ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, secondo una prospettiva “interna” e di diritto dell’Unione Europea[1]
di Marcella Cometti
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Procedimento principale e quesiti pregiudiziali. – 3. La parziale sovrapposizione tra il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Brno e i rinvii pregiudiziali del Tribunale di Firenze. – 4. Sulla prima questione pregiudiziale. – 4.1 La risposta della Corte in prospettiva: il nuovo regolamento procedure e il riesame periodico della sicurezza del Paese di origine. – 5. Sulla seconda questione. – 5.1 La risposta della Corte in prospettiva: il nuovo regolamento procedure e la possibilità di designare un Paese come sicuro con eccezioni per parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili. – 5.2 Ripercussioni nell’ordinamento italiano della risposta della Corte al secondo quesito pregiudiziale ed estensione delle motivazioni della sentenza al caso in cui la designazione avvenga con esclusione di determinate categorie di persone. –5.2.1 L’impugnazione in Cassazione dell’ordinanza di non convalida del trattenimento del Tribunale di Roma: l’ulteriore rischio di sovrapposizione tra il giudice degli Ermellini e la Corte di giustizia in tema di Paesi sicuri. – 6. Sulla terza questione pregiudiziale. – 6.1 Ripercussioni nell’ordinamento italiano del dovere del giudice di sindacare, anche d’ufficio, le condizioni sostanziali per la designazione di un Paese come di origine sicuro. – 6.1.1 Il secondo quesito pregiudiziale del Tribunale di Bologna alla Corte di giustizia: i dubbi sul potere-dovere del giudice di disapplicare disposizioni nazionali che contrastino con il diritto dell’Unione – 7. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Il presente contributo intende offrire un’analisi della sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, del 4 ottobre 2024, nella causa C-406/22[2], emessa a seguito di un rinvio pregiudiziale presentato dal Tribunale regionale di Brno (Repubblica Ceca). La pronuncia riguarda l’interpretazione dell’art. 46, par. 3, della direttiva procedure[3], letto in combinato disposto con l’art. 47 della Carta[4], e di alcune disposizioni della stessa direttiva riguardanti il concetto di Paese di origine sicuro e la designazione nazionale dei Paesi di origine sicura[5].
Nelle pagine che seguono, la decisione della Corte verrà osservata sia da una prospettiva “interna” che da una di diritto dell’Unione europea.
Quanto alla prima, a fronte delle importanti (e immediate) ripercussioni, politiche e giuridiche, che la pronuncia della Corte sta avendo nell’ordinamento italiano, lo scritto vuole offrire una panoramica di come le questioni affrontate nella causa C-406/22 abbiano impattato l’attuale sistema nazionale. Pochi giorni dopo l’adozione della sentenza del 4 ottobre, infatti, alcuni Tribunali, preso atto della stessa, sia in fase di convalida del trattenimento di richiedenti asilo provenienti da Paesi di origine sicura[6] che trovandosi a decidere sulla sospensione di provvedimenti di rigetto delle domande di asilo presentate da richiedenti cittadini degli stessi Paesi[7], procedevano a disapplicare il D.M. del 7 maggio 2024 di aggiornamento della lista di Paesi di origine sicura per contrarietà con la normativa dell’Unione, così come interpretata dalla Corte[8].
A fronte di tali decisioni, in particolare di quella del Tribunale di Roma avente ad oggetto la mancata convalida del trattenimento di richiedenti asilo presso i centri di detenzione in Albania[9], il governo italiano, il 23 ottobre 2024, pubblicava un Decreto-legge il cui art. 1, sostituendo il testo dell’art. 2 bis, co 1, d. lgs. 25/2008, di fatto abrogava implicitamente il D.M. Paesi sicuri[10]. Per ammissione dello stesso Ministro per la Giustizia, la necessità di approvare tale Decreto-legge «nasce[va] da una sentenza della Corte di giustizia che è molto complessa e articolata e che molto probabilmente […] non è stata […] ben compresa o bene letta»[11]. Per altro, sempre nel contesto della medesima conferenza stampa del Consiglio dei ministri, il Ministro degli Interni sosteneva che tale Decreto-legge intende «anticipare, come dice la stessa Corte europea di giustizia, l’entrata in vigore di un sistema [...]. [Infatti] dal 2026 giugno entra in vigore il nuovo regolamento […] procedure che prevederà, addirittura, la individuazione dei Paesi sicuri con esclusivo riferimento alle condizioni percentuali statistiche di approvazione delle domande di protezione internazionale a livello europeo, attestandole sotto il limite del 20%»[12].
Da una prospettiva di diritto dell’Unione europea, dunque, la sentenza verrà analizzata anche alla luce delle disposizioni del futuro regolamento procedure 2024/1348, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 22 maggio 2024, la cui applicazione decorrerà a partire dal 12 giugno 2026[13]. Ciò permetterà di comprendere meglio come, effettivamente, il sistema di designazione dei Paesi di origine sicura cambierà e se i principi affermati dalla Corte con la sentenza in esame sopravviveranno al nuovo regolamento.
2. Procedimento principale e quesiti pregiudiziali
La domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia veniva presentata, dal Tribunale di Brno, nell’ambito di un procedimento tra un cittadino moldavo (CV, ricorrente) e il Ministero dell’Interno della Repubblica Ceca (convenuto), in merito al rigetto della domanda di protezione internazionale del primo[14].
Precisamente, a sostegno di tale domanda, CV aveva addotto di esser stato minacciato, nel suo Paese di origine, da alcuni individui che le autorità di polizia non sarebbero state in grado di identificare e dichiarava, per giunta, di non voler tornare nella sua regione d’origine a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa.
In prima istanza, tuttavia, il Ministero dell’Interno rigettava la domanda di protezione internazionale di CV per manifesta infondatezza in quanto il richiedente asilo proveniva da Paese di origine sicuro. Infatti, secondo l’elenco nazionale, la Moldavia, fatta eccezione della Transnistria, rientrava tra i Paesi terzi che la Repubblica Ceca considera(va) di origine sicura. In particolare, il Ministero sosteneva che CV non fosse riuscito a dimostrare che la presunzione di sicurezza non si applicava al suo caso specifico, così come previsto, per altro, dall’art. 36, par. 1, della direttiva procedure come recepito dall’art. 16, par. 2 e par. 3, della legge nazionale sull’asilo nella versione applicabile alla controversia[15].
Il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza veniva impugnato dal richiedente asilo davanti al giudice competente. I motivi alla base del ricorso riprendevano gli elementi formulati, in prima istanza, a sostegno della domanda di protezione internazionale; precisamente, CV sosteneva che, mentre il Ministero dell’Interno era tenuto a prendere in considerazione tutte le informazioni pertinenti e a valutare la sua domanda in modo globale, manteneva, invece, come unico fattore determinante il fatto che il richiedente era originario della Moldavia.
Depositato il ricorso, il Tribunale regionale di Brno, l’8 maggio 2022, su domanda di parte, ne riconosceva efficacia sospensiva. Per vero, ai sensi dell’art. 46, par. 6, lett. a), della direttiva procedure – così come recepito nell’ordinamento della Repubblica Ceca[16] – qualora sia stata adottata una decisione come quella nel caso di specie, il ricorso non produce un effetto sospensivo automatico della decisione impugnata ma sarà il giudice a decidere se autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro in attesa dell’esito del ricorso.
Tra le motivazioni per cui il Tribunale regionale decideva di accordare tale sospensiva, il giudice richiamava il fatto che, il 28 aprile 2022, la Moldavia, a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, aveva deciso di prorogare l’esercizio del suo diritto di deroga agli obblighi derivanti dalla CEDU, ai sensi dell’art. 15 di tale Convenzione. Tale proroga era già stata invocata, il 25 febbraio 2022, a causa della crisi energetica che il Paese stava attraversando.
Poiché la domanda di protezione internazionale di CV era stata respinta tenendo conto, tra l’altro, del fatto che la Repubblica Ceca aveva designato la Moldavia, ad eccezione della Transnistria, come Paese di origine sicuro, il Tribunale di Brno decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte diverse questioni pregiudiziali.
In primo luogo, il giudice chiedeva alla Corte se il criterio per la designazione di un Paese di origine sicuro di cui all’allegato I, lett. b), di tale direttiva[17] dovesse essere interpretato nel senso che, se un Paese terzo deroga agli obblighi previsti dalla CEDU in caso di stato di emergenza – ai sensi dell’art. 15 di tale Convenzione – non soddisfa più tale criterio per essere designato come Paese di origine sicuro.
Secondariamente, il Tribunale di Brno chiedeva se gli artt. 36 e 37 della direttiva procedure dovessero essere interpretati nel senso che (i) ostano a che uno Stato membro designi solo una parte di Paese come di origine sicuro – prevedendo, quindi, specifiche eccezioni territoriali in cui non si applica la presunzione di sicurezza – e nel senso che (ii) se uno Stato membro prevede tale designazione “selettiva”, il Paese terzo non possa essere considerato, nel suo complesso, un Paese di origine sicuro ai fini della direttiva.
In subordine, nel caso in cui una delle prime due questioni pregiudiziali fosse stata risolta in senso affermativo, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se l’art. 46, par. 3, della direttiva procedure, in combinato disposto con l’art. 47 della Carta, dovesse essere interpretato nel senso che l’organo giurisdizionale investito di un ricorso avverso una decisione di manifesta infondatezza di una domanda emessa nell’ambito del procedimento di cui all’art. 31, par. 8, lett. b), della direttiva[18], debba prendere in considerazione d’ufficio (quindi anche in assenza di domanda di parte) del contrasto tra la designazione di un Paese come di origine sicuro e il diritto dell’Unione per i motivi summenzionati.
3. La parziale sovrapposizione tra il rinvio pregiudiziali del Tribunale di Brno e i rinvii pregiudiziali del Tribunale di Firenze
Per fornire un quadro completo della vicenda, prima di passare all’analisi della pronuncia della Corte resa sui quesiti di cui si è appena fatto cenno, si vuole dar conto di altri due rinvii presentati, più di recente, dal Tribunale ordinario di Firenze e riguardanti l’interpretazione degli artt. 36, 37 e 46 della direttiva procedure[19]. Precisamente, il giudice di Firenze, interrogava la Corte sull’interpretazione di tali disposizioni al fine di comprendere se queste ostassero o meno a che uno Stato membro designi un Paese come di origine sicuro con esclusione (non tanto di determinate parti di territorio – questione oggetto del secondo quesito del rinvio di Brno ma) di categorie di persone, nei confronti delle quali non si applica la presunzione di sicurezza.
Le domande di pronuncia pregiudiziale, proposte con ordinanza del 31 maggio 2024, scaturivano da due procedimenti di impugnazione di provvedimenti per manifesta infondatezza adottati, in prima istanza, dalla competente Commissione territoriale per provenienza dei richiedenti asilo da Paesi di origine sicura. Precisamente, si trattava di domande di protezione internazionale presentate da un cittadino ivoriano e da un cittadino nigeriano. Il Tribunale di Firenze, dovendo decidere in via cautelare sull’istanza di sospensiva presentata dal richiedente ai sensi dell’art. 35-bis, comma 4, d. lgs. 25/2008, riteneva questione pregiudiziale la valutazione della legittimità del presupposto della procedura accelerata[20], ovvero dell’inclusione della Costa d’Avorio e della Nigeria nella lista dei Paesi di origine sicuri adottata dall’Italia.
La scelta del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia si rendeva necessaria poiché la questione aveva a che vedere con quanto previsto dall’art. 2 bis, comma 2, del d. lgs. 25/2008 il quale dispone(va)[21] che «la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone». A proposito dell’indicazione di un Paese sicuro con esclusione di categorie di persone, mentre il D.M. del 17 marzo 2023 (in vigore alla data di adozione del provvedimento di rigetto della Commissione territoriale) genericamente designava la Costa D’Avorio e la Nigeria come Paesi di origine sicura e specificava che la situazione del richiedente doveva essere valutata alla luce delle informazioni contenute nelle Schede Paese[22], quest’ultime escludevano nove categorie di persone dall’applicazione della presunzione di sicurezza per la Nigeria[23] e otto per la Costa d’Avorio[24]. Benché siffatte eccezioni non fossero espressamente indicate nel D.M. ma solo nelle Schede Paese, secondo il Collegio di Firenze per queste categorie di persone non avrebbe dovuto operare la presunzione di sicurezza[25].
Così, se effettivamente, nell’attuazione di quanto previsto dall’art. 2 bis, comma 2, del d. lgs. 25/2008, il Ministero intendeva escludere tali categorie dalla presunzione di sicurezza, e constatato che la direttiva procedure non ammette esplicitamente tale facoltà[26], al giudice si poneva una questione concernente, in primo luogo, la possibilità per uno Stato membro di designare un Paese come sicuro con l’esclusione di determinate categorie di persone. In subordine, qualora il silenzio della direttiva procedure dovesse esser interpretato nel senso che ad uno Stato membro è concesso indicare uno Stato terzo come sicuro con l’esclusione di determinate persone, all’autorità giurisdizionale si presentava un’ulteriore questione riguardante, invece, il “perimetro soggettivo” da considerare per valutare il rispetto dei criteri di designazione di un Paese di origine sicuro, ovvero «se possa considerarsi inseribile nella lista dei Paesi sicuri uno Stato che abbia una così significativa, per qualità e quantità, presenza di categorie di persone a rischio di violazione dei diritti umani»[27].
Come si avrà modo di vedere meglio nel prosieguo, l’impianto motivazionale della sentenza resa dalla Corte di giustizia nella causa C-406/22, specificamente nella parte in cui risponde al secondo quesito pregiudiziale riguardante la designazione selettiva di un Paese quale sicuro per parti di territorio (infra par. 5), si ritiene sia estensibile all’ipotesi in cui la designazione del Paese come sicuro avvenga con esclusioni per determinate categorie di persone – per quanto, evidentemente, l’ultima parola spetterà alla Corte di giustizia, a valle di un procedimento di difficile vaticinio, non essendosi ancora tenuta udienza dibattimentale né essendosi ancora pronunciato l’Avvocato generale.
Inoltre, sul tema relativo all’esclusione della sicurezza di un Paese di origine sicuro per gruppi minoritari di persone ivi presenti è stato, ancor più recentemente, proposto dal Tribunale di Bologna un ulteriore rinvio ai giudici lussemburghesi riguardante non tanto la possibilità dello Stato membro di procedere a una designazione di sicurezza selettiva, in senso soggettivo, di uno Stato terzo quanto, piuttosto, la possibilità che uno Stato membro indichi come sicuro tout court un Paese terzo anche se, di fatto, si accerti la presenza in questo di forme generalizzate e costanti di persecuzione e rischi di danno grave nei confronti di gruppi minoritari ivi presenti[28].
4. Sulla prima questione pregiudiziale
La direttiva procedure definisce uno Stato terzo come “sicuro” se, sulla base della situazione giuridica, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non vi sono persecuzioni, né alcun rischio reale di danno grave[29], secondo le definizioni che vengono date dalla direttiva c.d. qualifiche[30].
Per effettuare la valutazione di sicurezza di un determinato Stato terzo, la direttiva offre, poi, alcuni parametri utili alle autorità competenti alla designazione; quest’ultime, invero, devono tener conto, tra l’altro, della misura in cui è offerta protezione contro le persecuzioni e il danno grave mediante a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese e il modo in cui sono applicate, b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella CEDU o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici o nella convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea), c) il rispetto del principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra e d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà[31].
Ciò premesso, il primo quesito pregiudiziale nella causa C-406/22 riguarda l’interpretazione del criterio sub b) nel caso in cui uno Stato membro (i.e. la Repubblica Ceca) designi un Paese terzo (i.e. la Moldavia) come sicuro pur avendo quest’ultimo derogato agli obblighi previsti dalla CEDU ai sensi dell’art. 15 della stessa Convenzione.
La Corte di giustizia, rispondendo al quesito, dichiara che non si può ritenere che un Paese terzo cessi di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come Paese di origine sicuro, ai sensi dell’art. 37 della direttiva 2013/32, per il solo fatto di aver invocato il diritto di deroga previsto dall’art.15 della CEDU[32]. Tuttavia, afferma la Corte, una siffatta invocazione deve indurre le autorità competenti dello Stato membro che ha designato il Paese terzo interessato come Paese di origine sicuro (ovverosia le autorità della Repubblica Ceca) a valutare se, tenuto conto delle condizioni di attuazione di tale diritto di deroga (ex art. 15 della CEDU), sussistano motivi per mantenere tale designazione[33].
L’onere imposto alle autorità nazionali di rivalutare la sicurezza del Paese di origine sicuro – tenuto conto del fatto che la Moldavia ha usufruito della possibilità concessa dall’art. 15 della CEDU – deriverebbe, per altro, da quanto statuito dall’art. 37, par. 2, della direttiva 2013/32 che impone agli Stati membri di esaminare regolarmente la situazione nei Paesi terzi designati come Paesi di origine sicuri. Con tale disposizione, invero, il legislatore dell’Unione ha inteso obbligare gli Stati membri a tenere conto del fatto che le circostanze che stanno alla base della designazione di un Paese come di origine sicuro sono, per loro stessa natura, soggette a variazioni[34].
4.1 La risposta della Corte in prospettiva: il nuovo regolamento procedure e il riesame periodico della sicurezza del Paese di origine
Come già anticipato supra, a partire dal 12 giugno 2026 troverà applicazione il regolamento 2024/1348 che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva procedure attualmente vigente. Il nuovo strumento introduce, tra le altre, disposizioni in tema di Paesi di origine sicura che modificano, almeno parzialmente, l’attuale assetto. Invero, al fine di superare alcune divergenze tra gli elenchi nazionali dei Paesi sicuri, «contribuendo altresì a scoraggiare i movimenti secondari dei richiedenti protezione internazionale»[35], il regolamento procedure prevede la possibilità di designare Paesi di origine sicuri a livello di Unione europea[36]. Agli Stati membri, tuttavia, è data facoltà di mantenere in vigore o introdurre una normativa che, ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, consenta di designare a livello nazionale Paesi di origine sicuri diversi da quelli designati a livello unionale[37].
Per quel che qui interessa, e per comprendere come inciderà il regolamento su quanto statuito dalla Corte in risposta al primo quesito pregiudiziale, né gli Stati membri, né la Commissione saranno tenuti a riesaminare periodicamente la situazione nei Paesi terzi designati Paesi di origine sicura[38]. Tale onere, invero, viene richiamato solo a proposito della procedura di sospensione dei Paesi di origine sicuri a livello di Unione[39].
Questa modifica avrà ripercussioni non di poco conto relativamente all’ampiezza del sindacato del giudice sull’atto che indicherà, a livello nazionale o dell’UE, i Paesi di origine sicura. Per vero, oggi, è anche sulla base dell’onere imposto agli Stati membri di riesaminare periodicamente la situazione nei Paesi di origine sicura che i giudici nazionali possono verificare la conformità dell’atto nazionale di designazione di tali Paesi alla normativa dell’Unione e nazionale. «L’obbligo di aggiornamento [periodico] grava, ovviamente, sugli organi ministeriali competenti a formare l’elenco ma (in ragione delle conseguenze che l’inserimento di un Paese nella lista produce sui diritti procedurali dei richiedenti) è necessario anche un presidio giurisdizionale che ne assicuri il rispetto nelle ipotesi in cui tale obbligo non sia stato adempiuto»[40].
Un domani che tale onere sarà imposto ma non sarà più richiesto che avvenga con cadenza regolare, si amplierà il margine di discrezionalità lasciato in capo alle autorità nazionali e alla Commissione europea (qualora sia adottata una lista a livello di Unione) relativamente all’esatta periodicità in cui andrebbe operato l’aggiornamento. Ciò, per altro, favorirebbe l’interpretazione secondo cui si può «non aggiornare […] la valutazione sino a che non emergano dalle […] fonti autorevoli di C.O.I. (Country Origin Information), dati e situazioni nuove che la stessa P.A. consideri rilevanti per aggiornare/modificare la valutazione di sicurezza del Paese inserito nella lista ed eventualmente escluderlo […]»[41].Tale valutazione di rilevanza delle C.O.I. – che determinerebbe la necessità di revisione del giudizio di sicurezza del Paese – sarebbe riservata, secondo tale interpretazione, alla discrezionalità amministrativa, per cui, se non emergono fatti che per la P.A. siano rilevanti ai fini di cui sopra, il mancato aggiornamento non rappresenterebbe una violazione delle disposizioni del futuro regolamento procedure.
5. Sulla seconda questione pregiudiziale
La seconda questione pregiudiziale verteva, invece, sull’interpretazione dell’art. 37 della direttiva procedure per comprendere se esso impedisce o meno l’indicazione di un Paese terzo come sicuro con esclusione di parte del territorio di questo.
Brevemente, considerata la formulazione (par. 66), il contesto (par. 67-71), la genesi (par. 72-76) e gli obbiettivi perseguiti (par. 77-82) dall’art. 37, la Corte ha interpretato tale disposizione nel senso che essa osta a che un Paese terzo sia designato come di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni materiali, di cui all’allegato I della direttiva procedure, per tale designazione[42].
Secondo i giudici lussemburghesi, l’art. 37, per come formulato, fa riferimento «a più riprese, ai termini “paese” e “paesi terzi” senza indicare che, ai fini di siffatta designazione, tali termini possano essere intesi come riguardanti solo una parte del territorio del paese terzo considerato»[43].
Se si guarda, poi, al contesto entro cui tale diposizione si innesta, anzitutto, l’art. 37 è da leggersi in combinato disposto con l’Allegato I (a cui lo stesso rimanda) che, in nessuna sua parte, rimanda alla possibilità che gli Stati membri designino un Paese di origine sicuro con esclusioni territoriali. Al contrario, ai sensi dell’Allegato, l’indicazione di un Paese terzo quale sicuro dipende dalla possibilità di dimostrare che non vi sono generalmente e costantemente (ovvero, in tutto il territorio del Paese terzo considerato)[44] persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale[45]. In secondo luogo, dato che l’applicazione del concetto di Paese di origine sicuro consente di derogare a taluni diritti procedurali garantiti dalla direttiva 2013/32/UE ai richiedenti[46] e di limitare il diritto ad un ricorso effettivo ai sensi dell’art. 47 della Carta[47], non è possibile estendere l’ambito di applicazione di tale regime (riconoscendo che lo stesso si applica anche alla designazione di Paesi di origine sicura con esclusioni di parti di territorio). Invero, «riconoscere una facoltà del genere violerebbe l’interpretazione restrittiva di cui devono essere oggetto le disposizioni aventi carattere di deroga»[48].
Anche la genesi dell’art. 37 porterebbe ad escludere un’interpretazione dell’art. 37 nel senso che quest’ultimo consente di designare Paesi di origine sicura con esclusioni territoriali. Per vero, al contrario del precedente art. 30 della direttiva procedure del 2005,[49] l’attuale art. 37 non consente esplicitamente la possibilità di designare un Paese come sicuro limitatamente a porzioni di territorio. Per altro, l’intenzione si sopprimere tale facoltà risulta sia dal testo della proposta di direttiva avanzata dalla nel 2009[50], sia dalla spiegazione dettagliata di tale proposta che la Commissione, al tempo, aveva fornito al Consiglio dell’Unione europea[51].
Infine, anche gli obbiettivi perseguiti dalla direttiva 2013/32 ostano ad una tale interpretazione. Precisamente, nel bilanciamento tra lo svolgimento di un esame adeguato e completo e un accesso effettivo del richiedente ai principi fondamentali e alle garanzie previste dalla direttiva[52] e la possibilità di accelerare la procedura in circostanze per le quali una domanda potrebbe essere infondata, il legislatore ha fatto una precisa scelta, ovverosia «privilegiare un esame esaustivo delle domande di protezione internazionale presentate da richiedenti il cui paese d’origine non soddisfa, per tutto il suo territorio, le condizioni sostanziali di cui all’allegato I di detta direttiva»[53].
5.1 La risposta della Corte in prospettiva: il nuovo regolamento procedure e la possibilità di designare un Paese come sicuro con eccezioni per parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili
La pronuncia della Corte sulla seconda questione pregiudiziale avrà, sfortunatamente, vita breve. Infatti, mentre l’attuale direttiva procedure, al contrario della precedente del 2005[54], non consente esplicitamente (ma nemmeno implicitamente, possiamo affermare oggi, dopo la sentenza della Corte di cui si tratta) la possibilità di designare un Paese come sicuro limitatamente a porzioni di territorio o con riferimento a gruppi particolari di persone, tale facoltà è (nuovamente) ammessa dal nuovo regolamento procedure. Ai sensi dell’art. 61, par. 2, sarà possibile, infatti, indicare un Paese terzo come sicuro, sia a livello dell’Unione che nazionale, con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili[55].
Ed invero, mentre la direttiva procedure, per definire un Paese come sicuro richiede che non vi siano generalmente e costantemente persecuzioni né alcun rischio di danno grave[56], i due avverbi mancano nel testo del nuovo atto[57]. Tale mancanza è strettamente connessa alla possibilità, data dal regolamento, di effettuare una designazione selettiva. Ed infatti, nel silenzio dell’attuale direttiva, è proprio all’inciso generalmente e costantemente che la Corte ha fatto riferimento per sostenere l’interpretazione secondo cui, oggi, una designazione parziale non è possibile: un’indicazione selettiva della sicurezza del Paese non sarebbe concepibile proprio per la difficoltà di considerare sicuro, in via generale e costante, uno Stato che non offra protezione a una parte della propria popolazione o su parte del proprio territorio[58].
A proposito della differenza tra quanto previsto dalla direttiva procedure e dal futuro regolamento, la Corte, inoltre, precisa che è prerogativa del legislatore dell’Unione riconsiderare tale scelta di “designazione selettiva” del Paese di origine sicuro. Ciò, infatti, può avvenire effettuando un nuovo bilanciamento tra l’accelerazione delle domande di protezione internazionale verosimilmente infondate e il dover, comunque, assicurare un esame adeguato ed esaustivo della domanda e un accesso effettivo del richiedente alle garanzie e ai principi fondamentali previsti dalla direttiva[59].
Tuttavia, e questo è un punto rilevante della pronuncia, tale scelta deve comunque, secondo la Corte, rispettare «le prescrizioni derivanti in particolare dalla Convenzione di Ginevra e dalla Carta»[60]. Così, una volta che troverà applicazione il regolamento procedure, i giudici del Kirchberg sembrerebbero volersi garantire la possibilità di valutare se il “nuovo bilanciamento” effettuato dal legislatore dell’Unione sia conforme o meno ai principi sottesi alla Convenzione di Ginevra e alla Carta.
5.2 Ripercussioni nell’ordinamento italiano della risposta della Corte al secondo quesito pregiudiziale ed estensione delle motivazioni della sentenza al caso in cui la designazione avvenga con esclusione di determinate categorie di persone
Rispondendo alla seconda questione, la Corte di giustizia dichiara che «l’articolo 37 della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un Paese terzo sia designato come Paese di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni materiali per tale designazione di cui all’allegato I di detta direttiva»[61].
Come ben noto, il principio di diritto contenuto nella decisione non vincola solo il giudice del rinvio, ma s’impone con effetto erga omnes, nel senso che le disposizioni in causa devono essere da chiunque interpretate e applicate così come indicato dalla Corte di giustizia. Segnatamente, nel caso in cui, da tale decisione, risulti l’incompatibilità di una legislazione nazionale con il diritto dell’Unione, lo Stato membro interessato ha gli stessi obblighi di quelli risultanti a seguito di una sentenza che ne accerti l’inadempimento, e deve, quindi, prendere tutte le misure necessarie a conformare il proprio ordinamento alla decisione[62].
In tal senso, poche settimane dopo la pronuncia della Corte, con Decreto-legge del 23 ottobre 2024, il governo italiano, richiamando la sentenza nella causa C-406/22, ha approvato un Decreto-legge il cui l’art. 1 prevede che «all’articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono apportate le seguenti modificazioni: […] b) al comma 2, secondo periodo, le parole “di parti del territorio o” sono soppresse»[63].
Rimane, quindi, oggi possibile, ai sensi dell’emendato art. 2 bis, comma 2, del d. lgs. 25/2008, designare un Paese di origine sicuro con l’eccezione di categorie di persone.
D’altro canto, differentemente da quanto recepito dal governo, l’impianto motivazionale della pronuncia della Corte in relazione al secondo quesito ben potrebbe applicarsi anche all’ipotesi in cui uno Stato membro designi un Paese come sicuro con esclusione per determinate categorie di persone. In altre parole, l’interpretazione dell’art. 37 della direttiva procedure data dalla Corte con la sentenza oggetto di questo commento si ritiene precluda ad uno Stato membro di mantenere in vigore una normativa nazionale, come quella italiana, che consente di dichiarare un Paese come di origine sicuro con l’eccezione di (parti di territorio e) categorie soggettive.
A tal proposito, come anticipato (supra par. 3), pendono attualmente due rinvii pregiudiziali proposti dal Tribunale di Firenze e riguardanti, per l’appunto, l’indicazione, da parte di uno Stato membro, di un Paese terzo come sicuro con l’eccezione di categorie di persone. Dato che la risposta alle questioni pregiudiziali proposte dal Tribunale di Firenze può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza nel caso C-406/22, è astrattamente ipotizzabile che i giudici del Kirchberg si pronuncino con un’ordinanza ai sensi dell’art. 99 del regolamento di procedura[64]; d’altro canto, non è sicuro che tale scenario si materializzi data la delicatezza (politica) della questione[65].
Ad ogni modo, in attesa che la Corte prenda una decisione sui rinvii fiorentini, e prima che il governo emanasse il suddetto Decreto-legge, alcuni giudici italiani chiamati a pronunciarsi sulla richiesta di convalida del provvedimento di trattenimento emesso ai sensi dell’art. 6 bis del d. lgs. n. 142/2015[66] hanno, per l’appunto, ritenuto «che gli stessi principi [affermati nella sentenza del 4 ottobre 2024 in relazione all’esclusione territoriale] – in considerazione della identità di ratio – inducono ad escludere che possa designarsi un Paese sicuro con esclusione di categorie di persone che sarebbero comunque a rischio persecuzioni o trattamenti inumani e degradanti […]»[67].
Ed invero, pochi giorni dopo la sentenza resa nella causa C-406/22, taluni Tribunali – considerato che certe categorie di persone erano escluse dalla presunzione di sicurezza che si applicava a determinati Paesi di origine sicura (i.e. Tunisia ed Egitto), e preso atto anche di quanto sostenuto dalla Corte in risposta al terzo quesito pregiudiziale[68] – dichiaravano il venire meno di una delle condizioni che giustificava l’applicazione della procedura accelerata di frontiera che costituiva, a sua volta, presupposto del provvedimento di trattenimento del richiedente asilo.
