della Corte di Cassazione 29355\2014, che ha ritenuto che, una volta che sia stata accertata l'impossibilità assoluta della madre di dare assistenza alla prole e in assenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice non può giustificare il mantenimento di una misura intramuraria del padre prendendo in esame l'eventuale presenza di altri familiari in quanto ad essi il legislatore non riconosce alcuna funzione sostitutiva considerato che la formazione del bambino può essere gravemente pregiudicata dall'assenza di una figura genitoriale, la cui fungibilità deve pertanto, fin dove possibile, essere assicurata trovando fondamento nella garanzia che l'articolo 31 Cost. accorda all'infanzia.
4. Gli interventi della Corte Costituzionale riguardanti la questione dell’accesso del padre alle forme di detenzione domiciliare con finalità di cura dei figli.
Si è già fatto riferimento alla pronuncia della Corte Costituzionale n.215 del 1990 che dichiarava illegittima la norma di cui all'articolo 47 ter comma primo numero 1 OP nella parte in cui non prevedeva che la detenzione domiciliare potesse essere concessa alle medesime condizioni della madre al padre, qualora la madre fosse deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. La questione che veniva prospettata riguardava un caso in cui il padre di minori di dieci anni chiedeva l'accesso alla misura alternativa prospettando una condizione di invalidità della madre a causa di una psicosi. La Corte riteneva la disposizione in contrasto con i parametri di cui agli articoli 3,29,30 e 31 della Costituzione osservando che la previsione secondo cui solo alla madre viene riconosciuto il diritto di assistere la prole nega implicitamente al genitore l'esercizio dello stesso diritto-dovere che la Costituzione affida alla pari responsabilità dei genitori. La sentenza ripercorreva altre pronunce della Corte che avevano più volte affermato che i compiti di mantenimento educazione e istruzione della prole gravano su entrambi i genitori, osservando che tali valori costituzionali risultavano già trasfusi nella legge del lavoro e in particolare nella legge 903\77 che estendeva al padre la facoltà di astensione facoltativa dal lavoro previsto dalla legge del 1971 solo per la madre durante il primo anno del bambino.
Recentissima è la sentenza della Corte Costituzionale 219\2023 su una questione di legittimità analoga a quella oggetto dell’ordinanza del TdS di Bologna, sollevata in relazione alla diversa norma di cui all’art. 47 ter comma 1 lettere a) e b) OP nella parte in cui non prevede la possibilità di accesso al beneficio anche al padre indipendentemente dalla situazione di impossibilità di cure da parte della madre, per contrasto con gli artt. 3 comma II e 31 della Costituzione.
Il rimettente osservava che la più severa disciplina per l’accesso alla detezione domiciliare rispetto alla madre prevista per il padre contrasta con l'interesse del minore, fondato e tutelato dall'articolo 31 II comma della Costituzione, a mantenere un rapporto continuativo con entrambi genitori, ritenendo che la Costituzione e le fonti sovranazionali riconoscano in capo ai minori un vero e proprio diritto alla bigenitorialità. Rilevava, inoltre, l’intrinseca irragionevolezza della norma che, in assenza di plausibili e giustificate ragioni, pone nel campo delle misure alternative alla detenzione intramurarie una disciplina che privilegia in via primaria la conservazione del rapporto genitoriale materno anche a fronte di condotte illecite che abbiano giustificato la limitazione della libertà personale della madre.
La Corte Costituzionale ha ritenuto entrambi i profili di incostituzionalità non fondati, partendo dalla premessa che entrambe le censure fossero state costruite attorno alla prospettiva dell’interesse del minore ad una relazione continuativa con entrambi i genitori e ritenendo, invece, escluse dal devolutum le questioni della diversa considerazione dei diritti doveri che fanno capo al padre rispetto a quelli che fanno capo alla madre e la questione di discriminazione, in base al sesso tra le due figure genitoriali, nell’accesso alle misure alternative.
Non ha tuttavia risparmiato un avvertimento per il futuro, osservando che per affrontare la tematica della disparità di trattamento sarebbe stato necessario confrontarsi in modo approfondito tanto con il significato della portata della protezione offerta alla maternità dall'articolo 31 II comma Costituzione, quanto con le fonti internazionali in materia, tra cui l'articolo 4 paragrafo 2 della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata a New York il 18 dicembre 1979 -ratificata e resa esecutiva con legge 132 del 14 marzo 1985 - a tenore del quale ‘l'adozione da parte degli Stati di misure speciali comprese le misure previste dalla presente convenzione tendenti a proteggere la maternità non è considerato un atto discriminatorio’, e altresì con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di discriminazioni nel trattamento sanzionatorio e nel trattamento penitenziario di donne e uomini.
