ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il dovere di chiarezza della legge nella giurisprudenza della CEDU
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il concetto di “legge” – 3. L’evoluzione del concetto di qualità della legge.
1. Introduzione
Credo che il richiamo alla chiarezza della legge nel titolo del mio intervento si debba intendere un po’ come una sineddoche, nel senso che evocando il tema della chiarezza della legge nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si rinvia a un contesto più ampio, che è quello della qualità della legge, contesto nel quale la dimensione della chiarezza si accompagna a quelle, altrettanto importanti, della precisione, della prevedibilità, e anche, almeno in determinati casi, a quello della inclusione di garanzie contro i possibili abusi nell’applicazione della legge.
Nell’ambito della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (la Convenzione, CEDU), il principio di legalità appare in modo particolarmente significativo in materia penale, laddove l’art. 7 della Convenzione enuncia il principio nullum crimen, nulla poena sine lege, cioè la regola per cui solo la legge – che non può essere retroattiva – può definire un reato e prevedere una pena.
Il riferimento alla “legge” (law nel testo inglese, loi in quello francese), ha un grande rilievo nell’ambito della CEDU e lo troviamo in numerose disposizioni di questo testo. Per quanto riguarda il diritto alla vita (articolo 2), la “legge” è stata individuata come fonte della protezione di questo diritto; come fonte necessaria per prevedere la pena di morte, anche se in questo caso si tratta di una norma, quella che consentiva eccezionalmente la privazione intenzionale della vita in esecuzione di un a regolare condanna, che la giurisprudenza della Corte considera implicitamente abrogata[1]; come fondamento necessario di qualsiasi privazione della vita ammessa in casi di legittima difesa proporzionale, arresto o prevenzione della fuga di persone legalmente detenute, o in casi di repressione di una rivolta o di un’insurrezione. Nell’articolo 5, la “legge” è stata indicata come fonte necessaria per la privazione del diritto alla libertà e alla sicurezza. Nell’articolo 6 (diritto a un giusto processo), si richiede che i tribunali siano istituiti dalla “legge”. Inoltre, in molte altre disposizioni della Convenzione, il fondamento nella “legge” è una delle condizioni perché misure limitative di diritti previsti dalla CEDU siano considerate compatibili con la stessa Convenzione, normalmente accanto all’esistenza di un “fine legittimo” perseguito dalla misura litigiosa e alla “necessità” della stessa misura “in una società democratica”, cioè alla sua proporzionalità. Ciò avviene nell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare); nell’articolo 9, come base giuridica per la possibile limitazione della libertà di manifestare la propria religione o le proprie convinzioni; nell'articolo 10, come fonte di possibili formalità, condizioni, restrizioni e sanzioni in materia di libertà di espressione; e, nell'articolo 11, come base legale di limiti alla libertà di riunione e di associazione. Inoltre, in alcuni Protocolli allegati alla Convenzione, la "legge" appare di nuovo nella disciplina di altri diritti fondamentali. Nel Protocollo 1, articolo 1, come base necessaria di limitazioni al diritto di proprietà; nel Protocollo 4, articolo 1, per la possibile limitazione alla libertà di circolazione; nel Protocollo 7, come garanzia procedurale nell'espulsione degli stranieri (articolo 1), come disciplina del diritto di appello in materia penale (articolo 2), come fonte di risarcimento per condanna ingiusta (art. 3).
Anche al di là di queste indicazioni specifiche nell’ambito dei singoli diritti, il principio di legalità ha una natura fondamentale come uno dei valori chiave che discendono dal concetto dello Stato di diritto, inteso come Rule of Law[2], che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo considera uno dei fondamenti di una società democratica “inerente a tutti gli articoli della Convenzione”[3].
In pratica, tutte le volte che la Corte EDU è chiamata a confrontarsi con una ingerenza nei diritti fondamentali di una persona, essa deve verificare innanzitutto se tale ingerenza abbia un’adeguata base giuridica, cioè se sia fondata sulla legge.
È bene chiarire subito un punto. L’esigenza del fondamento legale di ogni misura la cui compatibilità con la Convenzione deve essere verificata non si spinge fino a richiedere che la Corte di Strasburgo controlli la corretta applicazione del diritto nazionale da parte dei giudici domestici. Questo rimane di esclusiva competenza delle corti nazionali. La Corte europea dovrà poi appurare se la decisione dei giudici domestici sia conforme alla Convenzione oppure no. Eventuali errori dei giudici interni nell’applicazione del diritto nazionale rilevano solo in quanto si traducano in violazioni dei diritti e delle libertà protetti dalla CEDU[4], a meno che non si tratti di applicazione della legge arbitraria o manifestamente irragionevole[5].
Detto questo, si pongono essenzialmente due questioni, sulle quali vorrei oggi brevemente intrattenervi. Da una parte c’è da capire cosa si intenda per “legge” ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dall’altra quale sia stata l’evoluzione del concetto di qualità della legge, compreso l’aspetto della chiarezza, nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
2. Il concetto di “legge”
Sulla prima questione si è notato come la giurisprudenza della Corte EDU si sia oramai consolidata nel ritenere che il concetto di “legge” presente nella Convenzione, un concetto da interpretare in modo autonomo, debba intendersi in senso sostanziale e non in senso formale.
In uno studio di qualche anno fa due costituzionalisti, i professori Lupo e Piccirilli, si sono interrogati sulla questione, partendo dalla constatazione che il concetto di “legge” come viene tradizionalmente inteso nei sistemi giuridici di tradizione anglosassone, o di common law non coincide con quello accolto dalla tradizione continentale, o di civil law.
Nella tradizione di common law si intende la “legge” come un concetto ampio, che si riferisce ad ogni regola esistente, senza riguardo al modo nel quale essa si sia formata e sia entrata in vigore, e che quindi include non solo le leggi positive, ma anche il diritto consuetudinario, e anche quello di origine giurisprudenziale. Invece, nella tradizione continentale, lo stesso concetto è associato a quello di “legislazione”, ed è quindi correlato a specifiche categorie di atti normalmente approvati dal Parlamento, cioè dal potere legislativo, o in certi casi dal potere esecutivo, come in Italia nella decretazione d’urgenza o nella legislazione delegata, ma sempre con un intervento del Parlamento, preventivo, come nella legislazione delegata, o successivo come nella decretazione d’urgenza. In altre parole nell’Europa continentale il concetto di “legge” rimanda alle leggi adottate dal Parlamento o ad altri atti dotati dello stesso rango nella gerarchia delle fonti. Ne segue che nel linguaggio dei giuristi di civil law il riferirsi alla “legge” non evoca genericamente un comando giuridico, ma è una definizione tecnica di una fonte del diritto che è scritta, posta dal legislatore e “primaria”, cioè sottoposta solo al livello costituzionale[6]. Nella tradizione continentale, quindi, i riferimenti alla “legge” che si trovano nei testi normativi di livello costituzionale sono tipicamente interpretati dalle Corti costituzionali nazionali come una riserva alla legislazione di determinate materie, una riserva che quindi vuole escludere l’intervento di fonti del diritto diverse da quelle di origine parlamentare[7].
Allo stato attuale della sua evoluzione, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo può ritenersi consolidata nel suo riferirsi a un concetto pienamente sostanziale di “legge”, avendo abbandonato ogni riferimento al rango della norma di volta in volta interessata nella gerarchia delle fonti e ogni preoccupazione sulla sua origine, parlamentare, amministrativa o anche giurisprudenziale[8].
Già nella sentenza nel caso De Wilde, Ooms and Versyp c. Belgio del 1971 la Corte europea aveva considerato come base legale idonea ai sensi dell’art. 8 CEDU un arrêté royal, cioè une fonte di rango sub-legislativo, ma senza un’approfondita motivazione.
È con la sentenza The Sunday Times c. Regno Unito che la Corte di Strasburgo precisa esplicitamente, in un caso relativo all’art. 10 CEDU, che protegge la libertà di espressione, che la parola “legge” (law) nell’espressione “prescribed by law” contenuta in questa disposizione copre non solo la legge in senso formale, ma anche la legge non scritta, incluse le prescrizioni della common law.
Nel caso di specie si trattava di un’ingiunzione di non pubblicazione di un articolo sulla tragedia del talidomide imposta ad un giornale in base alle disposizioni di common law sul c.d. contempt of court, cioè, grosso modo, ostruzione alla giustizia. Il giornale ricorrente faceva valere che il concetto di contempt of court era così vago e incerto e che i principi enunciati nella decisione nazionale in esame erano così innovativi che la restrizione imposta al giornale non si poteva considerare “prescritta dalla legge” (prescribed by law) come impone l’art. 10 CEDU.
Vediamo che la prospettazione del ricorrente in questo caso abbraccia soprattutto l’altra questione di cui ci occupiamo oggi, cioè la chiarezza della legge e, più in generale, la sua qualità, ma per il momento fermiamoci al primo aspetto, quello della definizione del concetto di “legge” ai sensi della Convenzione.
Ho già anticipato la conclusione della Corte, che ha preso nettamente posizione per una concezione sostanziale e non formale della “legge”, posizione che è oggi consolidata nella giurisprudenza. La Corte ha osservato che limitare il concetto di legge a quello di legge formale sarebbe certamente contrario all’intenzione delle Parti contraenti; ritenere che una restrizione imposta in base al common law non sia “prescritta dalla legge” solo perché non è enunciata nella legislazione scritta priverebbe gli Stati parte di tradizione anglosassone della protezione di cui al secondo comma dell’art. 10 CEDU, cioè dell’applicazione delle restrizioni alla libertà di espressione che possono essere legittimamente imposte secondo la Convenzione[9]. Si tratta di un argomento che è stato considerato di natura originalista[10]perché fa leva sull’intenzione degli autori del testo da interpretare, cioè un criterio interpretativo che dovrebbe avere solo una funzione ausiliaria, ma è storicamente vero che il Regno Unito ebbe una grandissima influenza nella redazione del testo, per cui sarebbe stato veramente inconcepibile che avesse accettato di escludere dal concetto di “legge”, che finisce per delimitare l’ampiezza delle limitazioni di sovranità implicate dalla CEDU, una parte importante del proprio ordinamento giuridico. La Corte ha anche notato che lo stesso giornale ricorrente non aveva contestato l’esistenza della base giuridica della restrizione contestata nel ricorso, ma lamentava solo la mancanza di chiarezza e di precisione del principio di common law posto a base della restrizione litigiosa[11].
Con The Sunday Times la Corte ha superato un precedente orientamento giurisprudenziale, espresso nel 1978 dalla allora Commissione europea dei diritti dell’uomo, che, in un contesto diverso, cioè quello della necessaria base legale richiesta dall’art. 6 CEDU per la costituzione degli organi giudiziari, aveva inteso che riferimento alla “legge” avesse due implicazioni. Da una parte, l’esclusione di una regolamentazione da parte del potere esecutivo e, dall’altra, in modo più specifico, la necessità che in una società democratica l’organizzazione giudiziaria deve essere regolata da leggi approvate dal Parlamento[12].
Anche una regola formatasi in sede giurisprudenziale, purché la giurisprudenza sia costante e coerente, può integrare la nozione di “legge” ai sensi della Convenzione. A partire dalla sentenza Cantoni c. Francia del 1996, nel contesto particolarmente stringente dell’art. 7 CEDU, cioè del principio di legalità in materia penale, la Corte afferma che la nozione di law (droit nel testo francese) utilizzata all’art. 7 corrisponde a quella di law (loi nel testo francese) che appare negli altri articoli della Convenzione che abbiamo visto e ingloba il diritto di origine sia legislativa sia giurisprudenziale, quello a cui ci si riferisce come judge made law[13].
3. L’evoluzione del concetto di qualità della legge
Venendo ora all’evoluzione del concetto di qualità della legge, inclusa la dimensione della chiarezza, conviene partire sempre dalla sentenza Sunday Times del 1979. Qui la Corte doveva confrontarsi con l’espressione “prescribed by law” contenuta nell’art. 10 della Convenzione, ed è giunta alla conclusione che da questa formulazione discendono due esigenze. In primo luogo che la legge deve essere adeguatamente accessibile: l’individuo deve essere messo in condizione di conoscere, con indicazioni adeguate nelle circostanze particolari del caso, quali siano le regole legali applicabili a una determinata fattispecie. In secondo luogo la legge deve essere chiara, cioè deve essere formulata con una precisione sufficiente a porre l’individuo in condizione di poter regolare la propria condotta; il destinatario delle norme deve essere in grado – se necessario con l’aiuto di appropriata consulenza – di prevedere, in una misura ragionevole nelle circostanze del caso, le conseguenze legali conseguenti ad una determinata azione od omissione. La Corte riconosce che non è possibile pretendere una prevedibilità delle conseguenze con assoluta certezza, giacché l’esperienza dimostra che questo sarebbe un obiettivo irraggiungibile. Per quanto quest’ultimo possa essere un risultato altamente desiderabile, ciò comporterebbe un’eccessiva rigidità, mentre la legge deve essere in grado di tenere il passo con una realtà in evoluzione. Di conseguenza, molte leggi sono redatte in termini che, in una misura maggiore o minore, sono vaghi, per cui la loro interpretazione e applicazione dipendono dalla pratica[14].
L’espressione “prescribed by law” utilizzata dalla Corte in The Sunday Times per costruire la dottrina della chiarezza della legge, intesa in senso ampio come dottrina della qualità della legge, si ritrova identica negli art. 9 e 11, che proteggono rispettivamente la libertà di coscienza e di religione e la libertà di associazione, ma non esattamente nell’art. 8, dedicato alla tutela della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, nell’ambito del quale troviamo l’espressione “in accordance with the law”. Nella successiva sentenza Silver c. Regno Unito del 1983, la Corte ha chiarito che i principi enunciati per l’art. 10 CEDU in base all’espressione “prescribed by law” in The Sunday Times in relazione ai requisiti di qualità della legge valgono anche nell’ambito dell’art. 8, anche perché le due disposizioni si sovrappongono con riguardo all’esercizio della libertà di espressione attraverso la corrispondenza, per cui non attribuire la stessa interpretazione alle due espressioni potrebbe condurre a conclusioni diverse in relazione alla medesima ingerenza nel diritto[15].
La giurisprudenza successiva ha chiarito che i requisiti di qualità della legge comprendono, oltre all’accessibilità, la chiarezza, la prevedibilità e la precisione. Si tratta però di elementi relativi, che non vanno considerati in astratto, tenendo in considerazione il settore di attività che la legge in questione è chiamato a disciplinare e il numero e la condizione dei destinatari delle sue previsioni[16].
Sviluppando concetti già enunciati in The Sunday Times, la Corte ha via via chiarito, relativamente al livello di precisione della legge nazionale, prima in Kokkinakis c. Grecia e poi in Vogt c. Germania che l’impossibilità di richiedere un eccessivo livello di dettaglio nella legislazione nazionale è una conseguenza logica del suo scopo di generale applicazione, tenendo presente che il livello di precisione dev’essere valutato a un livello ragionevole nelle circostanze del caso[17].
Anche le caratteristiche di chiarezza e prevedibilità della legge non devono essere intese in senso assoluto, perché queste condizioni si devono considerare soddisfatte anche nel caso in cui si renda necessario per la persona interessata sollecitare un appropriato parere legale per valutare, in una misura ragionevole nelle circostanze del caso, le conseguenze che potrebbero derivare da una particolare azione o omissione. Nella sentenza Chauvy et al. c. Francia, la Corte ha detto che questo è particolarmente vero quando si tratti di persone impegnate in attività professionali[18].
Vorrei accennare a uno sviluppo ulteriore della dottrina della qualità della legge, in particolare nel settore della tutela della riservatezza, o privacy, protetta dall’art. 8 CEDU. Mi riferisco alla esigenza che la legge, oltre alle caratteristiche di accessibilità, chiarezza, precisione e prevedibilità che abbiamo visto, contenga anche appropriate garanzie contro possibili abusi.
Come dicevo, solo nel 1983 con la sentenza Silver, quattro anni dopo The Sunday Times, si è chiarito che il tema della qualità della legge riguarda anche i diritti protetti dall’art. 8 della Convenzione in materia di tutela della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, ma è proprio su questo terreno che si è registrato questo sviluppo.
Alle origini di questa evoluzione della giurisprudenza c’è la sentenza Malone c. Regno Unito del 1984, resa in un caso di intercettazione telefonica nel quadro di una procedura penale[19]. Il tema riguarda infatti – almeno alle origini della dottrina, che poi ha conosciuto una certa espansione – le operazioni di sorveglianza segreta, come le intercettazioni telefoniche, ambientali o informatiche. In questi casi, nei quali normalmente la legislazione lascia ampi margini alle autorità che procedono, e le garanzie di accessibilità e prevedibilità sono applicate in modo flessibile, la Corte ha statuito che nei casi di questo tipo la legge deve provvedere ad ulteriori garanzie. In Malone la Corte ha detto che nello speciale contesto della sorveglianza segreta il concetto di prevedibilità non può corrispondere esattamente a quello abituale, e ha precisato che l’espressione “in accordance to the law” non si limita a rinviare al diritto nazionale, ma si riferisce alla qualità della legge, imponendo che essa risponda al principio dello Stato di diritto (Rule of law, prééminence du droit), che è espressamente menzionato nel Preambolo della Convenzione. Ciò implica, e questo discende dall’oggetto e dallo scopo dell’art. 8, che sono richieste misure di protezione legale nel diritto nazionale contro le interferenze arbitrarie delle pubbliche autorità con i diritti protetti dal primo comma di questa disposizione. Specialmente quando il potere delle autorità è esercitato in segreto, i rischi di arbitrio sono evidenti. Le esigenze della Convenzione nel settore della sorveglianza segreta non possono essere le stesse che sono richieste quando l’oggetto della legge è quello di porre restrizioni alla condotta degli individui; ciò specialmente con riferimento al requisito della prevedibilità. A questo proposito la Corte ha detto che il requisito della prevedibilità non si può intendere nel senso che gli individui devono essere posti in grado di prevedere quando le autorità potrebbero intercettare le loro comunicazioni in modo che essi possano regolarsi di conseguenza. In ogni caso – e qui la Corte mette l’accento sul requisito della chiarezza – la legge deve essere sufficientemente chiara nei suoi termini in modo da dare agli individui un’indicazione adeguata alle circostanze e alle condizioni nelle quali le pubbliche autorità sono autorizzate a ricorrere a questa forma segreta e potenzialmente pericolosa di interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza. Questo però non basta, perché, specialmente quando gli individui, come accade normalmente, siano all’oscuro del possibile uso da parte delle autorità del potere di intercettare segretamente le comunicazioni, vi è un onere aggiuntivo per il legislatore di fissare rigide condizioni e restrizioni (tight conditions and restrictions) a questo uso. Dice la Corte che, dato che l’esecuzione delle misure di sorveglianza segreta delle comunicazioni non è controllabile mentre si svolge dagli interessati o dal pubblico in generale, sarebbe contrario al principio dello Stato di diritto concedere alle autorità un potere incontrollato in questa materia. Ne segue che si richiede che la legge indichi con precisione l’ambito del potere di intercettare concesso alle autorità e le modalità del suo esercizio con sufficiente chiarezza, tenuto conto del fine legittimo perseguito con la misura di intercettazione, al fine di accordare all’interessato una protezione adeguata contro ingerenze arbitrarie nel suo diritto alla tutela della vita privata e della corrispondenza[20].
Questa dottrina, che aggiunge alle esigenze di qualità della legge il requisito di adeguate misure di salvaguardia contro l’uso abusivo del potere, è stata estesa dalla Corte anche al di fuori del campo della sorveglianza segreta. Il principio è stato affermato nel caso Olsson c. Svezia del 1988, relativo all’affidamento di bambini[21].
In due casi contro la Francia relativi ad intercettazioni telefoniche, Kruslin e Huvig, del 1990, la Corte si è concentrata quasi esclusivamente sull’esistenza di efficaci misure di salvaguardia contro l’abuso di potere, entrando nel dettaglio delle prescrizioni richieste alla legge[22].
La dottrina ha avuto un ulteriore sviluppo grazie a tre casi abbastanza recenti, Zakharov c. Federazione russa del 2015[23], Centrum För Rättvisa v. Svezia del 2018[24] e Big Brother Watch c. Regno Unito del 2019[25]. La particolarità di questi casi, tutti attinenti alla c.d. sorveglianza di massa, anche se con modalità diverse, è che la Corte ha accettato di entrare nel merito dei ricorsi, presentati sia da associazioni sia da persone fisiche, indipendentemente dalla dimostrazione dei ricorrenti di essere stati assoggettati a misure di sorveglianza segreta, ma solo sulla base del rischio di esservi sottoposti, quindi con una attenuazione della giurisprudenza in tema di qualità di vittima, requisito della ammissibilità del ricorso.
In tutti questi casi, nei quali era evidentemente impossibile valutare la conformità alla Convenzione di singole misure di ingerenza nella sfera individuale dei ricorrenti, per definizione non esistenti in queste procedure, la Corte si è concentrata sulle caratteristiche minime che la legge che autorizza queste forme di sorveglianza di massa in modo da prevedere adeguate misure di salvaguardia contro gli abusi. La Corte è entrata particolarmente nel dettaglio nel caso Big Brother Watch, nel quale ha individuato ben nove caratteristiche che la legge deve presentare, anche se ha precisato che il principio non va applicato con rigidità, essendo possibile che la carenza di un elemento sia compensata da uno o più altri.
Si è osservato che lo sviluppo di questa dottrina, a partire da Malone, sia stato inspirato alla Corte di Strasburgo dalla giurisprudenza delle corti costituzionali europee, che si sono tradizionalmente occupate della riduzione delle forme arbitrarie di esercizio del potere[26].
* * *
In chiusura vorrei far cenno ad una sentenza molto recente della Corte europea dei diritti dell’uomo in un caso italiano, Grande Oriente d’Italia c. Italia[27], decisione nella quale troviamo un riepilogo dei principi la cui evoluzione ho cercato di esporre. Il caso riguardava la decisione della Commissione parlamentare anti-mafia, nel 2017, di procedere ad una perquisizione della sede del Grande Oriente d’Italia e al sequestro di vari documenti cartacei e digitali, incluse le liste degli aderenti alle logge affiliate all’organizzazione ricorrente.
In questa occasione la Corte ha ricordato che, secondo la propria giurisprudenza, l'espressione "in conformità alla legge", ai sensi dell'articolo 8 § 2 della Convenzione, richiede in primo luogo che la misura impugnata abbia una qualche base nel diritto interno. In secondo luogo, vi è l’esigenza che il diritto interno debba essere accessibile alla persona interessata. In terzo luogo, occorre che la persona interessata sia in grado, se necessario con un'adeguata consulenza legale, di prevedere le conseguenze del diritto interno per sé e, in quarto luogo, bisogna che il diritto interno sia compatibile con lo stato di diritto[28], nel senso della previsione di adeguate salvaguardie contro possibili abusi. Il concetto di "legge" deve essere inteso nel suo senso "sostanziale", non in quello "formale". Essa comprende quindi tutto ciò che costituisce il diritto scritto, compresi gli atti normativi di rango inferiore alle leggi, e anche la giurisprudenza pertinente[29].
La Corte ha precisato che nel contesto di attività investigative come quella in questione, a causa della mancanza di controllo pubblico e del rischio di abuso di potere, la compatibilità con il principio dello Stato di diritto richiede che il diritto interno fornisca un'adeguata protezione contro l'interferenza arbitraria con i diritti protetti dall'articolo 8[30]. In questo caso, pur riconoscendo che le misure ordinate dalla Commissione antimafia avevano una sufficiente base legale, la Corte ha preferito esaminare la questione dell’esistenza di sufficienti garanzie contro gli abusi unitamente a quella della “necessità in una società democratica delle stesse misure”, giungendo poi ad affermare la violazione dell’art. 8.
I principi enunciati in Grande Oriente sono ormai consolidati. C’è stata certamente un’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU su questi temi. Se questo avvicini la Corte di Strasburgo alle corti costituzionali europee è una questione che lascerei aperta. Dovesse questa ipotesi consolidarsi, si tratterebbe a mio sommesso giudizio di uno sviluppo positivo. Forse la mia è una visione ottimistica, ma ho l’impressione che sempre di più la Corte di Strasburgo e le corti costituzionali europee, comprese le due più inizialmente diffidenti nei confronti delle giurisdizioni nazionali, cioè la nostra e quella tedesca, ricerchino un terreno comune nell’intento di proteggere al meglio i diritti fondamentali dell’individuo, superando antiche chiusure.
[1] CtEDU, Al.Sadoon e Mufdhi c. Regno Unito, 2 marzo 2010, § 120.
[2] M. KRYGIER, Rule of Law, in M. ROSENFELD e A. SAJÓ (eds), The Oxford Handbook of Comparative Constitutional Law, Oxford, Oxford University Press, 2012, p. 237; J. JOWELL, The Rule of Law and its underlying values, in J. JOWELL, D. OLIVER e C. O’CINNEIDE (eds), The Changing Constitution, Oxford, Oxford University Press, 2015, pp. 20-24.
[3] CtEDU, Iatridis c. Grecia (GC), n. 31107/96, 25 March 1999, § 58.
[4] CtEDU, García Ruiz c. Spagna, n. 30544/96, 21 gennaio 1999, § 28.
[5] CtEDU, Cangi c. Turchia, n. 24973/15, 29 gennaio 2019, § 42.
[6] N. LUPO e G. PICCIRILLI, European Court Of Human Rights and the Quality of Legislation: Shifting to a Substantial Concept of ‘Law’?, in Legisprudence, 2012, p. 230.
[7] Ibidem.
[8] N. LUPO e G. PICCIRILLI, European Court etc., cit., p. 237.
[9] CtEDU, The Sunday Times c. Regno Unito, n. 6538/74, 26 aprile 1979, § 47.
[10] N. LUPO e G. PICCIRILLI, European Court etc., cit., p. 234.
[11] CtEDU, The Sunday Times etc., cit., ibidem.
[12] Commissione europea dei diritti dell’uomo, Zand c. Austria (Pl.), n. 7360/76, Rapporto 12 ottobre 1978, § 69.
[13] CtEDU, Cantoni c. Francia, n. 17862/91, 15 novembre 1996, § 29; Coëme et al. c. Belgio, n. 32492/96 32547/96 32548/96 33209/96 33210/96, 22 giugno 2000, § 145; Achour c. Francia, n. 67335/01, 29 marzo 2006, § 42.
[14] CtEDU, The Sunday Times etc., cit., §49.
[15] CtEDU, Silver et al. c. Regno Unito, n. 5947/72; 6205/73; 7052/75; 7061/75; 7107/75; 7113/75; 7136/75, 25 marzo 1983, § 85.
[16] N. LUPO e G. PICCIRILLI, European Court etc., cit., p. 237.
[17] CtEDU, Kokkinakis c. Grecia, n. 14307/88, 25 maggio 1993, § 24; CtEDU, Vogt c. Germania, n. 17851/91, 26 settembre 1995, § 48.
[18] CtEDU, Chauvy et al. c. Francia, n. 64915/01, 29 giugno 2004, §§ 43-45.
[19] CtEDU, Malone c. Regno Unito, n. 8691/79, 2 agosto 1984.
[20] CtEDU, Malone etc., cit., §§ 67 e s.
[21] CtEDU, Olsson c. Svezia, n. 10465/83, 24 marzo 1988, § 62.
[22] CtEDU, Kruslin c. Francia, n. 11801/85, 24 aprile 1990, §§ 32-35; Huvig v. Francia, n. 11105/84, 24 April 1990, §§ 32-35.
[23] CtEDU, Zacharov c. Federazione russa (GC), n. 47143/06, 4 dicembre 2015.
[24] CtEDU, Centrum För Rättvisa v. Svezia, n. 35252/08, 19 giugno 2018.
[25] CtEDU, Big Brother Watch c. Regno Unito, n. 58170/13, 62322/14 e 24960/15, 13 settembre 2018.
[26]D. M. BEATTY, The ultimate rule of law, Oxford, Oxford University Press, 2004; B.v.d.SLOOT, The Quality of Law. How the European Court of Human Rights gradually became a European Constitutional Court for privacy cases, in JIPITEC, Journal of Intellectual Property, Information Technology and Electronic Commerce Law, 2020, p. 167.
[27] CtEDU, Grande Oriente d’Italia c. Italia, n. 29550/17, 19 dicembre 2024.
[28] CtEDU, Brazzi c. Italia, n. 57278/11, 27 settembre 2018, § 39; De Tommaso c. Italia (GC), n. 43395/09, 23 febbraio 2017, § 107; e Heino c. Finlandia, n. 56720/09, 15 Febbraio 2011, § 36.
[29] CtEDU, Grande Oriente d’Italia etc., cit., § 96; in questo caso la Corte non menziona esplicitamente il common law, ma la sentenza non intende certo escluderlo, dovendosi esso ritenere compreso nel riferimento alla «giurisprudenza pertinente» (relevant case-law authority); v. anche Bodalev c. Russia, n. 67200/12, 6 settembre 2022, § 66, e National Federation of Sportspersons’ Associations and Unions (FNASS) et al. c. Francia, n. 48151/11 e 77769/13, 18 gennaio 2018, § 160.
[30] CtEDU, Grande Oriente d’Italia etc., cit., § 97. V. anche Rustamkhanli c. Azerbaijan, n. 24460/16, 4 luglio 2024, § 41, 4 luglio 2024, e Erduran e Em Export Dış Tic A.Ş. c. Turchia, n. 25707/05 e 28614/06, , 20 novembre 2018, § 80.
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Il referendum abrogativo parziale dell’art. 19, commi 1,1-bis, e 4, e dell’art. 21, comma 01, del d.lgs.15 giugno 2015, n. 81 sui contratti a termine
V. A. Poso Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data12 aprile dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024; il deposito presso la Cancelleria della Corte di cassazione della documentazione attestante le firme raccolte è stato effettuato il 19 luglio 2024).
Il terzo, sinteticamente denominato dai promotori “Lavoro Stabile” ha ad oggetto il seguente quesito: «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1 -bis , limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?».
Secondo il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro stabile”, il quesito è inteso, in estrema sintesi, ad abrogare le norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine e limitare il ricorso a questo tipo di lavoro solo in presenza di causali specifiche obiettive e temporanee – previste e disciplinate dai contratti collettivi – verificabili dal giudice, anche per i contratti di durata non superiore a dodici mesi così da superare la precarietà dei contratti di lavoro, anche in caso di proroga e rinnovo; e ad abrogane la norma che consente alle parti individuali del contratto di lavoro di individuare la causale del termine, «che nei fatti apre la strada ad assunzioni a termine senza alcun controllo», essendo il lavoratore in attesa di essere assunto dell’autonomia necessaria per valutare e decidere. Per i promotori di questo referendum il lavoro «deve essere stabile perché la precarietà è una perdita di libertà».
Chiedo, in particolar modo, ai giuslavoristi di tracciare un quadro sintetico della disciplina del contratto a termine – con riferimento agli aspetti più rilevanti che qui interessano e ai principi informatori delle norme che si sono succedute – per come si è evoluta, a partire dalla l. 18 aprile 1962, n.230.
S. Ciucciovino. La disciplina del contratto a termine è stata attraversata nel corso degli anni da numerose e continue modifiche. Essa ha assunto progressivamente una vera e propria valenza simbolica, anche nell’opinione pubblica, rispetto alla questione della “precarietà lavorativa”. Da questo punto di vista, le diverse riforme del contratto a termine messe in atto dai Governi che si sono succeduti, almeno dagli anni 2000 in poi, sono state connotate da una forte connotazione “politica”.
Non a caso anche la proposta referendaria in commento, nell’intento di contrastare la precarietà lavorativa, prende di mira il contratto a termine. Va detto, però, che il fenomeno della precarietà – specie nelle forme più deprecabili - è addebitabile in larga parte a forme di lavoro ben meno tutelate del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato; forme più o meno irregolari, grigie e mascherate, rispetto alle quali non si è notato lo stesso livello di attenzione che è stato riservato al contratto a tempo determinato.
Ciò detto, al netto di interventi correttivi di portata minore, dagli anni ‘60 del secolo scorso ad oggi si contano almeno sei grandi riforme del contratto a termine, rispettivamente apportate con la l. n. 230/1962, con l’art. 23 della l. 56/1987, con il d. lgs. n. 368/2001, con il d. lgs. 81/2015 (c.d. Jobs Act), con il d.l. 87/2018, convertito in l. 96/2018 (c.d. decreto Dignità) e, infine, con le successive correzioni del c.d. decreto sostegni bis (d.l. 73/2021, conv. in l. 106/2021). Ciascuna di queste riforme corrisponde ad una precisa ispirazione di politica del diritto e fissa uno specifico bilanciamento del ruolo del legislatore, dell’autonomia collettiva e dell’autonomia individuale nel governo del lavoro temporaneo.
Tutto inizia con la legge n. 230 del 1962 che poneva un divieto generale di apposizione del termine al contratto di lavoro, salve le eccezioni previste e disciplinate dallo stesso legislatore. Si trattava di ipotesi che legittimavano l’assunzione a termine: per esigenze stagionali; per esigenze sostitutive; per l’esecuzione di un’opera o un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale; per lavorazioni che richiedevano maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative non continuative e, infine, per il personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli. All’epoca, è bene ricordarlo, vigeva un regime di libera recedibilità dai contratti di lavoro a tempo indeterminato, con il solo limite del preavviso ex art. 2118 c.c. e, quindi, la precarietà era una caratteristica comune sia alle assunzioni a termine che a quelle a tempo indeterminato.
La normativa limitativa dell’assunzione a termine del 1962 cominciò a rivelarsi invece particolarmente restrittiva quando, pochi anni dopo, nel 1966 e nel 1970, si posero vincoli stringenti al licenziamento del lavoratore assunto a tempo indeterminato. A quel punto l’interesse per l’assunzione a termine si caricò di nuovi significati, in quanto il termine consentiva all’impresa di chiudere il rapporto di lavoro senza dover passare per le strettoie della giustificazione del licenziamento del lavoratore assunto a tempo indeterminato.
Con le crisi degli anni ’70 le prospettive di mercato in cui operavano le imprese si fecero più incerte e difficili e ciò alimentò la richiesta di contratti temporanei che si scontrava con il rigido impianto regolativo della legge n. 230/1962. Così, a partire dagli anni ’80, prese avvio una fase del diritto del lavoro di cauta attenuazione delle rigidità legali, che venne affidata alla contrattazione collettiva. Si aprì allora la stagione della cosiddetta “flessibilità negoziata”, di cui l’art. 23 della l. n. 56/1987 è emblematica. Questa norma configurò una tappa importante di riforma della disciplina del contratto a termine, in quanto affidò al contratto collettivo nazionale, con una vera e propria “delega in bianco”, il potere di prevedere “ulteriori ipotesi” di legittima apposizione del termine, aggiuntive rispetto a quelle legali già previste dalla legge del 1962. Una valvola di sfogo della domanda di flessibilità che le imprese potevano attingere attraverso le relazioni sindacali. Questa normativa, nell’affidare all’autonomia collettiva la gestione della flessibilità in entrata, accrebbe notevolmente il potere dei sindacati nei tavoli negoziali. Si passò, quindi, da un governo del lavoro temporaneo rimesso esclusivamente alla fonte legale, ad un governo in cui coesistevano la fonte legale e la fonte contrattuale collettiva.
Altre norme negli anni ‘80 e ‘90 replicarono lo stesso modello di flessibilità negoziata con una stretta integrazione tra fonte legale e collettiva. Si possono citare in proposito le norme sul contratto di formazione e lavoro e sul contratto di inserimento (l. n.863/1984 e l. n.451/1994), le norme sul lavoro temporaneo tramite agenzia (l. n.196/1997), le norme sull’apprendistato (l. n.196/1997), le norme sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (l. n.146/1990). Attraverso la delega in bianco dell’art. 23, l. n. 56/1987 e altre disposizioni di quel periodo storico cominciò ad emergere anche il contratto a termine con causale soggettiva, dove il termine costitutiva una sorta di incentivo all’assunzione di categorie svantaggiate: giovani, donne, soggetti a rischio disoccupazione (art. 8, l. n.223/1991). In questo panorama normativo, in cui l’assunzione a termine era veicolata e controllata dall’autonomia collettiva, anche il contenzioso giudiziario si rivelò contenuto, in quanto il contratto collettivo assolveva ad un sufficiente ruolo di garanzia della parte lavoratrice rispetto alla precarietà lavorativa, guardato con rispetto anche dai giudici.
Tutto cambiò con la riforma del contratto a termine realizzata dal governo Berlusconi con il d.lgs. n. 368/2001. Quella terza grande riforma pretendeva di cambiare gli equilibri complessivi che fino a quel momento avevano più o meno tenuto. Il legislatore, infatti, abbandonò la tecnica della flessibilità negoziata e anticipatamente filtrata dalla mediazione sindacale, tipica degli anni ‘80/’90 del secolo scorso, e optò per una tecnica di governo del ricorso ai contratti flessibili, risultata poi fallimentare, affidata alla norma legale ma, differentemente dalla l. n. 230 del 1962, questa volta incentrata sul precetto generale e aperto - il c.d. “causalone” - che identificava in non meglio specificate “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” i presupposti causali dell’apposizione del termine al contratto di lavoro. In questo modo si rimetteva, in definitiva, all’autonomia individuale l’individuazione dei presupposti oggettivi di assunzione a termine.
La norma a precetto indeterminato ha accresciuto enormemente il tasso di incertezza applicativa della disciplina legale e le dimensioni del relativo contenzioso giudiziale. Un contenzioso che ha fatto emergere il forte soggettivismo delle decisioni giudiziali orientate da un’interpretazione carica di opzioni valutative tipiche dell’applicazione di clausole generali che, come tali, necessitano di essere completate attingendo il significato delle norme da concetti presenti nella realtà sociale ovvero da fonti extra ordinem. In realtà la locuzione legale riferita alle “ragioni” oggettive di ricorso al contratto a termine non configurava una clausola generale (come è ad esempio quella del notevole o grave inadempimento o del congruo preavviso), quanto piuttosto un precetto legale a contenuto elastico che chiama l’interprete ad effettuare una valutazione che non dovrebbe essere ispirata ad opzioni di valore, bensì limitata alla verifica in concreto della sussistenza della ragione addotta dall’imprenditore afferente alla sfera delle decisioni produttive o organizzative dell’impresa, che come tali restano insindacabili, nonché alla verifica del nesso casale tra la ragione così enucleata e l’impiego del lavoratore assunto a termine.
