ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il principio di non discriminazione tra i sessi e norme e tutela della maternità e della prole nell’ambito dell’esecuzione penale.
Commento all’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna del 9.4.2024
di Chiara Gallo
Sommario: 1. L’art. 47 quinquies OP e le norme a tutela del rapporto genitori figli. Brevi cenni - 2. La vicenda all’esame del Tribunale di Sorveglianza - 3. Le questioni prospettate e gli argomenti a sostegno - 4. Gli interventi della Corte Costituzionale riguardanti la questione dell’accesso del padre alle forme di detenzione domiciliare con finalità di cura dei figli - 5. Principio di non discriminazione e diritto alla bigenitorialità. Qualche considerazione.
Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 quinquies comma 7 OP (detenzione domiciliare speciale) che prevede la possibilità di accesso alla misura per il padre di figli di età inferiore a 10 anni solo in caso nel caso in cui la madre sia deceduta o impossibilitata e non vi sia modo di affidare la prole ad altri che al padre.
1. L’art. 47 quinquies OP e le norme a tutela del rapporto genitori figli. Brevi cenni.
L’art. 47 quinquies OP, rubricato detenzione domiciliare speciale, disciplina l’accesso ad una forma di detenzione domiciliare per le madri di figli di età inferiore a 10 anni e si inserisce nell’ambito di una serie di modifiche normative volte a garantire la maternità e la cura della prole delle persone detenute.
Introdotta con la legge 40\2001, intitolata Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori (nota come legge Finocchiaro), unitamente ad altre norme tese ad incentivare forme di esecuzione penale esterna nei confronti di detenute incinte e madri di figli in tenera età, ha realizzato l’obiettivo di un rafforzamento della tutela costituzionalmente garantita del diritto alla cura dei figli.
Le originarie disposizioni di cui agli articoli 146 e 147 c.p. che disciplinavano, rispettivamente, il rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena per la donna incinta e con prole di età non superiore a sei mesi e il rinvio facoltativo per la madre di prole di età non superiore ad un anno sono state nel tempo affiancate da norme che hanno ampliato e strutturato tale diritto.
Con la legge 663\1986 (legge Gozzini) veniva introdotta nel sistema penitenziario la detenzione domiciliare umanitaria quale strumento di tutela di beni di rilevanza costituzionale come la salute, la maternità e l’infanzia attraverso le norme di cui all’articolo 47 ter OP che, nell’ipotesi di cui al comma I lett a), consente l’accesso a tale forma di espiazione della pena alla donna incinte o madre di prole di età inferiore a 10 anni con lei convivente (l’età originalmente fissata a tre anni è stata progressivamente innalzata a seguito di successivi interventi legislativi a cinque e infine a dieci anni) nei casi in cui la pena da espiare non sia superiore a quattro anni.
A seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, con la pronuncia 215\1990, che dichiarava l’illegittimità dell’art. 47 ter primo comma lett a) OP nella parte in cui non prevedeva che la detenzione domiciliare, potesse essere concessa nelle stesse condizioni anche al padre detenuto qualora la madre fosse deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, interveniva la legge 165\1998 (legge Simeone) che modificava la norma, introducendo la lettera b) al comma I, consentendo l’accesso alla misura anche al padre di prole inferiore a 10 anni che non abbia perso la responsabilità genitoriale qualora i figli siano con lui conviventi e la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a crescerli.
La legge 40\2001 ha arricchito il quadro degli strumenti diretti a tutelare il rapporto genitori figli, sia modificando le norme sul rinvio dell’esecuzione della pena innalzando i limiti di età della prole - ad un anno per il rinvio obbligatorio e a tre anni per il rinvio facoltativo - sia introducendo nel sistema la norma di cui all’art. 47 quinquies OP con lo scopo di offrire in modo più incisivo quella protezione che l’art. 31 della Costituzione vuole assicurare alla maternità ed all’infanzia e di abolire la carcerazione dei minori, consentendo l’assistenza materna dei figli minori in modo continuato e in ambiente familiare. La norma appariva infatti rivolta principalmente a chi fosse divenuto genitore nel corso della detenzione ed aveva il compito di ricomporre l’unità familiare attraverso il ricongiungimento della madre detenuta con i figli minori.
L’art. 47 quinquies OP consente l’accesso alla detenzione domiciliare alla madre di prole di età inferiore a 10 anni laddove, indipendentemente dal quantum di pena da espiare, sia possibile ripristinare la convivenza con i figli e non sussista il pericolo di commissione di ulteriori delitti. L’ammissione al beneficio è condizionata all’espiazione di un terzo di pena - o di quindici anni in caso di condanna all’ergastolo - che nella formulazione originaria della norma, doveva avvenire in ambito intramurario. Attraverso l’introduzione del comma I bis ad opera della legge 62\2011 la misura ha mutato la propria fisionomia, attraverso un’anticipazione della tutela dell’interesse al ripristino dell’unità familiare con lo scopo di evitare del tutto la permanenza dei bambini negli istituti penitenziari, prevedendo che la soglia di pena necessaria all’accesso alla misura possa anche essere espiata presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ma anche, ove non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, in forme extramurarie, quali l’abitazione o in altro luogo di privata dimora o in luoghi di cura assistenza o accoglienza e, da ultimo, in caso di caso di impossibilità di espiare la pena in tali luoghi anche in case famiglia protette. Dopo il compimento di 10 anni di età del figlio il Tribunale di Sorveglianza ha la possibilità di prorogare il beneficio se sussistono i presupposti per l’accesso alla misura alternativa della semilibertà o disporre l’assistenza all’esterno dei figli minori.
Analogamente a quanto previsto dall’art. 47 ter OP anche per la detenzione domiciliare speciale è prevista la possibilità di accesso al beneficio da parte del padre, sia pure a differenti condizioni rispetto alla norma ordinaria. Il comma 7 dell’art. 47 quinquies prevede infatti che la detenzione domiciliare speciale possa essere concessa alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre. A differenza dell’art. 47 ter OP la norma non impone che il padre sia convivente o che abbia la responsabilità genitoriale del minore, ma prevede un intervento dello stesso in via ulteriormente sussidiaria rispetto a quanto previsto dalla norma ordinaria consentendo l’accesso alla misura solo ove la prole, priva della madre perché deceduta o impossibilitata, non possa essere affidata a terzi.
L’importanza riconosciuta nel nostro ordinamento al diritto dovere di cura dei figli ha condotto ad ulteriori interventi della Corte Costituzionale volti ad ampliare l’ambito di operatività della norma sulla detenzione domiciliare speciale e renderne più agevole l’iter applicativo.
Con la sentenza 239\2014 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 4 bis OP nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione di benefici penitenziari da esso stabilito la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall'articolo 47quinquies OP (estendendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale alla medesima disposizione contenuta nell’art. 47 ter comma I lett. a) e b) OP e con sentenza 76\2017 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 47 quinquies comma I bis OP nella parte in cui esclude dalla possibilità dell'espiazione della soglia di pena in ambito extramurario le madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'articolo 4 bis OP.
Da ultimo, con sentenza n. 30\2022 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell'articolo 47 quinquies commi 1, 3 e 7 OP nella parte in cui non prevede che, ove vi sia un grave pregiudizio per il minore derivante dalla protrazione dello stato di detenzione del genitore, l’istanza di detenzione domiciliare possa essere proposta al magistrato di sorveglianza che può disporne l'applicazione provvisoria, estendendo a tale misura alternative la disciplina prevista per le misure ordinarie.
L'attuale assetto della norma presenta, dunque, un deciso favor verso l'espiazione della pena nelle forme della detenzione domiciliare per le madri di figli in tenera età.
Gli interventi del legislatore e del Giudice delle Leggi hanno progressivamente spostato il baricentro del bilanciamento tra il diritto alla cura della prole e le esigenze di sicurezza verso il primo dei due termini, costruendo una norma che consente l'accesso ad una misura alternativa senza limiti di pena e con possibilità di evitare completamente la detenzione carceraria (grazie alle previsioni che consentono di usufruire dell'applicazione provvisoria della misura senza attendere la decisione del Tribunale, di espiare la soglia di pena per l’accesso alla misura anche in forma extramuraria e della possibilità di proseguire l’espiazione inframuraria anche dopo il compimento di 10 anni dei figli) anche in relazione a condanne a pene molto elevate, per reati molto gravi, anche in materia di criminalità organizzata.
2. La vicenda all’esame del Tribunale di Sorveglianza
Il caso all’attenzione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna riguarda un’istanza di ammissione alla detenzione domiciliare speciale avanzata da un detenuto padre di figli di età inferiore a dieci anni. La situazione prospettata vede la madre non presente nel nucleo familiare - dalla stessa abbandonato da tempo - e il padre richiedente quale unico affidatario dei figli minori sulla base di un provvedimento del Tribunale per i Minorenni. L’assistenza dei minori è assicurata dalla sorella maggiore, figlia di primo letto dell’istante e dal compagno di quest’ultima, i quali convivono con i bambini nel medesimo nucleo familiare esistente prima della carcerazione del padre.
3. Le questioni prospettate e gli argomenti a sostegno.
Il Tribunale di Sorveglianza, dopo aver escluso, nel caso in esame, la possibilità di un’interpretazione della norma che consenta di accogliere la richiesta di detenzione domiciliare da parte del richiedente valorizzando l’assoluto impedimento della madre, stante l’esplicito tenore della disposizione della stessa che limita l’intervento del padre alle situazioni in cui né la madre né terzi possano curare i figli, ne prospetta l’illegittimità costituzionale sotto un duplice profilo.
Il primo profilo è quello che attiene alla scelta del legislatore di operare a monte una differenziazione tra le due figure genitoriali nella cura dei figli minori, stabilendo una cornice più favorevole per le detenute di sesso femminile, ancorando tale scelta esclusivamente al sesso del genitore. Tale scelta contrasterebbe con gli artt. 3 comma 2 , 29,30 e 31 della Costituzione e con l’art.11 della Costituzione quale parametro interposto rispetto all’art. 14 CEDU, espressivo in ambito convenzionale del principio di non discriminazione, in relazione all’art. 8 CEDU , che tutela la vita privata e familiare.
Si tratterebbe di un’opzione irragionevole e foriera di ingiusta disparità di trattamento, posto che la norma in esame non ha come primario interesse la tutela della maternità, cui invece presiedono le norme sul differimento dell’esecuzione della pena, bensì quello di garantire l’assistenza ai figli e non pregiudicarne lo sviluppo psico-affettivo.
Il rimettente perviene a tale conclusione sulla base di un’analisi dell’evoluzione della normativa sulle detenute madri e sui rapporti tra genitori detenuti e figli, osservando che, attraverso aggiustamenti progressivi, quali l’innalzamento dell’età dei figli, l’eliminazione del riferimento all’allattamento della prole e l’intervento della Corte Costituzionale 215\1990, la norma sulla detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter comma I OP è stata ridisegnata quale misura prevalentemente tesa alla tutela del minore. Sulla stessa linea, si pone l’art. 47 quinquies OP, pensato specificamente in un’ottica di rafforzamento delle esigenze di tutela della prole.
Se tale è l’interesse primario tutelato dalla norma in esame la scelta di privilegiare la madre nell’accesso alla misura, basata su dati empirici e tradizioni culturali che assegnano alla donna e alla madre un ruolo prioritario di cura e tutela dei figli, non risulta più attuale rispetto ai mutamenti che hanno interessato l’ambito familiare.
Il giudice rimettente osserva che, da tempo, la letteratura scientifica ha messo in discussione l’assunto per cui le funzioni dei genitori siano biologicamente determinate in ragione del genere del soggetto accudente e che, sebbene in una prima fase dello sviluppo non possa negarsi un ruolo di cura primario della madre, legato prevalentemente all’allattamento, successivamente le differenze nel rapporto tra genitori e figli non sono collegate al sesso del genitore. L’ambiente più idoneo allo sviluppo armonico della personalità del minore è quello del c.d. coparenting, ovvero la cooperazione tra i ruoli genitoriali fondata sulla intercambiabilità e condivisione del ruolo di cura. Rileva inoltre che plurime fonti normative, tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 e le norme sul diritto di famiglia, hanno riconosciuto un generale diritto del minore alla bigenitorialità, inteso quale necessità del mantenimento del rapporto tra il minore ed entrambe le figure genitoriali senza distinzioni legate al sesso.
La scelta del legislatore, basata su una presunzione non più attuale, senza alcuna valutazione in ordine alla capacità del genitore di sesso maschile di adempiere al ruolo di cura, non soltanto non appare adeguata alle evoluzioni della società e del fenomeno familiare, ma conduce ad effetti distorsivi in danno dei figli minori e a disparità di trattamento tra figli di coppie “madre libera -padre detenuto” e “madre detenuta -padre libero” posto che nel primo caso i figli avranno meno chances di ricostituire il nucleo familiare. Ritenere che il genitore beneficiario possa essere il padre solo in assenza della madre comporta che lo stesso dovrà sempre sobbarcarsi da solo l’onere della cura della prole accanto a quello lavorativo. Ancora più evidenti risultano le disparità di trattamento dei figli in caso di famiglie omosessuali o famiglie di fatto omogenitoriali.
È, dunque, la differenziazione del ruolo sulla base del sesso del genitore ad introdurre un trattamento disomogeneo e irragionevole di condizioni materialmente sovrapponibili ed in cui sussiste un’istanza di tutela costituzionale egualmente intensa della prole bisognosa di cure.
Nell’ordinanza si prospettano due possibili soluzioni modificative della norma volte a sanare il contrasto con le norme costituzionali, optando per l’eliminazione, al comma 7, della locuzione “se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri” al fine di garantire un accesso paritario alla misura alternativa ai genitori dei due sessi. Tale soluzione, oltre a garantire il principio di parità tra i sessi, consentirebbe il mantenimento del rapporto di cura con entrambi i genitori laddove non sussistano pericoli per la collettività, andando quindi ad offrire maggiore tutela all'interesse della cura della prole oggetto degli artt. 30 e 31 comma II della Costituzione.
La diversa opzione, ovvero quella di omologare la condizione della madre a quella del padre valutando se l'assenza del “genitore donna” pregiudichi in concreto lo sviluppo dei figli a fronte della presenza dell'altro partner uomo o di terzi in grado di assicurare assistenza, sebbene rispettosa del principio di non discriminazione tra i sessi condurrebbe ad una modifica in malam partem della norma restringendo la possibilità per la madre di accedere alla misura alternativa, ad oggi non preclusa dalla presenza del padre convivente o comunque dedito alla cura dei figli. Si tratterebbe dunque di una strada non percorribile attraverso una pronuncia additiva della Corte Costituzionale.
Il Tribunale affronta anche il tema, non peregrino, della rilevanza, della questione prospettata, osservando che, ove ritenuta fondata il giudice, nella valutazione dell’istanza non dovrebbe confrontarsi con i temi dell’impedimento della madre e dell’assenza di terzi, richiamando la nozione di “rilevanza giuridica” più volte affermata dalla Corte Costituzionale che prescinde da una diretta incidenza sull'esito del giudizio ma è comunque idonea a incidere anche solo nel senso di imporre a un giudice un diverso percorso logico giuridico argomentativo pur rimanendo in ipotesi identico l’esito del giudizio.
Il secondo profilo di illegittimità costituzionale, preso in esame in via gradata, riguarda il comma 7 della norma che prevede che la misura possa essere concessa al padre non solo in condizioni di assenza per decesso o impedimento della madre ma anche “se non vi è possibilità di affidare la prole ad altri che al padre”. Il rimettente osserva che il ruolo del padre non soltanto viene discriminato rispetto a quello della madre, ma viene addirittura ritenuto subvalente anche in caso rappresenti l’unico riferimento genitoriale rispetto a situazioni di accudimento della prole da parte di soggetti diversi dai genitori. L’illegittimità costituzionale della norma oltre che su un profilo intrinseco di irragionevolezza rispetto alla tutela degli interessi sottesi, si misura rispetto al tertium comparationisrappresentato dalle norme di cui all’art. 47 ter comma I lett b) OP e dall’art. 275 comma IV c.p.p. in materia di misure cautelari, norme che consentono l’accesso alle misure domiciliari al padre convivente esercente la potestà genitoriale laddove la madre sia deceduta o altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole, senza prevedere l’ulteriore condizione dell’assenza di terzi possibili affidatari.
Con rifermento al rapporto con l’art. 47 ter OP si sottolinea che, pur trattandosi di norme in astratto non del tutto sovrapponibili, la casistica ne dimostra la concreta frequente sovrapponibilità e la Corte Costituzionale, con la richiamata sentenza 30\22 ha sottolineato che nonostante la diversità delle fattispecie regolate connesse alla diversa entità della pena da espiare, le due misure alternative perseguono la medesima finalità, cioè quella di evitare, fin dove possibile, che l’interesse del bambino sia compromesso dalla perdita delle cure parentali determinata dalla permanenza in carcere del genitore.
Rispetto all’articolo 275 comma IV c.p.p. viene richiamata la sentenza della Corte di Cassazione 29355\2014, che ha ritenuto che, una volta che sia stata accertata l'impossibilità assoluta della madre di dare assistenza alla prole e in assenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice non può giustificare il mantenimento di una misura intramuraria del padre prendendo in esame l'eventuale presenza di altri familiari in quanto ad essi il legislatore non riconosce alcuna funzione sostitutiva considerato che la formazione del bambino può essere gravemente pregiudicata dall'assenza di una figura genitoriale, la cui fungibilità deve pertanto, fin dove possibile, essere assicurata trovando fondamento nella garanzia che l'articolo 31 Cost. accorda all'infanzia.
4. Gli interventi della Corte Costituzionale riguardanti la questione dell’accesso del padre alle forme di detenzione domiciliare con finalità di cura dei figli.
Si è già fatto riferimento alla pronuncia della Corte Costituzionale n.215 del 1990 che dichiarava illegittima la norma di cui all'articolo 47 ter comma primo numero 1 OP nella parte in cui non prevedeva che la detenzione domiciliare potesse essere concessa alle medesime condizioni della madre al padre, qualora la madre fosse deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. La questione che veniva prospettata riguardava un caso in cui il padre di minori di dieci anni chiedeva l'accesso alla misura alternativa prospettando una condizione di invalidità della madre a causa di una psicosi. La Corte riteneva la disposizione in contrasto con i parametri di cui agli articoli 3,29,30 e 31 della Costituzione osservando che la previsione secondo cui solo alla madre viene riconosciuto il diritto di assistere la prole nega implicitamente al genitore l'esercizio dello stesso diritto-dovere che la Costituzione affida alla pari responsabilità dei genitori. La sentenza ripercorreva altre pronunce della Corte che avevano più volte affermato che i compiti di mantenimento educazione e istruzione della prole gravano su entrambi i genitori, osservando che tali valori costituzionali risultavano già trasfusi nella legge del lavoro e in particolare nella legge 903\77 che estendeva al padre la facoltà di astensione facoltativa dal lavoro previsto dalla legge del 1971 solo per la madre durante il primo anno del bambino.
Recentissima è la sentenza della Corte Costituzionale 219\2023 su una questione di legittimità analoga a quella oggetto dell’ordinanza del TdS di Bologna, sollevata in relazione alla diversa norma di cui all’art. 47 ter comma 1 lettere a) e b) OP nella parte in cui non prevede la possibilità di accesso al beneficio anche al padre indipendentemente dalla situazione di impossibilità di cure da parte della madre, per contrasto con gli artt. 3 comma II e 31 della Costituzione.
Il rimettente osservava che la più severa disciplina per l’accesso alla detezione domiciliare rispetto alla madre prevista per il padre contrasta con l'interesse del minore, fondato e tutelato dall'articolo 31 II comma della Costituzione, a mantenere un rapporto continuativo con entrambi genitori, ritenendo che la Costituzione e le fonti sovranazionali riconoscano in capo ai minori un vero e proprio diritto alla bigenitorialità. Rilevava, inoltre, l’intrinseca irragionevolezza della norma che, in assenza di plausibili e giustificate ragioni, pone nel campo delle misure alternative alla detenzione intramurarie una disciplina che privilegia in via primaria la conservazione del rapporto genitoriale materno anche a fronte di condotte illecite che abbiano giustificato la limitazione della libertà personale della madre.
La Corte Costituzionale ha ritenuto entrambi i profili di incostituzionalità non fondati, partendo dalla premessa che entrambe le censure fossero state costruite attorno alla prospettiva dell’interesse del minore ad una relazione continuativa con entrambi i genitori e ritenendo, invece, escluse dal devolutum le questioni della diversa considerazione dei diritti doveri che fanno capo al padre rispetto a quelli che fanno capo alla madre e la questione di discriminazione, in base al sesso tra le due figure genitoriali, nell’accesso alle misure alternative.
Non ha tuttavia risparmiato un avvertimento per il futuro, osservando che per affrontare la tematica della disparità di trattamento sarebbe stato necessario confrontarsi in modo approfondito tanto con il significato della portata della protezione offerta alla maternità dall'articolo 31 II comma Costituzione, quanto con le fonti internazionali in materia, tra cui l'articolo 4 paragrafo 2 della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata a New York il 18 dicembre 1979 -ratificata e resa esecutiva con legge 132 del 14 marzo 1985 - a tenore del quale ‘l'adozione da parte degli Stati di misure speciali comprese le misure previste dalla presente convenzione tendenti a proteggere la maternità non è considerato un atto discriminatorio’, e altresì con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di discriminazioni nel trattamento sanzionatorio e nel trattamento penitenziario di donne e uomini.