Nel merito, la Corte ha osservato che il nostro ordinamento, pur riconoscendo il principio dell’interesse preminente del minore come faro che deve guidare le decisioni delle Autorità Pubbliche, non assicura l’automatica prevalenza del diritto del minore a mantenere un rapporto con entrambi genitori su ogni altro interesse individuale o collettivo, aggiungendo che, con riferimento alle relazioni tra genitori condannati a pena detentiva e figli minori, numerose pronunce della Corte Costituzionale hanno affermato che l’interesse del minore non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze pure di rilievo costituzionale, tra cui quella di difesa sociale sottese all’esecuzione della pena, quella di assicurare un percorso rieducativo al condannato, e quella di riaffermare la vigenza della norma violata e la sua efficacia deterrente nei confronti della collettività, trattandosi di esigenze funzionali alla tutela effettiva di beni giuridici spesso pure di rilievo costituzionale, sottesi alle norme penali.
Peraltro, osserva la Corte, la speciale importanza dal punto di vista costituzionale delle esigenze del minore esige che i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena debbano, di regola, cedere, di fronte all’esigenza di assicurare ai minori in tenera età la possibilità di godere di una relazione diretta con almeno uno dei due genitori.
Il punto di equilibrio tra tali opposte esigenze si rinviene nelle norme dell’ordinamento penitenziario a tutela del diritto alla cura dei figli, che hanno consentito la possibilità di accesso alla detenzione domiciliare da parte della madre o da parte del padre in caso di impossibilità della madre.
La Corte ha anche aggiunto che l’impianto normativo tutela l’interesse dei minori a mantenere le relazioni con i genitori, anche laddove non sussistano i presupposti per l’accesso degli stessi alle misure alternative, tramite gli istituti dei permessi premio, ma anche delle visite di cui all’art. 21 ter OP, dei colloqui e della corrispondenza telefonica.
Ha poi affrontato il tema della scelta del legislatore di dare prevalenza al rapporto del minore con la madre, scelta che ha le proprie radici nella genesi di tali istituti, pensati proprio per assicurare quella relazione specialissima della madre con il figlio durante l'allattamento comunque nei primi mesi di vita, e via via estesi fino al raggiungimento di un'età più avanzata del bambino, al fine di evitare un'interruzione brusca del rapporto con la madre, in una fase di vita in cui il minore ancora necessita della presenza di tale genitore, e ciò in consonanza con gli strumenti internazionali relativi al trattamento penitenziario delle condannate madri.
Ha inoltre osservato che la scelta del legislatore di introdurre opzioni di esecuzione extramuraria in favore delle donne madri, indipendentemente dalla prova dell'indisponibilità del padre a prendersi cura del bambino, trova verosimile giustificazione nella considerazione di un impatto complessivamente contenuto di simili di misure rispetto agli interessi dell'esecuzione penale tenuto conto del numero ridotto di donne detenute in proporzione all'intera popolazione carceraria ( circa il 4%, dell’intera popolazione; vengono riportate le statistiche al 30 novembre 23 che vedevano 2549 donne detenute rispetto a un totale di 60.166 detenuti).
Ha poi concluso ritenendo che l'estensione delle medesime regole vigenti per le detenute madri anche per i detenuti padri è un'opzione che il legislatore potrebbe valutare, ma che non può essere ritenuta costituzionalmente necessitata dal punto di vista della tutela degli interessi del minore, tutela che richiede che di regola sia assicurato al bambino stesso un rapporto continuativo con almeno uno dei due genitori.
5. Principio di non discriminazione e diritto alla bigenitorialità. Qualche considerazione.
La questione di costituzionalità sollevata in via principale dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna riprende, nel contenuto, quella già esaminata dalla Corte Costituzionale nella sentenza 219\2023, ma pone, in modo più franco, anche in ragione dei parametri di costituzionalità invocati - tra cui l’art. 117, quale parametro interposto agli art. 14 CEDU in relazione all’art. 8 CEDU- la questione della discriminazione in base al sesso tra le due figure genitoriali, rispetto all’accesso alle misure alternative, questione che la Corte, nella sentenza 219\2023, aveva ritenuto esclusa dal focus della valutazione. Discriminazione ritenuta dal rimettente non più in linea con l’evoluzione normativa e sociale del fenomeno familiare e con i più recenti studi scientifici - che hanno messo in discussione l’assunto per cui vi siano funzioni genitoriali biologicamente determinate - e foriera di irragionevoli disparità di trattamento, anche (ma non solo) nei casi di famiglie omosessuali o monogenitoriali, da cui derivano danni per i minori e, più in generale, per il nucleo familiare.
A sostegno del percorso argomentativo viene prospettata una sostanziale differenza tra le norme a tutela della maternità in senso stretto quali quelle che disciplinano il differimento dell’esecuzione della pena (art. 146 e 147 c.p.) e l’art. 47 quinquies OP da leggersi invece come istituto primariamente teso alla cura della prole.