Comunque la maggiore discontinuità segnata dalla riforma del 2001 rispetto al passato era rappresentata dalla soppressione di qualsiasi ruolo significativo della fonte collettiva nel governo della flessibilità in entrata. Il legislatore del 2001 poneva così fine alla stagione della flessibilità negoziata e apriva la nuova fase della flessibilità prevista direttamente dalla legge e rimessa all’autonomia individuale. Cioè all’accordo delle parti del rapporto di lavoro, tenute a concretizzare e contrattualmente specificare le ragioni oggettive genericamente previste dal legislatore. Non più quindi un mix di fonte legale e fonte collettiva, bensì un mix di fonte legale e autonomia individuale, in un quadro dove la norma legale non era puntuale, come lo era la l. n.230 del 1962, bensì aperta e indeterminata, accrescendo il grado di (apparente) discrezionalità dell’autonomia individuale.
La giurisprudenza ha, però, avuto una vera e propria crisi di rigetto nei confronti della riforma del 2001 e quella che è stata definita dai commentatori dell’epoca come una normativa di “liberalizzazione” del contratto a termine si è infranta, dopo almeno un quindicennio di tormentato contenzioso giudiziario, contro un’interpretazione fortemente restrittiva, rivelandosi in definitiva una vera e propria illusione ottica. I vincoli al contratto a termine, pur non previsti espressamente dal legislatore, né necessitati dalla normativa europea, sono stati sostanzialmente reintrodotti per via giudiziale, nella misura in cui è stato ritenuto sottointeso all’oggettività delle ragioni giustificative del termine, anche il requisito della sostanziale temporaneità delle stesse, di cui i giudici hanno fornito di volta in volta la propria personale accezione.
Questo sviluppo inglorioso della disciplina del contratto a termine rende più chiara l’operazione di politica del diritto sottesa alla successiva importante quarta riforma operata dal Jobs Act con il d. lgs. n.81 del 2015.
V. Speziale. Silvia Ciucciovino descrive in modo esaustivo l’evoluzione della disciplina del contratto a termine, la profonda valenza politica delle varie riforme che sono state introdotte, le diverse tecniche utilizzate e i contesti normativi nei quali esse sono state inserite.
Va rilevato, in primo luogo, che tra le innovazioni effettuate nel tempo va inclusa anche quella introdotta con il d.l. n. 48/2023, convertito nella l. n. 85/2023. Questa normativa va sicuramente ricordata per le importanti innovazioni che ha introdotto. Anche successivamente vi sono state modifiche ulteriori (nel 2024 e 2025), a dimostrazione del carattere assai “tormentato” della regolazione del contratto a termine.
Questo continuo processo riformatore è spiegabile con ragioni specifiche, connesse al ruolo del Diritto del lavoro nell’ambito della politica e alle diverse opinioni legate alla funzione del rapporto di lavoro a tempo determinato.
In relazione al primo aspetto, non vi è dubbio che la riforma del Diritto del lavoro (e, in particolare di quello direttamente connesso alla regolazione del mercato del lavoro) sia ormai parte fondamentale di qualunque programma politico, venendo ad assumere un valore fortemente identitario per le maggioranze parlamentari e per il Governo da esse espresso che di volta in volta si succedono alla guida del Paese. L’idea, coltivata per lungo tempo anche a livello europeo, è che il Diritto del lavoro sia uno strumento di politica economica, al pari delle politiche di bilancio, di quelle dirette a sostenere il sistema produttivo o l’innovazione tecnologica, delle politiche fiscali e così via. Questa impostazione ha sicuramente un fondo di realtà, perché il Diritto del lavoro è un diritto della produzione, che influenza le dinamiche organizzative, la produttività, i costi diretti (retribuzione e oneri sociali) e indiretti (tutele normative più o meno limitative delle prerogative manageriali), i profitti di ogni singola impresa ecc.
Senza dimenticare i profili macroeconomici condizionati da questa branca del diritto, in rapporto ad esempio alla domanda aggregata di beni e servizi, al livello delle entrate fiscali (legate alle risorse distribuite dai contratti collettivi nazionali di lavoro), alla limitazione della concorrenza, alla regolazione del mercato del lavoro (politiche attive e capacità di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro), al rapporto tra salari e tasso di occupazione e disoccupazione e così via.
Tuttavia, la pretesa che il Diritto del lavoro possa avere una funzione essenziale nello sviluppo economico di un Paese e, in particolare, svolgere un ruolo determinante nei livelli di occupazione e di disoccupazione è assolutamente priva di riscontri empirici ed esprime una concezione che enfatizza oltre misura la funzione del diritto in generale – e di quello del lavoro in particolare – nell’ambito economico. Tale ruolo, in realtà, è assai limitato e non può certo sostituire gli strumenti tipici della politica economica (politiche di bilancio, fiscali, monetarie, sostegno economico alla domanda aggregata ecc.). Alcune regole in materia di lavoro possono indubbiamente avere un riflesso di tipo economico, ma in una misura molto più ridotta di quanto si è cercato di sostenere, con una accentuazione che, a ben vedere, rispecchia la impossibilità o difficoltà di utilizzare altri strumenti - come le politiche keynesiane di sostegno alla domanda aggregata e basate sul deficit spending o le svalutazioni competitive della moneta – che hanno caratterizzato lunghi periodi storici del nostro paese. Il Diritto del lavoro, in questo contesto, è stato chiamato a svolgere una funzione di supplenza di interventi di politica economica non più realizzabili o di minore impatto rispetto al passato con risultati economici che, a consuntivo, si sono rivelati deludenti.
La riforma costante del contratto a termine, peraltro, esprime anche il valore attribuito alla flessibilità del lavoro che, per oltre 25 anni, ha costituito, anche a livello europeo, il mainstream della materia. È evidente, infatti, che in sistemi giuridici in cui tutti i diritti dei lavoratori – considerati quali “rigidità” da rimuovere – sono prevalentemente incentrati sul contratto di lavoro a tempo indeterminato, il rapporto a termine è una alternativa valida ad un contratto standard considerato come eccessivamente tutelato e la maggiore diffusione del primo potrebbe incrementare la flessibilità del sistema, con tutti i presunti effetti positivi che ne possono scaturire. Anche in questo caso, la realtà ha smentito questa impostazione. Oggi anche le organizzazioni internazionali che maggiormente aveva sostenuto queste idee (Ocse, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea) sono arrivate ad ammettere che la flessibilità del lavoro non produce gli effetti promessi sull’occupazione. Ed anzi, al contrario, una diffusione eccessiva di rapporti a termine può produrre conseguenze negative sui livelli di produttività, sugli investimenti formativi e quindi sulla stessa qualità del lavoro, inteso quale strumento fondamentale di creazione di valore per le imprese.
I fattori descritti sono dunque all’origine della “riforma continua” del rapporto a tempo determinato che ha caratterizzato gli ultimi 40 anni. Inoltre, la egemonia della lettura economica del diritto che ha caratterizzato questo lungo periodo ha causato una alterazione della funzione giuridica del contratto a termine, trasformato da modello contrattuale diretto a soddisfare esigenze temporanee di lavoro delle imprese e dei lavoratori a strumento di creazione di occupazione. Il tutto, in una concezione che considera l’occupazione prevalentemente sotto il profilo quantitativo (in base al noto aforisma che è meglio un lavoro non stabile che la disoccupazione), senza considerare che la qualità del lavoro – oltre ad essere fondata sulla nostra Costituzione e sulle tutele garantite dalle Carte dei diritti fondamentali a livello europeo – è un presupposto essenziale per una migliore produttività e qualità dei processi e dei prodotti delle imprese. Non è un caso, infatti, che il nuovo paradigma della impresa e dello sviluppo sostenibile si basino proprio sulla valorizzazione del lavoro quale strumento di realizzazione delle finalità sociali e produttive connesse al concetto di “sostenibilità”.
Le condizioni descritte spiegano perché il processo di liberalizzazione del contratto a termine, che si era svolto anche negli anni ’80 e ’90 ma con maggiore moderazione e filtrato anche dal controllo sindacale, si è particolarmente accentuato dal 2001 al 2018, con riduzione dei vincoli normativi e ampliamento delle sue possibilità di utilizzazione (salvo qualche intervento in controtendenza, come quello realizzato con la legge n. 247 del 2007). In sostanza, nel periodo di tempo indicato, le riforme del contratto a termine hanno avuto la finalità di assicurare alle imprese le assunzioni a termine come strumento generale e privilegiato di accesso al lavoro allo scopo di: a) consentire di testare le capacità professionali e le caratteristiche personali del lavoratore per periodi temporali più lunghi rispetto ai periodi di prova previsti dai CCNL; b) evitare i limiti giuridici connessi al licenziamento; c) in situazioni caratterizzate da incertezza economica e fluttuazioni nella domanda provenienti dal mercato, escludere l’inserimento in organico di lavoratori stabili, mantenendo una quota elevata di dipendenti temporanei.
Senza dubbio gli enormi processi di cambiamento che hanno caratterizzato i sistemi economici e i modelli organizzativi delle imprese nella parte finale del XX secolo e nei primi 25 anni di quello in corso hanno modificato la struttura della domanda di beni e servizi, con una maggiore alternanza nei flussi di intensità della produzione delle imprese, caratterizzati da picchi più elevati di attività, seguiti da periodi meno intensi. Vi era quindi l’esigenza di un uso diverso dei contratti a termine per fare fronte a queste nuove esigenze produttive, riducendo le eccessive limitazioni al suo ricorso che avevano caratterizzato alcune normative degli anni ’60 e ’70. Tuttavia, il processo che si è realizzato è andato ben al di là di questa necessità di adeguamento normativo e si è tradotto in una liberalizzazione eccessiva della disciplina, escludendo la mediazione sindacale e trasformando il contratto a termine in un modello contrattuale tendenzialmente fungibile con il lavoro stabile, con effetti economici importanti, che esaminerò in seguito.
Silvia Ciucciovino sottolinea come sarebbe scorretto collegare la diffusione del contratto a termine al fenomeno della precarietà, visto che essa sarebbe propria delle forme di lavoro irregolare meno tutelate. Non vi è dubbio che il rapporto a tempo determinato sia più protettivo per i lavoratori rispetto al lavoro “in nero” o anche ad alcune modelli contrattuali tipizzati dalla legge (si pensi al lavoro intermittente o a quello occasionale). Tuttavia, non va dimenticato che molti studi empirici hanno messo in evidenza come i dipendenti a termine abbiano di fatto retribuzioni inferiori a quelli stabili, nonostante la legge non consentirebbe questa differenziazione, espressamente vietata. Inoltre, le analisi sociologiche ed economiche hanno messo in rilievo come la reiterazione dei contratti a tempo determinato, consentita dalla disciplina vigente, può realizzare la cosiddetta “trappola della precarietà”. I lavoratori che per anni sono utilizzati con rapporti a termine, anche per i minori investimenti in formazione (che, per il loro costo e per l’attesa da parte dell’impresa di poterli utilizzare, sono generalmente destinati ai dipendenti stabili), hanno meno possibilità di essere assunti con contratti a t. indeterminato, con tutte le conseguenze annesse in termini di incertezza del reddito, minore possibilità di pianificare il proprio futuro, incremento nel gap di professionalità ecc.
Nel periodo antecedente alla introduzione del d.lgs. n. 81/2015, Silvia Ciucciovino descrive la riforma del 2001, con l’abbandono della tecnica della flessibilità negoziata dalla mediazione collettiva e l’introduzione di una causale legata a ragioni di carattere tecnico ed organizzativo. La Collega rileva poi come questa riforma abbia determinato un processo di notevole incremento del contenzioso caratterizzato da un forte soggettivismo delle decisioni giudiziali, ispirate ad opzioni di valore che avrebbero dovuto essere escluse nella interpretazione della disposizione. Si afferma, inoltre, che la giurisprudenza ha avuto “una crisi di rigetto nei confronti della riforma del 2001”, che ha ridotto in modo consistente l’intento di liberalizzare l’uso del contratto a termine e, dopo un quindicennio, ha adottato una interpretazione fortemente restrittiva della nuova normativa, reintroducendo in via giudiziale i vincoli che si era voluto evitare, in particolare tramite la riaffermazione della temporaneità delle ragioni tecniche ed organizzative previste dal d.lgs. n. 368/2001.
Rilevo, in primo luogo, che l’utilizzazione di norme “aperte” o a contenuto elastico non può che necessariamente ampliare la discrezionalità del giudice nella interpretazione delle stesse, rispetto a fattispecie più specificamente regolate. Tuttavia, l’uso di disposizioni con queste caratteristiche è ormai una tecnica ampiamente diffusa in tutti i settori del diritto e si lega a fattori di evoluzione dei sistemi normativi che rendono sempre più difficile ipotizzare una regolazione per fattispecie molto dettagliate, per ragioni diverse e che qui non posso esaminare (tra cui, comunque, la difficoltà di regolare con disposizioni molto particolareggiate una realtà in evoluzione rapidissima, che rende subito obsolete norme appena emesse). Inoltre, nel Diritto del lavoro la presenza di norme con queste caratteristiche è da sempre assai diffusa e senza che tale tecnica sia stata mai oggetto di critiche assai accentuate come nel caso del contratto a termine. Il caso sicuramente più significativo è quello della giusta causa e del giustificato motivo di licenziamento, dove la funzione della giurisprudenza nel dare contenuto a tali norme aperte è assai ampia. Ma gli esempi potrebbero continuare, perché disposizioni simili caratterizzano tutta la produzione normativa italiane (e anche europea).
La critica alla interpretazione della giurisprudenza basata su opzioni di valore non considera che questa tecnica interpretativa è un portato ineludibile della trasformazione del processo di ascrizione di un significato ad una norma, che è oggi un metodo aperto dove – secondo gli insegnamenti della ermeneutica giuridica – i valori sono parte integrante del processo, anche per la possibilità per il giudice di adottare direttamente una interpretazione costituzionalmente ed eurounitariamente orientata di una disposizione, accedendo a testi (Costituzione, Trattati) che sono fortemente impregnati di principi e valori a cui essi si ispirano. Senza dimenticare che anche norme sulla interpretazione legate a diversi periodi storici – come l’art. 12 delle preleggi – nell’attribuire rilievo alla “intenzione del legislatore” danno spazio proprio alle finalità perseguite dalla legge e alle scelte di valore ad essa sottese. Il problema, dunque, non è quello di una “interpretazione per valori”, che è ormai un dato acquisito delle tecniche interpretative, quanto la giustificazione che il giudice è in grado di dare sia sulla selezione dei valori, sia sulla loro utilizzazione nella lettura della disposizione sottoposta al suo giudizio, che è espressione del principio della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali previsto dall’art. 111, c. 6, Cost.
La tesi secondo cui la giurisprudenza avrebbe “remato contro” la riforma, limitandone la portata liberalizzatrice e reintroducendo presupposti (come la temporaneità) non previsti dalla legge, non mi trova d’accordo. La verità è che la tesi sostenuta da una parte della dottrina, secondo cui il “causalone” previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 consentiva di stipulare il contratto in presenza di ragioni oggettive ma non temporanee, era difficilmente sostenibile. La formulazione letterale della disposizione, letta in connessione con la disciplina del lavoro stabile e con i valori costituzionali ed eurounitari esistenti, rendeva implausibile tale interpretazione. Essa, tra l’altro, anche in considerazione della assenza di limiti temporali massima alla durata del contratto, avrebbe consentito di instaurare rapporti a termine per periodi lunghissimi, rendendo di fatto questa tipologia contrattuale del tutto identica alle assunzioni a t. indeterminato, in palese contraddizione con la Direttiva 1999/70/Ce, che il d.lgs. n. 368/2001 ha implementato nell’ordinamento nazionale. La fonte europea, infatti, afferma che la “forma comune” dei contratti è quella senza limite di durata. E non è un caso che la giurisprudenza della Corte di giustizia europea abbia costantemente affermato, negli anni successivi alla sua emanazione, che la Direttiva andava interpretata nel senso di consentire la stipulazione di contratti temporanei e non tali da sostituire il lavoro stabile. La giurisprudenza italiana, e in particolare la Cassazione, non ha potuto fare altro che adeguarsi alla interpretazione più coerente con una lettura della normativa all’interno del sistema giuridico italiano ed europeo.
V. A. Poso. Soffermiamoci sul d. lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, emanato in attuazione dell’art. 1, c. 7, della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, che si inserisce nel complessivo disegno riformatore
- da molti non condiviso - del Jobs Act. Quali sono i punti salienti di questa disciplina, stando al testo originario del decreto legislativo?
V. Speziale. Il d.lgs. n. 81 del 2015, nella sua impostazione originaria, segna una netta cesura con la disciplina precedente meno recente. Il contratto a termine, che dagli anni ’60 in poi era sempre stato caratterizzato dalla presenza di una ragione giustificativa, diventa “acausale”. Il datore di lavoro ha solo un limite temporale massimo di 36 mesi, che peraltro può essere derogato in senso migliorativo o peggiorativo dai contratti collettivi e, comunque, esteso di altri 12 mesi in sede di negoziazione assistita. Inoltre, la normativa, oltre alla possibile e fondamentale modifica alla durata massima del rapporto, riattribuisce alla autonomia collettiva poteri regolatori e/o derogatori importanti, in materia di individuazione delle ipotesi di lavoro stagionale (art. 21, c. 2), di deroga ai limiti quantitativi nelle assunzioni a termine (art. 23, c. 1 e c. 2, lett. a) e in tema di diritto di precedenza (art. 24, c. 1), in relazione alla formazione dei lavoratori a termine (art. 26), per l’individuazione dei casi di servizi speciali nel settore turismo e pubblici esercizi di durata non superiore a tre giorni ed esentati dalla applicazione della disciplina generale sul termine (art. 29, c. 2, lett. b).
Le nuove regole segnano, innanzitutto, il passaggio da un controllo qualitativo sulle ragioni tecniche e organizzative ad uno prevalentemente quantitativo. Lo scopo perseguito è, in primo luogo, quello di eliminare la verifica giudiziaria sulla causale del contratto, escludendo il principio della temporaneità delle esigenze di lavoro a termine, che si era ormai consolidato nella giurisprudenza. L’intento di liberalizzare il rapporto e di depotenziare una interpretazione giurisprudenziale che ne restringeva l’utilizzo è assolutamente evidente. In alcuni commenti si è messo in evidenza che la riforma intendeva ridurre le incertezze applicative espresse dai giudici, che, in realtà, nel 2015 avevano trovato un loro assetto abbastanza consolidato e con un grado di indeterminatezza non certo superiore a quello presente nella giurisprudenza in materia di licenziamento o in altre ipotesi. In verità, questa sfiducia nel controllo giurisdizionale e la volontà di ridurre la discrezionalità del giudice è una finalità perseguita dalla legislazione del 2015 in generale, come dimostrano le vicende del d.lgs. n.23/2015 sul contratto a tutele crescenti, caratterizzato da tecniche normative che limitano il controllo del magistrato e, attraverso la diminuzione delle tutele, favoriscono discipline che consentono un’esatta predeterminazione dei costi sostenuti dalle imprese. Certezza del diritto e riduzione del contenzioso sono gli obiettivi fondamentali da perseguire, anche se determinano un sensibile decremento dei diritti dei lavoratori.
La vera finalità della riforma del 2015 era comunque un'altra: trasformare il contratto a termine, da strumento se non eccezionale quantomeno derogatorio rispetto alla “forma comune” del rapporto stabile, in un modello contrattuale del tutto fungibile rispetto al contratto a t. determinato. Nel limite massimo di 36 mesi, estensibile ulteriormente dai contratti collettivi senza “tetti massimi” e con la possibilità di ulteriori 12 mesi in sede di negoziazione assistita, si eliminava qualsiasi distinzione basata sulle ragioni organizzative dell’impresa o personali del dipendente. Il datore di lavoro poteva assumere a termine con più contratti e nei limiti massimi previsti dalla legge o dal contratto collettivo per soddisfare esigenze di lavoro stabile. In questo caso, gli obiettivi già descritti (testare il lavoratore per un periodo assai più lungo dei periodi di prova previsti dalla legge e dai Ccnl; bypassare i vincoli giuridici previsti per i licenziamenti individuali e collettivi; creare una quota fissa di personale a termine, indipendentemente dalla sussistenza di bisogni di lavoro temporaneo) sono stati la finalità principale perseguita dal legislatore.
In ogni caso, dal punto di vista delle tecniche normative, la eliminazione di una distinzione funzionale tra lavoro a termine e a t. indeterminato costituisce una vera e propria rottura con il passato. Essa, da un lato, ribadisce l’utilizzazione del contratto a termine come strumento di incremento della occupazione, che si sperava favorita dalla eliminazione della causale e del controllo giurisdizionale. Un sistema che, come vedremo, ha contribuito in modo rilevante ad aumentare la diffusione di contratti privi di stabilità. Inoltre, la finalità è quella di aumentare in modo consistente la flessibilità organizzativa delle imprese, indipendentemente dal carattere stabile o meno della esigenza di lavoro, e con possibilità di favorire un maggiore turn over nei livelli occupazionali.
Il limite dimensionale del 20 per cento dei lavoratori stabili costituiva, indubbiamente, un deterrente importante ad una espansione incontrollata del lavoro a t. determinato. Tuttavia, le numerose deroghe previste dalla legge per ipotesi escluse da limitazione quantitative (art. 23, c. 2) e soprattutto il potere derogatorio affidato ai contratti collettivi di qualunque livello estenderanno in materia significativa il tetto quantitativo, ampliando in misura significativa la diffusione del contratto a termine. L’evoluzione della contrattazione collettiva successiva alla emanazione della legge, sia a livello nazionale e soprattutto a livello decentrato, comporterà un innalzamento significativo dei tetti quantitativi. Per quanto attiene i contratti aziendali, vi sono stati casi dove il limite è stato incrementato in misura assai rilevante, arrivando al 70/80 per cento dell’intero organico dell’impresa.
La riforma del 2015, già anticipata da precedenti normative, come si è visto ha attribuito funzioni importanti alla autonomia collettiva. Tuttavia, in coerenza con l’ispirazione complessiva della riforma, il sindacato non poteva esercitare un controllo sulle ragioni economiche ed organizzative (aggiungendovene altre o specificando quelle legali), ma solo sulla quantità dei contratti. L’autonomia collettiva, inoltre, aveva un ampio potere derogatorio alle discipline legali in molte materie (intervalli temporali tra un contratto e l’altro, periodo massimo di trentasei mesi, diritto di precedenza). La deroga avrebbe potuto anche essere migliorativa. Tuttavia, come sottolineato da un’autorevole dottrina, la legge aveva attribuito al sindacato un potere contrattuale “in salita” e assai difficile da esercitare. Nella misura in cui, infatti, le deroghe avrebbero inciso sulla utilizzazione del contratto e sulle opportunità occupazionali che esso offriva, le organizzazioni sindacali hanno avuto forti difficoltà a contrastare le esigenze di una utilizzazione più ampia dal punto di vista quantitativo e più estesa sotto il profilo temporale di questa tipologia contrattuale.
L’alternativa, infatti, era quella di impedire l’assunzione di lavoratori, seppure a termine, con il rifiuto di opportunità di lavoro difficili da giustificare nei confronti dei lavoratori iscritti e non ai sindacati. E non è un caso che molti Ccnl, in settori economici importanti, hanno ampliato i tetti quantitativi e anche il periodo massimo di 36 mesi, consentendo di stipulare contratti a termine per periodi di 4 o 5 anni (a volte con tetti massimi previsti, insieme, per termine e somministrazione a t. determinato) e, in alcuni casi, hanno addirittura eliminato qualsiasi vincolo massimo di durata. Inoltre, come si è detto, questa tendenza alla disciplina più favorevole alle imprese si è manifestata anche a livello aziendale, con deroghe ancora più accentuate.
La riforma del 2015, in conclusione, oltre a mutarne natura e funzione, ha determinato una decisa liberalizzazione del contratto a termine, dimostrata anche dai dati statistici successivi al 2015, come vedremo.
La nuova disciplina, inoltre, ha posto problemi di compatibilità con la Direttiva 1999/70/CE, il cui rispetto, alla luce della prevalenza del diritto europeo su quello nazionale, deve sempre essere garantito. La Direttiva, finalizzata a prevenire l’abuso nella utilizzazione del contratto a termine, ha previsto tre modalità alternative di regole dirette a raggiungere tale scopo. Da questo punto di vista, la normativa introdotta dal d.lgs. n.81/2015 ne prevede due (la durata massima totale dei contratti e il numero delle proroghe, che, pur diversi, sono assimilabili ai rinnovi). Essa, quindi, sembra perfettamente in linea con la disciplina europea. Tuttavia, la Corte di giustizia (CGE) ha con molte sentenze affermato che la normativa nazionale che attua la Direttiva non debba essere tale da soddisfare esigenze di lavoro “permanenti e durevoli”. Tale limite opera, a giudizio della CGE, anche se vi sono due delle misure previste dalla fonte europea, come la presenza di ragioni obiettive e la durata massima dei contratti a termine successivi. Infatti, anche singole necessità oggettive temporanee non escludono l’abuso se, complessivamente considerate, sono tali da soddisfare esigenze lavorative non transitorie, tranne l’ipotesi della sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto.
Le regole introdotte dal d.lgs. n. 81/2015, nella sua versione originaria, prevedevano la totale “acausalità” del contratto a termine, dei rinnovi e delle proroghe e una durata complessiva di utilizzazione molto ampia (36 mesi). Il limite temporale - nel caso di successione di rapporti - poteva essere ulteriormente esteso dalla contrattazione collettiva (o addirittura, come è accaduto, del tutto rimosso). La normativa, pertanto, di fatto consentiva l'uso di rapporti a termine per soddisfare esigenze stabili di lavoro, sia in considerazione della piena fungibilità tra tempo determinato e indeterminato - pur nel limite massimo previsto dalla legge o dai contratti collettivi - sia in considerazione di altre regole normative che consentono di estendere in modo significativo la durata dei contratti (ad esempio, con il semplice mutamento di mansioni). In tale contesto, inoltre, le norme sul contingentamento dei lavoratori assunti a termine non potevano svolgere alcuna funzione, perché esse non escludevano che i contratti stipulati potessero soddisfare stabili esigenze organizzative. Questo potenziale contrasto con la Direttiva, tuttavia, non ha originato un contenzioso né a livello nazionale, né a quello europeo.
S. Ciucciovino. Con il d. lgs. n. 81/2015 si procede ad una netta modifica, rispetto all’impianto del 2001, dei limiti sostanziali di ricorso al contratto a termine. Si inaugura una fase in cui l’assunzione a termine è acausale, cioè non più sottoposta a limiti sostanziali di carattere qualitativo (legati, come in passato, alle ragioni giustificative oggettive che avevano sviluppato tanto contenzioso), bensì assoggettata unicamente a limiti quantitativi di utilizzo, di agevole determinazione. Ciò ha determinato, più che una liberalizzazione del lavoro a termine, una tecnica di controllo e governo diversa dal passato, più quantitativa e meno qualitativa, sicuramente più certa e meno soggetta al sindacato giudiziale. In particolare i limiti quantitativi riguardano; la durata del singolo contratto (inizialmente 36, poi 24 mesi); la successione di più contratti con il medesimo lavoratore (inizialmente 36, poi 24 mesi); la proporzione in percentuale degli assunti a termine rispetto agli assunti a tempo indeterminato, infatti, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, non possono essere assunti lavoratori a tempo determinato in misura superiore al 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione.
La tecnica legislativa di regolazione e contenimento dei contratti temporanei (ma più in generale di tutte le tipologie flessibili) con il Jobs Act si caratterizza per il netto abbandono della norma generale ed elastica a contenuto indeterminato – che lasciava ampio spazio alle incertezze applicative e ad una valutazione e apprezzamento qualitativo della flessibilità da parte del giudice - per imperniarsi esclusivamente su limiti di carattere quantitativo, certi e agevolmente verificabili (percentuali massime e durata del singolo contratto o di più contratti in successione) che consentono di demarcare molto più agevolmente del passato i confini del lecito utilizzo dei contratti flessibili e praticamente azzerano ogni sindacato giudiziale sulla motivazione economica sottostante alla scelta datoriale di ricorso al lavoro temporaneo.
Con il d. lgs. n.81/2015 viene inoltre realizzato un riassetto complessivo delle fonti di disciplina dei contratti flessibili, con la restituzione di un considerevole spazio all’autonomia privata collettiva nella regolazione della flessibilità, con disposizioni che si configurano come vere e proprie deleghe in bianco al contratto collettivo, sul modello della flessibilità negoziata degli anni ’80/’90 del secolo scorso. Il contratto collettivo così ha potuto in questa materia riprendere a svolgere un ruolo essenziale e forse ancor più rilevante del passato. L’apertura all’intervento della autonomia collettiva è veramente considerevole, anche comparato alla stagione della flessibilità negoziata, sia per la facoltà concessa al contratto collettivo di integrare la disciplina legale e di derogarla anche in pejus, sia perché tale potere è riconosciuto non più soltanto al contratto nazionale, bensì a tutti i livelli contrattuali, con un rinvio ampio ai “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e [a]i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria” (art. 51, d. lgs. n. 81/2015).
In realtà, non si può comprendere la portata della modifica della disciplina del contratto a termine del 2015 se non si guarda al più complessivo disegno riformatore del Jobs Act. Il cuore della riforma messa in campo dal Jobs Act, infatti, ruota attorno al riposizionamento del contratto di lavoro a tempo indeterminato al centro del sistema del diritto del lavoro per restituirgli la perduta primazia. Una posizione dalla quale, al di là delle formali declamazioni del legislatore, era stato obiettivamente scalzato anche dalla stessa produzione legislativa dell’ultimo ventennio, tutta tesa ad iniettare dosi di flessibilità al margine del contratto a tempo indeterminato, attraverso la creazione di alternative più o meno convenienti a quest’ultimo.
Non occorre essere acuti osservatori dei fenomeni giuridico-sociali per riconoscere che lo sviluppo abnorme della flessibilità tipologica e – segnatamente – di quella caratterizzata dalla temporaneità dell’impiego, ha ingenerato negli ultimi anni almeno due grandi distorsioni nell’utilizzo dei rapporti di lavoro temporanei: a) in primo luogo il termine contrattuale è stato utilizzato, spesso e volentieri, come surrogato del licenziamento, come vera e propria via di fuga dalle strettoie e dai costi di separazione dal contratto a tempo indeterminato connessi al licenziamento illegittimo; b) in secondo luogo la domanda di flessibilità espressa dal sistema produttivo ha trovato indulgente risposta proprio dal legislatore che l’ha convogliata nel canale della flessibilità numerica o esterna, grazie alla previsione di una pluralità di tipologie contrattuali temporanee.
Di questa miope scelta di politica del diritto in definitiva i lavoratori a termine, specie i più giovani, hanno pagato il prezzo più alto. Ma anche l’autonomia collettiva ha le sue responsabilità, perché sui temi centrali della flessibilità interna del contratto di lavoro subordinato standard – inquadramenti, orari e retribuzioni – non si può certo dire che i contratti collettivi abbiano messo a frutto gli ampi margini di governo di cui da sempre dispongono e che avrebbero potuto forse utilizzare di più per rispondere in modo condiviso ai bisogni di flessibilità del sistema produttivo e di accrescimento della produttività.
Questo contesto ha favorito la precarietà del lavoro ma soprattutto ha contribuito ad inquinare o viziare, se così si può dire, l’utilizzo pur formalmente legittimo dei rapporti di lavoro temporanei. La correzione di queste distorsioni è stata inevitabilmente lasciata nelle mani di una magistratura che ha acquisito un ruolo rilevantissimo (e forse eccessivo) nel controllo della dose di flessibilità legittimamente attingibile dal sistema economico.
Al di là del giudizio che se ne possa dare nel merito, è indubbio che il Jobs Act abbia gettato le basi per uno stravolgimento completo delle condizioni di contesto appena rammentate.
V. A. Poso. Sta di fatto che, almeno a leggere l’art. 1, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, sin dalla sua rubrica: «Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro». È così, nella sostanza? Quanto incidono i contratti a termine nel complesso delle assunzioni?
S. Ciucciovino. Con i Jobs Act si è voluto incidere su alcuni dei principali fattori di condizionamento responsabili dell’utilizzo improprio dei contratti temporanei degli anni precedenti. In particolare, da un lato, ha introdotto una maggiore flessibilità in uscita dal contatto a tempo indeterminato standard (contratto a tutele crescenti) grazie alla sostituzione dell’art. 18 con un nuovo sistema rimediale economico per il licenziamento illegittimo (anche questo oggetto oggi di requisito referendario) e, dall’altro lato, ha introdotto rilevanti dosi di flessibilità funzionale interna al rapporto di lavoro che, nel disegno del legislatore, avrebbero dovuto innescare un processo di attrattività e ri-centralizzazione del contratto a tempo indeterminato. Tutto ciò avrebbe dovuto creare le premesse, nell’intenzione del legislatore, per depurare il contratto a termine da utilizzi strumentali, cioè volti all’aggiramento della disciplina limitativa del licenziamento dal contratto a tempi indeterminato, con l’intento di riportare il ricorso al contratto a termine ad un impiego fisiologico e non più sostitutivo del lavoro a tempo indeterminato.
Può dirsi riuscito questo proposito? Il tentativo di riforma dell’art. 18,St.Lav., è stato fortemente intaccato dalla Corte Costituzionale. Inoltre, sul piano delle flessibilità interne al rapporto di lavoro, l’autonomia collettiva non ha saputo sempre cogliere adeguatamente le sfide lanciate dal legislatore e non si è appropriata – come avrebbe potuto fare - della modernizzazione della disciplina del lavoro subordinato standard (basti pensare all’enorme ritardo con cui i CCNL hanno messo mano agli inquadramenti, senza dare adeguato seguito alla modifica dell’art. 2103 c.c.). Quindi due assi portanti dell’intero disegno di riforma in cui si inseriva la nuova disciplina del contratto a termine - flessibilità interne e flessibilità in uscita dal contratto a tempo indeterminato - sono stati fortemente indeboliti.
Dal punto di vista quantitativo le ricerche condotte dall’Osservatorio sul mercato del lavoro da me coordinato presso l’Università Roma Tre, che elabora dati forniti dal Ministero del lavoro, mettono in evidenza come la quota dei contratti a tempo determinato sulle attivazioni complessive (dati di flusso) è rimasta elevata e cresciuta dal 2010 al 2023 passando dal 56% del 2010 a valori intorno al 60% intorno al 2020 per attestarsi a circa il 67% nel 2023 e 2024. La quota delle attivazioni con contratti a tempo indeterminato si è ridotta nel tempo (eccetto un picco del 19,6% nel 2015), passando dal 16,5% del 2010 all’11,7% del 2017, per poi riprendere un trend leggermente crescente dal 2018 attestandosi al 12.5% nel 2023.
Se guardiamo ai dati di stock, il numero di persone occupate con un contratto a tempo indeterminato nel 2023 ha raggiunto uno storico picco di 15,57 milioni, l’84,2% dei lavoratori dipendenti. I lavoratori occupati con contratto a termine nel 2023 sono stati 2,97 milioni, pari al 15,8% del totale dei lavoratori dipendenti. Il dato è lievemente in calo rispetto al 2022, quando i lavoratori a termine superavano i 3 milioni ed erano pari al 16,8% del totale.
Guardando alla situazione occupazionale a 24 mesi degli assunti con contratto a termine si nota che, considerando i lavoratori attivi con un contratto a termine nel primo trimestre del 2022 (tra i 25 e i 55 anni), dopo 24 mesi circa il 30% risultava non essere più occupato con un contratto di lavoro dipendente. Il 24,4% risultava essere occupato con un contratto a tempo indeterminato, mentre il 39,7% con un contratto a tempo determinato.
I dati ci parlano, quindi, di un mercato del lavoro molto dinamico, ma non certo totalmente precarizzato. Guardando ai dati di stock la quota dei tempi determinati rispetto agli assunti a tempo indeterminato si attesta ampiamente al di sotto di quella soglia del 20% che il legislatore individua come una proporzione accettabile di ricorso al tempo determinato.
V. Speziale. Il d.lgs. n. 81 del 2015 aveva la finalità di incrementare l'occupazione attraverso la riforma della disciplina dei licenziamenti individuali (come risulta da quanto espressamente affermato nella legge delega) e rendendo più flessibili le assunzioni a termine. In relazione al primo aspetto, la nuova disciplina partiva dall'assunto - sostenuto dai teorici della Law & Economics - secondo cui regole troppo vincolanti in materia di licenziamento avrebbero ostacolato le assunzioni, con la conseguenza che la diminuzione di tutele avrebbe favorito la diffusione del lavoro stabile quale “forma comune”. Questa teoria, smentita dalla letteratura prevalente in materia economica, non ha trovato nessun riscontro empirico, con particolare riferimento al mercato del lavoro italiano, dove studi e ricerche approfonditi compiuti nell'arco di oltre un trentennio hanno addirittura messo in evidenza come tale mercato ha una struttura definita come “liquida”, perché caratterizzata da un turnover assai elevato nella creazione e distruzione di posti di lavoro. E le stesse vicende successive all'emanazione del decreto legislativo hanno confermato tale aspetto, nella misura in cui la consistente crescita dei rapporti di lavoro stabili realizzata subito dopo il d.lgs. 23/2015 è stata determinata non dalle modifiche della disciplina dei licenziamenti ma dagli elevati incentivi economici per le assunzioni a t. indeterminato, con un processo che si è interrotto non appena essi sono terminati (anche per gli alti costi incidenti sul bilancio dello Stato).
A parte tale aspetto, l'idea di ridare centralità al lavoro stabile è stata palesemente contraddetta dalla evidente riforma del contratto a termine, che ne ha ampliato in modo significativo la possibile diffusione. Il che dimostra una certa confusione nel disegno ispiratore del Jobs Act, che peraltro può essere compresa qualora le due riforme vengano lette insieme e inquadrate nel reale intento perseguito dal legislatore: diminuire le tutele in materia di licenziamento e rendere più agevole l'utilizzazione del contratto a termine. Si tratta di finalità che ben poco hanno a che vedere con l'obiettivo di riaffermare il lavoro subordinato a tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro.