La medesima argomentazione veniva seguita dal Tribunale di Catania relativamente alla richiesta di sospensiva del provvedimento di rigetto adottato, in prima istanza, dalla competente Commissione territoriale[69]. Quest’ultima, decidendo in applicazione della procedura accelerata trattandosi di un richiedente proveniente dal Bangladesh (Paese designato di origine sicura)[70], non accoglieva la domanda di protezione internazionale del ricorrente per manifesta infondatezza.
Il giudice, in primis, analizzava la concreta designazione del Bangladesh quale Paese sicuro ai sensi del D.M. del 7 maggio 2024, tenendo conto, tra le altre, che la Scheda Paese «conclude[va] la valutazione della situazione del Bangladesh individuando sette gruppi di persone a rischio, per i quali quindi non può operare la presunzione di sicurezza». Se, sosteneva il Tribunale di Catania, «è ben vero che la Corte [di giustizia] si è pronunciata solo sulle eccezioni territoriali e non quelle per categorie soggettive […] va tuttavia osservato che la ratio della Corte […] per affermare l’incompatibilità delle eccezioni territoriali con la Direttiva procedure, può essere estesa anche alle eccezioni riguardanti le categorie soggettive».
Anche alla luce di ciò, il giudice riteneva che la designazione del Bangladesh come Paese di origine sicuro fosse in contrasto con il diritto dell’Unione europea, così come interpretato dalla Corte di giustizia. Conseguentemente, procedeva a disapplicare il D.M. Paesi sicuri nella parte in cui designava il Paese in questione come di origine sicuro per contrarietà con il diritto dell’UE così facendo venir meno, a sua volta, il presupposto della procedura accelerata. Venendo a mancare il presupposto di applicazione della procedura accelerata, la proposizione del ricorso avverso la decisione assunta dalla Commissione in prima istanza sospendeva l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato[71].
In ogni caso, anche volendo aderire alla tesi (sostenuta dal governo italiano) secondo la quale le argomentazioni della Corte di giustizia in materia di esclusione territoriale non possano estendersi anche alle eccezioni riguardanti le categorie soggettive, è comunque fatto salvo l’obbligo del giudice nazionale – nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc richiesto dall’art. 46, par. 3, della direttiva procedure – di sollevare un’inosservanza delle condizioni sostanziali (enunciate all’Allegato I di tale direttiva) della designazione di un Paese come sicuro, anche se tale inosservanza non è espressamente dedotta a sostegno del ricorso[72]. Dato che l’Allegato I della direttiva prevede che un Paese possa essere considerato come sicuro se si può dimostrare che «non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni […], né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale», tra le condizioni sostanziali di cui il giudice deve valutare l’osservanza rientra, certamente, anche quella relativa alla sicurezza tout court del Paese designato di origine sicuro.
A proposito dell’indicazione di un Paese sicuro ove, tuttavia, di fatto sono documentate forme generalizzate e costanti di persecuzione e rischi di danno grave nei confronti di gruppi minoritari presenti nel Paese terzo, il giudice potrà, quindi, pervenire a disapplicazione dell’art. 2, co. 1, d. lgs. 25/2008 – come modificato dal Decreto-legge n. 158/2024 – in quanto contrastante con il diritto dell’Unione, anche se tale disposizione indica una serie di Paesi terzi come sicuri tout court[73]. Per vero data la risposta della Corte alla terza questione pregiudiziale (si veda infra par. 6) rimarrebbe comunque un dovere di sindacato sul rispetto dei criteri della direttiva.
In tema è stato recentemente sollevato un rinvio alla Corte di giustizia, proposto con ordinanza assunta in camera di consiglio il 25 ottobre 2024 dalla Sezione specializzata del Tribunale di Bologna[74]. Mentre la prima questione oggetto del rinvio verrà subito trattata in quanto connessa alla esclusione della sicurezza di un Paese di origine sicuro per gruppi minoritari ivi presenti, la seconda verrà esaminata successivamente (infra par. 6.1.1) in quanto concernente il potere-dovere di disapplicazione del giudice nazionale di un atto nazionale in contrasto con le disposizioni di diritto dell’UE.
In rinvio bolognese è stato esperito dal giudice nazionale in vigenza del Decreto-legge del 23 ottobre 2024, il quale, come appena detto, modificando l’art. 2 bis, comma 1, d. lgs. 25/2008, designa 19 Paesi di origine sicura senza previsione di cause di esclusioni personali (che, tuttavia, rimangono astrattamente possibili visto quanto disposto dall’art. 2 bis, comma 2, ultimo periodo, d. lgs. 25/2008).
La prima questione sottoposta alla Corte di giustizia, perciò, non concerne la «legittimità o meno della previsione di cause di esclusione personali, questione non rilevante nella presente controversia alla luce della nuova designazione che non contempla eccezioni, e per cui già pendono in ogni caso avanti alla Corte di giustizia due rinvii pregiudiziali proposti dal Tribunale di Firenze […]»[75]. Il primo quesito oggetto del rinvio riguarda, invece, la possibilità che uno Stato membro designi un Paese terzo come sicuro in presenza di forme generalizzate e costanti di persecuzione e rischi di danno grave nei confronti di gruppi minoritari presenti in quel Paese. In altre parole, la questione attiene alla individuazione della condizioni sostanziali che hanno consentito la designazione del Paese di provenienza del richiedente asilo come di origine sicuro; segnatamente, il giudice a quo chiede alla Corte se gli art. 36, 37 e 46 della direttiva procedure debbano essere interpretati nel senso che non ammettono la designazione di Paesi di origine sicura laddove vi siano persecuzioni e pericoli di danno grave diretti in modo sistematico e generalizzato nei confronti di presone appartenenti a specifici gruppi sociali[76].
5.2.1 L’impugnazione in Cassazione dell’ordinanza di non convalida del trattenimento del Tribunale di Roma: l’ulteriore rischio di sovrapposizione tra il giudice degli Ermellini e la Corte di giustizia in tema di Paesi sicuri
Con ricorso depositato il 21 ottobre 2024, il Ministero dell’Interno ha impugnato in Corte di Cassazione l’ordinanza di non convalida del provvedimento di trattenimento in Albania emessa dal Tribunale di Roma r.g. 42256[77].
Ai fini che ci riguardano interessa, in particolar modo, il primo motivo di ricorso con il quale si chiede alla Suprema Corte di cassare l’ordinanza per violazione e falsa applicazione, tra le altre,[78] della sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
Brevemente, secondo l’avvocatura di Stato, l’ordinanza di non convalida del trattenimento deve essere cassata per aver affermato un errato principio di diritto, secondo cui non può essere disposto il trattenimento del richiedente asilo proveniente da Paese di origine sicuro per il quale sono previste eccezioni per determinate categorie di persone. Segnatamente, «nella sentenza del 4 ottobre non vi è […] alcun riferimento alla possibilità degli Stati di precisare, nelle schede allegate ai decreti di designazione dei Paesi di origine sicura, informazioni aggiuntive relative ad alcune categorie di soggetti, rispetto alle quali sussistono criticità nel rispetto dei diritti, senza che questo implichi l’esistenza di eccezioni territoriali».
In tal guisa, di fatto, si chiede alla Corte di Cassazione di interpretare la sentenza della Corte di giustizia, nel senso di specificare se le motivazioni che fondano il principio affermato in risposta al secondo quesito pregiudiziale possano o meno applicarsi anche al caso in cui uno Stato membro designi un Paese di origine sicuro con esclusioni soggettive.
Per altro, su questa precisa questione, come precisato supra (par. 3), sono attualmente pendenti due rinvii pregiudiziali, nelle cause C-388/24 e C-389/24, proposti dal Tribunale di Firenze. Quest’ultimo, con ordinanze del 15 maggio 2024, chiedeva alla Corte di giustizia se gli artt. 36, 37 e 46 della direttiva procedure dovessero essere interpretati nel senso che ammettono la possibilità per uno Stato membro di designare un Paese come sicuro con l’esclusione di determinate categorie di persone. In subordine, qualora ciò sia possibile, all’autorità giurisdizionale si presentava un’ulteriore questione riguardante, invece, «se possa considerarsi inseribile nella lista dei Paesi sicuri uno Stato che abbia una così significativa, per qualità e quantità, presenza di categorie di persone a rischio di violazione dei diritti umani»[79].
È rilevante mettere in luce tale passaggio del ricorso in quanto rischia di rappresentare un’ulteriore potenziale sovrapposizione tra Cassazione e Corte di giustizia in materia di Paesi sicuri. Come già fatto notare altrove[80], la prima è già stata interpellata, il 1° luglio 2024, dal Tribunale di Roma, con rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., sulla possibilità o meno del giudice ordinario di valutare,
sulla base di informazioni sui Paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, «se il Paese incluso nell’elenco dei “Paesi di origine sicuri” sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia». Eppure, una questione simile, ma non identica, risultava esser già stata presentata alla Corte di giustizia con il terzo quesito pregiudiziale nella causa oggetto di commento; e, come si vedrà meglio subito infra, con la sentenza del 4 ottobre 2024, i giudici del Kirchberg, rispondendo al Tribunale di Brno, hanno ritenuto che l’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32/UE, letto alla luce dell’art. 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che il giudice, competente a pronunciarsi sul ricorso avverso la decisione assunta in prima istanza, debba esaminare la legittimità della designazione di un Paese come sicuro anche se tale illegittimità non è stata espressamente dedotta a sostegno del ricorso.
In attesa che la Corte di Cassazione si pronunci sul rinvio pregiudiziale presentato dal Tribunale di Roma e sul ricorso depositato dal Ministero dell’Interno avverso il decreto di non convalida del trattenimento dello stesso Tribunale, vale la pena rimarcare, anche in questa sede, l’importanza che la Corte tenga conto dei rinvii decisi e attualmente pendenti di fronte alla Corte di giustizia.
Precisamente, nel primo caso si auspica che la Cassazione risponda al rinvio pregiudiziale richiamando la pronuncia della Corte di giustizia, nella causa C-406/22, con specifico riferimento alla terza questione pregiudiziale o formulando lei stessa un rinvio pregiudiziale, per quanto sia discutibile – e discusso in dottrina[81] – che possa agire in tal senso all’interno della procedura ex art. 363 bis c.p.c. Per altro, si voglia notare che il rinvio che la Corte di Cassazione potrebbe formulare sarebbe di contenuto molto simile (se non uguale) a quello formulato dal Tribunale di Bologna con decisione assunta in camera di consiglio del 25 ottobre 2024[82].
Per quanto concerne, invece, la richiesta di pronuncia pervenuta con impugnazione dell’ordinanza di non convalida del trattenimento, ci si augura che il giudice degli Ermellini sospenda la decisione in attesa che la Corte di giustizia si pronunci sui rinvii pregiudiziali proposti dal Tribunale di Firenze (ai sensi dell’art. 99 di procedura o nel merito) o, in alternativa, proponga un rinvio pregiudiziale che, tuttavia, per contenuto non potrebbe che essere identico a quelli proposti dai giudici fiorentini.
Solo così potrà essere assicurata la piena salvaguardia dell’uniforme applicazione del diritto dell’Unione e del principio di certezza del diritto.
6. Sulla terza questione pregiudiziale
Con il terzo quesito pregiudiziale nella causa C-406/22 il giudice del rinvio chiede se l’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32[83], letto alla luce dell’art. 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che un giudice – quando è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti asilo provenienti da Paesi di origine sicuri – deve, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto art. 46, par. 3, rilevare una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione (ai sensi dell’Allegato I della direttiva) d’ufficio e, perciò, anche se tale violazione non è espressamente invocata a sostegno di detto ricorso.
La Corte illustra, anzitutto, il contenuto dell’art. 46 della direttiva, che riguarda il diritto ad un ricorso effettivo dei richiedenti protezione internazionale e ne stabilisce la portata, «precisando che gli Stati membri devono assicurare che il giudice dinanzi al quale è contestata la decisione relativa alla domanda di protezione internazionale proceda all’ “esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva [2011/95][84]”».
Successivamente, dopo aver puntualizzato che, così come l’art. 47 della Carta, anche l’art. 46, par. 3, della direttiva è dotato di effetto diretto[85], i giudici del Kirchberg definiscono la portata della locuzione ex nunc, dell’aggettivo “completo” e dell’espressione “se del caso”. I primi due mettono in evidenza l’obbligo del giudice di considerare sia gli elementi di cui l’autorità accertante ha tenuto o avrebbe dovuto tener conto sia quelli intervenuti, se del caso, dopo l’adozione della decisione oggetto dell’impugnazione[86].
L’espressione “se del caso”, invece, evidenzia il fatto che l’esame completo ed ex nunc a cui è tenuto il giudice «non deve necessariamente vertere sull’esame nel merito delle esigenze di protezione internazionale e che esso può dunque riguardare gli aspetti procedurali di una domanda di protezione internazionale»[87]. Tra gli aspetti procedurali che devono essere sottoposti all’esame completo ed ex nunc del giudice, per precisazione stessa della Corte, vi è quello relativo alla designazione di un Paese terzo come di origine sicuro, in quanto tale indicazione comporta ripercussioni sulla procedura di esame della domanda di protezione internazionale[88].
Così, il giudice investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale – esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da Paesi di origine sicuri – deve rilevare, anche d’ufficio, una violazione delle condizioni sostanziali della designazione del Paese come di origine sicura (enunciate all’Allegato I della direttiva)[89].
6.1 Ripercussioni nell’ordinamento italiano del dovere del giudice di sindacare, anche d’ufficio, le condizioni sostanziali per la designazione di un Paese come di origine sicuro
Quanto affermato dalla Corte di giustizia con riguardo al terzo quesito pregiudiziale si interseca, nell’ordinamento italiano, con quanto dichiarato dalla Corte di Cassazione, adita con rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c, con sentenza n. 11399, pubblicata il 9 aprile 2024[90]. I principi scaturenti da queste due pronunce implicano, invero, un dovere di valutazione del giudice sul rispetto dei presupposti della procedura accelerata, sia quando questo è chiamato a decidere sulla sospensione della decisione di rigetto della protezione internazionale adottata in prima istanza dalla Commissione territoriale, che quando deve decidere sulle convalide del provvedimento di trattenimento disposto dal Questore.
Precisamente, nel primo caso, l’autorità giurisdizionale sarà tenuta, a verificare il rispetto dei termini della procedura accelerata dato il principio affermato dalla Corte di Cassazione secondo cui «in caso di ricorso giurisdizionale avente ad oggetto il provvedimento di manifesta infondatezza emesso dalla Commissione Territoriale […] nei confronti di soggetto proveniente da Paese sicuro […] quando la procedura accelerata non sia stata rispettata nelle sue articolazioni procedimentali, si determina il ripristino della procedura ordinaria ed il riespandersi del principio generale di sospensione automatica del provvedimento della Commissione Territoriale»[91].
In entrambe le ipotesi, invece, il giudice, considerata la pronuncia della Corte di giustizia nella causa C-406/22, dovrà verificare il rispetto dei presupposti per l’inserimento di un Paese di origine sicuro nell’elenco nazionale.
Tale verifica richiede un esame ex nunc ovverosia «che tenga conto, se del caso, dei nuovi elementi intervenuti dopo l’adozione della decisione oggetto dell’impugnazione»[92]. Il giudizio riguardante la compatibilità della designazione di un Paese come sicuro con il diritto dell’Unione dovrà, quindi, essere attuale (non essendo sufficiente che il giudice accerti che una tale compatibilità sussistesse al momento di adozione della lista nazionale di Paesi sicuri); e qualora, l’indicazione nazionale di un Paese come sicuro violi una delle condizioni sostanziali enunciate all’Allegato I della direttiva procedure, il giudice dovrà rilevare, anche d’ufficio, siffatto contrasto.
Quanto sostenuto dalla Corte di giustizia in risposta al terzo quesito comporta, quindi, che il giudice ordinario che si trovi ad accertare un contrasto tra il diritto dell’Unione e la designazione di un Paese quale sicuro è tenuto a disapplicare (rectius non applicare)[93] l’atto nazionale di designazione nella parte in cui, per l’appunto, viola tale diritto. Un simile obbligo incombe sul giudice a prescindere dal tipo di atto nazionale con cui tale designazione è avvenuta.
In altre parole, anche se il governo italiano, di recente, ha approvato una nuova lista di Paesi di origine sicura con Decreto-legge (che abroga implicitamente il precedente decreto ministeriale), tale revisione non ha alcuna conseguenza sull’onere del giudice ordinario di disapplicare l’atto se contrastante con una disposizione di diritto dell’Unione dotata di effetto diretto.
La ragione politica[94] che sottende l’adozione di un Decreto-legge (in sostituzione del precedente decreto ministeriale), che modifica l’art. 2 bis, comma 1, del d.lgs. 25/2008 nel senso che oggi contiene una nuova lista di Paesi di origine[95], risiede nel fatto che, in tal modo, il giudice ordinario non potrà, invece, invocare l’istituto della “disapplicazione interna” dell’atto in questione, ai sensi dell’art. 5 dell’all. E della l. n. 2248/1865[96]. Questa disposizione, invero, fa riferimento al potere delle autorità giudiziarie, compreso il giudice ordinario, di disapplicare gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto non conformi alle leggi.
Effettivamente, è stato, in particolare, su tale base giuridica che, precedentemente la sentenza della Corte nella causa C-406/22, alcuni Tribunali ordinari avevano proceduto a disapplicare il decreto ministeriale Paesi sicuri[97]. Pur essendo, oggi, stato sottratto tale strumento della “disapplicazione interna” ai giudici ordinari, rimane in capo ad ad essi l’onere di “disapplicazione comunitaria” qualora l’atto di designazione – ovverosia l’art. 2 bis, comma 1, d. lgs. 25/2008 – si ponga in violazione di disposizioni del diritto dell’Unione dotate di efficacia diretta.
Infine, dal punto di vista del diritto Unione, la non applicazione dell’atto interno è un obbligo che riguarda tanto l’autorità giudiziaria quanto lo Stato. Risultano, perciò, vincolati dalla sentenza della Corte di giustizia non solo i giudici e il legislatore, ma anche l’amministrazione[98]. A fronte di una sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia così chiara in merito all’obbligo derivante dal diritto Unione, anche le autorità amministrative non dovrebbero applicare l’atto amministrativo (ora disposizione di decreto legislativo) con esso in contrasto. Incomberebbe, quindi, anche in capo alle Commissioni territoriali un onere di disapplicazione dell’art. 2 bis, comma 1, che indica la lista di Paesi di origine sicura allorquando questo si ponga in contrasto con disposizioni di diritto dell’Unione dotate di effetto diretto[99].
6.1.1 Il secondo quesito pregiudiziale del Tribunale di Bologna alla Corte di giustizia: i dubbi sul potere-dovere del giudice di disapplicare disposizioni nazionali che contrastino con il diritto dell’Unione
La lettura appena proposta, recentemente, è stata oggetto di rinvio pregiudiziale in Corte di giustizia da parte del Tribunale di Bologna. Specificamente, secondo il giudice a quo rimane aperta «la questione, implicitamente sollevata dalla decisione del Governo di procedere alla designazione con fonte di normazione primaria, se tale potere-dovere di disapplicazione sussista anche nei confronti di atti di tale natura»[100]. Così, ai giudici del Kirchberg si chiede se il principio del primato del diritto dell’Unione europea imponga di assumere che, in caso di contrasto tra le disposizioni della direttiva procedure in materia di presupposti dell’atto di designazione di un Paese come di origine sicura e le disposizioni nazionali, sussista sempre l’obbligo per il giudice nazionale di non applicare le seconde, in particolare se tale dovere di disapplicazione permanga anche nel caso in cui detta designazione venga operata con disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria.
Data «l’intima e ferma convinzione giuridica del Collegio» bolognese sull’efficacia diretta delle disposizioni della direttiva 2013/32/UE e del dovere del giudice, conseguentemente, di non applicare «qualsiasi disposizione nazionale» contrastante con quella di diritto dell’Unione,[101] e al di là della chiarezza della soluzione interpretativa, lo stesso ritiene comunque opportuno il rinvio visto il «gravissimo contrasto fra le diverse Autorità chiamate a interpretare e applicare il diritto dell’Unione»[102].
La sentenza della Corte di giustizia nella causa C-406/22, come si è cercato di illustrare nel presente contributo, ha infatti aperto una frattura evidente tra governo e magistratura[103]. In tal senso, la futura pronuncia dei giudici del Kirchberg oltre ad esser funzionale ad assicurare un’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione, permettendo di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di questo, simboleggia uno “scudo” agli attacchi subiti dalla magistratura italiana e ai danni conseguenti ai dissidi interpretativi relativi alla sentenza della Corte di cui si parla.
7. Considerazioni conclusive
La sentenza della Corte del 4 ottobre 2024 ha avuto un’importante eco nell’ordinamento italiano, anche alla luce del fatto che, pochi giorni dopo l’arrivo dei primi richiedenti asilo presso i centri in Albania[104], il Tribunale ordinario di Roma non convalidava il trattenimento delle persone ivi presenti per «insussistenza del presupposto necessario per la procedura di frontiera e per il trattenimento»[105]. Invero, i Paesi di origine dei trattenuti non potevano essere riconosciuti come sicuri in ragione dei principi affermati dalla Corte di giustizia, «tanto più che la stessa sottolinea il dovere del giudice di rilevare, anche d’ufficio, l’eventuale violazione […] delle condizioni sostanziali della qualificazione di Paese sicuro enunciate nell’allegato I della direttiva 2013/32»[106]. L’Egitto e il Bangladesh, Paesi di cui hanno nazionalità i richiedenti asilo destinatari dei provvedimenti di trattenimento nei centri in Albania, infatti, erano definiti dalle Schede Paese allegate al D.M. Paesi di origine sicura con eccezioni per alcune categorie di persone.
Tuttavia, i risvolti positivi che la pronuncia della Corte di giustizia sta avendo in termini di libertà personale dei richiedenti asilo e accesso ad una procedura ordinaria di esame delle loro domande di protezione internazionale, avrà breve durata. Per l’appunto, come sostenuto dal Ministro dell’Interno nella conferenza stampa di cui si accennava in apertura, il regolamento 1348/2024 – che troverà applicazione a partire dal 12 giugno 2026 – prevede una nuova ipotesi all’avverarsi della quale i richiedenti asilo saranno destinatari di una procedura accelerata di asilo alla frontiera. Segnatamente, tale procedura si applicherà ai richiedenti cittadini di un Paese terzo per il quale la percentuale di decisioni favorevoli (ovverosia di riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria) da parte dell’autorità accertante è, stando agli ultimi dati medi annuali Eurostat, pari o inferiore al 20 %[107].
Se si considera che molti Paesi di origine sicuri inclusi nelle liste nazionali includono Stati i cui cittadini, richiedenti protezione internazionale negli Stati membri, hanno un tasso di riconoscimento pari o inferiore al 20%[108], ciò, di fatto, permetterà di aggirare i principi enunciati dalla Corte che avrebbero comunque potuto trovare concretizzazione anche in vista del nuovo regolamento procedure.
Più in generale, gli strumenti adottati con il Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo confermano una progressiva erosione del diritto ad un ricorso effettivo, così come tutelato dall’art. 47 della Carta e riaffermato con la sentenza di cui si discute.
Guardando al solo regolamento procedure, per esempio, ai sensi dell’art. 67, par. 7, sia nell’ipotesi in cui il richiedente asilo provenga da Paese di origine sicuro che nel caso appena supra menzionato, gli Stati membri dovranno prevedere un termine di impugnazione della decisione da un minimo di cinque giorni a un massimo di dieci giorni. Ciò, combinato al confinamento geografico delle persone sottoposte a procedura di frontiera, limiterà enormemente il diritto ad un ricorso effettivo.
Ancor più, la prestazione di assistenza e rappresentanza legali e gratuite nella procedura d’impugnazione, parte integrante e fondamentale del diritto ad un ricorso effettivo, potrà esser esclusa dagli Stati membri «se si ritiene che il ricorso non abbia prospettive concrete di successo o sia abusivo e/o se il ricorso o il riesame sono inquadrati dal diritto nazionale nel secondo grado d’impugnazione o in grado più elevato, compresi i riesami ulteriori delle cause o i giudizi d’appello»[109].
Tutto ciò, sommato a quanto illustrato nel contributo relativamente al conflitto istituzionale in corso e alle novità introdotte dal nuovo regolamento procedure in materia di Paesi di origine sicura, comporterà (rectius comporta) un grave arretramento dei diritti fondamentali delle persone migranti e, data l’erosione del diritto ad un ricorso effettivo, un sempre più ristretto margine di intervento delle giurisdizioni nazionali e dell’Unione europea.
[1] Il presente articolo è stato scritto nell'ambito delle attività del progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN 2022) Community Sponsorship for Migration and Refugees in Europe – CoSME (www.cosmeproject.eu), finanziato dall'Unione Europea – Next Generation EU.
[2] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, CV v Ministerstvo vnitra České republiky, Odbor azylové a migrační politiky, ECLI:EU:C:2024:841.
[3] Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (rifusione), in GUUE L 180, 29.6.2013, p. 60 ss.
[4] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, GU C 202 del 7.6.2016, p. 389 ss.
[5] Articoli 36, 36 e Allegato I direttiva 2013/32/UE.
[6] Tribunale di Palermo, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 10/10/2024, R.G. n. 11974/2024; Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 18/10/2024, R.G. n.42256/2024 e Decreto del 18/10/2024, R.G. 42251/2024.
[7] Tribulane di Catania, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 17/10/2024, R.G. anonimizzato.
[8] Decreto 7 maggio 2024 del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Aggiornamento della lista dei Paesi di origine sicuri prevista dall'articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, in GURI n. 105, 07.05.2024.
[9] A. NATALE, F. FILICE, Nota ai provvedimenti di rigetto delle richieste di convalida dei trattenimenti disposti dalla Questura di Roma ai sensi del Protocollo Italia-Albania, emessi dal Tribunale di Roma, sezione specializzata nella protezione internazionale, il 18 ottobre 2024, in Questione Giustizia, 22.10.2024.
[10] Il decreto-legge 23 ottobre 2024 n. 158, Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, in GU n. 249 del 23.10.2024, all’art. 1 dispone: «All’articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono apportate le seguenti modificazioni: a) il comma 1 è sostituito dal seguente: “1. In applicazione dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti, sono considerati Paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia”». Al contrario, il precedente art. 2-bis, comma 1, del d. lgs. 25/2008 prevedeva che «con decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell'interno e della giustizia, è adottato l'elenco dei Paesi di origine sicuri sulla base dei criteri di cui al comma 2. L'elenco dei Paesi di origine sicuri è aggiornato periodicamente ed è notificato alla Commissione europea».
[11] Conferenza stampa del Consiglio dei Ministri n. 101 disponibile in: https://www.youtube.com/watch?v=lQeM_Zo0W8A.
[12] Ibid.
[13] Art. 79, par. 2, regolamento (UE) 2024/1348 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2024, che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell'Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE, in GUUE L 1348, 22.5.2024.
[14] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punti 30- 43.
[15] Zákon č. 325/1999 Sb. o azylu, Legge n. 325/1999 sull’asilo.
[16] Ivi, art. 32, par. 2.
[17] Il criterio per la designazione di un Paese come sicuro di cui all’allegato I, lettera b) della direttiva procedure richiede che il Paese in questione offra protezione da persecuzioni e maltrattamenti mediante «il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea».
[18] Art. 31, par. 8, lett. b), direttiva 2013/32/UE: «Gli Stati membri possono prevedere che una procedura d’esame sia accelerata e/o svolta alla frontiera o in zone di transito a norma dell’articolo 43 se: […] b) il richiedente proviene da un Paese di origine sicuro a norma della presente direttiva»
[19] Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, ordinanze di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE nei procedimenti iscritti al n. r.g. 3303/2024 (disponibile in: https://www.diritticomparati.it/wp-content/uploads/2024/07/rinvio-pregiudiziale-costa-d-avorio.pdf) e al n. r.g. n. 2458/2024; le cause sono state registrate con numero di causa C-388/24 Oguta e C-389/24 Daloa. In dottrina F. VENTURI, Italy ‘Safe Countries of Origin’ Legislation Under Cjeu Scrutiny: Challenging the (Un)Safety, in Diritti Comparati, 2024.
[20] Ai richiedenti protezione internazionale provenienti di Paesi di origine sicura si applica una procedura accelerata si sensi dell’art. 28 bis, comma 2, lett. c) d. lgs. 25/2008 (Decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, GU n.40 del 16-02-2008) e art. 31, par. 8 direttiva 2013/32/UE.
[21] L’art. 2 bis, comma 2, del d. lgs. 25/2008 è stato modificato dall’art. 1 del Decreto-legge n.158/2024 il quale dispone che «all’art. 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono apportate le seguenti modificazioni: (…) b) al comma 2, al secondo periodo, le parole “di parti del territorio o” sono soppresse».
[22] Art. 1 decreto 17 marzo 2023 del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Aggiornamento periodico della lista dei Paesi di origine sicuri per i richiedenti protezione internazionale, in GURI n. 72, 25.03.2023.
[23] Trib. Firenze, n. 2458/2024, cit., pp. 17, 18.
[24] L’appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (disponibile in: https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/accesso-civico-asgi-le-schede-dei-paesi-di-origine-sicuri/) ritiene che la Repubblica della Costa d’Avorio possa essere considerata un Paese di origine sicuro ma indica i seguenti gruppi sociali a rischio: detenuti, persone con disabilità fisiche o mentali, albini, sieropositivi, comunità LGBT, vittime di discriminazione sulla base dell’appartenenza di genere, vittime di tratta e giornalisti.
[25] Secondo il Tribunale (Trib. Firenze, n. 3303/2024, cit., p. 13, 14) «tali categorie sono infatti inserite nella scheda ministeriale sotto la seguente voce: “Eventuali eccezioni per parti del territorio o per categorie di persone”. Del resto, va considerato che l’art. 2-bis, comma 2 d. lgs. 25/2008, in forza del quale il decreto Ministeriale è stato emanato, prevede espressamente che “La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l'eccezione di parti del territorio o di categorie di persone” […] Un diverso risultato interpretativo, […], renderebbe il predetto decreto illegittimo per contraddittorietà tra atti, stante il contrasto con le valutazioni formulate all’esito dell’istruttoria, nonché per violazione di legge, non risultando i criteri di qualificazione posti dalla Direttiva Procedure certamente rispettati per le categorie che la stessa autorità amministrativa ha ritenuto a rischio. […]». Di diverso avviso M. GATTUSO il quale riporta: «[…] la mancata previsione di clausole di esclusione nei decreti interministeriali italiani, esclude che il giudice italiano possa proporre un ulteriore rinvio pregiudiziale, in particolare in relazione alla legittimità della previsione di clausole di esclusione per gruppi etnici, categorie, profili», si veda: M. GATTUSO, Tre domande sui Paesi sicuri, in Questione Giustizia, 22.09.2023.