Nel merito, la Corte ha osservato che il nostro ordinamento, pur riconoscendo il principio dell’interesse preminente del minore come faro che deve guidare le decisioni delle Autorità Pubbliche, non assicura l’automatica prevalenza del diritto del minore a mantenere un rapporto con entrambi genitori su ogni altro interesse individuale o collettivo, aggiungendo che, con riferimento alle relazioni tra genitori condannati a pena detentiva e figli minori, numerose pronunce della Corte Costituzionale hanno affermato che l’interesse del minore non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze pure di rilievo costituzionale, tra cui quella di difesa sociale sottese all’esecuzione della pena, quella di assicurare un percorso rieducativo al condannato, e quella di riaffermare la vigenza della norma violata e la sua efficacia deterrente nei confronti della collettività, trattandosi di esigenze funzionali alla tutela effettiva di beni giuridici spesso pure di rilievo costituzionale, sottesi alle norme penali.
Peraltro, osserva la Corte, la speciale importanza dal punto di vista costituzionale delle esigenze del minore esige che i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena debbano, di regola, cedere, di fronte all’esigenza di assicurare ai minori in tenera età la possibilità di godere di una relazione diretta con almeno uno dei due genitori.
Il punto di equilibrio tra tali opposte esigenze si rinviene nelle norme dell’ordinamento penitenziario a tutela del diritto alla cura dei figli, che hanno consentito la possibilità di accesso alla detenzione domiciliare da parte della madre o da parte del padre in caso di impossibilità della madre.
La Corte ha anche aggiunto che l’impianto normativo tutela l’interesse dei minori a mantenere le relazioni con i genitori, anche laddove non sussistano i presupposti per l’accesso degli stessi alle misure alternative, tramite gli istituti dei permessi premio, ma anche delle visite di cui all’art. 21 ter OP, dei colloqui e della corrispondenza telefonica.
Ha poi affrontato il tema della scelta del legislatore di dare prevalenza al rapporto del minore con la madre, scelta che ha le proprie radici nella genesi di tali istituti, pensati proprio per assicurare quella relazione specialissima della madre con il figlio durante l'allattamento comunque nei primi mesi di vita, e via via estesi fino al raggiungimento di un'età più avanzata del bambino, al fine di evitare un'interruzione brusca del rapporto con la madre, in una fase di vita in cui il minore ancora necessita della presenza di tale genitore, e ciò in consonanza con gli strumenti internazionali relativi al trattamento penitenziario delle condannate madri.
Ha inoltre osservato che la scelta del legislatore di introdurre opzioni di esecuzione extramuraria in favore delle donne madri, indipendentemente dalla prova dell'indisponibilità del padre a prendersi cura del bambino, trova verosimile giustificazione nella considerazione di un impatto complessivamente contenuto di simili di misure rispetto agli interessi dell'esecuzione penale tenuto conto del numero ridotto di donne detenute in proporzione all'intera popolazione carceraria ( circa il 4%, dell’intera popolazione; vengono riportate le statistiche al 30 novembre 23 che vedevano 2549 donne detenute rispetto a un totale di 60.166 detenuti).
Ha poi concluso ritenendo che l'estensione delle medesime regole vigenti per le detenute madri anche per i detenuti padri è un'opzione che il legislatore potrebbe valutare, ma che non può essere ritenuta costituzionalmente necessitata dal punto di vista della tutela degli interessi del minore, tutela che richiede che di regola sia assicurato al bambino stesso un rapporto continuativo con almeno uno dei due genitori.
5. Principio di non discriminazione e diritto alla bigenitorialità. Qualche considerazione.
La questione di costituzionalità sollevata in via principale dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna riprende, nel contenuto, quella già esaminata dalla Corte Costituzionale nella sentenza 219\2023, ma pone, in modo più franco, anche in ragione dei parametri di costituzionalità invocati - tra cui l’art. 117, quale parametro interposto agli art. 14 CEDU in relazione all’art. 8 CEDU- la questione della discriminazione in base al sesso tra le due figure genitoriali, rispetto all’accesso alle misure alternative, questione che la Corte, nella sentenza 219\2023, aveva ritenuto esclusa dal focus della valutazione. Discriminazione ritenuta dal rimettente non più in linea con l’evoluzione normativa e sociale del fenomeno familiare e con i più recenti studi scientifici - che hanno messo in discussione l’assunto per cui vi siano funzioni genitoriali biologicamente determinate - e foriera di irragionevoli disparità di trattamento, anche (ma non solo) nei casi di famiglie omosessuali o monogenitoriali, da cui derivano danni per i minori e, più in generale, per il nucleo familiare.
A sostegno del percorso argomentativo viene prospettata una sostanziale differenza tra le norme a tutela della maternità in senso stretto quali quelle che disciplinano il differimento dell’esecuzione della pena (art. 146 e 147 c.p.) e l’art. 47 quinquies OP da leggersi invece come istituto primariamente teso alla cura della prole.
Il tema principale da affrontare è dunque se sia corretto ritenere che l’art. 47 quinques OP abbia perduto i connotati originari di norma che estendeva la tutela della maternità, in favore di una finalità proiettata, in via principale, sull’esigenza della cura dei figli e se sia possibile scindere i due aspetti, superando la lettura tradizionale fatta propria dai commentatori della legge 40\01 e ribadita dalla Corte Costituzionale 219\2023 che giustificava la discriminazione a favore della madre nell’accesso al beneficio con l’interesse del minore a mantenere quello specialissimo rapporto con la madre creatosi nelle prime fasi di vita consentito, per le madri condannate, dalle norme sul differimento dell’esecuzione della pena ed esteso grazie alle norme sulla detenzione domiciliare.
Non può non evidenziarsi che l’esperienza dei casi concreti dimostra la frequente progressione, sul piano logico e cronologico, dei diversi istituti del differimento e della detenzione domiciliare per la cura dei figli e che, proprio in ragione di tale continuità e della tutela rafforzata che la maternità riceve dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali, potrebbe non ritenersi ingiustificato un accesso privilegiato della madre alla misura in esame, ritenendo che si tratti di un’opzione a garanzia del diritto alla cura dei figli invocato dallo stesso rimettente.
Se si accede all’impostazione secondo cui tale favor non ha una giustificazione razionale rispetto alla tutela del diritto alla cura dei figli, si prospettano comunque due possibili soluzioni per rimuovere tale discriminazione, ovvero mediante l’eliminazione del trattamento più favorevole per le madri oppure attraverso l’estensione del beneficio al padre alle stesse condizioni previste per la madre.
Soluzione quest’ultima che il rimettente ritiene costituzionalmente vincolata riproponendo, in sostanza, il tema dell’inviolabilità del diritto alla bigenitorialità quale necessaria conseguenza del principio di non discriminazione dei genitori in base al sesso. Questo è certamente un passaggio delicato, poiché sulla non prevalenza assoluta del diritto alla bigenitorialità rispetto alle esigenze dell’esecuzione penale si è già pronunciata la Corte Costituzionale indicando quale soluzione rispettosa dei principi quella che assicura al minore il rapporto continuativo con almeno uno dei due genitori.
Diversamente, si dovrebbe affrontare il tema della modifica in peius della norma limitando l’accesso alla madre ai casi in cui il padre sia impossibilitato. Soluzione questa che, pur formalmente rispettosa dei principi affermati dal rimettente, di fatto porterebbe ad un arretramento della tutela della maternità e che avrebbe comunque gravi conseguenze negative anche sui figli minori che potrebbero vedersi privati della presenza della madre dopo un periodo continuativo assicurato dalle norme sul differimento dell’esecuzione della pena.
La diversa questione relativa all’irragionevolezza della scelta del legislatore di posporre l’intervento del padre nella cura dei figli rispetto a figure non genitoriali cui sono affidati i figli rispetto alla disciplina prevista da altre norme, in particolare a quella di cui all’ 47 ter OP, è posta in relazione a due profili.
Quanto al profilo costituito dall’intrinseca irragionevolezza della norma rispetto alla tutela degli interessi sottesi va osservato che il principio affermato dalla Corte Costituzionale 219\2023, secondo cui gli interessi sottesi all’esecuzione penale debbano, di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori possano godere della presenza di almeno uno dei genitori, sembra offrire conforto alla censura, posto che l’attuale meccanismo dell’art. 47 quinquies OP rende non sempre possibile realizzare tale situazione, privilegiando rispetto al padre, in assenza della madre, la presenza di terzi a tutela dei minori.
Sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto a norme che disciplinano istituti analoghi, quanto meno sotto il profilo finalistico, come l’art. 47 ter OP, si osserva che l’art. 47 quinquies OP disciplina una forma di detenzione domiciliare particolarmente ampia sotto il profilo quantitativo della possibile platea dei destinatari e qualitativo dei reati oggetto delle condanne ma anche per la possibilità di concludere l’espiazione della pena in forma extramuraria anche dopo il compimento dell’età di 10 anni dei figli minori, pur in presenza di un residuo pena superiore a quello previsto per l’accesso alle misure alternative.
È dunque evidente il differente impatto di tale norma sulle esigenze di tutela degli interessi sottesi all’esecuzione penale, rispetto a quella messa in comparazione.
L’esame della questione richiederà, quindi, alla Corte di ritornare sul tema del bilanciamento tra contrapposte esigenze e di verificare la possibilità, eventualmente anche attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata, di un ampliamento dello spazio concesso alla tutela del diritto alla cura dei figli rispetto a quello riconosciuto agli interessi sottesi all’esecuzione penale. Si potrebbe ad esempio attribuire al giudice una più ampia discrezionalità nella valutazione in concreto della realtà familiare nella quale è inserito il minore e della sua relazione con il genitore e nel bilanciamento tra gli interessi in gioco.
Immagine: Mario Madiai, Scorcio di paesaggio con cancello, olio su tavoletta.
Paolo Ricca, scomparso il 14 agosto scorso, è stato per decenni la voce pubblica del piccolo mondo protestante italiano. Già l’aggettivo, «protestante», è estraneo alla cultura del nostro paese: gli italiani e le italiane credono di sapere chi sia un ebreo, o un islamico, ma un protestante? Contro chi protesta esattamente (la domanda mi è stata effettivamente rivolta da un preside di scuola media superiore)? Mediante migliaia di conferenze, interviste, articoli, Ricca ha permesso a una piccola, ma significativa parte dell’opinione pubblica del Paese di entrare in contatto con questa realtà aliena, un modo di essere cristiane e cristiani altro rispetto a quello storicamente dominante. in Italia Ma chi era quest’uomo e quale è stata la sua storia?
Ricca nasce nel 1936, nelle cosiddette Valli Valdesi, sopra Pinerolo: l’unica area italiana nella quale la presenza protestante è sociologicamente significativa. Il padre è pastore, la madre cristiana evangelica praticante e Paolo, le sue sorelle e suo fratello ricevono una tipica educazione protestante di quel tempo. Il clima familiare è caldo ma, come mi racconterà Paolo, l’espressione degli affetti avviene «sub specie severitatis». Anch’egli sarà sempre una persona sobria, ma esplicita e generosa nell’esprimere i sentimenti. Chi lo ha incontrato ha sempre avuto l’opportunità di un rapporto realmente personale, che il prestigioso interlocutore viveva a fondo e con interesse vero e percepibile.
Dalle Valli il pastore Ricca è trasferito a Firenze, dove le sue figlie e i suoi figli si formano e dove trascorreranno la loro vita, tranne Paolo, che segue le orme paterne. Dopo gli studi di teologia alla Facoltà Valdese di Roma, trascorre un anno negli Stati Uniti. Il grande specialista di Nuovo Testamento Oscar Cullmann, regolarmente invitato alla Facoltà, gli propone di conseguire un dottorato a Basilea. La direzione ecclesiastica permette al brillante virgulto di andarsene per due anni, a patto che lo studio venga affiancato dal lavoro pastorale nelle comunità di lingua italiana di Basilea e di Zurigo. Venticinque anni dopo, qualcosa del genere toccherà a me (solo a Zurigo): in quell’occasione mi sono reso conto che Ricca non era un ricordo in quelle comunità, ma una leggenda. Il dottorato è conseguito con una dissertazione sull’escatologia del IV Evangelo, tema dibattutissimo, allora come oggi, tra gli specialisti.
Il primo incarico pastorale in Italia è nella piccola comunità di Forano Sabino, a una settantina di chilometri da Roma. In questa fase, il giovane pastore è anche incaricato di seguire il Concilio Vaticano II: egli è allora fortemente influenzato da Vittorio Subilia, il professore di dogmatica della Facoltà, molto severo nei confronti del cattolicesimo. La sede successiva è Torino, negli anni Settanta ancora la città della Fiat e delle grandi lotte sindacali, nonché della comunità valdese meno piccola d’Italia, in quanto approdo naturale per chi, dalle Valli, scendeva in città in cerca di lavoro. Gli anni Torinesi fanno di Ricca uno dei giovani pastori più in vista della chiesa. Accade così che nel 1976, quando i due maggiori teologi della Facoltà, Valdo Vinay e Vittorio Subilia, vanno in pensione, Ricca sia chiamato a sostituire il primo, sulla cattedra doppia di storia e teologia pratica (quest’ultima è la disciplina che si concentra sull’«addestramento» della persona candidata al ministero, nei suoi vari compiti).
Come il suo predecessore, Paolo Ricca non è uno storico di formazione. Mentre però Vinay si era messo di impegno ad acquisire i ferri del mestiere (archivistica, diplomatica ecc.), Ricca diviene soprattutto un esegeta di testi, in particolare del XVI secolo. Questa propensione culmina, a partire dagli anni Ottanta, in quello che egli considera l’opus magnum della sua vita, cioè la collana Opere Scelte di Lutero, che egli dirige con grande passione, curando personalmente numerosi volumi. Gli anni Settanta sono ancora dominati, in ambito ecumenico, dall’entusiasmo postconciliare e Ricca diviene il «ministro per l’ecumenismo» della Chiesa valdese, sia in Italia, sia all’estero, dove entra a far parte di Fede e Costituzione, l’importate commissione teologica del Consiglio Ecumenico.
L’attività internazionale è aiutata dall’eccellente conoscenza delle lingue. Nella sua famiglia si è sempre parlato francese, l’inglese è stato consolidato negli USA, ma è in tedesco che Paolo dà il meglio di sé, sfruttando con autentica genialità le grandi possibilità espressive di quella lingua. La sua popolarità in Germania è immensa, così come la sua autorevolezza. Ricca non sarà mai uno specialista nel senso teutonico del termine, piuttosto un «generalista». La sua originalità di pensiero, tuttavia, gli consente assai spesso di stupire l’uditorio. Una sua conferenza sul tema della «diaconia» (il lavoro sociale delle chiese) gli varrà un dottorato ad honorem da parte di un’istituzione specializzata: e posso testimoniare che Paolo non fu mai un esperto di ciò che i tedeschi chiamano «scienza diaconale».
Caratteristica saliente del ministero di quest’uomo era poter essere un giorno a Berlino, in una grande assise internazionale, e il giorno dopo a tenere una conferenza su Lutero a quindici persone in una microscopica comunità evangelica italiana. I suoi itinerari seguivano la sola logica della successione degli inviti: Roma – Parigi – Ancona – Strasburgo, ad esempio.
La conferenza e la predica erano le sue forme favorite di comunicazione. Ma anche le conferenze erano prediche. Il punto di vista di Paolo era sempre quello del testimone dell’evangelo. Senza nulla togliere al rigore dell’esposizione, egli intendeva coinvolgere l’uditorio nel nucleo del tema, che era sempre, in una forma o nell’altra, il nome di Gesù Cristo. Chi scrive l’ha ascoltato centinaia di volte e posso dire, senza esagerazione, di non essermi mai annoiato, nemmeno quando, negli ultimi anni, avrei potuto anticipare la conferenza, comprese le formulazioni icastiche, dopo averne ascoltato le prime battute. Ancora più efficace, se possibile, la sua predicazione nel corso del culto. Oggi si ritiene che una predica protestante (comunque assai più lunga di quella della messa cattolica) non dovrebbe superare i quindici minuti. Credo che Paolo non abbia mai impiegato meno di mezz’ora e, specie nell’età avanzata, arrivava a volte a quaranta – quarantacinque minuti. L’attenzione dell’uditorio, però, si poteva avvertire fisicamente, nella chiesa immersa in un silenzio assoluto, rotto solo dalla sua elocuzione lenta, precisa e a volte virtuosistica, non aliena da ridondanze, perché il concetto doveva essere chiaro.
Una figura del genere occupa molto spazio intellettuale ed emotivo. Per almeno vent’anni, ho professato un personale e alquanto bizzarro dogma protestante dell’infallibilità del prof. Ricca: non credo però che egli abbia «clonato» i suoi allievi: ci ha plasmati, questo sì, profondamente e il legame di amicizia tra alcuni di noi passava attraverso il rapporto con lui e, oggi, attraverso il suo ricordo.
La Chiesa valdese è ora senz’altro più povera, non esiste una figura in grado di «sostituire» Paolo Ricca e anche i tempi e le circostanze sono cambiate. Io penso però che la sua eredità non sia esaurita. Egli ha detto, scritto a fatto più di quanto noi abbiamo potuto finora recepire: in forma assai diversa e non senza acuta nostalgia, il dialogo continua.
Brevi riflessioni sull’efficacia ‘ultra partes’ del giudicato amministrativo di annullamento (annotando Cons. Stato, sez. VI, 20 febbraio 2024, n. 1706)
di Stefano Vaccari
Sommario: 1. Fattispecie concreta e risvolti processuali: il problema dell’estensione degli effetti del giudicato di annullamento al soggetto cointeressato non originariamente ricorrente. - 2. I limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento: efficacia ‘inter partes’ o ‘ultra partes’? Alcuni spunti di riflessione. – 3. In conclusione: le profonde incertezze intorno alla natura scindibile o inscindibile degli atti amministrativi tra criteri empirici e ampio ‘soggettivismo’ dell’interprete.
1. Fattispecie concreta e risvolti processuali: il problema dell’estensione degli effetti del giudicato di annullamento al soggetto cointeressato non originariamente ricorrente.
La sentenza annotata interviene sulla delicata e complessa questione dei limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento.
Per una migliore comprensione del ragionamento svolto dal Consiglio di Stato occorre, innanzitutto, descrivere brevemente la fattispecie oggetto del contenzioso in esame.
L’Autorità di Regolazione dei Trasporti (A.R.T.), dopo aver previamente definito i criteri per la determinazione dei canoni di accesso e utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria[1], riconosceva la conformità agli stessi del sistema tariffario presentato dal gestore Rete Ferroviaria Italia S.p.A. (R.F.I.) per gli anni 2016-2021.
Alcune società esercenti l’attività di trasporto ferroviario di merci impugnavano le suddette delibere dinanzi al T.a.r. per il Piemonte, ottenendone l’annullamento ‘in parte qua’, ossia con riferimento agli specifici contenuti regolatori corrispondenti ai vizi-motivi accolti. Di talché, l’autorità amministrativa e il gestore dell’infrastruttura venivano gravati dell’obbligo di rivalutare i medesimi piani tariffari secondo i criteri di costo e di contabilità risultanti dalla motivazione della sentenza di annullamento[2].
Al fine di ottemperare alle statuizioni giudiziali, R.F.I. aggiornava il piano tariffario secondo le prescrizioni conformative indicate dal giudice amministrativo e lo trasmetteva all’A.R.T. per le opportune verifiche allo scopo dell’approvazione, in seguito disposta. In tale contesto, veniva affrontato anche il tema dei ‘conguagli’ eventualmente dovuti da R.F.I. alle imprese ferroviarie in conseguenza della rimodulazione del sistema tariffario, stabilendo in particolare che tali somme, con riferimento al periodo temporale antecedente al 1° gennaio 2019 (i.e. la data di efficacia del nuovo piano tariffario), sarebbero state riconosciute unicamente in favore dei destinatari delle sentenze di annullamento[3].
Un’impresa ferroviaria, cointeressata ma non originariamente ricorrente avverso i primi atti amministrativi, impugnava le sopravvenute delibere dell’A.R.T. inerenti al procedimento di aggiornamento tariffario per lamentare l’illegittima e irragionevole limitazione dei conguagli (per il periodo antecedente all’anno 2019) alle sole parti dei conclusi giudizi. Segnatamente, la contestazione era riferita alla mancata estensione dei conguagli nei confronti di tutte le imprese ferroviarie del comparto, attesa la natura ‘indivisibile’ e ‘inscindibile’ dei (primi) provvedimenti oggetto di annullamento parziale, così come di quelli successivi diretti alla rimodulazione delle voci di costo del sistema tariffario, siccome aventi a oggetto servizi fruibili da parte di tutti gli operatori economici del settore.