Per quanto riguarda l’incidenza dei contratti a termine sulle assunzioni, i dati messi in evidenza da Silvia Ciucciovino rivelano una crescita costante di questa tipologia contrattuale dal 2010 al 2024 (dal 56% al 67%), con una riduzione delle attivazioni di lavoro stabile (passate dal 16,5% nel 2010, al 12,5% nel 2023). In tempi più recenti, l’Osservatorio sul mercato del lavoro della Università Roma Tre mette in evidenza percentuali che si collocano tra il 16,8% (2022) e il 15,8% (2023), pur in presenza di un elevata quantità di rapporti stabili. I dati sono in linea con la media europea, che si colloca intorno al 16% nel 2018 e nel 2022 (in base a dati Eurostat) è del 14%. In Italia, secondo l’Istat e con riferimento al 2024, le assunzioni a termine sono pari al 14,69 rispetto a tutti i lavoratori dipendenti. Altre fonti di rilevazione mettono in evidenza aspetti ulteriori. I dati Inps – aggiornati a marzo 2025 - affermano che, nel 2023, sul totale delle assunzioni effettuate (5.089.321), quelle a termine sono pari al 73,15% (3.722.959). Nel 2024, le assunzioni complessive sono pari a 4.962.658 e quelle a t. determinato sono il 74,36% (3.690.359), in un contesto dove, secondo le elaborazioni del Ministero del lavoro riferite alle comunicazioni obbligatorie gennaio – settembre 2024 e considerando tutte le tipologie contrattuali (t. determinato, collaborazioni, lavoro a chiamata, stagionale, somministrazione), le assunzioni stabili sono solo il 16%, mentre i contratti temporanei restano il principale canale di accesso al lavoro.
Si può dunque rilevare che, mentre la percentuale dei lavoratori a termine è abbastanza elevata ma coerente con la media europea, il fattore più rilevante è l’elevatissima quantità di assunzioni a tempo determinato (effettuate anche in relazione al medesimo lavoratore) rispetto a quelle stabili. E poiché è assai difficile poter ritenere che dati così elevati siano collegati ad effettive esigenze di lavoro temporaneo, vi è la dimostrazione evidente della utilizzazione impropria del contratto a termine. Esso è usato come tipologia contrattuale di ingresso nel mondo del lavoro e anche per soddisfare ragioni stabili di lavoro, con la distorsione funzionale di cui ho già parlato in precedenza.
Inoltre, come rileva la Banca d’Italia nella Relazione annuale del 2023 (p. 109), “nonostante l’incidenza del lavoro a termine sia scesa nel corso dell’ultimo quadriennio, principalmente nella fascia di età tra 15 e 34 anni, essa resta comunque molto più alta rispetto all’inizio degli anni duemila. Circa l’80 per cento dei lavoratori con un contratto a tempo determinato non viene stabilizzato entro due anni dall’assunzione: il 30 per cento rimane occupato con un altro contratto a termine e il restante 50 non risulta più impiegato alle dipendenze. Secondo nostre analisi ciò è dovuto al fatto che un numero significativo di imprese, anziché stabilizzare il personale già assunto con contratti di tipo temporaneo, preferisce assumere nuovi lavoratori a termine. Il fenomeno si concentra in alcune aziende che utilizzano sistematicamente contratti di breve durata, in particolare nei comparti delle costruzioni, dell’alloggio e ristorazione e delle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento, in larga misura indipendentemente dalla stagionalità dell’attività”.
Dunque, la riforma del 2015 (insieme a quelle immediatamente precedenti) ha sicuramente inciso sull’incremento complessivo dei contratti a tempo determinato rispetto all’inizio del secolo e ha favorito quella che ho definito la “trappola della precarietà”, oltre a concorrere alla utilizzazione di contratti di breve durata come strumento ordinario per soddisfare le proprie esigenze lavorative, come si è già detto.
Quest’ultimo profilo è messo in evidenza dalla analisi di alcuni dati. A seguito della emanazione del Decreto Dignità del 2018, che ha certamente ristretto la possibile utilizzazione del contratto a termine dopo i 12 mesi, secondo le rilevazioni del Ministero del lavoro, nei 10 mesi successivi (luglio 2018 – aprile 2019) vi è stato un consistente aumento dei rapporti a t. indeterminato (+ 11,8%) e la riduzione di quelli a termine (- 4,2%) e di quelli in somministrazione (- 26,2%, anch’essi riformati dal Decreto. Questi dati mettono in rilievo l’uso distorto del contratto a t. determinato a cui ho fatto riferimento in precedenza. Le imprese assumevano a termine pur a fronte di esigenze stabili di lavoro. Quando la legge non ha più consentito, dopo i 12 mesi, questa possibilità, esse hanno aumentato in modo molto accentuato le trasformazioni in rapporti a t. indeterminato, perché avevano sperimentato i lavoratori e ne avevano bisogno per soddisfare le necessità di lavoro stabile esistenti sin dall’origine.
In una valutazione di sintesi si può osservare che la disciplina del rapporto a termine, sia quella che ne liberalizza l’uso o che ne restringe il campo di applicazione, incide sulla ripartizione delle occasioni di lavoro tra quello stabile e quello a t. determinato, senza che influenzi il livello complessivo di crescita dell’occupazione o di riduzione della disoccupazione. Inoltre, la mancanza di causali che specifichino quando è possibile ricorrere a questa tipologia contrattuale favorisce un uso opportunistico del contratto a termine, utilizzato anche per soddisfare esigenze permanenti di lavoro, aumentando il livello di instabilità dei rapporti di lavoro e contraddicendo l’obiettivo del tempo indeterminato come “forma comune” del lavoro.
V. A. Poso Qual è il Vostro giudizio complessivo sulla disciplina normativa dei contratti a termine dopo l’intervento del legislatore del Jobs Act ?
V. Speziale. La valutazione complessiva sulla riforma introdotta dagli articoli 19 e seguenti del d.lgs. n. 81 del 2015 deve prendere in considerazione i diversi contenuti della disciplina, che, dopo l'intervento iniziale, è stata modificata più volte. Questi cambiamenti, come ho già detto, rispecchiano il ruolo attribuito al contratto a termine quale strumento di lavoro flessibile o di accesso all’occupazione. Le innovazioni introdotte dopo il 2015 sono state numerose, ma esaminerò solo quelle più importanti.
La formulazione originaria introdotta nel 2015, con un contratto a termine “acausale” e con il limite complessivo dei 36 mesi, ha concluso un processo di liberalizzazione della materia che, cominciato nel 2012, è poi proseguito nel 2014. Ho già espresso le mie considerazioni negative su tale riforma, che ha certamente contribuito ad una diffusione rilevante del numero dei rapporti a termine e a quella distorsione funzionale di questo modello contrattuale che ho già analizzato.
Nel 2018, il c.d. Decreto Dignità ha introdotto modifiche ispirate ad un netto restringimento della possibile utilizzazione del contratto a termine, con la riduzione del tetto massimo da 36 a 24 mesi, il mantenimento della acausalità del contratto nei primi 12 e la previsione di specifiche ragioni tecniche ed organizzative molto restrittive necessarie per stipulare il contratto dopo i 12 mesi e nel limite massimo di due anni. Il netto sfavore per il contratto a tempo determinato è dimostrato dal fatto che le causali necessarie per i contratti di durata superiore a 12 mesi erano talmente limitative da scoraggiare qualsiasi assunzione a termine. Si tratta di un'impostazione eccessivamente rigida da un lato e inidonea ad incidere su una reale riduzione dei contratti a termine dall’altro. La volontà di reintrodurre le causali era a mio giudizio positiva, ma era necessario non utilizzare ragioni così circoscritte, perché era sufficiente ribadire il carattere temporaneo delle ipotesi normative, in coerenza con le esigenze scaturenti dal mondo della produzione di beni e servizi. Inoltre, l’assenza di qualunque spazio alla contrattazione collettiva nella introduzione di ipotesi tecniche ed organizzative per la stipula del contratto inibiva la tecnica della “flessibilità contrattata” che aveva dato una buona prova in passato nella sua capacità di adattare la disciplina legale ai diversi contesti settoriali dell’economia. La riforma, inoltre, anche se è riuscita, in fase transitoria, a incrementare in misura consistente i rapporti di lavoro stabile (ne ho già parlato in precedenza), nel lungo periodo non era in grado di ottenere i risultati sperati. I dati del Ministero del lavoro del 2018 (riferiti al 2017) mettevano in evidenza che, nelle nuove assunzioni, vi era un’attivazione di contratti termine pari al 70% e che, tra questi, solo il 16,8% aveva una durata superiore ad un anno. Dunque, lasciare la acausalità del contratto sino a 12 mesi, significava, per il futuro, incidere solo su una quota minoritaria di rapporti a t. determinato, mantenendo praticamente immutata la situazione del mercato del lavoro. La disciplina, quindi, si poneva in contraddizione con l’intento di ridurre l’uso di questa tipologia contrattuale.
La normativa attuale ha in parte ridotto le rigidità della riforma del 2018. È stata confermata la acausalità del contratto per i primi 12 mesi e il tetto massimo di 24 mesi. Si è ridato spazio alla contrattazione collettiva (art. 19, c. 1, lett. a) e b), ma anche alla autonomia individuale in generale e in via transitoria (sino al 31 dicembre 2025) o in relazione a causali specifiche (la sostituzione di altri lavoratori). La nuova disciplina, molto enfatizzata dal Governo sotto il profilo mediatico per la sua capacità di nuova regolazione della materia, in verità ha avuto soprattutto una funzione di “immagine”. Infatti, i dati congiunti raccolti dal Ministero del lavoro (insieme ad Istat, Inps, Inail, Anpal) e riferiti al terzo trimestre 2022 (non vi sono dati più recenti), hanno messo in evidenza che i contratti a termine di durata superiore ad un anno erano solo lo 0,6 per cento del totale. Quindi, in relazione alla situazione esistente al momento della nuova disciplina legislativa (2023), l’impatto rilevante della riforma era escluso.
Dal punto di vista normativo, la riforma apre nuovamente spazio alla autonomia collettiva, reintroducendo la tecnica della “flessibilità contrattata”, che era prevista dall’art. 23 della l. n. 56/1987 e che, a mio giudizio, come ho già detto e se effettuata con determinate garanzie nella scelta dei soggetti sindacali, può svolgere una funzione positiva. I contratti collettivi di qualsiasi livello, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (o dalle rappresentanze aziendali a loro riferite o dalle RSU) possono introdurre nuove causali di contratto a termine. La formulazione della lettera a) del c. 1 dell’art. 19 lascia pensare ad una vera e propria “delega in bianco” all’autonomia collettiva (secondo la soluzione adottata dalla giurisprudenza della Cassazione – S.U. n. 4588/2006 – in relazione all’art. 23 della l. n. 56/1987). Anche se, per la prevalenza dell’ordinamento europeo e la interpretazione della Direttiva 1999/70/CE effettuata dalla Corte di giustizia europea, secondo la quale il rapporto a termine non può essere utilizzato per soddisfare esigenze di lavoro “permanenti e durevoli”, i contratti collettivi non potrebbero legittimare causali che, invece, determinassero tale effetto. Quelli esistenti al momento di introduzione della riforma hanno previsto causali oggettive, legate ad esigenze temporanee, in piena coerenza con la giurisprudenza europea. Essi hanno anche regolato esigenze di carattere soggettivo (riferite a giovani, cassaintegrati, disoccupati o inoccupati). Queste, alla luce delle sentenze della CGE, dovrebbero essere coerenti con la Direttiva, perché finalizzate al perseguimento di legittimi scopi di politica sociale (in questo caso la promozione di “soggetti deboli” sul mercato del lavoro). Anche se la Corte di giustizia ha affermato che tale legittimità è condizionata alla specificazione, da parte della legge che le introduce, della volontà di perseguire tale obiettivo. Tale esplicitazione non è contenuta nel d.lgs. n. 81/2015.
La lettera b) del c. 1 dell’art. 19 ribadisce che, in assenza dei prodotti dell’autonomia collettiva sopra indicati, le causali possono essere regolate dai “contratti collettivi applicati in azienda”. La formulazione ambigua utilizzata sembra autorizzare qualsiasi contratto collettivo, anche se stipulato da soggetti sindacali non comparativamente più rappresentativi a livello nazionale. In tal modo si legittimerebbero anche contratti sottoscritti da sindacati privi di rappresentatività, favorendo il dumping contrattuale, vista la sussistenza, nel nostro sistema, di accordi assai lontani dagli standard protettivi garantiti da quelli siglati dalle associazioni sindacali più importanti. Si sono proposte interpretazioni alternative, secondo le quali, la disposizione riguarderebbe sempre i contratti collettivi previsti dall’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015. Essa intenderebbe dire che, in mancanza di nuovi prodotti dell’autonomia collettiva emanati dopo la riforma, continuerebbero a trovare applicazione i contratti già esistenti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (o dalle rappresentanze aziendali a loro riferite o dalle RSU) e applicati in azienda. Questa interpretazione, a mio giudizio condivisibile sul piano della politica del diritto, si pone in contrasto con la formulazione letterale della disposizione e anche con una sua lettura sistematica con la precedente lettera a) del c. 1 dell’art. 19. L’interpretazione alternativa, che salva sempre il requisito della comparatività più rappresentativa, è stata fatta propria anche da una Circolare del Ministero del lavoro. Tuttavia, l’ambiguità, a mio giudizio, rimane.
La medesima lettera b) del c. 1 dell’art. 19, con una norma transitoria sino al 31 dicembre 2025 (prorogata in continuazione e che, con una tecnica tipica del nostro legislatore, potrebbe diventare permanente o essere costantemente reiterata) consente, a livello individuale, di stipulare rapporti a termine “per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”. Non mi sembra che la disposizione possa essere letta nel senso che le parti sarebbero quelle collettive (anche in questo caso in base ad una interpretazione letterale e sistematica del suo contenuto). E il riferimento ai soggetti del contratto individuale è stato sostenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 14/2025 (v. infra, l’ultimo periodo della risposta al sesto quesito). La norma, al contrario, reintroduce una sorta di “causalone” (come nel d.gs. n. 368/2001) e potrebbe riproporre tutte le questioni interpretative già analizzate. Ritengo, peraltro, che, per le ragioni che ho già analizzato e anche alla luce di quanto affermato dalla giurisprudenza della Cassazione in relazione alla omologa disposizione del 2001 (oltre che più in generale dalla CGE con riferimento alla Direttiva del 1999), le esigenze previste dalla lettera b) debbano necessariamente essere di carattere temporaneo. L’autonomia individuale, infine, con la lettera b-bis) del c. 1 dell’art. 19, conserva la possibilità di stipulare contratti a termine per la sostituzione di lavoratori assenti, con riferimento a qualsiasi ipotesi prevista dalla legge o dalla autonomia collettiva e senza che il sostituito abbia diritto alla conservazione del posto di lavoro. La disposizione non pone problemi interpretativi ed è coerente con una logica di utilizzazione del termine per soddisfare esigenze temporanee di lavoro.
L’attuale formulazione dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 conserva la acausalità del contratto per i primi 12 mesi (sia in caso di proroga che di rinnovi). Vi possono essere dubbi sulla conformità di questa disposizione con la Direttiva europea 1999/70/CE. La clausola 5 dell’Accordo quadro, recepito nella fonte europea e diretto a prevenire gli abusi nella utilizzazione del contratto a termine, prevede, come si è già detto, tre ipotesi alternative. Tuttavia, in questo caso, non si è in presenza di nessuna delle tre condizioni previste, visto che i 12 mesi non costituiscono la durata totale massima dei contratti. Inoltre, in tale periodo non sono previste ragioni obiettive (secondo la stessa costante giurisprudenza della CGE). In aggiunta, sono stabiliti limiti massimi alle proroghe ma non ai rinnovi, che teoricamente potrebbero essere molto elevati, nel rispetto degli intervalli minimi previsti dall’art. 21 del d.lgs. n. 81/2015. Dunque, anche da un punto di vista letterale, i 12 mesi previsti dall’art. 19 del d.lgs. n.81/2015 non sono tali da essere coerenti con l’art. 5 dell’Accordo a meno che non si sia in presenza di un unico contratto di durata di 12 mesi. In questo caso, infatti, l’art. 5 non si applica, perché riferito alla successione dei contratti (CGE 3 giugno 2021, causa C- 726/19, punto 28; CGE 11.02.2021, causa C-760/18 e molte altre). Senza dimenticare, infine, che, per 12 mesi, è possibile stipulare contratti a termine per soddisfare esigenze di lavoro “permanenti e durevoli”, in contrasto con la ampia giurisprudenza della CGE già analizzata.
In conclusione, mi sembra di poter dire che la riforma introdotta con il d.lgs. n. 81/2015 si presti a numerose critiche, sia in relazione alla formulazione originaria, che per le modifiche che si sono succedute nel tempo. La forte flessibilizzazione effettuata con la prima stesura della norma (a consuntivo di quanto già effettuato negli anni precedenti), dopo l’eccessivo irrigidimento del 2018, è stata ridotta e razionalizzata negli ultimi anni, riattribuendo valore all’autonomia collettiva. Tuttavia, la disciplina attuale presenta ambiguità nel testo, con possibili incertezze interpretative, e potenziali contrasti con la Direttiva europea, secondo l’interpretazione adottata dalla CGE. Il giudizio complessivo è, quindi, negativo. Penso che esigenze temporanee per qualsiasi contratto a termine (salvo quelli di brevissima durata) e spazio ai contratti collettivi stipulati da sindacati realmente rappresentativi (magari introducendo con legge criteri di verifica effettiva della rappresentatività) dovrebbero essere le linee guida di una regolazione della materia. In tal modo si riporterebbe il contratto a termine alla sua funzione originaria di rapporto diretto a soddisfare esigenze non stabili di lavoro, in coerenza con il t. indeterminato quale “forma comune” del lavoro ed evitando l’uso improprio che, come si è visto, caratterizza oggi questa tipologia contrattuale.
S. Ciucciovino. Il mio giudizio complessivo sulla disciplina normativa dei contratti a termine degli anni successivi al Jobs Act non è positivo.
Il c. d. Decreto Dignità del 2018, a forte connotazione ideologica, con una quinta grande riforma del contratto a termine, ha riportato le lancette dell’orologio indietro di diversi anni. Se può essere condivisibile l’obiettivo di politica del diritto di restringere ulteriormente il ricorso ai contratti a termine, sul piano della tecnica legislativa tale risultato poteva essere perseguito più semplicemente riducendo il limite quantitativo di durata massima e/o di successione di più contratti temporanei con il medesimo lavoratore e/o agendo sul limite quantitativo di proporzione percentuale tra tempo indeterminato e tempo determinato. Invece si è voluto reintrodurre il regime causale dell’assunzione a termine prevedendo presupposti oggettivi oltre il 12° mese molto stringenti e di difficile applicazione, esponendo nuovamente all’incertezza interpretativa la disciplina dei presupposti di legittimo ricorso al contratto a termine, in netta controtendenza con lo spirito di semplificazione controllata che era sotteso al Jobs Act.
Le modifiche successive apportate dal c.d. Decreto Sostegni bis (d.l. n.73/2021, conv. in l. n.106/2021), realizzano una sesta riforma dei contratti a termine e aprono nuovamente alla contrattazione collettiva creando un varco significativo nella rigidità della normativa vigente, ma dall’altro lato, lasciano all’interprete diversi dubbi interpretativi.
L’importante novità di questa riforma risiede nella restituzione all’autonomia collettiva del potere di individuare i presupposti causali, nonché di proroga e di rinnovo del termine, per durate eccedenti i 12 mesi (entro i 24 mesi), superando così quella estrema rigidità delle causali legali che il Decreto Dignità aveva determinato in modo tassativo e restrittivo, impedendo di fatto il superamento dei 12 mesi nell’impiego temporaneo.
La nuova norma, invece, prevede la possibilità di superare i 12 mesi, oltre che nelle ipotesi legali già previste, anche a fronte di “specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’art. 51”, cioè dai contratti di qualsiasi livello (nazionale, territoriale, aziendale) stipulati “da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e [da]i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.
Dal punto di vista del rapporto tra legge e autonomia collettiva, si tratta di un ritorno al passato, in particolare a quel modello fecondo di integrazione tra disciplina legale e disciplina collettiva nel controllo dell’occupazione a termine che, varato con l’art. 23 della l. n. 56 del 1987, per tanti anni ha prosperato e ha consentito una gestione condivisa dell’occupazione a tempo determinato, articolata sulle specifiche esigenze di settori e realtà produttive. Il rinvio legale all’autonomia collettiva, peraltro, come si è detto era riuscito anche a mantenere sotto controllo il contenzioso giudiziario in materia, cosa non trascurabile tenuto conto del notevole contenzioso che ha accompagnato invece le successive riforme del contratto a termine caratterizzate dal ridimensionamento del ruolo del contratto collettivo.
La norma introdotta dal c.d. Decreto Sostegni bis rinvia a tutti i livelli contrattuali che, indifferentemente e sullo stesso piano, sono abilitati a dare attuazione al rinvio di legge, in quanto rientranti nella definizione dell’art. 51, d. lgs. n. 81/2015. Previsione, quest’ultima, cui deve ormai riconoscersi la valenza di norma generale nella disciplina dei rinvii legali alla contrattazione collettiva. Si tratta di un rinvio ampio alla contrattazione collettiva, una vera e propria “delega in bianco” di nuova generazione, che può riguardare sia esigenze oggettive sia causali c.d. soggettive, cioè legate a caratteristiche soggettive dei lavoratori (giovani, disoccupati, disabili, ecc.). Con la differenza che, diversamente dal modello di flessibilità negoziata degli anni ‘80/’90, tali limiti operano dal 12° mese, perché nei primi 12 mesi l’assunzione a termine è ancora sostanzialmente svincolata da presupposti qualitativi, ma tuttora sottoposta ai limiti di carattere quantitativo già previsti dal Jobs Act di cui si è già detto.
Sennonché, la riforma del Decreto Sostegni bis indebolisce questo rinnovato quadro di combinazione di fonte legale e fonte collettiva nel governo della flessibilità, attraverso una norma, di discutibile razionalità, secondo la quale, in assenza delle previsioni dei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, viene rimessa all’autonomia individuale l’individuazione di esigenze di natura tecnica, organizzativa, produttiva e sostitutiva che possono legittimare l’apposizione del termine al contratto di lavoro oltre il 12° mese di durata. Un ritorno, quindi, alla fonte individuale (molto simile al modello del c.d. causalone del 2001) dove l’intervento dell’autonomia collettiva non è più autorizzatorio (come lo era nel modello della flessibilità negoziata della fine del secolo scorso), bensì meramente alternativo a quello della fonte legale e persino della fonte individuale.
Vero è che si tratta di una norma transitoria, che è stata oggetto di diverse proroghe, l’ultima delle quali - fino al 31 dicembre 2025 - apportata dal Decreto Milleproroghe n. 202/2024. Ma non si può non notare, dal punto di vista della tecnica legislativa, la distonia di una previsione che altera sostanzialmente il difficile equilibrio raggiunto tra limiti legali e collettivi nella gestione del lavoro temporaneo e introduce nuovamente nella disciplina legale del contratto a termine elementi di forte soggettivismo, riportando sostanzialmente in vita il sistema del “causalone”, con lo scopo di rimettere in gioco anche la fonte individuale.
V. A. Poso. Chiedo, sempre ai giuslavoristi, di tracciare un quadro illustrativo, sintetico, delle disposizioni normative oggetto del quesito referendario.
S. Ciucciovino. Il requisito referendario in sostanza mira a introdurre un divieto generale di assunzione a termine, salvo che per ragioni sostitutive. Divieto che potrebbe essere derogato soltanto dai contratti collettivi di cui all’art. 51, d. lgs. n. 81/2015, quindi dai contratti collettivi, di qualsiasi livello, sottoscritti da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.
Si tratterebbe di un regime straordinariamente vincolistico, ancora più restrittivo di quello vigente all’epoca della legge n.230/1962, con una vera e propria radicalizzazione del modello di flessibilità negoziata degli anni ’80/’90. Allora, infatti, il contratto collettivo era una valvola di sfogo delle istanze di flessibilità che si aggiungevano alle cinque ipotesi legali, comunque consentite dal legislatore in base ad una valutazione di ragionevolezza della sussistenza di fisiologiche esigenze oggettive di impiego temporaneo della manodopera. Nella prospettiva delineata dal quesito referendario, invece, si attribuirebbe un vero e proprio potere di veto al sindacato rispetto a tutte le assunzioni a termine, escluse soltanto quelle dovute a ragioni sostitutive. Il che a dire il vero appare eccessivamente rigido e dagli esiti incerti, vista anche la forte competitività che si riscontra sul piano della rappresentanza collettiva e della proliferazione dei contratti collettivi, che potrebbe addirittura innescare, per eterogenesi dei fini, una concorrenza tra sindacati giocata sul terreno della gestione della flessibilità negoziata.
L’intervento referendario determinerebbe una forte discontinuità con il regime attuale in quanto ora l’assunzione a termine è sempre consentita in base alla previsione legale entro i 12 mesi. Sia l’autonomia individuale (transitoriamente) sia l’autonomia collettiva possono disciplinare i presupposti per assunzioni a termine oltre i 12 mesi. Viceversa, con la modifica proposta dal referendum sarebbe cancellata del tutto la possibilità di assumere a termine per qualsiasi durata, anche per durate inferiore ai 12 mesi, salvo che nei casi consentiti dal contratto collettivo. Quindi la discontinuità è molto rilevante sia rispetto al regime attuale, sia rispetto a tutte le riforme della disciplina del contratto a termine che si sono succedute dagli anni 60 ad oggi. Certamente la promozione dell’intervento della contrattazione collettiva nella disciplina della materia, come ho ripetuto più volte, è da considerare positivamente, ma pur sempre in un modello di integrazione e completamento della disciplina legale e non di esclusiva regolazione della materia.
V. Speziale. Il referendum si propone di realizzare una abrogazione parziale di alcune parole contenute negli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 81/2015. Per comprendere quale sarebbe l’effetto abrogativo derivante dal referendum, se avesse esito positivo, sarebbe opportuno riprodurre le disposizioni che scaturirebbero dall’accoglimento dei quesiti referendari:
Articolo 19
1.Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non eccedente i ventiquattro mesi, solo:
a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51;
b) sostituzione di altri lavoratori.
01. In caso di stipulazione di un contratto in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.
Articolo 21
1-bis. In caso di stipulazione di un contratto in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.
L’abrogazione parziale conserverebbe il limite massimo dei 24 mesi oggi esistente, ma tuttavia, a parte l’ipotesi della sostituzione di altri lavoratori (rimasta immutata e di cui ho già parlato), rinvierebbe integralmente all’autonomia collettiva di vario livello la determinazione delle ragioni economiche ed organizzative che possono giustificare l’apposizione del termine al contratto. Si realizzerebbe, dunque, un modello di “flessibilità contrattata” che attribuirebbe ai sindacati comparativamente più rappresentativi (e alle rappresentanze aziendali) un potere ancora più esteso che in passato. Infatti, nell’art. 23 della l. n. 56/1987 il contratto collettivo poteva aggiungere causali rispetto a quanto previsto dalla l. n. 230/1962 e ad altra normativa, venendo a costituire una potenziale fonte aggiuntiva di ipotesi normative. In caso di esito positivo del referendum, i contratti collettivi, a parte le ragioni sostitutive, sarebbero l’unico atto negoziale abilitato a individuare le causali.
Non condivido le critiche che sono state espressa da Silvia Ciucciovino.
In primo luogo, la nuova normativa sarebbe pienamente in linea con quella attualmente esistente per quanto riguarda il potere di determinazione delle ragioni economiche ed organizzative che consentono l’apposizione del termine. L’unica novità sarebbe quella di eliminare la possibilità, concessa alle parti individuali sino al 31 dicembre 2025, di individuare tali esigenze. Una eventualità che il legislatore ha previsto solo in via transitoria e la cui eliminazione non dovrebbe destare eccessivo stupore, poiché è in linea con le scelte legislative già effettuate. D’altra parte, la valorizzazione dei contratti collettivi stipulati da soggetti dotati di effettiva rappresentatività mi sembra una scelta che intende privilegiare le parti sociali quali attori fondamentali della regolazione del livello di flessibilità richiesto dalle imprese, da contemperare con la tutela del lavoro. Queste esigenze, con la mediazione sindacale, possono trovare un punto di equilibrio ottimale, con una capacità di adattamento ai singoli contesti di settore economico o di azienda certamente più efficace di una fattispecie legale di generale applicazione. Tra l’altro, le esperienze dei contratti collettivi degli ultimi anni dimostrano che le parti sociali sono state in grado di regolare la materia con ragioni oggettive di natura temporanea e con causali soggettive di promozione dell’occupazione di soggetti deboli sul mercato del lavoro che sembrano definire soluzioni soddisfacenti dei contrapposti interessi. Il che lascerebbe ben sperare sul ruolo ancora più centrale che i contratti collettivi verrebbero a svolgere se il referendum avesse esito positivo.
La scelta effettuata dai promotori del referendum non significa, ovviamente, rifiuto a priori di una tipizzazione legale delle causali del contratto a t. determinato. Tale opzione, tuttavia, è quella resa possibile dal meccanismo referendario che, nel caso di proposta di abrogazione parziale, impone di agire su un testo già esistente, senza poter aggiungere previsioni normative ulteriori. In considerazione del carattere transitorio della disposizione che affida alle parti individuali la specificazione delle ragioni di carattere tecnico e produttivo che legittimano il termine e della mancanza di un chiaro riferimento alle esigenze temporanee (peraltro desumibili in via interpretativa), si è preferito proporre la eliminazione di questa norma, conservando quella che valorizza il ruolo dell’autonomia collettiva.
Piuttosto, in relazione a quest’ultimo profilo, i problemi sono altri. In particolare, la mancanza di criteri certi per la individuazione dei sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale, che è tuttavia questione di carattere generale (e non legata solo al contratto a termine) e da non impedire comunque, anche allo stato attuale, la selezione dei prodotti dell’autonomia collettiva. Inoltre, rimane la questione della devoluzione di un potere così ampio a livello aziendale, con i possibili problemi di squilibrio nei rapporti negoziali con l’impresa e di potenziale concorrenza al ribasso tra i sindacati dei lavoratori che ha determinato, in alcuni casi, veri e propri fenomeni di flessibilizzazione molto accentuata nell’uso dei contratti a termine. Si tratta, peraltro, di problemi difficilmente risolvibili in sede referendaria e che richiederebbero interventi legislativi specifici.
La novità più rilevante è certamente quella della eliminazione dei 12 mesi di rapporti a t. determinato acausali. Tuttavia, dopo quanto ho già avuto modo di dire, sono totalmente favorevole ad una innovazione che dovrebbe evitare i fenomeni negativi già descritti e riportare questo modello contrattuale nell’ambito della regolazione basata su fattispecie tipizzate e non quale strumento fungibile con il lavoro stabile seppur nell’ambito di un limite temporale determinato (un anno), ma comunque sempre molto ampio.
L’assetto normativo che ne scaturirebbe riproporrebbe alcuni dei problemi giuridici già esaminati, in relazione alla delega “in bianco” ai contratti collettivi e alla coerenza delle disposizioni modificate con la Direttiva 1999/70/CE. Rinvio, sul punto, a quanto già detto. Rilevo peraltro, che la eliminazione dei 12 mesi acausali, la fissazione di un tetto massimo di 24 mesi e il ritorno a ragioni oggettive tipizzate dall’autonomia collettiva - con l’obbligo, comunque, di rispettare il requisito della temporaneità per essere coerenti con la giurisprudenza della CGE - dovrebbero garantire la conformità della nuova normativa al contenuto della fonte europea.
Le altre disposizioni oggetto di referendum, diverse da quelle analizzate (art. 19, c. 1 bis e art. 21, c. 01), non richiedono un esame particolare. Si tratta solo della loro modificazione parziale, per adeguarle al contenuto delle abrogazioni che riguarderebbero l’art. 19, c. 1, lettere a) e b).
V. A. Poso A Valerio Speziale chiedo di ricordarci, per sommi capi, le opinioni espresse dalla dottrina con riferimento alle disposizioni normative oggetto di referendum.
V. Speziale. Ho in parte già risposto a questa domanda.
L’eliminazione dei 12 mesi nei quali è possibile stipulare un contratto a termine senza causale è stato criticato da parte della dottrina per le ragioni già spiegate (fungibilità tra contratto a termine e lavoro stabile nell’arco di anno; utilizzazione impropria del rapporto quale periodo di prova e per evitare la normativa sui licenziamenti, potenziale contrasto con la Direttiva europea e così via). Alcuni autori hanno quindi sostenuto l’opportunità che, nell’ambito del limite massimo temporale dei 24 mesi, fossero introdotte nuovamente le causali riconducibili ad esigenze temporanee di lavoro, senza le ipotesi fortemente restrittive introdotte dal c.d. Decreto Dignità (valutate negativamente dalla stragrande maggioranza degli studiosi).
Al contrario, altri autori hanno ritenuto che la conservazione di un periodo in cui il contratto non richiede ragioni giustificative sia un fattore positivo, per garantire alle imprese un determinato livello di flessibilità ed evitare il contenzioso, lasciando al limite quantitativo previsto dall’art. 23 del d.lgs. n. 81/2015 (derogabile dalla autonomia collettiva) il compito di evitare una eccessiva precarizzazione dei rapporti di lavoro. Tra l’altro, da quando sono state eliminate le causali del termine (prima nel limite dei 36 mesi, poi ridotto a 12), la quantità di controversie in sede giurisdizionale è diminuita in modo rilevantissimo. La spiegazione è rinvenibile nella assenza di esigenze giustificative (che sono state la causa preponderante dei processi instaurati nel passato) e nel fatto che, come si è visto, il numero dei contratti a termine di durata superiore all’anno è assai ridotto.
La previsione del rinvio alle ipotesi normative dei contratti collettivi di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, introdotta per la prima volta nel luglio 2021 e successivamente confermata nel testo vigente sottoposto a referendum, è stato accolto in senso positivo dalla dottrina, quale elemento di valorizzazione delle flessibilità negoziata, considerata come uno strumento importante per la regolazione delle esigenze di flessibilità delle imprese e di tutela del lavoro, anche per la sua adattabilità a specifici settori economici o contesti aziendali. Si è sostenuto che il riferimento ai “casi” invece che alle “esigenze” consentirebbe ai contratti collettivi di avere maggiore ampiezza nelle ipotesi che potrebbero essere determinate, in relazione a particolari categorie di lavoratori o a specifiche professionalità. Una tesi certamente sostenibile dal punto di vista letterale, ma che sopravvaluta la capacità del legislatore di utilizzare un linguaggio così selettivo e tale da distinguerlo da altre formulazioni utilizzate.
Alcuni autori hanno ritenuto che, tuttavia, fosse importante prevedere anche causali di fonte legale, in considerazione della opportunità che la legge regoli fattispecie così rilevanti per la disciplina del mercato del lavoro e anche per influenzare in modo positivo la stessa autonomia collettiva, che poteva trovare nelle ipotesi legali un parametro di riferimento. Altra parte della dottrina ha messo in rilievo come attribuire il potere di introdurre ipotesi normative anche al contratto collettivo aziendale possa comportare problemi per la minore forza negoziale del sindacato a questo livello e per la stessa concorrenza al ribasso tra i sindacati.
La lettera a) del comma 1 dell’art. 19 del decreto legislativo è stata interpretata dalla dottrina come delega “in bianco” all’autonomia collettiva, che non ha limiti nella introduzione delle causali di tipo oggettivo e soggettivo. In effetti, se si analizza la formulazione letterale della disposizione, questa conclusione sembra condivisibile. Inoltre, il testo attuale è molto simile a quello dell’art. 23 della l. n. 56/1987, la cui interpretazione da parte delle Sezioni Unite della Cassazione (con la sentenza n. 4588/2006) ha confermato l’ampiezza della delega, che poteva introdurre ipotesi diverse da quelle al tempo previste dalla legge e sia di carattere oggettivo e soggettivo (per fasce deboli di lavoratori e a fini di promozione dell’occupazione). Credo che queste conclusioni possano essere ribadite oggi. Tuttavia, la lettura della motivazione della sentenza del 2006 mette in rilievo come la Corte Suprema non abbia in alcun modo argomentato le sue conclusioni alla luce del quadro normativo europeo e dei vincoli posti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Questi limiti riducono la piena libertà dell’autonomia collettiva, come ho già spiegato in precedenza (nella mia risposta al quarto quesito).
La lettera b) del primo comma dell’art. 19 è quella che ha sollecitato maggiori critiche e attenzioni da parte della dottrina, per il suo contenuto non lineare che autorizza opzioni interpretative in netta discontinuità con il passato, nella misura in cui sembra legittimare anche contratti collettivi non stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ho già descritto questi aspetti nella mia risposta al quarto quesito e non prendo in considerazione tutte le diverse interpretazioni proposte, ma solo quelle prevalenti.
La tesi della possibile apertura anche a contratti collettivi stipulati da sindacati non rappresentativi si basa sulla formulazione letterale (non si fa riferimento a quelli sottoscritti da soggetti sindacali con determinati requisiti di rappresentatività) e sul fatto che la lettera b) opera “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a)” e cioè quando manchino gli atti di autonomia negoziale previsti dall’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, che seleziona appunto alcune organizzazioni sindacali e non tutte. Si è detto che, in realtà, la lettura della norma deve essere diversa. La lettera a) sarebbe riferita ai contratti collettivi stipulati successivamente all’entrata in vigore dalla legge. Mentre la lettera b) riguarderebbe gli accordi esistenti nel momento in cui la legge è emanata ed applicati in azienda, che, per esigenze di coerenza sistematica, dovrebbero avere gli stessi requisiti di quelli previsti dall’art. 51.
Mi sembra che questa lettura non sia condivisibile. Non esiste nessun elemento che consenta di relegare la lettera a) ai contratti futuri e la b) a quelli esistenti già in precedenza. La spiegazione più coerente con il testo (sia dal punto di vista letterale che sistematico) è quella contraria. Come ho già detto, la Circolare del Ministero del lavoro del 9.10.2023 ha affermato che anche i contratti collettivi stipulati ai sensi della lettera b) devono essere quelli previsti dall’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, senza peraltro spiegare il perché. L’ambiguità di una formulazione letterale così infelice è sicuramente una delle ragioni che ha spinto i promotori del referendum a chiederne l’abrogazione.