[26] Al contrario del regolamento procedure del 2024 (già approvato, la cui entrata in vigore è posticipata a partire dal 12 giugno 2026) e della precedente direttiva procedure del 2005, l’attuale direttiva procedure del 2013, non consente esplicitamente la possibilità di designare un Paese come sicuro limitatamente a porzioni di territorio o con riferimento a gruppi particolari. Si vedano: art. 61, par. 2 e par. 5, lett. b), regolamento (UE) 2024/1348 e art. 30, par. 1 e par. 3 della direttiva 2005/85/CE, del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, in GUUE L 326, 13.12.2005, p. 13 ss.
[27] Trib. Firenze, n. 3303/2024, cit., p. 14.
[28] Si veda meglio infra par. 5.2 e Trib. di Bologna, primo quesito del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE ai sensi dell’art. 267 TFUE nella causa civile iscritta al n. r.g. 14572/202, depositato il 29 ottobre 2024.
[29] Allegato I direttiva 2013/32/UE.
[30] Precisamente, per la definizione di “persecuzione” si rimanda all’art. 9 della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (rifusione). Per la definizione di danno grave si richiama, invece, l’art. 15 della direttiva 2011/95/UE.
[31] Ivi, art. 61, par. 4 e Allegato I direttiva 2013/32/UE.
[32] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 57.
[33] Ivi, punti 58 e 62.
[34] Ivi, punto 59.
[35] Considerando 81 regolamento (UE) 2024/1348.
[36] Art. 60 e 62 regolamento (UE) 2024/1348.
[37] Art. 64 regolamento (UE) 2024/1348.
[38] Si confronti l’attuale art. 37, par. 2 della direttiva 2013/32/UE con gli art. 61, art. 62, par. 2 regolamento (UE) 2024/1348: «La Commissione riesamina la situazione nei paesi terzi designati paesi di origine sicuri, assistita dall'Agenzia per l'asilo e sulla base delle altre fonti d'informazione di cui all'articolo 61, paragrafo 3»; si voglia notare come la proposta di Regolamento avanzata nel 2016 (COM/2016/0467 final), invece, prevedeva che la Commissione riesaminasse «periodicamente la situazione nei paesi terzi annoverati nell'elenco comune dell'UE di paesi di origine sicuri, assistita dall'Agenzia dell'Unione europea per l'asilo (…)». Si veda anche art. 64 regolamento (UE) 2024/1348.
[39] Art. 63, par. 2, Regolamento (UE) 2024/1348, cit.
[40] C. CUDIA, Sindacabilità e disapplicazione del decreto ministeriale di individuazione dei “Paesi di origine sicuri” nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale: osservazioni su una attività del giudice ordinario costituzionalmente necessaria, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2024, p. 7.
[41] Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, 20 settembre 2023, n. 9787/2023 (disponibile in: https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/allegati/fascicolo-n-3-2023/asilo-1/processuali/1317-13-trib-firenze-1732023/file); Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, 26 ottobre 2023, n. 11464-1/2023; Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, 26 ottobre 2023, n. 3773/2023 (disponibile in: https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/allegati/fascicolo-n-1-2024/asilo-2/questioniprocessuali/1365-7-trib-firenze-26102023/file); Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, 26 ottobre 2023, n. 4988-1/2022.
[42] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 83.
[43] Ivi, punto 66.
[44] Ivi, punto 69.
[45] Ivi, punto 68.
[46] Con riferimento all’accelerazione della procedura e alle relative conseguenze si rimanda a J. HAMBLY, N. GILL, Law and Speed: Asylum Appeals and the Techniques and Consequences of Legal Quickening, in Journal of Law and Society, 2020, pp. 3-28.
[47] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 70.
[48] Ivi, punto 71.
[49] Art. 30, par. 1e par. 3 della direttiva 2005/85/CE. N. GIEROWSKA, Why does no common European list on Safe Country of Origin exist despite numerous efforts aimed at the harmonisation of the European asylum policy? in Journal of International Migration and Integration, 2022, 23, p. 2035
[50] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 75: «(…) COM (2009) 554 definitivo, pag. 60], in cui tale facoltà, nella maggior parte delle versioni linguistiche, è stata esplicitamente espressamente barrata e, nelle altre versioni, eliminata».
[51] Ivi, punto 76.
[52] Considerando 20, direttiva 2013/32/UE.
[53] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 81.
[54] Art. 30, par. 1 e par. 3 della Direttiva 2005/85/CE. N. GIEROWSKA, Why does no common European list on Safe Country of Origin exist despite numerous efforts aimed at the harmonisation of the European asylum policy? in Journal of International Migration and Integration, 2022, 23, 2035.
[55] Art. 61, par. 2 regolamento (UE) 2024/1348.
[56] Precisamente, l’Allegato I della direttiva 2013/32/UE, cit., prevede che: «Un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. (…)».
[57] Art. 61, par. 1 regolamento (UE) 2024/1348: «Un paese terzo può essere designato paese di origine sicuro a norma del presente regolamento soltanto se, sulla base della situazione giuridica, dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono persecuzioni quali definite all'articolo 9 del regolamento (UE) 2024/1347, né alcun rischio reale di danno grave quale definito all'articolo 15 di tale regolamento».
[58] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punti 67-69.
[59] Ivi, punti 79-82.
[60] Ivi, punto 82.
[61] Ivi, punto 83.
[62] R. ADAM, A. TIZZANO, Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino, 2019, p. 352.
[63] La nuova lista di Paesi sicuri – ora prevista dallo stesso art. 2 bis, comma 1, del d. lgs. 25/2008 – per tale ragione non comprende più il Camerun, la Colombia e la Nigeria. Si veda decreto-legge 23 ottobre 2024, n. 158: «Il Presidente della Repubblica (…) considerata la straordinaria necessità ed urgenza di designare i Paesi di origine sicuri, tenendo conto della sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, del 4 ottobre 2024 (causa C-406/22), escludendo i Paesi che non soddisfano le condizioni per determinate parti del loro territorio (Camerun, Colombia e Nigeria) (…) emana il seguente decreto legge (…)».
[64] Art. 99 Regolamento di procedura della Corte di giustizia, GU L 265 del 29.9.2012, p. 1 ss. Potrebbe anche essere il caso di un’ordinanza adottata, formalmente, in forza dell’art. 100 del Regolamento di procedura – che prende atto dell’avvenuto ritiro del rinvio- ma che, in realtà, costituisce un ritiro “indotto”, poiché implicitamente suggerito dalla stessa Corte di giustizia tramite l’invio al giudice a quo di una propria precedente pronuncia già capace di scioglie il dubbio interpretativo. Sul punto: J. ALBERTI, I rinvii pregiudiziali italiani dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona al 31.12.2022: uno studio sulla prassi e sulle prospettive del dialogo tra giudici italiani e giudici dell’Unione, in dUE, 1/2023, p. 169 ss.
[65] Se, poi, il governo italiano è intervenuto in giudizio sarà ancor più difficile che la Corte si pronuncia con ordinanza. Sul punto si veda: J. ALBERTI, op. cit., in dUE, 1/2023, p. 170.
[66] Tribunale di Palermo, Decreto del 10/10/2024, R.G. n. 11974/2024, cit.; Tribunale di Roma, Decreto del 18/10/2024, R.G. n.42256/2024, cit. e Decreto del 18/10/2024, R.G. 42251/2024, cit.
[67] Tribunale di Palermo, Decreto del 10/10/2024, R.G. n. 11974/2024, cit.
[68] Ovverosia che il mancato rispetto dei criteri previsti dalla direttiva procedure per la designazione di un Paese di origine sicura, implicando anche gli aspetti procedurali della domanda, deve essere oggetto di un esame completo ed ex nunc da parte del giudice, che vi deve provvedere anche d’ufficio (punti 90 e 91 in particolare).
[69] Richiesta di sospensiva formulata ai sensi dell’art. 35 bis del d. lgs. 25/2008.
[70] Si rimanda a quanto previsto dall’art. 28-bis, comma 2, lett. c) del d. lgs 25/2008.
[71] Art. 28 bis, comma 2, lett. c) e art. 35 bis, co. 3 lett. d) d. lgs. 25/2008.
[72] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 98 sent.
[73] Il decreto-legge n. 158/2024 ha sostituito il comma 1 dell’art. 2 bis d. lgs. 25/2008 con il seguente: «1. In applicazione dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti, sono considerati Paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Peru', Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.»
Precedentemente a tale modifica, a proposito dell’indicazione di un Paese sicuro con esclusione territoriali e/o soggettive, mentre il D.M. del 7 maggio 2024 genericamente designava i Paesi di origine sicura e specificava che la situazione del richiedente doveva essere valutata alla luce delle informazioni contenute nelle Schede Paese[73], quest’ultime rimandavano ad esclusioni soggettive e territoriali per determinati Paesi (si vedano, ad esempio, Schede Paese disponibili in: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2024/06/Appunto-56895-I-06.05.2024.pdf). Benché siffatte eccezioni non siano espressamente indicate nel D.M. ma solo nelle Schede Paese, secondo il Collegio di Firenze per queste categorie di persone non opera la presunzione di sicurezza. Invero, secondo il Tribunale (Trib. Firenze, n. 3303/2024, cit., p. 13, 14) «tali categorie [di persone] sono infatti inserite nella scheda ministeriale sotto la seguente voce: “Eventuali eccezioni per parti del territorio o per categorie di persone”. Del resto, va considerato che l’art. 2-bis, comma 2 d. lgs. 25/2008, in forza del quale il decreto Ministeriale è stato emanato, prevede espressamente che “La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l'eccezione di parti del territorio o di categorie di persone” […] Un diverso risultato interpretativo, […], renderebbe il predetto decreto illegittimo per contraddittorietà tra atti, stante il contrasto con le valutazioni formulate all’esito dell’istruttoria, nonché per violazione di legge, non risultando i criteri di qualificazione posti dalla Direttiva Procedure certamente rispettati per le categorie che la stessa autorità amministrativa ha ritenuto a rischio. […]».
Di diverso avviso M. GATTUSO il quale riporta: «[…] la mancata previsione di clausole di esclusione nei decreti interministeriali italiani, esclude che il giudice italiano possa proporre un ulteriore rinvio pregiudiziale, in particolare in relazione alla legittimità della previsione di clausole di esclusione per gruppi etnici, categorie, profili», si veda: M. GATTUSO, Tre domande sui Paesi sicuri, in Questione Giustizia, 22.09.2023. Secondo questo punto di vista, seppur vero che i provvedimenti amministrativi debbono essere interpretati anche alla luce dei provvedimenti interinali e degli atti istruttori (nel caso di specie, le Schede Paese) tuttavia, l’interpretazione dell’atto amministrativo alla luce dell’atto istruttorio deve esser fatta solo se il provvedimento amministrativo, nel caso di specie, è ambiguo – caratteristica che non contraddistingue il D.M. Paesi sicuri.
[74] Trib. ordinario di Bologna, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE ai sensi dell’art. 267 TFUE, nella causa civile iscritta al n. r. g. 14572/2024, depositato il 29 ottobre 2024.
[75] Ibid.
[76] Quali persone LGBTIQA+, minoranze sociali, etniche, religiose, donne esposte a violenza di genere o rischio di tratta.
[77] Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 18/10/2024, R.G. n.42256/2024.
[78] Cont. 34720/24, Corte di Cassazione, ricorso: «1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 4, legge n. 14/2024, degli art. 2 bis e 28 bis, d.lgs. 25/2008 e degli artt. 31 par. 8, 37 e 43, direttiva 2013/32/UE e della sentenza 4 ottobre 2024 causa C-406/22 della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
[79] Trib. Firenze, n. 3303/2024, cit., p. 14.
[80] Sia permesso rimandare a M. COMETTI, Rinvio pregiudiziale in Cassazione e in Corte di giustizia e disapplicazione di un atto amministrativo contrario al diritto UE. Il caso del d.m. paesi di origine sicura, in Rivista contenzioso europeo, 3/2024.
[81] J. ALBERTI, I rinvii pregiudiziali italiani dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona al 31.12.2022: uno studio sulla prassi e sulle prospettive del dialogo tra giudici italiani e giudici dell’Unione, in J. ALBERTI, G. DE CRISTOFARO (a cura di), cit., p. 133, 134.
[82] Trib. ordinario di Bologna, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE ai sensi dell’art. 267 TFUE, nella causa civile iscritta al n. r. g. 14572/2024, depositato il 29 ottobre 2024.
[83] Art. 46, par. 3, direttiva 2013/32/UE: «Per conformarsi al paragrafo 1 gli Stati membri assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE, quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado».
[84] Riferimenti direttiva 2011/95.
[85] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 86: «Occorre, inoltre, ricordare che dalla giurisprudenza della Corte risulta che le caratteristiche del ricorso previsto all’articolo 46 della direttiva 2013/32 devono essere determinate conformemente all’articolo47 della Carta, che costituisce una riaffermazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva. Ebbene, l’articolo 47 della Carta è sufficiente di per sé e non deve essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile. La conclusione non può, pertanto, essere diversa con riguardo all’articolo 46, paragrafo3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta in quanto tale (v., in tal senso, sentenza del 29 Torubarov, C‑556/17, luglio 2019, EU:C:2019:626, punti 55 e 56, nonché giurisprudenza ivi citata)».
[86] Ivi, punti 88, 89.
[87] Ivi, punto 90.
[88] Ivi, punto 91.
[89] Ivi, punto 98.
[90] Corte di Cassazione, sentenza n. 11399, pubblicata il 9 aprile 2024. U. CASTAGNINI, M. STURIALE, Procedure accelerate e mancato rispetto dei termini: intervengono le Sezioni Unite, in Questione Giustizia, 21.05.2024.
[91] Ibid.
[92] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punti 87, 88.
[93] Come fatto notare da C. AMALFITANO, M. CONDINANZI, Unione europea: fonti, adattamento e rapporti tra ordinamenti, Torino, 2015, p. 139 è stata la Corte costituzionale (Corte cost., 18 aprile 1991, n. 168, in Giur. cost., 1991, I, p. 1409 ss.) «ad abbandonare l’espressione “disapplicazione” del diritto interno contrastante, che “evoca vizi della norma in realtà non sussistenti in ragione proprio della autonomia dei due ordinamenti”, per descrivere piuttosto il fenomeno in termini di “non applicazione” della norma nazionale, che resta, appunto, irrilevante nel caso di specie, ma non per questo invalidata con effetto erga omnes». Gli stessi autori, in nota a pie di pagina n. 44, precisano come, tuttavia, nel linguaggio comune di dottrina e giurisprudenza sia «assai più diffusa l’espressione “disapplicazione”» e che la stessa Consulta ha nuovamente impiegato quest’ultimo termine in pronunce più recenti.
[94] Si rimanda a quanto sostenuto dal Ministro della Giustizia in sede di conferenza stampa del 21 ottobre (supra cit.): «(…) la disapplicazione dell’atto amministrativo, cioè di una norma secondaria, risale (…) al 1865. È la legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo, per cui il giudice può disapplicare un atto amministrativo quando lo ritenga illegittimo, lo può fare incidenter tantum però, senza abrogarlo, semplicemente non lo applica. Questo non vale per la fonte primaria: nel momento in cui l’elenco dei Paesi sicuri è inserito in una legge, il giudice non può disapplicare la legge. (…) il giudice, se ritiene che la legge sia incostituzionale, può fare ricorso alla Corte; quindi, tenderei ad escludere che possa disapplicarla a maggior ragione perché (…) questa sentenza della Corte di giustizia non è una direttiva e nemmeno vincolante in via generale e astratta perché mette dei paletti estremamente rigorosi rispetto al caso concreto che è un caso, tra l’altro, estremamente bizzarro (…)».
[95] Art. 2 bis, comma 1, d. lgs. 25/2008: «In applicazione dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti, sono considerati Paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia».
[96] Sulla necessaria distinzione tra l’istituto della disapplicazione “interna” e “comunitaria” sia permesso rimandare a M. COMETTI, cit., in Rivista contenzioso europeo, 3/2024, p. 163 ss.; su disapplicazione “interna” si veda: C. CUDIA, Sindacabilità e disapplicazione del decreto ministeriale di individuazione dei “Paesi di origine sicuri”, cit., p. 16 e ss.; A. D. DE SANTIS, Sulla disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice civile. Il “caso” del c.d. Decreto Paesi sicuri, in Questione giustizia, 2024.
[97] Trib. Firenze, 20 settembre 2023, n. 9787/2023, cit.; Trib. Firenze, 26 ottobre 2023, n. 11464-1/2023, cit.; Trib. Firenze, 26 ottobre 2023, n. 3773/2023, cit.; Trib. Firenze, 26 ottobre 2023, n. 4988-1/2022, cit.
[98] Si rimanda alla sentenza della Corte di giust., 20 aprile 2023, causa C-348/22, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato c. Comune di Ginosa, ECLI:EU:C:2023:301.
[99] Sulla verifica che il giudice deve operare, nel caso di specie, circa la possibilità di procedere disapplicando il diritto nazionale contrastante con il diritto dell’Unione dotato di effetto diretto sia permesso rimandare a M. COMETTI, cit., in Rivista contenzioso europeo, 3/2024, p. 168 ss. Dopo la sentenza della Corte di giustizia nella causa C-406/22 non rimangono margini di dubbio sull’effetto diretto delle disposizioni della direttiva 2013/32/UE in materia di condizioni per la designazione di un Paese terzo come Paese sicuro.
[100] Trib. ordinario di Bologna, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE ai sensi dell’art. 267 TFUE, nella causa civile iscritta al n. r. g. 14572/2024, depositato il 29 ottobre 2024, punto 4.3, p. 22.
[101] Ivi, p. 23 ove il Tribunale rinvia alla consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia sul punto.
[102] Ivi, p. 24.
[103] Tale frattura si è concretizzata anche in attacchi personali rivolti ad alcune giudici: una delle magistrate che ha firmato i provvedimenti di non convalida dei trattenimenti (supra par. 5.2) ha ricevuto diversi messaggi contenenti minacce di morte; si veda: Associazione nazionale magistrati, comunicato stampa del 26 ottobre 2024, in: https://www.associazionemagistrati.it/doc/4436/solidariet-a-silvia-albano.htm; inoltre, il Giornale, con un articolo del 23 ottobre 2024, ha insinuato (si veda lettera inviata dalla giudice al Giornale e pubblicata nella stessa pagina web di cui sotto) che dietro la sentenza della Corte di giustizia nella causa C-406/22 ci fosse «una manina italiana (…) una sorta di canto del cigno visto che quella sentenza presa a riferimento appena 12 giorni dopo (siamo quasi alla telepatia) dalla sezione immigrazione del Tribunale di Roma di cui fa parte anche la presidente di magistratura democratica (la corrente di sinistra delle toghe), Silvia Albano, ha fatto scoppiare in Italia una mezza tempesta e ha riacceso nuovamente lo scontro tra Potere Politico e Giudiziario», in: https://www.ilgiornale.it/news/politica/manina-corte-giustizia-2385292.html.
[104] Il Protocollo Italia-Albania prevede la concessione da parte dell’Albania di due aree demaniali per la realizzazione di tre strutture sotto la giurisdizione italiana nell’area portuale di Shëngjin e nella città di Gjadër. Si tratta di un centro per le procedure di screening a Shengjin e due centri a Gjadër: uno per l’esame delle domande di protezione internazionale, con una capacità massima di 880 persone e l’altro, con 144 posti, per le procedure di espulsione; si veda: Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, ratificato e reso esecutivo con la l. 21 febbraio 2024, n. 14. In dottrina, ex multis, E. CELORIA, A. DE LEO, Il Protocollo Italia-Albania e il diritto dell’Unione europea: una relazione complicata, in Diritto, Immigrazione, Cittadinanza, n. 1/2024; S. CARRERA, G. CAMPESI, D. COLOMBI, The 2023 Italy-Albania Protocol on extraterritorial migration management. A worst practice in migration and asylum policies, in CEPS, 7 dicembre 2023, https://www.ceps.eu/ceps-publications/the-2023-italy-albania-protocol-on-extraterritorial-migration-management/; A. DE LEO, On the incompatibility of the Italy-Albania Protocol with the EU Asylum Law, in SIDIBlog, 15 novembre 2023; M. SAVINO, V. VIRZI, Il protocollo tra Italia e Albania in materia migratoria: prime riflessioni sui profili dell’extraterritorialità, in ADIM Blog, Editoriale, Novembre 2023; A. SPAGNOLO, Sull’illegittimità del protocollo Italia-Albania in materia migratoria, in SidiBlog, 9 novembre 2023.
[105] Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 18/10/2024, R.G. n.42256/2024 e Decreto del 18/10/2024, R.G. 42251/2024.
[106] Ibid.
[107] Art. 42, par. 1, lett. j) letto in combinato disposto con l’art. 45, par. 1 del regolamento 2024/1348. Al richiedente, invece, non sarà applicata una procedura di frontiera accelerata se «l’autorità accertante valuti che la situazione nel paese terzo ha registrato un cambiamento significativo dalla pubblicazione dei pertinenti dati Eurostat ovvero [se] il richiedente appartiene a una categoria di persone le cui esigenze di protezione impediscono di considerare rappresentativa una percentuale di riconoscimento pari o inferiore al 20 %, tenendo conto, tra l'altro, delle differenze significative tra decisioni di primo grado e decisioni definitive» (art. 42, par. 1, lett. j).
[108] Ad esempio, incrociando dati forniti dall’EUAA relativi all’anno 2023 (https://euaa.europa.eu/sites/default/files/publications/2024-06/2024_Asylum_Report_EN.pdf, p. 314) con la lista Paesi di origine sicura adottata con Decreto-legge n. 158/2024 i tassi di riconoscimento della protezione internazionale in prima istanza risultano essere i seguenti: Albania 7%; Algeria 9%; Bangladesh 5%; Egitto 7%; Georgia 4%; Serbia 1%; Perù 5%; Marocco 5%; Macedonia del Nord 0%; Costa d’Avorio 29%. L’EUAA non fornisce statistiche per: Bosnia-Erzegovina; Capo Verde; Gambia; Ghana; Kosovo; Montenegro; Senegal; Sri Lanka e Tunisia.
[109] Articolo 17, comma 2, regolamento 2024/1348.
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro e Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi, Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri.
La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, secondo una prospettiva “interna” e di diritto dell’Unione Europea[1]
di Marcella Cometti
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Procedimento principale e quesiti pregiudiziali. – 3. La parziale sovrapposizione tra il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Brno e i rinvii pregiudiziali del Tribunale di Firenze. – 4. Sulla prima questione pregiudiziale. – 4.1 La risposta della Corte in prospettiva: il nuovo regolamento procedure e il riesame periodico della sicurezza del Paese di origine. – 5. Sulla seconda questione. – 5.1 La risposta della Corte in prospettiva: il nuovo regolamento procedure e la possibilità di designare un Paese come sicuro con eccezioni per parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili. – 5.2 Ripercussioni nell’ordinamento italiano della risposta della Corte al secondo quesito pregiudiziale ed estensione delle motivazioni della sentenza al caso in cui la designazione avvenga con esclusione di determinate categorie di persone. –5.2.1 L’impugnazione in Cassazione dell’ordinanza di non convalida del trattenimento del Tribunale di Roma: l’ulteriore rischio di sovrapposizione tra il giudice degli Ermellini e la Corte di giustizia in tema di Paesi sicuri. – 6. Sulla terza questione pregiudiziale. – 6.1 Ripercussioni nell’ordinamento italiano del dovere del giudice di sindacare, anche d’ufficio, le condizioni sostanziali per la designazione di un Paese come di origine sicuro. – 6.1.1 Il secondo quesito pregiudiziale del Tribunale di Bologna alla Corte di giustizia: i dubbi sul potere-dovere del giudice di disapplicare disposizioni nazionali che contrastino con il diritto dell’Unione – 7. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Il presente contributo intende offrire un’analisi della sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, del 4 ottobre 2024, nella causa C-406/22[2], emessa a seguito di un rinvio pregiudiziale presentato dal Tribunale regionale di Brno (Repubblica Ceca). La pronuncia riguarda l’interpretazione dell’art. 46, par. 3, della direttiva procedure[3], letto in combinato disposto con l’art. 47 della Carta[4], e di alcune disposizioni della stessa direttiva riguardanti il concetto di Paese di origine sicuro e la designazione nazionale dei Paesi di origine sicura[5].
Nelle pagine che seguono, la decisione della Corte verrà osservata sia da una prospettiva “interna” che da una di diritto dell’Unione europea.
Quanto alla prima, a fronte delle importanti (e immediate) ripercussioni, politiche e giuridiche, che la pronuncia della Corte sta avendo nell’ordinamento italiano, lo scritto vuole offrire una panoramica di come le questioni affrontate nella causa C-406/22 abbiano impattato l’attuale sistema nazionale. Pochi giorni dopo l’adozione della sentenza del 4 ottobre, infatti, alcuni Tribunali, preso atto della stessa, sia in fase di convalida del trattenimento di richiedenti asilo provenienti da Paesi di origine sicura[6] che trovandosi a decidere sulla sospensione di provvedimenti di rigetto delle domande di asilo presentate da richiedenti cittadini degli stessi Paesi[7], procedevano a disapplicare il D.M. del 7 maggio 2024 di aggiornamento della lista di Paesi di origine sicura per contrarietà con la normativa dell’Unione, così come interpretata dalla Corte[8].
A fronte di tali decisioni, in particolare di quella del Tribunale di Roma avente ad oggetto la mancata convalida del trattenimento di richiedenti asilo presso i centri di detenzione in Albania[9], il governo italiano, il 23 ottobre 2024, pubblicava un Decreto-legge il cui art. 1, sostituendo il testo dell’art. 2 bis, co 1, d. lgs. 25/2008, di fatto abrogava implicitamente il D.M. Paesi sicuri[10]. Per ammissione dello stesso Ministro per la Giustizia, la necessità di approvare tale Decreto-legge «nasce[va] da una sentenza della Corte di giustizia che è molto complessa e articolata e che molto probabilmente […] non è stata […] ben compresa o bene letta»[11]. Per altro, sempre nel contesto della medesima conferenza stampa del Consiglio dei ministri, il Ministro degli Interni sosteneva che tale Decreto-legge intende «anticipare, come dice la stessa Corte europea di giustizia, l’entrata in vigore di un sistema [...]. [Infatti] dal 2026 giugno entra in vigore il nuovo regolamento […] procedure che prevederà, addirittura, la individuazione dei Paesi sicuri con esclusivo riferimento alle condizioni percentuali statistiche di approvazione delle domande di protezione internazionale a livello europeo, attestandole sotto il limite del 20%»[12].
Da una prospettiva di diritto dell’Unione europea, dunque, la sentenza verrà analizzata anche alla luce delle disposizioni del futuro regolamento procedure 2024/1348, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 22 maggio 2024, la cui applicazione decorrerà a partire dal 12 giugno 2026[13]. Ciò permetterà di comprendere meglio come, effettivamente, il sistema di designazione dei Paesi di origine sicura cambierà e se i principi affermati dalla Corte con la sentenza in esame sopravviveranno al nuovo regolamento.
2. Procedimento principale e quesiti pregiudiziali
La domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia veniva presentata, dal Tribunale di Brno, nell’ambito di un procedimento tra un cittadino moldavo (CV, ricorrente) e il Ministero dell’Interno della Repubblica Ceca (convenuto), in merito al rigetto della domanda di protezione internazionale del primo[14].
Precisamente, a sostegno di tale domanda, CV aveva addotto di esser stato minacciato, nel suo Paese di origine, da alcuni individui che le autorità di polizia non sarebbero state in grado di identificare e dichiarava, per giunta, di non voler tornare nella sua regione d’origine a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa.
In prima istanza, tuttavia, il Ministero dell’Interno rigettava la domanda di protezione internazionale di CV per manifesta infondatezza in quanto il richiedente asilo proveniva da Paese di origine sicuro. Infatti, secondo l’elenco nazionale, la Moldavia, fatta eccezione della Transnistria, rientrava tra i Paesi terzi che la Repubblica Ceca considera(va) di origine sicura. In particolare, il Ministero sosteneva che CV non fosse riuscito a dimostrare che la presunzione di sicurezza non si applicava al suo caso specifico, così come previsto, per altro, dall’art. 36, par. 1, della direttiva procedure come recepito dall’art. 16, par. 2 e par. 3, della legge nazionale sull’asilo nella versione applicabile alla controversia[15].
Il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza veniva impugnato dal richiedente asilo davanti al giudice competente. I motivi alla base del ricorso riprendevano gli elementi formulati, in prima istanza, a sostegno della domanda di protezione internazionale; precisamente, CV sosteneva che, mentre il Ministero dell’Interno era tenuto a prendere in considerazione tutte le informazioni pertinenti e a valutare la sua domanda in modo globale, manteneva, invece, come unico fattore determinante il fatto che il richiedente era originario della Moldavia.
Depositato il ricorso, il Tribunale regionale di Brno, l’8 maggio 2022, su domanda di parte, ne riconosceva efficacia sospensiva. Per vero, ai sensi dell’art. 46, par. 6, lett. a), della direttiva procedure – così come recepito nell’ordinamento della Repubblica Ceca[16] – qualora sia stata adottata una decisione come quella nel caso di specie, il ricorso non produce un effetto sospensivo automatico della decisione impugnata ma sarà il giudice a decidere se autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro in attesa dell’esito del ricorso.
Tra le motivazioni per cui il Tribunale regionale decideva di accordare tale sospensiva, il giudice richiamava il fatto che, il 28 aprile 2022, la Moldavia, a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, aveva deciso di prorogare l’esercizio del suo diritto di deroga agli obblighi derivanti dalla CEDU, ai sensi dell’art. 15 di tale Convenzione. Tale proroga era già stata invocata, il 25 febbraio 2022, a causa della crisi energetica che il Paese stava attraversando.
Poiché la domanda di protezione internazionale di CV era stata respinta tenendo conto, tra l’altro, del fatto che la Repubblica Ceca aveva designato la Moldavia, ad eccezione della Transnistria, come Paese di origine sicuro, il Tribunale di Brno decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte diverse questioni pregiudiziali.
In primo luogo, il giudice chiedeva alla Corte se il criterio per la designazione di un Paese di origine sicuro di cui all’allegato I, lett. b), di tale direttiva[17] dovesse essere interpretato nel senso che, se un Paese terzo deroga agli obblighi previsti dalla CEDU in caso di stato di emergenza – ai sensi dell’art. 15 di tale Convenzione – non soddisfa più tale criterio per essere designato come Paese di origine sicuro.