Il T.a.r. per il Piemonte rigettava[4] il ricorso proposto dall’anzidetta impresa cointeressata (ma non parte dei precedenti giudizi), rilevando che gli invocati conguagli ‘retroattivi’ rappresentano un diritto di credito spettante unicamente – a titolo di ottemperanza – alle imprese ferroviarie che hanno impugnato i provvedimenti tariffari parzialmente caducati. Al contrario, le imprese ferroviarie non ricorrenti, in quanto ‘terze’, non possono a posteriori pretendere l’estensione in proprio favore degli effetti conformativi ed esecutivi del giudicato di annullamento intervenuto in un altrui processo, avendo prestato acquiescenza ai contenuti dei medesimi provvedimenti, non tempestivamente impugnati ma – al contrario – eseguiti mediante effettiva corresponsione delle tariffe per la fruizione dei servizi di accesso alla rete.
Secondo il giudice amministrativo di primo grado, in conclusione, «non solo manca del tutto l’inscindibilità di posizioni giuridiche tra la ricorrente e le parti dei giudizi in questione, ma la stessa chiede anche l’estensione nei suoi confronti degli effetti ordinatori e ‘di accertamento della pretesa azionata’, che […] sono riferibili esclusivamente ai soggetti che hanno agito nel giudizio conclusosi con sentenza passata in giudicato».
L’impresa ferroviaria soccombente ricorreva in appello avverso la suddetta sentenza, ritenuta affetta da ‘error in iudicando’ poiché, negando l’estensione ‘ultra partes’ degli effetti del giudicato di annullamento di provvedimenti di regolazione tariffaria (asseriti come) inscindibili, la c.d. regula iuris ivi affermata si sarebbe tradotta in una grave violazione del principio di non discriminazione.
Il Consiglio di Stato, da ultimo, ha dichiarato infondata nel merito l’impugnazione confermando integralmente la decisione resa dal giudice di prime cure. In particolare, si sostiene che gli atti amministrativi impugnati non sono caratterizzati dall’inscindibilità dei propri effetti, con conseguente assenza di efficacia ‘ultra partes’ del giudicato di annullamento[5]. A supporto di una siffatta qualificazione, è introdotta l’ulteriore precisazione secondo cui l’attributo dell’inscindibilità del provvedimento non dipende unicamente dal numero dei destinatari degli effetti dell’atto giuridico, bensì – più propriamente – dal suo contenuto, laddove non divisibile in una pluralità di statuizioni autonome e separabili.
Da ultimo, con un (forse) troppo ardito salto logico nell’argomentazione e senza un particolare sviluppo motivazionale[6], le delibere di regolazione tariffaria oggetto d’impugnazione vengono qualificate come atto ‘plurimo’, e dunque scindibile, in quanto riferite a una pluralità di soggetti titolari di autonome situazioni giuridiche soggettive, applicando – per l’effetto – il canone generale dell’efficacia ‘inter partes’ della cosa giudicata.
2. I limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento: efficacia ‘inter partes’ o ‘ultra partes’? Alcuni spunti di riflessione.
Il contenzioso appena descritto offre l’occasione di riflettere sull’annosa questione[7] dei limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento[8].
A tale riguardo, è noto che al processo amministrativo – in assenza di specifiche disposizioni dedicate all’istituto del giudicato all’interno del relativo Codice di rito (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) – si applichino gli artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c., rispettivamente dedicati alla cosa giudicata in senso formale e in senso sostanziale[9]. Pertanto, una volta che la sentenza è passata in giudicato, a seguito della proposizione dei mezzi di impugnazione ordinari o per decorso dei corrispondenti termini decadenziali, l’‘accertamento’ giudiziale fa «stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa» (art. 2909 c.c.)[10].
Con la suddetta disposizione è stata, dunque, codificata la tradizionale regola della limitazione soggettiva degli effetti del giudicato alle (sole) parti del giudizio, non potendo un accertamento reso tra determinati soggetti giovare o nuocere ai ‘terzi’: in altri termini, come ricorda il diffuso brocardo, ‘res inter alios iudicata tertio neque nocet neque prodest’.
Nondimeno, nella realtà giuridica si manifestano non pochi casi di (più o meno apparente) ‘interferenza’ della res iudicata rispetto ai terzi, da cui origina l’importante dibattito tra i processualisti[11] intorno ai criteri per una sicura perimetrazione dei limiti soggettivi del giudicato[12]. Con riferimento al processo amministrativo, basti considerare che l’annullamento di qualsiasi provvedimento, siccome atto funzionalizzato alla cura di un determinato interesse pubblico, incide – quantomeno da un punto di vista fattuale e descrittivo – su una pluralità di soggetti nella loro qualità di componenti di una (più o meno ampia) collettività[13].
Nonostante la generale efficacia ‘inter partes’ della cosa giudicata, la pubblica amministrazione talvolta estende discrezionalmente gli effetti prodotti da una determinata sentenza di annullamento in favore di terzi che versano in situazioni analoghe a quelle oggetto dell’altrui giudizio, ancorché riferite a rapporti giuridici autonomi. A rigore non si tratta di un’eccezione alla regola del vincolo alle parti del giudicato, in quanto l’anzidetta ‘estensione’ costituisce l’effetto giuridico che discende da una decisione amministrativa discrezionale volta a conformare taluni rapporti giuridici secondo la regola statuita dal giudice rispetto a una determinata fattispecie concreta.
Inoltre, questa possibilità non esprime l’adempimento di un obbligo giuridico gravante sull’amministrazione soccombente[14], bensì l’esercizio di una facoltà che si lega a una più generale valutazione di opportunità svolta nell’ambito di un procedimento di riesame in autotutela[15] avente a oggetto provvedimenti formalmente distinti – ma contenutisticamente identici (o, quantomeno, analoghi)[16] – a quello già caducato, purché sussista un interesse pubblico concreto idoneo a giustificare una siffatta decisione amministrativa.
E ancora, è opportuno precisare che i terzi interessati non sono titolari nei confronti dell’amministrazione di pretese sostanziali aventi la consistenza del diritto soggettivo all’estensione in proprio favore degli effetti favorevoli discendenti dall’altrui giudicato di annullamento[17], quanto di un interesse legittimo correlato all’esercizio o al mancato esercizio[18] (ove non si dovesse riconoscere una piena e insindacabile libertà nel c.d. ‘an’[19]) di un potere amministrativo discrezionale[20], censurabile nelle note forme dell’eccesso di potere, e in particolare alla stregua del principio di parità di trattamento[21].
Il problema dei limiti soggettivi del giudicato amministrativo si complica al cospetto di atti amministrativi c.d. inscindibili o indivisibili impugnati da uno o più ricorrenti, ma non da tutti i soggetti che risultino tecnicamente ‘cointeressati’, ossia abilitati – in forza di tale qualità[22] –all’impugnazione dei medesimi atti nel rispetto del termine decadenziale a cui è assoggettata l’azione di annullamento.
Per queste fattispecie, infatti, la giurisprudenza amministrativa[23] ha da tempo ammesso un’eccezione alla regola generale dell’efficacia ‘inter partes’ del giudicato[24], riconoscendo l’automatica estensione soggettiva ‘ultra partes’ – o, financo, ‘erga omnes’ per quanto concerne gli atti amministrativi c.d. normativi[25] – dello stesso.
Il suddetto orientamento si fonda sull’assunto per cui l’annullamento di un provvedimento amministrativo inscindibile non possa che valere per tutti i soggetti destinatari della sua efficacia precettiva[26], dovendosi altrimenti ammettere che un atto, pur caducato per alcuni (i.e. le parti del giudizio), esista ancora giuridicamente per altri (i.e. i terzi cointeressati non ricorrenti)[27]. Del resto, qualora l’atto impugnato fosse ‘divisibile’ si ricadrebbe nella situazione prima considerata, ossia con un giudicato di annullamento limitato soggettivamente alle sole parti del giudizio, salvo il potere amministrativo ampiamente discrezionale di estenderne le risultanze (a condizione che questa possibilità non sia espressamente vietata dal legislatore) in favore delle situazioni identiche o affini con efficacia ex nunc[28].
Nondimeno, la giurisprudenza ha precisato che la dichiarata efficacia ‘ultra partes’ del giudicato amministrativo è da intendersi limitata al solo effetto costitutivo-eliminatorio, non interessando anche gli ulteriori effetti conformativi ed esecutivi, i quali restano pertanto assoggettati alla regola generale dell’efficacia ‘inter partes’[29]. Di conseguenza, il cointeressato non ricorrente non può giovarsi della ‘forza esecutiva’[30] dell’accertamento declinato nell’altrui sentenza di cognizione o, comunque, dei vincoli alla riedizione del potere amministrativo[31]: a tal fine, avrebbe dovuto esercitare tempestivamente l’azione di annullamento impugnando i medesimi atti (sicché, della relativa omissione – come si suol dire – ‘imputet sibi’).
Questa impostazione, ripresa nelle sue linee portanti dalla sentenza annotata, suscita alcuni interrogativi sul piano dell’inquadramento teorico-dogmatico.
Invero, nelle fattispecie in esame, ciò che si riflette sul cointeressato non ricorrente rispetto ad atti amministrativi inscindibili o indivisibili (caducati su impugnazione altrui) sembrerebbe essere il mero ‘fatto’ della loro eliminazione dall’ordinamento, ma non l’accertamento delle ragioni giuridiche (da cui dipendono i conseguenti vincoli conformativi e preclusivi) in forza delle quali il giudice ha pronunciato la sentenza di annullamento[32].
In altri termini, nelle ipotesi considerate il giudicato non assumerebbe un’efficacia (in senso proprio) ‘ultra partes’, se non in un senso a-tecnico o descrittivo. Si tratta, come è stato autorevolmente osservato[33], dell’inevitabile rilevanza per il terzo della materiale privazione di efficacia di un atto incidente (anche) sulla sua sfera giuridica, ma non di una proiezione ultra-soggettiva dell’efficacia e dei vincoli caratterizzanti la res iudicata[34].
Del resto, l’effetto proprio del giudicato è l’attribuzione del carattere di stabilità e irretrattabilità (nel senso della preclusione) all’‘accertamento giudiziale’: il che è quanto stabilito dall’art. 2909 c.c., ove si dispone che la qualità di giudicato sostanziale (che fa ‘stato’ tra le parti) concerne l’«accertamento contenuto nella sentenza».
Assumendo questa impostazione, non dovrebbe dunque riconoscersi alcun fenomeno di estensione dei limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento di atti inscindibili, quanto rilevare la più semplice significatività del ‘fatto di annullamento’ come dato di diritto sostanziale, pena altrimenti far dipendere gli effetti della cosa giudicata dall’efficacia dell’atto precettivo impugnato[35].
Il valore fattuale[36] della privazione di effetti dell’atto per i terzi cointeressati (non ricorrenti), come è stato osservato[37], è analogo a quello che si produce a seguito dell’esercizio dei poteri di annullamento non giurisdizionali: si pensi all’autotutela amministrativa, la quale determina l’inefficacia dell’atto inscindibile rimosso (ad esempio, per annullamento d’ufficio, per intervento di organi di controllo o in esito a un ricorso gerarchico[38]) per tutti i soggetti interessati, senza che ciò sia accompagnato da efficacia di giudicato (siccome qualità riferibile ai soli atti espressione di funzione giurisdizionale).
La tesi dell’efficacia (sempre) ‘inter partes’ del giudicato amministrativo di annullamento si giustifica anche in ragione della generale natura di diritto soggettivo del processo amministrativo[39], in quanto giudizio diretto alla tutela e alla soddisfazione – nei limiti consentiti dal diritto sostanziale – della pretesa veicolata in giudizio dalla parte ricorrente in veste di titolare effettivo di un interesse legittimo leso dal cattivo o mancato esercizio dell’azione amministrativa.
Se l’oggetto del processo amministrativo è, dunque, la verifica della fondatezza della specifica pretesa sostanziale vantata dal ricorrente, allora l’accertamento giudiziale risulterà confinato alla relazione giuridica sussistente tra l’amministrazione e colui che invoca tutela giurisdizionale per la protezione e (contestuale) soddisfazione della ‘propria’ situazione giuridica soggettiva: il che prescinde dagli effetti di ordine materiale e fattuale che interessano (anche) eventuali terzi in conseguenza dell’annullamento di un atto giuridico precettivo, ma che non pertengono all’efficacia propria della cosa giudicata (limitata, come si è detto, all’accertamento giudiziale dispiegato ‘inter partes’).
La suddetta lettura, inoltre, farebbe venire meno la necessità di ricorrere alla già richiamata distinzione giurisprudenziale tra gli effetti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento di atti inscindibili, ossia tra un’efficacia costitutiva ‘ultra partes’ e un effetto conformativo ‘inter partes’. Infatti, postulando che l’effetto costitutivo, in quanto determinante l’inefficacia di un atto sul piano sostanziale, non rilevi per i terzi cointeressati (non ricorrenti) in forza del giudicato amministrativo[40], non occorre differenziare la portata soggettiva degli effetti del giudicato, che risulteranno sempre limitati alle sole parti del giudizio[41].
E ancora, si consideri che l’effetto conformativo rappresenta la traduzione ‘in positivo’ dei vizi di legittimità accertati ‘in negativo’ ai fini dell’annullamento dell’atto impugnato dalla parte ricorrente[42]: come si può notare, l’accertamento giudiziale (sotteso all’effetto caducatorio od ordinatorio) è sempre il medesimo e, come tale, non può parimenti dispiegare un’efficacia ‘inter partes’ e ‘ultra partes’[43].
Sul piano dei corollari, l’assenza di efficacia ‘ultra partes’ del giudicato amministrativo di annullamento di atti inscindibili fa sì che i terzi cointeressati (non ricorrenti) non possano far valere la nullità dei provvedimenti adottati in sede di riedizione del potere amministrativo per asserito contrasto con la cosa giudicata, siccome afferente a una sentenza resa tra altri e avente, dunque, efficacia di accertamento (solo) tra le rispettive parti processuali.
Certamente il ‘fatto d’annullamento’, di cui tali soggetti beneficiano sul piano materiale, impedisce all’amministrazione di considerare l’atto annullato – e, dunque, non più esistente nella realtà giuridica – come titolo per ulteriori determinazioni nei loro riguardi, fatte salve le prestazioni di adempimento delle obbligazioni sorte con il provvedimento (solo in seguito annullato) eseguite nel periodo temporale di efficacia pregressa. Rispetto a queste ultime, è possibile ritenere che i terzi cointeressati non ricorrenti abbiano prestato acquiescenza rispetto alla validità dell’atto amministrativo a fondamento del credito di titolarità della pubblica amministrazione, come è comprovato dal concreto adempimento, sì da non poter rivendicare a posteriori pretese di ordine restitutorio.
Infine, per quanto concerne i provvedimenti inscindibili adottati dall’amministrazione in sostituzione di quelli caducati, al fine di ottemperare all’effetto conformativo della sentenza amministrativa, i terzi cointeressati hanno senz’altro legittimazione a impugnarli in sede di cognizione, laddove ritenuti illegittimi per vizi afferenti ai loro (nuovi) contenuti sostanziali e lesivi della propria situazione giuridica soggettiva[44]. Nell’ambito dell’instaurato giudizio di cognizione, il precedente giudicato di annullamento reso tra altre parti potrà – tutt’al più – assumere il valore di ‘fatto’ o di argomento di prova a supporto delle censure addotte, ma non di atto giuridico fonte di vincoli conformativi o preclusivi cogenti a pena di nullità delle determinazioni amministrative difformi.
3. In conclusione: le profonde incertezze intorno alla natura scindibile o inscindibile degli atti amministrativi tra criteri empirici e ampio ‘soggettivismo’ dell’interprete.
Ferme restando le superiori considerazioni, è possibile in conclusione evidenziare un ulteriore elemento di criticità che traspare dall’orientamento giurisprudenziale in commento.
Invero, il riconoscimento di effetti ‘ultra partes’ al giudicato di annullamento è correlato alla previa qualificazione dell’atto amministrativo impugnato come ‘inscindibile’ o ‘indivisibile’.
Sennonché, non si registra al riguardo un’unanimità di vedute, sia in dottrina che in giurisprudenza[45]. La qualità dell’inscindibilità dell’atto amministrativo è, infatti, dipendente da una pluralità di criteri differenti[46], a loro volta considerati in via alternativa o in regime di cumulo, quali la natura del vizio dedotto, la tipologia di effetti e il contenuto dell’atto, il numero dei destinatari e il relativo legame, etc.[47] Ad esempio, nella sentenza annotata si assume che «[a]i fini della qualificazione di un atto come indivisibile non è, quindi, sufficiente che si caratterizzi per la presenza di una pluralità di destinatari dovendosi invece rinvenire detto carattere nella inscindibilità del suo contenuto, tale da non poter essere scisso in distinte ed autonome determinazioni».
Inoltre, con larga frequenza il carattere dell’inscindibilità è ricavato a contrario dalla natura non ‘plurima’[48] (bensì normativa, generale o collettiva) dell’atto amministrativo impugnato, in funzione della prevedibilità solo ‘ex post’ (e, dunque, non ‘ex ante’) dei suoi destinatari[49], ovvero dell’autonomia delle situazioni giuridiche di titolarità dei soggetti a cui esso si riferisce.
Si tratta, come è evidente, di criteri dalla forte valenza empirico-casistica[50] e connotati da scarsa precisione teorico-dogmatica[51].
Per tali ragioni, essi dipendono – nella loro applicazione concreta – da valutazioni ampiamente soggettive del singolo interprete, non offrendo sicurezza e prevedibilità agli operatori giuridici, esposti a oscillanti qualificazioni giurisprudenziali pur al cospetto di analoghe tipologie di provvedimenti (basti pensare ai contrasti[52] registrati in ordine alla divisibilità o meno degli atti amministrativi normativi e generali[53]).
Ne è un chiaro esempio il contenzioso riassunto in queste pagine, nell’ambito del quale le parti sostenevano – al fine di ammettere o negare l’efficacia ultra-soggettiva del giudicato di annullamento – le opposte tesi dell’inscindibilità e della scindibilità delle delibere di regolazione tariffaria, avendo infine il giudicante optato per la natura ‘plurima’ degli atti in questione (pur senza svolgere un’ampia motivazione sul punto) così da rafforzare la conclusione dell’assenza di effetti ‘ultra partes’ della cosa giudicata.
Vi è la sensazione, al riguardo, che l’accertamento dell’inscindibilità degli atti amministrativi sia in larga misura fondato su giudizi prognostici (ancorché non sempre esplicitati) relativi alla volontà ‘reale’ o ‘presunta’ dell’amministrazione[54]. In altri termini, si finisce – più o meno consapevolmente – per domandarsi se il soggetto pubblico da cui promana (e al quale si imputa) l’atto amministrativo abbia inteso legare le diverse disposizioni precettive per formare una decisione unitaria, e dunque inscindibile; ovvero se esse debbano intendersi quali autonomi precetti racchiusi in un unitario contesto ‘documentale’[55] per ragioni di efficienza organizzativa e procedurale, conservando ciascuna una propria autonomia sostanziale.
Tuttavia, come si è avuto modo di approfondire in altra sede[56], il rilievo della volontà (psicologica o ipotetica che sia[57]) rispetto agli atti amministrativi rappresenta una superata eco della c.d. ‘ipoteca pandettistica’[58] e dell’originaria trasposizione delle categorie del negozio giuridico di diritto privato[59], tradizionalmente inteso come espressione della ‘signoria del volere individuale’[60]. Rispetto all’originaria concezione negoziale, il percorso di progressiva ‘de-soggettivizzazione’ del potere amministrativo[61] ha determinato la perdita di centralità dell’elemento volontaristico del provvedimento, sempre più ricostruito come manifestazione ‘obiettivata’ di una statuizione precettiva[62].
Per tali ragioni, al fine di superare l’attuale stato di incertezza sul piano qualificatorio, si potrebbe riflettere sulla sostituzione dei criteri utilizzati dalla giurisprudenza con una nozione giuridica di inscindibilità di tipo oggettivo e astratto, e segnatamente basata sulla struttura della norma attributiva del potere[63] e dei relativi vincoli di tipicità[64].
[1] Si tratta dei servizi relativi al c.d. ‘pacchetto minimo di accesso’ ex art. 13, co. 1, del d.lgs. 15 luglio 2015, n. 112 (‘Attuazione della direttiva 2012/34/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 novembre 2012, che istituisce uno spazio ferroviario europeo unico’) e di quelli ulteriori (diversi dal richiamato pacchetto minimo di accesso), anche di natura ausiliare o complementare, ex art. 13, co. 2, 9 e 11, del d.lgs. n. 112/2015.
[2] Cfr. T.a.r. Piemonte, sez. II, 5 ottobre 2017, nn. 1097 e 1098. Entrambe le sentenze sono state, in seguito, confermate in grado di appello (Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2021, nn. 4067-4069).
[3] Cfr. la Delibera A.R.T. n. 11 del 14 febbraio 2019, ove si dispone (punto n. 6) che «Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. provvede ai conseguenti conguagli, con riferimento all’impatto derivante dall’applicazione dei sopra richiamati correttivi al livello dei canoni e dei corrispettivi afferenti al periodo antecedente al 1° gennaio 2019, in favore dei titolari di rapporti negoziali destinatari degli effetti delle sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sez. Seconda), n. 1097 e n. 1098 del 2017, concordando con gli aventi diritto le relative modalità attuative».