La seconda parte della lettera b) è stata interpretata dalla parte preponderante della dottrina come tale da abilitare l’autonomia individuale, sino al 31.12.2025 e in aggiunta a quanto previsto dai contratti collettivi, a stipulare rapporti a termine fondati su esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti del contratto di cui all’art. 2094 c.c. Anche questa tesi mi sembra condivisibile, in considerazione del testo della disposizione, che aggiunge una terza ipotesi alle due precedenti tutte riferite all’autonomia collettiva, che sembra non essere ricompresa da questa fattispecie ulteriore. Viene qui riprodotto, in via transitoria, lo stesso “causalone” regolato dall’art. 1 del d.lgs. 368/2001, che presenta, quindi gli analoghi problemi interpretativi. Come ho già spiegato nella risposta al quarto quesito, le esigenze tecniche e produttive, a mio giudizio, debbono essere di carattere necessariamente temporaneo.
Tuttavia, è stata prospettata anche una tesi diversa, basata sulla formulazione letterale della disposizione e, in particolare, sulla posizione della virgola. Si è detto che, se si avesse voluto abilitare l’autonomia individuale, la virgola avrebbe dovuto essere collocata in posizione diversa. Invece che con la formulazione attuale (“nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa…”), la disposizione avrebbe dovuto essere scritta nel seguente modo: “”nei contratti collettivi applicati in azienda e, comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze…”. Con il testo esistente, se viene omesso l’inciso tra le due virgole (“e comunque entro il 31 dicembre 2025), le parti sarebbero quelle collettive e non individuali. L’autore di questa tesi (Franco Scarpelli) ritiene che la lettera b) conterrebbe quindi un doppio rinvio all’autonomia collettiva, che si potrebbe spiegare come una disposizione che intende stimolare i nuovi contratti collettivi ad intervenire e nel frattempo (fino al 31 dicembre 2025) continuando ad utilizzare quelli già esistenti e applicati in azienda. La tesi, che ha certamente un suo fondamento dal punto di vista della costruzione ortografica del testo, mi sembra difficile da sostenere dal punto di vista sistematico. Non si comprende, infatti, perché nella lettera a) e nella prima parte della b), il riferimento alla contrattazione collettiva è totalmente libero, senza vincoli di contenuto, e, invece, nella seconda parte di quest’ultima disposizione vi è il riferimento alle ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo (seppure con un limite temporale). Comunque, la Circolare del Ministero del lavoro sopra indicata ha ribadito che la seconda parte della lettera b) è riferita al contratto individuale di lavoro. I promotori del referendum, partendo da questa interpretazione prevalente, hanno inteso sottrarre all’autonomia individuale questo potere, evitando tra l’altro una delle ragioni principali del contenzioso che si era sviluppato durante la vigenza del d.lgs. n. 368/2001.
Va anche rilevato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 14/2025 e in sede di valutazione della ammissibilità del referendum sul contratto a termine, ha espressamente interpretato la disposizione sopra esaminata come tale da abilitare i contratti individuali e non quelli collettivi (punto 3.1, nono capoverso, e punto 4.1.2, secondo capoverso, del Considerato in diritto). Pur senza un’analisi approfondita della questione, la presa di posizione della Corte ha indubbiamente una importanza essenziale per l’ascrizione del significato alla disposizione come tale da autorizzare solo l’autonomia individuale.
V. A. Poso Silvia Ciucciovino, hai qualcosa da aggiungere rispetto a quanto evidenziato da Valerio Speziale?
S. Ciucciovino. Non ho nulla da aggiungere a quanto detto da Valerio Speziale.
V. A. Poso Rivolgo la stessa domanda a Silvia Ciucciovino, con riferimento, però, alle applicazioni giurisprudenziali più importanti che si sono registrate a proposito delle disposizioni normative oggetto di referendum.
S. Ciucciovino. Da una ricerca condotta nei repertori di giurisprudenza non si riscontrano contenziosi né di merito né di legittimità sull’art. 19, comma 1, come modificato dal c.d. Decreto Dignità in poi. Il contenzioso sulle causali, soprattutto quello di Cassazione, è ancora riferito al d. lgs. n. 368/2001 ratione temporis applicabile ai rapporti oggetto di causa.
Sul “Decreto Dignità”, a quanto consta non risulta contenzioso forse anche per via della impraticabilità delle causali.
Il contenzioso emerge a partire dal venir meno del periodo di acausalità introdotto con la legislazione emergenziale, ma le poche pronunce di merito respingono i ricorsi in quanto i rapporti sono sorti durante il periodo di deroga e dunque le causali non risultavano applicabili.
V. A. Poso Hai qualcosa da aggiungere, Valerio Speziale, alle osservazioni di Silvia Ciucciovino?
V. Speziale. Concordo con quanto detto da Silvia Ciucciovino.
V. A. Poso Come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria sui contratti a termine?
Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito, come abbiamo detto, è che il lavoro deve essere stabile e non precario, perché la precarietà è una limitazione della libertà. Viene quindi auspicato il superamento della liberalizzazione dei contratti a termine e della possibilità di concludere contratti a termine a-causali nel periodo di dodici mesi. Ferma restando la durata massima non eccedente i ventiquattro mesi, il contratto di lavoro a termine resterebbe possibile solo nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’art. 51 (dotati di specifici requisiti di rappresentatività sindacale comparativa) e per la sostituzione di altri lavoratori, con la trasformazione in contratto a tempo indeterminato in assenza di dette condizioni; condizioni che devono essere osservate sempre, anche in caso di proroghe e rinnovi.
Condividete la prospettazione referendaria?
S. Ciucciovino. Non condivido l’impostazione referendaria per l’estremismo della norma che ne risulterebbe, ai limiti della irrazionalità e che potrebbe porsi addirittura in contrasto con l’art. 41 Cost. per i fortissimi vincoli che ne deriverebbero all’iniziativa economica privata, specie per attività produttive che sono più soggette di altre a variazioni fisiologiche della domanda di mercato. Infatti in mancanza di previsioni del contratto collettivo l’assunzione a termine sarebbe di fatto impedita.
Un conto è la rivalutazione o valorizzazione del ruolo della fonte collettiva, altro conto è l’introduzione di un modello, del tutto inedito in Italia, di vero e proprio monopolio sindacale della flessibilità in ingresso.
V. Speziale. Ho già espresso il mio apprezzamento per la richiesta di referendum abrogativo. Rinvio a quanto ho detto nel rispondere alla quarta e quinta domanda.
Non condivido l'opinione di Silvia Ciucciovino sulla irrazionalità delle norme che scaturirebbero qualora il referendum avesse un esito positivo e sul possibile contrasto con l’art. 41 Cost. delle disposizioni che deriverebbero dalla abrogazione parziale.
Per quanto riguarda il primo aspetto, rimando alla mia risposta alla quinta domanda, in relazione al ruolo positivo svolto in passato dai contratti collettivi ed alla possibile funzione strategica che essi potrebbero avere in futuro. Silvia parla di un vero e proprio monopolio sindacale della flessibilità in ingresso. Ma la situazione attuale non è diversa, visto che, a parte le esigenze sostitutive (che non sono cambiate), tutto è rimesso ai contratti collettivi, perché la disposizione che attribuisce all’autonomia individuale la possibilità di introdurre causali è transitoria (oltre ad essere scritta male, con i potenziali contrasti interpretativi da me già descritti).
Non vedo quali sono i vincoli che verrebbero posti all'iniziativa economica privata. La possibilità di introdurre causali giustificative all'autonomia collettiva, oltre a trovare fondamento nell'art. 39 Cost., rispecchia una tecnica usuale nel nostro ordinamento in cui la legge rimette ai contratti collettivi la regolazione di aspetti fondamentali del mercato del lavoro, in piena coerenza con tutte le disposizioni costituzionali a tutela del lavoro e con lo stesso comma secondo dell’art. 41 della Costituzione. La eliminazione della “acausalità” nei primi 12 mesi del contratto a termine non può certo essere considerata come eccessivamente restrittiva dell'iniziativa economica. La presenza di ragioni giustificative del rapporto a termine sin dal momento della sua stipulazione è stata una caratteristica del nostro sistema giuridico per decenni, senza che si ponesse alcun problema di compatibilità con la Costituzione, proprio in considerazione della protezione che la nostra legge fondamentale assicura al lavoro ed ai limiti previsti dal secondo comma dell'art. 41.
A. Morrone. La proposta referendaria è stata dichiarata ammissibile dalla Corte costituzionale. Non sono stati rilevati, in proposito, limiti costituzionali ostativi. Neppure quelli derivanti dall’art. 41 Cost. Ricordo, infatti, che ancorché il giudice delle leggi abbia più volte ribadito che il controllo di ammissibilità non è un sindacato anticipato di costituzionalità, nei fatti, per tabulas, guardando alla sostanza di quella giurisprudenza, la Corte ha sempre considerato i principi e i valori costituzionali quali parametri il cui rispetto è necessario assicurare per dare il via libera a referendum abrogativi. Personalmente non ritengo il rinvio alla contrattazione collettiva un vulnus rispetto alla “intrapresa” economica privata, l’oggetto effettivo della libertà tutelata (l’attività economica privata è, com’è noto, oggetto tanto di limiti, quanto di indirizzi e controlli per mezzo della legge); mentre, invece, l’autonomia collettiva rimanda proprio al principio dell’accordo tra le parti (datoriale e lavorativa), sicché non si può ritenere che l’impresa privata venga con ciò esclusa, e il sindacato dei lavoratori investito di un potere esclusivo. Il rinvio alla contrattazione è coerente con l’art. 39 Cost. (sia pure nell’interpretazione che tende a “de-costituzionalizzare” i commi successivi al primo).
V. A. Poso. Possiamo dire che l’intervento referendario, in caso di esito positivo del voto popolare, renderebbe più coerente la nostra legislazione con la direttiva europea e le applicazioni della Corte di Giustizia?
S. Ciucciovino. Assolutamente no. La Direttiva europea 1999/70 CE non pone vincoli alla prima assunzione a termine e non chiede agli ordinamenti nazionali di porne. Chiede piuttosto di prevenire la discriminazione e l’abuso del contratto a termine, e quindi si concentra piuttosto sulla successione di più contratti a termine.
È rimessa alla discrezionalità degli Stati membri la forma più opportuna per raggiungere l’obiettivo della prevenzione dell’abuso. In tale contesto le ragioni oggettive nel caso di proroga o rinnovo sono uno dei possibili, ma non l’unico, mezzi di prevenzione dell’abuso, in alternativa a limiti alla durata massima e alla successione di più contratti a termine.
In definitiva la stretta proposta dal quesito referendario all’apposizione del termine al contratto di lavoro sin dalla prima assunzione non è richiesta dalla Direttiva europea e si porrebbe come una iniziativa dell’ordinamento italiano nell’esercizio della sua discrezionalità regolativa dell’occupazione a termine, ben più restrittiva di quelle che si riscontra nel panorama europeo.
V. Speziale. Ha ragione Silvia Ciucciovino quando afferma che la Direttiva, come interpretata dalla CGE, non pone vincoli alla stipulazione del primo contratto a termine e sul fatto che le ragioni oggettive sono solo uno dei possibili strumenti per prevenire l’abuso nella successione dei contratti a termine.
Tuttavia, la previsione delle esigenze tecniche produttive ed organizzative è una delle possibilità rimesse al legislatore nazionale e, quindi, la normativa scaturente dall’esito positivo del referendum sarebbe assolutamente coerente con la fonte europea. Non si potrebbe parlare di maggiore conformità alla Direttiva, ma certamente di utilizzazione di una delle soluzioni giuridiche da essa ammessa. Per quanto attiene poi alla introduzione di causali giustificative anche per il primo contratto (che, come già detto è parte della storia nazionale del contratto a termine), essa è certamente consentita dalla clausola 8, comma 1, dell’Accordo Quadro della Direttiva, che autorizza gli Stati membri ad introdurre disposizioni più favorevoli rispetto ad essa. La necessità di ragioni giustificative anche per il primo rapporto a t. determinato rientra certamente in tale ambito.
A. Morrone. I margini di apprezzamento degli Stati membri di fronte ad una direttiva sono sempre stati intesi in maniera lasca dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Anche in questo caso non riterrei rilevanti questi limiti, ammesso che ci siano. Come ricordato, se una violazione degli obblighi europei fosse derivata dalla richiesta referendaria, la Corte costituzionale l’avrebbe indicato, bloccando l’ammissibilità. Dopo il primo precedente, la sentenza di non ammissibilità del quesito sul testo unico in materia di immigrazione (sent. n. 31/2000), la giurisprudenza in materia di referendum ha previsto tra gli ostacoli all’ammissibilità le “leggi a contenuto comunitariamente vincolato”. Un simile sindacato implica l’esistenza di limiti europei specifici e determinati che la legislazione nazionale ha violato. Nel caso che ci occupa, secondo l’interpretazione della sent. n. 14/2025, non ricorre una simile ipotesi.
V. A. Poso. Passiamo all’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024 che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo agli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 81/2015, per le parti più sopra indicate. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito – allo scopo di consentire l’immediata comprensione del risultato perseguito dal referendum e delle conseguenze che si determinerebbero nell’ordinamento ove la richiesta referendaria, ai sensi dell’art. 75,co.3,Cost., venisse approvata – è stata assegnata la seguente denominazione sintetica, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “ Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi”.
Il quesito è stato integrato, opportunamente, con l’indicazione separata degli articoli in esso richiamati e dei commi in cui sono contenute le disposizioni degli articoli 19 e 21 di cui è richiesta la parziale abrogazione.
Dato atto della sussistenza dei presupposti per dichiarare la rispondenza a legge del quesito (atto normativo avente natura ed efficacia di legge, vigenza delle disposizioni oggetto di referendum in esso contenute, in assenza di atti di abrogazione, anche parziale, e di pronunce di illegittimità incostituzionale),l’Ufficio Centrale per il Referendum ha escluso la possibilità, in applicazione dell’art. 32, comma 7, l. 25 maggio 1970, n.352, di procedere alla concentrazione della richiesta referendaria oggetto di esame con le altre tre richieste in materia lavoristica, non ravvisandosi, tra quella in esame e le altre, eventuali uniformità o analogie di materia.
Merita di essere rilevato che il quesito ammesso non è stato integrato con la specifica menzione degli interventi normativi che hanno apportato le modifiche del testo vigente - al momento della decisione- ad opera del d.l. 4 maggio 2023,n. 48, convertito, con modificazioni, dalla l. 3 luglio 2023, n. 85: quanto al comma 1,lett.a) dell’art. 24, con riferimento al comma 1,lett.b) dell’art. 19, d.lgs. n. 81/2015 (solo questa modifica, dove si legge la originaria data del 30 aprile 2024, poi prorogata, è stata indicata nella premessa della motivazione di detta ordinanza, a pag. 5, 2° cpv); quanto al comma 1-bis del medesimo art. 24, con riferimento all’art. 21, comma 01 del d. lgs. n. 81/2015); e da ultimo ad opera del d.l. 30 dicembre 2023,n.215 ( c.d. decreto Milleproroghe 2023), convertito, con modificazioni, dalla l. 23 febbraio 2024, n. 18, che, con l’art. 18, comma 4-bis, ha modificato la lett. b) dell’art. 19,comma 1, del d. lgs. n. 81/2015.
Da rilevare che è l’art. 18, comma 4-bis sopra citato che ha prorogato al 31 dicembre 2024 la scadenza originaria del 30 aprile 2024 indicata nella norma oggetto di referendum.
La completa integrazione (con le modifiche normative intervenute e le pronunce di illegittimità costituzionale) del testo proposto dai promotori, invece, è stata operata dall’Ufficio della Cassazione con riferimento al quesito avente ad oggetto il Jobs Act, mentre i quesiti relativi all’abrogazione parziale dell’art. 8 della l. n. 604/1966 e degli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 81/2015 erano stati già proposti dai promotori dei referendum con il testo integrato dall’indicazione delle modifiche normative intervenute nel corso degli anni..
Avete osservazioni in proposito?
A. Morrone. Sulla mancata concentrazione dei quesiti, come ho chiarito nella risposta all’analoga domanda contenuta nell’intervista sul quesito abrogativo del Jobs Act in tema di licenziamenti, ribadisco che si tratta di precisazione del tutto inutile, stante la diversità formale e materiale dei quattro quesiti promossi dalla Cgil. L’identità del soggetto promotore non rileva punto in questi casi, dove conta solo ed esclusivamente il fatto – inesistente nel nostro – di domande popolari identiche (formalmente o sostanzialmente).
Ho invece qualcosa da dire sulla riformulazione del quesito operata dall’Ufficio Centrale per il Referendum: essa si limita a separare graficamente le due disposizioni interessate dall’abrogazione di lemmi. Nulla di più (ammesso che ciò serva a rendere più intellegibile il contenuto della richiesta). Non ha riguardato l’indicazione delle successive modificazioni (anche solo con una formula sintetica di questo contenuto). In genere, di fronte allo jus superveniens (che lascia vigente l’oggetto della domanda referendaria) l’UCR ne dà conto nei quesiti che non hanno menzionato le novelle intervenute successivamente al deposito della richiesta. Qui non l’ha fatto (mentre si è preoccupato di ciò nella vicenda relative al Jobs Act).
Che poi la legge (una delle tante) sia intervenuta dopo il deposito della richiesta non è un fatto irrilevante ai fini della legittimità e dell’ammissibilità del referendum. Ai fini del primo giudizio, infatti, l’Ufficio Centrale per il Referendum dovrebbe verificare l’applicazione al caso di specie dell’art. 39, l. n. 352/1970 (ovvero decidere tra il “trasferimento” del quesito dalle vecchie alle nuove disposizioni, o la “cessazione” delle operazioni referendarie). L’UCR non si è pronunciato su questo punto. Ai fini del secondo, è la Corte costituzionale che deve valutare l’incidenza di una novella sopravvenuta, per verificare se permanga o meno una domanda ammissibile. Nella sent. n. 14/2025, il controllo è veloce, limitandosi a registrare la proroga della vigenza della disposizione interessata, dando per identico il contenuto della disciplina e, quindi, dell’oggetto (e delle finalità) della domanda referendaria. Tutto ciò dimostra come spesso il vaglio dei quesiti da parte dei suoi giudici proceda in maniera superficiale e casuale.
V. Speziale. L’Ufficio Centrale per il Referendum della Suprema Corte, a parte il fondamentale controllo sul numero delle firme e sui requisiti di regolarità formale delle stesse, ha correttamente individuato il titolo del referendum e l'ha integrato con la indicazione separata degli articoli di cui si chiede l'abrogazione parziale.
Mi sembra giusto anche non accorpare il quesito referendario con gli altri proposti in considerazione delle profonde differenze nei testi normativi sottoposti alle ulteriori consultazioni popolari.
L’UCR ha tenuto conto dei mutamenti, rispetto al testo originario del 2015, effettuati dall’art. 24, comma 1, del D.L. n. 48/2023 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 85/2023). Non ha, invece, preso in considerazione la modifica introdotta dal D.L. n. 215/2023 (convertito, con variazioni, dalla l. n. 18/2024) e – cosa del tutto ovvia – non poteva prendere in considerazione le modifiche introdotte dal D.L. n. 202 del 27 dicembre 2024, entrato in vigore il giorno successivo (convertito, con modifiche, nella l. n. 15 del 21 febbraio 2025).
Va considerato, infatti, che la Cassazione poteva tenere conto solo dei mutamenti contenuti nel D.L. n. 215/2023 (con la relativa legge di conversione) che sono anteriori alla data di consegna del referendum (12.04.2024) e di presentazione dei promotori dinanzi ad essa (19.07.2024). Le innovazioni ulteriori si sono verificate dopo il momento in cui la Suprema Corte è stata chiamata ad esprimere la sua valutazione e, quindi, la Cassazione non poteva prenderle in considerazione.
I cambiamenti introdotti dalle disposizioni non considerate dalla Corte, tuttavia, mutano soltanto la data finale di vigenza di una parte della disposizione contenuta nella lettera b) del c. 1 dell’art. 19 (estesa fino al 31 dicembre 2025). Si tratta indubbiamente di una modifica che peraltro non incide sulla sostanza della volontà dei promotori, che volevano eliminare questa parte della disposizione. Non mi sembra, quindi, che la mancata considerazione di queste norme possa incidere sulla chiara volontà dei primi e sulla linearità del quesito che è sottoposto ai votanti. Né la Corte poteva integrare il quesito in relazione ad una disposizione non ancora emanata quando è stata chiamata a giudicare i requisiti del referendum.
Vi è, poi, una ulteriore considerazione. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 14/2025, nel valutare le disposizioni oggetto del referendum, ha espressamente considerato che la norma che aveva originariamente vigore sino al 31.12.204 è stata estesa nella sua vigenza sino alla fine del 2025 ( modifica introdotta dall’art. 14,comma 3, del d.l. n. 202/2024, cit. supra). Pertanto, seppure in modo indiretto, nel rendere ammissibili i quesiti, la Corte prende atto che l’eventuale abrogazione potrebbe avvenire anche in relazione ad una disposizione che oggi è stata parzialmente modificata. Ne deriva che, se il referendum avesse esito positivo, l’abrogazione della disposizione sottoposta a consultazione travolgerebbe anche quella diversa che ha esteso la sua vigenza al 31 dicembre 2025.
S. Ciucciovino. Concordo con le osservazioni di Valerio Speziale.
V. A. Poso Merita segnalare che l’ultima modifica normativa relativa alla lett. b) dell’art. 19, comma 1, del d. lgs. n. 81/2015, con la sostituzione dell’originario limite del 30 aprile 2024 con quello del 31 dicembre 2024 della quale abbiamo detto sopra (già intervenuta al momento della presentazione del quesito referendario) introduce una norma transitoria, quanto meno per gli accordi individuali, se non anche per i contratti collettivi applicati in azienda, che resterebbe priva di effetti per decorso del limite temporale imposto, in assenza di proroghe, quale che sia l’esito del voto referendario.
Non so se la mia interpretazione è corretta, vediamo dalle vostre risposte; mi sembra, però, che si farebbe, in parte qua, un referendum su una disposizione superata.
S. Ciucciovino. Dobbiamo dare conto, anche, come è stato evidenziato nella precedente risposta di Valerio Speziale, che è di recente intervenuta la norma del c.d. Decreto Milleproroghe (d.l. n. 202/2024, in vigore dal 28 dicembre 2024) che ha esteso a tutto il 31 dicembre 2025 l’operatività della disposizione in esame.
E tuttavia, non si pongono, a mio avviso, questioni, quindi, da questo punto di vista, all’eventuale assoggettabilità, ora, di questa disposizione a referendum abrogativo.
V. Speziale. Come ho già detto, le normative che si sono succedute nel tempo hanno gradualmente esteso al 31 dicembre del 2025 la seconda parte della lettera b) del c. 1 dell’art. 19, riferita agli accordi individuali e non a quelli collettivi (rimando alla mia risposta alla sesta domanda). Mi sembra chiaro che, se il referendum avesse esito positivo, sarebbe travolta la disposizione che, letteralmente, ha vigenza solo sino al 31 dicembre 2024 (perché ad essa si riferisce il quesito). Ma, in tal caso, la eliminazione della disposizione originaria la escluderebbe comunque dall’ordinamento giuridico, anche nella sua versione attuale. La norma successiva ha solo esteso al 31. 12. 2025 la sua esistenza. Ma se venisse meno quella sottoposta a referendum, tale abrogazione non potrebbe non riflettersi anche su quella, diversa, che ne prevede una durata differente. Se la volontà dei votanti era quella di eliminare una disposizione che aveva vigore sino al 31 dicembre 2024, non vi è dubbio che la loro determinazione è rispettata solo se viene eliminata anche quella che ne ha esteso gli effetti nel tempo. Mi sembra un effetto necessario dell’accoglimento del quesito referendario.
V. A. Poso Con la sentenza n. 14 del 7 febbraio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione delle norme e per le parti indicate oggetto del quesito, come riformulato dall’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di cassazione, per una migliore comprensione dello stesso.
La Corte costituzionale, dopo aver delineato il contesto normativo di riferimento in cui si inseriscono le disposizioni oggetto della richiesta referendaria, ha precisato, correttamente, che l’esito della stessa
«mira dunque – al contempo – alla riespansione dell’obbligo della causale giustificativa anche per i contratti (e i rapporti) di lavoro di durata inferiore ai dodici mesi, e all’esclusione del potere delle parti di individuare giustificazioni, a fondamento della stipulazione (o della proroga o del rinnovo) di tali contratti, diverse da quelle indicate dalla legge o dai contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi».
Quali sono le Vostre osservazioni, di carattere generale, in merito? È, questa, una pronuncia attesa?
A. Morrone. I quattro quesiti presentati dalla Cgil in materia di “lavoro dignitoso” si caratterizzano per la peculiare natura normativa anche in senso “positivo” conseguente all’abrogazione popolare. In particolare: essi non sono solo “abrogativi”, ma sono soprattutto ad effetto introduttivo di norme. L’abolizione delle disposizioni oggetto delle relative domande prelude all’ingresso di un’altra disciplina, voluta dai promotori e ritenuta dai giudici costituzionali l’esito obiettivo dell’ablazione popolare. E, va precisato, che, proprio per questo motivo, sono stati ritenuti tutti ammissibili. Insomma, la nota caratterizzante questa tornata referendaria (se aggiungiamo anche il quesito sulla cittadinanza, diretto proprio a “sostituire” il termine di dieci anni con quello ridotto a metà di cinque affinché lo straniero maggiorenne extra UE possa presentare domanda al fine di ottenere il riconoscimento dello status civitatis italiano) è che l’ammissibilità è stata concessa a quesiti referendari che mirano ad ottenere l’introduzione di norme nuove attraverso l’abrogazione di norme vigenti.
Nella sent. n. 14/2025, in particolare, si chiarisce bene che il referendum ha come obiettivo quello di fare “riespandere” la causale per quelli di durata inferiore a dodici mesi e di impedire alle parti di indicare cause diverse da quelle legali o dalla contrattazione collettiva. In sostanza, si tratta di una sorta di “reviviscenza” di disposizioni abrogate dalle norme oggetto della disciplina vigente, oggetto del quesito referendario.
V. Speziale. Nella predisposizione dei quesiti, i giuristi coinvolti dalla Cgil hanno operato tenendo conto di criteri enucleati dalla Corte costituzionale in relazione alla ammissibilità del referendum. Essi, pur se raccolti ormai in una giurisprudenza consolidata, sono alquanto flessibili, in quanto contrassegnati da un livello di genericità assai elevato. Si pensi, ad es., alla necessità che il quesito presenti i caratteri della chiarezza, omogeneità, univocità, con una matrice razionalmente unitaria. Si tratta di concetti comprensibili ma che si prestano ad opzioni applicative assai differenziate. Tra l'altro, la flessibilità dei criteri aumenta nel caso di proposte di abrogazione parziale, dove la Corte è stata, in alcuni casi, molto rigorosa nel valutare la ammissibilità del quesito.
Per questa ragione, i giuristi che hanno collaborato alla predisposizione del testo hanno cercato di formulare la domanda da sottoporre a consultazione popolare in modo da renderla non solo chiara, ma anche tale da far comprendere quale sarebbe stato il risultato normativo che sarebbe scaturito dalle eventuali abrogazioni delle parti di disposizione su cui si chiedeva il voto. Inoltre, lo sforzo è stato quello di mettere in evidenza sia l'ispirazione complessiva della manipolazione normativa che si richiedeva, sia la compatibilità del testo che eventualmente ne sarebbe scaturito con quello già esistente. Quest'ultimo, infatti, sarebbe stata modificato in modo rilevante ma senza introdurre una nuova disciplina completamente estranea al contesto normativo esistente ed anzi con la finalità di ribadire una utilizzazione del contratto a termine basata su ragioni giustificative rimesse alla legge e all'autonomia collettiva, in coerenza con tecniche già sperimentate nel passato e con il principio del lavoro stabile quale “forma comune”.
Lo sforzo compiuto ha avuto esito positivo. La lettura delle motivazioni della Corte mette in evidenza tutti questi aspetti. I giudici, oltre a cogliere con chiarezza la finalità perseguita dai promotori del referendum, hanno vagliato il quesito alla luce della propria giurisprudenza, sottolineando come esso fosse il coerente con i criteri enucleati dalla Corte e dettagliatamente esaminati nella motivazione.
Gli auspici della Cgil e dei giuristi che hanno collaborato alla predisposizione del quesito sono stati soddisfatti. Tuttavia, tenendo conto della flessibilità dei criteri adottati dalla Corte costituzionale in materia, parlare di sentenza attesa è eccessivo. Direi che, anche alla luce del lavoro scrupoloso compiuto, vi era piuttosto la speranza concreta di superare il limite della ammissibilità.
V. A. Poso È la stessa Corte Costituzionale che, nella pronuncia qui esaminata, ci ricorda, richiamando la sua precedente sentenza n. 56 del 2022,che il referendum abrogativo non si deve trasformare «– insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (v. sentenza n. 16 del 1978, richiamata nella sentenza n. 56 del 2022), trattandosi di «un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può “introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento” (v. sentenza n. 36 del 1997)».
Ritenete rispettato questo limite?
A. Morrone. Si tratta di un’affermazione ormai consueta nella giurisprudenza. Per gli svolgimenti rinvio alla risposta contenuta nell’intervista sul quesito in materia di appalti e infortuni. Aggiungo qui che il referendum, sulla carta, serve per abrogare disposizioni legislative vigenti, non per introdurre nuove norme, compito riservato al legislatore. Fatto si è che questo assunto, derivante dal testo dell’art. 75 Cost. e dall’interpretazione del referendum abrogativo come espressione di una “legislazione negativa”, si è scontrato con la realtà delle cose.
Da un lato, la circostanza che anche solo abrogare equivale non tanto a “un non disporre” quanto, piuttosto, ad “un disporre diversamente” (Vezio Crisafulli): sicché dall’abrogazione conseguono sempre modifiche al diritto vigente.
Dall’altro, la giurisprudenza costituzionale ha legittimato la prassi dei referendum cd. manipolativi ovvero incidenti su disposizioni e frammenti di norme (anche privi di senso giuridico), sicché i quesiti referendari hanno naturalmente una vocazione diretta a creare nuovo diritto. Il problema diventa allora stabilire fin dove. La Corte assume una distinzione scolastica, quando giustappone istituti di “democrazia rappresentativa” e di “democrazia diretta”. La verità è che il confine tra l’una e l’altra non dipende da dati positivi, ma dai confini mobili della stessa giurisprudenza.
In genere, il limite giurisprudenziale ai referendum manipolativi sono quelli esistenti nell’ordinamento vigente: il ritaglio, per essere ammissibile, andrebbe contenuto all’interno della disciplina positiva interessata dal referendum popolare e, comunque, all’interno dell’ordinamento vigente. Cosa questa che non ha nessuna razionalità in sé e per sé: anzi, se è vero che il referendum serve per contestare una legge vigente, imporre ad esso, viceversa, di rimanere entro la legislazione positiva, equivale a tradirne la ratio o, quantomeno, a depotenziarne la forza normativa. Essa è il frutto di una giurisprudenza – questa sì – davvero creativa che, per contenere (l’abuso de) i referendum abrogativi, ha finito con elaborare criteri di ammissibilità imprevedibili ed incerti. Anche con riferimento ai quesiti di questa tornata.
Se si guarda all’insieme, si può dire che la Corte abbia ammesso cinque quesiti manipolativi (non oltre la soglia ritenuta ammissibile, sia ben chiaro!), bloccando l’unico quesito integralmente abrogativo (quello sulla legge relativa al regionalismo differenziato). Per rispondere al quesito: sì penso che la decisione di oggi sia coerente con la pregressa giurisprudenza e che, perciò, il quesito andava dichiarato ammissibile, per non essere la domanda ad esso sottesa una forma distorta di legislazione popolare. Ma nessuno può negare, non lo ha fatto neppure la Consulta, che di “legislazione” popolare si tratti, proprio in ragione degli esiti ripristinatori di norme pre-vigenti.
V. Speziale. Mi sembra di poter dare una risposta positiva. Per quanto attiene al secondo aspetto (il referendum non può introdurre una nuova statuizione, non ricavabile dall’ordinamento), è sufficiente mettere a confronto il testo vigente con quello che scaturirebbe dall’accoglimento del quesito, da me riprodotto nella risposta alla quinta domanda. La nuova versione dell’art. 19 sarebbe in larga parte coincidente con quella esistente, perché verrebbe conservata sia l’attuale lettera a) del c. 1, sia la lettera b-bis (semplicemente rinominata come lettera b). Vi sarebbe solo l’eliminazione dell’attuale previsione in tema di contratti collettivi applicati (diversi da quelli stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale) e di esigenze tecniche ed organizzative rimesse all’autonomia individuale. Dunque, si avrebbe non una disposizione integralmente nuova ed extra ordinem ma solo un testo parzialmente differente da quello esistente, scaturente da “norme residue che, in linea con il principio secondo cui (il lavoro stabile è la forma comune), subordinano, senza eccezioni temporali, la possibilità del ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato, nel limite della durata massima di ventiquattro mesi, a una delle specifiche giustificazioni, previste dalla legge o dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 81 del 2015” (C. cost. n. 14/2025, punto 4.1.3., quinto capoverso).
In relazione al secondo principio (il referendum abrogativo non può essere “trasformato - insindacabilmente - in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (sentenza n. 16 del 1978)”), va detto che esso, così come viene enunciato, è alquanto criptico, perché non si comprende quando il quesito verrebbe ad assumere questa natura plebiscitaria o di voto popolare di fiducia.
Tuttavia, tale ambiguità viene dissolta quando si legge la parte successiva della motivazione di Corte cost. n. 56/2022 (espressamente richiamata dalla decisione n. 14/2025). Infatti, prosegue la sentenza, “non sono ammissibili, in particolare, richieste referendarie che siano ‘surrettiziamente propositiv[e]’ (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2012, n. 26 del 2011, n. 33 del 2000 e n. 13 del 1999; nello stesso senso, sentenze n. 43 del 2003, n. 38 e n. 34 del 2000): si tratta, infatti, di un'ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può ‘introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall'ordinamento’ (sentenza n. 36 del 1997)”.
Se, dunque, il carattere plebiscitario o di voto popolare di fiducia del referendum è legato a richieste che abbiano le caratteristiche sopra indicate, non vi è dubbio che questi elementi non sono presenti nel quesito sul contratto a termine di cui è stata dichiarata la ammissibilità, per le ragioni che ho già spiegato.
V. A. Poso Detto questo, è ammissibile, a Vostro avviso, e con quali limiti, il referendum abrogativo delle norme in esame? Nessuna preclusione è ravvisabile in ragione dei divieti posti dall’art. 75, comma 2, Cost. (le disposizioni normative oggetto di richiesta referendaria non sono riconducibili ad alcuna delle tipologie di leggi ivi elencate, neppure a quelle ricavabili in via di interpretazione logico-sistematica); tantomeno sono risultano profili attinenti a disposizioni a contenuto costituzionalmente obbligato: sotto questo aspetto mi sembra condivisibile la pronuncia della Consulta.
A Vostro avviso, e sotto altro profilo, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale? Mi riferisco, in particolare, alla c.d. tecnica del ritaglio operato sulle disposizioni oggetto di abrogazione.
A. Morrone. Per le cose dette condivido il merito della sent. n. 14/2025. Il quesito è chiaro e univoco, e non impatta in maniera evidente con la giurisprudenza pregressa. Era facilmente prevedibile quindi l’esito del giudizio di ammissibilità.
Valerio Speziale. Il referendum mi sembra certamente ammissibile sia sotto il profilo del non coinvolgimento delle leggi per le quali l’art. 75 Cost. lo vieta, sia in relazione alle caratteristiche del quesito e alla tecnica dell’abrogazione parziale mediante eliminazione di parti delle disposizioni sottoposte al voto popolare.
Sul primo profilo non vi è da dire molto, visto la chiarezza dell’art. 75 e della giurisprudenza costituzionale che lo ha interpretato.
Per quanto attiene al secondo aspetto rinvio a quanto ho già detto nella risposta alla domanda n. 14. Inoltre, a parte il fatto che vi sono numerosi precedenti di referendum ritenuti ammissibili e nei quali il quesito chiedeva la abrogazione parziale di alcune parole delle disposizioni interessate (quella da te definita come tecnica del ritaglio), ritengo che le motivazioni adottate dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 14/2025 siano del tutto condivisibili. La parte preponderante della giurisprudenza della Corte ivi indicata è quella che ha ispirato il lavoro dei proponenti del referendum.
V. A. Poso Quindi, mi pare di capire, che, anche secondo Voi, il ritaglio operato non determina lo stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo, come argomenta la Corte che, nella sentenza in esame ricorda che « l’uso della tecnica del ritaglio non è di per sé causa di inammissibilità della richiesta referendaria, allorquando quest’ultima sia diretta ad «abrogare
parzialmente la disciplina stabilita dal legislatore, senza sostituirne una estranea allo stesso contesto
normativo […] (sentenze n. 34 del 2000 e n. 36 del 1997)» (sentenza n. 26 del 2011)».
Valerio Speziale. Ho già risposto in relazione alle precedenti domande che hanno toccato questo punto. La giurisprudenza della Corte costituzionale sopra descritta mi sembra chiara. Come ho già detto, le disposizioni che scaturirebbero qualora vi fosse l’abrogazione parziale richiesta non creerebbero fattispecie integralmente nuove ed extra ordinem ma solo testi parzialmente differenti da quelli esistenti e, in larga misura, confermativi della disciplina attuale. Non mi sembra, quindi, che si possa parlare di una nuova regolazione completamente estranea al contesto normativo esistente, anche in considerazione del principio del lavoro stabile quale “forma comune”.
A. Morrone. La diposizione introdotta dal quesito era quella vigente nella normativa precedente (la Corte lo chiarisce in modo palese), anche se forse non con quella estensione (e ciò resta sottotraccia). Sul punto mi pare che i colleghi giuslavoristi abbiamo precisato quest’ultimo profilo. Rimasto, però, del tutto irrilevante nel giudizio di ammissibilità. Questo dimostra, ancora una volta, la tendenziale arbitrarietà del controllo di ammissibilità, tutto incentrato sulla coerenza interna di un nuovo quesito rispetto ai precedenti della giurisprudenza, il cui “uso e consumo” è, quindi, esclusivo del suo autore.