Secondariamente, il Tribunale di Brno chiedeva se gli artt. 36 e 37 della direttiva procedure dovessero essere interpretati nel senso che (i) ostano a che uno Stato membro designi solo una parte di Paese come di origine sicuro – prevedendo, quindi, specifiche eccezioni territoriali in cui non si applica la presunzione di sicurezza – e nel senso che (ii) se uno Stato membro prevede tale designazione “selettiva”, il Paese terzo non possa essere considerato, nel suo complesso, un Paese di origine sicuro ai fini della direttiva.
In subordine, nel caso in cui una delle prime due questioni pregiudiziali fosse stata risolta in senso affermativo, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se l’art. 46, par. 3, della direttiva procedure, in combinato disposto con l’art. 47 della Carta, dovesse essere interpretato nel senso che l’organo giurisdizionale investito di un ricorso avverso una decisione di manifesta infondatezza di una domanda emessa nell’ambito del procedimento di cui all’art. 31, par. 8, lett. b), della direttiva[18], debba prendere in considerazione d’ufficio (quindi anche in assenza di domanda di parte) del contrasto tra la designazione di un Paese come di origine sicuro e il diritto dell’Unione per i motivi summenzionati.
3. La parziale sovrapposizione tra il rinvio pregiudiziali del Tribunale di Brno e i rinvii pregiudiziali del Tribunale di Firenze
Per fornire un quadro completo della vicenda, prima di passare all’analisi della pronuncia della Corte resa sui quesiti di cui si è appena fatto cenno, si vuole dar conto di altri due rinvii presentati, più di recente, dal Tribunale ordinario di Firenze e riguardanti l’interpretazione degli artt. 36, 37 e 46 della direttiva procedure[19]. Precisamente, il giudice di Firenze, interrogava la Corte sull’interpretazione di tali disposizioni al fine di comprendere se queste ostassero o meno a che uno Stato membro designi un Paese come di origine sicuro con esclusione (non tanto di determinate parti di territorio – questione oggetto del secondo quesito del rinvio di Brno ma) di categorie di persone, nei confronti delle quali non si applica la presunzione di sicurezza.
Le domande di pronuncia pregiudiziale, proposte con ordinanza del 31 maggio 2024, scaturivano da due procedimenti di impugnazione di provvedimenti per manifesta infondatezza adottati, in prima istanza, dalla competente Commissione territoriale per provenienza dei richiedenti asilo da Paesi di origine sicura. Precisamente, si trattava di domande di protezione internazionale presentate da un cittadino ivoriano e da un cittadino nigeriano. Il Tribunale di Firenze, dovendo decidere in via cautelare sull’istanza di sospensiva presentata dal richiedente ai sensi dell’art. 35-bis, comma 4, d. lgs. 25/2008, riteneva questione pregiudiziale la valutazione della legittimità del presupposto della procedura accelerata[20], ovvero dell’inclusione della Costa d’Avorio e della Nigeria nella lista dei Paesi di origine sicuri adottata dall’Italia.
La scelta del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia si rendeva necessaria poiché la questione aveva a che vedere con quanto previsto dall’art. 2 bis, comma 2, del d. lgs. 25/2008 il quale dispone(va)[21] che «la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone». A proposito dell’indicazione di un Paese sicuro con esclusione di categorie di persone, mentre il D.M. del 17 marzo 2023 (in vigore alla data di adozione del provvedimento di rigetto della Commissione territoriale) genericamente designava la Costa D’Avorio e la Nigeria come Paesi di origine sicura e specificava che la situazione del richiedente doveva essere valutata alla luce delle informazioni contenute nelle Schede Paese[22], quest’ultime escludevano nove categorie di persone dall’applicazione della presunzione di sicurezza per la Nigeria[23] e otto per la Costa d’Avorio[24]. Benché siffatte eccezioni non fossero espressamente indicate nel D.M. ma solo nelle Schede Paese, secondo il Collegio di Firenze per queste categorie di persone non avrebbe dovuto operare la presunzione di sicurezza[25].
Così, se effettivamente, nell’attuazione di quanto previsto dall’art. 2 bis, comma 2, del d. lgs. 25/2008, il Ministero intendeva escludere tali categorie dalla presunzione di sicurezza, e constatato che la direttiva procedure non ammette esplicitamente tale facoltà[26], al giudice si poneva una questione concernente, in primo luogo, la possibilità per uno Stato membro di designare un Paese come sicuro con l’esclusione di determinate categorie di persone. In subordine, qualora il silenzio della direttiva procedure dovesse esser interpretato nel senso che ad uno Stato membro è concesso indicare uno Stato terzo come sicuro con l’esclusione di determinate persone, all’autorità giurisdizionale si presentava un’ulteriore questione riguardante, invece, il “perimetro soggettivo” da considerare per valutare il rispetto dei criteri di designazione di un Paese di origine sicuro, ovvero «se possa considerarsi inseribile nella lista dei Paesi sicuri uno Stato che abbia una così significativa, per qualità e quantità, presenza di categorie di persone a rischio di violazione dei diritti umani»[27].
Come si avrà modo di vedere meglio nel prosieguo, l’impianto motivazionale della sentenza resa dalla Corte di giustizia nella causa C-406/22, specificamente nella parte in cui risponde al secondo quesito pregiudiziale riguardante la designazione selettiva di un Paese quale sicuro per parti di territorio (infra par. 5), si ritiene sia estensibile all’ipotesi in cui la designazione del Paese come sicuro avvenga con esclusioni per determinate categorie di persone – per quanto, evidentemente, l’ultima parola spetterà alla Corte di giustizia, a valle di un procedimento di difficile vaticinio, non essendosi ancora tenuta udienza dibattimentale né essendosi ancora pronunciato l’Avvocato generale.
Inoltre, sul tema relativo all’esclusione della sicurezza di un Paese di origine sicuro per gruppi minoritari di persone ivi presenti è stato, ancor più recentemente, proposto dal Tribunale di Bologna un ulteriore rinvio ai giudici lussemburghesi riguardante non tanto la possibilità dello Stato membro di procedere a una designazione di sicurezza selettiva, in senso soggettivo, di uno Stato terzo quanto, piuttosto, la possibilità che uno Stato membro indichi come sicuro tout court un Paese terzo anche se, di fatto, si accerti la presenza in questo di forme generalizzate e costanti di persecuzione e rischi di danno grave nei confronti di gruppi minoritari ivi presenti[28].
4. Sulla prima questione pregiudiziale
La direttiva procedure definisce uno Stato terzo come “sicuro” se, sulla base della situazione giuridica, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non vi sono persecuzioni, né alcun rischio reale di danno grave[29], secondo le definizioni che vengono date dalla direttiva c.d. qualifiche[30].
Per effettuare la valutazione di sicurezza di un determinato Stato terzo, la direttiva offre, poi, alcuni parametri utili alle autorità competenti alla designazione; quest’ultime, invero, devono tener conto, tra l’altro, della misura in cui è offerta protezione contro le persecuzioni e il danno grave mediante a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese e il modo in cui sono applicate, b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella CEDU o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici o nella convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea), c) il rispetto del principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra e d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà[31].
Ciò premesso, il primo quesito pregiudiziale nella causa C-406/22 riguarda l’interpretazione del criterio sub b) nel caso in cui uno Stato membro (i.e. la Repubblica Ceca) designi un Paese terzo (i.e. la Moldavia) come sicuro pur avendo quest’ultimo derogato agli obblighi previsti dalla CEDU ai sensi dell’art. 15 della stessa Convenzione.
La Corte di giustizia, rispondendo al quesito, dichiara che non si può ritenere che un Paese terzo cessi di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come Paese di origine sicuro, ai sensi dell’art. 37 della direttiva 2013/32, per il solo fatto di aver invocato il diritto di deroga previsto dall’art.15 della CEDU[32]. Tuttavia, afferma la Corte, una siffatta invocazione deve indurre le autorità competenti dello Stato membro che ha designato il Paese terzo interessato come Paese di origine sicuro (ovverosia le autorità della Repubblica Ceca) a valutare se, tenuto conto delle condizioni di attuazione di tale diritto di deroga (ex art. 15 della CEDU), sussistano motivi per mantenere tale designazione[33].
L’onere imposto alle autorità nazionali di rivalutare la sicurezza del Paese di origine sicuro – tenuto conto del fatto che la Moldavia ha usufruito della possibilità concessa dall’art. 15 della CEDU – deriverebbe, per altro, da quanto statuito dall’art. 37, par. 2, della direttiva 2013/32 che impone agli Stati membri di esaminare regolarmente la situazione nei Paesi terzi designati come Paesi di origine sicuri. Con tale disposizione, invero, il legislatore dell’Unione ha inteso obbligare gli Stati membri a tenere conto del fatto che le circostanze che stanno alla base della designazione di un Paese come di origine sicuro sono, per loro stessa natura, soggette a variazioni[34].
4.1 La risposta della Corte in prospettiva: il nuovo regolamento procedure e il riesame periodico della sicurezza del Paese di origine
Come già anticipato supra, a partire dal 12 giugno 2026 troverà applicazione il regolamento 2024/1348 che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva procedure attualmente vigente. Il nuovo strumento introduce, tra le altre, disposizioni in tema di Paesi di origine sicura che modificano, almeno parzialmente, l’attuale assetto. Invero, al fine di superare alcune divergenze tra gli elenchi nazionali dei Paesi sicuri, «contribuendo altresì a scoraggiare i movimenti secondari dei richiedenti protezione internazionale»[35], il regolamento procedure prevede la possibilità di designare Paesi di origine sicuri a livello di Unione europea[36]. Agli Stati membri, tuttavia, è data facoltà di mantenere in vigore o introdurre una normativa che, ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, consenta di designare a livello nazionale Paesi di origine sicuri diversi da quelli designati a livello unionale[37].
Per quel che qui interessa, e per comprendere come inciderà il regolamento su quanto statuito dalla Corte in risposta al primo quesito pregiudiziale, né gli Stati membri, né la Commissione saranno tenuti a riesaminare periodicamente la situazione nei Paesi terzi designati Paesi di origine sicura[38]. Tale onere, invero, viene richiamato solo a proposito della procedura di sospensione dei Paesi di origine sicuri a livello di Unione[39].
Questa modifica avrà ripercussioni non di poco conto relativamente all’ampiezza del sindacato del giudice sull’atto che indicherà, a livello nazionale o dell’UE, i Paesi di origine sicura. Per vero, oggi, è anche sulla base dell’onere imposto agli Stati membri di riesaminare periodicamente la situazione nei Paesi di origine sicura che i giudici nazionali possono verificare la conformità dell’atto nazionale di designazione di tali Paesi alla normativa dell’Unione e nazionale. «L’obbligo di aggiornamento [periodico] grava, ovviamente, sugli organi ministeriali competenti a formare l’elenco ma (in ragione delle conseguenze che l’inserimento di un Paese nella lista produce sui diritti procedurali dei richiedenti) è necessario anche un presidio giurisdizionale che ne assicuri il rispetto nelle ipotesi in cui tale obbligo non sia stato adempiuto»[40].
Un domani che tale onere sarà imposto ma non sarà più richiesto che avvenga con cadenza regolare, si amplierà il margine di discrezionalità lasciato in capo alle autorità nazionali e alla Commissione europea (qualora sia adottata una lista a livello di Unione) relativamente all’esatta periodicità in cui andrebbe operato l’aggiornamento. Ciò, per altro, favorirebbe l’interpretazione secondo cui si può «non aggiornare […] la valutazione sino a che non emergano dalle […] fonti autorevoli di C.O.I. (Country Origin Information), dati e situazioni nuove che la stessa P.A. consideri rilevanti per aggiornare/modificare la valutazione di sicurezza del Paese inserito nella lista ed eventualmente escluderlo […]»[41].Tale valutazione di rilevanza delle C.O.I. – che determinerebbe la necessità di revisione del giudizio di sicurezza del Paese – sarebbe riservata, secondo tale interpretazione, alla discrezionalità amministrativa, per cui, se non emergono fatti che per la P.A. siano rilevanti ai fini di cui sopra, il mancato aggiornamento non rappresenterebbe una violazione delle disposizioni del futuro regolamento procedure.
5. Sulla seconda questione pregiudiziale
La seconda questione pregiudiziale verteva, invece, sull’interpretazione dell’art. 37 della direttiva procedure per comprendere se esso impedisce o meno l’indicazione di un Paese terzo come sicuro con esclusione di parte del territorio di questo.
Brevemente, considerata la formulazione (par. 66), il contesto (par. 67-71), la genesi (par. 72-76) e gli obbiettivi perseguiti (par. 77-82) dall’art. 37, la Corte ha interpretato tale disposizione nel senso che essa osta a che un Paese terzo sia designato come di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni materiali, di cui all’allegato I della direttiva procedure, per tale designazione[42].
Secondo i giudici lussemburghesi, l’art. 37, per come formulato, fa riferimento «a più riprese, ai termini “paese” e “paesi terzi” senza indicare che, ai fini di siffatta designazione, tali termini possano essere intesi come riguardanti solo una parte del territorio del paese terzo considerato»[43].
Se si guarda, poi, al contesto entro cui tale diposizione si innesta, anzitutto, l’art. 37 è da leggersi in combinato disposto con l’Allegato I (a cui lo stesso rimanda) che, in nessuna sua parte, rimanda alla possibilità che gli Stati membri designino un Paese di origine sicuro con esclusioni territoriali. Al contrario, ai sensi dell’Allegato, l’indicazione di un Paese terzo quale sicuro dipende dalla possibilità di dimostrare che non vi sono generalmente e costantemente (ovvero, in tutto il territorio del Paese terzo considerato)[44] persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale[45]. In secondo luogo, dato che l’applicazione del concetto di Paese di origine sicuro consente di derogare a taluni diritti procedurali garantiti dalla direttiva 2013/32/UE ai richiedenti[46] e di limitare il diritto ad un ricorso effettivo ai sensi dell’art. 47 della Carta[47], non è possibile estendere l’ambito di applicazione di tale regime (riconoscendo che lo stesso si applica anche alla designazione di Paesi di origine sicura con esclusioni di parti di territorio). Invero, «riconoscere una facoltà del genere violerebbe l’interpretazione restrittiva di cui devono essere oggetto le disposizioni aventi carattere di deroga»[48].
Anche la genesi dell’art. 37 porterebbe ad escludere un’interpretazione dell’art. 37 nel senso che quest’ultimo consente di designare Paesi di origine sicura con esclusioni territoriali. Per vero, al contrario del precedente art. 30 della direttiva procedure del 2005,[49] l’attuale art. 37 non consente esplicitamente la possibilità di designare un Paese come sicuro limitatamente a porzioni di territorio. Per altro, l’intenzione si sopprimere tale facoltà risulta sia dal testo della proposta di direttiva avanzata dalla nel 2009[50], sia dalla spiegazione dettagliata di tale proposta che la Commissione, al tempo, aveva fornito al Consiglio dell’Unione europea[51].
Infine, anche gli obbiettivi perseguiti dalla direttiva 2013/32 ostano ad una tale interpretazione. Precisamente, nel bilanciamento tra lo svolgimento di un esame adeguato e completo e un accesso effettivo del richiedente ai principi fondamentali e alle garanzie previste dalla direttiva[52] e la possibilità di accelerare la procedura in circostanze per le quali una domanda potrebbe essere infondata, il legislatore ha fatto una precisa scelta, ovverosia «privilegiare un esame esaustivo delle domande di protezione internazionale presentate da richiedenti il cui paese d’origine non soddisfa, per tutto il suo territorio, le condizioni sostanziali di cui all’allegato I di detta direttiva»[53].
5.1 La risposta della Corte in prospettiva: il nuovo regolamento procedure e la possibilità di designare un Paese come sicuro con eccezioni per parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili
La pronuncia della Corte sulla seconda questione pregiudiziale avrà, sfortunatamente, vita breve. Infatti, mentre l’attuale direttiva procedure, al contrario della precedente del 2005[54], non consente esplicitamente (ma nemmeno implicitamente, possiamo affermare oggi, dopo la sentenza della Corte di cui si tratta) la possibilità di designare un Paese come sicuro limitatamente a porzioni di territorio o con riferimento a gruppi particolari di persone, tale facoltà è (nuovamente) ammessa dal nuovo regolamento procedure. Ai sensi dell’art. 61, par. 2, sarà possibile, infatti, indicare un Paese terzo come sicuro, sia a livello dell’Unione che nazionale, con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili[55].
Ed invero, mentre la direttiva procedure, per definire un Paese come sicuro richiede che non vi siano generalmente e costantemente persecuzioni né alcun rischio di danno grave[56], i due avverbi mancano nel testo del nuovo atto[57]. Tale mancanza è strettamente connessa alla possibilità, data dal regolamento, di effettuare una designazione selettiva. Ed infatti, nel silenzio dell’attuale direttiva, è proprio all’inciso generalmente e costantemente che la Corte ha fatto riferimento per sostenere l’interpretazione secondo cui, oggi, una designazione parziale non è possibile: un’indicazione selettiva della sicurezza del Paese non sarebbe concepibile proprio per la difficoltà di considerare sicuro, in via generale e costante, uno Stato che non offra protezione a una parte della propria popolazione o su parte del proprio territorio[58].
A proposito della differenza tra quanto previsto dalla direttiva procedure e dal futuro regolamento, la Corte, inoltre, precisa che è prerogativa del legislatore dell’Unione riconsiderare tale scelta di “designazione selettiva” del Paese di origine sicuro. Ciò, infatti, può avvenire effettuando un nuovo bilanciamento tra l’accelerazione delle domande di protezione internazionale verosimilmente infondate e il dover, comunque, assicurare un esame adeguato ed esaustivo della domanda e un accesso effettivo del richiedente alle garanzie e ai principi fondamentali previsti dalla direttiva[59].
Tuttavia, e questo è un punto rilevante della pronuncia, tale scelta deve comunque, secondo la Corte, rispettare «le prescrizioni derivanti in particolare dalla Convenzione di Ginevra e dalla Carta»[60]. Così, una volta che troverà applicazione il regolamento procedure, i giudici del Kirchberg sembrerebbero volersi garantire la possibilità di valutare se il “nuovo bilanciamento” effettuato dal legislatore dell’Unione sia conforme o meno ai principi sottesi alla Convenzione di Ginevra e alla Carta.
5.2 Ripercussioni nell’ordinamento italiano della risposta della Corte al secondo quesito pregiudiziale ed estensione delle motivazioni della sentenza al caso in cui la designazione avvenga con esclusione di determinate categorie di persone
Rispondendo alla seconda questione, la Corte di giustizia dichiara che «l’articolo 37 della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un Paese terzo sia designato come Paese di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni materiali per tale designazione di cui all’allegato I di detta direttiva»[61].
Come ben noto, il principio di diritto contenuto nella decisione non vincola solo il giudice del rinvio, ma s’impone con effetto erga omnes, nel senso che le disposizioni in causa devono essere da chiunque interpretate e applicate così come indicato dalla Corte di giustizia. Segnatamente, nel caso in cui, da tale decisione, risulti l’incompatibilità di una legislazione nazionale con il diritto dell’Unione, lo Stato membro interessato ha gli stessi obblighi di quelli risultanti a seguito di una sentenza che ne accerti l’inadempimento, e deve, quindi, prendere tutte le misure necessarie a conformare il proprio ordinamento alla decisione[62].
In tal senso, poche settimane dopo la pronuncia della Corte, con Decreto-legge del 23 ottobre 2024, il governo italiano, richiamando la sentenza nella causa C-406/22, ha approvato un Decreto-legge il cui l’art. 1 prevede che «all’articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono apportate le seguenti modificazioni: […] b) al comma 2, secondo periodo, le parole “di parti del territorio o” sono soppresse»[63].
Rimane, quindi, oggi possibile, ai sensi dell’emendato art. 2 bis, comma 2, del d. lgs. 25/2008, designare un Paese di origine sicuro con l’eccezione di categorie di persone.
D’altro canto, differentemente da quanto recepito dal governo, l’impianto motivazionale della pronuncia della Corte in relazione al secondo quesito ben potrebbe applicarsi anche all’ipotesi in cui uno Stato membro designi un Paese come sicuro con esclusione per determinate categorie di persone. In altre parole, l’interpretazione dell’art. 37 della direttiva procedure data dalla Corte con la sentenza oggetto di questo commento si ritiene precluda ad uno Stato membro di mantenere in vigore una normativa nazionale, come quella italiana, che consente di dichiarare un Paese come di origine sicuro con l’eccezione di (parti di territorio e) categorie soggettive.
A tal proposito, come anticipato (supra par. 3), pendono attualmente due rinvii pregiudiziali proposti dal Tribunale di Firenze e riguardanti, per l’appunto, l’indicazione, da parte di uno Stato membro, di un Paese terzo come sicuro con l’eccezione di categorie di persone. Dato che la risposta alle questioni pregiudiziali proposte dal Tribunale di Firenze può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza nel caso C-406/22, è astrattamente ipotizzabile che i giudici del Kirchberg si pronuncino con un’ordinanza ai sensi dell’art. 99 del regolamento di procedura[64]; d’altro canto, non è sicuro che tale scenario si materializzi data la delicatezza (politica) della questione[65].
Ad ogni modo, in attesa che la Corte prenda una decisione sui rinvii fiorentini, e prima che il governo emanasse il suddetto Decreto-legge, alcuni giudici italiani chiamati a pronunciarsi sulla richiesta di convalida del provvedimento di trattenimento emesso ai sensi dell’art. 6 bis del d. lgs. n. 142/2015[66] hanno, per l’appunto, ritenuto «che gli stessi principi [affermati nella sentenza del 4 ottobre 2024 in relazione all’esclusione territoriale] – in considerazione della identità di ratio – inducono ad escludere che possa designarsi un Paese sicuro con esclusione di categorie di persone che sarebbero comunque a rischio persecuzioni o trattamenti inumani e degradanti […]»[67].
Ed invero, pochi giorni dopo la sentenza resa nella causa C-406/22, taluni Tribunali – considerato che certe categorie di persone erano escluse dalla presunzione di sicurezza che si applicava a determinati Paesi di origine sicura (i.e. Tunisia ed Egitto), e preso atto anche di quanto sostenuto dalla Corte in risposta al terzo quesito pregiudiziale[68] – dichiaravano il venire meno di una delle condizioni che giustificava l’applicazione della procedura accelerata di frontiera che costituiva, a sua volta, presupposto del provvedimento di trattenimento del richiedente asilo.
La medesima argomentazione veniva seguita dal Tribunale di Catania relativamente alla richiesta di sospensiva del provvedimento di rigetto adottato, in prima istanza, dalla competente Commissione territoriale[69]. Quest’ultima, decidendo in applicazione della procedura accelerata trattandosi di un richiedente proveniente dal Bangladesh (Paese designato di origine sicura)[70], non accoglieva la domanda di protezione internazionale del ricorrente per manifesta infondatezza.
Il giudice, in primis, analizzava la concreta designazione del Bangladesh quale Paese sicuro ai sensi del D.M. del 7 maggio 2024, tenendo conto, tra le altre, che la Scheda Paese «conclude[va] la valutazione della situazione del Bangladesh individuando sette gruppi di persone a rischio, per i quali quindi non può operare la presunzione di sicurezza». Se, sosteneva il Tribunale di Catania, «è ben vero che la Corte [di giustizia] si è pronunciata solo sulle eccezioni territoriali e non quelle per categorie soggettive […] va tuttavia osservato che la ratio della Corte […] per affermare l’incompatibilità delle eccezioni territoriali con la Direttiva procedure, può essere estesa anche alle eccezioni riguardanti le categorie soggettive».
Anche alla luce di ciò, il giudice riteneva che la designazione del Bangladesh come Paese di origine sicuro fosse in contrasto con il diritto dell’Unione europea, così come interpretato dalla Corte di giustizia. Conseguentemente, procedeva a disapplicare il D.M. Paesi sicuri nella parte in cui designava il Paese in questione come di origine sicuro per contrarietà con il diritto dell’UE così facendo venir meno, a sua volta, il presupposto della procedura accelerata. Venendo a mancare il presupposto di applicazione della procedura accelerata, la proposizione del ricorso avverso la decisione assunta dalla Commissione in prima istanza sospendeva l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato[71].
In ogni caso, anche volendo aderire alla tesi (sostenuta dal governo italiano) secondo la quale le argomentazioni della Corte di giustizia in materia di esclusione territoriale non possano estendersi anche alle eccezioni riguardanti le categorie soggettive, è comunque fatto salvo l’obbligo del giudice nazionale – nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc richiesto dall’art. 46, par. 3, della direttiva procedure – di sollevare un’inosservanza delle condizioni sostanziali (enunciate all’Allegato I di tale direttiva) della designazione di un Paese come sicuro, anche se tale inosservanza non è espressamente dedotta a sostegno del ricorso[72]. Dato che l’Allegato I della direttiva prevede che un Paese possa essere considerato come sicuro se si può dimostrare che «non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni […], né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale», tra le condizioni sostanziali di cui il giudice deve valutare l’osservanza rientra, certamente, anche quella relativa alla sicurezza tout court del Paese designato di origine sicuro.
A proposito dell’indicazione di un Paese sicuro ove, tuttavia, di fatto sono documentate forme generalizzate e costanti di persecuzione e rischi di danno grave nei confronti di gruppi minoritari presenti nel Paese terzo, il giudice potrà, quindi, pervenire a disapplicazione dell’art. 2, co. 1, d. lgs. 25/2008 – come modificato dal Decreto-legge n. 158/2024 – in quanto contrastante con il diritto dell’Unione, anche se tale disposizione indica una serie di Paesi terzi come sicuri tout court[73]. Per vero data la risposta della Corte alla terza questione pregiudiziale (si veda infra par. 6) rimarrebbe comunque un dovere di sindacato sul rispetto dei criteri della direttiva.
In tema è stato recentemente sollevato un rinvio alla Corte di giustizia, proposto con ordinanza assunta in camera di consiglio il 25 ottobre 2024 dalla Sezione specializzata del Tribunale di Bologna[74]. Mentre la prima questione oggetto del rinvio verrà subito trattata in quanto connessa alla esclusione della sicurezza di un Paese di origine sicuro per gruppi minoritari ivi presenti, la seconda verrà esaminata successivamente (infra par. 6.1.1) in quanto concernente il potere-dovere di disapplicazione del giudice nazionale di un atto nazionale in contrasto con le disposizioni di diritto dell’UE.
In rinvio bolognese è stato esperito dal giudice nazionale in vigenza del Decreto-legge del 23 ottobre 2024, il quale, come appena detto, modificando l’art. 2 bis, comma 1, d. lgs. 25/2008, designa 19 Paesi di origine sicura senza previsione di cause di esclusioni personali (che, tuttavia, rimangono astrattamente possibili visto quanto disposto dall’art. 2 bis, comma 2, ultimo periodo, d. lgs. 25/2008).
La prima questione sottoposta alla Corte di giustizia, perciò, non concerne la «legittimità o meno della previsione di cause di esclusione personali, questione non rilevante nella presente controversia alla luce della nuova designazione che non contempla eccezioni, e per cui già pendono in ogni caso avanti alla Corte di giustizia due rinvii pregiudiziali proposti dal Tribunale di Firenze […]»[75]. Il primo quesito oggetto del rinvio riguarda, invece, la possibilità che uno Stato membro designi un Paese terzo come sicuro in presenza di forme generalizzate e costanti di persecuzione e rischi di danno grave nei confronti di gruppi minoritari presenti in quel Paese. In altre parole, la questione attiene alla individuazione della condizioni sostanziali che hanno consentito la designazione del Paese di provenienza del richiedente asilo come di origine sicuro; segnatamente, il giudice a quo chiede alla Corte se gli art. 36, 37 e 46 della direttiva procedure debbano essere interpretati nel senso che non ammettono la designazione di Paesi di origine sicura laddove vi siano persecuzioni e pericoli di danno grave diretti in modo sistematico e generalizzato nei confronti di presone appartenenti a specifici gruppi sociali[76].
5.2.1 L’impugnazione in Cassazione dell’ordinanza di non convalida del trattenimento del Tribunale di Roma: l’ulteriore rischio di sovrapposizione tra il giudice degli Ermellini e la Corte di giustizia in tema di Paesi sicuri
Con ricorso depositato il 21 ottobre 2024, il Ministero dell’Interno ha impugnato in Corte di Cassazione l’ordinanza di non convalida del provvedimento di trattenimento in Albania emessa dal Tribunale di Roma r.g. 42256[77].
Ai fini che ci riguardano interessa, in particolar modo, il primo motivo di ricorso con il quale si chiede alla Suprema Corte di cassare l’ordinanza per violazione e falsa applicazione, tra le altre,[78] della sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
Brevemente, secondo l’avvocatura di Stato, l’ordinanza di non convalida del trattenimento deve essere cassata per aver affermato un errato principio di diritto, secondo cui non può essere disposto il trattenimento del richiedente asilo proveniente da Paese di origine sicuro per il quale sono previste eccezioni per determinate categorie di persone. Segnatamente, «nella sentenza del 4 ottobre non vi è […] alcun riferimento alla possibilità degli Stati di precisare, nelle schede allegate ai decreti di designazione dei Paesi di origine sicura, informazioni aggiuntive relative ad alcune categorie di soggetti, rispetto alle quali sussistono criticità nel rispetto dei diritti, senza che questo implichi l’esistenza di eccezioni territoriali».
In tal guisa, di fatto, si chiede alla Corte di Cassazione di interpretare la sentenza della Corte di giustizia, nel senso di specificare se le motivazioni che fondano il principio affermato in risposta al secondo quesito pregiudiziale possano o meno applicarsi anche al caso in cui uno Stato membro designi un Paese di origine sicuro con esclusioni soggettive.
Per altro, su questa precisa questione, come precisato supra (par. 3), sono attualmente pendenti due rinvii pregiudiziali, nelle cause C-388/24 e C-389/24, proposti dal Tribunale di Firenze. Quest’ultimo, con ordinanze del 15 maggio 2024, chiedeva alla Corte di giustizia se gli artt. 36, 37 e 46 della direttiva procedure dovessero essere interpretati nel senso che ammettono la possibilità per uno Stato membro di designare un Paese come sicuro con l’esclusione di determinate categorie di persone. In subordine, qualora ciò sia possibile, all’autorità giurisdizionale si presentava un’ulteriore questione riguardante, invece, «se possa considerarsi inseribile nella lista dei Paesi sicuri uno Stato che abbia una così significativa, per qualità e quantità, presenza di categorie di persone a rischio di violazione dei diritti umani»[79].