[4] T.a.r. Piemonte, sez. II, 6 dicembre 2021, n. 1136.
[5] Oltre a richiamare le note sentenze ‘gemelle’ dell’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Ad. Plen., 18 marzo 2021, nn. 4-5, in Foro it., 2019, IV, c. 181 e ss., sulle quali si ritornerà amplius infra), si fa riferimento all’indirizzo giurisprudenziale della Sezione secondo cui i «casi di giudicato amministrativo aventi effetti ultra partes sono eccezionali e, pertanto, si giustificano in virtù dell’inscindibilità degli effetti dell’atto o dell’inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l’indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l’esistenza di un legame parimenti indivisibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile che l’atto annullato possa esistere per i soggetti destinatari che non lo hanno impugnato» (in tal senso, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 20 settembre 2021, n. 6405, in Riv. giur. ed., 2021, VI, p. 1912 e ss.).
[6] Cfr. la sentenza in commento nella parte in cui si sostiene la «non ascrivibilità alla categoria dell’atto inscindibile dell’atto plurimo riferito ad una pluralità di soggetti ciascuno, come nel caso di specie, titolare di una situazione giuridica autonoma, e ciò in coerenza con il principio espresso dall’art. 2909 c.c. laddove prescrive che ‘l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa’».
[7] Per i termini essenziali del problema giuridico si rinvia alle chiare parole di E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, III ed., Padova, 1957, p. 287, ove – a proposito dell’efficacia soggettiva del giudicato amministrativo – si evidenzia che «[l]e due opinioni estreme sostenute dalla dottrina a questo proposito sono che l’efficacia del giudicato amministrativo si limiti inter partes, e che si estenda erga omnes». Ad avviso dell’autorevole dottrina, «entrambe queste opinioni, se applicate rigidamente, urtano contro obbiezioni insuperabili: poiché la limitazione del giudicato amministrativo a coloro che hanno partecipato al giudizio conduce in non pochi casi a dover considerare lo stesso atto amministrativo come non più esistente nei confronti di alcuni interessati, e tuttora esistente nei confronti di altri, ed inoltre dà luogo alla possibilità, per quanto in linea meramente teorica, di due o più giudicati contradditori sulla validità di uno stesso atto amministrativo; mentre l’estensione del giudicato erga omnes porta d’altro canto chi è rimasto estraneo al giudizio, nonostante la sua tacita acquiescenza al provvedimento impugnato, a fruire dell’esito favorevole del giudizio promosso da altri senza dividerne i rischi e le spese».
[8] Nell’ampia e stratificata bibliografia sul tema cfr., quantomeno, S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, p. 259 e ss.; L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento degli atti generali delle Autorità di regolazione, in Riv. reg. merc., 2015, I, p. 37 e ss.; A. Travi, Il giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, IV, p. 931 e ss.; A. Lolli, I limiti soggettivi del giudicato amministrativo. Stabilità del giudicato e difesa del terzo nel processo amministrativo, Milano, 2002, passim; P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo. Profili ricognitivi ed individuazione della natura giuridica, Milano, 1990, p. 225 e ss. (e, successivamente, Id., L’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti tariffari ancora al vaglio del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 1995, III, p. 519 e ss.); E. Stoppini, Appunti in tema di estensione soggettiva del giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 1992, II, p. 347 e ss.; R. Caranta, Atto collettivo, atto plurimo e limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento, in Giust. civ., 1989, IV, p. 916 e ss.; I. Cappiello, Sull’efficacia dell’annullamento giurisdizionale di atti divisibili, in Giur. agr., 1977, II, p. 308 e ss.; M.R. Morelli, Note minime in tema di giudicato in genere e di limiti soggettivi, in particolare, del giudicato amministrativo di annullamento, in Giust. civ., 1975, VII-VIII, p. 1169 e ss.; C. Anelli, L’efficacia della cosa giudicata con particolare riguardo ai limiti soggettivi del giudicato amministrativo, in Aa.Vv., Studi in onore di Antonino Papaldo, Milano, 1975, p. 381 e ss.; A. Elefante, Limiti soggettivi di efficacia del giudicato amministrativo, in Cons. Stato, 1970, I, p. 170 e ss.; C. Dal Piaz, Osservazioni su alcuni più recenti orientamenti in tema di efficacia soggettiva del giudicato amministrativo, in Rass. dir. pubbl., 1960, p. 200 e ss.; A. Lentini, L’estensione del giudicato amministrativo a coloro che non hanno preso parte al giudizio, in Corr. amm., 1955, p. 150 e ss.; R. Alessi, Osservazioni intorno ai limiti soggettivi di efficacia del giudicato amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1954, p. 51 e ss.; G. Vignocchi, Sull’efficacia soggettiva del giudicato amministrativo, in Cons. Stato, 1953, p. 635 e ss.; L. Raggi, I limiti soggettivi dell’efficacia di cosa giudicata delle decisioni delle giurisdizioni amministrative, in Giur. cass. civ., 1948, I, p. 418 e ss.; E. Guicciardi, I limiti soggettivi del giudicato amministrativo, in Giur. it., 1941, III, p. 17 e ss.; L. Mortara, Della influenza di una decisione della IV Sezione del Consiglio, che annulla un atto amministrativo concernente l’interesse di più persone, a favore di coloro che non parteciparono al ricorso o al giudizio, in Giur. it., 1899, I, p. 463 e ss.
[9] Così, molto chiaramente, Cons. Stato, Ad. Plen., n. 4/2019 cit.: «[i]l giudicato amministrativo – in assenza di norme ad hoc nel codice del processo amministrativo – è sottoposto alle disposizioni processualcivilistiche, per cui il giudicato opera solo inter partes, secondo quanto prevede per il giudicato civile l’art. 2909 c.c.». L’art. 2908 c.c. conferma l’anzidetta regola con specifico riguardo agli effetti costitutivi delle sentenze: «[n]ei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa».
[10] In giurisprudenza, si v. per tutte Cons. Stato, sez. VI, 22 novembre 2005, n. 6506, in Foro amm. C.d.S., 2005, XI, p. 3383 e ss., ove si chiarisce che «ai sensi dell’articolo 2909 c.c. la sentenza fa pieno stato tra le parti senza che l’obbligo che ne consegue possa essere traslato, ai fini dell’esecuzione del giudicato, in capo a soggetto […] rimasto estraneo al giudizio di cognizione». Si potrebbe, invero, discorrere a lungo sul concetto di ‘parte’, in quanto formula polisensa e non sufficientemente precisata dall’art. 2909 c.c., come tale declinabile nell’accezione di parte ‘sostanziale’ (i.e. parte del rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio) o di parte ‘processuale’ (i.e. parte del rapporto processuale in senso stretto). Sul punto si rinvia, quantomeno, alle riflessioni di A. Proto Pisani, Parte nel processo (dir. proc. civ.) (voce), in Enc. dir., 1981; e alla nota impostazione di G. Pugliese, Giudicato civile (dir. vig.) (voce), in Enc. dir., 1969, p. 881 e ss., favorevole a una nozione in senso ampio del concetto di ‘parte’ in funzione estensiva dei limiti soggettivi della cosa giudicata.
[11] Ne sono un chiaro esempio i significativi contributi sulla c.d. efficacia ‘riflessa’ del giudicato (sulla quale si v., in particolare, gli studi di F. Carnelutti, Efficacia diretta ed efficacia riflessa della cosa giudicata, II parti, in Studi di diritto processuale civile, I, Padova, 1925, p. 429 e ss.; e di F. Carpi, L’efficacia ‘ultra partes’ della sentenza civile, Milano, 1974). Più in generale, sui rapporti tra giudicato e soggetti ‘terzi’ cfr., per tutti, F.P. Luiso, Principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso terzi, Milano, 1981; G. Monteleone, I limiti soggettivi del giudicato civile, Padova, 1978; ed E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935.
[12] In proposito, cfr. S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo, cit., p. 260, ove si rileva che «se così fosse veramente (cioè se il terzo rispetto alle parti processuali potesse rimanere sempre estraneo all’esito di un giudizio reso tra altri), non si porrebbe la necessità, che invece si pone, di costruire una teoria che riguardi i cosiddetti limiti soggetti del giudicato».
[13] A scanso di equivoci, è opportuno rimarcare che – ai fini in discorso – tali soggetti sono richiamati non in quanto titolari di situazioni giuridiche in senso proprio, bensì nella loro mera qualità di ‘amministrati’ nell’accezione lata del termine, e dunque interessati in senso generico alla legalità dell’azione amministrativa e alla miglior cura degli interessi pubblici (si v., amplius, S. Valaguzza, op. cit., p. XXXIII e ss., nonché p. 262).
[14] In giurisprudenza, cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, 17 settembre 2008, n. 4390, in Foro amm. C.d.S., 2008, IX, p. 2416, ove si rimarca che l’«estensione o meno degli effetti di un giudicato a soggetti estranei alla lite, ma titolari di posizioni giuridiche del tutto analoghe alla fattispecie decisa, non costituisce per l’Amministrazione adempimento di uno specifico obbligo». In senso analogo, più di recente, T.a.r. Lazio, Roma, sez. II, 2 novembre 2021, n. 11185, in Foro amm., 2021, XI, p. 1765 e ss., ove non si riconosce «in capo alla p.a. procedente, alcun obbligo giuridico di estendere a tutti i concorrenti il giudicato favorevole che abbia riguardato solo alcuni di essi posto che il giudicato stesso non può avere efficacia riflessa per coloro che, pur trovandosi nella medesima situazione dei ricorrenti vittoriosi, hanno omesso di farla valere entro il termine perentorio d’impugnazione».
[15] Così, ex multis, Cons. Stato, sez. III, 20 aprile 2012, n. 2350, in Foro amm. C.d.S., 2012, IV, p. 858 e ss.: «la giurisprudenza consolidata riconosce che il principio della preclusione della estensione degli effetti del giudicato ai soggetti rimasti estranei al giudizio lascia aperta la possibilità che l’Amministrazione riesamini la propria determinazione alla luce dei principi contenuti nel giudicato riguardante gli altri soggetti, nell’esercizio degli ordinari poteri di autotutela, esternando e motivando adeguatamente le ragioni di pubblico interesse».
[16] Salvo che non esistano disposizioni normative recanti, per una specifica materia o per un dato settore ordinamentale, divieti espressi di estensione in via amministrativa dei giudicati di annullamento (ad esempio, per ragioni di contenimento della spesa pubblica). Un chiaro esempio è rappresentato dall’art. 1, co. 132, della l. 30 dicembre 2004, n. 311, oggetto di successive proroghe, il quale dispone che «[p]er il triennio 2005-2007 è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di cui agli articoli 1, comma 2, e 70, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, di adottare provvedimenti per l’estensione di decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato, o comunque divenute esecutive, in materia di personale delle amministrazioni pubbliche».
[17] Si v., per tutte, Cons. Stato, sez. V, 19 dicembre 2012, n. 6526, in Foro amm. C.d.S., 2012, XII, p. 3257 e ss., ove si chiarisce che l’«estensione del giudicato a soggetti ad esso estranei costituisce oggetto di una valutazione discrezionale della pubblica amministrazione a fronte della quale non è configurabile una posizione di diritto soggettivo».
[18] L’eventuale contestazione d’irragionevolezza della decisione amministrativa di non estensione ai soggetti terzi degli effetti di un determinato giudicato amministrativo potrebbe essere parametrata sul confronto tra le posizioni di questi ultimi rispetto a quelle di coloro che, in quanto parti del giudizio, hanno beneficiato degli effetti della sentenza di annullamento (se si accede a questa impostazione, il sindacato del giudice amministrativo sarà comunque svolto nelle forme dell’eccesso di potere, senza alcuno sconfinamento nel ‘merito’ delle scelte discrezionali relative all’opportunità di non estendere il giudicato in via provvedimentale in ragione della presenza di determinate esigenze di interesse pubblico).
[19] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2017, n. 2751, in Foro amm., 2017, VI, p. 1260 e ss., ove si richiama l’orientamento giurisprudenziale che non riconosce un dovere di provvedere a fronte di un’«istanza di estensione ‘ultra partes’ del giudicato» (in questo senso, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 3 settembre 2001, n. 4592, in Giustizia-amministrativa.it).
[20] In taluni casi, il legislatore interviene con disposizioni sostanziali volte a regolare – in termini generali – l’operazione amministrativa di estensione (non doverosa) ‘ultra partes’ del giudicato di annullamento (ad esempio, imponendo specifiche modalità di svolgimento del contraddittorio procedimentale). Un rilevante esempio in materia di pubblico impiego è rappresentato dall’art. 22, co. 3, del d.P.R. 1° febbraio 1986, n. 13, ove si dispone che «[o]ve una pubblica amministrazione intenda procedere ad estendere in forma generalizzata gli effetti soggettivi di giudicati amministrativi in materia di impiego pubblico, le relative decisioni sono adottate previa consultazione con le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale».
[21] Una volta che l’amministrazione, pur non essendo obbligata, dovesse discrezionalmente optare per l’estensione degli effetti del giudicato di annullamento nei confronti di alcuni soggetti terzi che versano in situazioni sostanziali identiche o similari, non sarà possibile introdurre discriminazioni irragionevoli tra i beneficiari di tale (non doverosa ex ante) decisione: gli ipotetici soggetti esclusi, infatti, potrebbero contestare l’eventuale provvedimento lesivo alla luce dell’auto-vincolo a cui si è assoggettata la stessa amministrazione, e dunque per violazione dei generali canoni di imparzialità e non discriminazione. In questo senso, in dottrina, P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo, cit., p. 300, secondo cui «sarebbe affetto da eccesso di potere il provvedimento con cui l’amministrazione, dopo aver esteso ad estranei alla lite il contenuto di un giudicato, rifiuti di applicarlo a soggetti che si trovino in situazioni assimilabili, in quanto una tale condotta amministrativa sarebbe viziata per incoerenza e parzialità». In giurisprudenza, cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 10 febbraio 2004, n. 496, in Foro amm. C.d.S., 2004, p. 452 e ss., ove si sostiene che l’«estensione di un giudicato a soggetti che vanno considerati, come nella specie, estranei (e che al riguardo non possono vantare alcuna pretesa giuridicamente rilevante) attiene all’espletamento di un potere ampiamente discrezionale, sindacabile solo ove l’Amministrazione, nel dar luogo o meno all’estensione di un giudicato a soggetti estranei alla lite, illogicamente si determini in senso favorevole solamente per alcuni soggetti, omettendo, per contro, di considerare le posizioni di altri assimilabili a quelle positivamente valutate»; e Cons. Stato, VI, 9 marzo 2000, n. 1238, in Riv. cancellerie, 2001, p. 66, ove si chiarisce che il «provvedimento discrezionale di estensione ultra partesdel giudicato, pur espressione di un potere non vincolato in senso stretto dalla forza formale del giudicato, è funzionalmente diretto ad evitare, in omaggio al principio di imparzialità, differenziazioni di trattamento tra soggetti versanti in identica situazione».
[22] Come è noto, i soggetti cointeressati possono dimostrare giudizialmente la propria legittimazione ad agire, in quanto titolari di un interesse legittimo analogo a quello delle parti già ricorrenti, nonché l’interesse personale, attuale e concreto al conseguimento di un’utilità materiale o morale attraverso il processo.
[23] Nella ormai stratificata giurisprudenza cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. III, 20 aprile 2012, n. 2350, in Foro amm. C.d.S., 2012, IV, p. 858 e ss., ove si ribadisce che «[l]a decisione di annullamento – che per i limiti soggettivi del giudicato esplica in via ordinaria effetti soltanto fra le parti in causa – acquista efficacia erga omnes solo nei casi in cui gli atti impugnati siano a contenuto generale inscindibile, ovvero a contenuto normativo, nei quali gli effetti dell’annullamento non sono circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi in presenza di un atto sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può esistere per taluni e non esistere per altri» (in senso analogo Id., sez. VI, 9 marzo 2011, n. 1469, in Foro amm. C.d.S., 2011, III, p. 947 e ss.).
[24] Cfr. G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo. II. La giustizia amministrativa, VIII ed., Milano, 1958, p. 330 e s., ove – dopo aver premesso che «può dirsi oggi consolidato nella giurisprudenza il principio, secondo cui le decisioni degli organi giurisdizionali amministrativi hanno efficacia di giudicato soltanto per i partecipanti al giudizio e non anche per i titolari di interessi identici ed egualmente lesi dall’atto impugnato» – si evidenzia che «[a] questa regola si fa eccezione soltanto nel caso in cui l’oggetto della controversia risulti unico e indivisibile: in tale ipotesi, ciò che fu giudicato in confronto di alcuni vale necessariamente in confronto di tutti gli interessi».
[25] In questo senso, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 20 marzo 2024, n. 2730, in Giustizia-amministrativa.it: «[l]’annullamento di un regolamento comunale, fonte del diritto (seppur territorialmente delimitata), suscettibile di uso reiterato nel tempo per i caratteri che le sono propri della generalità, astrattezza ed innovatività, è efficace erga omnes, nel senso che ne comporta la rimozione dall’ordinamento in modo assoluto, cioè per chiunque possa, anche successivamente, esserne destinatario, ancorché non parte del giudizio in senso formale; comporta dunque la preclusione, per l’amministrazione, di continuare ad applicarlo».
[26] Un risvolto di ordine processuale è rappresentato dalla questione (affrontata, in particolare, da L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento, cit., p. 49 e ss.) della procedibilità dei paralleli giudizi di impugnazione proposti avverso il medesimo atto amministrativo inscindibile nelle more annullato su ricorso di altri cointeressati (ovviamente, sul presupposto che tali distinti giudizi non siano già stati previamente riuniti ex art. 70 c.p.a.).
[27] Sulla ratio sottesa all’indirizzo giurisprudenziale in commento cfr., per tutti, R. Caranta, Atto collettivo, atto plurimo, cit., p. 916 («considerato però che il giudizio amministrativo si caratterizza come giudizio di annullamento dell’atto, e ritenuto che un atto non possa esistere per qualcuno (i soggetti rimasti estranei al giudizio) e non esistere per qualcun altro (le parti del giudizio), si conclude che, in deroga a quanto in via generale sostenuto, la sentenza di annullamento ha efficacia erga omnes»); e L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento, cit., p. 41 («[l]a ratio di tale consolidata impostazione giurisprudenziale risiede nel fatto che la decisione giurisdizionale di annullamento di un atto a contenuto generale inscindibile, ovvero a contenuto normativo, non potrebbe produrre effetti circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi in presenza di un atto sostanzialmente e strutturalmente unitario che non può esistere per taluni e non esistere per altri»). Si v., anche, A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, II ed., Napoli, 1954, p. 545 e s., ove si sostiene che, nelle ipotesi in cui sia impugnato un ‘atto unico’ (secondo la classificazione dell’a., ad esempio, un atto generale o collettivo), «esso non può cadere o durare se non in tutta la sua intierezza, e quindi se non nei confronti di tutti coloro che ne vengono toccati: di conseguenza lo annullamento di un regolamento, del provvedimento di scioglimento di un corpo di vigili urbani […] non potrà non estendere i suoi effetti a tutti i destinatari del provvedimento (abbiano o non partecipato al giudizio)».
[28] Cfr. P.M. Vipiana, L’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti tariffari, cit., p. 525: «[s]i tratta, invero, di un’ipotesi ben diversa da quella dell’estensione ultra partes di un giudicato amministrativo per opera di un atto discrezionale dell’amministrazione: ipotesi nella quale è questo atto che determina l’estensione ultra partes, con il corollario che l’estensione ad estranei alla lite, operata discrezionalmente dalla pubblica amministrazione, avrà effetto ex nunc».