V. A. Poso. Una ulteriore valutazione che deve essere fatta è se il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (v. sentenza n. 57 del 2022). Si potrebbe sostenere, infatti, che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (v. sentenza n. 13 del 1999).
Sotto questo profilo a Vostro avviso risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?
Valerio Speziale. A mio giudizio non ci sono elementi per dire che l’effetto abrogativo sarebbe tale da determinare una disciplina del tutto diversa ed estranea al contesto normativo. Rinvio alle le ragioni che ho già ampiamente descritto in precedenza e confermate dalla Corte costituzionale con la sentenza n.14/2025.
S. Ciucciovino. Non mi pare che ci siano i presupposti per ritenere sussistente un carattere surrettiziamente propositivo dell’alternativa posta al corpo elettorale, benché l’incisione sul corpus normativo vigente appaia di rilevante portata.
A. Morrone. Mi sono già espresso nelle risposte precedenti alle quali rimando.
V. A. Poso. A Vostro avviso l’approvazione della richiesta referendaria, genererebbe o no «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017). Insomma, la normativa di risulta, sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020)?
La Corte costituzionale, nella sentenza esaminata, lo esclude, proprio in considerazione della natura vincolistica della legislazione precedente sulle causali del contratto a termine.
S. Ciucciovino. L’intervento modificativo sulla disciplina sottoposta a referendum è certamente notevole e renderebbe la regolamentazione di risulta eccezionalmente restrittiva. Ciò tuttavia non implicherebbe uno stravolgimento dei principi o dei criteri utilizzati dal legislatore in questa materia, in quanto l’apposizione del termine al contatto di lavoro è sempre stata informata ad un principio di contenimento rispetto all’assunzione a tempo indeterminato. Tale obiettivo è stato realizzato di volta in volta dal legislatore con differenti tecniche e con impostazioni più o meno restrittive, ma pur sempre facendo affidamento (anche) sulla contrattazione collettiva.
Valerio Speziale. Concordo pienamente con quanto affermato dalla Corte costituzionale.
La sussistenza di causali giustificative del termine, affidate alla legge, all’autonomia collettiva e a quella individuale è nella storia della disciplina sul contratto a t. determinato. Ma vi sono anche argomentazioni ulteriori. Il testo attuale dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 e quello che scaturirebbe dall’abrogazione parziale sono, dal punto di vista delle tecniche utilizzate simili, perché entrambe prevedono ragioni che legittimano la stipula del contratto, predeterminate dalla legge, dai contratti collettivi e da quello individuale. Essi, inoltre, come già detto, sarebbero parzialmente coincidenti. Le differenze, che evidentemente ci sono, sono conseguenza dell’effetto abrogativo, che altrimenti non sarebbe neppure concepibile se tutto dovesse essere lasciato come prima. Ma è evidente che, eliminare la acausalità nei primi 12 mesi è possibile in un sistema che prevede invece esigenze oggettive seppure per un periodo temporale ulteriore (da 12 a 24 mesi). Escludere alcune tipologie di contratti collettivi e una norma aperta che lascia all’autonomia individuale la individuazione delle esigenze tecnico produttive avviene in un contesto in cui le parti individuali possono ancora fissare il termine per ragioni sostitutive e non viene modificata la possibile introduzione di causali da parte di contratti collettivi stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale. In definitiva, vi è piena coerenza con i principi e le regole già contenute nel testo legislativo sottoposto ad abrogazione e non vi è alcun mutamento dei “tratti caratterizzanti” della normativa, ma solo un suo diverso contenuto.
A. Morrone. Anche in questo caso mi limito a richiamare le risposte precedenti.
V. A. Poso. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si possono prospettare mi sembrano problematici, per evitare il voto popolare, considerati anche i tempi ristretti, già a far data dal deposito della sentenza della Corte Costituzionale, a maggior ragione ora. Si fa per discutere: come avrebbe potuto intervenire il legislatore (non solo nel senso demolitorio auspicato dalla proposta referendaria, ovviamente) in maniera sufficiente ad evitare il referendum abrogativo?
V. Speziale. Nel momento in cui si scrive, la vicinanza con le date fissate per il referendum (8 e 9 giugno 2025) rende quanto meno problematico, se non impossibile, un intervento del legislatore, che, tra l’altro, non sembra minimamente orientato a modificare la disciplina contenuta negli artt. 19 e ss. del d.lgs. n. 81/2015. E questo anche in considerazione del fatto che l’attuale maggioranza parlamentare, certamente non favorevole al referendum, confida probabilmente sul mancato raggiungimento del quorum, che è stata una caratteristica di tutte le recenti consultazioni popolari di questo tipo. Tale speranza è ulteriormente suffragata dalla drastica riduzione del numero dei votanti nelle recenti elezioni politiche nazionali o locali.
Comunque, in linea teorica, sarebbe possibile emanare un Decreto-legge che introducesse, con effetto immediato e prima della consultazione, modifiche assai rilevanti del testo attuale. Ma anche in questo caso i tempi sono strettissimi, perché la nuova normativa dovrebbe comunque superare il vaglio preventivo della Corte di cassazione.
In ogni caso, ragionando in astratto, la risposta a questa domanda presuppone la descrizione dei principi enucleati dalla legge e dalla giurisprudenza in materia. Infatti, ai sensi dell’art. 39 della l. n. 352/1970, la mancata effettuazione del referendum è condizionata dal fatto che, prima della data del suo svolgimento, la normativa sottoposta al quesito popolare (intesa nel suo complesso o con riferimento a singole disposizioni) sia abrogata. E la Corte costituzionale, con la sentenza 17.5.1978, n. 68, ha dichiarato l'illegittimità dell’art. 39 nella parte in cui non prevede che il referendum debba ugualmente svolgersi qualora all'abrogazione dell'intera normativa o di singole disposizioni segua un’«altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti». Le ordinanze dell’Ufficio Centrale della Cassazione successive a questa pronuncia della Corte fanno sempre riferimento alla necessità di verificare se la nuova normativa abbia realmente effetto innovativo sopra descritto o se, in sostanza, finisca per riprodurre il testo che si intendeva abrogare o lo modifichi in modo non rilevante, lasciando immutati principi ispiratori e contenuti normativi essenziali. E questo anche nel caso di sentenze della Corte costituzionale.
Alla luce di questo contesto normativo e giurisprudenziale, il legislatore dovrebbe intervenire con modifiche sostanziali, sia nel senso auspicato dai promotori del referendum, sia in senso opposto. Nel primo caso la riforma potrebbe riprodurre la disposizione che scaturirebbe dall’accoglimento del quesito referendario o introdurne una che si avvicinasse molto al suo contenuto. Oppure, la nuova normativa potrebbe esprimere una disciplina completamente diversa ed anche molto più liberalizzante di quella attuale. Ad esempio, tornando alla completa acausalità del contratto nel limite massimo dei 24 mesi, escludendo il ruolo dell’autonomia collettiva e di quella individuale. Il legislatore, con la sua discrezionalità politica, ha qui completa libertà. Quello che rileva è il concreto effetto innovativo della nuova disciplina che modifichi i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente e i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, secondo le parole di C. cost. n. 68/1978.
S. Ciucciovino. Non vedo assolutamente praticabile, né tecnicamente, né politicamente, un intervento legislativo in tempo utile per evitare il referendum abrogativo.
A. Morrone. Anche io condivido che le vie di una novella legislativa sono molto improbabili, ora, come anche prima, immediatamente dopo la pronuncia della Corte Costituzionale. In ogni caso, essendo chiaro il verso della domanda popolare, per superare l’ostacolo dell’art. 39 della legge n. 352/1970, il legislatore non avrebbe altra via che quella di superare la liberalizzazione della disciplina e introdurre limiti legali o negoziali al contratto a termine.
V. A. Poso. L’esito positivo del referendum abrogativo sicuramente comporterebbe il venir meno di ogni valutazione, in concreto, sulla sussistenza delle esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti e comunque il superamento della “liberalizzazione” dei contratti a termine, nella prima fase della stipulazione. Descrive bene, la Corte Costituzionale, l’obbiettivo perseguito dalla richiesta referendaria: «L’elettore, in altri termini, è posto dinanzi a un’alternativa secca: da un lato, la riespansione dei vincoli al ricorso al lavoro temporaneo, nella forma della generalizzazione dell’obbligo di giustificazione dell’apposizione del termine al contratto, senza eccezioni con riguardo alla durata del rapporto e in riferimento alle sole ipotesi previste dalla legge o dai contratti collettivi; dall’altro, la conservazione della normativa vigente, che, all’opposto, ne agevola l’impiego».
È, a Vostro avviso, una soluzione positiva il ritorno al regime vincolistico delle causali nei contratti a termine?
A. Morrone. La disciplina non è soggetta a vincoli costituzionali specifici. Resta il fatto che il lavoro rappresenta un valore fondamentale e la sua stabilità un corollario necessario. Il rapporto tra tempo indeterminato e tempo determinato, da questo punto di vista, va inteso nei termini di regola a eccezione. Una valutazione in materia da parte del legislatore gode di ampi margini di discrezionalità, ma resta ferma l’esigenza costituzionale di rispettare quel rapporto. Sarebbe opportuno un intervento di sistema, che adegui l’ordinamento delle relazioni industriali in questa materia alla realtà del mercato del lavoro. Non credo tuttavia che sia questo l’orientamento delle maggioranze politiche: si preferiscono interventi casuali e casistici che alimentano il disordine e la confusione nei rapporti di lavoro. La stessa Corte costituzionale, nel riscrivere molti capitoli del Jobs Act, ha ribadito l’esigenza di un intervento legislativo che riporti razionalità. L’orizzonte, tuttavia, sarà a lungo quello di un tira e molla tra legislazione emergenziale e giurisprudenza creativa, che continuerà ad alimentare un diritto del lavoro inadeguato a proteggere i diritti dei lavoratori.
S. Ciucciovino. In realtà anche il regime attuale è vincolistico. Le assunzioni a termine entro i 12 mesi sono sganciate da causali oggettive ma comunque assoggettati a limiti di durata e di carattere quantitativo. Il ritorno ad una tecnica di limitazione del contratto a termine di tipo oggettivo e legato al ricorrere di presupposti sostanziali sicuramente immetterà una maggiore dose di incertezza applicativa, che non necessariamente si tradurrà in una maggiore tutela per i lavoratori. Piuttosto modificherà in modo sostanziale i canali di controllo dell’occupazione temporanea, attribuendone la gestione unicamente alla fonte collettiva, salvo che per le ragioni sostitutive.
Valerio Speziale. Ho già espresso la mia opinione. Ritengo che il ritorno ad un regime vincolistico delle causali nei contratti a termine, realizzato secondo la volontà dei promotori del referendum o anche con tecniche diverse - con una combinazione tra fattispecie legali legate al concetto di temporaneità delle esigenze tecnico produttive e quelle definite da contratti collettivi stipulati da soggetti effettivamente rappresentativi – sia una soluzione positiva. Non posso che rinviare a quanto ho già detto.
La giurisdizione amministrativa sull’impugnazione dell’elenco Istat delle pubbliche amministrazioni (Nota a Cass. Sez. Un. 25 novembre 2024, n. 30220)
di Sonia Caldarelli
Sommario: 1. L’antefatto: la limitazione della giurisdizione contabile sull’elenco Istat delle p.a. “ai soli fini della normativa di spending review”; 2. Il fatto: il ricorso dinanzi alla Corte dei conti e le questioni di giurisdizione ivi sollevate; - 3. Il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice contabile secondo le Sezioni Unite della Corte di cassazione; - 4. Considerazioni conclusive
1. L’antefatto: la limitazione della giurisdizione contabile sull’elenco Istat delle p.a. “ai soli fini della normativa di spending review”
Ai sensi del vigente art. 11 comma 6 lett. b) del c.g.c., come novellato dall’art. 23 quater comma 2 del d.l. n. 137/2020 convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176[i], la Corte dei conti a sezioni riunite in speciale composizione ha giurisdizione esclusiva in tema di contabilità pubblica in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall'ISTAT “ai soli fini dell’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica”.
Si rammenta che l’ISTAT provvede annualmente[ii], ai sensi del Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nell'Unione europea (SEC 2010) di cui al regolamento (UE) n. 549/2013[iii], alla redazione di un elenco delle pubbliche amministrazioni (c.d. elenco ISTAT) i cui bilanci concorrono alla formazione del conto economico consolidato. La ricognizione dei soggetti rientranti nel perimetro delle p.a. avviene in base ai criteri economici e statistici previsti dal citato Regolamento 549/2013 Ue (Sec 2010) e comporta l’inclusione nell’elenco non solo dei soggetti formalmente pubblici, ma anche di quelli che, sebbene abbiano la veste giuridica formale di soggetti di diritto privato, debbano essere ascritti – sulla scorta dei criteri classificatori previsti nel regolamento europeo - nel settore delle pubbliche amministrazioni[iv].
La mera collocazione all’interno dell’elenco Istat (considerata la sua funzione meramente statistica) non comporterebbe di per sé alcun effetto lesivo; è piuttosto l’utilizzazione da parte del legislatore nazionale di quell’elenco (in sé neutrale) quale perimetro applicativo di norme diverse (ossia quelle in materia di spending review nonché in materia di equilibrio di bilancio e sostenibilità del debito) da quelle meramente statistiche o di controllo da parte dell’Unione europea del rispetto dei vincoli di bilancio imposti allo Stato, ad essere alla base della sua lesività e del conseguente contenzioso sull’esatta collocazione, nel settore della finanza pubblica, di soggetti formalmente privati all’interno della categoria delle amministrazioni pubbliche[v].
In una prima fase, si è sostenuto che la predisposizione annuale dell'elenco delle p.a. da parte dell’Istat avesse natura provvedimentale di “accertamento costitutivo” (con margini di discrezionalità tecnica) della qualità di amministrazioni pubbliche[vi] e che i peculiari effetti giuridici derivanti da una simile qualità (segnatamente la sottoposizione alle norme sul contenimento della spesa pubblica), se ritenuti lesivi della posizione vantata dal privato, in quanto meritevoli di tutela in sede giurisdizionale, avrebbero legittimato l’azione impugnatoria dinanzi al giudice amministrativo, nell’ambito della sua giurisdizione generale di legittimità ex art. 7 c.p.a.
Con il comma 169 dell’art.1 della legge 2012, n.228, il legislatore è intervenuto attribuendo la cognizione giurisdizionale su tale materia a favore della Corte dei Conti: si è difatti stabilito che “avverso gli atti di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata annualmente dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, è ammesso ricorso alle Sezioni riunite della Corte dei conti, in speciale composizione, ai sensi dell'articolo 103, secondo comma, della Costituzione”, nonché all’art. 11 comma 6 lett. b) del CGC che “Le sezioni riunite in speciale composizione, nell'esercizio della propria giurisdizione esclusiva in tema di contabilità pubblica, decidono in unico grado sui giudizi: b) in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall'ISTAT”. Il presupposto implicito della disposizione è che essa interveniva per modificare un sistema di tutela giurisdizionale comunque assicurato dell’ordinamento, semplicisticamente individuato (in origine) nella giurisdizione amministrativa; il richiamo all’art. 103 comma 2 Cost., ai sensi del quale la Corte dei Conti ha “giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica ed in quelle individuate dalla legge”, si è reso, invece, necessario ai fini della esatta collocazione costituzionale della garanzia giurisdizionale apprestata, così riconoscendosi l'attinenza alle “materie di contabilità pubblica” delle questioni concernenti l'elenco delle amministrazioni pubbliche tenuto dall'Istat.
Da ultimo, l’art. 23 quater comma 2 del d.l. n. 137/2020 ha novellato l’art. 11 comma 6 lett. b) del Codice di Giustizia contabile, tramite l’aggiunta “dopo le parole: "operata dall'ISTAT" delle seguenti: ", ai soli fini dell'applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica"[vii]. Attraverso la novella normativa, i poteri della Corte dei Conti sezioni riunite in speciale composizione nell’esercizio della “giurisdizione esclusiva”[viii] in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT, sono stati limitati alla sola applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, così escludendo che l’accertamento giurisdizionale da essa operato della insussistenza, con riferimento ad un dato soggetto, dei criteri stabiliti dal Sec2010, possa incidere sulla consistenza formale e sostanziale dell’Elenco Istat delle PA (in altri termini, l’accertamento giurisdizionale non incide sulla status di PA, ma soltanto sull’applicazione della normativa di spending review) e sull’obbligo di rispetto delle altre previsioni normative a cui sono astretti i soggetti ivi inclusi (tra cui le disposizioni di derivazione europea in materia di equilibrio dei bilanci e sostenibilità del debito delle amministrazioni pubbliche, di cui agli artt. 81 e 97 Cost., nonché articoli 3 e 4 della legge 24 dicembre 2012, n. 243 e disposizioni in materia di obblighi di comunicazione dei dati e delle informazioni rilevanti in materia di finanza pubblica[ix]).
Da ciò è scaturito il problema dell’effettiva tutela degli enti inseriti nel predetto elenco aventi interesse all’espunzione dallo stesso ovvero dell’esistenza di una giurisdizione, diversa da quella contabile (ossia quella amministrativa), competente ad annullare in parte qua il relativo elenco.
2. Il fatto: il ricorso dinanzi alla Corte dei conti e le questioni di giurisdizione ivi sollevate
La Società Autostrade del Brennero SpA presentava ricorso dinanzi alla Corte dei conti per ottenere, nei confronti dell’Istat, l’accertamento e la declaratoria di non applicazione nei suoi confronti della disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica ai sensi dell’art. 11 c.g.c. e comunque della insussistenza dei presupposti per la sua qualificazione come “amministrazione pubblica” in violazione dell’art. 1 comma 3 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 e della disciplina europea di cui al regolamento 549/2013/UE; inoltre, chiedeva l’annullamento dell’elenco Istat nella parte in cui aveva inserito la predetta società tra le amministrazioni ivi rientranti. La ricorrente sollevava altresì la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23 quater del d.l. n. 137/2020, per aver limitato la giurisdizione della Corte dei conti in materia di elenco Istat ai soli effetti della disciplina nazionale in materia di spending review, escludendo la possibilità di incidere sulla validità dell’atto (mediante il suo annullamento in parte qua) ovvero vincolare l’Istat alla sua modifica, attribuendo – in ipotesi – alla concorrente giurisdizione amministrativa la verifica della legittimità dell’inclusione nell’elenco, per violazione dell’art. 103 comma 2 Cost. che riconoscerebbe alla Corte dei conti giurisdizione esclusiva sulle controversie di cui trattasi in quanto afferenti alla materia della “contabilità pubblica”.
Nelle more del giudizio, la CGUE con la sentenza della Prima Sezione, 13 luglio 2023, Cause riunite C‑363/21 e C‑364/21, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathlon, resa all’esito del rinvio pregiudiziale disposto con due ordinanze della Corte dei Conti, Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione, ossia la n. 5/2021/RIS del 3 giugno 2021 e la n. 6/2021/RIS del 10 giugno 2021[x], si pronunciava sulla compatibilità europea dell’art. 23 quater del d.l. n. 137/2020, escludendo che il quadro normativo sovranazionale di riferimento osti ad una normativa nazionale che limiti la competenza del giudice contabile a statuire sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco delle amministrazioni pubbliche purché, tuttavia, siano garantiti l’effetto utile dei regolamenti e della direttiva summenzionati nonché la tutela giurisdizionale effettiva imposta dal diritto dell’Unione.
Secondo il giudice europeo, in adesione al noto principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro disciplinare le modalità procedurali dei mezzi di ricorso nel rispetto dei principi di equivalenza e effettività[xi]. La Cgue, ha tuttavia indicato precisi criteri e parametri a cui il giudice nazionale deve attenersi al fine di verificare se l’art. 23 quater rispetti i limiti della equivalenza e dell’effettività, precisando che per il diritto dell’Unione europea l’esistenza di una doppia giurisdizione (contabile e amministrativa) non potrebbe ritenersi in contrasto con il diritto alla effettività della tutela giurisdizionale[xii], purché un ente che contesti la decisione di qualificazione adottata nei suoi confronti possa limitarsi a proporre un unico ricorso per veder esaminata la propria domanda (c.d. autosufficienza del ricorso)[xiii]; viceversa, qualora il giudice nazionale dovesse ritenere che la novella legislativa “determina l’assenza di qualsiasi controllo giurisdizionale delle decisioni dell’ISTAT relative all’iscrizione di enti nel settore delle amministrazioni pubbliche, come definito nel regolamento n. 549/2013, bisognerebbe in tal caso considerare che tale disposizione rende impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del suddetto regolamento e, pertanto, non permette di garantire l’effetto utile della direttiva 2011/85. Infatti, in una simile ipotesi, detti enti non potrebbero adire alcun giudice ai fini del controllo delle misure adottate dall’ISTAT in applicazione del regolamento di cui sopra[xiv]”.
Alla luce della intervenuta sentenza del Giudice europeo, la Corte dei conti – nel ricorso promosso dalla Società Autostrade del Brennero -, si pronunciava con sentenza non definitiva n. 17 del 2023[xv] ed, utilizzando gli spazi interpretativi lasciati aperti dal giudice europeo, disapplicava l’art. 23 quater comma 2 per contrasto con il diritto UE, accedendo alla tesi interpretativa secondo cui per effetto di tale previsione normativa si sarebbe determinato un irriducibile vuoto di tutela. Secondo il Giudice contabile l’art. 23 quater del d.l. n. 137/2020 non avrebbe introdotto peculiari riparti di giurisdizione in base al tipo di tutela richiesta, poiché sulla stessa materia la giurisdizione del giudice contabile è rimasta “esclusiva” (art. 11, co., 6 c.g.c.). L’effetto innovativo dell’art. 23 quater, dunque, non riguarderebbe l’an della giurisdizione, ma il quomodo avendo il legislatore ridefinito l’oggetto della tutela attraverso la limitazione dei “fini” (cioè degli effetti) della giurisdizione contabile, così escludendo la disponibilità di mezzi di tutela, quali l’annullamento (produttivo di effetti erga omnes) o la disapplicazione a garanzia di altri effetti/fini, tra cui, quelli del diritto Ue. Inoltre, si è rilevato che sul piano costituzionale, ai sensi degli artt. 103 e 100 Cost., la giurisdizione in materie di contabilità pubblica, ed in particolare sul bilancio, competerebbe alla giurisdizione “generale” della Corte dei conti mentre, viceversa, non esisterebbe una giurisdizione generale dell’autorità giurisdizionale amministrativa per l’annullamento degli atti.
Sulla scorta delle argomentazioni sopra sintetizzate, le Sezioni riunite escludevano la giurisdizione generale e residuale per l’annullamento degli atti amministrativi a favore del G.A. sulle controversie di cui trattasi e, di conseguenza, disapplicato l’art. 23-quater del d.l. n. 137/2020 in base alla sentenza CGUE, Prima Sezione, Cause riunite C‑363/21 e C‑364/21, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathlon, affermavano la propria giurisdizione piena ed effettiva sulla materia ai sensi del depurato art. 11, co. 6, c.g.c.
3. Il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice contabile secondo le Sezioni Unite della Corte di cassazione
Avverso la sentenza n.17/2023 della Corte dei conti, il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Istat proponevano ricorso in cassazione deducendo un unico motivo di impugnazione, ossia la violazione dell’art. 7 c.p.a. e dell’art. 11 del c.g.c., per aver ritenuto la Corte dei conti ricompresa nella sua giurisdizione la competenza ad annullare l’elenco Istat. In altri termini, secondo le amministrazioni ricorrenti, contrariamente a quanto affermato dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, per effetto della limitazione della sua giurisdizione nella materia dell’elenco Istat - introdotta con l’art. 23 quater del d.l. n. 137/2020 – “ai soli fini dell’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica”, dovrebbe ritenersi sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo per gli ulteriori profili. Non si delineerebbe pertanto alcun vuoto di tutela (tale da determinare il contrasto del sistema giurisdizionale nazionale con la normativa europea), stante la possibilità per l’ente leso dall’inclusione nell’elenco Istat, di esperire l’azione di annullamento in parte qua dinanzi al Giudice amministrativo nell’ambito della sua giurisdizione generale di legittimità [xvi].
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza del 25 novembre 2024, n. 30220, pur avendo dichiarato inammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 360 comma 3 c.p.c. in ragione della natura non definitiva della sentenza impugnata (vertente solo sulla questione di giurisdizione), hanno affrontato funditus il riparto di giurisdizione tra giudice contabile e giudice amministrativo nella specifica materia dell’impugnazione dell’elenco Istat delle PA ritenendo sussistenti i presupposti per l’enunciazione del principio di diritto ex art. 363 c.p.c.: nella sentenza in commento, la Corte ha accolto un’opzione interpretativa dell’art. 23 quater comma 2 del d.l. n. 137/2020 alternativa e diversa rispetto a quella fatta propria dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, affermando che, per effetto della limitazione della giurisdizione contabile nelle controversie relative all’elenco Istat “ai soli fini dell’applicazione della normativa sul contenimento della spesa pubblica”, non si è creato alcun vuoto di tutela, essendo rimessa alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, quale giudice naturale delle controversie in cui vengono in rilievo interessi legittimi, la tutela avverso l’impugnazione dell’elenco Istat.
Una simile conclusione è stata raggiunta dalle Sezioni Unite in base a due fondamentali argomenti: il primo, è che l’inclusione nell’elenco Istat avrebbe natura provvedimentale, cui si contrapporrebbe, in capo agli enti coinvolti, una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, con conseguente naturale giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 7 c.p.a.; il secondo, è che la “riserva di giurisdizione” in favore della Corte dei conti di cui all’art. 103 comma 2 Cost., non sarebbe tale da escludere la competenza generale e residuale del giudice amministrativo, incontrando il limite funzionale della interpositio legislatoris.
Ne deriverebbe che, a fronte della contrazione dell’ambito di giurisdizione contabile (limitata alla sola disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica), dovrebbe ritenersi “riespansa” la giurisdizione del giudice amministrativo chiamato, nell’ambito della sua giurisdizione generale di legittimità, ad operare il vaglio della legittimità dell’azione amministrativa e la tutela degli interessi legittimi alla luce degli usuali vizi del provvedimento. La riespansione della giurisdizione del giudice amministrativo porterebbe altresì ad escludere la possibile lesione dell’autosufficienza del ricorso (rilevante come violazione dell’effettività della tutela secondo la giurisprudenza della Cgue): ciò in quanto, la tutela di annullamento è attribuita al solo giudice amministrativo, con la conseguente autosufficienza del ricorso, senza necessità di duplicazione dello stesso dinanzi alla Corte dei conti.
Sempre secondo la Corte, una simile soluzione non porrebbe il rischio di un contrasto tra giudicati in quanto la giurisdizione contabile avrebbe “un oggetto differente (….) rispetto alla disciplina eurounionale”, né potrebbe rinvenirsi un contrasto con la Costituzione (artt. 100 e 103) in quanto “non viene in rilievo una attribuzione necessaria del giudice contabile, ma una determinazione il cui ambito può essere disegnato, in concreto dal legislatore”.
4. Considerazioni conclusive
La decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sollecita alcune riflessioni in relazione alla ricostruzione del “criterio” di riparto della giurisdizione tra giudice amministrativo e contabile nella specifica materia dell’elenco Istat delle p.a.
Nell’affermare la giurisdizione amministrativa sull’impugnazione dell’elenco Istat le Sezioni Unite hanno, anzitutto, ritenuto che gli enti ivi inclusi sarebbero titolari di interessi legittimi con conseguente radicamento, ai sensi dell’art. 103 comma 1 Cost. e art. 7 c.p.a., della generale giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo.
Si tratta tuttavia di una affermazione non argomentata, non facendosi carico la pronuncia di indicare le ragioni per le quali a fronte dell’attività espletata dall’Istat di ricognizione degli enti che rientrano nel conto economico consolidato, i soggetti interessati da detta ricognizione sarebbero titolari di una posizione di interesse legittimo[xvii], e comunque non persuasiva, anche alla luce della giurisprudenza del giudice contabile che ha ricostruito l’interesse sotteso a siffatte controversie in termini di “status”[xviii].
In effetti, l’inserimento di un ente all’interno dell’elenco Istat assume valore ai fini della qualificazione in termini pubblici del soggetto ivi incluso; tale qualificazione giuridica, costituisce la condizione da cui derivano un complesso di situazioni giuridiche attive e passive; si tratta quindi dell’attribuzione di uno status – ossia quello di pubblica amministrazione (o meglio, di pubblica amministrazione ai fini della finanza pubblica)-, dal quale discendono obblighi e vincoli ricadenti sugli enti che vi figurano iscritti, come tali potenzialmente pregiudizievoli. Nelle controversie relative all’elenco Istat, l’interesse sotteso è quello alla corretta attribuzione ad un ente della qualificazione giuridica pubblica per effetto dell’accertamento della sussistenza dei requisiti, nelle specie di derivazione europea, all’uopo richiesti. Così ricostruita la vicenda non pare riducibile all’interesse legittimo quale criterio attributivo della “residuale” giurisdizione amministrativa venendo, piuttosto, in rilievo un tertium genus (rispetto al binomio interesse legittimo e diritto soggettivo), cioè quello dell’accertamento di uno “status” [xix].
Vero è che sino alla legge n. 228/2012 il giudice amministrativo si era ritenuto munito di giurisdizione sulle azioni di annullamento in parte qua dell’elenco Istat: tuttavia, dall’analisi della relativa giurisprudenza si ricava che, seppur dietro la veste impugnatoria, il giudizio era diretto all’accertamento dei presupposti per l’attribuzione della qualificazione del soggetto come pubblica amministrazione; in altri termini, la ritenuta natura provvedimentale dell’elenco Istat a fronte della quale si collocherebbero interessi legittimi, era in realtà il portato di una esigenza “contingente”, cioè quella di assicurare una qualche forma di tutela giurisdizionale agli enti interessati dall’inclusione nell’elenco, non basata su una accorta ricostruzione giuridica dell’interesse sotteso.
Alla luce di ciò, l’affermazione contenuta nella sentenza in commento secondo cui in base alla natura dell’interesse sotteso dovrebbe riespandersi la giurisdizione amministrativa generale di legittimità, appare piuttosto un escamotage per introdurre un nuovo riparto di giurisdizione tra Corte dei conti e giudice amministrativo basato, non già sulla natura della posizione soggettiva sottesa, bensì su “materia residuale”: criterio, tuttavia, non coperto dalla Costituzione.
Ulteriori riflessioni possono anche svolgersi in relazione al secondo pilastro su cui si regge la conclusione a cui sono pervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, ossia l’insussistenza di una giurisdizione esclusiva del giudice contabile nella materia di contabilità pubblica in base alla tradizionale giurisprudenza della Corte costituzionale che si è sviluppata con riferimento alla giurisdizione contabile in materia di responsabilità per danno erariale.
Al riguardo, si deve rammentare che l’art. 1, comma 196 della legge n.228 del 2012, quale norma attributiva della giurisdizione al giudice contabile nella materia che ci occupa, non si è limitata a trasferire un ambito di competenza dal plesso giurisdizionale amministrativo alla giurisdizione della Corte dei Conti (mantenendo inalterati poteri cognitivi e forme del rimedio giustiziale), ma al contrario, attraverso l’esplicito richiamo all’art. 103, comma 2 Cost., ha riconosciuto l’attinenza alle “materie di contabilità pubblica” delle questioni concernenti l’elenco delle amministrazioni pubbliche tenuto dall’Istat, espressamente qualificata come “giurisdizione esclusiva” dall’art. 11 comma 6 del c.g.c. Il riferimento testuale all’esclusività di tale giurisdizione in quanto afferente alla materia di “contabilità pubblica”, non modificato dal d.l. 137/2020, depone nel senso di escludere la natura concorrente di altre giurisdizioni e quindi anche di quella amministrativa; nello stesso senso depone anche la lettura congiunta dei commi 1 e 2 dell’art. 23 quater, alla luce dei relativi lavori preparatori[xx]: il primo comma dell’art. 23 quater del d.l. n. 137/2020 ha difatti sostituito alle decisioni giurisdizionali della Corte dei conti di espunzione di determinati soggetti dall’elenco ISTAT, il riconoscimento ex lege della loro natura di unità che, secondo i criteri i criteri del SEC 2010, concorrono alla determinazione dei saldi di finanza pubblica del conto economico consolidato: in altri termini, il legislatore (con una norma che ha il tenore di una norma-provvedimento) ha sterilizzato, con riguardo ai soggetti puntualmente indicati nell’elenco ivi accluso, le sentenze passate in giudicato della Corte dei conti che avevano invece espunto i predetti enti dell’elenco Istat, perché ritenuti privi dei requisiti per la loro qualificazione come pubbliche amministrazioni ai sensi del Regolamento 549/13/UE; il secondo comma ha, invece, limitato pro futuro i poteri di accertamento e decisori del giudice contabile al fine di rendere insensibile l’elenco Istat a decisioni di annullamento parziale dell’autorità giudiziaria. Si tratta di disposizioni normative chiaramente volte a preservare l’integrità dell’elenco Istat dalle decisioni di accoglimento delle domande giudiziali di annullamento in parte qua dell’elenco: da esse, emerge la volontà del legislatore di escludere in modo assoluto che l’esercizio dei poteri giurisdizionali (in astratto quindi anche del giudice amministrativo) possa condurre ad una modifica dell’elenco Istat.
Le Sezioni Unite per superare il dato letterale (e pur riconoscendo le “indubbie ambiguità” del dato normativo), hanno richiamato i principi elaborati dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 204/2004 secondo cui il legislatore può ampliare l’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo con “riguardo a materie (in tal senso particolari) che, in assenza di tale previsione, comporterebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità”: tuttavia, la richiamata giurisprudenza costituzionale, elaborata con riferimento all’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sui diritti soggettivi, per un verso non sembra possa superare il predetto dato testuale rimasto inalterato (sicché la interpositio legislatoris appare chiara nel senso di aver attribuito solo al giudice contabile le controversie sulla ricognizione annuale delle PA effettuate dall’Istat) e per altro verso non sembra poter in sé giustificare la ritenuta legittima sottrazione al giudice contabile delle controversie in materia di elenco Istat per fini diversi (ossia per fini “europei” secondo le locuzioni utilizzate dalla Cassazione) da quelli relativi all’applicazione della normativa in materia di spending review. Sotto tale ultimo profilo, si deve rammentare che ai sensi dell’art. 103 comma 2 della Costituzione “La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”: il criterio di collegamento evocato dalle Sezioni Unite mediante il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004 potrebbe riguardare le “altre materie specificate dalla legge” rispetto alle quali l’interpositio legislatoris incontrerebbe il limite della loro afferenza alla materia della contabilità pubblica, ma anche la libertà nella definizione della loro ampiezza. Là dove, invece, un ambito ordinamentale abbia consistenza di materia di contabilità pubblica, la specificità della giurisdizione contabile nel disegno costituzionale di composizione del sistema giurisdizionale in una pluralità di plessi magistratuali, potrebbe condurre a ritenere che essa sia esclusiva, nel senso di unica, cioè tale da escludere il concorso con altre giurisdizioni. In dottrina si è invero sostenuto che l’esclusività della giurisdizione della Corte dei conti potrebbe argomentarsi quale portato della peculiare afferenza di un giudizio alla materia della contabilità pubblica in senso stretto: in altri termini, mentre per le materie di contabilità pubblica la giurisdizione contabile escluderebbe il concorso di altre giurisdizioni, per le materie solo collegate alla contabilità pubblica, la giurisdizione contabile potrebbe concorrere con le altre[xxi]. La tesi appare condivisibile in quanto conferisce uno specifico significato al comma 2 dell’art. 103 che, nella definizione dell’ambito materiale della giurisdizione contabile, distingue la giurisdizione sulle materie di contabilità pubblica dalle altre individuate dalla legge. Distinzione questa che può trovare una ratio proprio nella esclusività della giurisdizione contabile sulle materie di contabilità pubblica in senso stretto e sulla, invece, potenziale concorrenza della giurisdizione contabile con le altre giurisdizioni in caso di materie solo collegate alla prima.
Occorre quindi chiedersi se le controversie relative alla corretta perimetrazione del settore delle pubbliche amministrazioni che concorrono alla definizione del conto economico consolidato costituisca o meno una materia di contabilità pubblica in senso stretto, come tale sottratta alla concorrente giurisdizione del giudice amministrativo[xxii]. La risposta sembra dover essere positiva in quanto la delimitazione del perimetro dei soggetti qualificati come pubbliche amministrazioni in base al regolamento Sec 2010, coincide con l’ambito soggettivo di applicazione delle previsioni normative sugli obblighi di equilibrio di bilancio e di compartecipazione alla garanzia della sostenibilità del debito pubblico di matrice europea nonché costituzionale[xxiii].
Neppure appare pienamente convincente la tesi sostenuta dalla Corte di cassazione in ordine all’assenza di criticità, sub specie di potenziale contrasto tra giudicati (ossia quello contabile e quello amministrativo), stante il differente “oggetto” delle controversie (l’uno relativo alla disciplina nazionale in materia di contenimento della spesa pubblica, l’altro invece esteso alle fonti europee): il ragionamento omette di considerare che tanto la Corte dei conti, quanto il giudice amministrativo, sarebbero chiamati a valutare la ricorrenza in capo al ricorrente dei requisiti per essere incluso nell’elenco Istat in base ai criteri del Sec 2010. Si potrebbe obiettare che un simile accertamento da parte del giudice amministrativo sarebbe mediato dai motivi di impugnazione “a critica vincolata” in quanto necessariamente relativi ad uno dei tre vizi di illegittimità del provvedimento; tuttavia, nella prassi (soprattutto attraverso il vizio dell’eccesso di potere e delle sue figure sintomatiche, come dimostra il contenzioso anteriore al 2012), il giudice amministrativo sarà comunque portato a valutare, entro i limiti del proprio sindacato, il corretto accertamento da parte dell’Istat della ricorrenza in capo all’ente dei criteri di matrice europea per essere qualificato come PA; esattamente lo stesso accertamento a cui sarebbe chiamato - stavolta attraverso un ben più pregnante sindacato di merito - il giudice contabile, sebbene “ai soli fini dell’applicazione della normativa in materia di contabilità pubblica”, con conseguente palese rischio di contrasto tra giudicati; né potrebbe validamente affermarsi (come si legge nella sentenza in commento) che sarebbe preclusa (anche solo in via incidentale) al giudice contabile l’applicazione del diritto europeo (segnatamente del Regolamento 549/13/UE e della Direttiva 85/2011/UE): una simile conclusione (tenuto conto della derivazione europea della normativa di cui trattasi, rispetto alla quale non appare percorribile una netta scissione dei profili di diritto interno da quelli europei), si porrebbe in frontale contrasto con il noto principio del primato del diritto sovranazionale.