È rilevante mettere in luce tale passaggio del ricorso in quanto rischia di rappresentare un’ulteriore potenziale sovrapposizione tra Cassazione e Corte di giustizia in materia di Paesi sicuri. Come già fatto notare altrove[80], la prima è già stata interpellata, il 1° luglio 2024, dal Tribunale di Roma, con rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., sulla possibilità o meno del giudice ordinario di valutare,
sulla base di informazioni sui Paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, «se il Paese incluso nell’elenco dei “Paesi di origine sicuri” sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia». Eppure, una questione simile, ma non identica, risultava esser già stata presentata alla Corte di giustizia con il terzo quesito pregiudiziale nella causa oggetto di commento; e, come si vedrà meglio subito infra, con la sentenza del 4 ottobre 2024, i giudici del Kirchberg, rispondendo al Tribunale di Brno, hanno ritenuto che l’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32/UE, letto alla luce dell’art. 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che il giudice, competente a pronunciarsi sul ricorso avverso la decisione assunta in prima istanza, debba esaminare la legittimità della designazione di un Paese come sicuro anche se tale illegittimità non è stata espressamente dedotta a sostegno del ricorso.
In attesa che la Corte di Cassazione si pronunci sul rinvio pregiudiziale presentato dal Tribunale di Roma e sul ricorso depositato dal Ministero dell’Interno avverso il decreto di non convalida del trattenimento dello stesso Tribunale, vale la pena rimarcare, anche in questa sede, l’importanza che la Corte tenga conto dei rinvii decisi e attualmente pendenti di fronte alla Corte di giustizia.
Precisamente, nel primo caso si auspica che la Cassazione risponda al rinvio pregiudiziale richiamando la pronuncia della Corte di giustizia, nella causa C-406/22, con specifico riferimento alla terza questione pregiudiziale o formulando lei stessa un rinvio pregiudiziale, per quanto sia discutibile – e discusso in dottrina[81] – che possa agire in tal senso all’interno della procedura ex art. 363 bis c.p.c. Per altro, si voglia notare che il rinvio che la Corte di Cassazione potrebbe formulare sarebbe di contenuto molto simile (se non uguale) a quello formulato dal Tribunale di Bologna con decisione assunta in camera di consiglio del 25 ottobre 2024[82].
Per quanto concerne, invece, la richiesta di pronuncia pervenuta con impugnazione dell’ordinanza di non convalida del trattenimento, ci si augura che il giudice degli Ermellini sospenda la decisione in attesa che la Corte di giustizia si pronunci sui rinvii pregiudiziali proposti dal Tribunale di Firenze (ai sensi dell’art. 99 di procedura o nel merito) o, in alternativa, proponga un rinvio pregiudiziale che, tuttavia, per contenuto non potrebbe che essere identico a quelli proposti dai giudici fiorentini.
Solo così potrà essere assicurata la piena salvaguardia dell’uniforme applicazione del diritto dell’Unione e del principio di certezza del diritto.
6. Sulla terza questione pregiudiziale
Con il terzo quesito pregiudiziale nella causa C-406/22 il giudice del rinvio chiede se l’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32[83], letto alla luce dell’art. 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che un giudice – quando è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti asilo provenienti da Paesi di origine sicuri – deve, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto art. 46, par. 3, rilevare una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione (ai sensi dell’Allegato I della direttiva) d’ufficio e, perciò, anche se tale violazione non è espressamente invocata a sostegno di detto ricorso.
La Corte illustra, anzitutto, il contenuto dell’art. 46 della direttiva, che riguarda il diritto ad un ricorso effettivo dei richiedenti protezione internazionale e ne stabilisce la portata, «precisando che gli Stati membri devono assicurare che il giudice dinanzi al quale è contestata la decisione relativa alla domanda di protezione internazionale proceda all’ “esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva [2011/95][84]”».
Successivamente, dopo aver puntualizzato che, così come l’art. 47 della Carta, anche l’art. 46, par. 3, della direttiva è dotato di effetto diretto[85], i giudici del Kirchberg definiscono la portata della locuzione ex nunc, dell’aggettivo “completo” e dell’espressione “se del caso”. I primi due mettono in evidenza l’obbligo del giudice di considerare sia gli elementi di cui l’autorità accertante ha tenuto o avrebbe dovuto tener conto sia quelli intervenuti, se del caso, dopo l’adozione della decisione oggetto dell’impugnazione[86].
L’espressione “se del caso”, invece, evidenzia il fatto che l’esame completo ed ex nunc a cui è tenuto il giudice «non deve necessariamente vertere sull’esame nel merito delle esigenze di protezione internazionale e che esso può dunque riguardare gli aspetti procedurali di una domanda di protezione internazionale»[87]. Tra gli aspetti procedurali che devono essere sottoposti all’esame completo ed ex nunc del giudice, per precisazione stessa della Corte, vi è quello relativo alla designazione di un Paese terzo come di origine sicuro, in quanto tale indicazione comporta ripercussioni sulla procedura di esame della domanda di protezione internazionale[88].
Così, il giudice investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale – esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da Paesi di origine sicuri – deve rilevare, anche d’ufficio, una violazione delle condizioni sostanziali della designazione del Paese come di origine sicura (enunciate all’Allegato I della direttiva)[89].
6.1 Ripercussioni nell’ordinamento italiano del dovere del giudice di sindacare, anche d’ufficio, le condizioni sostanziali per la designazione di un Paese come di origine sicuro
Quanto affermato dalla Corte di giustizia con riguardo al terzo quesito pregiudiziale si interseca, nell’ordinamento italiano, con quanto dichiarato dalla Corte di Cassazione, adita con rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c, con sentenza n. 11399, pubblicata il 9 aprile 2024[90]. I principi scaturenti da queste due pronunce implicano, invero, un dovere di valutazione del giudice sul rispetto dei presupposti della procedura accelerata, sia quando questo è chiamato a decidere sulla sospensione della decisione di rigetto della protezione internazionale adottata in prima istanza dalla Commissione territoriale, che quando deve decidere sulle convalide del provvedimento di trattenimento disposto dal Questore.
Precisamente, nel primo caso, l’autorità giurisdizionale sarà tenuta, a verificare il rispetto dei termini della procedura accelerata dato il principio affermato dalla Corte di Cassazione secondo cui «in caso di ricorso giurisdizionale avente ad oggetto il provvedimento di manifesta infondatezza emesso dalla Commissione Territoriale […] nei confronti di soggetto proveniente da Paese sicuro […] quando la procedura accelerata non sia stata rispettata nelle sue articolazioni procedimentali, si determina il ripristino della procedura ordinaria ed il riespandersi del principio generale di sospensione automatica del provvedimento della Commissione Territoriale»[91].
In entrambe le ipotesi, invece, il giudice, considerata la pronuncia della Corte di giustizia nella causa C-406/22, dovrà verificare il rispetto dei presupposti per l’inserimento di un Paese di origine sicuro nell’elenco nazionale.
Tale verifica richiede un esame ex nunc ovverosia «che tenga conto, se del caso, dei nuovi elementi intervenuti dopo l’adozione della decisione oggetto dell’impugnazione»[92]. Il giudizio riguardante la compatibilità della designazione di un Paese come sicuro con il diritto dell’Unione dovrà, quindi, essere attuale (non essendo sufficiente che il giudice accerti che una tale compatibilità sussistesse al momento di adozione della lista nazionale di Paesi sicuri); e qualora, l’indicazione nazionale di un Paese come sicuro violi una delle condizioni sostanziali enunciate all’Allegato I della direttiva procedure, il giudice dovrà rilevare, anche d’ufficio, siffatto contrasto.
Quanto sostenuto dalla Corte di giustizia in risposta al terzo quesito comporta, quindi, che il giudice ordinario che si trovi ad accertare un contrasto tra il diritto dell’Unione e la designazione di un Paese quale sicuro è tenuto a disapplicare (rectius non applicare)[93] l’atto nazionale di designazione nella parte in cui, per l’appunto, viola tale diritto. Un simile obbligo incombe sul giudice a prescindere dal tipo di atto nazionale con cui tale designazione è avvenuta.
In altre parole, anche se il governo italiano, di recente, ha approvato una nuova lista di Paesi di origine sicura con Decreto-legge (che abroga implicitamente il precedente decreto ministeriale), tale revisione non ha alcuna conseguenza sull’onere del giudice ordinario di disapplicare l’atto se contrastante con una disposizione di diritto dell’Unione dotata di effetto diretto.
La ragione politica[94] che sottende l’adozione di un Decreto-legge (in sostituzione del precedente decreto ministeriale), che modifica l’art. 2 bis, comma 1, del d.lgs. 25/2008 nel senso che oggi contiene una nuova lista di Paesi di origine[95], risiede nel fatto che, in tal modo, il giudice ordinario non potrà, invece, invocare l’istituto della “disapplicazione interna” dell’atto in questione, ai sensi dell’art. 5 dell’all. E della l. n. 2248/1865[96]. Questa disposizione, invero, fa riferimento al potere delle autorità giudiziarie, compreso il giudice ordinario, di disapplicare gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto non conformi alle leggi.
Effettivamente, è stato, in particolare, su tale base giuridica che, precedentemente la sentenza della Corte nella causa C-406/22, alcuni Tribunali ordinari avevano proceduto a disapplicare il decreto ministeriale Paesi sicuri[97]. Pur essendo, oggi, stato sottratto tale strumento della “disapplicazione interna” ai giudici ordinari, rimane in capo ad ad essi l’onere di “disapplicazione comunitaria” qualora l’atto di designazione – ovverosia l’art. 2 bis, comma 1, d. lgs. 25/2008 – si ponga in violazione di disposizioni del diritto dell’Unione dotate di efficacia diretta.
Infine, dal punto di vista del diritto Unione, la non applicazione dell’atto interno è un obbligo che riguarda tanto l’autorità giudiziaria quanto lo Stato. Risultano, perciò, vincolati dalla sentenza della Corte di giustizia non solo i giudici e il legislatore, ma anche l’amministrazione[98]. A fronte di una sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia così chiara in merito all’obbligo derivante dal diritto Unione, anche le autorità amministrative non dovrebbero applicare l’atto amministrativo (ora disposizione di decreto legislativo) con esso in contrasto. Incomberebbe, quindi, anche in capo alle Commissioni territoriali un onere di disapplicazione dell’art. 2 bis, comma 1, che indica la lista di Paesi di origine sicura allorquando questo si ponga in contrasto con disposizioni di diritto dell’Unione dotate di effetto diretto[99].
6.1.1 Il secondo quesito pregiudiziale del Tribunale di Bologna alla Corte di giustizia: i dubbi sul potere-dovere del giudice di disapplicare disposizioni nazionali che contrastino con il diritto dell’Unione
La lettura appena proposta, recentemente, è stata oggetto di rinvio pregiudiziale in Corte di giustizia da parte del Tribunale di Bologna. Specificamente, secondo il giudice a quo rimane aperta «la questione, implicitamente sollevata dalla decisione del Governo di procedere alla designazione con fonte di normazione primaria, se tale potere-dovere di disapplicazione sussista anche nei confronti di atti di tale natura»[100]. Così, ai giudici del Kirchberg si chiede se il principio del primato del diritto dell’Unione europea imponga di assumere che, in caso di contrasto tra le disposizioni della direttiva procedure in materia di presupposti dell’atto di designazione di un Paese come di origine sicura e le disposizioni nazionali, sussista sempre l’obbligo per il giudice nazionale di non applicare le seconde, in particolare se tale dovere di disapplicazione permanga anche nel caso in cui detta designazione venga operata con disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria.
Data «l’intima e ferma convinzione giuridica del Collegio» bolognese sull’efficacia diretta delle disposizioni della direttiva 2013/32/UE e del dovere del giudice, conseguentemente, di non applicare «qualsiasi disposizione nazionale» contrastante con quella di diritto dell’Unione,[101] e al di là della chiarezza della soluzione interpretativa, lo stesso ritiene comunque opportuno il rinvio visto il «gravissimo contrasto fra le diverse Autorità chiamate a interpretare e applicare il diritto dell’Unione»[102].
La sentenza della Corte di giustizia nella causa C-406/22, come si è cercato di illustrare nel presente contributo, ha infatti aperto una frattura evidente tra governo e magistratura[103]. In tal senso, la futura pronuncia dei giudici del Kirchberg oltre ad esser funzionale ad assicurare un’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione, permettendo di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di questo, simboleggia uno “scudo” agli attacchi subiti dalla magistratura italiana e ai danni conseguenti ai dissidi interpretativi relativi alla sentenza della Corte di cui si parla.
7. Considerazioni conclusive
La sentenza della Corte del 4 ottobre 2024 ha avuto un’importante eco nell’ordinamento italiano, anche alla luce del fatto che, pochi giorni dopo l’arrivo dei primi richiedenti asilo presso i centri in Albania[104], il Tribunale ordinario di Roma non convalidava il trattenimento delle persone ivi presenti per «insussistenza del presupposto necessario per la procedura di frontiera e per il trattenimento»[105]. Invero, i Paesi di origine dei trattenuti non potevano essere riconosciuti come sicuri in ragione dei principi affermati dalla Corte di giustizia, «tanto più che la stessa sottolinea il dovere del giudice di rilevare, anche d’ufficio, l’eventuale violazione […] delle condizioni sostanziali della qualificazione di Paese sicuro enunciate nell’allegato I della direttiva 2013/32»[106]. L’Egitto e il Bangladesh, Paesi di cui hanno nazionalità i richiedenti asilo destinatari dei provvedimenti di trattenimento nei centri in Albania, infatti, erano definiti dalle Schede Paese allegate al D.M. Paesi di origine sicura con eccezioni per alcune categorie di persone.
Tuttavia, i risvolti positivi che la pronuncia della Corte di giustizia sta avendo in termini di libertà personale dei richiedenti asilo e accesso ad una procedura ordinaria di esame delle loro domande di protezione internazionale, avrà breve durata. Per l’appunto, come sostenuto dal Ministro dell’Interno nella conferenza stampa di cui si accennava in apertura, il regolamento 1348/2024 – che troverà applicazione a partire dal 12 giugno 2026 – prevede una nuova ipotesi all’avverarsi della quale i richiedenti asilo saranno destinatari di una procedura accelerata di asilo alla frontiera. Segnatamente, tale procedura si applicherà ai richiedenti cittadini di un Paese terzo per il quale la percentuale di decisioni favorevoli (ovverosia di riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria) da parte dell’autorità accertante è, stando agli ultimi dati medi annuali Eurostat, pari o inferiore al 20 %[107].
Se si considera che molti Paesi di origine sicuri inclusi nelle liste nazionali includono Stati i cui cittadini, richiedenti protezione internazionale negli Stati membri, hanno un tasso di riconoscimento pari o inferiore al 20%[108], ciò, di fatto, permetterà di aggirare i principi enunciati dalla Corte che avrebbero comunque potuto trovare concretizzazione anche in vista del nuovo regolamento procedure.
Più in generale, gli strumenti adottati con il Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo confermano una progressiva erosione del diritto ad un ricorso effettivo, così come tutelato dall’art. 47 della Carta e riaffermato con la sentenza di cui si discute.
Guardando al solo regolamento procedure, per esempio, ai sensi dell’art. 67, par. 7, sia nell’ipotesi in cui il richiedente asilo provenga da Paese di origine sicuro che nel caso appena supra menzionato, gli Stati membri dovranno prevedere un termine di impugnazione della decisione da un minimo di cinque giorni a un massimo di dieci giorni. Ciò, combinato al confinamento geografico delle persone sottoposte a procedura di frontiera, limiterà enormemente il diritto ad un ricorso effettivo.
Ancor più, la prestazione di assistenza e rappresentanza legali e gratuite nella procedura d’impugnazione, parte integrante e fondamentale del diritto ad un ricorso effettivo, potrà esser esclusa dagli Stati membri «se si ritiene che il ricorso non abbia prospettive concrete di successo o sia abusivo e/o se il ricorso o il riesame sono inquadrati dal diritto nazionale nel secondo grado d’impugnazione o in grado più elevato, compresi i riesami ulteriori delle cause o i giudizi d’appello»[109].
Tutto ciò, sommato a quanto illustrato nel contributo relativamente al conflitto istituzionale in corso e alle novità introdotte dal nuovo regolamento procedure in materia di Paesi di origine sicura, comporterà (rectius comporta) un grave arretramento dei diritti fondamentali delle persone migranti e, data l’erosione del diritto ad un ricorso effettivo, un sempre più ristretto margine di intervento delle giurisdizioni nazionali e dell’Unione europea.
[1] Il presente articolo è stato scritto nell'ambito delle attività del progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN 2022) Community Sponsorship for Migration and Refugees in Europe – CoSME (www.cosmeproject.eu), finanziato dall'Unione Europea – Next Generation EU.
[2] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, CV v Ministerstvo vnitra České republiky, Odbor azylové a migrační politiky, ECLI:EU:C:2024:841.
[3] Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (rifusione), in GUUE L 180, 29.6.2013, p. 60 ss.
[4] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, GU C 202 del 7.6.2016, p. 389 ss.
[5] Articoli 36, 36 e Allegato I direttiva 2013/32/UE.
[6] Tribunale di Palermo, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 10/10/2024, R.G. n. 11974/2024; Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 18/10/2024, R.G. n.42256/2024 e Decreto del 18/10/2024, R.G. 42251/2024.
[7] Tribulane di Catania, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 17/10/2024, R.G. anonimizzato.
[8] Decreto 7 maggio 2024 del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Aggiornamento della lista dei Paesi di origine sicuri prevista dall'articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, in GURI n. 105, 07.05.2024.
[9] A. NATALE, F. FILICE, Nota ai provvedimenti di rigetto delle richieste di convalida dei trattenimenti disposti dalla Questura di Roma ai sensi del Protocollo Italia-Albania, emessi dal Tribunale di Roma, sezione specializzata nella protezione internazionale, il 18 ottobre 2024, in Questione Giustizia, 22.10.2024.
[10] Il decreto-legge 23 ottobre 2024 n. 158, Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, in GU n. 249 del 23.10.2024, all’art. 1 dispone: «All’articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono apportate le seguenti modificazioni: a) il comma 1 è sostituito dal seguente: “1. In applicazione dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti, sono considerati Paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia”». Al contrario, il precedente art. 2-bis, comma 1, del d. lgs. 25/2008 prevedeva che «con decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell'interno e della giustizia, è adottato l'elenco dei Paesi di origine sicuri sulla base dei criteri di cui al comma 2. L'elenco dei Paesi di origine sicuri è aggiornato periodicamente ed è notificato alla Commissione europea».
[11] Conferenza stampa del Consiglio dei Ministri n. 101 disponibile in: https://www.youtube.com/watch?v=lQeM_Zo0W8A.
[12] Ibid.
[13] Art. 79, par. 2, regolamento (UE) 2024/1348 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2024, che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell'Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE, in GUUE L 1348, 22.5.2024.
[14] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punti 30- 43.
[15] Zákon č. 325/1999 Sb. o azylu, Legge n. 325/1999 sull’asilo.
[16] Ivi, art. 32, par. 2.
[17] Il criterio per la designazione di un Paese come sicuro di cui all’allegato I, lettera b) della direttiva procedure richiede che il Paese in questione offra protezione da persecuzioni e maltrattamenti mediante «il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea».
[18] Art. 31, par. 8, lett. b), direttiva 2013/32/UE: «Gli Stati membri possono prevedere che una procedura d’esame sia accelerata e/o svolta alla frontiera o in zone di transito a norma dell’articolo 43 se: […] b) il richiedente proviene da un Paese di origine sicuro a norma della presente direttiva»
[19] Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, ordinanze di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE nei procedimenti iscritti al n. r.g. 3303/2024 (disponibile in: https://www.diritticomparati.it/wp-content/uploads/2024/07/rinvio-pregiudiziale-costa-d-avorio.pdf) e al n. r.g. n. 2458/2024; le cause sono state registrate con numero di causa C-388/24 Oguta e C-389/24 Daloa. In dottrina F. VENTURI, Italy ‘Safe Countries of Origin’ Legislation Under Cjeu Scrutiny: Challenging the (Un)Safety, in Diritti Comparati, 2024.
[20] Ai richiedenti protezione internazionale provenienti di Paesi di origine sicura si applica una procedura accelerata si sensi dell’art. 28 bis, comma 2, lett. c) d. lgs. 25/2008 (Decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, GU n.40 del 16-02-2008) e art. 31, par. 8 direttiva 2013/32/UE.
[21] L’art. 2 bis, comma 2, del d. lgs. 25/2008 è stato modificato dall’art. 1 del Decreto-legge n.158/2024 il quale dispone che «all’art. 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono apportate le seguenti modificazioni: (…) b) al comma 2, al secondo periodo, le parole “di parti del territorio o” sono soppresse».
[22] Art. 1 decreto 17 marzo 2023 del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Aggiornamento periodico della lista dei Paesi di origine sicuri per i richiedenti protezione internazionale, in GURI n. 72, 25.03.2023.
[23] Trib. Firenze, n. 2458/2024, cit., pp. 17, 18.
[24] L’appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (disponibile in: https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/accesso-civico-asgi-le-schede-dei-paesi-di-origine-sicuri/) ritiene che la Repubblica della Costa d’Avorio possa essere considerata un Paese di origine sicuro ma indica i seguenti gruppi sociali a rischio: detenuti, persone con disabilità fisiche o mentali, albini, sieropositivi, comunità LGBT, vittime di discriminazione sulla base dell’appartenenza di genere, vittime di tratta e giornalisti.
[25] Secondo il Tribunale (Trib. Firenze, n. 3303/2024, cit., p. 13, 14) «tali categorie sono infatti inserite nella scheda ministeriale sotto la seguente voce: “Eventuali eccezioni per parti del territorio o per categorie di persone”. Del resto, va considerato che l’art. 2-bis, comma 2 d. lgs. 25/2008, in forza del quale il decreto Ministeriale è stato emanato, prevede espressamente che “La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l'eccezione di parti del territorio o di categorie di persone” […] Un diverso risultato interpretativo, […], renderebbe il predetto decreto illegittimo per contraddittorietà tra atti, stante il contrasto con le valutazioni formulate all’esito dell’istruttoria, nonché per violazione di legge, non risultando i criteri di qualificazione posti dalla Direttiva Procedure certamente rispettati per le categorie che la stessa autorità amministrativa ha ritenuto a rischio. […]». Di diverso avviso M. GATTUSO il quale riporta: «[…] la mancata previsione di clausole di esclusione nei decreti interministeriali italiani, esclude che il giudice italiano possa proporre un ulteriore rinvio pregiudiziale, in particolare in relazione alla legittimità della previsione di clausole di esclusione per gruppi etnici, categorie, profili», si veda: M. GATTUSO, Tre domande sui Paesi sicuri, in Questione Giustizia, 22.09.2023.
[26] Al contrario del regolamento procedure del 2024 (già approvato, la cui entrata in vigore è posticipata a partire dal 12 giugno 2026) e della precedente direttiva procedure del 2005, l’attuale direttiva procedure del 2013, non consente esplicitamente la possibilità di designare un Paese come sicuro limitatamente a porzioni di territorio o con riferimento a gruppi particolari. Si vedano: art. 61, par. 2 e par. 5, lett. b), regolamento (UE) 2024/1348 e art. 30, par. 1 e par. 3 della direttiva 2005/85/CE, del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, in GUUE L 326, 13.12.2005, p. 13 ss.
[27] Trib. Firenze, n. 3303/2024, cit., p. 14.
[28] Si veda meglio infra par. 5.2 e Trib. di Bologna, primo quesito del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE ai sensi dell’art. 267 TFUE nella causa civile iscritta al n. r.g. 14572/202, depositato il 29 ottobre 2024.
[29] Allegato I direttiva 2013/32/UE.
[30] Precisamente, per la definizione di “persecuzione” si rimanda all’art. 9 della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (rifusione). Per la definizione di danno grave si richiama, invece, l’art. 15 della direttiva 2011/95/UE.
[31] Ivi, art. 61, par. 4 e Allegato I direttiva 2013/32/UE.
[32] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 57.
[33] Ivi, punti 58 e 62.
[34] Ivi, punto 59.
[35] Considerando 81 regolamento (UE) 2024/1348.
[36] Art. 60 e 62 regolamento (UE) 2024/1348.
[37] Art. 64 regolamento (UE) 2024/1348.
[38] Si confronti l’attuale art. 37, par. 2 della direttiva 2013/32/UE con gli art. 61, art. 62, par. 2 regolamento (UE) 2024/1348: «La Commissione riesamina la situazione nei paesi terzi designati paesi di origine sicuri, assistita dall'Agenzia per l'asilo e sulla base delle altre fonti d'informazione di cui all'articolo 61, paragrafo 3»; si voglia notare come la proposta di Regolamento avanzata nel 2016 (COM/2016/0467 final), invece, prevedeva che la Commissione riesaminasse «periodicamente la situazione nei paesi terzi annoverati nell'elenco comune dell'UE di paesi di origine sicuri, assistita dall'Agenzia dell'Unione europea per l'asilo (…)». Si veda anche art. 64 regolamento (UE) 2024/1348.
[39] Art. 63, par. 2, Regolamento (UE) 2024/1348, cit.
[40] C. CUDIA, Sindacabilità e disapplicazione del decreto ministeriale di individuazione dei “Paesi di origine sicuri” nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale: osservazioni su una attività del giudice ordinario costituzionalmente necessaria, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2024, p. 7.
[41] Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, 20 settembre 2023, n. 9787/2023 (disponibile in: https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/allegati/fascicolo-n-3-2023/asilo-1/processuali/1317-13-trib-firenze-1732023/file); Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, 26 ottobre 2023, n. 11464-1/2023; Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, 26 ottobre 2023, n. 3773/2023 (disponibile in: https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/allegati/fascicolo-n-1-2024/asilo-2/questioniprocessuali/1365-7-trib-firenze-26102023/file); Trib. Firenze, Sezione Specializzata Protezione Internazionale, 26 ottobre 2023, n. 4988-1/2022.
[42] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 83.
[43] Ivi, punto 66.
[44] Ivi, punto 69.
[45] Ivi, punto 68.
[46] Con riferimento all’accelerazione della procedura e alle relative conseguenze si rimanda a J. HAMBLY, N. GILL, Law and Speed: Asylum Appeals and the Techniques and Consequences of Legal Quickening, in Journal of Law and Society, 2020, pp. 3-28.
[47] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 70.
[48] Ivi, punto 71.
[49] Art. 30, par. 1e par. 3 della direttiva 2005/85/CE. N. GIEROWSKA, Why does no common European list on Safe Country of Origin exist despite numerous efforts aimed at the harmonisation of the European asylum policy? in Journal of International Migration and Integration, 2022, 23, p. 2035
[50] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 75: «(…) COM (2009) 554 definitivo, pag. 60], in cui tale facoltà, nella maggior parte delle versioni linguistiche, è stata esplicitamente espressamente barrata e, nelle altre versioni, eliminata».
[51] Ivi, punto 76.
[52] Considerando 20, direttiva 2013/32/UE.
[53] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 81.
[54] Art. 30, par. 1 e par. 3 della Direttiva 2005/85/CE. N. GIEROWSKA, Why does no common European list on Safe Country of Origin exist despite numerous efforts aimed at the harmonisation of the European asylum policy? in Journal of International Migration and Integration, 2022, 23, 2035.
[55] Art. 61, par. 2 regolamento (UE) 2024/1348.
[56] Precisamente, l’Allegato I della direttiva 2013/32/UE, cit., prevede che: «Un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. (…)».
[57] Art. 61, par. 1 regolamento (UE) 2024/1348: «Un paese terzo può essere designato paese di origine sicuro a norma del presente regolamento soltanto se, sulla base della situazione giuridica, dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono persecuzioni quali definite all'articolo 9 del regolamento (UE) 2024/1347, né alcun rischio reale di danno grave quale definito all'articolo 15 di tale regolamento».
[58] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punti 67-69.
[59] Ivi, punti 79-82.
[60] Ivi, punto 82.
[61] Ivi, punto 83.
[62] R. ADAM, A. TIZZANO, Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino, 2019, p. 352.
[63] La nuova lista di Paesi sicuri – ora prevista dallo stesso art. 2 bis, comma 1, del d. lgs. 25/2008 – per tale ragione non comprende più il Camerun, la Colombia e la Nigeria. Si veda decreto-legge 23 ottobre 2024, n. 158: «Il Presidente della Repubblica (…) considerata la straordinaria necessità ed urgenza di designare i Paesi di origine sicuri, tenendo conto della sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, del 4 ottobre 2024 (causa C-406/22), escludendo i Paesi che non soddisfano le condizioni per determinate parti del loro territorio (Camerun, Colombia e Nigeria) (…) emana il seguente decreto legge (…)».
[64] Art. 99 Regolamento di procedura della Corte di giustizia, GU L 265 del 29.9.2012, p. 1 ss. Potrebbe anche essere il caso di un’ordinanza adottata, formalmente, in forza dell’art. 100 del Regolamento di procedura – che prende atto dell’avvenuto ritiro del rinvio- ma che, in realtà, costituisce un ritiro “indotto”, poiché implicitamente suggerito dalla stessa Corte di giustizia tramite l’invio al giudice a quo di una propria precedente pronuncia già capace di scioglie il dubbio interpretativo. Sul punto: J. ALBERTI, I rinvii pregiudiziali italiani dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona al 31.12.2022: uno studio sulla prassi e sulle prospettive del dialogo tra giudici italiani e giudici dell’Unione, in dUE, 1/2023, p. 169 ss.
[65] Se, poi, il governo italiano è intervenuto in giudizio sarà ancor più difficile che la Corte si pronuncia con ordinanza. Sul punto si veda: J. ALBERTI, op. cit., in dUE, 1/2023, p. 170.
[66] Tribunale di Palermo, Decreto del 10/10/2024, R.G. n. 11974/2024, cit.; Tribunale di Roma, Decreto del 18/10/2024, R.G. n.42256/2024, cit. e Decreto del 18/10/2024, R.G. 42251/2024, cit.
[67] Tribunale di Palermo, Decreto del 10/10/2024, R.G. n. 11974/2024, cit.
[68] Ovverosia che il mancato rispetto dei criteri previsti dalla direttiva procedure per la designazione di un Paese di origine sicura, implicando anche gli aspetti procedurali della domanda, deve essere oggetto di un esame completo ed ex nunc da parte del giudice, che vi deve provvedere anche d’ufficio (punti 90 e 91 in particolare).
[69] Richiesta di sospensiva formulata ai sensi dell’art. 35 bis del d. lgs. 25/2008.
[70] Si rimanda a quanto previsto dall’art. 28-bis, comma 2, lett. c) del d. lgs 25/2008.
[71] Art. 28 bis, comma 2, lett. c) e art. 35 bis, co. 3 lett. d) d. lgs. 25/2008.
[72] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 98 sent.
[73] Il decreto-legge n. 158/2024 ha sostituito il comma 1 dell’art. 2 bis d. lgs. 25/2008 con il seguente: «1. In applicazione dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti, sono considerati Paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Peru', Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.»