[29] Il segnalato distinguo è stato, da ultimo, ripreso da Cons. Stato, Ad. Plen., n. 4/2019 cit., ove si evidenzia che nelle eccezionali ipotesi di efficacia ‘ultra partes’ del giudicato amministrativo l’«inscindibilità riguarda solo l’effetto di annullamento (l’effetto caducatorio), perché è solo rispetto ad esso che viene a crearsi la […] situazione di incompatibilità logica che un atto inscindibile possa non esistere più per taluno e continuare ad esistere per altri», dovendosi invece pervenire a conclusioni differenti con riguardo agli «ulteriori effetti del giudicato amministrativo (di accertamento della pretesa, ordinatori, conformativi) […]». Invero, gli effetti di «accertamento della pretesa e, consequenzialmente a tale accertamento, quelli ordinatori/conformativi operano sempre solo inter partes, essendo soltanto le parti legittimate a far valere la violazione dell’obbligo conformativo o dell’accertamento della pretesa contenuto nel giudicato». Si v., anche, T.a.r. Lombardia, Milano, sez. III, 4 febbraio 2009, n. 1131, in Foro amm. T.a.r., 2009, II, p. 344 e ss., nella parte in cui si precisa che il «contenuto ordinatorio della pronuncia del GA, incidendo sul rapporto controverso (nei limiti in cui il potere discrezionale e la articolazione dei motivi di ricorso lo consentono), non può che essere legato al caso concreto su cui il giudice è chiamato a decidere». Diversamente opinando, infatti, si «snaturerebbe la stessa sostanza della sentenza amministrativa attribuendole, in caso di impugnazione di atti generali, una portata normativa che è del tutto estranea al contenuto della funzione giurisdizionale che il giudice amministrativo è chiamato ad esercitare». Si v., amplius, anche A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. II-1. La situazione giuridica a rilievo sostanziale quale oggetto del processo amministrativo, Torino, 2022, p. 163 e ss., nt. 244, ove si riferisce dei due ‘aspetti’ del problema giuridico in discorso: «il primo è quello riferibile all’effetto costitutivo dell’atto, il quale, in ragione della stessa natura che lo caratterizza, semplicemente viene meno o rimane in piedi a seguito del giudizio, nella realtà giuridica che viene in considerazione; il secondo è quello della rilevanza soggettiva dell’effetto di accertamento a cui corrisponde il giudicato sostanziale, quale vincolo sulla realtà posta a suo oggetto, che può riguardare taluni soggetti, ma non altri». Secondo P.M. Vipiana, L’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti tariffari, cit., p. 533, tuttavia, l’orientamento giurisprudenziale in esame non terrebbe conto del fatto che il «contenuto imperativo, e quindi di accertamento, della sentenza amministrativa è idoneo a generare fenomeni di efficacia ultra partes, poiché la pronuncia, laddove detta regole per il futuro agire della pubblica amministrazione, verrebbe – direttamente o, perlomeno, indirettamente – ad incidere anche, per il tratto della successiva attività di tale amministrazione, su soggetti diversi dalle parti in giudizio».
[30] Si ricorre alla locuzione utilizzata da S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo, cit., p. 276, secondo cui il valore della ‘forza esecutiva’ della sentenza è «riservato (tendenzialmente) alle sole parti del processo, dato che il processo esecutivo (anche ove si tratti del giudizio di ottemperanza) è un’appendice del giudizio di cognizione e, perciò, appartiene alla disponibilità delle parti processuali».
[31] Se si segue l’impostazione in discorso, occorre ammettere – come corollario logico-giuridico consequenziale – che i suddetti cointeressati non hanno legittimazione per esperire l’azione di ottemperanza in relazione ai doveri conformativi-esecutivi discendenti dalla sentenza di cognizione resa tra altre parti. In questi termini si v., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2019, n. 7675, in Foro amm., 2019, XI, p. 1794 e ss., ove si precisa che «legittimate, in via generale ed esclusiva, alla proposizione del giudizio di ottemperanza sono tutte e solo le parti la cui domanda sia stata accolta nel giudizio di cognizione concluso con la pronuncia oggetto della domanda di esecuzione, e non tutte quelle che abbiano tratto un vantaggio dalla medesima pronuncia, dal momento che il ricorso d’ottemperanza – sin dalla sua istituzione con la legge del 1889 – costituisce un rimedio volto ad ottenere l’esecuzione di una pronuncia giurisdizionale che abbia accolto una propria precedente domanda e che sia rimasta ineseguita» (in senso analogo, di recente, Cons. Stato, sez. IV, 14 marzo 2023, n. 2642, in Giustizia-amministrativa.it). Contra, tuttavia, nella giurisprudenza più tradizionale, Cons. Stato, sez. V, 9 aprile 1994, n. 276, in Foro amm., 1994, IV, p. 793, ove si rinviene la massima per cui i soggetti portatori di una situazione di vantaggio in ordine a un provvedimento annullato in sede giurisdizionale, ancorché non intimati né intervenuti in giudizio, sono legittimati a promuovere il ricorso per ottemperanza.
[32] Cfr. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, XV ed., 2023, p. 389 e s., ove si evidenzia come alla giurisprudenza favorevole a riconoscere al giudicato amministrativo di annullamento di atti inscindibili o indivisibili un’efficacia ‘ultra partes’ o ‘erga omnes’ si «oppone chi propone di affrontare i problemi creati dall’annullamento di atti indivisibili attraverso la distinzione generale fra effetti dell’annullamento e autorità del giudicato». In altri termini, la sentenza di annullamento di un provvedimento con effetti ‘inscindibili’ «travolge tutte le utilità assegnate dall’atto annullato e, quindi, necessariamente coinvolge anche tutti i soggetti che ne fossero titolari: ciò attiene però agli effetti dell’annullamento». Diversamente, il giudicato «ha autorità (‘fa stato’) solo fra le parti processuali (nonché i loro eredi e aventi causa)», con la conseguenza che «a quanti non siano anche stati parti nel giudizio, non potrebbe essere opposto il giudicato: essi possono risentire, invece, degli effetti dell’annullamento».
[33] Il riferimento è ad A. Travi, Il giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, IV, p. 932, nella parte in cui – criticando la giurisprudenza richiamata in corpo – si sostiene che l’«annullamento dell’atto impugnato fa stato solo nei confronti delle parti; nei confronti dei terzi comporta la cessazione degli effetti dell’atto amministrativo, ma senza alcun vincolo di accertamento».
[34] Si v., ancora, A. Travi, op. ult. cit., p. 933, ove si precisa che i terzi «in realtà risentono solo dell’inefficacia dell’atto, non dei vincoli derivanti dal giudicato: l’estensione ai terzi degli effetti ‘materiali’ di un annullamento non presuppone assolutamente l’assegnazione al giudicatoamministrativo di un’efficacia ‘ultra partes’» (corsivi dell’a.).
[35] In questo modo si potrebbe altresì evitare di attribuire – a fronte della medesima fattispecie sostanziale – un’efficacia ‘ultra partes’ al giudicato di annullamento e, viceversa, un’efficacia ‘inter partes’ nell’opposta ipotesi di giudicato di rigetto.
[36] Diversa sembrerebbe l’impostazione di S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo, cit., p. 273, secondo cui la c.d. forza vincolante dell’accertamento costitutivo del giudicato di annullamento «non è la conseguenza di un fatto (l’eliminazione dell’atto) cui l’ordinamento attribuisce una certa rilevanza, essendo vero piuttosto il contrario; nel senso che l’eliminazione dell’atto è una costruzione giuridica a cui è conseguente, in via diretta e erga omnes, l’espulsione di un elemento dall’ordinamento giuridico (nel nostro caso, il provvedimento illegittimo annullato), che riconosceva quell’elemento esistente fino al momento del fenomeno giuridico che prende il nome di annullamento».
[37] A. Travi, Il giudicato amministrativo, cit., p. 932, in part. nt. 62.
[38] L’esempio è formulato seguendo la nota classificazione tripartita delle decisioni espressione di autotutela amministrativa sugli ‘atti’ (in decisioni di autotutela ‘spontanea’, decisioni di controllo e decisioni ‘contenziose’) teorizzata da F. Benvenuti, Autotutela (diritto amministrativo)(voce), in Enc. dir., 1959, p. 537 e ss., oggi in Id., Scritti giuridici, II, Milano, 2006, p. 1781 e ss.
[39] Fatta eccezione per i limitati ‘frammenti’ di giurisdizione oggettiva, pur presenti nell’ambito del generale impianto di diritto soggettivo del processo amministrativo (al riguardo cfr., amplius, M. Silvestri, I frammenti di una giurisdizione oggettiva nel processo amministrativo, in Giustamm.it, n. 5/2015).
[40] Come si è anticipato, nell’impostazione in discorso il giudicato investe l’accertamento sulla fondatezza degli specifici vizi-motivi prospettati dalle parti al fine di soddisfare la propria pretesa sostanziale veicolata in giudizio.
[41] Fatta salva la possibilità per il legislatore di derogare all’art. 2909 c.c. con riguardo a specifiche categorie di rapporti giuridici sostanziali (si pensi, ad esempio, all’art. 1306 c.c. rispetto alle obbligazioni solidali).
[42] In questi termini, molto chiaramente, M. Nigro, Giustizia amministrativa, III ed., Bologna, 1983, p. 387. Per un commento all’impostazione teorica del chiaro a., cfr. – se consentito – S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017, p. 157, ove si evidenzia che il contenuto conformativo della sentenza «può essere meglio compreso qualora si concentri l’attenzione sul fatto che, essendo l’annullamento dell’atto impugnato la conseguenza dell’accertamento (circa l’esistenza) di uno o più (affermati) vizi che interessano tale provvedimento, rovesciando a contrario quello che è stato accertato ‘in negativo’ (ossia, come illegittimità dell’azione amministrativa) si ricava, in positivo, il modo in cui il potere – in quegli aspetti del suo esercizio entrati all’interno del thema decidendum del concluso processo – si sarebbe dovuto esercitare».
[43] Cfr. A. Travi, Il giudicato amministrativo, cit., p. 933, ove si rileva che «[l]’effetto rinnovatorio-conformativo è un corollario dell’accertamento che comporta la caducazione dell’atto impugnato: la latitudine dei limiti soggettivi non può essere diversa».
[44] In questo senso, cfr. L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento, cit., p. 50: «non sembra che il terzo incontri limiti nel contestare la modalità e gli esiti della rinnovazione in sede di giudizio di cognizione».
[45] Per una sintesi delle principali posizioni si v. P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo, cit., p. 280 e ss.
[46] Cfr. R. Caranta, Atto collettivo, atto plurimo, cit., p. 916, ove si chiarisce che l’«inscindibilità dell’atto in sé pare quindi tradursi nell’indivisibilità del termine passivo, oggetto, o destinatario […] dell’atto», precisando che «[n]on si tratta peraltro dell’unica soluzione astrattamente possibile: l’indivisibilità potrebbe altrettanto bene essere riferita al contenuto e, oppure, alle finalità dell’atto».
[47] Si v., ad esempio, Cons. Stato, Ad. Plen., n. 4/2019 cit., nella parte in cui si rileva che l’estensione ‘ultra partes’ del giudicato «dipende spesso da una pluralità di fattori concorrenti, fra i quali rileva non solo la natura dell’atto annullato, ma anche, cumulativamente, il vizio dedotto, nonché il tipo di effetto prodotto dal giudicato della cui estensione si discute». Di talché, secondo l’orientamento tradizionale, gli «effetti inscindibili del giudicato amministrativo possono dipendere: a) in alcuni casi (ma raramente), solo dal tipo di atto annullato; b) altre volte, più frequenti, sia dal tipo di atto annullato, sia dal tipo di vizio dedotto; c) altre volte ancora, dal tipo di effetto che il giudicato produce e di cui si invoca l’estensione». Analogamente, nella giurisprudenza successiva, Cons. Stato, sez. VI, n. 6405/2021 cit.; e Id., sez. II, 2 febbraio 2022, n. 716.
[48] Sulla distinzione tra atto plurimo in senso stretto e atto ‘a contenuto plurimo’ si v., da ultimo, Cons. Stato, sez. II, 4 aprile 2024, n. 3105, in Giustizia-amministrativa.it, ove si chiarisce che l’«atto a contenuto plurimo si caratterizza per la concentrazione delle finalità che normalmente connotano atti distinti in un unico contesto, spesso anche motivazionale, giusta la stretta interconnessione e talvolta conseguenzialità, fra le (diverse) scelte operate dall’Amministrazione». In altri termini, esso rappresenta un atto che «non necessariamente ha anche una pluralità di destinatari, come avviene invece per l’atto plurimo stricto sensu inteso, ove la pluralità dei provvedimenti nasce dalla loro omogeneità di contenuto, che ne rende inutilmente dispendiosa la moltiplicazione in ragione del numero dei soggetti nella cui sfera giuridica si va ad incidere». Tale fattispecie «è stata oggetto di approfondimento in giurisprudenza in particolare con riferimento agli effetti di un possibile annullamento giurisdizionale, per regola efficace solo nei confronti di coloro che hanno impugnato l’atto, che può essere scomposto in tanti provvedimenti individuali quanti ne sono i destinatari».
[49] Cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2013, n. 2152, in Foro amm. C.d.S., 2013, IV, p. 1026. e ss.: «[c]he non si tratti di atto amministrativo generale, ma di atto ‘plurimo’ o ‘collettivo’, discende, del resto, dalla constatazione che mentre i destinatari dell’atto generale sono indeterminabili ex ante (ovvero al momento della sua adozione) e sono individuati solo ex post (cioè quando l’atto generale viene concretamente applicato), i destinatari dei decreti ministeriali in questione sono immediatamente individuabili, già al momento dell’adozione dell’atto».
[50] Cfr. E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, cit., p. 288 e s., ove si giudica l’opinione favorevole all’estensione soggettiva del giudicato in applicazione del principio di ‘indivisibilità’ come «arbitraria quanto al suo fondamento, che invano si ricercherebbe nel diritto positivo, ed empirica nella sua applicazione, posto che l’indivisibilità cui essa si richiama è sovente di elastica e non facile determinazione»; con la conseguenza di «condurre in pratica a risultati nettamente contrastanti con quegli stessi principî d’equità che pur costituiscono l’unica sua giustificazione».
[51] Con riferimento al criterio che identifica l’inscindibilità dell’atto amministrativo nella correlazione tra le statuizioni contenutistiche e la considerazione unitaria dei suoi destinatari si v. i rilievi critici di P.M. Vipiana, L’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti tariffari, cit., p. 532, secondo cui «[i]l criterio in questione appare, al contempo, approssimativo ed astratto», siccome «del tutto basato sulle scelte del giudice e disancorato dalla fattispecie reale, che non può soddisfare pienamente, anche se non si nega la difficoltà di reperirne uno preferibile»; e di S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo, cit., p. 300, ad avviso della quale il «criterio utilizzato per la distinzione tra atti plurimi e atti inscindibili appare malcerto, e risulta piuttosto il frutto di una interpretazione eccessivamente soggettiva ed opinabile del singolo interprete». Negli stessi termini, già L. Raggi, I limiti soggettivi dell’efficacia di cosa giudicata, cit., p. 420, ove si osservava che la «linea che distingue gli atti così detti plurimi dagli atti collettivi, i vizi divisibili e gli indivisibili ecc. è assai sottile e sfuggente e non si riesce a fissarla in modo preciso».
[52] Il problema è ben evidenziato da L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento, cit., p. 38, nella parte in cui si dà atto che le «soluzioni elaborate dalla giurisprudenza in ordine agli effetti soggettivi del giudicato di annullamento di atti normativi e generali non sono esenti da contraddizioni e perplessità».
[53] Per la tesi dell’inscindibilità degli atti amministrativi generali si v., per tutti, M. Ramajoli, B. Tonoletti, Qualificazione e regime giuridico degli atti amministrativi generali, in Dir. amm., I-II, 2013, p. 107 e s., ad avviso dei quali «[u]n atto generale non può essere anche scindibile, perché altrimenti […] esso si riduce a una collezione di atti individuali privi di rapporto l’uno con l’altro, ovvero privi di generalità».
[54] Per un riferimento alla ‘volontà unitaria’ dell’amministrazione, si v. ad esempio Cons. Stato, sez. VI, 20 luglio 2011, n. 4388, in Foro amm. C.d.S., 2011, VII-VIII, p. 2531 e ss., ove si sostiene che «gli atti con cui un’autorità amministrativa indipendente disciplina le modalità di esercizio di poteri di vigilanza e controllo sul settore di attività oggetto di regolazione presentano un carattere ontologicamente inscindibile, rappresentando l’espressione di una volontà unitaria da parte dell’autorità, la quale provvede in modo funzionalmente non frazionabile nei confronti di un complesso di interessi considerati non singolarmente, bensì come componenti di una platea unitaria ed indivisibile». In senso analogo, già Cass. civ., Sez. Un., 24 aprile 1979, n. 2313, in Giur. it. 1980, I, p. 278, ove si rinviene la tesi per cui l’atto inscindibile è espressione di una ‘volontà unica’ della P.A. volta a provvedere in modo unitario e indivisibile nei confronti di un complesso di soggetti considerati come componenti di un gruppo unitario.
[55] Sulle diverse dimensioni del provvedimento come ‘atto’, ‘testo’ e ‘regola’ cfr. l’importante contributo di M. Monteduro, Provvedimento amministrativo e interpretazione autentica. I. Questioni presupposte di teoria del provvedimento, Padova, 2012, p. 91, ma soprattutto p. 182 e ss. Si v., anche, M.S. Giannini, Atto amministrativo (voce), in Enc. dir., 1959, p. 178, per la messa in risalto dell’esigenza di non confondere «atto o provvedimento amministrativo con documento amministrativo».
[56] Il riferimento, se consentito, è a S. Vaccari, L’invalidità parziale del provvedimento amministrativo, Torino, 2024, p. 118 e ss., cui si fa rinvio anche per i principali richiami bibliografici e giurisprudenziali.
[57] Un chiaro esempio si rinviene in O. Ranelletti, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni amministrative. Parte II: Capacità e volontà nelle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Riv. it. sc. giur., 1894, p. 324 e ss. (oggi in Id., Scritti giuridici scelti. III. Gli atti amministrativi, Napoli, 1992, p. 186 e ss.), nella parte in cui si sostiene che l’interprete sia tenuto a ricercare l’‘intima volontà’ dell’organo amministrativo per poi confrontarla con quanto espressamente dichiarato. Sul superamento della suddetta impostazione, si v. per tutti R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, II ed., Torino, 2017, p. 232, ove si chiarisce che «[l]a volontà non può però essere intesa come volontà psicologica dell’agente di produrre determinati effetti», posto che «nessuna rilevanza assume l’atteggiamento psichico dell’agente, né la corrispondenza tra volontà dell’agente e il contenuto della determinazione».
[58] Cfr., ancora, R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, cit., p. 13: «[s]oprattutto a Giannini si deve la definitiva emancipazione dell’atto amministrativo dal negozio giuridico di diritto privato. Ci si libera così dall’ipoteca pandettistica e si cambia l’angolo visuale, per cui l’atto amministrativo si definisce in relazione alla sua funzione e non più alla sua struttura di dichiarazione di volontà».
[59] Sulla diversità tra il negozio giuridico di diritto privato e il provvedimento amministrativo si v., quantomeno, A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1984, p. 589; e M.S. Giannini, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, p. 290 e ss.; ma anche E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, II ed., Milano, 1971, p. 157 e s., p. 235 e p. 271. Un apporto fondamentale per la ricostruzione autonoma del provvedimento amministrativo si deve a R. Alessi, Spunti ricostruttivi per la teoria degli atti amministrativi, in Jus, 1941, III, p. 385 e ss. Per ogni ulteriore approfondimento sul tema si rinvia, comunque, a F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, I, p. 1 e ss.
[60] Si fa richiamo alla celebre impostazione di F.W. von Savigny, System Des Heutigen Römischen Rechts, trad. di V. Scialoja, Sistema del diritto romano attuale, Torino, 1886, I, p. 336 e s. Per ogni approfondimento sulla teoria ‘volontaristica’ si rinvia alla rigorosa analisi di F.G. Scoca, Contributo sul tema della fattispecie precettiva, Perugia, 1979, p. 107 e ss.
[61] Cfr. S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo, Milano, 2000, p. 341, ove si chiarisce che «[u]n po’ per non aver legato fino in fondo il provvedimento alle funzioni e all’organizzazione, un po’ per l’influenza esercitata dalla scienza privatistica, che analizza una realtà fatta (anche) di persone fisiche, il capitolo del diritto amministrativo relativo agli elementi dell’atto è pieno di espressioni antropomorfiche, quali volontà, vizio, o persino atto».
[62] S. Vaccari, L’invalidità parziale, cit., p. 137: «[s]i tratta, in altri termini, di un percorso ricostruttivo diretto a qualificare l’atto amministrativo nel senso di una realtà formale e oggettiva – coincidente con la ‘statuizione’ enunciata – e non in termini di prodotto del processo psichico dell’organo competente».
[63] Un rilevante spunto si rinviene in M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., p. 402, ove si sostiene che l’inscindibilità è la «conseguenza di una indivisibilità che sta a monte, cioè l’indivisibilità del potere e della regola che lo regge e che il giudice accerta».
[64] Sia consentito rinviare, ancora, a S. Vaccari, L’invalidità parziale, cit., p. 151, ove si è osservato che «se non si condivide la tesi della ‘scindibilità in concreto’, in ragione del marcato empirismo e del soggettivismo che contraddistingue ogni impostazione fondata su un approccio casistico, non resta che assegnare alla categoria un significato di tipo astratto». In questo senso, è «possibile ritenere che il limite giuridico alla scindibilità del provvedimento amministrativo sia ravvisabile nella tipicità strutturale (comprensiva anche del profilo teleologico-funzionale) fondata sulla norma attributiva del potere».
Premio “Giulia Cavallone” – anno 2024
Oggi 4 ottobre 2024, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma 3, nell’ambito di un seminario sul tema “Procura europea e diritto di difesa transnazionale”, sarà conferito il premio “Giulia Cavallone” edizione 2024, premio nato da un’iniziativa della Fondazione Piero Calamandrei e della Famiglia Cavallone per ricordare e onorare la memoria di Giulia Cavallone, una giovane donna, magistrata, scomparsa a soli trentasei anni dopo una lunga lotta contro la malattia. Una malattia che peraltro non le impedì di amministrare giustizia fino all’ultimo in quell’aula del Tribunale Penale di Roma che, per tale motivo, da allora porta il suo nome.