Infine, la tesi sviluppata nella sentenza in ordine alla autosufficienza dell’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo (argomento che ha consentito di escludere una potenziale violazione del diritto europeo, come interpretato dalla Cgue) rende in sostanza inutile l’art. 23 quater comma 2 del d.l. n. 137/2020 (inteso come norma limitativa dell’ambito della giurisdizione contabile): ciò in quanto, una volta riconosciuto il concorso della giurisdizione amministrativa sulla controversie in materia di elenco Istat e in particolare la sola competenza del giudice amministrativo ad annullare il predetto elenco, il solo ricorso dinanzi al g.a. sarebbe sufficiente per ottenere l’annullamento per ogni scopo dell’elenco.
[i] Decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 recante “Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19” convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176 (in S.O. n. 43, relativo alla G.U. 24/12/2020, n. 319). Per un commento all’art. 23 quater del d.l. 137/2020 si v. C. Russo, Annotazioni a margine dell’art. 23 quater D.L. 137/2020 alla luce della rilevanza generale e sistematica dell’elenco Istat, in Rass. Gen. Avv. dello Stato, 2021, 1 ss. Sia anche consentito rinviare a S. Caldarelli, Elenco Istat delle PA e giurisdizione della Corte dei Conti: i confini soggettivi della finanza pubblica alla luce delle misure connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, in Territori e istituzioni. Problemi e prospettive nel tempo della Ripartenza, a cura di G. Colombini, M. D’Orsogna e L. Giani, Ed. Scientifica, Napoli, 2023, 389 ss.
[ii] Nel nostro ordinamento l’art. 1 della legge n.196/2009 ha disciplinato la ricognizione delle amministrazioni pubbliche che rientrano nel conto economico consolidato affidando all’Istat il relativo compito, che vi provvede tramite un proprio atto pubblicato ogni anno in Gazzetta Ufficiale entro il 30 settembre (c.d. “elenco Istat”)
[iii] Il sistema europeo dei conti nazionali e regionali è disciplinato dal Regolamento 549/2013/UE, pubblicato il 26 giugno 2013 e operativo dal 1° settembre 2014 (“Sec 2010”). Il sistema europeo dei conti (Sec) è definito all’art. 1, par. 1 del Regolamento n. 549/2013 come un sistema contabile comparabile a livello internazionale, che descrive in maniera sistematica e dettagliata il complesso di una economia. La funzione del Sec è essenzialmente di natura statistica, ossia quella di documentare la realtà economica prescindendo dalla forma giuridica: difatti, i criteri per la sussunzione di un soggetto nel settore delle pubbliche amministrazioni ai sensi del sistema europeo dei conti hanno natura sostanziale di parametri economici e monetari, in ragione dei quali anche soggetti formalmente privati - secondo le qualificazioni dell’ordinamento nazionale - possono essere configurati come pubblici ai fini dell’inserimento nel conto economico consolidato In dottrina, cfr. S. Del Gatto, Sistema “Sec 95” ed elenco Istat. Sull'incerto confine della sfera pubblica, in Giorn. dir. amm., 2013, p. 960 ss.; M. Di Lullo, Soggetti privati “pubbliche amministrazioni” ai sensi delle norme di contabilità e finanza pubblica, in Foro amm. C.d.S., 2013, 3579 ss.; M. Luciani, Indagine conoscitiva delle Commissioni riunite Affari costituzionali e Bilancio, seduta di lunedì 17 ottobre 2011, resoconto stenografico, in www.camera.it 25 ss.
[iv] I criteri classificatori del regolamento europeo non si basano su criteri giuridici, quanto, piuttosto, sull’effettivo comportamento economico degli operatori, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica e dalla loro veste formale. Ciò che appare dirimente ai fini qualificatori è, difatti, l’accertamento della “capacità di determinarsi autonomamente” da parte dell’ente, che va valutata con le specifiche modalità prescritte dalla disposizione che la prevede, e cioè “lungo le linee definite dagli altri indicatori”, e con riferimento ad un criterio economico e non strettamente giuridico, come espressamente dispone il par. 2.02, secondo cui “Le unità e gli insiemi di unità da prendere in considerazione nell'ambito della contabilità nazionale sono definiti in relazione al tipo di analisi economica a cui sono destinati e non in termini di unità abitualmente utilizzate per effettuare le rilevazioni statistiche”.
[v] Nel nostro ordinamento, per scelta del legislatore nazionale, i criteri definitori contenuti nel Sec 2010 hanno assunto un valore del tutto peculiare, da ultimo influenzando la nozione costituzionale di pubbliche amministrazioni: il comma 6 dell’art. 81 Cost., al fine di individuare i soggetti astretti dall’obbligo di rispetto della normativa europea in materia di finanza pubblica, utilizza la locuzione “complesso delle pubbliche amministrazioni”, rimettendone la puntuale definizione alla legge di attuazione approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale; l’art. 2 lett. a) della legge n.243/2012 (legge rinforzata di attuazione del comma 6 dell’art. 81 comma 6 Cost.), prevede che “si intendono: per «amministrazioni pubbliche» gli enti individuati con le procedure e gli atti previsti, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, dalla normativa in materia di contabilità e finanza pubblica, articolati nei sotto-settori delle amministrazioni centrali, delle amministrazioni locali e degli enti nazionali di previdenza e assistenza sociale” e precisa che” Per conto economico consolidato” si intende “il conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche formato dagli aggregati contabili delle entrate e delle spese di tali amministrazioni, classificati in conformità alle modalità stabilite dall’ordinamento dell’Unione europea”. Seppur non in via diretta l’art. 2 lett. a) della legge n.243/2012, si riferisce all’art. 1 della legge n.196/2009 che disciplina, a sua volta, conformemente alle previsioni sovranazionali, la ricognizione annuale ad opera dell’Istat delle amministrazioni pubbliche che rientrano nel conto economico consolidato. Per approfondimenti sulla nozione di pubblica amministrazione nel settore della finanza pubbliche e sul relativo contenzioso, sia consentito rinviare a S. Caldarelli, I vincoli al bilancio dello Stato e delle pubbliche amministrazioni, L’Unità del Diritto n. 29, Roma Tre Press, 2020, in particolare Cap. II, Sez. II e III, 148 ss.
[vi] Cons. St., Sez. VI, 10 dicembre 2015, n.5617.
[vii] L’art. 23 quater del citato d.l. n. 137/2020 si compone di due commi: il primo avente portata (almeno apparentemente) sostanziale (nel senso di definizione di uno status e del relativo regime giuridico) là dove prevede che “1. Agli enti indicati nell'elenco 1 annesso al presente decreto, in quanto unità che, secondo criteri stabiliti dal Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nell'Unione europea (SEC 2010), di cui al regolamento (UE) n. 549/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2013, concorrono alla determinazione dei saldi di finanza pubblica del conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche, si applicano in ogni caso le disposizioni in materia di equilibrio dei bilanci e sostenibilità del debito delle amministrazioni pubbliche, ai sensi e per gli effetti degli articoli 3 e 4 della legge 24 dicembre 2012, n. 243, nonché quelle in materia di obblighi di comunicazione dei dati e delle informazioni rilevanti in materia di finanza pubblica”; il secondo comma, invece, avente portata processuale, segnatamente attinente ai limiti della giurisdizione contabile nelle controversie sulla ricognizione annuale operata dall’Istat delle pubbliche amministrazioni da inserire nel conto economico consolidato.
[viii] La locuzione “giurisdizione esclusiva” è utilizzata dal legislatore: si veda in tal senso, art. 11 comma 6 del Codice di giustizia contabile che, sotto questo profilo, non è stato modificato per effetto dell’art. 23 quater comma 2 del d.l. n. 137/2020.
[ix]Le ragioni di tale intervento normativo sono ricavabili dalla lettura dei lavori preparatori: lo scopo è quello di preservare l’integrità dell’elenco Istat dalla decisioni di accoglimento delle domande giudiziali e annullamento in parte qua dell’elenco, sul rilievo che “l’esclusione dal conto economico consolidato di specifiche unità per le quali vi è stato un giudizio in tal senso della Corte dei Conti, ma che Eurostat, in accordo con ISTAT, considera dal punto di vista statistico appartenenti al perimetro delle amministrazioni pubbliche, comporterebbe l’immediata apposizione da parte di Eurostat di una riserva sulla qualità delle statistiche di finanza pubblica con evidenti conseguenze negative per il Paese. Gli esoneri prodotti dalle sentenze, per quanto sopra evidenziato, hanno impatto negativo sui saldi di finanza pubblica, atteso che le entrate e le spese degli enti continueranno ad essere consolidate nel conto della pubblica amministrazione”: cfr., Relazione governativa al disegno di legge di conversione del d.l. n. 154/2020, che aveva originariamente introdotto la norma poi tradotta nell’art. 23 quater del d.l. 137/2020.
[x] Corte dei Conti, Sez. Riun., sede giur., spec. comp., ordinanze nn. 5/2021/RIS del 3 giugno 2021 e 6/2021/RIS del 10 giugno 2021. A tali ordinanze di rinvio pregiudiziale alla CGUE, sono susseguite plurime sospensioni improprie dei giudizi avverso l’atto di ricognizione delle PA adottato dall’Istat nel 2020, dopo l’entrata in vigore dell’art. 23 quater del D.L. 137/2020, in attesa della risoluzione della questione interpretativa sottoposta al giudice europeo. Per un commento all’Ordinanza n.5/2021 cit., si v. E. Tomassini, Alla Corte di giustizia l’interpretazione della norma che ha limitato la giurisdizione delle Sezioni riunite della Corte dei conti in materia di inserimento nell’elenco Istat, in Riv. Corte Conti, 2021, 3, 191 ss.
[xi] Si v. l’art. 19 par. 1 del TUE, ai sensi del quale “La Corte di giustizia dell'Unione europea (….) assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati” mentre “Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione” e l’art. 4 par. 3 del TFUE, secondo cui “Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione.”. Il principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri è stato declinato per la prima volta dalla Corte di Giustizia nel 1976 e, successivamente, costantemente ribadito nella propria giurisprudenza: cfr. sentenza 16 dicembre 33/76, Rewe, punto 5 secondo cui “in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziaria intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta”. In dottrina, sull’autonomia procedurale degli Stati membri, si rinvia all’approfondita ricostruzione di D.U. Galetta, L'autonomia procedurale degli Stati membri dell'Unione Europea. Paradise Lost? Studio sulla c.d. autonomia procedurale: ovvero sulla competenza procedurale funzionalizzata, Torino, 2009. Più di recente, si v. anche S. Civitarese Matteucci e G. Gardini, Il primato del diritto comunitario e l'autonomia processuale degli Stati membri: alla ricerca di un equilibrio sostenibile, in Dir. pubbl., 2013; G. Greco, A proposito dell'autonomia procedurale degli Stati membri, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2014, 1 e ss.
[xii] Cgue, Prima Sezione, 13 luglio 2023, Cause riunite C‑363/21 e C‑364/21, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathlon, par. 95.
[xiii] Ivi par. 98.
[xiv] Ivi par. 94.
[xv] Corte dei conti, sezioni riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione, 19 ottobre 2023, n.17/2023/RIS. Per un commento, si v. S. Florian, Sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT (nota a Corte dei conti, sez. riunite, 19 ottobre2023, n.17), in questa Rivista, 18 luglio 2024.
[xvi] Cfr. Corte Cass. Sez. Un., n.3220/2024 cit., punto 7 dei Considerato in cui si legge che la questione controversa “si incentra sull’esistenza o validità di un riparto di giurisdizione tra la Corte dei conti e il giudice amministrativo ai sensi dell’art. 23 quater d.l. 137/2020 in relazione all’impugnazione dell’elenco delle amministrazioni pubbliche da inserire nel conto economico consolidato, redatto dall’Istat in attuazione della disciplina eurounitaria contenuta nel SEC 2010 (Sistema dei conti economici integrati), previsto e regolato dal reg. n. 549/2013/UE ed inserito nella cornice normativa delineata da una pluralità di atti unionali (in specie, la direttiva 85/2011/UE e il reg. n.473/2013/UE”
[xvii] Le Sezioni Unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 30220/2024, si riferiscono semplicisticamente alla giurisprudenza amministrativa anteriore all’art. 1 co. 196 della legge n. 228/2012 che, per assicurare una qualche forma di tutela agli enti inseriti nell’elenco Istat, aveva affermato la natura provvedimentale di quest’ultimo con conseguente ammissibilità dell’azione di annullamento nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità su interessi legittimi spettanti al GA. La predetta giurisprudenza è stata tuttavia superata proprio dalla norma del 2012 attributiva della giurisdizione contabile: la devoluzione alla Corte dei conti, sezioni riunite, in speciale composizione ed unico grado, costituisce difatti la naturale conseguenza della qualificazione sostanziale dell’interesse sotteso alle controversie di cui si tratta di una qualità giuridica (status) non riducibile ad un interesse legittimo di natura oppositiva.
[xviii] Si v. Corte conti, Sez. riun., 19 giugno 2020, n. 17/2020/RIS, in cui si legge che “la situazione giuridica soggettiva, posta in gioco, non è di interesse legittimo, bensì una situazione giuridica a carattere assoluto, consistente in uno status” ovverosia nella “qualificazione di una istituzione come ‘pubblica amministrazione’ che concorre alla formazione del conto economico consolidato e, con l’osservanza di specifiche norme di finanza pubblica, al coordinamento finanziario della Repubblica rispetto agli impegni comunitari”, da ciò derivando che “il bene della vita e il tipo di relazione soggettiva evocata con il ricorso, attengono al Bilancio, quale ‘sistema di informazioni’ funzionale alla sintesi e alle scelte di allocazione delle risorse, (C. cost. sent. n. 184/2016) ed in particolare alla certezza della perimetrazione del bilancio della Repubblica (art. 114 Cost.), rilevante nel sistema delle relazioni con l’Unione europea”; di qui “l’interesse ad un’azione di accertamento per la quale non è richiesta la stessa concretezza e attualità che è richiesta per gli interessi legittimi e per situazioni giuridiche soggettive relative (…) il ‘pregiudizio’ che muove l’interesse al ricorso (alle SS.RR.) è […] l’incertezza che deriva per chi agisce, rispetto agli oneri di solidarietà e di coordinamento che sono connessi al concorso dei soggetti dell’ordinamento al bilancio pubblico”; in ragione del carattere esclusivo e pieno della giurisdizione contabile la Corte dei Conti deve «assicurare una tutela piena ed effettiva al ricorrente e, per questa via, ripristinare la certezza sul ‘bene pubblico’ del Bilancio (Corte Cost., sentenze n. 184/2016, n. 228/2017 e n. 274/2017, n. 80/2017 e n. 49/2018 nonché Cons. Stato, Sez. IV, sentenze nn. 2200 e 2201/2018)”, anche mediante l’annullamento parziale dell’elenco”.
[xix] Sia consentito rinviare, per approfondimenti sulla tesi qui sinteticamente esposta, a S. Caldarelli, I vincoli al bilancio dello Stato e delle pubbliche amministrazioni, op. cit., 184 ss.
[xx] In questo senso, cfr. Corte Conti, Sez. Riun., sede giuri. Spec. Comp., Ordinanza n.5/2021 cit., punto 7.1. secondo cui “la volontà del legislatore, come oggettivata nella disposizione in esame, sia quella di escludere qualsiasi sindacato sul conto consolidato dello Stato italiano, eliminando qualsiasi verifica sulla corretta individuazione degli enti che, essendo stati inclusi nell’elenco ISTA, concorrono alla sua determinazione”.
[xxi] A. Manzione, I principi del giudizio in materia di responsabilità amministrativa, in A. Canale, F. Freni, M. Smiroldo (a cura di), Il nuovo processo davanti alla Corte dei conti, Giuffré, Milano, 2017, 73 ss.
[xxii] È indicativa dell’importanza del tema la circostanza che le Sezioni Unite della cassazione, abbiano in più passaggi rilevato che l’elenco Istat avrebbe valore generale per la definizione della soggettiva pubblica e non solo in funzione della normativa nazionale ed europea in materia di finanza pubblica. In altri termini, la Corte sembra aver voluto escludere la “sola” afferenza di tali controversie alla materia della contabilità pubblica per “giustificare” ex post la ritenuta attribuzione della giurisdizione concorrente del giudice amministrativo.
[xxiii] La recente dottrina ha affermato che sulla scorta di una interpretazione evolutiva e dinamica, la nozione di “contabilità pubblica” di cui al comma 2 dell’art. 103 Cost., dovrebbe oggi essere intesa in accezione moderna come “finanza pubblica”: in questo senso, si v. A. Carosi, Linee evolutive delle funzioni della Corte dei conti alla luce della recente giurisprudenza costituzionale, atti Convegno su L’evoluzione della contabilità pubblica al servizio della collettività. Giornata di studio in memoria di Salvatore Buscema, Roma, Corte dei conti 10 marzo 2016, in Riv. Corte dei conti, n. 3-4-2016, p. 459 ss.; G. Colombini, Brevi riflessioni sul debito e pubblico e giudice contabile, in questa Rivista, 2019, 2, 7 ss. secondo cui nella nozione di contabilità pubblica rientrano le norme sul “rispetto dei principi dell’equilibrio di bilancio e di sostenibilità del debito pubblico introdotti dalla riforma costituzionale del 2012 per lo Stato, per le amministrazioni non territoriali e per gli enti territoriali (artt.81,97,117,119), apresidio della unitarietà della finanza pubblica”.
Una delle conquiste di questi anni negli uffici giudiziari, ma più in generale nella giustizia, è la consapevolezza di come l’organizzazione sia elemento determinante che condiziona sia l’efficacia dell’intervento e la bontà del servizio, sia il benessere di tutti gli operatori. L’organizzazione non può essere patrimonio solo di chi dirige, ma deve essere una cultura diffusa che inevitabilmente investe tutti i soggetti che vi operano, dal magistrato che deve gestire il proprio ruolo, al cancelliere e funzionario che disciplina il lato amministrativo ed è, spesso, a diretto contatto con il pubblico, all’avvocato alle prese con un proprio studio e ai rapporti con la clientela e con l’autorità giudiziaria.
Non c’è dubbio che in tempi brevi sono stati fatti moltissimi passi in avanti anche grazie alla sinergia che si è creata con l’Università e con la consulenza organizzativista e al fondamentale apporto che hanno dato professori e studiosi (come i professori Zan e Butera che di recente ci hanno lasciato).
Un percorso non facile e lineare che di recente è stato rilanciato dal Progetto Unitario per l’Innovazione degli Uffici per il processo cui hanno lavorato, grazie a fondi europei di coesione, tutti gli uffici giudiziari e tutte le Università pubbliche italiane che nel giro di un anno e mezzo tra il marzo 2022 ed il settembre 2023 hanno accompagnato e supportato l’organizzazione degli Uffici per il processo e prodotto decine di progetti relativi a modelli organizzativi, banche dati giurisprudenziali, strumenti di supporto digitale.
Uno dei frutti di questo percorso per merito dell’Università di Milano Bicocca e di due suoi professori, Andrea Rossetti e Luca Verzelloni, è il lancio di una nuova rivista Quaderni di Organizzazione e Trasformazione Digitale della Giustizia reperibile on line: “una pubblicazione dedicata all’analisi e alla riflessione sui processi di innovazione tecnologica e organizzativa che stanno ridefinendo il volto della giustizia in Italia, in Europa e a livello internazionale.”
Come i due promotori della Rivista scrivono nella presentazione “La digitalizzazione dei processi, l'implementazione di nuovi strumenti informatici e la riorganizzazione delle strutture e dei processi di lavoro rappresentano non solo sfide operative, ma anche opportunità per ripensare profondamente il modo in cui la giustizia viene amministrata nel nostro Paese, così da poter garantire una risposta efficace e di qualità, entro un tempo ragionevole, alla domanda di giustizia proveniente dai cittadini.
La trasformazione digitale dell’amministrazione della giustizia non è solo una questione tecnica, ma anche etica e sociale. Richiede un dialogo costante tra diverse discipline e una visione inclusiva che tenga conto delle esigenze degli addetti ai lavori, ma anche dei cittadini, delle imprese e delle diverse componenti della società, intesa nel suo insieme.”
La nuova Rivista reperibile on line copre un enorme vuoto, dopo che i Quaderni di Giustizia e Organizzazione del COMIUG avevano cessato le pubblicazioni nel 2010, e apre una prospettiva di collaborazioni multidisciplinari strategica in questa fase di trasformazioni tumultuose e difficili prima ancora che da controllare, da capire.
Difatti in un contesto di rapidi cambiamenti tecnologici e di crescente domanda di efficienza e trasparenza, il sistema giustizia sta attraversando una trasformazione senza precedenti, particolarmente evidente nel nostro Paese.
La tentazione che molti possono avere di arrendersi alle tecnologie e di plasmare l’organizzazione sulle tecnologie è illusoria e perdente. È emblematico come anche a livello aziendale molti progetti di Intelligenza Artificiale (oltre l’80 %) falliscano semplicemente per il fatto che sin dall’inizio non erano chiari obiettivi e modalità del progetto, oltre che per la bassa qualità dei dati utilizzati. L’IA e le tecnologie vengono troppo spesso visti ed utilizzati come una sorta di bacchetta magica che risolve i problemi e non come la risposta tecnica a problemi organizzativi. L’interazione tra organizzazione di una struttura e la tecnologia nell’era dell’Intelligenza Artificiale non può essere impostata come l’iniezione di tecnica in una realtà stratificata, ma chiede un cambiamento di paradigma che richiede spesso un ripensamento profondo dei processi organizzativi e delle strategie operative.
Per questo la sfida dell’organizzazione è sempre più centrale e strategica ed una nuova rivista sul tema non può che essere la benvenuta.
I Quaderni di Organizzazione e Trasformazione Digitale della Giustizia (Q-Digito) nascono e vengono presentati come uno strumento per esplorare opportunità e potenzialità generate dall’incontro tra giustizia, tecnologia e innovazione organizzativa e come spazio di confronto tra magistrati, avvocati, funzionari e studiosi, promuovendo la condivisione di esperienze e buone pratiche, con un approccio multidisciplinare e comparativo.
Il primo numero raccoglie sette contributi che offrono una panoramica aggiornata e concreta delle trasformazioni in atto: dalla leadership dei presidenti di tribunale durante l’emergenza pandemica, alla governance degli uffici nell’era del PNRR, fino agli scenari aperti dall’intelligenza artificiale nella giustizia europea.
La rivista si nutre dell’esperienza ed è strettamente collegata al corso executive “Organizzazione e Trasformazione Digitale della Giustizia”, completamente gratuito rivolto a magistrati e personale amministrativo che l’Università propone da ormai 3 anni con l’intento di superare la frammentazione che caratterizza i percorsi formativi di magistrati e personale di cancelleria e, dall’altro, di diffondere specifiche conoscenze e competenze, anche non strettamente giuridiche, che attengono ad altri saperi (sociologia dell’organizzazione, psicologia, statistica, informatica, economia, ecc.).
Una rivista (ed un corso) che ci mostrano come a dispetto dell’immagine che spesso abbiamo della giustizia, come un pachiderma difficile da cambiare, la trasformazione sia in atto e come le Università possano avere un ruolo importante e strategico in questo cambiamento.
Un grazie all’Università di Milano – Bicocca e un benvenuto alla nuova Rivista: Quaderni di Organizzazione e Trasformazione Digitale della Giustizia.
Sommario: 1. Introduzione - Parte I A) 2. Il Consiglio d’Europa, la Convenzione europea dei diritti umani e la Corte europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) con sede a Strasburgo - 3. La Corte EDU - 4. Il giudizio davanti alla Corte EDU e l’esecuzione delle sentenze - 5. La Convenzione europea dei diritti umani e l’ordinamento italiano - B) 6. L’Unione europea, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e la Corte di Giustizia dell’unione europea (CGUE) con sede in Lussemburgo - 7. Le fonti del diritto dell’unione europea - 8. Le istituzioni dell’Unione europea - 9. Il sistema di tutela giurisdizionale: la CGUE e la sua giurisprudenza - 10. Le competenze dell’Unione europea 11. Le competenze espressamente attribuite all’Unione europea dai Trattati - 12. Le competenze per valori, scopi e le disposizioni di applicazione generale poste a fondamento dell’Unione europea - 13. Le competenze per principi: la tutela dei diritti fondamentali e i rapporti tra la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (CDFUE) e la Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) - 14. L’Unione europea e l’ordinamento italiano - Parte II C)15. Quante e quali competenze sono state realmente cedute a livello sovranazionale? - 16. La cessione di competenze basata sul principio di attribuzione - 17. La cessione di competenze in favore dell’ordinamento sovranazionale basata sui valori, sugli scopi, sulle disposizioni di applicazione generale del TFUE e sui principi generali - 18. La cessione di competenze basata sulla tutela dei diritti fondamentali - 19. Una nuova gerarchia delle fonti - 20. Le operazioni che deve compiere il giudice comune - 21. Conclusioni.
1. Introduzione
La disciplina sovranazionale ha un impatto sempre maggiore nella nostra esperienza quotidiana.
Guardando alle riforme degli ultimi anni, in qualsiasi settore, si scopre che, a monte della nuova disciplina, vi è un atto dell’Unione europea oppure una sentenza della CGUE, che ne detta i principi o ne impone l’adozione.
Lo scopo di questo contributo è quello di cercare di fare il punto sulla situazione e di comprendere quale sia il margine di manovra che è rimasto agli ordinamenti nazionali, come il nostro, che hanno aderito sia all’Unione europea che al Consiglio d’Europea.
A tal fine, mi è sembrato opportuno suddividere lo scritto in due parti.
Una prima parte, di natura istituzionale, nella quale si descrive, prima, il Consiglio d’Europa e la CEDU, con sede a Strasburgo e, poi, l’Unione europea e la Corte di giustizia dell’unione europea, con sede in Lussemburgo.
Nella seconda parte, di natura più critica e valutativa, si focalizza l’attenzione sulla reale estensione delle competenze dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa (e quindi della CEDU), confrontandole con le competenze previste dal nostro art. 117 Cost.
Infine, si rappresenta che è in atto un vero e proprio mutamento di paradigma - dallo stato costituzionale di diritto, verso uno stato costituzionale di diritto sovranazionale - e si rassegnano delle conclusioni che, in realtà, più che altro, vorrebbero essere uno spunto per l’apertura di un dibattito, teso a coniugare le nostre categorie giuridiche tradizionali con le fonti sovranazionali e sovraordinate.
PARTE I A)
2. Il Consiglio d’Europa, la Convenzione europea dei diritti umani e la Corte europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) con sede a Strasburgo
Nel 1948 si svolse il Congresso dell’Aia sotto la presidenza di Winston Churchill e con la partecipazione dei più importanti leader europei, tra i quali merita menzione, Altiero Spinelli.
Il Congresso dell’Aia diede il via ai lavori per l’istituzione del Consiglio d’Europa che si conclusero con la sottoscrizione del Trattato di Londra del 5 maggio 1949, ratificato dall’Italia con legge 23 luglio 1949, n. 433.
Con il Trattato di Londra venne approvato lo Statuto del Consiglio d’Europa con sede a Strasburgo.
Gli organi del Consiglio d’Europa sono i seguenti:
- Il Segretario generale: guida l'Organizzazione, fornendo una gestione strategica;
- Il Comitato dei Ministri: è il principale organo decisionale e rappresenta gli Stati membri;
- L’Assemblea parlamentare: è il forum democratico per il monitoraggio e il dibattito tra i parlamenti nazionali;
- Il Congresso dei poteri locali e regionali: rafforza la democrazia locale e regionale;
- La Corte europea dei diritti dell’uomo: pronuncia sentenze su ricorsi individuali o contro gli Stati membri;
- il Commissario per i diritti umani: promuove il rispetto dei diritti umani negli Stati membri;
- Gli organismi di monitoraggio e consulenza: guidano gli Stati membri e controllano che rispettino gli impegni assunti.
Oggi il Consiglio d’Europa conta ben 46 Stati membri (la Russia era entrata nel 1996 e ne è uscita nel 2022)[1].
L’azione del Consiglio d’Europa si dirige in tre direzioni:
a) la tutela della democrazia tra i paesi membri;
b) la tutela dello Stato di diritto;
c) la tutela dei diritti umani;
Primo e tuttora più importante documento prodotto dal Consiglio d’Europa è la Convenzione (europea) dei diritti umani (CEDU), aperta alla firma degli Stati membri (art. 59 Conv.)[2].
La Convenzione venne firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed è stata ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848.
La Convenzione è suddivisa in tre titoli:
-il titolo I, rubricato “diritti e libertà” prevede i c.d. diritti fondamentali (art. 2-18).
- il titolo II istituisce e regola la Corte Europea dei diritti dell’Uomo[3] (art. 19-51)
- il titolo III è rubricato “disposizioni varie” (art. 52-59)
Il testo originario della Convenzione ha subito nel tempo integrazioni e modifiche attraverso vari protocolli[4].
Solo nel 1998, a seguito dell’entrata in vigore del protocollo emendativo n. 11, ogni Stato parte della Convenzione ha accettato (senza più poterla discrezionalmente evitare) la giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e la possibilità per ogni persona (fisica o giuridica) o ente non governativo di presentare un ricorso alla Corte direttamente e senza filtri.
3. La Corte EDU
La Corte è composta da tanti giudici quanti sono gli stati membri del Consiglio d’Europa (attualmente 46).
I giudici sono eletti dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa sulla base delle liste di tre candidati proposte da ciascuno Stato scelti tra giudici e giureconsulti di riconosciuta competenza.
Il mandato, non rinnovabile, è della durata di nove anni (art. 22 e 23 CEDU)
La CEDU è competente per risolvere ogni questione di interpretazione e applicazione della Convenzione (art. 32 Conv.). Con le sue sentenze essa risolve controversie relative ai diritti e alle libertà convenzionali, sollevate da ricorsi individuali (art. 34 Conv.) o da ricorsi interstatali (art. 33 Conv.).
Accanto alla propria funzione di decidere il caso concreto, la giurisprudenza CEDU ha un valore più generale che si esplica in questi tre punti:
- la sentenza ha valore di precedente al quale la CEDU si richiama per decidere i successivi casi analoghi;
- la sentenza ha valore di cosa giudicata nel caso concreto che è stato deciso;
- la sentenza ha valore di “cosa interpretata” in quanto tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa ricevono, dalle sentenze e dalle decisioni della Corte, l’indicazione vincolante del contenuto attuale che la Corte assegna ai singoli diritti e libertà.
A fronte di una sentenza della CEDU, tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa sono tenuti ad adeguarsi alla sua ratio decidendi (art. 41 e 46 CEDU).
In forza dello Statuto del Consiglio d’Europa, degli artt. 1, 19, 32 CEDU, e del regolamento interno della CEDU, gli Stati membri sono tenuti a osservare la Convenzione, nell’interpretazione che ne dà la CEDU.
4. Il giudizio davanti alla Corte EDU e l’esecuzione delle sentenze
La Corte EDU è chiamata a valutare la proporzione in concreto dell’interferenza statale che il ricorrente lamenta, in relazione ad un suo diritto tutelato dalla CEDU.
La CEDU non sussume il fatto in un’astratta previsione di legge, bensì confronta il fatto (per come ricostruito nei giudizi precedenti e comprensivo del diritto che gli è stato applicato in ambito nazionale) con le esigenze di tutela che derivano dalla Convenzione.
Di regola, la Corte non svolge attività istruttoria.
Nel giudizio della Corte EDU è necessario distinguere due fasi.
4.1. La prima coincide con l’applicazione dei criteri sulla competenza
Il ricorrente deve indicare di aver subito un’ingerenza in uno dei diritti previsti dalla Convenzione e che lo Stato debba rispondere di tale lesione.
Se la Convenzione è applicabile e la Corte competente a esaminare il ricorso, si può ritenere che il ricorrente abbia accesso alla protezione.
La Corte EDU è competente a esaminare il ricorso qualora si verifichino le seguenti condizioni:
a) la violazione sia avvenuta nell’ambito della giurisdizione dello Stato (competenza ratione loci);
b) gli atti che danno luogo all’asserita violazione siano avvenuti successivamente alla ratifica della Convenzione da parte dello stato convenuto e prima della sua denuncia (competenza ratione temporis);
c) il diritto di cui il ricorrente lamenta la lesione sia previsto dalla Convenzione (competenza ratione materia);
d) il ricorrente sia la vittima della lesione di un diritto di cui è titolare o di cui è comunque è portatore (competenza ratione personae);
e) l’asserita violazione sia imputabile a uno degli Stati parte (competenza ratione personae).[5]
Successivamente, la Corte valuta i criteri di ricevibilità in senso stretto del ricorso[6] e, in caso di riscontro positivo, termina così la prima fase del giudizio.
4.2. La seconda fase è quella della c.d. giustificazione della condotta dello Stato.
Lo Stato, in relazione all’azione o omissione che ha posto in essere in relazione ad un diritto previsto dalla Convenzione è chiamato a dimostrare, congiuntamente, i seguenti requisiti:
a) la base legale della propria condotta (o interferenza attiva e/o omissiva): la condotta dello Stato deve essere stata realizzata in attuazione di una normativa interna e deve essere rispettosa degli obblighi negativi (di non ingerenza sul diritto tutelato dalla CEDU) e/o positivi (di adottare misure idonee a proteggere il diritto tutelato dalla CEDU)[7];
b) la propria condotta (o interferenza) deve essere attuata per uno scopo legittimo previsto dalla Convenzione (art. 18 CEDU[8]);
c) la propria condotta deve aver inciso in maniera proporzionata e non discriminatoria sul diritto tutelato dalla Convenzione: il test di proporzionalità è il cuore del giudizio davanti alla CEDU. Lo Stato deve dimostrare di aver adottato (o non adottato), in attuazione degli obblighi negativi o positivi previsti dalla CEDU, misure adeguate a perseguire gli scopi legittimi previsti dalla Convenzione, con il minor sacrificio possibile per il diritto tutelato.
Infine, una volta affrontati tutti questi aspetti, la CEDU stabilisce se, nel caso concreto, con la sua condotta lo Stato ha violato o meno gli obblighi (positivi o negativi) previsti dalla Convenzione in relazione al diritto di cui si discute.
All’esito del giudizio, la CEDU può pronunciare decisioni e/o sentenze.
Tendenzialmente, la decisione non definisce il merito, mentre la sentenza, si.
La sentenza può essere di rigetto o di accoglimento del ricorso.
In caso di accoglimento, se la Corte dichiara che vi è stata violazione della CEDU o dei suoi protocolli, l’art. 41 CEDU prevede:
- la CEDU può condannare lo Stato membro a rimuovere le conseguenze della violazione (restitutio in integrum);
-in subordine, qualora lo Stato dimostri che la restitutio in integrum è materialmente impossibile o che impone un onere eccessivamente sproporzionato, la CEDU accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. Si tratta di un indennizzo che nella pratica si articola solitamente in danno patrimoniale e non patrimoniale. Le sentenze devono essere motivate (art. 45 Conv,) e divengono definitive decorsi tre mesi ai sensi dell’art. 44 Conv.
4.3. La fase esecutiva delle sentenze della CEDU è disciplinata dall’art. 46 e coinvolge lo Stato convenuto inadempiente, il Comitato dei Ministri (organo del Consiglio d’Europa) e la Corte EDU.
Gli Stati si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della CEDU adottando le misure generali idonee ad impedire la reiterazione della violazione (art. 46 par. 1 CEDU).
Tutti gli organi dello stato sono chiamati a tale attività.
Nell’ordinamento italiano, l’art. 5 comma 3, lett. a-bis della legge 400/1988 prevede che il presidente del Consiglio dei ministri promuova gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte EDU nei confronti dello Stato italiano[9].
La procedura relativa al controllo dell'esecuzione delle sentenze è condotta, ai sensi dell’art. 46 CEDU dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con il supporto del servizio dell'esecuzione delle sentenze della Corte e del Segretariato del Consiglio d'Europa.
Il Comitato dei ministri è un organo politico intergovernativo.
Esso è composto dai ministri degli esteri o da loro delegati. Il comitato si riunisce a porte chiuse e dedica quattro sessioni all'anno alla sorveglianza dell'esecuzione delle sentenze.
A partire dal 1 gennaio 2011, il controllo viene esercitato con due modalità: la sorveglianza standard e la sorveglianza rafforzata.
La sorveglianza standard ha ad oggetto le sentenze che lo Stato può eseguire senza la necessità dell’intervento del Comitato dei ministri che si limita a verificare che i piani di bilancio d'azione siano depositati nei termini previsti.
La procedura di sorveglianza rafforzata riguarda i casi che meritano un'attenzione prioritaria da parte del comitato dei ministri: casi che necessitano l'adozione di misure individuali urgenti, le c.d. sentenze pilota, le sentenze che individuano dei problemi strutturali e/o complessi.
La procedura di sorveglianza rafforzata comporta che il comitato dei ministri incarichi il segretariato di mettere in moto una cooperazione più approfondita e attiva nei confronti dello Stato, fornendo tra l'altro: un'assistenza nell'elaborazione e messa in pratica dei piani d'azione; pareri di esperti sulle misure da adottare; programmi di cooperazione bilaterale e multilaterale in relazione a casi che riguardano questioni complesse.
Il comitato dei ministri può fare ricorso a strumenti di pressione politica: dall'invio di lettere e comunicazioni al governo da parte del segretariato, all'adozione di risoluzioni interinali.