Precedentemente a tale modifica, a proposito dell’indicazione di un Paese sicuro con esclusione territoriali e/o soggettive, mentre il D.M. del 7 maggio 2024 genericamente designava i Paesi di origine sicura e specificava che la situazione del richiedente doveva essere valutata alla luce delle informazioni contenute nelle Schede Paese[73], quest’ultime rimandavano ad esclusioni soggettive e territoriali per determinati Paesi (si vedano, ad esempio, Schede Paese disponibili in: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2024/06/Appunto-56895-I-06.05.2024.pdf). Benché siffatte eccezioni non siano espressamente indicate nel D.M. ma solo nelle Schede Paese, secondo il Collegio di Firenze per queste categorie di persone non opera la presunzione di sicurezza. Invero, secondo il Tribunale (Trib. Firenze, n. 3303/2024, cit., p. 13, 14) «tali categorie [di persone] sono infatti inserite nella scheda ministeriale sotto la seguente voce: “Eventuali eccezioni per parti del territorio o per categorie di persone”. Del resto, va considerato che l’art. 2-bis, comma 2 d. lgs. 25/2008, in forza del quale il decreto Ministeriale è stato emanato, prevede espressamente che “La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l'eccezione di parti del territorio o di categorie di persone” […] Un diverso risultato interpretativo, […], renderebbe il predetto decreto illegittimo per contraddittorietà tra atti, stante il contrasto con le valutazioni formulate all’esito dell’istruttoria, nonché per violazione di legge, non risultando i criteri di qualificazione posti dalla Direttiva Procedure certamente rispettati per le categorie che la stessa autorità amministrativa ha ritenuto a rischio. […]».
Di diverso avviso M. GATTUSO il quale riporta: «[…] la mancata previsione di clausole di esclusione nei decreti interministeriali italiani, esclude che il giudice italiano possa proporre un ulteriore rinvio pregiudiziale, in particolare in relazione alla legittimità della previsione di clausole di esclusione per gruppi etnici, categorie, profili», si veda: M. GATTUSO, Tre domande sui Paesi sicuri, in Questione Giustizia, 22.09.2023. Secondo questo punto di vista, seppur vero che i provvedimenti amministrativi debbono essere interpretati anche alla luce dei provvedimenti interinali e degli atti istruttori (nel caso di specie, le Schede Paese) tuttavia, l’interpretazione dell’atto amministrativo alla luce dell’atto istruttorio deve esser fatta solo se il provvedimento amministrativo, nel caso di specie, è ambiguo – caratteristica che non contraddistingue il D.M. Paesi sicuri.
[74] Trib. ordinario di Bologna, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE ai sensi dell’art. 267 TFUE, nella causa civile iscritta al n. r. g. 14572/2024, depositato il 29 ottobre 2024.
[75] Ibid.
[76] Quali persone LGBTIQA+, minoranze sociali, etniche, religiose, donne esposte a violenza di genere o rischio di tratta.
[77] Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 18/10/2024, R.G. n.42256/2024.
[78] Cont. 34720/24, Corte di Cassazione, ricorso: «1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 4, legge n. 14/2024, degli art. 2 bis e 28 bis, d.lgs. 25/2008 e degli artt. 31 par. 8, 37 e 43, direttiva 2013/32/UE e della sentenza 4 ottobre 2024 causa C-406/22 della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
[79] Trib. Firenze, n. 3303/2024, cit., p. 14.
[80] Sia permesso rimandare a M. COMETTI, Rinvio pregiudiziale in Cassazione e in Corte di giustizia e disapplicazione di un atto amministrativo contrario al diritto UE. Il caso del d.m. paesi di origine sicura, in Rivista contenzioso europeo, 3/2024.
[81] J. ALBERTI, I rinvii pregiudiziali italiani dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona al 31.12.2022: uno studio sulla prassi e sulle prospettive del dialogo tra giudici italiani e giudici dell’Unione, in J. ALBERTI, G. DE CRISTOFARO (a cura di), cit., p. 133, 134.
[82] Trib. ordinario di Bologna, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE ai sensi dell’art. 267 TFUE, nella causa civile iscritta al n. r. g. 14572/2024, depositato il 29 ottobre 2024.
[83] Art. 46, par. 3, direttiva 2013/32/UE: «Per conformarsi al paragrafo 1 gli Stati membri assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE, quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado».
[84] Riferimenti direttiva 2011/95.
[85] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punto 86: «Occorre, inoltre, ricordare che dalla giurisprudenza della Corte risulta che le caratteristiche del ricorso previsto all’articolo 46 della direttiva 2013/32 devono essere determinate conformemente all’articolo47 della Carta, che costituisce una riaffermazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva. Ebbene, l’articolo 47 della Carta è sufficiente di per sé e non deve essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile. La conclusione non può, pertanto, essere diversa con riguardo all’articolo 46, paragrafo3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta in quanto tale (v., in tal senso, sentenza del 29 Torubarov, C‑556/17, luglio 2019, EU:C:2019:626, punti 55 e 56, nonché giurisprudenza ivi citata)».
[86] Ivi, punti 88, 89.
[87] Ivi, punto 90.
[88] Ivi, punto 91.
[89] Ivi, punto 98.
[90] Corte di Cassazione, sentenza n. 11399, pubblicata il 9 aprile 2024. U. CASTAGNINI, M. STURIALE, Procedure accelerate e mancato rispetto dei termini: intervengono le Sezioni Unite, in Questione Giustizia, 21.05.2024.
[91] Ibid.
[92] Corte giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, punti 87, 88.
[93] Come fatto notare da C. AMALFITANO, M. CONDINANZI, Unione europea: fonti, adattamento e rapporti tra ordinamenti, Torino, 2015, p. 139 è stata la Corte costituzionale (Corte cost., 18 aprile 1991, n. 168, in Giur. cost., 1991, I, p. 1409 ss.) «ad abbandonare l’espressione “disapplicazione” del diritto interno contrastante, che “evoca vizi della norma in realtà non sussistenti in ragione proprio della autonomia dei due ordinamenti”, per descrivere piuttosto il fenomeno in termini di “non applicazione” della norma nazionale, che resta, appunto, irrilevante nel caso di specie, ma non per questo invalidata con effetto erga omnes». Gli stessi autori, in nota a pie di pagina n. 44, precisano come, tuttavia, nel linguaggio comune di dottrina e giurisprudenza sia «assai più diffusa l’espressione “disapplicazione”» e che la stessa Consulta ha nuovamente impiegato quest’ultimo termine in pronunce più recenti.
[94] Si rimanda a quanto sostenuto dal Ministro della Giustizia in sede di conferenza stampa del 21 ottobre (supra cit.): «(…) la disapplicazione dell’atto amministrativo, cioè di una norma secondaria, risale (…) al 1865. È la legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo, per cui il giudice può disapplicare un atto amministrativo quando lo ritenga illegittimo, lo può fare incidenter tantum però, senza abrogarlo, semplicemente non lo applica. Questo non vale per la fonte primaria: nel momento in cui l’elenco dei Paesi sicuri è inserito in una legge, il giudice non può disapplicare la legge. (…) il giudice, se ritiene che la legge sia incostituzionale, può fare ricorso alla Corte; quindi, tenderei ad escludere che possa disapplicarla a maggior ragione perché (…) questa sentenza della Corte di giustizia non è una direttiva e nemmeno vincolante in via generale e astratta perché mette dei paletti estremamente rigorosi rispetto al caso concreto che è un caso, tra l’altro, estremamente bizzarro (…)».
[95] Art. 2 bis, comma 1, d. lgs. 25/2008: «In applicazione dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti, sono considerati Paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia».
[96] Sulla necessaria distinzione tra l’istituto della disapplicazione “interna” e “comunitaria” sia permesso rimandare a M. COMETTI, cit., in Rivista contenzioso europeo, 3/2024, p. 163 ss.; su disapplicazione “interna” si veda: C. CUDIA, Sindacabilità e disapplicazione del decreto ministeriale di individuazione dei “Paesi di origine sicuri”, cit., p. 16 e ss.; A. D. DE SANTIS, Sulla disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice civile. Il “caso” del c.d. Decreto Paesi sicuri, in Questione giustizia, 2024.
[97] Trib. Firenze, 20 settembre 2023, n. 9787/2023, cit.; Trib. Firenze, 26 ottobre 2023, n. 11464-1/2023, cit.; Trib. Firenze, 26 ottobre 2023, n. 3773/2023, cit.; Trib. Firenze, 26 ottobre 2023, n. 4988-1/2022, cit.
[98] Si rimanda alla sentenza della Corte di giust., 20 aprile 2023, causa C-348/22, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato c. Comune di Ginosa, ECLI:EU:C:2023:301.
[99] Sulla verifica che il giudice deve operare, nel caso di specie, circa la possibilità di procedere disapplicando il diritto nazionale contrastante con il diritto dell’Unione dotato di effetto diretto sia permesso rimandare a M. COMETTI, cit., in Rivista contenzioso europeo, 3/2024, p. 168 ss. Dopo la sentenza della Corte di giustizia nella causa C-406/22 non rimangono margini di dubbio sull’effetto diretto delle disposizioni della direttiva 2013/32/UE in materia di condizioni per la designazione di un Paese terzo come Paese sicuro.
[100] Trib. ordinario di Bologna, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE ai sensi dell’art. 267 TFUE, nella causa civile iscritta al n. r. g. 14572/2024, depositato il 29 ottobre 2024, punto 4.3, p. 22.
[101] Ivi, p. 23 ove il Tribunale rinvia alla consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia sul punto.
[102] Ivi, p. 24.
[103] Tale frattura si è concretizzata anche in attacchi personali rivolti ad alcune giudici: una delle magistrate che ha firmato i provvedimenti di non convalida dei trattenimenti (supra par. 5.2) ha ricevuto diversi messaggi contenenti minacce di morte; si veda: Associazione nazionale magistrati, comunicato stampa del 26 ottobre 2024, in: https://www.associazionemagistrati.it/doc/4436/solidariet-a-silvia-albano.htm; inoltre, il Giornale, con un articolo del 23 ottobre 2024, ha insinuato (si veda lettera inviata dalla giudice al Giornale e pubblicata nella stessa pagina web di cui sotto) che dietro la sentenza della Corte di giustizia nella causa C-406/22 ci fosse «una manina italiana (…) una sorta di canto del cigno visto che quella sentenza presa a riferimento appena 12 giorni dopo (siamo quasi alla telepatia) dalla sezione immigrazione del Tribunale di Roma di cui fa parte anche la presidente di magistratura democratica (la corrente di sinistra delle toghe), Silvia Albano, ha fatto scoppiare in Italia una mezza tempesta e ha riacceso nuovamente lo scontro tra Potere Politico e Giudiziario», in: https://www.ilgiornale.it/news/politica/manina-corte-giustizia-2385292.html.
[104] Il Protocollo Italia-Albania prevede la concessione da parte dell’Albania di due aree demaniali per la realizzazione di tre strutture sotto la giurisdizione italiana nell’area portuale di Shëngjin e nella città di Gjadër. Si tratta di un centro per le procedure di screening a Shengjin e due centri a Gjadër: uno per l’esame delle domande di protezione internazionale, con una capacità massima di 880 persone e l’altro, con 144 posti, per le procedure di espulsione; si veda: Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, ratificato e reso esecutivo con la l. 21 febbraio 2024, n. 14. In dottrina, ex multis, E. CELORIA, A. DE LEO, Il Protocollo Italia-Albania e il diritto dell’Unione europea: una relazione complicata, in Diritto, Immigrazione, Cittadinanza, n. 1/2024; S. CARRERA, G. CAMPESI, D. COLOMBI, The 2023 Italy-Albania Protocol on extraterritorial migration management. A worst practice in migration and asylum policies, in CEPS, 7 dicembre 2023, https://www.ceps.eu/ceps-publications/the-2023-italy-albania-protocol-on-extraterritorial-migration-management/; A. DE LEO, On the incompatibility of the Italy-Albania Protocol with the EU Asylum Law, in SIDIBlog, 15 novembre 2023; M. SAVINO, V. VIRZI, Il protocollo tra Italia e Albania in materia migratoria: prime riflessioni sui profili dell’extraterritorialità, in ADIM Blog, Editoriale, Novembre 2023; A. SPAGNOLO, Sull’illegittimità del protocollo Italia-Albania in materia migratoria, in SidiBlog, 9 novembre 2023.
[105] Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, Decreto del 18/10/2024, R.G. n.42256/2024 e Decreto del 18/10/2024, R.G. 42251/2024.
[106] Ibid.
[107] Art. 42, par. 1, lett. j) letto in combinato disposto con l’art. 45, par. 1 del regolamento 2024/1348. Al richiedente, invece, non sarà applicata una procedura di frontiera accelerata se «l’autorità accertante valuti che la situazione nel paese terzo ha registrato un cambiamento significativo dalla pubblicazione dei pertinenti dati Eurostat ovvero [se] il richiedente appartiene a una categoria di persone le cui esigenze di protezione impediscono di considerare rappresentativa una percentuale di riconoscimento pari o inferiore al 20 %, tenendo conto, tra l'altro, delle differenze significative tra decisioni di primo grado e decisioni definitive» (art. 42, par. 1, lett. j).
[108] Ad esempio, incrociando dati forniti dall’EUAA relativi all’anno 2023 (https://euaa.europa.eu/sites/default/files/publications/2024-06/2024_Asylum_Report_EN.pdf, p. 314) con la lista Paesi di origine sicura adottata con Decreto-legge n. 158/2024 i tassi di riconoscimento della protezione internazionale in prima istanza risultano essere i seguenti: Albania 7%; Algeria 9%; Bangladesh 5%; Egitto 7%; Georgia 4%; Serbia 1%; Perù 5%; Marocco 5%; Macedonia del Nord 0%; Costa d’Avorio 29%. L’EUAA non fornisce statistiche per: Bosnia-Erzegovina; Capo Verde; Gambia; Ghana; Kosovo; Montenegro; Senegal; Sri Lanka e Tunisia.
[109] Articolo 17, comma 2, regolamento 2024/1348.
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro e Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi, Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri.
I giudici nemici della patria?
di Glauco Giostra
Volendo tentare una lettura delle recenti ringhiose recriminazioni governative nei confronti di alcuni provvedimenti della magistratura, bisogna evitare due errori di segno opposto: pensare che si tratti di un inedito, riprovevole scadimento istituzionale oppure, all’opposto, che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole italico.
Per carità di Patria tralasciamo i tentativi del passato e del presente di giustificare questa intolleranza alle iniziative giudiziarie con il fatto che i rappresentanti politici sono stati democraticamente votati dal popolo, e quindi loro e la loro azione sono al di sopra del giudizio di un magistrato non votato, che non può andare contro la volontà del popolo. Anche Hitler è stato democraticamente eletto eppure nessuno di coloro che hanno addotto il summenzionato argomento si sognerebbe di sostenere che il criminale tedesco dovesse considerarsi legibus solutus per essere stato eletto dal popolo.
A parte questa blasfemia costituzionale del “sono eletto, quindi non sono giudicabile”, quando si è a corto di argomenti giuridici rispetto a provvedimenti giudiziari non graditi si fa ricorso alla radiografia della vita personale, familiare e professionale del suo autore o autrice, rovistando nella pattumiera di emeroteche o di oscure videoteche alla ricerca di elementi di biasimo o, almeno, di sospetto. È una vecchia tecnica questa dell’aggressione polemica nei confronti dell’interlocutore (argumentum ad personam) cui si ricorre quando non si è in grado di confutarne le asserzioni (argumentum ad rem); una tecnica che rimanda a periodi non esaltanti della nostra storia e che rischia imbarazzanti sconfessioni (si pensi al caso Apostolico: una giudice messa al centro di video, di gossip sui propri familiari, di sollecitazioni ispettive per un provvedimento asseritamente illegittimo pronunciato in odio al Governo; Governo che poi ha rinunciato al ricorso in Cassazione che aveva promosso, provvedendo a rimodulare la normativa).
Sin qui, a parte la noia per questo refrain stucchevole e patetico, nihil novi: «sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto – spiegava Calamandrei – vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria».
L’imparzialità secondo certa politica è dunque quella dote che il magistrato perde quando procede contro un politico della maggioranza o contro il governo da questa espresso, ponendo in essere una giustizia a orologeria, secondo una locuzione coniata da Craxi trent’anni fa, e poi praticata da Berlusconi, Bossi e giù per li rami sino ad oggi.
Nulla di originale, dunque. E forse la situazione attuale non meriterebbe neppure uno sbadigliante commento, se non fosse che di recente non ci si limita più a puntare l’indice politico contro il patologico uso del potere giudiziario, ma se ne indica insistentemente il rimedio: è la prova che c’è bisogno della riforma della giustizia. Ma perché una riforma della giustizia dovrebbe assicurare che p.m. e giudici faziosi cambino idea? Se si allude soprattutto alla c.d. separazione delle carriere, non si comprende come questa possa incidere sul loro settario modus procedendi, tanto più che si è sempre assicurato, ancora di recente l’ha ribadito il Ministro Nordio, che con la separazione delle carriere non si punta alla dipendenza politica della magistratura requirente. A prima vista sembra proprio una giacca abbottonata non in corrispondenza delle asole. Ma il riferimento alla terapia è talmente insistito e da parte di esponenti così autorevoli del governo, personaggi politicamente navigati i quali hanno ben chiari obbiettivi e mezzi, che qualche dubbio sorge. Che per riforma della giustizia intendano una penetrante normalizzazione della magistratura sotto il controllo della politica?
Prospettiva inquietante. E certo non tranquillizza il commento con cui la Premier ha stigmatizzato la magistratura i cui provvedimenti sui migranti non avrebbero aiutato il Governo che starebbe aiutando il Paese. Siamo in presenza di una stecca rispetto al pentagramma costituzionale: la magistratura non deve e non può né cercare di aiutare, né cercare di ostacolare l’azione governativa. Pensavamo che fosse ormai acquisita in una democrazia costituzionale come la nostra la differenza di statuti operativi – scolpita da Luhmann – tra l’azione politica che obbedisce ad un programma di scopo, scelta dei mezzi per conseguire un obbiettivo, e l’azione giudiziaria, che deve obbedire ad un programma condizionale : “se si è verificato x, deve seguire l’ effetto y”, irrilevanti restando le conseguenze politiche, economiche o d’altro genere: si vorrebbe, invece, che perseguisse gli stessi obbiettivi governativi?
Riusciremo mai ad affrancarci da questa cronica, grave fibrillazione istituzionale? Solo quando una collettività matura inizierà a non credere al vittimismo di chi è al potere, a cui un nemico (giornalismo, magistratura, Banca d’Italia, Europa, ecc.) impedisce sempre di ben governare. Non sono molto ottimista: già Gerard nell’Andrea Chénier cantava «Nemico della Patria? È vecchia fiaba che beatamente ancor la beve il popolo». E di sicuro oggi così canterebbe ancora.
(Contributo pubblicato sul quotidiano “Il Domani” del 6 novembre 2024.)
…E se morisse l’utopia!
di Licia Fierro
Il termine utopia letteralmente equivale a “NON LUOGO” (où tòpos) e fu inventato in età moderna da Tommaso Moro, il quale se ne servì per indicare e descrivere un’isola immaginaria, appunto Utopia, il luogo che non c’è. Nell’isola che Moro tratteggia gli uomini sono felici perché vivono in pace in una comunità tollerante, dove tutto è improntato sui valori del bene e della giustizia, dove nessuno soffre la fame e perciò non esistono l’invidia e la prevaricazione. Quando Moro sottolinea l’assetto istituzionale di Utopia come repubblica aristocratica egli riconosce esplicitamente come punto di riferimento la Repubblica di Platone, il testo originario cui tutti gli utopisti hanno attinto per costruire modelli ideali di Stato. C’è da dire che Platone era convinto che lo Stato ideale e perfetto non è mai esistito, forse non esisterà mai e tuttavia è necessario inseguirlo, tendere ad esso, guardare la realtà non sub specie temporis ma sub specie aeternitatis. Quest’idea della perfettibilità è connaturata alla letteratura utopica quasi in tutti i tempi. E se in alcuni momenti della storia sono risultate prevalenti le trattazioni esclusivamente teoriche, costruite dagli addetti ai lavori senza immediate finalità pratiche, è pur vero che già a partire dalla metà del ‘700 con l’affermarsi della concezione progressista della storia, l’utopia assume la valenza di pensiero rivoluzionario. Per tutti basti pensare a Babeuf e Buonarroti e alla Congiura degli Eguali in cui emergono i motivi ispiratori di gran parte dei movimenti rivoluzionari del secolo successivo. L’Ottocento, mi si potrebbe obiettare, è stato per la questione che ci interessa un secolo bifronte: da un lato i grandi tentativi dei filantropi di costruire in luoghi precisi comunità di vita e di lavoro (si guardi a R. Owen e al suo esperimento di New Harmony in America), dall’altro la critica feroce ai caratteri oppressivi di queste medesime comunità ideali. In sostanza se ne attaccavano i fondatori considerati o megalomani, o schiavi delle loro illusioni, o nuovi oppressori di uomini schiacciati da modelli rigidi, da vere e proprie coazioni a ripetere. E quando si sviluppò il movimento culturale e politico del socialismo utopistico, Marx aveva già chiare le risposte, come si evince da un suo testo importantissimo “La miseria della filosofia” in risposta al libro di Proudhon “La filosofia della miseria”. I socialisti utopisti, e Proudhon in particolare, continuano secondo Marx ad utilizzare categorie hegeliane nel modo di presentare l’evoluzione delle società e il loro sviluppo storico come storia “delle idee”, ovvero come costruzioni concettuali sovrapposte alla “storia reale”. In quel testo nato e concepito come critica a Proudhon, Marx già segna i punti fondamentali della sua concezione materialistica della storia come definitivo abbandono del metodo e dei risultati della dialettica hegeliana di cui pure, in gioventù, si era nutrito. Certo anche a lui non fu estranea l’idea della progettazione per il futuro, anche lui che è stato il filosofo della prassi rivoluzionaria, ha poi delineato i caratteri di una società post-rivoluzionaria. Voglio significare che l’utopia in quanto progetto costruttivo non è una fantasticheria vuota. Dicevo spesso ai miei studenti: che nessuno uccida le vostre utopie, coltivatele perché senza impegnarsi per modificare il mondo non c’è futuro per nessuno. Occorre credere nella spinta propulsiva dell’azione trasformatrice e altrettanto fuggire da modelli assoluti che si presentano come sistemi dove tutto è regolato in modo rigido perché si presume che qualcuno o pochi non solo possiedono il segreto della perfezione, ma agiscono e decidono gradualmente fuori dal patto sociale su cui sono fondate le democrazie mature. Mi piace, in tale ottica, ricordare le numerose interviste che Karl Popper rilasciò a radio, televisioni, riviste e quotidiani tra il 1983 e il 1994 in cui affrontava il tema del futuro “possibile” e metteva in guardia da ciò che poi è realmente accaduto: dai pericoli della democrazia, alla caduta del comunismo, dal pacifismo all’unificazione europea, all’atteggiamento da tenere con gli ecologisti. In tutte quelle interviste lo sguardo del filosofo era proteso verso il futuro, anche se del futuro nessuno sa nulla e non sono possibili previsioni. Si avvertono echi del pensiero di Nietzsche, il quale condannava l’esaltazione del passato come “storia monumentale” utile solo a consolarsi della mediocrità del presente, quando Popper pone una cesura netta tra passato e futuro: «il passato possiamo e dobbiamo giudicarlo, il futuro possiamo influenzarlo». Si profila, dunque, come dovere morale l’impegno a creare le condizioni per costruire un mondo migliore. L’atteggiamento di fronte al futuro non deve essere dominato dalla domanda “che cosa accadrà?” quanto piuttosto dalla domanda: che cosa dobbiamo fare per rendere il mondo almeno migliore?” Nell’intervista a Il Mondo, 21 maggio 1990, a cura di Giuseppe Leuzzi, Popper sosteneva che la democrazia moderna è parte dell’ideologia dell’illuminismo ed essa affermava sostanzialmente questo: «io e i miei amici non abbiamo bisogno di un re o di una polizia, bastano le leggi». Sul piano politico Kant aveva tratto la conclusione che ci dovrebbe essere tanta libertà per ogni persona quanta è compatibile col fatto che viviamo insieme. La democrazia è dunque un fatto politico e morale. La questione morale è diventata sotto le dittature, sotto Hitler o Mussolini, questa: se e in che misura obbedire al capo. Come sostiene Hannah Arendt in “Le origini del totalitarismo”, «il principio di autorità certamente tende a ridurre o limitare la libertà ma mai ad abolirla, il dominio totalitario, invece, mira a distruggerla». Questo è avvenuto nel “secolo breve” tutto compresso nei sistemi totalitari. Riteniamo di essere oggi immuni, ovvero vaccinati da questi virus? Il mondo in cui viviamo non è il migliore dei mondi possibili di leibniziana memoria e perciò l’utopia acquista significato solo se si guarda con metodo marxiano alle società umane esistenti e se ne possono modificare in progress le strutture economiche e di conseguenza le relazioni umane che esse determinano. Sempre che la Costituzione e le leggi non vengano disattese o peggio calpestate secondo finalità e interessi di governi in carica. Perciò è necessario evitare che in numerosi Paesi, compreso il nostro, emergano conflitti continui anche e soprattutto a livello istituzionale. I poteri nello stato di diritto sono separati e indipendenti e tali devono restare. I pessimisti diranno che è un’utopia!
(L'immagine è un'illustrazione presente nell'edizione del 1516 di Utopia di Thomas More.)
Il difficile equilibrio tra attività economica e tutela dell’ambiente salubre: suggerimenti per sciogliere un nodo gordiano (nota a CGUE 25 giugno 2024 C-626/22)
di Giulia Torta
Sommario: 1. Introduzione – 2. La sentenza della Corte di Giustizia del 25 giugno 2024 nella causa C-626/22, C.Z. e altri contro Ilva S.p.A. in Amministrazione Straordinaria e altri – 2.1. Le ragioni del rinvio pregiudiziale e i dubbi del giudice nazionale – 2.2. Sulla ricevibilità della domanda di rinvio pregiudiziale – 2.3. Sulla corretta interpretazione della direttiva 2010/75/UE – 2.3.1. La prima questione – 2.3.2. La seconda questione – 2.3.3. La terza questione - 3. Riflessioni conclusive
1. Introduzione
Lo sviluppo sostenibile, nelle sue tre dimensioni - sociale, economica e ambientale - costituisce il fondamento indispensabile per il benessere umano e per il pieno godimento dei diritti, tanto per le generazioni presenti quanto per quelle future[1].
Al cuore di questa impostazione risiede l’affermazione del diritto fondamentale a un ambiente salubre, un principio ulteriormente consolidato, a livello nazionale, dalla recente modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana[2]. Questa riforma, infatti, non solo sottolinea l'importanza della tutela dell'ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, ma stabilisce anche che l'iniziativa economica privata deve rispettare tali principi, evitando di arrecare danno alla salute e all'ambiente. Il diritto a un ambiente sano, peraltro, va oltre la semplice aspirazione a vivere in un contesto non inquinato; esso impone agli Stati l'obbligo di adottare misure concrete per prevenire il degrado ambientale e proteggere le risorse naturali. Gli Stati, di conseguenza, sono tenuti ad implementare misure concrete per garantire un equilibrio ecologico che supporti la vita umana, promuovendo una concezione di salute più ampia, che includa il benessere fisico, mentale e sociale, e non si limiti solo all'assenza di malattie o infermità[3].
In un contesto di crescente consapevolezza e preoccupazione per le sfide ambientali globali, perciò, lo sforzo incessante dei legislatori e della giurisprudenza[4] per promuovere l’implementazione del diritto ad un ambiente salubre quale principio giuridico universale è un passo decisivo verso un futuro in cui il benessere umano e la tutela dell'ambiente siano concettualmente inseparabili, giacché il secondo rappresenta una condizione essenziale per garantire una vita dignitosa e una società equa.
Ciò, peraltro, assume particolare rilevanza in contesti delicati, dove l'equilibrio tra attività economiche, protezione ambientale e tutela della salute è spesso precario, come spesso avviene in presenza di importanti impianti di produzione industriale[5]. Quando vengono messi in funzione impianti simili, destinati al trattamento di sostanze potenzialmente nocive, infatti, gli Stati devono confrontarsi con la necessità di bilanciare tre interessi fondamentali e spesso in conflitto tra loro: promuovere lo sviluppo economico nazionale e locale; tutelare l’ambiente dalle immissioni di inquinanti; garantire il diritto dei singoli a vivere in un ambiente salubre, proteggendo la loro salute e la loro vita privata e familiare dall'invasività di attività industriali potenzialmente pericolose.
Questo bilanciamento non è solo una questione di opportunità politica, ma anche un obbligo giuridico che impone alle autorità competenti di adottare tutte le misure necessarie al fine di prevenire conseguenze negative sulla salute e sulla qualità della vita di chi risiede nelle aree interessate. L’omessa adozione, da parte delle autorità nazionali, di adottare misure efficaci per proteggere questi diritti costituisce una grave mancanza ed un ostacolo alla tutela della vita di coloro che risiedono nei pressi di questi siti, con particolare riguardo alle fasce di maggiore vulnerabilità.
2. La sentenza della Corte di Giustizia del 25 giugno 2024 nella causa C-626/22, C.Z. e altri contro Iva S.p.A. in Amministrazione Straordinaria e altri
Il contrasto all’inquinamento industriale rappresenta uno dei filoni più significativi della giurisprudenza ambientale e, tra i casi che hanno segnato profondamente questo settore, pochi sono stati così complessi e controversi come quello dell'acciaieria Ilva di Taranto.
L'Ilva, infatti, nasce e si sviluppa come uno dei più grandi impianti siderurgici d'Europa ed ha una storia complessa[6], che intreccia questioni economiche, sociali e ambientali: queste sono le ragioni per le quali dottrina e giurisprudenza hanno dedicato all’Ilva grande attenzione negli anni e ne hanno indubbiamente fatto un caso studio emblematico, plasticamente rappresentativo delle difficoltà nel bilanciare sviluppo industriale, tutela dell'ambiente e tutela della salute.
È passato ormai più di un decennio dal 2012, data in cui il giudice penale ha disposto il sequestro dell’impianto, ma la vicenda, invece di trovare una sua conclusione, è stata caratterizzata da un vorticoso alternarsi di decreti governativi che hanno cercato di mantenere in attività l'impianto attraverso l’introduzione di norme ad hoc[7] e di decisioni giudiziarie che hanno tentato di arginare la situazione[8]. Dal punto di vista giuridico, quindi, il caso Ilva continua a rappresentare un terreno di scontro aperto che sollecita continuamente gli interpreti del diritto a confrontarsi sulla difficoltà di trovare un giusto bilanciamento tra esigenze contrapposte, promuovendo nuove interpretazioni delle norme nazionali italiane ed europee in grado di rafforzare sul piano teorico e su quello pratico l’affermazione del diritto ad un ambiente salubre.