Come è stato già più volte ricordato in occasione delle precedenti edizioni del premio, Giulia Cavallone è stata una donna e una giurista di respiro internazionale.
Dopo essersi laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti presso l’Università Roma Tre, con una tesi dal titolo “Il reato transnazionale in materia di terrorismo”, conseguì successivamente il dottorato di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma, in cotutela con l’Universitè Paris II – Panthéon Assas, con una tesi dal titolo “Obblighi europei di tutela penale e principio di legalità in Italia e in Francia”.
Grazie a numerose borse di studio vinte, svolse periodi di ricerca anche presso l’Università di Losanna e presso l’Istituto di diritto penale straniero e internazionale “Max Planck” di Friburgo, in Germania.
Svolse altresì uno stage presso la Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, a Bruxelles, ove ebbe modo di approfondire la sua conoscenza del diritto e delle istituzioni europee.
Fu giudice penale presso il Tribunale di Velletri, sino all’ottobre 2018, e successivamente ricoprì le medesime funzioni presso il Tribunale di Roma sino alla data della sua scomparsa, prematura e ingiusta, avvenuta in una tiepida mattina del 17 aprile 2020.
In considerazione dell’apprezzamento unanime della sua figura professionale e umana, del prestigio acquisito in Italia e all’estero nonostante la giovane età, del suo instancabile esercizio della funzione giurisdizionale, che la portò a presiedere sino all’ultimo le udienze di un delicato processo d’interesse nazionale, nonché del suo impegno sociale nel promuovere in prima persona l’emancipazione e la difesa dei diritti delle donne lavoratrici in Senegal, sia il Tribunale di Roma, sia il Tribunale di Velletri, hanno deliberato di intitolarle le aule dove ella era solita tenere le sue udienze.
In linea con la sua storia personale, il Premio “Giulia Cavallone” ha pertanto lo scopo di finanziare soggiorni di studio presso Università e altri centri esteri di riconosciuto prestigio per consentire a giovani dottorandi nel campo del diritto e della procedura penale di ampliare le loro conoscenze, così da formare giuristi sensibili alle diversità culturali, con una mente aperta, critica e disposta al confronto, la cui azione sia improntata ai valori della solidarietà e della tutela della persona, così com’era Giulia Cavallone.
Come hanno già scritto di lei, Giulia Cavallone “era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali in cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici. E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli …. La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano. (Sibilla Ottoni, Giustizia Insieme, 17 Aprile 2021)”
L’eredità che ci lascia Giulia Cavallone è quella di un esercizio della funzione giurisdizionale come servizio da rendere, mai come un privilegio, sempre con competenza, compostezza, garbo e umanità, aspetti della sua personalità particolarmente ammirabili in un momento storico in cui sembrano prevalere su tutto l’incompetenza, la superficialità, l’incontinenza verbale ed emotiva, il desiderio di fama e di potere come massima realizzazione dell’essere umano.
In questo spirito, il Premio si propone quindi come obiettivo di contribuire a formare non soltanto migliori operatori del diritto ma, anche, migliori cittadini del mondo.
Nell’edizione 2024 il Premio, che, come detto, sarà formalmente consegnato il 4 ottobre 2024, è stato attribuito alla dottoressa Lavinia PARSI, dottoranda presso l’Università di Milano, relativamente al progetto di ricerca “Forced Displacement in International Criminal Law”.
La dottoranda di ricerca in diritto penale internazionale propone di perfezionare presso l’Università di Berlino la ricerca sul trasferimento forzato delle popolazioni, esaminato nell’ottica del Diritto penale internazionale, in linea con gli argomenti affrontati sin dalla tesi di laurea che ha toccato i temi del diritto umanitario internazionale, con particolare attenzione all’applicazione del diritto nei conflitti armati.
Pur risultando l’interesse originario della dott.ssa PARSI concentrato sul conflitto palestinese, esso nel progetto di ricerca si è allargato ad altre manifestazioni contemporanee del forced displacement, a partire dall’invasione russa dell’Ucraina e dal conflitto in Nagorno-Karabak, passando ad esaminare altri contesti, non necessariamente correlati a conflitti interstatali, come nel caso dei Rohingya e del Sudan. L’ampio spettro della ricerca consente di ritenere che l’indagine non sarà limitata al pur attualissimo tema del conflitto Israelo-palestinese.
Il progetto di ricerca mira a definire il quadro normativo degli atti di “forced displacement” ai sensi del diritto penale internazionale ed indagarne i profili critici e l’applicabilità in contesti odierni.
Particolarmente rilevante, nell’impostazione proposta, è l’indagine sull’impiego di combinazioni di politiche diverse, con le quali gli Stati possono violare il diritto internazionale. Considerando i fenomeni di cosiddetta “ingegneria demografica”, ossia le politiche di spostamento di civili utilizzate dagli Stati per alterare la composizione demografica di un determinato territorio, si osserva che l’obiettivo prefissato può essere perseguito attraverso diversi tipi di movimenti, come l’insediamento di una maggioranza in regioni abitate da minoranze, il trasferimento di gruppi minoritari all’interno di un territorio e l’espulsione di minoranze dallo Stato. Si argomenta nel progetto di ricerca che anche le modalità di attuazione possono essere diverse, spaziando da mezzi violenti a misure amministrative e politiche o a una combinazione di entrambi.
L’individuazione di metodi differenti correlati a contesti diversificati porta il progetto di ricerca a interrogarsi sull’adeguatezza delle previsioni normative che qualificano le condotte di trasferimento forzato. Infatti, le politiche innanzi menzionate pongono complesse questioni di individuazione della soglia di rilevanza penale e di definizione degli elementi costitutivi del reato, anche con riferimento ad altre ipotesi di delitti contro l’umanità, dal genocidio ai crimini di guerra.
È stato altresì giustamente segnalato dalla Commissione aggiudicatrice del Premio come, in parallelo all’attività di ricerca, vi sia nella vita della dott.ssa PARSI l’impegno continuativo nel promuovere nei fatti il sostegno alle vittime di gravi crimini. Ella infatti partecipa alla Clinica legale in diritto penale internazionale dell’Università degli Studi di Milano, occupandosi anche di casi concreti di potenziali violazioni. Tale impegno rimanda inevitabilmente a quello di Giulia Cavallone per l’emancipazione delle donne lavoratrici in Senegal, in un ideale passaggio di testimone nelle attività a favore dei soggetti più deboli.
È auspicio della Fondazione Calamandrei e della Famiglia Cavallone che, anche per il futuro, l’esempio di Giulia possa contribuire a cambiamenti verso una società più giusta, in armonia con quello che può essere ricordato come il suo invito rivolto a tutti noi: “Siate giusti, siate gentili”.
Sospensione e decadenza dalla carica di componente del Consiglio Superiore della Magistratura: una ricognizione, tra regole e principi.
di Andrea Apollonio
L'11 settembre 2024 è stato per la prima volta applicato ad un componente del Consiglio Superiore della Magistratura l'istituto della sospensione. Invero, gli studi sulla normativa che regola il funzionamento dell'organo di governo autonomo, ed in particolare sulla legge 24 marzo 1958, n. 195, lasciano spesso in ombra la (scarna) disciplina della sospensione e della decadenza, fino a ieri mai azionata. Eppure, l'art. 37 ricopre una notevole rilevanza sistematica, perché si connette indissolubilmente al necessario prestigio dell'organo di governo autonomo, a sua volta specchio del prestigio dell'ordine giudiziario: ed è in quest'ottica che se ne propone una ricognizione, tra regole e principi, volta a superare per via interpretativa le numerose lacune di una normativa disarmonica, perché mai aggiornata.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il prestigio dell'organo di governo autonomo - 3. Sospensione e decadenza - 3.1. La ratio dei due istituti - 3.2. La sospensione facoltativa e il problema del «procedimento» - 3.3. (segue) Un giudizio (limitatamente) vincolato - 3.4. Le vicende del procedimento penale - 3.5. (segue) Lo "strano" caso del patteggiamento - 3.6. L’impugnativa della delibera - 4. È giusto distinguere tra consiglieri laici e togati? - 5. L'impermeabilità della funzione consiliare: osservazioni conclusive.
1. Premessa
Negli studi sulla normativa che regola il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura, ed in particolare sulla legge 24 marzo 1958, n. 195, spesso sono superficialmente affrontati gli istituti della sospensione e della decadenza, sommariamente disciplinati dall'art. 37: questi, in effetti, non riguardano il funzionamento ma – al contrario – una stasi dell'attività del governo autonomo della magistratura, che si traduce nel congelamento della funzione consiliare (la sospensione), fino ad arrivare alla sostituzione del componente del Consiglio (previa decadenza).
Si tratta di regole che, essendo relative a gravi fatti che fatalmente riverberano sulla funzione consiliare, e quindi a patologie del munus, sono risultate, fino a ieri, inutilizzate: una delibera di sospensione di un consigliere, ai sensi dell'art. 37, è stata per la prima volta emanata dal Consiglio Superiore l'11 settembre 2024.
E d'altro canto, nel recente (ed anche meno recente) passato, nei casi che avessero potuto giustificare l'applicazione dei poteri del plenum di cui all'art. 37 – con l'inserimento della relativa pratica nell'ordine del giorno, firmato come noto dal Presidente della Repubblica nella qualità di presidente dell'organo – si è fatto puntualmente ricorso alle dirette dimissioni dalla carica di consigliere, evitando così il delicato passaggio deliberativo[1].
Per altro verso, a stretto rigore nell'ambito dell'art. 37 non possono collocarsi quelle deliberazioni del plenumsollecitate dalla Commissione "verifica titoli" ai sensi dell'art. 33, che è nominata, nel corso della seduta di insediamento, dal Presidente della Repubblica; ritualmente convocata, quindi, ad inizio consiliatura e prima ancora del formale insediamento dei consiglieri (ad es., per un problema di incompatibilità non dichiarato al momento dell'elezione); ovvero convocata in un qualsiasi altro momento della vita consiliare (ad es. per sopravvenute incompatibilità di un consigliere). Casi in cui, ai sensi dell'art. 9 del Regolamento interno del CSM, si deve provvedere alla sostituzione del consigliere incompatibile.
Per queste ragioni, almeno nel recente (ed anche meno recente) passato, la disciplina in materia di sospensione e decadenza non ha mai operato, relegata in un cono d'ombra, tanto da risultare una delle poche "zone franche" non toccate dalla c.d. "riforma Cartabia", che ha profondamente innovato l'ordinamento giudiziario e la stessa legge n. 195/1958.
Ne consegue l'emersione – improvvisa – di una normativa disarmonica, che presenta molteplici problematiche, anche dettate dal mancato aggiornamento del raccordo con altri settori dell'ordinamento.
Eppure, la disciplina di cui all' art. 37 ricopre una notevole rilevanza sistematica, perché si connette indissolubilmente al necessario prestigio dell'organo di governo autonomo, a sua volta specchio del prestigio dell'ordine giudiziario: ed è in quest'ottica che, anche alla luce della prima delibera di sospensione nella storia consiliare, se ne propone una ricognizione, tra regole e principi.
2. Il prestigio dell'organo di governo autonomo
Con la legge 17 giugno 2022, n. 71, uno dei molti provvedimenti esecutivi della "riforma Cartabia", è stato inserito all'art. 1 della legge sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura un nuovo comma. Il capoverso della norma oggi dispone che «All'interno del Consiglio i componenti svolgono le loro funzioni in piena indipendenza e imparzialità».
Si tratta di un principio non certo innovativo, che tuttavia il legislatore ha inteso sancire per tabulas. Basterebbe invero richiamare una nota sentenza della Corte Costituzionale degli anni Ottanta[2], nella quale si ribadisce che essendo la funzione tipica del Consiglio quella di assicurare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, conseguentemente vanno a determinarsi in capo ai componenti «garanzie dirette a consentire la pienezza dei poteri nell'esercizio delle competenze attribuite in via esclusiva al Consiglio». Il quadro delle guarentigie – ma anche dei connessi doveri – in cui opera la magistratura è – circolarmente – pressoché lo stesso in cui opera il Consiglio Superiore, e questo perché, come si è segnalato in dottrina, «la struttura e la composizione del Consiglio sono funzionali all'esercizio dei poteri e delle competenze previste dall'art. 105, essendo peraltro queste ultime ordinate alla realizzazione dell'autonomia dell'ordine giudiziario ed alla indipendenza del giudice»[3].
Tornando però alla formulazione letterale dell'inciso introdotto dalla "riforma Cartabia", è interessante notare come si richiami da un lato l'indipendenza, guarentigia che la Costituzione attribuisce agli organi giurisdizionali (si guardi all' art. 104: «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»), e dall'altro l'imparzialità, che connota tradizionalmente l'agere amministrativo (si guardi all'art. 97: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»). E anche qui pare sollevarsi un'altra grande questione di carattere generale, relativa alla natura "mista" dell'organo.
In questa sede, è sufficiente evidenziare che il Consiglio Superiore è organo di (alta) amministrazione nella misura in cui si determinano «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni» (art. 105), ed è giudice disciplinare laddove emana «provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati» (ancora ai sensi dell'art. 105); ma al tempo stesso, come è stato ricordato, «il contenuto tendenzialmente amministrativo delle sue funzioni e competenze, anche se intesa questa espressione in senso lato, [è] tale da non escludere incidenze politiche, sul piano dei rapporti tra poteri dello Stato»[4]; e, sul punto, basti pensare alla funzione deliberativa di pareri con riguardo all'amministrazione della giustizia[5].
Come ha di recente autorevolmente sintetizzato il Capo dello Stato, «attraverso l’esercizio trasparente ed efficiente del governo autonomo il Consiglio Superiore deve garantire, nel modo migliore, l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione; e deve assicurare agli uffici giudiziari il miglior livello di professionalità dei magistrati, che svolgono con impegno e dedizione la loro attività anche in condizioni ambientali complesse e talvolta insidiose»[6].
Per questa vasta congerie di delicate funzioni pubbliche, tale da non essere consentita alcuna assimilazione con altri enti collegiali, i consiglieri sono tenuti ad espletare il loro incarico con disciplina ed onore, come ogni cittadino cui sono «affidate funzioni pubbliche», ai sensi dell'art. 54 della Costituzione. Con disciplina e onore, e «in piena indipendenza e imparzialità», perché è dall'attività del singolo consigliere che passa il prestigio dell'istituzione consiliare.
Può certo essere considerata la vicinanza suggerita dalla stessa norma di nuovo conio, con lo status del magistrato che importa diritti e doveri di particolare rilievo ordinamentale, tanto da scavalcare la funzione giudiziaria e proiettarsi nella vita privata; può essere all'uopo richiamato quel principio, dall'ampia portata, che collega a sanzione disciplinare il magistrato che abbia tenuto «in ufficio o fuori, condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'Ordine giudiziario»[7].
Una indicazione, via via ripresa e aggiornata dalla giurisprudenza disciplinare e costituzionale, volta a preservare quel bene primario che è la fiducia che i cittadini ripongono – o dovrebbero riporre – nel sistema-giustizia: bene di pari rango rispetto al diritto-dovere dell'indipendenza da parte del magistrato, e al diritto-dovere dell'indipendenza del consigliere superiore: che si traduce in un più radicato dovere di imparzialità e terzietà laddove il consigliere eserciti la funzione disciplinare.
Una fiducia che, essa soltanto, è in grado di rendere credibile l'istituzione in cui si opera.
3. Sospensione e decadenza
3.1. La ratio dei due istituti
Rispetto a queste direttrici programmatiche, il legislatore del 1958 ha previsto alcune situazioni in cui il prestigio e il decoro dell'istituzione, la sua credibilità intrinseca, sembrerebbero messe a repentaglio dal comportamento del singolo consigliere, individuando al contempo quegli strumenti volti a ripristinare la piena funzionalità dell'organo in condizioni di autorevolezza. Per questa ragione, gli istituti della sospensione e della decadenza, da un lato possono essere assimilati alle sanzioni disciplinari per i magistrati (che presentano perlopiù un indubbio contenuto punitivo rispetto ad una censurabile condotta posta in essere nell'esercizio della funzione, o che sulla funzione si riverbera), e dall'altro sembrano condividere la ratio di un diverso istituto ordinamentale: il trasferimento per incompatibilità, che si applica ai magistrati «quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità»[8]: di là di un giudizio di responsabilità personale, la norma presenta un contenuto ripristinatorio della piena funzionalità dell'organo giuridizionale e quindi, in una prospettiva più ampia, del prestigio dell'autorità giudiziaria, che non può essere offuscato da situazioni di sostanziale incompatibilità del magistrato.
È in questa cornice sistematica che possono essere illustrati i due istituti, entrambi contemplati all'art. 37 della legge n. 195/1958: norma che, pur dando attuazione al principio di piena e impregiudicata funzionalità del CSM di cui all'art. 108 Cost., è alquanto scarna.
Per tutti i membri del consesso si prevede infatti una sospensione facoltativa («possono essere sospesi dalla carica») ove «sottoposti a procedimento penale per delitto non colposo», e una sospensione di diritto «quando contro di essi sia emesso ordine o mandato di cattura ovvero quando ne sia convalidato l'arresto per qualsiasi reato»; per i soli consiglieri togati vale inoltre la sospensione di diritto dalla carica «se sottoposti a procedimento disciplinare».
Si tratta di una chiara previsione cautelativa, laddove il comportamento del consigliere (nell'esercizio o meno delle sue funzioni) abbia consentito – al di fuori dell'ipotesi estrema dell'arresto – l'apertura di un procedimento, penale o disciplinare: si determina infatti, in questo caso, una situazione di sostanziale incompatibilità, tra il componente dell'organo di governo autonomo della magistratura e la magistratura stessa, chiamata a indagare e giudicare il consigliere sottoposto a procedimento penale; incompatibilità ancora più marcata nel caso in cui il magistrato sia sottoposto a procedimento disciplinare, innanzi allo stesso Consiglio Superiore, che giustifica in quest'ultimo caso una sospensione non facoltativa ma obbligatoria.
Può dirsi a questo punto, a meglio considerare il testo di legge, che il prestigio dell'istituzione è messo in pericolo dal deprecabile comportamento del singolo consigliere solo in via mediata, perché in via immediata – e sotto il profilo procedurale – soccorre l'incompatibilità della funzione consiliare rispetto all'esercizio della funzione giurisdizionale (ordinaria o disciplinare) sulla medesima persona, che può minare alla radice la credibilità del CSM rispetto ai suoi compiti e alle sue prerogative.
In questo senso, l'art. 37 sarebbe da leggere come una estensione delle ipotesi di incompatibilità previste all'art. 33: norma che, pur non indicando espressamente quale conseguenza dell'incompatibilità la decadenza, di fatto la determina; questo, anche a riprova della complementarità tra gli artt. 33 e 37.
Venendo quindi alla decadenza, essa deve in ogni caso pronunciarsi ex lege per quei consiglieri «condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo»; anche qui, per i soli consiglieri togati vale la decadenza di diritto dalla carica «se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento».
La legge non specifica se la decadenza (che logicamente può seguire la sospensione) sia ex tunc o ex nunc: ipotesi, quest'ultima, preferibile perché avvalorata dai principi generali dell'ordinamento, secondo i quali si prediligono in via ordinaria gli effetti giuridici ex nunc, riservando quelli ex tunc a casi eccezionali o a gravi patologie di atti o comportamenti, comunque indicati dalla legge.
Sotto l'aspetto procedurale, all' art. 9 del Regolamento interno del CSM si prevede che «nei casi previsti dall'art. 37 della legge 24 marzo 1958, n. 195, il consiglio delibera in ordine alla declaratoria di sospensione o di decadenza sulla base di una relazione del Comitato di presidenza»[9], completando così il secco enunciato della legge del 1958 («La sospensione e la decadenza sono deliberate dal Consiglio Superiore»), ove però si specifica che (soltanto) la sospensione facoltativa «è deliberata a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi dei componenti». Sono dunque previste, in questo caso, garanzie procedurali forti per il singolo consigliere coinvolto, accentuando così l'importanza di una scelta politica (nel senso di governo dell'organo) in base alla valutazione – in via mediata – di fatti o condotte censurabili realizzate dal consigliere e posti a base di un procedimento (penale o disciplinare) e – in via immediata – della peculiare situazione di incompatibilità che si viene a creare.
Va sottolineato che, oltre quella in commento, l'altra previsione di legge di scrutinio segreto nell'ambito delle deliberazioni consiliari riguarda l'elezione dei componenti della sezione disciplinare: in entrambi i casi, la prassi consiliare che si è fin qui affermata preclude il dibattito, attesa la ristretta composizione dell'organo (che renderebbe palesi le intenzioni di voto) in uno con la delicatezza istituzionale del passaggio deliberativo[10].