Il tema principale da affrontare è dunque se sia corretto ritenere che l’art. 47 quinques OP abbia perduto i connotati originari di norma che estendeva la tutela della maternità, in favore di una finalità proiettata, in via principale, sull’esigenza della cura dei figli e se sia possibile scindere i due aspetti, superando la lettura tradizionale fatta propria dai commentatori della legge 40\01 e ribadita dalla Corte Costituzionale 219\2023 che giustificava la discriminazione a favore della madre nell’accesso al beneficio con l’interesse del minore a mantenere quello specialissimo rapporto con la madre creatosi nelle prime fasi di vita consentito, per le madri condannate, dalle norme sul differimento dell’esecuzione della pena ed esteso grazie alle norme sulla detenzione domiciliare.
Non può non evidenziarsi che l’esperienza dei casi concreti dimostra la frequente progressione, sul piano logico e cronologico, dei diversi istituti del differimento e della detenzione domiciliare per la cura dei figli e che, proprio in ragione di tale continuità e della tutela rafforzata che la maternità riceve dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali, potrebbe non ritenersi ingiustificato un accesso privilegiato della madre alla misura in esame, ritenendo che si tratti di un’opzione a garanzia del diritto alla cura dei figli invocato dallo stesso rimettente.
Se si accede all’impostazione secondo cui tale favor non ha una giustificazione razionale rispetto alla tutela del diritto alla cura dei figli, si prospettano comunque due possibili soluzioni per rimuovere tale discriminazione, ovvero mediante l’eliminazione del trattamento più favorevole per le madri oppure attraverso l’estensione del beneficio al padre alle stesse condizioni previste per la madre.
Soluzione quest’ultima che il rimettente ritiene costituzionalmente vincolata riproponendo, in sostanza, il tema dell’inviolabilità del diritto alla bigenitorialità quale necessaria conseguenza del principio di non discriminazione dei genitori in base al sesso. Questo è certamente un passaggio delicato, poiché sulla non prevalenza assoluta del diritto alla bigenitorialità rispetto alle esigenze dell’esecuzione penale si è già pronunciata la Corte Costituzionale indicando quale soluzione rispettosa dei principi quella che assicura al minore il rapporto continuativo con almeno uno dei due genitori.
Diversamente, si dovrebbe affrontare il tema della modifica in peius della norma limitando l’accesso alla madre ai casi in cui il padre sia impossibilitato. Soluzione questa che, pur formalmente rispettosa dei principi affermati dal rimettente, di fatto porterebbe ad un arretramento della tutela della maternità e che avrebbe comunque gravi conseguenze negative anche sui figli minori che potrebbero vedersi privati della presenza della madre dopo un periodo continuativo assicurato dalle norme sul differimento dell’esecuzione della pena.
La diversa questione relativa all’irragionevolezza della scelta del legislatore di posporre l’intervento del padre nella cura dei figli rispetto a figure non genitoriali cui sono affidati i figli rispetto alla disciplina prevista da altre norme, in particolare a quella di cui all’ 47 ter OP, è posta in relazione a due profili.
Quanto al profilo costituito dall’intrinseca irragionevolezza della norma rispetto alla tutela degli interessi sottesi va osservato che il principio affermato dalla Corte Costituzionale 219\2023, secondo cui gli interessi sottesi all’esecuzione penale debbano, di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori possano godere della presenza di almeno uno dei genitori, sembra offrire conforto alla censura, posto che l’attuale meccanismo dell’art. 47 quinquies OP rende non sempre possibile realizzare tale situazione, privilegiando rispetto al padre, in assenza della madre, la presenza di terzi a tutela dei minori.
Sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto a norme che disciplinano istituti analoghi, quanto meno sotto il profilo finalistico, come l’art. 47 ter OP, si osserva che l’art. 47 quinquies OP disciplina una forma di detenzione domiciliare particolarmente ampia sotto il profilo quantitativo della possibile platea dei destinatari e qualitativo dei reati oggetto delle condanne ma anche per la possibilità di concludere l’espiazione della pena in forma extramuraria anche dopo il compimento dell’età di 10 anni dei figli minori, pur in presenza di un residuo pena superiore a quello previsto per l’accesso alle misure alternative.
È dunque evidente il differente impatto di tale norma sulle esigenze di tutela degli interessi sottesi all’esecuzione penale, rispetto a quella messa in comparazione.
L’esame della questione richiederà, quindi, alla Corte di ritornare sul tema del bilanciamento tra contrapposte esigenze e di verificare la possibilità, eventualmente anche attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata, di un ampliamento dello spazio concesso alla tutela del diritto alla cura dei figli rispetto a quello riconosciuto agli interessi sottesi all’esecuzione penale. Si potrebbe ad esempio attribuire al giudice una più ampia discrezionalità nella valutazione in concreto della realtà familiare nella quale è inserito il minore e della sua relazione con il genitore e nel bilanciamento tra gli interessi in gioco.
Immagine: Mario Madiai, Scorcio di paesaggio con cancello, olio su tavoletta.
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