Questo è il contesto di fatto in cui si inserisce l’azione collettiva avviata, di recente, per la protezione di diritti omogenei di circa 300.000 residenti di Taranto e comuni limitrofi contro Ilva S.p.A. in Amministrazione Straordinaria, Acciaierie d’Italia S.p.A. e Acciaierie d’Italia Holding S.p.A. che ha portato all’instaurazione di una controversia innanzi al Tribunale di Milano[9].
In particolare, i ricorrenti nel procedimento principale fondano le loro allegazioni su valutazioni di danno sanitario (VDS) redatte negli anni 2017, 2018 e 2021 dagli organi tecnici della Regione Puglia, nell’ambito delle quali viene affermata l’esistenza di una relazione causale tra l’alterato stato di salute dei residenti nell’area di Taranto e le emissioni dello stabilimento Ilva, specie con riferimento alle frazioni di particolato con diametro aerodinamico inferiore a 10 micron (PM10) e all’anidride solforosa di origine industriale.
Queste VDS, e le forti preoccupazioni che facevano nascere in capo ai residenti, avevano spinto il sindaco di Taranto a chiedere, con istanza del 21 maggio 2019, il riesame ai sensi del decreto legislativo n. 152/2006 dell’autorizzazione integrata ambientale rilasciata allo stabilimento nel 2017; il procedimento in questione era effettivamente stato avviato nello stesso mese dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Tuttavia, nessuna conseguenza pratica ne era seguita poiché, dall’istruttoria svolta, era emerso che il controllo delle emissioni dello stabilimento Ilva che aveva portato alle preoccupanti VDS era stato stilato prendendo in considerazione numerosi inquinanti che non facevano parte dell’elenco di inquinanti inizialmente incluso negli elementi da valutare per il rilascio dell’autorizzazione. Un dettaglio che si rivelava cruciale dal momento che, in applicazione delle norme speciali previste per l’Ilva, era ben possibile lasciare da parte, nel riesame dell’autorizzazione, questo “set integrativo” di inquinanti per procedere ad una valutazione focalizzata solo su quell’elenco di sostanze inquinanti e potenzialmente dannose per la salute umana che era stato predisposto in origine. Il tentativo del sindaco di Taranto, quindi, non aveva sortito l’effetto desiderato.
Sempre alla normativa speciale doveva ricondursi, inoltre, anche la proroga del termine di attuazione delle prescrizioni per il risanamento ambientale che, con il decreto legge n. 207/2012, era stato inizialmente esteso per un termine di 36 mesi dalla data di rilascio dell’AIA del 2012, e che, per effetto dei decreti successivi, era stato progressivamente spostato fino al 23 agosto 2023[10]. Un ritardo di ben undici anni nell’attuazione di queste prescrizioni che non lasciava ben sperare per il futuro, mentre la grave preoccupazione per le condizioni ambientali e sanitarie della zona del polo siderurgico tarantino riecheggiava anche nel Rapporto del Relatore Speciale sulla questione degli obblighi relativi ai diritti umani a un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite[11]. In questo Rapporto, infatti, il Relatore Speciale non si limitava ad affermare, in linea teorica, che vivere in un ambiente non tossico è uno dei contenuti imprescindibili del diritto ad un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile, ma faceva diretto riferimento alla questione dell’Ilva di Taranto identificandola come caso emblematico. Il Relatore Speciale, infatti, affermava senza mezzi termini che la distruzione dell’ambiente, legata all’immissione massiccia di sostanze tossiche da parte dell’impianto siderurgico tarantino, è causa diretta di gravi ingiustizie ambientali tanto da rendere l’area di Taranto indubitabilmente ascrivibile nel novero delle "zone di sacrificio"[12]: un’area estremamente contaminata dove i gruppi vulnerabili ed emarginati subiscono in modo sproporzionato le conseguenze negative sulla salute, sui diritti umani e sull’ambiente dovute all’esposizione a inquinamento e sostanze pericolose.
Con la propria azione legale, dunque, i ricorrenti si sono rivolti al giudice ordinario per ottenere la tutela del loro diritto alla salute, del diritto alla serenità e tranquillità nello svolgimento della loro vita, nonché del loro diritto al clima. Secondo la ricostruzione da essi offerta, infatti, tali diritti sono lesi, in via permanente dal 2012, a causa di comportamenti dolosi che provocano un inquinamento causato dalle emissioni provenienti dallo stabilimento Ilva, le quali esporrebbero tali residenti ad eventi di morte e malattie aggiuntive.
2.1. Le ragioni del rinvio pregiudiziale e i dubbi del giudice nazionale
La normativa pertinente, che regola appunto le emissioni industriali nel contesto giuridico italiano, è essenzialmente quella stabilita a livello europeo dalla direttiva 2010/75/UE[13] e dagli altri atti giuridici sulle migliori tecniche disponibili, ossia le cosiddette conclusioni sulle Best Available Techniques (BAT), che la Commissione ha elaborato insieme ai rappresentanti dei settori interessati e ai rappresentanti degli Stati membri.
Per risolvere la controversia instaurata innanzi al suo ufficio, dunque, il giudice di Milano è stato chiamato ad applicare la normativa italiana nel rispetto di quella europea.
Effettuata l’apposita ricognizione delle norme in vigore e della disciplina straordinaria disposta per l’Ilva, tuttavia, il giudice nazionale ha rilevato, innanzitutto, come, nel diritto italiano, non sia previsto che la valutazione del danno sanitario venga redatta all’interno del procedimento di rilascio o riesame dell’autorizzazione integrata ambientale. Non è neppure previsto, riconosce il giudice, che, quando una tale valutazione dia risultati in termini di inaccettabilità del rischio sanitario per la popolazione interessata da emissioni inquinanti, l’autorizzazione dell’impianto debba essere rivista entro tempi brevi e certi. Secondo il diritto nazionale, in altri termini, la valutazione del danno sanitario andrebbe realizzata a posteriori, e solo eventualmente potrebbe essere collegata al riesame dell’autorizzazione integrata ambientale.
Il giudice di prime cure, peraltro, ha riconosciuto anche che, per effetto della normativa speciale predisposta per l’Ilva, sono stati finora avallati nel panorama giuridico nazionale tanto la scelta di non integrare l’elenco originario degli inquinanti da valutare nell’ambito del procedimento di riesame dell’autorizzazione, quanto il perdurare di una situazione gravemente rischiosa per la salute umana e per l’ambiente per oltre undici anni. La gravità di queste circostanze appare evidente al giudice, il quale, dunque, si interroga sulla possibilità che questa situazione sia in contrasto con la normativa europea vigente e con i principi cui essa si ispira.
Al ricorrere delle segnalate incongruenze tra il diritto nazionale e la normativa europea, che il giudice nazionale valuta significative e che reputa necessario risolvere per poter procedere alla risoluzione della controversia di cui è stato investito, questi decide di attivare il meccanismo del rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE)[14]: richiedere un’interpretazione della normativa europea direttamente alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
In concreto, dunque, il giudice di Milano formula tre quesiti, la cui risposta avrà una ricaduta immediata e puntuale sulla vicenda oggetto del ricorso principale:
1) Se la direttiva 2010/75/UE (in particolare i considerando 4, 18, 34, 28 e 29 e gli articoli 3, punto2, 11, 12 e 23), ed il principio di precauzione e protezione della salute umana di cui all’articolo 191 TFUE, possono essere interpretati nel senso che, in applicazione di una legge nazionale di uno Stato membro, è concessa a tale Stato membro la possibilità di prevedere che la valutazione di danno sanitario costituisca atto estraneo alla procedura di rilascio e riesame dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) – come appunto è previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 2017 - dunque, se essa sia priva di effetti automatici nell’ambito di un procedimento di riesame dell’AIA in termini di tempestiva ed effettiva considerazione da parte dell’autorità competente, specialmente quando dia risultati in termini di inaccettabilità del rischio sanitario per la popolazione interessata dalle emissioni inquinanti. In alternativa a questa ricostruzione, se la direttiva deve essere interpretata nel senso che: i) il rischio tollerabile per la salute umana può essere apprezzato mediante analisi scientifica di natura epidemiologica; ii) la VDS deve costituire atto interno al procedimento di rilascio e riesame dell’AIA, ed anzi un suo necessario presupposto, in particolare oggetto di necessaria, effettiva e tempestiva considerazione da parte dell’autorità competente al rilascio e riesame dell’AIA.
2) Se la direttiva 2010/75/UE (in particolare i considerando 4, 1[5], 18, 21, 34, 28 e 29 e gli articoli 3, punto 2, 11, 14, 15, 18 e 21), può essere interpretata nel senso che, in applicazione di una legge nazionale di uno Stato membro, tale Stato membro debba prevedere che l’AIA consideri sempre tutte le sostanze oggetto di emissioni che siano scientificamente note come nocive; ovvero se la direttiva possa essere interpretata nel senso che il provvedimento amministrativo autorizzativo deve includere soltanto sostanze inquinanti previste a priori in ragione della natura e tipologia dell’attività industriale svolta.
3) Se la direttiva 2010/75/UE (in particolare i considerando 4, 18, 21, 22, 28, 29, 34, 43 e gli articoli 3, punti 2 e 25, 11, 14, 16 e 21), può essere interpretata nel senso che, in applicazione di una legge nazionale di uno Stato membro, tale Stato membro, in presenza di un’attività industriale recante pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana, può differire il termine concesso al gestore per adeguare l’attività industriale all’autorizzazione concessa, mancando di realizzare le misure e le attività di tutela ambientale e sanitaria ivi previste, per circa sette anni e mezzo dal termine fissato inizialmente e per una durata complessiva di oltre undici anni.
2.2. Sulla ricevibilità della domanda di rinvio pregiudiziale
Alla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale sono dedicati i paragrafi da 44 a 65 della sentenza.
In ottemperanza di quanto previsto dall’articolo 94, lettere da a) a c) del regolamento di procedura della Corte di Giustizia, la richiesta del giudice nazionale è strutturata in modo preciso e contestualizzato. In essa, infatti, il giudice fornisce ampiamente le spiegazioni necessarie sui motivi della scelta delle disposizioni del diritto dell’Unione di cui chiede l’interpretazione, nonché sul collegamento diretto esistente tra la corretta interpretazione di tali disposizioni e l’esito alla controversia di cui è investito.
Per queste ragioni, l’obiezione dei rappresentanti dell’Ilva e del governo italiano, relativa alla non conformità della domanda di pronuncia pregiudiziale rispetto ai requisiti posti dall’articolo 94 del regolamento di procedura viene respinta con decisione ed a poco vale anche l’obiezione dei resistenti secondo cui la compatibilità tra il nuovo termine previsto per garantire la conformità dell’esercizio dello stabilimento alle misure nazionali di tutela ambientale e sanitaria sia compatibile con la direttiva 2010/75 perché così è stato accertato con parere del Consiglio di Stato che ha acquisito autorità di cosa giudicata. La giurisprudenza della Corte di Giustizia, infatti, è storicamente granitica nel ribadire che un giudice nazionale non può validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità d’interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che tale disposizione sia stata interpretata da altri giudici nazionali in un senso che risulterebbe incompatibile con tale diritto[15]. In altri termini, il giudice nazionale non può farsi guidare, nel verificare l’aderenza delle norme nazionali alle norme europee, dalla valutazione operata da un altro giudice nazionale: la competenza a garantire un’interpretazione e un’applicazione uniformi del diritto europeo, con effetti vincolanti per i giudici nazionali ai quali venga sottoposta un'identica questione, è propria solo della Corte di Giustizia.
Viene superata, poi, anche l’obiezione relativa alla circostanza che, qualora la Corte interpretasse la direttiva 2010/75 nel senso che una VDS sull’attività di un’installazione deve essere realizzata preventivamente al rilascio di un’autorizzazione all’esercizio di tale installazione o in occasione del riesame di tale autorizzazione, spetterebbe al legislatore nazionale adottare un atto di trasposizione per definire il contenuto di detta valutazione, mentre non avrebbero nessun ruolo i privati. Su questi profili la Corte, infatti, richiamando le conclusioni dell’Avvocato Generale (A.G.), ricorda che “devono essere assimilati a uno Stato membro e ai suoi organi amministrativi gli organismi o entità, anche se disciplinati dal diritto privato, che sono soggetti all’autorità o al controllo di un’autorità pubblica o che sono stati incaricati da uno Stato membro di svolgere un compito di interesse pubblico e che, a tal fine, dispongono di poteri eccezionali rispetto a quelli derivanti dalle norme applicabili nei rapporti tra privati”[16]. Ebbene, l’articolo 1, comma 1, del decreto legge n. 207/2012 definisce lo stabilimento Ilva uno stabilimento di interesse strategico nazionale e i singoli, qualora siano in grado di far valere una direttiva non nei confronti di un privato, ma di uno Stato membro, possono farlo indipendentemente dalla veste nella quale questo agisce. Come afferma la Corte, infatti, “è opportuno evitare che lo Stato membro possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto dell’Unione” utilizzando come scudo la circostanza che la controversia pendente dinanzi al giudice del rinvio contrapponga privati.
È indubitabile, infine, secondo la Corte, che le norme speciali dedicate all’Ilva rientrino nel campo di applicazione della direttiva 2010/75 sia per la materia da esse disciplinata, sia per il loro carattere di lex specialis rispetto al decreto legislativo n. 152/2006.
2.3 Sulla corretta interpretazione della direttiva 2010/75/UE
Superate tutte le obiezioni sulla ricevibilità del ricorso avanzate dai resistenti, le questioni poste con rinvio pregiudiziale, ritenute meritevoli di discussione tanto dall’A.G. investito della causa[17] quanto dalla Corte, sono approfondite e risolte in modo meticoloso.
2.3.1 La prima questione
La prima domanda pregiudiziale presentata dal giudice nazionale chiedeva alla Corte di chiarire, alla luce della normativa europea, quale ruolo debba essere attribuito alla VDS nelle procedure di rilascio e riesame dell'AIA. Per fornire una risposta, la Corte ha preliminarmente ricostruito la ratio sottostante alla direttiva sulle emissioni industriali, collocandola nel contesto politico e giuridico dell'Unione.
Nella cornice stabilita dall’articolo 11 TFUE[18], gli articoli che pongono le basi giuridiche su cui si regge la politica ambientale dell’Unione sono quelli contenuti nel Titolo XX del TFUE[19]. Ai sensi dell’art. 191, paragrafo 1, la politica ambientale europea deve essere orientata al perseguimento degli obiettivi di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente, nonché di protezione della salute umana. Al secondo paragrafo dello stesso articolo, inoltre, sono individuati, come i principi ispiratori di questa azione politica, il principio di precauzione e dell'azione preventiva, il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, e il principio "chi inquina paga". Inoltre, rappresentano un punto di riferimento sul tema anche gli articoli 35[20] e 37[21] della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rispettivamente dedicati alla protezione della salute e alla tutela dell’ambiente.
Da tali disposizioni emerge chiaramente come la tutela e il miglioramento della qualità dell’ambiente, nonché la protezione della salute umana, siano componenti strettamente collegate tra loro nella politica dell’Unione in materia ambientale, nell’ottica di promuovere uno sviluppo sostenibile. Proprio per questo, non v’è dubbio che la direttiva 2010/75 abbia un ruolo importante nel garantire il successo di questo approccio, salvaguardando il diritto di ciascun individuo di vivere in un ambiente atto a garantire la sua salute ed il suo benessere[22].
Ciò premesso, per uno stabilimento come l’Ilva, che, rileva il giudice, “indiscutibilmente dev’essere considerato un’installazione, ai sensi dell’articolo 3, punto 3, della direttiva 2010/75”, il rilascio dell'autorizzazione è un presupposto indispensabile per lo svolgimento delle attività industriali di produzione e trasformazione dei metalli. L’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva, prevede che il rilascio dell’autorizzazione sia direttamente subordinato al rispetto di requisiti stringenti, tra cui rientra l’adozione, da parte del gestore dell’impianto, di tutte le opportune misure di prevenzione dell’inquinamento[23]. Inoltre, è anche previsto che la domanda di autorizzazione contenga la descrizione del tipo e dell’entità delle prevedibili emissioni dell’installazione in ogni comparto ambientale, l’identificazione degli effetti significativi delle emissioni sull’ambiente, nonché la descrizione dettagliata delle misure previste per controllare le emissioni nell’ambiente[24].
La nozione di inquinamento utilizzata, in questo caso, dunque, è quella chiarita all’articolo 3, punto 2, della direttiva, e riguarda, tra l’altro, l’introduzione nelle matrici ambientali (aria, acqua o terreno) di sostanze che potrebbero nuocere tanto alla salute umana quanto alla qualità dell’ambiente[25].
Sul riesame dell’autorizzazione, poi, l’articolo 21, paragrafo 5, lettera a), dispone che le condizioni dell’autorizzazione siano riesaminate quando l’inquinamento provocato dall’installazione interessata è tale da rendere necessaria la revisione dei valori limite di emissione previsti nell’autorizzazione all’esercizio già concesso o l’inserimento in quest’ultima di nuovi valori limite. La frequenza di tale riesame dipende, peraltro, dalla portata e dalla natura dell’installazione industriale, tenuto conto delle specifiche caratteristiche locali del sito in cui si svolge l’attività industriale. Sottolinea la Corte che “ciò vale, in particolare, se quest’ultima ha luogo in prossimità di abitazioni”[26].
In ogni caso, comunque, la valutazione sistematica degli impatti potenziali e reali delle installazioni interessate sulla salute umana e sull’ambiente è uno degli aspetti che dev’essere tenuto presente nell’ambito delle ispezioni ambientali delle installazioni, da effettuarsi periodicamente secondo quanto previsto dall’art. 23.
All’esito di questa ricognizione normativa, perciò, il giudice europeo è lapidario nell’affermare che, contrariamente a quanto sostenuto dal governo italiano, il gestore di un’installazione industriale del tipo rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva 2010/75 deve, nella sua domanda di autorizzazione, fornire informazioni adeguate riguardanti le emissioni provenienti dalla sua installazione e, durante tutto il periodo di esercizio di tale installazione, deve avere cura di valutare continuamente gli impatti delle attività tanto sull’ambiente quanto sulla salute umana. Analogamente, gli Stati membri e le loro autorità competenti devono prevedere che una tale valutazione costituisca atto interno ai procedimenti di rilascio e riesame di un’autorizzazione[27].
Applicando questa interpretazione al caso dell'Ilva, emerge una discrepanza con il regime speciale introdotto dall’articolo 1 bis, comma 1, del decreto legge n. 207/2012. Questa norma, infatti, stabilisce che le autorità sanitarie[28]redigono congiuntamente, con aggiornamento almeno annuale, un rapporto sulla VDS[29] basato su dati epidemiologici, ma non stabilisce che tale valutazione sia un presupposto per il rilascio o il riesame dell'autorizzazione o che costituisca un atto interno a questi procedimenti.
Le parti resistenti e il governo italiano sostengono che riconoscere un ruolo più vincolante alla VDS contrasterebbe con l’intrinseca dinamicità delle attività industriali, senza garantire un intervento tempestivo per ridurre i rischi per la salute.
Questa ricostruzione, tuttavia, non viene accolta dalla Corte che, riunita nella Grande Camera, afferma con fermezza che, nel rispetto di quanto prescritto dalla normativa europea, la VDS deve essere parte integrante dei procedimenti di autorizzazione, e deve essere oggetto di effettiva e tempestiva considerazione, a maggior ragione quando da questa emergano allarmanti risultati in termini di inaccettabilità del rischio sanitario per una popolazione interessata da emissioni inquinanti.
In linea con l’argomentazione della Corte, peraltro, un ulteriore livello di criticità della disciplina della VDS che è il caso di segnalare è la scelta del legislatore del 2012 di strutturare la valutazione del danno su tre livelli progressivi a seconda della gravità dei problemi riscontrati. Si tratta di un aspetto non direttamente collegato alle domande formulate dal giudice di Milano e sul quale, perciò, la Corte non si sofferma, ma che merita attenzione.
Infatti, se da un lato è comprensibile che in un contesto industriale complesso come quello dell’Ilva sia oggettivamente complicato bilanciare la tutela ambientale con le esigenze economiche implementando una gestione del rischio improntata al principio del minimo rischio possibile[30], dall’altro lato è inaccettabile che un rischio sanitario comprovato, basato su dati scientifici ed epidemiologici, non comporti un’immediata obbligatoria reazione da parte dell’amministrazione. Ciò causa un abbassamento vertiginoso del livello di tutela in nome delle esigenze economiche, violando apertamente i principi ambientali di precauzione e prevenzione.
La Corte ha, giustamente, escluso che la VDS possa essere considerata una semplice valutazione dichiarativa e ha affermato che essa deve avere un impatto reale e concreto sulle decisioni di rilascio e riesame delle autorizzazioni. Tuttavia, ammettere che solo il terzo livello di gravità della VDS possa legittimare una richiesta di riesame dell’autorizzazione significherebbe privare i residenti esposti agli effetti delle emissioni di uno strumento fondamentale per la tutela del loro diritto alla salute, costringendoli a subire passivamente le conseguenze di una ponderazione degli interessi che sembra favorire le esigenze industriali rispetto ai diritti fondamentali della persona.
2.3.2 La seconda questione
La seconda domanda pregiudiziale presentata dal giudice nazionale chiedeva alla Corte di chiarire, alla luce della normativa europea, se l'autorità competente debba, nel riesame dell'autorizzazione, considerare non solo le sostanze inquinanti prevedibili al momento della richiesta (definibile come "set iniziale"), in base alla natura e tipologia dell'attività industriale, ma anche tutte le sostanze potenzialmente capaci di provocare emissioni nocive, note scientificamente e derivanti dall'installazione, che non siano state valutate durante il procedimento di autorizzazione iniziale (da qualificarsi come "set integrativo").
Pertanto, la questione centrale è se l'elenco delle sostanze inquinanti, necessario per un'adeguata valutazione nell'ambito dell’AIA, possa essere aggiornato e integrato nel tempo o se, una volta stilato, debba considerarsi definitivo e immodificabile.
La direttiva 2010/75 prevede che, nella fase di richiesta, il gestore descriva il tipo e l'entità delle emissioni prevedibili dell'impianto in ogni comparto ambientale nonché gli effetti significativi delle emissioni sull’ambiente[31].
Tuttavia, una volta concessa l'autorizzazione, ai sensi dell'articolo 14, paragrafo 1, della direttiva, gli Stati membri devono garantire che essa includa tutte le misure necessarie per soddisfare le condizioni previste dagli articoli 11 e 18. Ciò comporta che l'autorizzazione debba stabilire i valori limite di emissione non solo per le sostanze elencate nell'allegato II della direttiva, ma anche per quelle che, pur non incluse, potrebbero essere emesse in quantità significative dall'installazione, in base alla loro natura e alla potenzialità di trasferimento dell'inquinamento tra i diversi comparti ambientali[32]. L'autorizzazione include, inoltre, disposizioni per il monitoraggio delle emissioni, con l'obbligo per il gestore di comunicare periodicamente, almeno una volta l'anno, informazioni all’autorità competente, garantendo la conformità alle condizioni autorizzative.
A supporto della possibilità che l'elenco degli inquinanti non sia immutabile, ma debba essere costantemente aggiornato sulla base dell'evoluzione scientifica, intervengono, inoltre, anche altre norme.
L’articolo 11 della direttiva 2010/75, ad esempio, gioca un ruolo centrale: le lettere a) e b), stabiliscono che grava sugli Stati membri l’obbligo di adottare tutte le disposizioni necessarie affinché, nell’ambito della gestione di un’installazione, siano applicate le BAT, intese come quelle più efficaci per ottenere un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso e che siano disponibili a condizioni economicamente e tecnicamente attuabili nell’ambito del pertinente comparto industriale, prendendo in considerazione i costi e i vantaggi[33]. Poiché, tuttavia, l’impatto sulla salute deve essere preso in considerazione nell’individuazione delle BAT, la lettera c) dello stesso articolo prevede che, laddove l’impianto sia causa di fenomeni di inquinamento significativi nonostante l’applicazione delle migliori tecniche disponibili, debbano essere adottate misure protettive ulteriori per prevenire tale inquinamento. In proposito, in mancanza di un’apposita definizione, vale quella proposta dall’A.G. nelle sue conclusioni, ove identifica come significativo qualsiasi fenomeno di inquinamento che, tenuto conto di eventuali eccezioni, determini una condizione incompatibile con una qualsiasi normativa applicabile in materia di tutela dell’ambiente e, compromettendo la salute umana, violi i diritti fondamentali delle persone interessate. In questo senso, rileva sempre l’A.G., le misure protettive sono da considerarsi appropriate ai sensi dell’articolo 11, paragrafo a), dal momento che l’esistenza di fenomeni di inquinamento significativi pone un limite assoluto all’esercizio degli impianti: se non è possibile adottare misure di protezione idonee, l’impianto non può essere autorizzato.[34]
Questa interpretazione è pienamente coerente con il principio di prevenzione che informa la politica europea in materia ambientale e sanitaria. Tale principio, del resto, impone una valutazione rigorosa della quantità di sostanze inquinanti la cui emissione può essere autorizzata, collegandola strettamente al grado di nocività rilevato alla luce delle evidenze scientifiche.
A queste argomentazioni si allineano, infine, sia l’articolo 18 sia l’articolo 21 della direttiva. Il primo, dedicato alle norme di qualità ambientale, garantisce la coerenza del sistema di protezione ambientale a livello europeo stabilendo che, qualora una norma di qualità ambientale richieda condizioni più rigorose rispetto a quelle ottenibili attraverso l’applicazione delle BAT, l'autorizzazione deve includere misure supplementari. Nel caso di specie, ciò impone al giudice di procedere sempre ad una valutazione globale, che tenga conto di tutte le fonti di inquinanti e del loro effetto cumulativo, in modo da garantire che la somma delle emissioni non possa comportare alcun superamento, oltre che dei valori limite fissati nell’autorizzazione, anche dei valori limite per la qualità dell’aria definiti dalla direttiva 2008/50/CE[35], che rappresentano vere e proprie norme di qualità ambientale. Con l’articolo 21, paragrafo 5, lettera a), poi, si impone che le condizioni di autorizzazione siano riesaminate qualora l’inquinamento provocato da un’installazione sia tale da rendere necessaria la revisione dei valori limite di emissione esistenti nell’autorizzazione o l’inserimento, in quest’ultima, di nuovi valori limite.
Alla luce di questa ricostruzione, dunque, la Corte rileva che la posizione sostenuta dai ricorrenti e dal governo italiano non è in linea con la normativa europea. La direttiva stabilisce chiaramente che l'identificazione degli inquinanti e la fissazione dei valori limite debbano basarsi sul principio di prevenzione e su dati scientifici aggiornati. Pertanto, per il rilascio o il riesame di un’autorizzazione all’esercizio di un’installazione ai sensi della direttiva 2010/75, l’autorità competente è tenuta a considerare non solo le sostanze inquinanti prevedibili in base alla natura ed alla tipologia dell’attività industriale, ma anche tutte quelle scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, integrando, ove necessario, il “set iniziale”[36].
2.3.3 La terza questione
La terza questione pregiudiziale, infine, riguarda la compatibilità con la direttiva 2010/75 di un ritardo complessivamente pari a oltre undici anni nell’implementazione delle misure di adeguamento agli standard di tutela ambientale per un’attività industriale, nonostante i gravi e comprovati rischi per l'ambiente e la salute pubblica delle comunità residenti nei pressi dello stabilimento.
Come ha messo in evidenza il giudice nazionale, infatti, le norme speciali applicabili all’Ilva hanno permesso di concedere allo stabilimento industriale numerose proroghe, non sempre collegate ad effettivi riesami e aggiornamenti delle condizioni di esercizio dell’attività di tale stabilimento, mentre continuava a svolgersi l’attività industriale. Un tale ritardo, senza una giustificazione convincente, appare in evidente conflitto con il principio di effettività della tutela ambientale sancito dal diritto dell'Unione Europea.
In sede di udienza dinanzi alla Corte di Giustizia, il governo italiano ha tentato di difendere tale regime derogatorio, sostenendo che un adeguamento immediato ai requisiti previsti dall’AIA del 2011 avrebbe comportato un’interruzione pluriennale dell’attività dello stabilimento, con conseguenti ricadute socioeconomiche insostenibili, vista l’importanza strategica dell’impianto per l'occupazione locale e per l’economia locale e nazionale. Secondo il governo, dunque, sarebbe stato necessario procedere ad una ponderazione tra gli interessi in gioco, favorendo, nel bilanciamento, l’aspetto economico e sociale.
Il tentativo del governo italiano di giustificare l'inerzia e il ritardo nell'attuazione delle misure ambientali, in nome di esigenze occupazionali, appare, tuttavia, in aperto contrasto con i principi stessi su cui si fonda la normativa ambientale europea.
La disciplina europea, infatti, è chiara anche su questo punto e, per quanto sia lunga la storia dell’Ilva, lo è parimenti quella delle violazioni dei termini imposti per il rispetto degli standard ambientali.
Già gli articoli 5, paragrafo 1, e 21, paragrafo 1, della direttiva 96/61/CE[37] (poi confluiti nella direttiva 2008/1/CE[38]), imponevano alle autorità competenti di vigilare, mediante autorizzazioni e periodico riesame delle condizioni, affinché entro il 30 ottobre 2007, ossia entro undici anni dall’entrata in vigore della direttiva (termine più che ragionevole, sottolinea l’A.G., per tutelare l’affidamento di gestori degli impianti), lo stabilimento Ilva, in quanto impianto già esistente ai sensi dell’articolo 2, punto 4, funzionasse conformemente a tale direttiva, applicando le migliori tecniche disponibili individuate all’epoca. Come risulta dagli elementi a disposizione della Corte, però, questo termine non è stato rispettato e l’Ilva è stata oggetto di un’autorizzazione ambientale solo il 4 agosto 2011.
La direttiva 2010/75/UE, poi, ha ulteriormente rafforzato gli obblighi di adeguamento. L’articolo 82, paragrafo 1, ha fissato al 7 gennaio 2014 la data in cui, per gli stabilimenti come l’Ilva, gli Stati membri avrebbero dovuto applicare le disposizioni adottate a livello nazionale al fine di recepire la direttiva. L’articolo 21, paragrafo 3, inoltre, ha concesso un termine di quattro anni (dunque fino al 28 febbraio 2016) dalla data di pubblicazione delle decisioni sulle conclusioni sulle BAT per l’adeguamento delle condizioni di autorizzazione alle nuove tecniche. Infine, l’articolo 8, paragrafi 1 e 2, lettere a) e b), ha imposto agli Stati di adottare tutte le misure necessarie a far sì che le condizioni di autorizzazione siano rispettate e, in caso di violazione delle condizioni di autorizzazione, ha disposto che il gestore, informata senza ritardo l’autorità competente, provveda immediatamente a adottare tutte le misure necessarie per garantire il ripristino della conformità nel più breve tempo possibile.