In tutti gli altri casi (sospensione e decadenza "di diritto"), in assenza di una previsione di legge, la votazione sarà palese (con facoltà di esprimere le intenzioni di voto), a maggioranza semplice, con la peculiare regola di cui all'art. 5 («Le deliberazioni sono prese a maggioranza di voti e, in caso di parità, prevale quello del Presidente»). Va tuttavia specificato che trattandosi di un effetto ope legis, la deliberazione rappresenterebbe, in questo caso, una mera presa d'atto – imposta dall'ordinamento – della sussistenza dei presupposti indicati dalla legge del 1958.
3.2. La sospensione facoltativa e il problema del «procedimento»
Si è visto che la sospensione facoltativa si basa sul presupposto oggettivo dell’essere sottoposti a procedimento penale per un delitto non colposo. La legge del 1958 rinviava però ad un modello processuale diverso dall’attuale, puramente accusatorio, e in definitiva a un diverso codice di rito: il codice “Rocco” del 1930, soppiantato dall'attuale nel 1988. È dunque opportuno chiedersi se il «procedimento penale» cui fa riferimento l’art. 37 debba intendersi nel senso in cui oggi si intende il procedimento penale, che formalmente si avvia con la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato ai sensi dell’art. 335 cpp.
È indubbio che i due modelli siano profondamente diversi: una diversità palese fin dall’art. 1 del “vecchio” codice di rito, che dovendo individuare il momento di impulso del «procedimento» afferma: «L’azione penale è pubblica e, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o l’istanza è iniziata d’ufficio a seguito a rapporto, a denuncia o ad altra notizia di reato». L’indagato in quanto tale (così come noi oggi lo intendiamo) non esisteva, trovava posto solo la qualità di imputato (sempre sulla scorta delle attuali categorie processuali), la quale, secondo l’autorevole dottrina del tempo, «si conserva fino al termine del procedimento»[11].
Se dunque nel “vecchio” rito il procedimento era unitario e si distingueva solo per fasi che gradualmenteconducevano al giudizio (l’esclusiva azione del pubblico ministero, l’intervento del giudice istruttore, la valutazione delle prove da parte del tribunale), non può negarsi il chiaro intendimento del legislatore storico di “suonare” un campanello d’allarme (creando i presupposti per la sospensione facoltativa) allorquando l’esercizio anche primigenio della giurisdizione penale riguardi un consigliere del Consiglio Superiore; e per la ragione – di sostanziale incompatibilità – sopra esposta.
È vero che l’azione penale si riferiva all’avvio formale del procedimento (e che la qualifica di indagato era in totoassimilata in quella di imputato): a contrario, potrebbe allora dirsi che per «procedimento» si intenda quella fase che oggi definiamo squisitamente processuale, che si avvia con la richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio o l'adozione di provvedimenti d'impulso similari, che fanno dell'indagato un imputato. Ma è altrettanto vero che non si può trasporre il significato di un’azione processuale da un modello all’altro optando per il contenuto semantico più favorevole, a discapito della ratio legis. Il dato di legge rimane chiaro anche dopo l’intervento riformatore del 1988: e si riferisce all’avvio del procedimento, all'inizio delle indagini (il campanello d'allarme), e non alla (attuale) fase processuale avviata con l’esercizio dell’azione penale; atto processuale che d’altronde, nel codice del 1930, aveva un valore radicalmente diverso. Se la legge impone l'adozione di categorie giuridiche settoriali, quali quelle processuali, esse devono necessariamente essere calate nel contesto semantico da cui originano e nel quale si sviluppano; in assenza, s'intende, di qualsiasi interpretazione autentica proveniente dallo stesso legislatore.
Se dunque ai sensi dell’art. 37 si inverano i presupposti oggettivi della sospensione facoltativa allorquando il consigliere sia sottoposto a procedimento penale per un delitto non colposo, a partire quindi dalla formale iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato per una fattispecie dolosa, va svolta un’ulteriore riflessione sulla scorta della regola procedurale, recentemente introdotta dalla “riforma Cartabia”, di cui all’art. 335-bis cpp., con cui si stabilisce che l’iscrizione nel registro degli indagati non può, «da sola», produrre effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa.
Si potrebbe infatti obiettare che tale fattispecie (essendo lex posterior) abbia tacitamente abrogato tutte le norme che fanno discendere, dalla mera iscrizione, diretti effetti pregiudizievoli nella sfera dei diritti soggettivi. L’ordinamento presenta ipotesi di tal fatta, che ipso jure determinano effetti in malam partem: non è però il caso che ci occupa.
L’art. 37, in punto di sospensione facoltativa, non determina in via diretta un effetto pregiudizievole. L’iscrizione conduce invece all’inverarsi dei presupposti della valutazione del plenum in ordine alla sospensione di un suo componente: crea il presupposto rispetto all’esercizio di un potere assegnato dalla legge al Consiglio Superiore nell’ambito della sua autodichia. L’effetto pregiudizievole, piuttosto, è la delibera del CSM, adottata sulla scorta di una valutazione discrezionale, ma limitatamente discrezionale: così definita per le ragioni che tra poco si rimarcheranno.
Non c’è dunque antinomia tra le due fattispecie: da un lato si ha una norma processuale (l’art. 335-bis) che, condivisibilmente, mira ad espungere ogni automatismo pregiudizievole a seguito dell'iscrizione nel registro degli indagati; dall’altro, una norma ordinamentale che mette nelle condizioni il Consiglio Superiore di svolgere una valutazione in ordine all'opportunità di rimuovere una situazione di incompatibilità tra l'esercizio delle funzioni consiliari e quelle giudiziarie esercitate da un diverso organo.
In questa prospettiva si colloca, peraltro, la relazione del Massimario della Corte di Cassazione sulle modifiche processuali introdotte dalla “riforma Cartabia”, secondo cui «se è vero che l’autorità amministrativa o civile non può valorizzare il solo dato dell’iscrizione nell’adozione dei provvedimenti, non è espressamente impedito l’utilizzo autonomo in sede civile o amministrativa degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione»[12]. È evidente, in altri termini, che l'iscrizione è intesa come possibilità di utilizzo a fini diversi di fatti che, per altre finalità rispetto a quelle giudiziarie, possono essere autonomamente valutati.
3.3. (segue) Un giudizio (limitatamente) vincolato
È bene, a questo punto, e per assegnare continuità all’argomentazione svolta, chiarire la principale tesi di questa indagine, volta a lumeggiare istituti mai approfonditi (forse) perché mai applicati.
Come si è detto, la ratio della sospensione non è tanto quella di sanzionare acriticamente quella condotta che ha determinato la (mera) iscrizione, ma quella di “congelare” una funzione potenzialmente incompatibile in un frangente temporale in cui sono in corso le indagini dell’autorità giudiziaria (o, per il consigliere togato, è in corso un procedimento disciplinare).
La decisione del plenum di deliberare la sospensione facoltativa (dacché quella di diritto dovrebbe come detto rappresentare una mera presa d'atto di un effetto voluto dalla legge del 1958) attiene, a ben vedere, a due aspetti: da un lato, alla verifica della – pur astratta – fondatezza della notizia di reato, alla non pretestuosità della stessa, avanzando una valutazione sul fatto che lo ha determinato: e sempre in una prospettiva sistematica, va ricordato che la stessa “riforma Cartabia” è su altro fronte intervenuta (introducendo il co. 1-bis all’art. 335) nell’ottica di evitare il rischio che si proceda a iscrizioni arbitrarie ed eccessive, esclusivamente formali e generiche di fatti, ma soprattutto di soggetti solo "sospettati" e che dall’iscrizione potrebbero subire un grave nocumento[13]; dall’altro alla conseguente verifica dell' inopportunità della prosecuzione dell’esercizio della funzione consiliare in ragione, appunto, di una situazione di incompatibilità venutasi a creare; lesiva – andrebbe aggiunto – del prestigio dell'organo.
Che sia proprio questa la ratio della sospensione di cui all'art. 37 lo segnala un tenore letterale che non parla di censurabilità o meno della condotta posta in essere dal consigliere, ma si limita ad enunciare il dato formale della sottoposizione a procedimento. La valutazione di censurabilità o meno della condotta, imprescindibile sopratutto laddove questa abbia acquisito rilevanza mediatica (con una refluenza sul prestigio e la credibilità dell’istituzione), sarà in ogni caso insita nella valutazione circa la necessarietà dell’avvio delle indagini nei confronti del consigliere coinvolto: che appunto determina la sostanziale incompatibilità con la funzione consiliare.
Ecco perché la valutazione del plenum può definirsi limitatamente discrezionale: una discrezionalità non così ampia, forse, da risultare atto politico, ma che non può, per altro verso, sostanziarsi in una attività decisionale vincolata, poiché il giudizio verte sul fatto e non sull'atto giuridico che presuppone e legittima la procedura. È necessario ribadirlo: questa valutazione si basa sul fatto presupposto all’iscrizione, non sull’iscrizione medesima; mentre l’art. 335-bis è chiaro nello stabilire che l’iscrizione nel registro degli indagati non può, «da sola», produrre effetti pregiudizievoli.
D'altronde, se il Consiglio disponesse “soltanto” della comunicazione dell’iscrizione di una notizia di reato, non disporrebbe di alcun elemento su cui effettuare una valutazione; l’eventuale delibera sospensiva, adottata “in bianco”, sarebbe evidentemente affetta da un grave vizio logico, in quanto nulla, se non una mera comunicazione, sarebbe alla base della valutazione svolta: un vizio logico ma anche – in un'ottica di sistema – un atto contrario alla legge stessa, che impedisce l'esplicarsi di qualsivoglia effetto a seguito della "mera" iscrizione. Vizi che ben si potrebbero far valere in giudizio (sulle cui problematiche ci si è soffermati innanzi).
Per altro verso, la valutazione su cui deve basarsi il Consiglio può vertere su elementi di fatto (che possono essere a base della notitia criminis, ma possono anche non esserlo) acquisiti in ogni modo, anche aliunde rispetto al procedimento penale, purché al fatto che l'ha generato siano in qualche modo afferenti.
Elementi che, in ogni caso, andrebbero indicati nella relazione del Comitato di presidenza sottoposta alla votazione. Questa relazione (per non incorrere nei vizi logico-giuridici anzidetti) dovrebbe insomma non solo dare atto della mera iscrizione, ma anche esporre, pur succintamente, i dati di fatto su cui il plenum deve compiere la sua valutazione.
3.4. Le vicende del procedimento penale
È ancora l’istituto che “congela” la funzione consiliare a generare problemi applicativi di non poco conto, adesso considerati nella fase successiva alla delibera consiliare di sospensione. Oltre ad un primo problema – che si pone nell’immediato – di carattere squisitamente indennitario-retributivo[14], un secondo problema, di portata più generale, è relativo alle possibili vicende del procedimento penale che è risultato presupposto di applicazione dell’art. 37 e quindi della delibera sospensiva. Pochi dubbi su ciò che consegue ad un procedimento penale aperto e concluso con una sentenza di condanna: la legge in questo caso prevede l’automatica decadenza del consigliere, in ragione, come si è detto, non (più) di una situazione di incompatibilità, ma di una vera e propria censura (intrinseca nel dato di legge) rispetto ad una condotta deprecabile (il fatto di reato) che intacca il prestigio dell’istituzione. Il precedente giudizio, cautelativo, eventualmente formulato laddove si sia adottata una delibera di sospensione facoltativa, viene superato da un effetto di legge che presenta una diversa ratio.
Ci si può più fondatamente interrogare se nei confronti del consigliere coinvolto interviene un proscioglimento (anche in sede di udienza preliminare): una declaratoria di non luogo a procedere o, anche, un’assoluzione.
Anche qui il vuoto legislativo è conclamato. L’art. 37 si disinteressa delle successive fasi del procedimento penale; e a ben vedere anche l’organo consiliare potrebbe disinteressarsi di tali vicende perché, come si è detto, il plenumsi sarà pronunciato sulla base di dati di fatto autonomamente valutati, attraverso un utilizzo autonomo degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione, o di altri elementi (sempre connessi a quel fatto) comunque indicati nella relazione del Comitato di presidenza.
Tuttavia, non può negarsi che, sul piano sostanziale, la chiusura del procedimento (senza che sia intervenuta una condanna) fa venire meno quella situazione di incompatibilità tra l’azione giudiziaria e le funzioni consiliari che legittima l'adozione della delibera consiliare; e può dunque senz’altro legittimare una riedizione del potere di autodichia da parte del plenum. Se così, non si può escludere – e sarebbe anzi coerente con la ratio dell’istituto sospensivo – una nuova valutazione, la quale potrà essere fatta attraverso una nuova relazione del Comitato di presidenza (eventualmente sollecitata da uno o più consiglieri, anche dallo stesso consigliere coinvolto, con allegazione dei dati di fatto su cui si dovrebbe basare la riedizione del potere – es. allegando il decreto di archiviazione o la sentenza di assoluzione) che verosimilmente sottoponga al voto del consesso la revoca della precedente determinazione. La sospensione è infatti, dal punto di vista giuridico, un atto di per sé revocabile, mediante un contrarius actus. Lo può essere, a fortiori, in ragione della sua natura, squisitamente cautelativa.
Sulla scorta dei richiamati principi generali, sarebbe consentita la retrattabilità di tale atto giuridico, sulla base di una nuova valutazione. Si tratterebbe di una revoca ex nunc perché realizzata sulla scorta di nuovi ed ulteriori dati di fatto (e il nuovo dato può essere anche il provvedimento che "chiude" il procedimento) e non, s'intende, di un annullamento in autotutela perché ciò presupporrebbe l’illegittimità dell’atto, del tutto legittimo ove adottato in base alle pur scarne indicazioni di cui all'art. 37.
Le successive vicende del procedimento che ne determinano la chiusura, con provvedimento diverso dalla sentenza di condanna, potrebbero, quindi, fungere da impulso per una nuova ed autonoma deliberazione presa in ossequio, da un lato, al principio di autodichia del Consiglio Superiore, e dall’altro guardando alla peculiare ratiodell’istituto della sospensione.
Quale ultimo spunto procedurale, potrebbe dirsi che, non essendo prevista l’ipotesi della revoca della sospensione, questa delibera dovrebbe seguire le regole generali di funzionamento dell’assemblea e, soprattutto, di deliberazione, quali quelle di cui all’art. 5: il voto, a questo punto, sarebbe palese, e il dibattito reso possibile. Sennonché, la riedizione di un medesimo potere di governo, in forma diversa, si mostrerebbe come una inaccettabile incoerenza di sistema: l'esercizio di tale potere non può che replicarsi nelle stesse forme in cui è stato originariamente esercitato.
3.5. (segue) Lo "strano" caso del patteggiamento
Anche alla luce delle recenti modifiche derivate dalla "riforma Cartabia", appare doveroso interrogarsi, in seconda battuta, se una sentenza di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 cpp. determini la decadenza di diritto, al pari di una sentenza di condanna, oppure se si traduce in una vicenda estintiva del procedimento e in quanto tale potenzialmente suscettibile di avviare una nuova, ulteriore valutazione della posizione del consigliere interessato da parte del Consiglio Superiore.
Il legislatore del 2022, al co. 1-bis dell'art. 445, si muove su due diverse piste ermeneutiche. Da un lato, si afferma che «La sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile». Si ara una problematica probatoria che, per il vero, non riguarda né la sospensione – adottata sulla scorta di una valutazione di dati di fatto autonomamente considerati, e a fini cautelativi – né tantomeno la decadenza, che guarda alla statuizione e non al suo contenuto.
Più pertinente invece il successivo disposto: «Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna». L'art. 37 non equipara espressamente la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna (perché l'istituto è, come noto, stato elaborato successivamente al 1958), e se così, delle due l'una: o la norma nel prevedere la decadenza dei consiglieri «se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo» intende riferirsi a qualsivoglia effetto penale di condanna (così implicitamente equiparando la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna), oppure si riferisce in senso stretto alla sentenza penale di condanna, così lasciando fuori dal suo perimetro applicativo quelle sentenze, pur "diverse", che comunque comportano l'effetto penale di condanna.
La prima opzione pare maggiormente condivisibile, poiché è evidente che il legislatore abbia in questo caso voluto rimarcare la censurabilità della condotta, insita in una sentenza di condanna, qualsiasi ne sia la veste – e d'altronde, il legislatore storico avrebbe alquanto faticato ad immaginare un istituto generato e sviluppato dentro un modello processuale radicalmente diverso, di là da venire: squisitamente accusatorio.
Se così, non ci sono ragioni ostative all'applicazione del principio indicato e, per conseguenza, una sentenza di patteggiamento ex art. 444 non potrà ricadere nell'ambito dell'istituto della decadenza disciplinato dall'art. 37 (non produce, questa norma, il suo effetto decadenziale, per espressa previsione di una legge posteriore), «se non sono applicate pene accessorie». Solo in questo caso, infatti, l'equiparazione ad una sentenza penale di condanna sarà preclusa.
Su tale versante chiarisce il significato della legge la Relazione illustrativa alla "riforma Cartabia", che nel senso anzidetto legge la norma di nuovo conio: «ogni qual volta, per effetto della sentenza di patteggiamento, non si applichino le pene accessorie [...] vengono meno anche tutti gli altri effetti penali. Per effetti penali si intendono dunque tutti quegli automatismi discendenti ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali»[15]: tra queste, senz'altro rientra l'art. 37 in punto di decadenza.
Ne consegue, indubitabilmente, che se il consigliere nell'ambito del procedimento che funge da presupposto della delibera di sospensione patteggerà una pena che non contempli pene accessorie non potrà aversi l'effetto automatico della decadenza, precluso dal nuovo co. 1-bis dell'art. 444.
Va peraltro specificato che la stessa "riforma Cartabia" agevola a tal punto la possibilità di ricorrere alla definizione del procedimento ex art. 444 consentendo alle parti di chiedere congiuntamente al giudice di non applicare le pene accessorie (art. 444, co. 1), in deroga alle (molte) disposizioni che, sparse nel codice penale e nelle leggi speciali impongono in caso di condanna una pena accessoria. Una considerazione a parte meritano però i reati commessi appunto da pubblici ufficiali, le cui pene accessorie sono governate dal rigoroso disposto di cui all'art. 317-bis[16]: precetto la cui efficacia la "riforma Cartabia" non rimette esclusivamente alle determinazioni delle parti, facendo salvo un ampio margine di valutazione del giudice in ordine all'applicazione delle pene accessorie[17].
L'ipotesi dunque di un patteggiamento che non contempli pene accessorie può considerarsi alquanto frequente; mentre il patteggiamento che le contempli (anche in ragione della disciplina derogatoria di cui al co.1-bis e 1-terdell'art. 444, relativa a specifici reati) sarà considerato alla stregua di una sentenza penale di condanna, ai sensi dell'art. 445, co. 1-bis, ultimo periodo, e come tale – per tornare ai poteri e alle facoltà di autodichia dell'organo consiliare – imporrebbe al plenum l'adozione di una delibera che dichiari la decadenza.
Quel consigliere che sia stato (eventualmente e) precedentemente sospeso e che abbia ottenuto la pronuncia di una sentenza ex art. 444, scevra da pene accessorie, non potrà invece decadere; eppure il procedimento che ha sollecitato la delibera sospensiva si è estinto, non sorreggendo più l'atto consiliare.
Si ricade a questo punto nella già percorsa ipotesi in cui il procedimento si sia estinto in senso maggiormente favorevole all'indagato/imputato, dando la stura ad una diversa valutazione che potrà essere fatta mettendo ai voti una nuova relazione del Comitato di presidenza. Sarebbe in astratto possibile una nuova pronuncia del Consiglio in ordine al mantenimento dell’istituto sospensivo; con una – si immagina – più attenta valutazione dei fatti indicati nella imputazione e nella sentenza, e un focus spostato sulla censurabilità della condotta posta in essere, anziché sulla situazione di incompatibilità venutasi a creare e adesso, con l'estinzione del procedimento, risoltasi.
Ma, si badi: se tale "nuova" delibera fosse adottata in malam partem, e quindi con effetto confermativo della precedente sospensione, potrebbe considerarsi l'ipotesi di essere a questo punto al di fuori del perimetro legale della sospensione (ancora) facoltativa, che pur sempre impone la sussistenza di un procedimento penale, questo estinto con la pronuncia di una sentenza ex art. 444.
E a voler condividere questa tesi, che guarda all'istituto sospensivo come strettamente legato all'esistenza del procedimento penale – simul stabunt, simul cadent – e in quanto tale necessariamente temporaneo, sia in caso di archiviazione o proscioglimento, sia in caso di patteggiamento (senza pene accessorie), dovrebbe procedersi alla revoca della delibera sospensiva per essere venuti meno i presupposti della stessa. Neanche su questo punto la legge fornisce un valido ausilio interpretativo; e da questo vuoto regolamentare emergono conseguenze a tratti paradossali, se è vero che l'istituto della decadenza può attivarsi solo se il patteggiamento contempli nel proprio nomen juris anche la pena accessoria, e qualsiasi essa sia.
3.6. L’impugnativa della delibera
La delibera di sospensione e decadenza adottata ai sensi dell’art. 37, come qualsiasi altro atto del Consiglio Superiore, può essere impugnato innanzi all’autorità giudiziaria.