5. La Convenzione europea dei diritti umani nell’ordinamento italiano
Con le due storiche sentenze nn. 348 e 349/2007 la Corte Cost. ha affermato:
a) che il contenuto dell’obbligo internazionale derivante dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali corrisponde a quanto si ricava dall’interpretazione datane dalla Corte europea, nella giurisprudenza elaborata nell’esercizio della sua competenza a interpretare e applicare la Convenzione (art. 32 CEDU);
b) che il giudice nell’applicare la legge italiana deve interpretarla in modo da assicurane la compatibilità con la Convenzione;
c) che in caso di impossibilità di interpretazione conforme, è esclusa la possibilità che il giudice disapplichi la legge interna;
d) che in tal caso, invece, il giudice deve sollevare questione di costituzionalità, per il contrasto della legge con l’art. 117 Cost. rispetto al quale la Convenzione opera come norma interposta;
e) che l’incompatibilità della legge interna con la Convenzione determina la sua incostituzionalità, salvo che la Convenzione stessa, nell’interpretazione datane dalla CEDU, sia in contrasto con la Costituzione[10].
Infatti, spetta alla Corte costituzionale verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte EDU, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali, almeno equivalente, al livello garantito dalla Costituzione italiana, poiché occorre tener presente che la maggior tutela che la CEDU può accordare a un diritto fondamentale, significa minor tutela di altri diritti concorrenti previsti dalla Costituzione.
Per questa ragione, il controllo della Corte costituzionale deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento, tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117 comma 1 Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti, contenuta in altri articoli della Costituzione.
5.1. Quanto sopra espresso al punto e), rappresenta la c.d. teoria dei controlimiti elaborata dalla Corte costituzionale.
In sostanza, il Giudice delle leggi si riserva la possibilità, a certe condizioni, ed entro certi limiti, di affermare che il diritto sovranazionale (CEDU oppure dell’Unione europea) non può trovare ingresso nell’ordinamento italiano.
I controlimiti sono più estesi nei confronti della normativa CEDU e meno estesi per la normativa UE.
Infatti, la normativa CEDU non può trovare applicazione in Italia se contrasta con una qualsiasi norma di rango costituzionale, mentre, la normativa europea non può trovare ingresso in Italia solo se contrasta con i principi fondamentali della Costituzione (artt. da 1 a 11 e 139 Cost.) e i diritti inalienabili della persona (art. 2 Cost.)[11].
5.2. Merita qui segnalare che la Corte costituzionale ha cercato di ridurre l’impatto della giurisprudenza evolutiva della Corte EDU con la sentenza n. 49/2015.
La Corte Cost. ha affermato che il vincolo delle norme CEDU deriverebbe sì dall’interpretazione datane dalla Corte EDU, ma solo quando essa abbia dato luogo a “una giurisprudenza consolidata” oppure nel caso delle c.d. “sentenze pilota”[12]
La successiva giurisprudenza della Corte costituzionale non sembra seguire, costantemente, il criterio indicato dalla sentenza 49/2015 ed è prevalente un’analisi di tutta la giurisprudenza CEDU, senza guardare solo a quella “consolidata” (v. Corte Cost. 68/2017, 32/2021, 33/2021).
Questa situazione rischia di esporre l’Italia a responsabilità nell’ambito del sistema della Convenzione europea. Sul piano degli obblighi internazionali dello Stato, infatti, opera l’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, secondo il quale, una parte non può invocare le disposizioni della propria legislazione interna (anche costituzionale) per giustificare la mancata esecuzione di un trattato.
B) 6. L’Unione Europea, la Carta dei diritti fondamentali (CDFUE o Carta di Nizza) e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con sede in Lussemburgo
Il secondo percorso intrapreso dall’Italia è quello che l’ha condotta ad essere membro dell’Unione europea.
L’Unione europea è il risultato di un processo di unificazione, iniziato con la creazione negli anni Cinquanta, delle Comunità europee.
Nel 1951 con il Trattato di Parigi venne istituita la CECA (comunità europea del Carbone e dell’acciaio);
Nel 1957 con i trattati di Roma, ratificati in Italia con la legge 14 ottobre 1957, n. 1203, venne creata sia la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) sia la Comunità economica europea (CEE).
Il primo trattato (istitutivo della CECA) è andato a scadenza naturale nel 2002 e la sua materia è stata considerata assorbita nel mercato comune.
Il secondo trattato (istitutivo della CEEA o Euratom) è ancora in vigore e tale organizzazione internazionale esiste tutt’oggi.
Sebbene i membri appartenenti all'Euratom siano gli stessi dell'Unione europea, l'Euratom non si è mai fuso con essa nelle varie ratifiche dei trattati europei e mantiene tuttora una personalità giuridica separata, nonostante condivida con essa anche l'organo governativo stesso (Commissione europea).
Il terzo trattato (istitutivo della CEE) è stato modificato più volte negli anni fino a giungere all’attuale assetto dell’Unione Europea: nel 2007 con la firma del Trattato di Lisbona, ratificato in Italia con la legge 2 agosto 2008, n. 130 si perviene all’ordinamento dell’Unione europea attualmente vigente.
Ad oggi, i Trattati hanno dato vita ad un ordinamento (comunitario prima e, poi, unionale) autonomo rispetto a quello degli Stati membri, sebbene in questi integrato secondo il principio dell’efficacia diretta e del primato dell’applicazione del diritto dell’Unione europea.
In quanto ordinamento autonomo, quello dell’Unione europea è un sistema dotato di:
- proprie fonti del diritto;
- proprie istituzioni;
- un proprio sistema di tutela giurisdizionale;
- proprie competenze che risultano dalle cessioni di sovranità effettuate dagli Stati membri, in favore dell’Unione.
Vediamo, ad uno ad uno, questi aspetti.
7. Le fonti del diritto dell’Unione europea
L’ordinamento europeo è fondato sulla seguente gerarchia delle fonti:
7.1. gli atti giuridici di diritto primario sono:
a) il Trattato istitutivo dell’Unione Europea (TUE);
b) il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE);
c) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE o Carta di Nizza) che ha lo stesso valore giuridico dei trattati (v. art. 6 par. 1 TUE);
d) i principi generali di diritto dell’Unione europea elaborati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (art. 6 TUE e art. 340 TFUE);
e) le norme di diritto internazionale consuetudinario e pattizio dell’Unione europea con gli stati terzi.
7.2. gli atti di diritto derivato sono (ex art. 288 TFUE):
f) i regolamenti: sono atti giuridici che si applicano automaticamente e in modo uniforme a tutti i paesi dell'UE non appena entrano in vigore, senza bisogno di essere recepiti nell'ordinamento nazionale. Sono vincolanti in tutti i loro elementi per tutti i paesi dell'UE.
g) le direttive: impongono ai paesi dell'UE di conseguire determinati risultati, lasciando al tempo stesso la libertà di scegliere come realizzarli. Gli Stati membri devono adottare le misure necessarie per recepire le direttive nell'ordinamento nazionale e conseguire gli obiettivi stabiliti. Le autorità nazionali devono comunicare tali misure alla Commissione europea.
Il recepimento nel diritto nazionale deve avvenire entro il termine fissato quando la direttiva viene adottata (generalmente entro 2 anni). Quando un paese non recepisce correttamente una direttiva, la Commissione può avviare una procedura d'infrazione.
h) le decisioni: sono vincolanti in tutti i loro elementi. Se designano i destinatari sono vincolanti soltanto nei confronti di questi.
i) le raccomandazioni ed i pareri (che non sono atti vincolanti)
7.3. gli atti non legislativi sono (v. art. 289 TFUE):
- gli atti delegati: sono atti giuridicamente vincolanti che consentono alla Commissione di integrare o modificare elementi non essenziali degli atti legislativi dell'Unione, ad esempio per definire misure dettagliate; gli atti delegati sono adottati dalla Commissione e, se il Parlamento europeo e il Consiglio non sollevano obiezioni, entrano in vigore.
- gli atti di esecuzione: sono atti giuridicamente vincolanti che consentono alla Commissione, sotto la supervisione di comitati composti da rappresentanti dei paesi membri, di creare le condizioni per garantire l'applicazione uniforme delle norme dell'UE.
8. Le istituzioni dell’Unione europea
L’Unione ha personalità giuridica (art. 47 TUE).
Il quadro istituzionale dell’Unione europea è costituito dai seguenti organi (art. 13 TUE):
-Il Parlamento europeo: rappresenta i cittadini dei paesi dell'UE, che lo eleggono direttamente. Adotta decisioni sulle leggi europee congiuntamente con il Consiglio dell'Unione europea. Approva inoltre il bilancio dell'UE. (v. art. 14 TUE; artt. 223-234 TFUE);
-Il Consiglio europeo: è un organo di Stati; è composto dai capi di Stato e di governo degli Stati membri designati secondo i propri ordinamenti costituzionali. Non ha funzioni legislative. È un supremo organo di indirizzo dell’intera Unione (v. art. 15 TUE; artt. 235-236 TFUE):
-Il Consiglio dell’Unione europea: rappresenta i governi dei paesi dell'UE. Il Consiglio dell'Unione europea è il luogo in cui i ministri nazionali di ciascun governo si riuniscono per adottare leggi e coordinare le politiche. I ministri si riuniscono in formazioni diverse a seconda dell'argomento da discutere. Il Consiglio dell'UE adotta decisioni sulle leggi europee congiuntamente con il Parlamento europeo. (v. art. 16 TUE; artt. 237-243 TFUE)
-La Commissione europea: rappresenta gli interessi comuni dell'UE ed è il principale organo esecutivo dell'UE. Utilizza il suo "diritto di iniziativa" per presentare proposte di nuove leggi, che sono esaminate e adottate dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell'Unione europea (art. 17 TUE; artt. 244-250 TFUE)
-La Corte di Giustizia dell’Unione europea: La Corte garantisce il rispetto del diritto dell'UE e la corretta interpretazione e applicazione dei trattati (art. 19 TUE; artt. 251-281 TFUE).
- La Corte dei conti: contribuisce a migliorare la gestione finanziaria dell'UE e a promuoverne la rendicontabilità e la trasparenza, e funge da custode indipendente degli interessi finanziari dei cittadini dell'UE (artt. 285-287 TFUE)
-La Banca centrale europea (BCE) e il Sistema europeo di banche centrali hanno la responsabilità di mantenere stabili i prezzi nella zona euro. Sono inoltre responsabili della politica monetaria e dei tassi di cambio nella zona euro e sostengono le politiche economiche dell'UE. (artt. 282-284 TFUE)
9. Il sistema di tutela giurisdizionale: la CGUE e la sua giurisprudenza
La Corte di Giustizia[13] ha il compito di assicurare “il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati” (art. 19 TUE) sui quali si fonda l'Unione europea, controllando la legittimità degli atti delle istituzioni dell'Ue, vigilando sull’osservanza da parte degli Stati membri degli obblighi derivanti dai trattati e interpretando il diritto dell'Unione su domanda dei giudici nazionali.
La CGUE ha competenza in quattro aree:
-ricorso per infrazione: avente ad oggetto il mancato rispetto del diritto UE da parte delle istituzioni e degli stati membri (art. 258 TFUE);
-ricorso in annullamento: avente ad oggetto l’invalidità di atti adottati dalle istituzioni UE (art. 263 TFUE);
-ricorso in carenza: avente ad oggetto le omissioni da parte delle istituzioni UE (art. 265 TFUE);
- risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale delle istituzioni e degli agenti UE (art. 268 e 340 TFUE).
A queste quattro competenze, nelle quali la CGUE agisce come giudice investito della questione da un ricorso di parte (sia essa pubblica o privata) e giudica su atti e comportamenti di organi e/o istituzioni dell’Ue, oppure di atti e comportamenti dei singoli Stati, pronunciando sentenze di accertamento, costitutive o di condanna, si aggiunge un’ulteriore competenza della CGUE che è quella del c.d. rinvio pregiudiziale (art. 267 TFUE).
La forma di interlocuzione con la Corte di giustizia che ha conosciuto maggiore fortuna e ha consentito l'autentica realizzazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti ai singoli dell'ordinamento Ue è il rinvio pregiudiziale (art. 267 TFUE) esperibile dalle autorità giurisdizionali degli Stati membri.
Queste ultime hanno la facoltà - oppure l'obbligo, se giurisdizioni di ultima istanza[14]- di sottoporre alla Corte questioni di interpretazione dei trattati, o di validità e/o interpretazione degli atti di istituzioni, organi organismi Ue[15], che vengano in rilievo nell'ambito di procedimenti giurisdizionali nazionali.
Il procedimento di rinvio pregiudiziale mira ad assicurare l'unità di interpretazione del diritto dell'unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l'autonomia di tale diritto.
Tramite il rinvio pregiudiziale il giudice nazionale diviene giudice comune del diritto Ue.
Le sentenze interpretative della Corte sono generalmente funzionali alla verifica, da parte del giudice nazionale, della compatibilità del diritto interno con il diritto Ue.[16]
La competenza interpretativa della Corte di Lussemburgo può esplicarsi, a condizione che la controversia rientri nell'ambito applicativo del diritto dell'Unione e che sia effettiva e non irrilevante.
Quanto ai canoni interpretativi utilizzati dalla Corte di giustizia, assumono particolare rilievo l'interpretazione teleologica e il principio dell'effetto utile specie in considerazione delle difficoltà insite nell'impiego del solo criterio dell'interpretazione letterale a fronte di disposizioni normative di diritto primario e derivato, redatte in 24 lingue ufficiali ugualmente facenti fede.
In base a detti criteri l'interpretazione privilegiata dalla Corte Ue è quella meglio atta a realizzare gli obiettivi perseguiti dai trattati istitutivi e dal legislatore europeo[17]. La Corte combinando il criterio sistematico con quello comparativo, è inoltre pervenuta all'elaborazione di nozioni giuridiche autonome da utilizzare nell'interpretazione degli atti di diritto primario e derivato dell'Ue.[18]
Va infine evidenziato come le sentenze della Corte di giustizia siano vincolanti nel procedimento a quo, ma abbiano altresì efficacia erga omnes rispetto a qualsiasi altro caso ove debba farsi applicazione della medesima disposizione di diritto Ue interpretata dalla Corte[19].
Tratteggiati i compiti e le funzioni della Corte di Giustizia dell’Unione europea, cerchiamo ora di comprendere quale sia l’effettiva estensione della sua giurisdizione (cioè su quali materie essa si pronuncia). Per farlo, bisogna andare a vedere quali sono le competenze dell’Unione europea.
10. Le competenze dell’Unione europea
L’azione dell’Unione europea si distingue in esterna (politica estera) ed interna.
Tralasciando l’azione esterna dell’Unione europea, concentriamoci ai nostri fini sull’azione interna.
Volendo semplificare, le competenze dell’Unione europea si fondano, da un lato, sulla tutela dei diritti fondamentali della persona e, dall’altro, sul diritto pubblico dell’economia (regolamentazione del mercato interno e gestione unitaria della politica monetaria).
Più nel dettaglio, per comprendere che cosa l’Unione europea può fare occorre guardare in tre direzioni.
I) L’Unione europea ha competenza nei settori che le sono attribuiti dai Trattati (art. 4 e 5 TUE e artt. 1 - 6 TFUE)
II) L’Unione europea si fonda su certi valori, persegue certi scopi (art. 2, 3 e 7 TUE) e prevede talune disposizioni di applicazione generale (artt. 8-25 TFUE)
III) L’Unione europea si fonda su certi principi soprattutto in materia di diritti fondamentali (art. 6 TUE)
11. Le competenze espressamente attribuite all’Unione europea dai Trattati
Quanto ai criteri di riparto delle competenze tra Unione e stati membri vengono in rilievo gli articoli 4 e 5 TUE come regole generali e poi, nello specifico quelle del TFUE (art. 2-6).
La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione e l’esercizio delle competenze sui principi di sussidiarietà e proporzionalità. (art. 5 TUE). Questo significa che
all’Unione spetta solo quello che le è attribuito nei trattati, agli stati membri è riservata in via esclusiva la sicurezza nazionale.
La portata del principio di attribuzione risulta attenuata dalla c.d. teoria dei poteri impliciti elaborata dalla CGUE[20].
Nei Trattati, le competenze sono ripartite in: a) esclusiva; b) concorrente; c) generale su definizione di politiche economiche, occupazionali e sociali; d) di sostegno e completamento dell’azione degli Stati membri; e) competenze parallele e non escludenti quelle degli Stati membri.
Vediamole ad una ad una.
a) La competenza esclusiva dell’Unione: solo l’Unione può legiferare e adottare atti vincolanti nei seguenti settori (v. art. 3 TFUE):
a) unione doganale;
b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno
c) politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l'euro;
d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca;
e) politica commerciale comune.
L'Unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell'Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata.
b) La competenza concorrente dell’Unione con quella degli stati membri: gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l'Unione non ha esercitato la propria. Se e quando l’Unione esercita la propria competenza, la normativa nazionale cede il passo a quella unionale. Ciò avviene nelle seguenti materie (art. 4 TFUE):
a) mercato interno;
b) politica sociale, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel presente trattato
c) coesione economica, sociale e territoriale;
d) agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare;
e) ambiente;
f) protezione dei consumatori;
g) trasporti;
h) reti transeuropee;
i) energia;
j) spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
k) problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel presente trattato.
c) La competenza generale sulla definizione delle politiche economiche, occupazionali e sociali (v. art. 2 par. 3 TFUE) che viene poi esplicitata nell’art. 5 TFUE che recita:
“1. Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell'ambito dell'Unione. A tal fine il Consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di massima per dette politiche.
Agli Stati membri la cui moneta è l'euro si applicano disposizioni specifiche.
2. L'Unione prende misure per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati membri, in particolare definendo gli orientamenti per dette politiche.
3. L'Unione può prendere iniziative per assicurare il coordinamento delle politiche sociali degli Stati membri”
d) una competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro competenza in tali settori.
Gli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione adottati in base a disposizioni dei trattati relative a tali settori non possono comportare un'armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri (art. 2 par. 5 TFUE e poi l’art. 6 TFUE):
I settori di tali azioni, nella loro finalità europea, sono i seguenti:
a) tutela e miglioramento della salute umana;
b) industria;
c) cultura;
d) turismo;
e) istruzione, formazione professionale, gioventù e sport;
f) protezione civile;
g) cooperazione amministrativa.
e) Infine, l’art. 4 TFUE prevede altre due competenze a favore dell’Unione che sono parallele e non escludenti quelle degli Stati membri: nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio ed in quelli della cooperazione allo sviluppo e dell'aiuto umanitario.
Nei settori sopra richiamati, l’Unione europea può emanare propri atti legislativi (di diritto derivato: regolamenti, direttive e decisioni) e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha competenza ad interpretare ed emanare le proprie sentenze.
12. Le competenze per valori, scopi e le disposizioni di applicazione generale poste a fondamento dell’Unione Europea
L’art. 2 TUE indica i valori sui quali si fonda l’Unione europea ed afferma che si tratta di valori comuni agli stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
Tali valori sono indicati nel rispetto: della dignità umana, della libertà, della democrazia; dell’uguaglianza, dello Stato di diritto, dei diritti umani.
La violazione dei valori previsti nell’art.2. TUE dà luogo alla sanzione prevista dall’art. 7 TUE: l’Unione, in caso di riscontrata violazione di tali valori può sospendere alcuni diritti che spetterebbero allo Stato interessato in base ai trattati.
L’art. 3 TUE indica gli scopi dell’Unione europea nel perseguimento della pace, dei propri valori e del benessere dei popoli attraverso l’instaurazione di un mercato interno e di una politica monetaria comuni.
Per quanto riguarda il TFUE vengono in rilievo le seguenti disposizioni di applicazione generale che l’Unione è chiamata a perseguire, sempre, attraverso le sue azioni:
-eliminare le ineguaglianze e favorire la parità di genere (art. 8 TFUE);
-promuovere un elevato livello di occupazione, di protezione sociale, di tutela della salute umana (art. 9 TFUE);
-combattere le discriminazioni ingiustificate (art. 10 TFUE);
-tutelare l’ambiente e promuovere lo sviluppo sostenibile (art. 11 TFUE);
-la protezione dei consumatori (art. 12 TFUE);
-il benessere degli animali (art. 13 TFUE);
-promuovere e disciplinare i servizi di interesse economico generale (art. 14 TFUE)
- perseguire la più ampia trasparenza possibile nell’azione (art. 15 TFUE)
- tutelare il diritto di ogni persona alla protezione dei dati personali che la riguardano (art. 16 TFUE)
- divieto di ogni discriminazione basata sulla nazionalità all’interno dell’UE (art. 18 TFUE)
- le norme sulla cittadinanza dell’unione (art. 20-25 TFUE)
13. Le competenze per principi: la tutela dei diritti fondamentali e i rapporti tra la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (CDFUE) e la Convenzione europea dei diritti umani (CEDU).
I diritti umani sono citati dall’art. 2 TUE come valori sul rispetto dei quali si fonda l’Unione.
Allo stesso tempo, l’art. 6 par. 3 TUE afferma che, i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.
I principi generali del diritto dell’Unione sono elaborati dalla Corte di Giustizia dell’unione europea e sono fonte primaria al pari dei trattati istitutivi dell’unione europea e della CDFUE.
La tipologia dei principi generali è ampia. Si distinguono secondo il seguente schema.
13.1. I principi generali del diritto dell’Unione: essi trovano fondamento in varie norme dei Trattati. Ne sono esempio:
a) il principio di non discriminazione;
b) il principio generale di parità di trattamento e di uguaglianza;
c) il principio di libera circolazione;
d) il principio della tutela giurisdizionale effettiva che, in materia processuale, si declina nei principi di effettività e di equivalenza[21].
13.2. I principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri (v. art. 340 par. 2 TFUE). Ne sono esempi:
a) il principio di legalità;
b) il principio della certezza del diritto;
c) il principio del legittimo affidamento;
d) il principio del contraddittorio;
e) il principio di proporzionalità.
13.3. Tra i principi generali del diritto dell’Unione rientra anche la protezione dei diritti fondamentali.
L’art. 6 TUE par. 1 afferma che l’Unione riconosce la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza del 7 dicembre 2000) e che essa ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Al par. 2 afferma che l’Unione aderisce alla CEDU. Tuttavia, tale adesione ancora non è avvenuta poiché l’Unione europea non ha sottoscritto il relativo trattato internazionale[22]
Ad oggi, pertanto, i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali (art. 6 par. 3 TUE).
13.4. La Carta europea dei diritti dell’uomo (CDFUE) è a tutti gli effetti fonte primaria del diritto dell’Unione Europea (v. art. 6 par. 1 TUE).
Il suo contenuto è molto ampio poiché oltre ai diritti di libertà enuncia un catalogo di diritti fondamentali attinenti a ogni settore giuridico (diritto costituzionale, civile, penale, della famiglia, del lavoro, della protezione sociale ecc.) e non limitati alle sole materie di competenza della UE[23].
La CDFUE, in quanto parte del diritto dell’Unione europea è interpretata e applicata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE).
Quanto all’analisi dei rapporti tra CEDU e CDFUE si rinvia agli artt. 51-54 CDFUE, limitandoci qui a rappresentare quanto segue:
- il cittadino può lamentare, direttamente, davanti al proprio giudice nazionale, una lesione di un diritto fondamentale previsto dalla CDFUE, a patto che la lesione sia stata realizzata dallo Stato membro o dall’organo Ue “in attuazione del diritto dell’Unione.” (art. 51 CDFUE);
- L’art. 52 par. 3 CDFUE afferma una clausola di equivalenza per cui, i diritti che si trovano sia nella CEDU che nella CDFUE, hanno lo stesso significato e devono essere interpretati dalla Corte di Giustizia in maniera coerente con la giurisprudenza della Corte EDU.
Le spiegazioni relative alla CDFUE (pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 14.12.2007), sub art. 52, riportano un dettagliato elenco dei diritti equivalenti tra quelli CEDU e quelli CDFUE (che in definitiva sono quasi tutti i diritti previsti dalla CEDU).
L’art. 53 CDFUE vieta un’interpretazione delle disposizioni della Carta che si risolva in una limitazione o lesione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalla CEDU.
Muovendo da questi parametri, la Corte di Giustizia dell’unione europea afferma, sul piano teorico, che il livello di protezione dei diritti fondamentali apprestato dalla CEDU costituisce un minimum standard inderogabile, rispetto al quale la CDFUE può solo apprestare un livello di tutela più elevato.
L'applicazione pratica di tale meccanismo non è altrettanto semplice, essendo evidente la difficoltà di stabilire, in ciascun caso concreto, quale sia lo standard di tutela più elevato poiché, generalmente, e salvo il caso di diritti assoluti e inderogabili, ogni innalzamento del livello di protezione di un diritto è controbilanciato dalla corrispondente limitazione di altri diritti fondamentali concorrenti.
14. L’Unione europea e l’ordinamento italiano
Questo tema va affrontato, distinguendo il punto di vista della CGUE, da quello della Corte costituzionale italiana.
È bene premettere che la CGUE adotta una concezione (prevalentemente) monista del rapporto tra ordinamento unionale e ordinamento degli stati membri, mentre, la Corte costituzionale tende a sposare una concezione (prevalentemente) dualista[24].
14.1 La posizione della Corte di Giustizia (CGUE).
La Corte di Giustizia UE afferma il principio del primato del diritto dell’Unione e dell’effetto diretto.
Sono provviste di effetto diretto tutte le disposizioni di diritto Ue che siano sufficientemente chiare, precise e incondizionate e non richiedano pertanto l'emanazione di ulteriori atti di esecuzione o integrativi.
Detto carattere è stato riscontrato dalla Corte di giustizia:
- in talune disposizioni del TFUE.
- nelle disposizioni dei regolamenti e delle decisioni.
- nelle direttive non attuate, o non correttamente attuate, dagli Stati membri, che siano sufficientemente chiare e precise e incondizionate (si tratta di tre casi: direttive che enuncino un obbligo negativo, direttive che ribadiscano un obbligo già enunciato nei trattati, direttive dettagliate).
La Corte di Giustizia ha distinto tra effetto diretto verticale e orizzontale delle direttive non attuate.
L’effetto diretto verticale è limitato alle direttive il cui termine di attuazione sia scaduto e alle fattispecie nelle quali il singolo invoca un diritto nei confronti dello Stato.[25]
L’effetto diretto orizzontale, ossia l’invocabilità tra privati delle disposizioni di direttive dotate di effetto diretto ma non attuate, viene esclusa in linea di principio, benché in alcuni casi, ad esempio relativi ai divieti di discriminazione in materia di condizioni di lavoro, esso è stato riconosciuto.
Invece, qualora non ricorrano i presupposti per riconoscere l'effetto diretto delle direttive né per attuare un'interpretazione conforme del diritto interno, i singoli possono far valere dinanzi all'autorità giudiziaria nazionale la responsabilità dello Stato per mancata attuazione del diritto Ue.
E ciò a tre condizioni:
-che la direttiva attribuisca loro diritti soggettivi;
-che il contenuto di questi ultimi sia individuabile sulla base delle disposizioni della direttiva;
- e che sussista un nesso di causalità, tra la violazione dell'obbligo di attuazione a carico dello Stato e il danno prodottosi.[26]
Il rimedio risarcitorio può essere esperito anche a fronte di una violazione del diritto Ue da parte delle autorità nazionali non più emendabile a causa del passaggio in giudicato della decisione giudiziaria interna[27].
14.2. La posizione della Corte costituzionale italiana
La Corte costituzionale italiana, dopo un iniziale atteggiamento di chiusura, ha riconosciuto il principio del primato del diritto comunitario[28], oggi diritto Ue, sia pure in base a una concezione dualistica del rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali.
La Corte costituzionale ha puntualizzato che la possibilità di disapplicare il diritto interno é riservato alle sole ipotesi di contrasto con le norme comunitarie provviste di effetto diretto[29].
Diversamente, in caso di conflitto tra norma interna e norma comunitaria non direttamente applicabile, il giudice è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della prima, in riferimento agli articoli 11 e 117 comma 1 Cost., assumendo la norma unionale come il parametro interposto del giudizio di legittimità costituzionale[30].
Con riferimento all'efficacia dei diritti fondamentali della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), la Corte costituzionale, negli ultimi anni, ha elaborato un orientamento differente, rispetto a quello sopra delineato.
In base al nuovo orientamento inaugurato da Corte Cost. 269/2017[31] quando una disposizione di legge viola, al contempo, un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e da una norma Ue (della Carta o comunque espressiva di principi riconducibili a disposizioni della Carta), il giudice, anche ove quest'ultima sia direttamente applicabile, può, invece di disapplicare il diritto interno contrastante, sollevare questione di legittimità costituzionale[32].
La Corte costituzionale ha precisato che il previo promovimento dell'incidente di legittimità costituzionale, in fattispecie di doppia pregiudizialità, risulta “opportuno” ma non obbligatorio.
Questo orientamento giurisprudenziale, incentrato sul c.d. concorso dei rimedi, si è andato consolidando ed ampliando nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Ad oggi, in presenza di una normativa interna che sia in contrasto con “il diritto dell’Unione dotato di efficacia diretta, allorché la questione presenti “un tono costituzionale” per il nesso con interessi o principi di rilievo costituzionale”[33], il giudice comune è libero di scegliere se:
-disapplicare la normativa interna in contrasto con il diritto UE;
- sollevare rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE;
- rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale.
PARTE II C)
15. Quante e quali competenze sono state realmente cedute a livello sovranazionale?
A questo punto, occorre confrontare le materie dell’art. 117 Cost. con le competenze del Consiglio d’Europa e con quelle dell’Unione europea per apprezzare quanta e quale sovranità è stata realmente ceduta.
16. La cessione di competenze basata sul principio di attribuzione
Se si confrontano, ad una, ad una, le competenze legislative previste dall’art. 117 Cost. con le competenze attribuite all’Unione europea dai Trattati (artt. 4 e 5 TUE e da 2 a 6 TFUE), notiamo che la competenza dell’Unione tende ad azzerare quella nazionale. Si pensi ai seguenti aspetti.
- molte delle competenze attribuite coincidono già a livello letterale o lessicale con quelle previste dall’art. 117 Cost. (ad es. ambiente, salute, istruzione, formazione professionale, protezione civile, la concorrenza, energia, immigrazione, la profilassi internazionale e i problemi comuni in materia di sanità pubblica, etc.): in queste materie la cessione di competenze è totale poiché la materia è la stessa (anche nominalmente) e il diritto europeo prevale sempre e comunque su quello nazionale;
- altre competenze attribuite sono designate con una terminologia diversa da quella dell’art. 117 Cost., ma quella dei Trattati è più ampia. Prendiamo ad esempio le competenze attribuite all’Unione che fanno riferimento alla parola “politica”. Ad esempio: a) la politica commerciale comune; b) le politiche economiche nell’ambito dell’Unione; c) le politiche occupazionali degli Stati membri; d) le politiche sociali degli Stati membri.
Il termine “politica” (previsto dal TUE e TFUE) è molto più ampio di quello di “materia” (ex art. 117 Cost.) e quindi, di fatto, il secondo resta assorbito nel primo.
In questi settori, l’Unione ha un potere di indirizzo e coordinamento ma il principio del primato del diritto dell’Unione e dell’effetto diretto conferiscono alle norme Ue un’efficacia pervasiva all’interno degli ordinamenti degli Stati membri.
- La competenza esclusiva attribuita all’Ue in materia di concorrenza per il funzionamento del mercato interno UE è una competenza trasversale e fortemente pervasiva.
La CGUE la utilizza come valore sovraordinato che plasma e ridefinisce molti istituti giuridici di diritto interno guardando più alla sostanza economica delle cose che non ai loro aspetti giuridici e formali (ad es. la nozione di pubblica amministrazione, quella di organismo di diritto pubblico, la nozione di pubblico servizio, la nozione di concessione di diritto amministrativo, la nozione di consumatore, la nozione di dipendenza economica).
- la competenza esclusiva attribuita all’UE in materia di politiche monetarie è una competenza che crea vincoli stringenti poiché tutta l’azione statale si trova a doversi misurare con i vincoli di bilancio (è stato costituzionalizzato anche l’equilibrio tra le entrate e le spese e la sostenibilità del debito pubblico con la modifica degli artt. 81 e 97 Cost.).
Anche questa competenza esclusiva è molto pervasiva e finisce, di fatto, per incidere su tutte le residue competenze statali.
- Per comprendere la pervasività delle competenze attribuite all’Ue basti porre mente alle ultime novità normative introdotte a seguito di atti unionali sovraordinati.
Si rammenta, a titolo di esempio: il codice dei contratti pubblici di cui al D. lgs. 36/2023; il codice dei consumatori di cui al D. Lgs. 206/2005; il codice del turismo di cui al d. lgs. 79/2011; la nuova class action; il regolamento generale sulla protezione dei dati personali GDPR n. 679/2016.
In tutti questi settori, vi sono a monte, normative molto dettagliate di diritto dell’unione europea e quindi è ridotta la sfera di decisione dei pubblici poteri interni.
- A tutto quanto sopra si aggiunga che la giurisprudenza della CGUE ha elaborato la teoria dei c.d. poteri impliciti che si fonda sull’assunto che, anche se un potere non è stato espressamente attribuito ma è comunque funzionale e necessario a perseguire una finalità legittima e collegata ad altro potere attribuito, allora esso può essere validamente esercitato.
Anche questo modus procedendi, in ogni settore, altera e riduce lo spazio residuo di manovra dei decisori interni.
17. La cessione di competenze in favore dell’ordinamento sovranazionale basata sui valori, sugli scopi, sulle disposizioni di applicazione generale del TFUE e sui principi generali
Lo Stato italiano è membro del Consiglio d’Europa ed è membro dell’Unione europea.
L’adesione a queste due istituzioni sovranazionali, diverse e parallele, munite di proprie giurisdizioni comporta una sottoposizione dell’Italia a giudizi di conformità del proprio operato politico in relazione a concetti vaghi ed indeterminati come i valori, gli scopi ed i principi.
Quale membro del Consiglio d’Europa si trova soggetto alla costante valutazione politica e giuridica del Consiglio soprattutto in relazione alla procedura di esecuzione delle sentenze della CEDU (v. art. 46 CEDU).
Quale membro dell’Unione europea, lo Stato italiano è esposto al costante monitoraggio delle Istituzioni europee sul rispetto dei valori di cui all’art. 2 TUE (norma che prevede anche la sua espressa sanzione nell’art. 7 TUE) nonché degli scopi di cui all’art. 3 TUE.
L’ancoraggio del diritto UE a valori e scopi generici contribuiscono al fenomeno dell’ampliamento del diritto UE a discapito delle prerogative nazionali.
A rendere ancora più ampio lo spettro di azione del diritto Ue vi sono le disposizioni di applicazione generale previste nel TFUE (artt. 7 – 25) che prevedono norme di rango fondamentale per il diritto UE e che la Corte CGUE applica agli Stati membri nella loro massima estensione semantica possibile.
Infine, vi sono i principi generali di diritto dell’Unione europea elaborati dalla CGUE e che sono fonte primaria del diritto UE al pari dei Trattati istitutivi.
Tali principi sono individuati, elaborati e costruiti dalla giurisprudenza della CGUE alla quale, in questo frangente, è veramente arduo non riconoscere una vera e propria funzione creativa del diritto.
L’applicazione diretta dei principi di diritto ha un effetto dirompente nel nostro ordinamento che, invece, è tradizionalmente fondato sul concetto di regola e sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta.
Le regole sono diverse dai principi[34].
Una regola è un enunciato condizionale che connette una qualunque conseguenza giuridica a una classe di fatti: “Se F, allora G”. La conseguenza giuridica può essere una sanzione, o la nascita di un obbligo o di un diritto.
Di fronte alla regola opera il meccanismo della sussunzione del fatto nella fattispecie, si ha maggiore certezza del rispetto della regola e il giudice si limita ad applicare la legge.
Al contrario, un principio, è una norma: a) fondamentale; b) caratterizzata da una particolare indeterminatezza connotata a sua volta dalla fattispecie aperta, dalla defettibilità e dalla genericità.
Inoltre, se due principi entrano in collisione tra loro (ad es. salute e lavoro, impresa e ambiente) si tratta di comprendere quale sia la tecnica di risoluzione del problema atteso che non sono applicabili i criteri previsti dall’art. 15 prel. c.c. (gerarchico, cronologico e specialità).
La tecnica generalmente impiegata dai giudici costituzionali in casi del genere va sotto il nome di ponderazione (o bilanciamento) dei principi, e consiste nell’istituire tra i due principi coinvolti una gerarchia assiologica e mobile.
Questa panoramica sui principi, ci fa comprendere quanto margine di discrezionalità abbia la CGUE nell’elaborazione e applicazione degli stessi ai casi concreti sottoposti alla sua attenzione.
In definitiva, in materia di valori, scopi e principi la cessione di competenze nazionali è molto ampia e basata su confini incerti e indeterminati rimessi alla valutazione discrezionale delle istituzioni sovranazionali.
18. La cessione di competenze basata sulla tutela dei diritti fondamentali
Un terzo ambito di intervento – forse il più importante – è quello in materia di diritti fondamentali.
Si parla di tutela multilivello dei diritti fondamentali e di dialogo tra le Corti (CEDU, CGUE e Corte costituzionale, Cassazione e Consiglio di Stato).
Proviamo a fare il punto.
La CEDU offre il minimum standard inderogabile per i diritti e le libertà in essa previste (art. 53 CEDU). A tal fine, la giurisprudenza della Corte EDU, a partire da tali diritti e libertà (sono circa quindici i diritti e le libertà sancite), elabora via via obblighi negativi e positivi a carico degli Stati membri volti alla protezione dei diritti fondamentali.
La CEDU impone al giudice comune che egli effettui, sempre, un’interpretazione convenzionalmente orientata delle proprie norme interne.
La CDFUE contempla (quasi) tutti gli stessi diritti fissati dalla CEDU (v. per l’equivalenza l’art. 52 CDFUE con le relative Spiegazioni) e anche molti altri diritti di natura sociale, economica e politica con una struttura tipicamente costituzionale.
La giurisprudenza della CGUE, a partire dalla Carta, e spesso recependo la giurisprudenza della Corte EDU, anche in questo caso, ha ricostruito obblighi negativi e positivi a carico degli Stati membri volti alla (maggior) protezione dei diritti fondamentali rispetto alla CEDU.