Emerge chiaramente, quindi, che il legislatore europeo ha previsto un periodo transitorio per consentire agli impianti esistenti di adeguarsi alle nuove prescrizioni tecniche. Tuttavia, tale periodo di adattamento non può essere considerato una giustificazione per proroghe indefinite. Quanto al bilanciamento degli interessi coinvolti, peraltro, il quadro normativo europeo è chiaro: le esigenze economiche, per quanto importanti, non possono prevalere sugli imperativi della tutela ambientale e della salute pubblica. Nessuna argomentazione basata sulla riduzione della produzione o sulla tutela dei livelli occupazionali può giustificare il rinvio dell'attuazione delle misure ambientali prescritte.
Alla luce di queste considerazioni, e dal momento che gli obblighi imposti dalle direttive dell’Unione devono essere applicati in modo rigoroso, senza ammettere deroghe ingiustificate[39], la Corte ritiene che la direttiva 2010/75/UE sia incompatibile con qualsiasi normativa nazionale che consenta proroghe ripetute dei termini concessi al gestore di un’installazione per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente e della salute umana previste dall’autorizzazione all’esercizio di tale installazione, specialmente quando sussistono pericoli gravi e rilevanti per l'ambiente e la salute umana. In tali circostanze, afferma la Corte, l’articolo 8, paragrafo 2, impone che le attività dell’installazione siano sospese fino al ripristino della conformità[40].
3. Riflessioni conclusive
Lo sviluppo sostenibile, concepito come l’equilibrio tra esigenze economiche, protezione ambientale e giustizia sociale, può essere considerato un autentico "nodo gordiano" nel contesto giuridico e politico attuale. Questo modello di sviluppo implica non solo l’esigenza di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le risorse delle generazioni future, ma anche quella di gestire in modo equilibrato tre dimensioni interconnesse: crescita economica, tutela ambientale e benessere sociale. La sfida cruciale per le politiche pubbliche, dunque, è quella di armonizzare questi elementi complessi.
La recente sentenza della Corte di Giustizia, riguardante l'Ilva, affronta tre questioni fondamentali che illustrano chiaramente le difficoltà nel bilanciare questi interessi e segna un passaggio significativo per l’evoluzione del diritto ambientale sia in Italia sia in tutta l’Unione Europea[41].
In particolare, la pronuncia smantella due narrative giuridico-politiche che, per oltre un decennio, hanno giustificato il perdurare di deroghe e proroghe nella gestione dell’Ilva: la definizione di “strategicità nazionale” dell’impianto, che legittimava eccezioni normative su scala domestica, e l’invocazione di un bilanciamento “a tutti i costi” tra la tutela della salute e dell’ambiente e la prosecuzione dell’attività produttiva che, tuttavia, aveva l’effetto di avvantaggiare i portatori degli interessi economici[42] e ritardare gli interventi per un effettivo risanamento dell’area industriale.
Sotto un primo profilo, infatti, la Corte mette in evidenza come il concetto della "strategicità" dell'impianto produttivo nazionale perda di significato di fronte a gravi rischi per la salute pubblica e per l’integrità ambientale attestate dalla VDS. Di fronte a circostanze simili, invero, il bilanciamento non può essere utilizzato come strumento per alterare l’equilibrio delle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile, sacrificando indefinitamente diritti fondamentali in favore di interessi economici.
In questo senso, nel contesto italiano, sarebbe auspicabile una maggiore cura nell’implementazione pratica delle linee guida per la Valutazione d’Impatto Sanitario (VIS)[43] di specifici impianti industriali, redatte dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2018 su richiesta del Ministero della Salute[44]. Queste linee guida, infatti, prevedono una valutazione ex antedei potenziali impatti sulla salute dei singoli impianti, attraverso l’identificazione di scenari di esposizione e dei rischi correlati, con un approccio integrato di tipo tossicologico e/o epidemiologico. Esse, peraltro, forniscono un metodo uniforme e rigoroso, applicabile a livello nazionale, utile a colmare le lacune lasciate dalla direttiva europea 2014/52/UE[45].
Parallelamente, emerge come l’aggiornamento dell’elenco degli inquinanti sia una necessità ineludibile, date le connessioni tra progresso scientifico e diritto ambientale. Questo corpus normativo dinamico deve essere in continua evoluzione per rispondere alle sfide poste dall’inquinamento e dai progressi scientifici e tecnologici.
Da ultimo, la Corte pone un freno alla pratica del rinvio perpetuo dell’attuazione delle misure di risanamento ambientale poiché essa crea un disequilibrio insostenibile, che deve essere rigettato con fermezza[46].
In sintesi, la sentenza offre uno spunto interessante per sciogliere il “nodo gordiano” dello sviluppo sostenibile. Come nel mito, la Corte propone una soluzione che non consiste in compromessi o proroghe, ma richiede un intervento risolutivo e integrato, capace di riportare in equilibrio le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile.
L’approccio della Corte è indubbiamente solido, condivisibile e riflette una corretta e rigorosa applicazione del quadro normativo comunitario tendente all’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri nell’ottica di promuovere una tutela uniforme e avanzata dei diritti ambientali e della salute.
Nel caso dell’Ilva, del resto, non poteva che auspicarsi una presa di posizione così risoluta. Le implicazioni di questa sentenza, però, hanno una portata ben più ampia, vincolando tutti gli Stati membri a conformarsi ai rigorosi standard imposti dalle direttive europee, senza ulteriori rinvii o compromessi che mettano a rischio la salute delle comunità e l’integrità ambientale.
Per questa ragione è importante ricordare che le implicazioni sociali ed economiche della chiusura dello stabilimento industriale inquinante non sono direttamente trattate dalla sentenza; tuttavia, esse giocano un ruolo essenziale per garantire l’attuabilità pratica della tutela dell’ambiente e della salute dall’inquinamento.
La chiusura degli impianti produttivi e la conseguente perdita di posti di lavoro rappresentano, infatti, problemi reali che, se non adeguatamente gestiti, potrebbero aggravare le disuguaglianze e generare tensioni sociali. Perciò, rimane imprescindibile predisporre una strategia integrata che, oltre a predisporre rigorosi standard di tutela ambientale e sanitaria, includa sempre anche un sistema di ammortizzatori sociali e di riconversione industriale capace di tutelare i lavoratori e garantire la transizione verso un modello produttivo più sostenibile.
Tutto ciò mette in evidenza come, nell’implementazione del principio dello sviluppo sostenibile, il bilanciamento tra le diverse esigenze rappresenti ancora oggi un metodo fondamentale. Solo attraverso un bilanciamento continuo e flessibile, difatti, è possibile ambire a raggiungere un esercizio del potere amministrativo equilibrato, capace di riconoscere la giusta considerazione alle diverse esigenze di tutela connesse alla sfera ambientale, sociale e politica. Non è ammissibile alcuna soluzione drastica che tenti di "sciogliere" il "nodo", semplificando in modo inadeguato il percorso verso lo sviluppo sostenibile. Allo stesso tempo, però, la complessità insita nel bilanciamento non deve fungere da giustificazione per continui rinvii o compromessi.
La Corte ha tracciato una rotta chiara verso un futuro in cui lo sviluppo economico non può più prescindere dalla tutela dell’ambiente e della salute pubblica. Il principio di precauzione, integrato con un costante aggiornamento normativo basato sulle conoscenze scientifiche più avanzate, emerge come lo strumento giuridico chiave per affrontare le sfide dello sviluppo sostenibile e sciogliere definitivamente il "nodo gordiano" che lo caratterizza.
[1] Questa affermazione si basa sulla concettualizzazione di sviluppo sostenibile offerta dal Report “Our common future” (altrimenti noto come “Rapporto Brundtland”), elaborato dalla World Commission on Environment and Development nel 1987. Sul principio dello sviluppo sostenibile esiste una bibliografia quasi sterminata: valga qui richiamare, a titolo esemplificativo, i contributi di F. Fracchia, Il principio dello sviluppo sostenibile, in Diritto dell’ambiente a cura di G. Rossi, Giappichelli, Torino, 2021, 181 ss.; F. Fracchia, Principi di diritto ambientale e sviluppo sostenibile, in Trattato di diritto dell’ambiente a cura di P. Dell’Anno, E. Picozza, vol. I, Cedam, Padova, 2012, 559 ss; F. Salvia, Ambiente e sviluppo sostenibile, in Rivista giuridica dell’ambiente, 1998, 235 ss.
[2] Per un approfondimento dell’effetto della riforma costituzionale degli artt. 9 e 41 del 2022 sul bilanciamento degli interessi si veda M. Monteduro, Riflessioni sulla “primazia ecologica” nel moto del diritto europeo (anche alla luce della riforma costituzionale italiana in materia ambientale), in AA.VV., La riforma costituzionale in materia di tutela dell’ambiente. Atti del Convegno (28 gennaio 2022), Napoli, Editoriale Scientifica, 2022, p. 221 ss.; A. Morrone, L' "ambiente" nella Costituzione. Premesse di un nuovo "contratto sociale", Ivi, 91 ss.; M. Cecchetti, Emergenze e tutela dell’ambiente: dalla “straordinarietà” delle situazioni di fatto alla “ordinarietà” di un diritto radicalmente nuovo, in federalismi.it, n. 17/2024, 24 luglio 2024.
[3] Statuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 1946. Come messo in evidenza dalla Carta di Ottawa per la promozione della salute del 1986, peraltro, la salute deve essere intesa come una risorsa per la vita quotidiana poiché rappresenta un concetto positivo e poliedrico.
[4] Uno degli strumenti internazionali più recenti e più incisivi è senza dubbio la Risoluzione 76/300 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 28 luglio 2022 a mezzo della quale è stata affermata, senza mezzi termini, l’esistenza di un diritto umano fondamentale ad un ambiente pulito, salubre e sostenibile. Per un commento a questa Risoluzione, che mette in evidenza come essa si inserisca nel solco di un percorso da lungo tempo avviato e ormai ben consolidato nel panorama internazionale, si rinvia a D. Pauciulo, Il diritto umano a un ambiente salubre nella Risoluzione 76/300 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in Rivista di diritto internazionale, n. 4/2022, 1118 ss.
[5] Il contrasto all’inquinamento industriale e la progressiva affermazione della necessità di tutelare il diritto all’ambiente salubre sono evidenti nell’evoluzione che ha caratterizzato le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a far data dalla sentenza Lopez Ostra c. Spagna (n. 16798/1990).
[6] L'Ilva di Taranto nasce negli anni '60 come parte di un grande progetto industriale voluto dallo Stato italiano. Viene inaugurata nel 1965, con l'obiettivo di trasformare Taranto in uno dei poli siderurgici più importanti d'Europa. In breve tempo, l'impianto diventa il più grande d'Europa e uno dei più grandi al mondo, capace di produrre milioni di tonnellate di acciaio l'anno. Durante i decenni successivi, l'impianto si espande ulteriormente, diventando una parte fondamentale dell'economia locale e nazionale, ma anche iniziando a causare significativi problemi ambientali, dovuti principalmente alle emissioni di polveri, diossine e altre sostanze nocive. Già nei primi anni 2000 le preoccupazioni per l'inquinamento causato dallo stabilimento, divenute pressanti, culminano nella pubblicazione di numerosi studi scientifici che collegano le emissioni dell'impianto a gravi problemi di salute della popolazione di Taranto e delle aree circostanti, ma è nel 2012 che la situazione esplode dal punto di vista giuridico, con l'intervento della magistratura. La procura di Taranto, infatti, ordina il sequestro di parte degli impianti dell'Ilva per disastro ambientale, accusando i dirigenti di aver violato le normative ambientali e di aver messo a rischio la salute dei lavoratori e dei residenti. Per una ricostruzione della vicenda si rinvia, tra i numerosissimi contributi dedicati al tema, a R. Leopizzi, M. Turco, Il ruolo delle istituzioni pubbliche nel perseguimento dello sviluppo sostenibile. Il caso Ilva di Taranto, in Dalla crisi allo sviluppo sostenibile: principi e soluzioni nella prospettiva economico-aziendale, a cura di V. Dell'Atti, A.L. Muserra, S. Marasca, R. Lombardi, Franco Angeli, Milano, 2022, 223 ss.; P. Bricco, Ilva, Taranto: un caso paradigrmatico, in Il Mulino¸n. 1/2016, 72 ss.; S. Romeo, L'acciaio in fumo: L'Ilva di Taranto dal 1945 a oggi, Donzelli Editore, Roma, 2019; A. Morelli, Un caso di ordinaria emergenza. Salute vs. lavoro nella vicenda dell'Ilva di Taranto, in Tutela dell’ambiente e principio “chi inquina paga” a cura di G. Moschella e A.M. Citrigno, Giuffrè, Milano, 2014, 591 ss.
[7] Nel luglio 2012, il Tribunale di Taranto ha disposto il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’«area a caldo» dello stabilimento Ilva e dei parchi di materiale dell’Ilva. Con decreto del 26 ottobre 2012, recante l’autorizzazione integrata ambientale del 2012, il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare ha riesaminato l’autorizzazione integrata ambientale rilasciata il 4 agosto 2011 in favore dell’Ilva. Da quel momento, e fino alla data della presentazione del ricorso, la continuità della produzione è stata garantita in virtù di specifiche norme derogatorie: il decreto-legge del 3 dicembre 2012, n. 207 – Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale (GURI n. 282 del 3 dicembre 2012), convertito con modificazioni dalla legge del 24 dicembre 2012, n. 231 (GURI n. 2 del 3 gennaio 2013); il decreto-legge del 4 giugno 2013, n. 61 – Nuove disposizioni urgenti a tutela dell’ambiente, della salute e del lavoro nell’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale (GURI n. 129 del 4 giugno 2013), convertito con modificazioni dalla legge del 3 agosto 2013, n. 89 (GURI n. 181 del 3 agosto 2013); il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 marzo 2014 – Approvazione del piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria, a norma dell’articolo 1, commi 5 e 7, del decreto-legge 4 giugno 2013, n. 61, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2013, n. 89 (GURI n. 105 dell’8 maggio 2014); il decreto-legge del 5 gennaio 2015, n. 1 – Disposizioni urgenti per l’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale in crisi e per lo sviluppo della città e dell’area di Taranto (GURI n. 3 del 5 gennaio 2015), convertito con modificazioni dalla legge del 4 marzo 2015, n. 20(GURI n. 53 del 5 marzo 2015); il decreto-legge del 9 giugno 2016, n. 98 – Disposizioni urgenti per il completamento della procedura di cessione dei complessi aziendali del Gruppo ILVA (GURI n. 133 del 9 giugno 2016), convertito con modificazioni dalla legge del 1° agosto 2016, n. 151 (GURI n. 182 del 5 agosto 2016); il decreto-legge del 30 dicembre 2016, n. 244 – Proroga e definizione di termini (GURI n. 304 del 30dicembre 2016), convertito con modificazioni dalla legge del 27 febbraio 2017, n. 19 (supplemento ordinario alla GURI n. 49 del 28 febbraio 2017); il decreto-legge 18 gennaio 2024, n. 4 - Disposizioni urgenti in materia di amministrazione straordinaria delle imprese di carattere strategico (GURI n. 14 del 18 gennaio 2024), coordinato con la legge di conversione 15 marzo 2024, n. 28 (GURI n. 65 del 18.03.2024). Per una ricostruzione teorica delle prospettive connesse all’eccessivo ricorso allo strumento del decreto legge si rinvia a R. Dickmann, Gli eccessi della decretazione d’urgenza tra forma di governo e sistema delle fonti. (Osservazioni a margine di Corte cost., 25 luglio 2024, n. 146), in federalismi.it, n. 22/2024, 11 settembre 2024.
[8] Tra le più significative, si segnalano, senza dubbio, le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 24 gennaio 2019 sul caso Cordella e altri c. Italia e del 5 maggio 2022 sui casi A.A. e altri c. Italia, Ardimento e altri c. Italia, Briganti e altri c. Italia e Perelli e altri c. Italia. In tutti questi casi, la questione portata a giudizio riguardava le emissioni inquinanti prodotte dagli impianti industriali dell’acciaieria. Per un commento su queste sentenze si rinvia a T. Scovazzi, Altre condanne dell'Italia per l'acciaieria Ilva di Taranto, in Rivista giuridica dell'ambiente, n. 2/2022, 575 ss.; C. Luzzi, Il “caso ILVA” nel dialogo tra le corti (osservazioni a margine della sentenza Cordella e altri c. Italia della Corte EDU, in consulta online¸ n. 2/2019, 336 ss.; A. Consiglio, Ardimento e altri c. Italia: il caso Ilva di Taranto, un «infinite jest», in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, n. 1/2023, 45 ss.; S. Zirulia, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso ILVA, nota a C. Eur. Dir. Uomo, sez. I, 24 gennaio 2019, Cordella e altri, in Diritto penale contemporaneo, n.3/2019, 135 ss. Per una riflessione di livello più ampio sul carattere multilivello della tutela dell’ambiente e della salute si rinvia a V. Cavanna, Tutela multilivello di ambiente e salute: il ruolo di Cedu e Unione Europea alla luce del caso dell’Ilva di Taranto, in Ambientediritto.it, 4/2020, 1 ss. Inoltre, sul fronte della giurisprudenza nazionale si segnalano: la sentenza del 4 luglio 2017 n. 182 della Corte Costituzionale (cfr. E. Verdolini, Il caso ILVA Taranto e il fil rouge degli interessi costituzionali: commento alla sentenza 182 del 2017 della Corte Costituzionale, in Forum di quaderni costituzionali rassegna, n. 2/2018, 1 ss.) e la sentenza del 23 giugno 2021 n. 4802 della IV Sezione del Consiglio di Stato (cfr. G. Iacovone, A. Iacopino, Precauzione e prevenzione: nel dedalo delle competenze comunali, regionali e statali si attenua la tutela dei (diritti fondamentali dei) cittadini, in Giustiziainsieme.it, 9 settembre 2021).
[9] L’Ilva è stata privatizzata nel 1995 e, nel momento in cui si è instaurata la controversia, risultava detenuta al 62% da un gruppo siderurgico internazionale (è gestita da Acciaierie d’Italia S.p.A., a sua volta controllata da Acciaierie d’Italia Holding S.p.A.). Le azioni restanti erano detenute dallo Stato italiano.
[10] La legge n. 20/2015 prevedeva, infatti, la proroga di quattordici mesi dell’attuazione del 20% delle prescrizioni dal 03.08.2016 al 20.09.2017. Il decreto legge n. 244/2016, poi, aveva posticipato di ben otto anni il termine degli interventi di risanamento ambientale. In totale, dunque, il ritardo accumulato nell’implementazione delle misure di risanamento ambientale ammontava a undici anni dalla data del sequestro penale all’origine dell’adozione delle norme speciali applicabili all’Ilva.
[11] The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment. Report of the Special Rapporteur on the issue of human rights obligations relating to the enjoyment of a safe, clean, healthy and sustainable environment. Nazioni Unite, Assemblea Generale, A/HRC/49/53, 12 gennaio 2022. Nel Rapporto in questione, il Relatore Speciale sui diritti umani in relazione al godimento di un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile, David R. Boyd, con la collaborazione del Relatore Speciale sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e dello smaltimento ecologicamente sostenibile di sostanze e rifiuti pericolosi, Marcos Orellana, identifica un ambiente non tossico come uno degli elementi fondamentali del diritto a un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile. Sull’impianto siderurgico tarantino, il Relatore Speciale si esprime in questi termini: “45. The Ilva steel plant in Taranto, Italy, has compromised people’s health and violated human rights for decades by discharging vast volumes of toxic air pollution. Nearby residents suffer from elevated levels of respiratory illnesses, heart disease, cancer, debilitating neurological ailments and premature mortality. Clean-up and remediation activities that were supposed to commence in 2012 have been delayed to 2023, with the Government introducing special legislative decrees allowing the plant to continue operating. In 2019, the European Court of Human Rights concluded that environmental pollution was continuing, endangering the health of the applicants and, more generally, that of the entire population living in the areas at risk. 46. The foregoing examples of sacrifice zones represent some of the most polluted and hazardous places in the world, illustrating egregious human rights violations, particularly of poor, vulnerable and marginalized populations. Sacrifice zones represent the worst imaginable dereliction of a State’s obligation to respect, protect and fulfil the right to a clean, healthy and sustainable environment.” Cit. pagina 11, paragrafi 45 e 46.
[12] Cfr. S. Lerner, Sacrifices zones: the front lines of toxic chemical exposure in the United States, Cambridge (MA), The MIT Press, 2010; R. Juskus, Sacrifice zones: a genealogy and analysis of an environmental justice concept, in Environmental Humanities, n. 1/2023, 3 ss.; D.N. Scott, A.A. Smith, “Sacrifice zones” in the green energy economy: toward an environmental justice framework, in McGill Law Journal, n. 3/2017, 861 ss.
[13] Il recepimento della direttiva 75/2010/UE è avvenuto in Italia con il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 46 (GU Serie Generale n.72 del 27-03-2014 - Suppl. Ordinario n. 27) che ha introdotto le opportune modifiche al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni.
[14] Il rinvio pregiudiziale è stato disposto con ordinanza del 16 settembre 2022 del Tribunale di Milano. Attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 TFUE la Corte di Giustizia opera in collaborazione con tutti gli organi giurisdizionali degli Stati membri, che sono i giudici di diritto comune in materia di diritto dell'Unione, per garantire un'applicazione effettiva ed omogenea della normativa dell'Unione ed evitare interpretazioni divergenti. Come rileva la Corte nella sentenza in oggetto, per giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, “spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumere la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, ove le questioni poste vertono sull’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in linea di principio, è tenuta a statuire (sentenza del 21 dicembre 2023, Infraestruturas de Portugal e Futrifer Indústrias Ferroviárias, C‑66/22, EU:C:2023:1016, punto 33 e giurisprudenza ivi citata).” Cit. par. 46. Per un approfondimento teorico sul rinvio pregiudiziale si vedano i contributi di G. Montedoro, Il rinvio pregiudiziale nel dialogo fra le Corti, in giustizia-amministrativa.it, 2024; D. Satullo, Condizioni di ammissibilità e rilevanza della questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, in giustizia-amministrativa.it, 2024; F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Giappichelli, Torino, 2020; A. Adinolfi, I fondamenti del diritto dell’UE nella giurisprudenza della Corte di giustizia: il rinvio pregiudiziale, in Diritto dell’Unione Europea,n.3/2019, 441 ss.
[15] Si veda, in tal senso, la sentenza del 7 aprile 2022, Avio Lucos, C‑116/20, punti da 97 a 104.
[16] Il richiamo è alla sentenza del 22 dicembre 2022, Sambre & Biesme e Commune de Farciennes, C‑383/21 e C‑384/21, punto 38 e giurisprudenza ivi citata.
[17] Conclusioni dell’Avvocato Generale Juliane Kokott, presentate il 14 dicembre 2023.
[18] Ai sensi dell'articolo 11 del TFUE: " Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni dell'Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile".
[19] Per un commento sul contenuto degli articoli 191 e seguenti del TFUE si rinvia a F. Ferraro, I grandi principi del diritto dell’Unione europea in materia ambientale, in Diritto pubblico comparato ed europeo online, sp-2/2023, 41 ss.; F. Rolando, L’attuazione del principio di integrazione ambientale nel diritto dell’Unione europea, in Diritto pubblico comparato ed europeo online, sp-2/2023, 561 ss.
[20] Ai sensi dell’art. 35 “Ogni persona ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana.”
[21] Ai sensi dell’art. 37 “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.”
[22] Come risulta dall’articolo 1 di tale direttiva, del resto, lo scopo che muove il legislatore europeo è proprio quello di fissare “norme intese a evitare oppure, qualora non sia possibile, ridurre le emissioni delle suddette attività nell’aria, nell’acqua e nel terreno e ad impedire la produzione di rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso”.
[23] Articolo 11, lettera a) e c).
[24] Articolo 12, paragrafo 1, lettera f) e j). L’articolo 14, relativo alle condizioni di autorizzazione, fa inoltre riferimento, al paragrafo 1, lettera a), ai valori limite di emissione fissati per le sostanze inquinanti elencate nell’allegato II di detta direttiva e per le altre sostanze inquinanti che possono essere emesse dall’installazione interessata in quantità significativa, in considerazione della loro natura e delle loro potenzialità di trasferimento dell’«inquinamento» da un elemento ambientale all’altro.
[25] A conferma del fatto che, nell’impostazione della direttiva 2010/75, la correlazione tra questi due concetti è un elemento essenziale, rilevano tanto l’articolo 8, paragrafo 2, secondo comma, quanto l’articolo 23, paragrafo 4, quarto comma, lettera a. Il primo dispone che, laddove la violazione delle condizioni di autorizzazione presenti un pericolo immediato per la salute umana, o minacci di provocare ripercussioni serie ed immediate sull’ambiente l’esercizio delle attività dell’installazione interessata deve essere sospeso fino a che non venga ripristinata la conformità alle prescrizioni contenute nell’autorizzazione concessa. Il secondo, dedicato alle ispezioni ambientali, stabilisce che la valutazione sistematica dei rischi ambientali deve basarsi, tra l’altro, sugli impatti potenziali e reali delle installazioni interessate sulla salute umana e sull’ambiente.
[26] Punto 86 della sentenza.
[27] Punti 94 e 95 della sentenza.
[28] L'Azienda Sanitaria Locale e l'Agenzia Regionale per la Protezione dell'Ambiente competente per territorio.
[29] Per redigere la VDS, le autorità sanitarie si basano, oltre che sui rilevamenti degli inquinanti presenti, anche sul registro tumori regionale e sulle mappe epidemiologiche sulle principali malattie di carattere ambientale.
[30] Si tratta di un principio in base al quale, alla salute pubblica ed alla tutela dell’ambiente, è riconosciuta la precedenza su qualsiasi considerazione di ordine economico; dunque, l’esposizione dell’uomo a rischi per la salute e per l’ambiente dovrebbe essere ridotta al livello più basso possibile. Per un approfondimento sul tema della valutazione del rischio si rinvia a G. Corso, Capitolo IV, La valutazione del rischio ambientale, in Diritto dell’ambiente, a cura di G. Rossi, Giappichelli, Torino, 2012, 171 ss.
[31] Articolo 12, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2010/75.
[32] L’articolo 15 della direttiva riconosce alle autorità nazionali competenti un margine di discrezionalità nell’ambito della valutazione che esse sono chiamate a realizzare per determinare il “set iniziale” delle sostanze inquinanti la cui dispersione deve essere limitata attraverso la previsione di valori limite di emissione nell’autorizzazione, ma non è possibile che questa discrezionalità sia utilizzata per aggirare le prescrizioni del diritto europeo.
[33] Le Best Available Techniques (BAT), definite dall’articolo 3, punto 10, della direttiva 2020/75 come “la più efficiente e avanzata fase di sviluppo di attività e relativi metodi di esercizio indicanti l’idoneità pratica di determinate tecniche a costituire la base dei valori limite di emissione e delle altre condizioni di autorizzazione intesi ad evitare oppure, ove ciò si riveli impraticabile, a ridurre le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso”. All’interpretazione dell’articolo 11, lettere a), b) e c) è dedicato molto spazio nelle conclusioni dell’A.G. Kokott e a queste si rimanda per una disamina approfondita sul tema.
[34] Paragrafo 98 delle conclusioni dell’A.G. Kokott.
[35] Direttiva 2008/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa (GU 2008, L 152), come modificata dalla direttiva (UE) 2015/1480 della Commissione, del 28 agosto 2015 (GU 2015, L 226).
[36] Punto 122 della sentenza.
[37] Direttiva 96/61/CE del Consiglio del 24 settembre 1996 sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento (GU L 257 del 10.10.1996).
[38] Direttiva 2008/1/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 gennaio 2008, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento (GU L 24 del 29.1.2008).
[39] Paragrafo 143 delle conclusioni dell’A.G. Kokott.
[40] Punto 132 della sentenza.
[41] F. Bianchi, Sulla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 25 giugno 2024 in merito all’Ilva di Taranto, in Epidemiologia&Prevenzione, luglio-ottobre 2024.
[42] Cfr. M. Carducci, La sentenza europea sull’ex Ilva mette fine alle “deroghe” all’italiana, in lacostizuone.info, 1° luglio 2024.
[43] Cfr. F. Bianchi, V. Cavanna, State of the art and perspectives on HIA in Italy, in Epidemiologia&Prevenzione, marzo - giugno 2019; F. Bianchi, C. Ancona, L. Bisceglia, A. Ranzi, For a more effective health impact assessment (HIA), in Epidemiologia&Prevenzione, marzo – aprile 2024.
[44] La VIS può essere definita come una combinazione di procedure, metodi e strumenti che consentono di valutare i potenziali e, talvolta, non intenzionali effetti di una politica, piano, programma o progetto sulla salute di una popolazione e la distribuzione di tali effetti all’interno della popolazione esposta, individuando le azioni appropriate per la loro gestione (Cfr. World Health Organization. Health impact assessment: main concepts and suggested approach. Gothenburg consensus paper, European Centre for Health Policy, WHO Regional Office for Europe, Brussels, 1999). “La VIS si colloca quindi a fianco della VIA, in un’ottica prospettica, con l’obiettivo di integrare gli effetti sulla salute nelle attività di valutazione degli impatti ambientali dell’opera sul territorio. È quindi uno strumento a supporto dei processi decisionali e interviene prima che questi siano realizzati.” Cit. da E. Dogliotti, L. Achene, E. Beccaloni, M. Carere, P. Comba, R. Crebelli, I. Lacchetti, R. Pasetto, M. E. Soggiu, E. Testai, Linee guida per la valutazione di impatto sanitario (DL.vo 104/2017), Rapporti ISTISAN, 2019, 1.
[45] Direttiva europea 2014/52/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014 che modifica la direttiva 2011/92/UE concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (GU L 124 del 25.4.2014). In Italia la direttiva è stata recepita con il decreto legislativo n. 104 del 16 giugno 2017, che integra e modifica il decreto legislativo 152/2006 e s.m.i., per le parti relative alla procedura di VIA).
[46] Come sottolineato in proposito “a mettere una pietra tombale alle “deroghe” all’italiana è stata pure la Costituzione, con i riformati artt. 9 e 41, la cui applicazione concreta, come chiarito dalla recente sentenza della Corte n. 105/2024, dovrà d’ora in poi tener conto anche dell’interesse delle generazioni future, al fine sempre di non recare danno alla salute e all’ambiente”. Cit. da M. Carducci, La sentenza europea sull’ex Ilva mette fine alle “deroghe” all’italiana, op. cit.
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