Una prima e più pressante questione riguarda la giurisdizione, che come noto va individuata in rapporto alla situazione giuridica, di diritto soggettivo o di interesse legittimo, della quale si chiede la tutela.
Si potrebbe adire il giudice amministrativo, affermando che si versa in un’ipotesi di esercizio di poteri autoritativi amministrativi a fronte dei quali sussiste un interesse legittimo, contestando conseguentemente la legittimità del provvedimento e chiedendone l’annullamento.
Va tuttavia sottolineato che le Sezioni Unite, in una pronuncia resa a seguito di regolamento preventivo di giurisdizione[18], hanno affermato che i componenti del CSM acquisiscono «per effetto della scelta compiuta dagli elettori» una posizione soggettiva che si configura come diritto soggettivo perfetto. Con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla vicenda giuridica di tale status. Potrebbe allora dirsi che a seguito della delibera di sospensione si sia implicitamente dichiarato che, almeno temporaneamente e in via cautelativa, non v'è il pre-requisito necessario per mantenere la carica; e al riguardo il Consiglio abbia svolto un’attività di verifica, in punto di fatto. Un’attività di verifica di tale incidenza da riguardare la posizione giuridica stessa del consigliere, tale da non essere idonea a far degradare a interesse legittimo la posizione dell’interessato.
La delibera incide dunque sullo status, previa verifica dei requisiti (che sono di “moralità” – in particolar modo nei casi di decadenza – e di “opportunità”, rispetto alle situazioni di incompatibilità di fatto che si vengono a creare – nei casi di sospensione) di mantenimento della carica. D’altro canto, è pacifico che sia il giudice ordinario ad essere competente delle impugnative delle delibere adottate in sede di verifica dei titoli, come lo è stato allorquando veniva impugnata la delibera che dichiarava la cessazione di un membro togato del Consiglio a seguito del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età[19].
La seconda questione riguarda il perimetro del sindacato del giudice ordinario; il quale, a fronte delle valutazioni (limitatamente) discrezionali di cui si è ampiamente detto, che si traducono in una discrezionalità vincolata laddove si tratti di dichiarare la decadenza ovvero l'esistenza dei requisiti della sospensione obbligatoria, deve contenere il giudizio entro i confini dell'accertamento dei presupposti di legalità dell’atto.
Il “contenuto”, e gli effetti stessi della delibera, non sono sindacabili in sede giurisdizionale, poiché non c’è stata alcuna comparazione di diversi interessi e diverse posizioni; né d’altro canto l’iter della decisione è percorribile: la valutazione è compiuta dai singoli consiglieri a scrutinio segreto, senza alcun previo dibattito, sulla base di una relazione del Comitato di presidenza che può essere tanto stringata da limitarsi a individuare i presupposti di cui all’art. 37. In questo senso, può dirsi che la delibera in quanto tale non è corredata da alcuna motivazione.
Per queste ragioni, il giudice ordinario non può esprimere una valutazione di congruità della sospensione; a fortiori, non può stabilire se e come è stato perseguito l’interesse pubblico. Si tratta dunque di svolgere un (mero) controllo di legalità: se la procedura si è svolta secondo le indicazioni di legge, circa la verifica della sussistenza dei presupposti indicati all’art. 37 e dei requisiti di validità della delibera stessa.
4. È giusto distinguere tra consiglieri laici e togati?
Si è visto che l'art. 37 importa, nella sostanza, una distinzione tra membri laici e membri togati, poiché solo i membri togati sono destinatari dell'ipotesi della sospensione obbligatoria se sottoposti a procedimento disciplinare, e della decadenza obbligatoria dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento, determinando per costoro un ampliamento oggettivo – per l'oggettivo approfondimento dell' incompatibilità tra funzione esercitata e organo di appartenenza, chiamato ad esercitare il potere disciplinare – delle ipotesi di sospensione e decadenza. Ampia infatti è la casistica di quelle situazioni che, senza integrare fattispecie di reato, possono condurre ad un procedimento disciplinare: una casistica, peraltro, in esponenziale aumento, a fronte della recente abrogazione dell'abuso d'ufficio, norma residuale del sistema dei reati commessi dai pubblici ufficiali.
Lo scrimine è dettato dalla provenienza "elettiva" del consigliere: da un lato, il consigliere laico eletto dal Parlamento, dall'altro il consigliere togato eletto dal corpo magistratuale. Vale dunque la pena interrogarsi se sia opportuno distinguere, come la norma distingue sul piano dei rimedi volti a ripristinare prestigio e funzionalità dell'organo consiliare, tra le due diverse categorie elettive.
Invero, una distinzione tra "categorie" trova fondamento nello stesso art. 1 della legge del 1958, come modificata nel 2022 dalla "riforma Cartabia", allorché si introduce il concetto di «categoria di appartenenza»[20], che può meglio essere spiegato in base all'art. 4 che regola la composizione della sezione disciplinare, i cui componenti effettivi sono: il vicepresidente del Consiglio Superiore, che presiede la sezione per l'intera durata della consiliatura; un componente eletto dal Parlamento; un magistrato di Corte di cassazione con esercizio delle funzioni di legittimità; due magistrati che esercitano le funzioni di giudice presso uffici di merito; un magistrato che esercita le funzioni di pubblico ministero presso uffici di merito. Che siano proprio queste le "categorie" indicate lo specifica di seguito l'art. 6: «Il componente che sostituisce il vicepresidente e gli altri componenti effettivi sono sostituiti dai supplenti della medesima categoria. Il componente effettivo eletto dal Parlamento è sostituito dal supplente della stessa categoria».
Quanto invece alla distinzione tra "macro-categorie", e quindi alla distinzione tra appartenenza "laica" e "togata", essa appare più marcata all'art. 5, che dispone sulla validità delle deliberazioni del Consiglio Superiore, per cui «è necessaria la presenza di almeno quattordici magistrati e di almeno sette componenti eletti dal Parlamento».
È sul punto interessante notare che il dato tassonomico della provenienza penetra anche nel quadro dei doveri e dei comportamenti dei componenti del CSM che è stato, da ultimo, ripercorso in una importante delibera consiliare del 20 gennaio 2010, in cui veniva sancito il principio di libera autodeterminazione di ciascun componente del Consiglio, con un accento particolare sulla indipendenza dei consiglieri di nomina parlamentare, ai quali si chiede di non mantenere in vita, anche di fatto, situazioni generatrici di incompatibilità e di attuare una effettiva sospensione delle attività professionali durante la consiliatura.
A questo riguardo si può segnalare che la formula consacrata in Costituzione per l'individuazione della componente "laica" del Consiglio Superiore, le modalità di elezione e la necessità che vi sia ampia convergenza tra le forze politiche, indicano che questa non dovrebbe mai essere espressione di schieramento politico-partitico, ma nell'interesse generale dovrebbe – viceversa – portare nell’organo una sensibilità per l’amministrazione della giustizia, intesa anche come servizio ai cittadini, con la scelta di coloro che, per esperienza accademica e professionale, assicurano il miglior apporto tecnico a questo scopo.
Questo aspetto venne più volte sottolineato in Assemblea Costituente[21]: i "laici" devono essere scelti dal Parlamento non come espressione di una parte politica, ma per la loro qualificata preparazione sui problemi della giustizia da un lato, e dall'altro per la – contestuale – capacità di fornire sufficienti garanzie di indipendenza rispetto al contesto professionale o accademico di provenienza[22].
L'elezione da parte dei magistrati (un corpo elettorale, dunque, "qualificato") della componente "togata" da un lato, l'elezione del Parlamento (un corpo elettorale altrettanto "qualificato"), dall'altro, dovrebbe in definitiva assicurare il medesimo livello di competenze, e racchiudere nello stesso quadro di doveri e responsabilità tutti i consiglieri. Doveri e responsabilità che, in effetti, possono declinarsi diversamente in ragione della "provenienza" e delle "storie" professionali di ciascuno, senza condurre ad un risultato che non sia, per tutti, la tutela dell'autonomia di giudizio e valutazione, quindi del prestigio e della credibilità, dell'organo di governo (appunto, autonomo) della magistratura.
Anche in questo caso, può farsi leva sulla felice sintesi del Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura: «I componenti del CSM si distinguono soltanto per la loro “provenienza”. Hanno le medesime responsabilità nella gestione della complessa attività consiliare e sono chiamati a svolgere il loro mandato senza doversi preoccupare di ricercare consenso per sé o per altri soggetti. Laici e togati interpretano – con doverosa piena indipendenza da ogni vincolo – un ruolo fondamentale nel funzionamento del nostro sistema, sempre seguendo, quindi, il dettato costituzionale»[23].
Venendo alla questione che l'art. 37 solleva, la distinzione tra consiglieri laici e togati, se è vero che trova fondamento nella struttura stessa dell'organo consiliare, non può vedere diversificarsi il perimetro applicativo di sospensione e decadenza, perché, come evidenzia la ricostruzione storico-sistematica svolta, non è di diversa portata il perimetro dei doveri dell'una e dell'altra "categoria". In questo senso, la normativa del 1958 – frutto di una stagione politica che era ancora segnata dall'esperienza di vasto profilo istituzionale dell'Assemblea Costituente, alla quale erano stati chiamati a partecipare, in effetti, cittadini dagli altissimi meriti in ogni campo – dimostra, pur nel quadro di una necessaria distinzione tra consiglieri laici e togati, di non avere adeguatamente considerato, in una prospettiva futura, tutte le possibili situazioni che possono legittimare la sospensione e la decadenza dalla carica di componente del Consiglio Superiore della Magistratura; al punto da far intravedere – oggi – una possibile disparità di trattamento rilevante sul piano dei principi costituzionali e, in ogni caso, auspicare un rapido intervento normativo volto a rendere cogenti le «condizioni di parità»[24], e la parità dei doveri, tra ogni componente del Consiglio Superiore.
5. L'impermeabilità della funzione consiliare: osservazioni conclusive
Il prestigio e il decoro del singolo magistrato, che si riflette sulla credibilità dell'ordine giudiziario nel suo complesso, è un processo osmotico imposto non solo – giuridicamente – dal principio di immedesimazione organica e quindi di imputazione degli atti nell'esercizio della funzione, ma anche – istituzionalmente – dall'indicazione dell'art. 98 della Costituzione, per cui «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione».
I Padri Costituenti, con questa indicazione programmatica intendevano chiaramente riferirsi alla impermeabilità delle decisioni assunte – e comunque delle funzioni esercitate – dai pubblici agenti nell'alveo degli organi che compongono la macchina-Stato: in tutti i gangli della pubblica amministrazione, fino ad arrivare, sensibilmente, agli organi giurisdizionali – che sono caratterizzati da autonomia e indipendenza – e necessariamente all'organo collegiale che attende al buon funzionamento di questa imprescindibile funzione statuale e che, tra l'altro, giudica sul piano disciplinare gli stessi magistrati: il Consiglio Superiore della Magistratura. Anch'esso è, o dovrebbe essere, autonomo e indipendente nelle proprie deliberazioni.
Impermeabilità che si esplica rispetto alle pressioni esterne, d'ogni genere esse siano, a tutela della fiducia che i cittadini devono riporre in coloro che assicurano il buon andamento della giustizia ordinaria nel Paese: perché questa è la più autentica garanzia di genuinità delle decisioni che direttamente influiscono sulla vita delle persone.
Per meglio descrivere il processo osmotico magistratura/governo autonomo della magistratura, cui si è fatto riferimento nel corso dell'indagine, può, anche in questo caso, soccorrere l'autorevole sintesi del Capo dello Stato: «il CSM è chiamato all’impegno di contribuire ad assicurare la massima credibilità alla magistratura, con decisioni sempre assunte con senso delle istituzioni»[25].
Il magistrato agisce «con senso delle istituzioni» quando applica la legge e obbedisce soltanto alla legge, come afferma la Costituzione; questo vuol dire che il magistrato deve saper "disobbedire" ad altri poteri e ad altri comandi che non siano quelli del legislatore. Il Costituente, per altro verso, non ha espressamente sottoposto "soltanto" alla legge anche l'attività del Consiglio Superiore e dei suoi componenti: è nella sua essenza un'attività di alta amministrazione, che beninteso risponde al principio di legalità come – e più di – qualsiasi altra azione amministrativa.
Ma va da sé che l'organo che governa la magistratura non può a sua volta consentire permeabilità e contaminazione dall'esterno, nelle funzioni consiliari e, tra queste in particolar modo, nella funzione para-giudiziaria di giudice disciplinare, ove i doveri assumono una intensità ancora maggiore.
In definitiva, anche le decisioni del Consiglio Superiore, nel suo complesso, devono essere «sempre assunte con senso delle istituzioni».
In caso contrario, ad essere compromesso è il prestigio e l'autorevolezza dell'organo, cui guardano gli istituti della sospensione e della decadenza, sommariamente disciplinati dall'art. 37; e che per tale sommaria disciplina, come si è illustrato nell'indagine svolta, trascinano con sé molteplici problemi applicativi; di cui, in via interpretativa, si è tentato di fornire possibili soluzioni.
Per questo, anche considerando lo scenario in cui già da alcuni anni ci si muove, si potrebbe immaginare di mettere mano ai due istituti elaborati dal legislatore del 1958: che mai, questi scenari, avrebbe potuto immaginare.
[1] Un precedente consiliare – anche piuttosto noto – di votazione di una delibera di sospensione facoltativa ex art. 37 risale al 3 febbraio 1983: sei componenti del Consiglio avevano comunicato di essere indagati dalla Procura di Roma per opinioni espresse nell'ambito di un dibattito consiliare relativo ad una procedura di nomina, a seguito della denuncia del magistrato interessato. In quell'occasione il plenum deliberava all'unanimità, senza la partecipazione al voto degli interessati, la non sospensione, in quanto si era di fronte a fatti relativi a comportamenti espressione del libero convincimento personale formato in ampia e articolata discussione nel plenum. La vicenda è ben illustrata da E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell'Italia repubblicana, Roma-Bari, 2019, p. 137 ss.
[2] Corte Cost., 3 giugno 1983, n. 148.
[3] F. Bonifacio, G. Giacobbe, La Magistratura. Tomo II - Art. 104-107, in AA.VV., Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1986, p. 118.
[4] G. Volpe, Ordinamento giudiziario (voce), in Enc. dir., XXX, 1980, p. 851.
[5] Così recita l'art. 10 della legge n. 195/1958: «Può fare proposte al Ministro per la grazia e giustizia sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Dà pareri al Ministro, sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie».
[6] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della cerimonia di commiato dei componenti il CSM uscenti, Palazzo del Quirinale, 24 gennaio 2023, in quirinale.it.
[7] Art. 18 del r.d.lp. 31 maggio 1946, n. 511.
[8] Art. 2, co. 2, del r.d.lp. 31 maggio 1946, n. 511.
[9] Va specificato che il Regolamento interno del CSM, che prevede tale disposizione, è stato approvato il 26 settembre 2016. Nel precedente del 1982 richiamato, la non sospensione dei consiglieri indagati è avvenuta, alla presenza del Presidente, mediante l'approvazione all’unanimità un "documento" con il quale, preso atto che «il procedimento attiene a comportamenti che sono comunque espressione di convincimento liberamente formatosi all' interno del Consiglio in ampio ed articolato dibattito sui necessari elementi di giudizio», il CSM delibera di non sospendere i sei consiglieri (cfr. verbale della seduta del 3 febbraio 1983 del Consiglio Superiore della Magistratura, rinvenibile in csm.it).
[10] È tuttavia ben legittima la facoltà di contraddittorio, nello stesso plenum chiamato a deliberare la sospensione, da parte del consigliere coinvolto. Sul punto, ancora in chiave storica, appaiono illuminanti le parole pronunciate nella già percorsa seduta del plenum del 3 febbraio 1983 di Salvatore Senese, membro togato indagato e potenzialmente soggetto alla sospensione facoltativa: «Non troverei nulla di men che legittimo nel fatto che, in vista di una delibera che può incidere sullo status dei consiglieri, questi esponga previamente il proprio punto di vista, la propria "verità", direi. Il contraddittorio – è noto – costituisce regola elementare di ogni procedimento che può incidere su situazioni soggettive tutelate dalla legge, pubbliche o private che siano tali situazioni. Nella ipotesi, poi, d'imputazione elevata nei confronti di un membro di quest'assemblea un doveroso riguardo verso i colleghi ed il consiglio tutto suggerirebbe, in astratto, che l'interessato dia delle spiegazioni ai suoi colleghi, a coloro che lo hanno eletto, al Paese»(cfr., ancora, verbale della seduta del 3 febbraio 1983 del Consiglio Superiore della Magistratura, rinvenibile in csm.it).
[11] A. De Marsico, Lezioni di diritto processuale penale, Napoli, 1938, p. 74.
[12] In questi termini si esprime la relazione n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione sulla "Riforma Cartabia", rinvenibile in sistemapenale.it, 10 gennaio 2023, p. 66.
[13] È ancora la relazione n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, cit., p. 60.
[14] Va ricordato che ai componenti del CSM spetta un assegno mensile ai sensi dell’art. 40 della legge del 1958. Si tratta di un assegno legato alla carica, e non invece all’esercizio concreto della funzione, a cui invece sono legate le indennità, quali le indennità di seduta, quelle di missione ecc., almeno in parte disciplinate sempre all’art. 40. Ed è bene precisare che il consigliere, pur a seguito di sospensione, rimane in carica: ciò significa che costui continua ad essere componente del Consiglio Superiore, con relativa facoltà di accesso alla sede e ai propri uffici; quanto invece alla facoltà di disporre della propria segreteria e dei propri collaboratori, è verosimile ipotizzare un "congelamento" di tutte le collaborazioni esterne al Consiglio e una diversa destinazione delle risorse interne al Consiglio originariamente assegnate al consigliere, poi sospeso: sarebbe infatti una inutile spesa (che potrebbe anche avere riflessi contabili) quella relativa all'infruttuoso mantenimento di un apparato di segreteria, che è per sua natura volto a supportare il concreto esercizio della funzione consiliare. Difatti, è precluso, in concreto, l'esercizio delle funzioni consiliari, non potendo per l’effetto il consigliere partecipare alle sedute delle commissioni e del plenum. Se così, l’assegno mensile – legato alla carica – dovrebbe essere comunque dovuto, e nella sua interezza: in particolare laddove il consigliere non abbia un proprio trattamento stipendiale “trascinato” nel quadro del trattamento economico predisposto dal Consiglio Superiore (se, ad es., provenga dalla professione forense, necessariamente interrotta in ragione del mandato consiliare).
[15] Relazione illustrativa aggiornata al testo definitivo del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 pubblicata in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale n. 245 del 19 ottobre 2022 - Suppl. Straordinario n. 5), in sistemapenale.it, 20 ottobre 2022, p. 130.
[16] «La condanna per i reati di cui agli articoli 314, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter(1), 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis importa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici(2) e l'incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. Nondimeno, se viene inflitta la reclusione per un tempo non superiore a due anni o se ricorre la circostanza attenuante prevista dall'articolo 323 bis, primo comma, la condanna importa l'interdizione e il divieto temporanei, per una durata non inferiore a cinque anni né superiore a sette anni».
[17] L'art. 444, co. 1-bis afferma infatti che «L’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis»; disposizione, questa, che prevede: «Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis del codice penale, la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'articolo 317 bis del codice penale ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. In questi casi il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l'estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta».
[18] Così ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 6 aprile 2012 n. 5574.
[19] Cfr. Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sentenza del 13 novembre 2020 n. 11814.
[20] A seguito della riforma l'art. 1 della legge del 1958 contempla il principio per cui «I magistrati eletti si distinguono tra loro solo per categoria di appartenenza».
[21] Si veda sul punto l'interessante ricostruzione di F. Biondi, Il C.S.M.: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione, in giustiziainsieme.it, 17 luglio 2021.
[22] Va per altro verso segnalato che un vasto dibattito si accese sull'opportunità stessa di inserire gli avvocati nel Consiglio Superiore. Veniva sollevato il problema dell'indipendenza, onde «evitare il rischio che la semplice cancellazione dall'albo per la durata della carica di componente del Consiglio Superiore non sia garanzia sufficiente, quale abbiamo diritto di stabilire e di attendere, di indipendenza dei componenti del Consiglio che provengono dall'avvocatura»: e a segnalarlo era proprio un avvocato, Giuseppe Perrone Capano, nella seduta dell'Assemblea del 25 novembre 1947; nella stessa seduta il professore universitario Orazio Condorelli aggiungeva: «Non penso soltanto alla possibilità che gli avvocati continuino ad esercitare la professione, pur non essendo cancellati dall'albo, attraverso sostituti od amici, ma penso anche alla categoria di persone che potrebbero trovarsi nella situazione di eleggibili».
[23] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di intitolazione del Palazzo sede del C.S.M. alla memoria di Vittorio Bachelet, Roma, 16 aprile 2024, in quirinale.it.
[24] Si fa riferimento all'art. 10 del Regolamento interno del CSM. «I componenti partecipano ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio e delle Commissioni in condizioni di parità».
[25] È ancora richiamato l'intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di intitolazione del Palazzo sede del C.S.M. alla memoria di Vittorio Bachelet, cit.
Contributo sottoposto a referaggio anonimo.
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