Anche la CDFUE e la giurisprudenza della CGUE impongono sempre, in ogni caso, al giudice comune che egli effettui un’interpretazione comunitariamente orientata delle proprie norme interne.
La Corte Costituzionale si è resa, negli anni, interlocutore privilegiato della CEDU e della CGUE ritagliandosi il ruolo di custode in ambito nazionale, dello sviluppo equilibrato del sistema dei diritti fondamentali e del controllo del rispetto dello standard di tutela su un singolo diritto fondamentale visto nell’ottica di insieme con gli altri.
Occorre infatti tener presente che la maggior tutela accordata a un diritto, supponiamo dalla CEDU o dalla CGUE, significa, automaticamente, minor tutela per altri diritti concorrenti o confliggenti.
Anche la Corte costituzionale è obbligata all’interpretazione convenzionalmente e comunitariamente orientata delle norme di diritto interno e ha il potere di sollevare rinvio pregiudiziale alla CGUE.
Per comprendere quanta sovranità è stata ceduta in questo ambito da parte degli ordinamenti nazionali, bisogna partire da una premessa.
Dove c’è un diritto, non c’è un potere.
La proliferazione di diritti fondamentali, a vari livelli, restringe l’ambito di azione dei poteri pubblici.
La creazione giurisprudenziale di veri e propri obblighi positivi e negativi a carico degli Stati, a tutela dei diritti fondamentali, elimina, di fatto, i poteri pubblici. In teoria generale del diritto, solo quattro sono le posizioni fondamentali: l’obbligo al quale corrisponde la pretesa e la soggezione al quale corrisponde il potere. Se si creano nuovi obblighi, si creano nuove pretese e, di conseguenza si restringe l’area che prima era occupata dai poteri.
Per cercare di fare almeno il punto sulla situazione si passa, ora, ad esporre, quella che a me sembra possa essere, una possibile ricostruzione della attuale gerarchia delle fonti, per poi passare a quelle che sono le operazioni che deve svolgere il giudice comune in relazione ad esse.
D) 19. Una nuova gerarchia delle fonti
Di seguito, si riporta una breve ricostruzione schematica della nuova gerarchia delle fonti.
1. Al vertice, ci sono i c.d. principi fondamentali della Costituzione italiana (art. 1-12 e 139 Cost.) e i diritti inalienabili della persona, secondo quella che è stata definita dalla Corte costituzionale come la c.d. teoria dei controlimiti
2. poi, abbiamo, le norme consuetudinarie di diritto internazionale che trovano ingresso automatico nel nostro ordinamento tramite l’art. 10 Cost. e che devono essere conformi soltanto ai c.d. controlimiti.
3. In virtù del c.d. effetto diretto e del primato del diritto dell’Unione Europea, ci sono le fonti del diritto dell’Unione europea che trovano ingresso nel nostro ordinamento tramite l’art. 11 e l’art. 117 comma 1 Cost.:
3.a) atti di diritto primario dell’Unione europea:
- i Trattati istitutivi dell’Unione europea (TUE e il TFUE);
- la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE);
- i principi generali di diritto dell’Unione europea elaborati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea;
3.b) atti di diritto derivato dell’Unione europea:
-i regolamenti;
-le direttive;
-le decisioni.
4. Di seguito, vi sono le altre disposizioni della Costituzione italiana (diverse dai principi fondamentali) e le altre leggi costituzionali.
5. Poi, abbiamo, le norme pattizie di diritto internazionale (i cd. trattati di diritto internazionale), tra le quali rientra anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e la relativa giurisprudenza della Corte EDU, che è vincolante per tutti gli stati che hanno sottoscritto il relativo trattato.
6. Solo a questo punto, ci sono le leggi statali e gli atti aventi forza di legge, nonché le leggi regionali, secondo le rispettive competenze ex art. 117 Cost.
7. In posizione sub-legislativa troviamo gli Statuti degli Enti locali
8. I regolamenti governativi (v. art. 17 legge 400/1988)
9. I regolamenti degli Enti locali
10. Gli usi e le consuetudini
Terminata l’esposizione di questo tentativo di ricostruzione delle fonti del diritto, vediamo cosa debba fare il giudice comune, di fronte a questo complesso quadro ordinamentale.
20. Le operazioni che deve compiere il giudice comune
Oggi un giudice comune, che è chiamato ad applicare la legge per risolvere una controversia, si trova di fronte al problema di comprendere quale sia la norma applicabile.
Poniamo che egli individui una norma di diritto interno, applicabile al caso di specie.
La prima cosa che deve fare è verificare se tale norma sia in potenziale contrasto con altre norme sovranazionali o sovraordinate.
26.1. Una volta appurato che vi è una norma di rango sovraordinato in contrasto con quella interna, il giudice comune deve comprendere se il contrasto è solo potenziale oppure reale.
Il criterio per comprendere se il contrasto è solo potenziale oppure reale è quello della c.d. interpretazione conforme alla quale il giudice interno è sempre e comunque tenuto sia verso il diritto UE che verso la CEDU.
Il contrasto è solo potenziale quando, dalla disposizione di diritto interno è possibile ricavare, in via interpretativa, una norma in contrasto con la fonte sovraordinata;
il contrasto diventa reale quando, dalla disposizione interna non è possibile ricavare, in via interpretativa, neppure una norma che non sia in contrasto con la fonte sovraordinata.
Il giudice è obbligato a sollevare la questione solo in caso di contrasto reale[35].
Fatta questa precisazione, in caso di contrasto reale, il giudice comune deve effettuare le seguenti operazioni nelle varie ipotesi che gli si possono prospettare:
a) in caso di contrasto tra una norma del diritto UE e i principi supremi della Costituzione italiana (attivazione dei controlimiti nei confronti del diritto UE), il giudice deve rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale chiedendo che la legge di ratifica del Trattato UE venga dichiarata incostituzionale indicando come parametri:
- la norma del principio fondamentale della Costituzione che sarebbe violata;
-l’art. 11 e 117 comma 1 Cost. che consentono alla normativa UE di fungere da c.d. parametro interposto;
- la legge di recepimento del Trattato UE, cioè la legge 1203/1957 limitatamente alla parte in contrasto;
b) in caso di contrasto tra norma interna e diritto internazionale consuetudinario, il giudice deve rimettere la questione di legittimità alla Corte costituzionale chiedendo che la norma interna venga dichiarata incostituzionale indicando tre parametri:
-la norma interna censurata;
-l’art. 10 Cost. che consente al diritto internazionale consuetudinario di fungere da c.d. parametro interposto;
-la norma di diritto internazionale consuetudinario che sarebbe violata.
c) in caso di c.d. doppia pregiudizialità (norma di diritto interno contemporaneamente in contrasto con la Costituzione e la CDFUE e/o con altra norma di diritto UE, dotata di efficacia diretta, che abbia un nesso con interessi o principi di rango costituzionale), il giudice deve rimettere, (preferibilmente, ma non è obbligato) prima, la questione di legittimità alla Corte Costituzionale e, poi, una volta che la Corte Costituzionale abbia deciso, deve valutare se sollevare il rinvio pregiudiziale alla CGUE in presenza dei presupposti richiesti dall’art. 267 TFUE.[36]
d) in caso di contrasto tra norma interna e diritto dell’Ue il giudice deve comprendere se la norma di diritto europeo è direttamente applicabile oppure no nell’ordinamento interno, attraverso i canoni della chiarezza, della precisione e dell’incondizionatezza della disposizione UE.
d1) se la norma è direttamente applicabile (sufficientemente precisa e incondizionata e/o per i regolamenti e le direttive self-executing), possono darsi due eventualità:
- se ci sono ragionevoli dubbi sulla compatibilità della norma interna con il diritto dell’Unione europea, il giudice può rimettere la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea con il meccanismo del rinvio pregiudiziale (art. 267 TFUE);
- se non ci sono dubbi e il giudice ritiene l’incompatibilità della norma interna al diritto UE, può disapplicare la norma interna in contrasto con il diritto dell’unione europea;
d2) se la norma non è direttamente applicabile (non precisa o condizionata, ad es. direttive non self-executing), il giudice è chiamato a rimettere la questione di legittimità alla Corte costituzionale chiedendo che la norma interna venga dichiarata incostituzionale indicando tre parametri:
-la norma interna censurata;
-l’art. 11 e l’art. 117 comma 1 Cost. che consentono alla normativa UE di fungere da c.d. parametro interposto;
-la norma di diritto europeo, non direttamente applicabile, che sarebbe violata.
e) in caso di contrasto tra norma interna e Costituzione il giudice è chiamato a rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale chiedendo che la norma venga dichiarata incostituzionale indicando due parametri: la norma censurata e la norma della Costituzione che sarebbe violata;
f) in caso di contrasto tra norma interna e CEDU il giudice deve rimettere la questione di legittimità alla Corte costituzionale chiedendo che la norma interna venga dichiarata incostituzionale indicando tre parametri:
-la norma interna censurata;
-l’art. 117 comma 1 Cost. che consente il recepimento nel nostro ordinamento del diritto internazionale pattizio (tra cui rientra anche la CEDU per come interpretata dalla Corte Edu) e che permettono alle norme CEDU di fungere da c.d. parametro interposto;
-la norma di diritto della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo che sarebbe violata.
g) in caso di contrasto tra CEDU (per come interpretata dalla Corte EDU) e norme costituzionali (attivazione dei controlimiti nei confronti della CEDU), il giudice deve rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale chiedendo che la legge di recepimento della CEDU venga dichiarata incostituzionale indicando come parametri:
- la norma della Costituzione che sarebbe violata;
- l’art. 117 comma 1 Cost. che consente il recepimento nel nostro ordinamento del diritto internazionale pattizio (tra cui rientra anche la CEDU per come interpretata dalla Corte Edu) e che permettono alle norme CEDU di fungere da c.d. parametro interposto;
- la legge di ratifica della CEDU e cioè la legge n. 848/1955 limitatamente alla parte in contrasto.
Come si vede, i compiti del giudice comune sono altamente discrezionali e complessi e mi pare evidente che tutto questo rischia di entrare in collisione con due valori fondanti le moderne democrazie costituzionali: il principio di legalità e quello di certezza del diritto.
21. Conclusion
La sovranità degli Stati membri del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea si trova ad essere stata ceduta e comunque molto limitata.
Tale assunto trova giustificazione in quattro fenomeni convergenti che riducono lo spazio di decisione dei pubblici poteri interni (legislativo, esecutivo e giudiziario):
-la sovranazionalizzazione del diritto interno;
-l’affermarsi del primato dell’economia e del mercato sul diritto;
-la sovranazionalizzazione della tutela dei diritti fondamentali;
- la creazione giurisprudenziale del diritto.
Tentiamo di analizzare ognuno di questi fenomeni.
21.1. Si assiste a una progressiva sovranazionalizzazione del nostro diritto nazionale dovuta all’appartenenza dell’Italia al Consiglio d’Europa e all’Unione europea.
Le competenze attribuite espressamente all’Unione europea dai Trattati (artt. 4-5 TUE e artt. 2-6 TFUE), combinate con il principio della primazia e dell’effetto diretto del diritto unionale, ci fanno comprendere come ormai l’unica operazione mentale da effettuare per capire quali siano le residue competenze nazionali sia quella per sottrazione dall’art. 117 Cost..
Dal confronto che abbiamo tentato di fare è emerso che allo stato italiano, in via esclusiva, resta la sicurezza nazionale e la tutela dell’ordine pubblico.
Il resto, ormai, è di competenza diretta o indiretta dell’unione europea.
21.2. Siamo di fronte all’affermarsi del primato dell’economia sulla politica e sul diritto nazionale.
La globalizzazione dell’economia ha capovolto il rapporto tra Stati e mercati.
Non sono più gli Stati che garantiscono la concorrenza tra le imprese, ma sono le grandi imprese multinazionali che mettono in concorrenza gli Stati privilegiando, per i loro investimenti, i paesi nei quali possono maggiormente sfruttare il lavoro, pagare meno imposte e sfruttare l’ambiente. Gli Stati sono assoggettati alle valutazioni di affidabilità delle agenzie di rating e sono portati sempre più a ragionare secondo logiche aziendalistiche.
A ciò si aggiunga il fatto che l’evoluzione del capitalismo finanziario e la sempre maggiore necessità degli Stati di reperire risorse, ha fatto esplodere il problema del peso dei debiti pubblici.
Proprio per rispondere a questa problematica, l’Italia ha aderito alla Comunità europea, prima, e all’Unione europea, poi.
In conseguenza di quanto sopra, gli stati membri si sono dati dei parametri da rispettare a pena di sanzione: i) sono tenuti a rispettare il limite del 3% per la spesa in deficit; ii) gli Stati devono mantenere il rapporto tra debito pubblico e PIL entro il 60%.
Per adeguarsi, l’Italia ha anche modificato la propria Costituzione (art. 81 e 97 Cost.) introducendo il principio dell’equilibrio di bilancio tra entrate e spese e modificando la propria contabilità pubblica attraverso la c.d. legge di bilancio (legge 196/2009).
Il ciclo annuale della legge di bilancio è suddiviso, ora, in due semestri: il semestre europeo (dove il governo dialoga con Commissione e Consiglio Ue) e il semestre nazionale (che si conclude con l’approvazione della legge di bilancio da pare del Parlamento).
Attualmente, quindi lo stato ha come obiettivo il rispetto dei vincoli di bilancio e dei parametri fissati in ambito europeo e se non li rispetta, è suscettibile di essere sanzionato.
A ciò si aggiunga un ulteriore vincolo: il c.d. PNRR approvato con Reg. 241/2021[37].
Ad oggi, in definitiva, la sfera di azione dei poteri pubblici è limitata, in negativo, dai vincoli europei di bilancio e, in positivo, dall’attuazione del PNRR. Lo Stato è chiamato a perseguire anche un altro obiettivo che si trova spesso in potenziale contrasto con il rispetto dei vincoli di spesa: la tutela dei diritti fondamentali.
Anche in questo ambito si assiste a una compressione dei poteri degli Stati membri.
21.3. La sfera di azione dei pubblici poteri è limitata dalla sovranazionalizzazione dei diritti fondamentali.
Le fonti sovranazionali che prevedono diritti fondamentali sono in aumento e hanno forza sempre più vincolante nei confronti degli Stati.
A livello internazionale, si rammenta la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata dall’Onu nel 1948 e il patto dei diritti civili e politici dell’ONU del 1966.
Inoltre a livello regionale, vi è da considerare una pluralità di fonti:
- la nostra Carta costituzionale;
- la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU);
- la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (CDFUE).
I diritti fondamentali diventano il nuovo perimetro attorno a cui ruotano i pubblici poteri: tali diritti, corredati da veri e propri obblighi di tutela, negativi e positivi, posti a carico degli Stati, diventano il limite invalicabile oltre il quale i poteri pubblici non possono prendere decisioni.
In altre parole: per i pubblici poteri, la sfera del decidibile è ristretta dall’espandersi e dalla nuova centralità, che viene riconosciuta ai diritti fondamentali.
Si tratta di un vero e proprio mutamento di paradigma nel rapporto tra autorità e libertà.
Nello stato di diritto (anche costituzionale) era l’autorità a creare la legge e poi ad applicarla secondo la propria discrezionalità che doveva essere esercitata entro i canoni di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e del neminem ledere.
Nel moderno neocostituzionalismo[38], è l’autorità a dover dimostrare che le norme, da lei create e poi attuate, rispettano gli obblighi di tutela imposti a salvaguardia dei diritti fondamentali.
Gli Stati, sottoponendosi alla giurisdizione obbligatoria di ben due Corti sovranazionali (CEDU e CGUE), che con la loro giurisprudenza creativa abbracciano, di fatto, tutta l’azione dei pubblici poteri, hanno finito per consentire che l’esercizio della loro sovranità sia condizionato e sottoposto al controllo costante di poteri giurisdizionali esterni.
Si potrebbe eccepire che tutto questo è fatto solo per consentire una maggior tutela dei diritti fondamentali delle persone e che tutto questo è un bene.
Si tratta di eccezione fondata ma che tuttavia deve essere ragionata e alla quale occorre porre dei limiti a tutela di altri valori, che al momento sembrano piuttosto negletti, come, ad esempio, quello della c.d. certezza del diritto.
Lo spostamento del baricentro del diritto, dal momento creativo-legislativo a quello giurisprudenziale-applicativo, ci porta all’ultimo fenomeno da analizzare.
21.4. Si assiste ad una sempre maggiore creazione giurisprudenziale del diritto, sia dall’esterno, che all’interno dei vari ordinamenti nazionali.
A) Dall’esterno, abbiamo, oggi due Corti sovranazionali, la CEDU e la CGUE, che ragionano, in maniera autonoma, secondo meccanismi di common law ed emanano sentenze alle quali gli Stati membri si devono adeguare.
È in atto una continua elaborazione giurisprudenziale di nozioni giuridiche autonome e principi che incidono e trasformano le categorie giuridiche-dogmatiche interne del diritto degli Stati membri[39].
Si tratta di diritto giurisprudenziale che si impone come vincolante per tutti i poteri pubblici (legislativo, amministrativo e giudiziario).
Le due Corti CGUE e CEDU, a loro volta, nella creazione del diritto, tendono a privilegiare i fini e gli scopi per i quali sono state istituite: l’economia e il libero mercato per la CGUE, ed i diritti fondamentali per entrambe le Corti.
Per quanto concerne l’economia e la massimizzazione del libero mercato, la CGUE effettua costruzioni giuridiche basate su categorie economiche e sulla prevalenza della sostanza economica dei fenomeni sulla forma giuridica degli stessi.
Le categorie economiche, che divengono così prevalenti su quelle giuridiche, sono:
-i bisogni economici e la nozione di beni e servizi economici;
-i soggetti economici (le famiglie, le imprese, lo Stato, e il resto del mondo) e le loro attività economiche (il lavoro, il consumo, il risparmio e l’investimento);
-la centralità del concetto di mercato in generale e, in particolare, del mercato del lavoro e di quello della moneta, con attenzione alle banche e alle imprese assicurative.
Anche lo Stato e la p.a. vengono considerati come operatori economici con prevalente attenzione alle entrate e alle spese pubbliche e alla tutela del mercato e della concorrenza (v. codice dei contratti pubblici d. lgs. 36/2023, legge antitrust n. 287/1990, TUF d.lgs. 58/1998, il divieto di aiuti di Stato).
Per quanto riguarda i diritti fondamentali, la CGUE e la Corte EDU intervengono, nei loro rispettivi ambiti, dettati dalla Carta dei diritti fondamentali Ue (CDFUE) e dalla CEDU, con sentenze vincolanti per tutti gli ordinamenti nazionali, che sono obbligati ad adeguarsi e a far prevalere il contenuto di tali sentenze, persino sulle loro leggi ordinarie.
Le due Corti creano veri e propri obblighi di tutela positivi e negativi a carico degli stati membri.
Le modalità di creazione degli obblighi a partire da norme di principio e le valutazioni effettuate dalle Corti (EDU e CGUE) su termini generici ed elastici come la proporzionalità e la ragionevolezza, rendono, di fatto, il diritto una creazione giurisprudenziale come avviene nei sistemi di common law.
Le tecniche di bilanciamento tra principi e diritti fondamentali sono più vicine a quelle di un legislatore che a quelle di un interprete, che si limita ad applicare una regola che trova già precostituita.
B) Anche all’interno degli ordinamenti nazionali, si assiste a fenomeni di creazione giurisprudenziale del diritto.
La Corte costituzionale è sempre più giudice della discrezionalità legislativa attraverso i parametri dedotti dall’art. 3 Cost. della c.d. ragionevolezza, proporzionalità e affidamento.
Verso l’esterno, la Corte costituzionale sta assumendo sempre più il ruolo di custode dell’equilibrio degli istituti costituzionali esposti al potere conformativo delle due Corti sovranazionali.
L’esempio più eclatante è l’elaborazione della teoria dei controlimiti.
Le autorità giurisdizionali interne si trovano di fronte ad un triplice problema.
In primo luogo, nella mutata gerarchia delle fonti, le operazioni che devono compiere per individuare la norma applicabile, conferisce loro ampia discrezionalità nel valutare e decidere cosa fare.
In secondo luogo, una volta individuata una sentenza della CGUE o della CEDU che esprime un principio prevalente su una legge ordinaria hanno il potere, a seconda dei casi, di effettuare interpretazioni conformative ai dati sopranazionali e possono arrivare persino a disapplicare la legge.
In terzo luogo, sono spesso costretti ad effettuare operazioni di re-interpretazione delle loro categorie giuridiche tradizionali, forzando, talvolta anche in modo palese, il dato normativo, per far prevalere gli scopi e i principi fissati dal diritto unionale. Si pensi a Cass. S.U. 6 aprile 2023 n. 9479 che, per adeguarsi ai principi di primazia della tutela del consumatore fissati dalla CGUE, ha effettuato un’interpretazione creativa (quasi ortopedica) delle norme del codice di procedura civile in materia di opposizione a decreto ingiuntivo[40].
21.5. Tutto quello che ho esposto e analizzato vuol essere una ricognizione, e un momento di riflessione, che costituisca un punto di partenza e non di arrivo.
La somma di tutti i sovraesposti fenomeni convergenti sta generando un mutamento radicale di paradigma.
Così come, dallo stato assoluto si è passati allo stato di diritto e, dallo stato di diritto, a quello costituzionale di diritto, allo stesso modo, adesso, stiamo assistendo alla progressiva sovranazionalizzazione dello stato costituzionale di diritto.
Potremo parlare, oggi, di stato costituzionale conformato al diritto sovranazionale o di stato costituzionale di diritto sovranazionale.
I principi classici di separazione dei poteri, quello di legalità e di certezza sono messi in crisi[41] dalla creazione giurisprudenziale del diritto ad opera delle Corti.
Il mutamento di paradigma è evidente: da quello in cui il Parlamento fa una legge e il potere esecutivo e giudiziario la applicano al caso concreto, si passa a quello in cui, due Corti sovranazionali emettono sentenze vincolanti anche per il Parlamento che può (e a volte deve) fare la legge, adeguandosi ai principi contenuti in tali sentenze.
Il potere esecutivo e giudiziario, poi, non si limitano ad applicare tale legge, al caso concreto, ma sono chiamati, prima di tutto, a dubitare della conformità di tale legge con il diritto sovranazionale.
In definitiva:
-tutti i poteri pubblici sono compressi dalle fonti sovraordinate, dal prevalere delle logiche economiche su quelle giuridiche e dall’affermarsi della intangibilità dei diritti fondamentali per come interpretati in via evolutiva, giorno per giorno, dalle pronunce della CGUE e della CEDU;
-il potere politico-legislativo dei singoli Stati tende a trasformarsi anch’esso in un potere esecutivo di decisioni prese a livello sovranazionale, e il potere giurisdizionale, attraverso l’autonomo dialogo con la CGUE e la CEDU, tende a trasformarsi in potere legislativo (con la c.d. interpretazione creativa di norme dalle disposizioni).
La constatazione di questo mutamento di paradigma impone, a mio avviso, una riflessione seria e profonda, a tutti i livelli, del nostro ordinamento giuridico.
Lo scopo di questo contributo è quello di aprire un dibattito su queste tematiche e stimolare la ricerca per cercare di controllare, prevedere e governare questi mutamenti, anziché subirli in maniera passiva e acritica.
Gli spunti possono essere moltissimi[42].
In definitiva, si tratta di intraprendere una vera e propria opera di rifondazione di tutte le categorie del nostro ordinamento nazionale, alla luce della sua conformazione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e al diritto dell’unione europea.
[1] Albania, Andorra, Armenia, Austria, Azerbaigian, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Repubblica di Moldova, Monaco, Montenegro, Paesi Bassi, Macedonia del Nord, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, San Marino, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina, Regno Unito.
[2] La Convenzione dei diritti fondamentali si raccorda con lo Statuto del Consiglio d’Europa, come dimostra il richiamo ai poteri che esso assegna al Comitato dei Ministri (art. 54 Conv.) e l’attribuzione al Segretario generale del Consiglio del potere di svolgere inchieste nel corso delle quali gli Stati devono fornire risposta alle domande su come il loro ordine interno assicuri l’applicazione effettiva di tutte le disposizioni della Convenzione (art. 52 Conv.).
[3] Un’ulteriore fonte normativa fondamentale è il Regolamento della Corte dei diritti dell’uomo che consta di 117 articoli e 8 allegati.
[4] Si distingue tra protocolli aggiuntivi e protocolli emendativi.
I protocolli aggiuntivi integrano l’elenco dei diritti e delle libertà e sono i seguenti: protocolli n. 1, 4, 6, 7, 12, 13.
I protocolli emendativi modificano le regole di procedura e di funzionamento del sistema (protocolli n. 2, 3, 5, 8, 9, 10, 11, 14, 14 bis, 15 e 16).
[5] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, pag. 129-130.
[6] I criteri di ricevibilità in senso stretto sono i seguenti (v. art. 35 CEDU):
a) L’essere il ricorrente vittima (diretta, indiretta, potenziale) di una violazione della Convenzione;
b) Il previo esaurimento delle vie di ricorso interne
c) Il rispetto del termine per la presentazione del ricorso
d) La non manifesta infondatezza del ricorso
e) La presenza di un pregiudizio importante
f) Che il ricorso non sia anonimo
g) Che il ricorso non sia essenzialmente identico a uno precedentemente esaminato dalla Corte e non contenente fatti nuovi
h) Che il ricorso non sia già sottoposto a un’altra istanza internazionale di inchiesta o di risoluzione e non contenente fatti nuovi
i) Che il ricorso non sia abusivo
[7] Nel valutare la c.d. base legale (cioè se la misura dello Stato è fondata su una base legale interna) è necessario chiarire che il concetto di legge e di legalità è del tutto autonomo per la CEDU.
Ad esempio, l’art. 1 CEDU afferma: “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”. Per la Corte EDU, il concetto di legge equivale, più o meno, alla nostra ampia nozione di “diritto oggettivo”.
La nozione autonoma di diritto e di legge propria della CEDU è di tipo sostanziale e qualitativo e ricomprende la giurisprudenza tra le fonti.
[8] Art. 18 CEDU “Restrizione dell’uso di restrizioni ai diritti”: “Le restrizioni che, in base alla presente Convenzione, sono poste a detti diritti e libertà possono essere applicate solo allo scopo per cui sono state previste.”
Riportiamo alcuni scopi legittimi di restrizione dei diritti, previsti dalla CEDU:
- l’integrità territoriale;
- la sicurezza nazionale;
- la sicurezza pubblica;
- l’ordine e la prevenzione delle violazioni della legge penale;
- il benessere economico del paese: è scopo che giustifica limitazioni nel diritto al rispetto della vita privata e familiare;
- l’esigenza di protezione della salute;
[9] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, pag. 543.
[10] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, pag. 66.
[11] Così Corte Cost. 1146/988.
[12] Le sentenze pilota (che hanno variegata natura e struttura) non presentano a loro volta una speciale forza. Esse si caratterizzano solo per il fatto che decidono un caso in vista della decisione di altri numerosi casi identici (seriali) già pendenti, la cui trattazione viene sospesa in modo da consentire al governo interessato di introdurre soluzioni nazionali riparatorie e preventive di violazioni ripetute o strutturali (art. 61 Regolamento della Corte EDU).
[13] Attualmente, La Corte di giustizia dell'Unione europea, la cui sede è fissata a Lussemburgo comprende tre organi giurisdizionali: La Corte di giustizia, il tribunale e il tribunale della funzione pubblica. tra i tre organi riveste rilievo preponderante la Corte di giustizia, composta da 28 giudici e 11 avvocati generali, designati di comune accordo dai governi degli Stati membri, per un mandato di sei anni, rinnovabile e scelti tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscano le condizioni richieste per l'esercizio nei rispettivi paesi delle più alte funzioni giurisdizionali ovvero il seno in possesso di competenze notorie.
[14] Detto obbligo può essere derogato qualora la la questione pregiudiziale da sottoporre sia identica ad altre già decisa dalla Corte di giustizia; ove sul punto sussista una giurisprudenza costante del giudice dell'unione (anche non emessa a seguito di rinvio pregiudiziale e anche in mancanza di una stretta identità di materia); ove non vi sia alcun ragionevole dubbio interpretativo per la chiarezza del dettato normativo europeo (Corte giust., 6 ottobre 1982, in causa 283/81, CILFIT, §§ 13-17; 6 ottobre 2021 in causa C-561/19, Consorzio Italian management). Al di fuori di dette ipotesi, il mancato esercizio del rinvio pregiudiziale obbligatorio può determinare la responsabilità dello Stato membro anche nel quadro del ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 258 TFUE (Corte giust., 4 ottobre 2018, in causa C-416/17, Commissione c. Francia).Anche i giudici non di ultima istanza sono tenuti a proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ove venga in questione la validità di un atto dell'unione (Corte giust., 22 ottobre 1987, in causa C314/85 Foto-Frost).
[15] Le sentenze in tema di validità di atti di diritto derivato, rese a titolo di interpretazione pregiudiziale, comportano l'esame degli stessi vizi dell'atto delibabili in sede di ricorso per annullamento ex articolo 263 TFUE. La validità di un atto di un'istituzione, organo o organismo dell'unione può pertanto essere incidentalmente esaminata anche oltre il decorso del termine bimestrale previsto dall'articolo 263 Tfue, per l'impugnazione diretta con il ricorso in annullamento.
[16] Secondo la formula utilizzata dalla Corte di giustizia, nel procedimento ex articolo 267 TFUE, La Corte di giustizia non valuta essa stessa la conformità della legislazione nazionale e il diritto Ue, ma fornisce al giudice del rinvio tutti gli elementi ermeneutici propri del diritto dell'unione che possano consentire a quest'ultimo di valutare una siffatta conformità. (Corte giust. 18 settembre 2019, in causa C-222/18, VIPA, § 28.)
[17] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022.
[18] Cfr. ad es. Corte giust., 22 novembre 2001, in cause riunite C-541/99 e C-542/99, Cape snc e Idealservice MN RE sas sulla nozione di “consumatore”.
[19] Corte giust. 9 giugno 2016, in causa C-586/14, Budisan, § 45. Nella giurisprudenza interna v. Cass. 11 dicembre 2012, n. 22577/2012; Cass. 17 maggio 2019, n. 13425/2019. Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, pag. 79-82.
[20] La teoria prevede che pur in mancanza di un’espressa attribuzione di poteri, l’Unione possa essere considerata competente quando l’esercizio di un certo potere risulti indispensabile per l’esercizio di un potere espressamente previsto ovvero per il raggiungimento degli obiettivi dell’ente, V. Corte giust. 31 marzo 1971, in causa 22/70.
[21] In materia processuale, vige il principio di autonomia procedurale degli Stati membri con il solo rispetto dei limiti dell’equivalenza e dell’effettività. Il principio di equivalenza esige che alle azioni fondate sul diritto dell’Unione si applichino i medesimi mezzi di ricorso e le medesime norme processuali disponibili per le azioni analoghe di natura puramente nazionale. Il principio di effettività, o della tutela giurisdizionale effettiva, obbliga i giudici degli Stati membri ad assicurare che i mezzi di ricorso e le norme processuali nazionali non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile la proposizione di azioni fondate sul diritto dell’Unione
[22] Si tratta della questione relativa alla firma del protocollo emendativo n. 16 alla CEDU in relazione al quale la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha espresso parere contrario (parere 2/13 della Corte (Seduta Plenaria) del 18 dicembre 2014).
[23] Si veda ad esempio: art. 24 CDFUE che prevede i diritti dei minori; art. 25 diritti degli anziani; art. 36 accesso ai servizi di interesse economico generale; art. 37 tutela dell’ambiente; art. 38 protezione dei consumatori.
[24] La distinzione non è meramente teorica poiché, ad esempio, in presenza di antinomie tra norme dei diversi ordinamenti, nella concezione monista, si possono applicare i criteri di gerarchia e della lex posterior per abrogare o rendere invalide le norme sotto ordinate o precedenti, nella concezione dualista tali criteri non sono applicabili.
[25] Non è viceversa possibile per lo Stato far valere nei confronti del singolo un obbligo imposto da una direttiva prima della trasposizione della stessa.
[26] Corte giust, 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich
[27] In tal caso, infatti, il diritto dell'unione non impone agli Stati membri di prevedere la possibilità di riapertura del processo. Ai singoli, tuttavia, deve essere concesso di far valere la responsabilità dello Stato al fine di ottenere con tale mezzo la tutela dei propri diritti.
[28] Nella giurisprudenza degli anni 70 la Corte ha ritenuto che il primato del diritto comunitario, la cui copertura costituzionale si rinviene nell'articolo 11 cost - che consente limitazioni alla sovranità nazionale necessaria per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni - dovesse essere garantito mediante la rimozione nel giudizio di costituzionalità del diritto interno contrastante con il diritto comunitario (parametro interposto) per violazione dell'articolo 11 cost.”
[29] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, p. 116-117.
[30] Corte cost. n. 227/2010; n. 75/2012; n. 207/2013; n. 269/2017.
[31] V. anche successive sentenze Corte Cost. nn. 20/2019, 63/2019, 11/2020, 44/2020, 254/2020
[32] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, p. 121.
[33] Così espressamente ex multis Corte cost. 181/2024.
[34] Vedi GUASTINI, La sintassi del diritto, 2014, Giappichelli, Torino, pag. 67-75.
[35] Tale impostazione è seguita, anche a livello interno, per le questioni di legittimità costituzionale. V. Corte Cost. 356/1996: il giudice non è obbligato a rimettere la questione di legittimità costituzionale quando da una disposizione può ricavare una norma incostituzionale, ma soltanto quando da una disposizione non può ricavare neppure una norma che sia costituzionale.
[36] v. Corte Cost. 269/2017; 20/2019; 63/2019; 181/2024.
[37] Lo Stato italiano ha predisposto un piano di riforme per ottenere i finanziamenti previsti dal c.d. Next Generation UE (alcuni, a fondo perduto, altri, sotto forma di prestiti onerosi). L’azione dei pubblici poteri è quindi limitata dal dover adempiere a quanto previsto nel piano ed entro le scadenze prestabilite, pena la perdita dei finanziamenti.
[38] Si tratta di una concezione del diritto che si fonda su una base giuspositivistica ma che dà ingresso anche ai valori e ai fatti attraverso la tutela multilivello dei diritti fondamentali. Tutto questo avviene tramite l’utilizzo di strumenti interpretativi basati sulla formulazione di principi e sul loro bilanciamento attraverso tecniche argomentative diverse da quella della classica sussunzione legale.
[39] Su tutti mi limito a citare un esempio.
Sulla base dell’art. 6 CEDU la Corte di Strasburgo ha elaborato una propria nozione di sanzione penale basata sui c.d. criteri Engels.
In base alla suddetta nozione, la Corte di Strasburgo ha spesso riqualificato quelle che per il diritto interno erano sanzioni amministrative in sanzioni penali, ponendosi quanto meno in rapporto di tensione con il principio di riserva di legge parlamentare e di democraticità.
Tali criteri, che nella causa Engel vengono riferiti all’ambito del diritto militare, sono resi criteri generali e consolidati dalla giurisprudenza della stessa Corte nella sentenza Öztürk contro Germania del 21 febbraio 1984. Tali sono: la qualificazione giuridica interna, secondo la quale «occorre anzitutto sapere se le previsioni che definiscono l’illecito in questione appartengono, secondo il sistema legale dello Stato resistente, alla sfera del diritto penale, disciplinare o entrambi assieme»; la natura dell’illecito e la funzione del conseguente provvedimento previsto, che deve essere applicabile in modo generale e avere scopo preventivo e repressivo; in ultimo, la gravità della sanzione, che non deve necessariamente essere privativa della libertà personale, come confermato in successive sentenze (Cfr. A e B contro Norvegia, Grande Camera, 15.11.2016; Johannesson contro Islanda, 18.5.2017).
[40] V. Cass. Sez. Un. 9479/2023: “la clausola del contratto resta abusiva anche se il consumatore non si è opposto all’ingiunzione. Spetta quindi al giudice dell’esecuzione controllare se la clausola ha natura vessatoria, ad esempio perché deroga al foro del consumatore.”
[41] Si veda L. FERRAJOLI, Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, 2022, pag. 80-83, il quale ha operato una riformulazione della teoria della separazione dei poteri:
-al centro e prima di tutto vi sono i diritti fondamentali, che delimitano, per i poteri, la sfera del decidibile;
-poi abbiamo le istituzioni politiche e di governo, legittimate dal consenso elettorale, che attraverso la discrezionalità legislativa, hanno il potere di creare nuove norme, nel rispetto dei propri obblighi negativi e positivi di tutela dei diritti fondamentali;
- dopo di che abbiamo le istituzioni di garanzia primaria e secondaria, legittimate dal principio di legalità:
Le istituzioni di garanzia primaria (come ad esempio la pubblica amministrazione) devono esercitare la propria discrezionalità amministrativa, entro i limiti fissati dalle istituzioni politiche e per adempiere ai loro obblighi di tutela dei diritti fondamentali;
le istituzioni di garanzia secondaria (la giurisdizione) intervengono quando sono stati violati i diritti fondamentali nei rapporti orizzontali (Corte di Cassazione) oppure, nei rapporti verticali, quando è stata male esercitata la discrezionalità legislativa (la CEDU, la CGUE, la Corte Costituzionale) o amministrativa (il Consiglio di Stato).
[42] Solo per citarne alcuni:
- tentare di fornire una ri-classificazione sistematica del nostro diritto interno alla luce del diritto sovranazionale: ad esempio, a partire dal concetto di “principi costituzionali comuni agli Stati membri” ex art. 6 par. 3 TUE, approfondire quali sono questi principi e studiarli nell’ambito del diritto civile, penale, amministrativo;
- adottare un approccio euronitario alla ricostruzione delle varie materie affrontandole come diritto privato europeo, diritto penale europeo, diritto amministrativo europeo;
- approfondire quali sono le categorie utilizzate dalle Corti sovranazionali e cercare di metterle a sistema;
-discutere dell’attualità del principio della separazione dei poteri e di quello di certezza del diritto all’interno di un sistema multilivello che ha una visione dialogica ed argomentativa del diritto che si crea dal basso, caso per caso, in antitesi alla visione del diritto imperativistica come comando che si crea dall’alto, e che si applica, per sussunzione, alla fattispecie.
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