ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sospensione e decadenza dalla carica di componente del Consiglio Superiore della Magistratura: una ricognizione, tra regole e principi.
di Andrea Apollonio
L'11 settembre 2024 è stato per la prima volta applicato ad un componente del Consiglio Superiore della Magistratura l'istituto della sospensione. Invero, gli studi sulla normativa che regola il funzionamento dell'organo di governo autonomo, ed in particolare sulla legge 24 marzo 1958, n. 195, lasciano spesso in ombra la (scarna) disciplina della sospensione e della decadenza, fino a ieri mai azionata. Eppure, l'art. 37 ricopre una notevole rilevanza sistematica, perché si connette indissolubilmente al necessario prestigio dell'organo di governo autonomo, a sua volta specchio del prestigio dell'ordine giudiziario: ed è in quest'ottica che se ne propone una ricognizione, tra regole e principi, volta a superare per via interpretativa le numerose lacune di una normativa disarmonica, perché mai aggiornata.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il prestigio dell'organo di governo autonomo - 3. Sospensione e decadenza - 3.1. La ratio dei due istituti - 3.2. La sospensione facoltativa e il problema del «procedimento» - 3.3. (segue) Un giudizio (limitatamente) vincolato - 3.4. Le vicende del procedimento penale - 3.5. (segue) Lo "strano" caso del patteggiamento - 3.6. L’impugnativa della delibera - 4. È giusto distinguere tra consiglieri laici e togati? - 5. L'impermeabilità della funzione consiliare: osservazioni conclusive.
1. Premessa
Negli studi sulla normativa che regola il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura, ed in particolare sulla legge 24 marzo 1958, n. 195, spesso sono superficialmente affrontati gli istituti della sospensione e della decadenza, sommariamente disciplinati dall'art. 37: questi, in effetti, non riguardano il funzionamento ma – al contrario – una stasi dell'attività del governo autonomo della magistratura, che si traduce nel congelamento della funzione consiliare (la sospensione), fino ad arrivare alla sostituzione del componente del Consiglio (previa decadenza).
Si tratta di regole che, essendo relative a gravi fatti che fatalmente riverberano sulla funzione consiliare, e quindi a patologie del munus, sono risultate, fino a ieri, inutilizzate: una delibera di sospensione di un consigliere, ai sensi dell'art. 37, è stata per la prima volta emanata dal Consiglio Superiore l'11 settembre 2024.
E d'altro canto, nel recente (ed anche meno recente) passato, nei casi che avessero potuto giustificare l'applicazione dei poteri del plenum di cui all'art. 37 – con l'inserimento della relativa pratica nell'ordine del giorno, firmato come noto dal Presidente della Repubblica nella qualità di presidente dell'organo – si è fatto puntualmente ricorso alle dirette dimissioni dalla carica di consigliere, evitando così il delicato passaggio deliberativo[1].
Per altro verso, a stretto rigore nell'ambito dell'art. 37 non possono collocarsi quelle deliberazioni del plenumsollecitate dalla Commissione "verifica titoli" ai sensi dell'art. 33, che è nominata, nel corso della seduta di insediamento, dal Presidente della Repubblica; ritualmente convocata, quindi, ad inizio consiliatura e prima ancora del formale insediamento dei consiglieri (ad es., per un problema di incompatibilità non dichiarato al momento dell'elezione); ovvero convocata in un qualsiasi altro momento della vita consiliare (ad es. per sopravvenute incompatibilità di un consigliere). Casi in cui, ai sensi dell'art. 9 del Regolamento interno del CSM, si deve provvedere alla sostituzione del consigliere incompatibile.
Per queste ragioni, almeno nel recente (ed anche meno recente) passato, la disciplina in materia di sospensione e decadenza non ha mai operato, relegata in un cono d'ombra, tanto da risultare una delle poche "zone franche" non toccate dalla c.d. "riforma Cartabia", che ha profondamente innovato l'ordinamento giudiziario e la stessa legge n. 195/1958.
Ne consegue l'emersione – improvvisa – di una normativa disarmonica, che presenta molteplici problematiche, anche dettate dal mancato aggiornamento del raccordo con altri settori dell'ordinamento.
Eppure, la disciplina di cui all' art. 37 ricopre una notevole rilevanza sistematica, perché si connette indissolubilmente al necessario prestigio dell'organo di governo autonomo, a sua volta specchio del prestigio dell'ordine giudiziario: ed è in quest'ottica che, anche alla luce della prima delibera di sospensione nella storia consiliare, se ne propone una ricognizione, tra regole e principi.
2. Il prestigio dell'organo di governo autonomo
Con la legge 17 giugno 2022, n. 71, uno dei molti provvedimenti esecutivi della "riforma Cartabia", è stato inserito all'art. 1 della legge sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura un nuovo comma. Il capoverso della norma oggi dispone che «All'interno del Consiglio i componenti svolgono le loro funzioni in piena indipendenza e imparzialità».
Si tratta di un principio non certo innovativo, che tuttavia il legislatore ha inteso sancire per tabulas. Basterebbe invero richiamare una nota sentenza della Corte Costituzionale degli anni Ottanta[2], nella quale si ribadisce che essendo la funzione tipica del Consiglio quella di assicurare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, conseguentemente vanno a determinarsi in capo ai componenti «garanzie dirette a consentire la pienezza dei poteri nell'esercizio delle competenze attribuite in via esclusiva al Consiglio». Il quadro delle guarentigie – ma anche dei connessi doveri – in cui opera la magistratura è – circolarmente – pressoché lo stesso in cui opera il Consiglio Superiore, e questo perché, come si è segnalato in dottrina, «la struttura e la composizione del Consiglio sono funzionali all'esercizio dei poteri e delle competenze previste dall'art. 105, essendo peraltro queste ultime ordinate alla realizzazione dell'autonomia dell'ordine giudiziario ed alla indipendenza del giudice»[3].
Tornando però alla formulazione letterale dell'inciso introdotto dalla "riforma Cartabia", è interessante notare come si richiami da un lato l'indipendenza, guarentigia che la Costituzione attribuisce agli organi giurisdizionali (si guardi all' art. 104: «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»), e dall'altro l'imparzialità, che connota tradizionalmente l'agere amministrativo (si guardi all'art. 97: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»). E anche qui pare sollevarsi un'altra grande questione di carattere generale, relativa alla natura "mista" dell'organo.
In questa sede, è sufficiente evidenziare che il Consiglio Superiore è organo di (alta) amministrazione nella misura in cui si determinano «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni» (art. 105), ed è giudice disciplinare laddove emana «provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati» (ancora ai sensi dell'art. 105); ma al tempo stesso, come è stato ricordato, «il contenuto tendenzialmente amministrativo delle sue funzioni e competenze, anche se intesa questa espressione in senso lato, [è] tale da non escludere incidenze politiche, sul piano dei rapporti tra poteri dello Stato»[4]; e, sul punto, basti pensare alla funzione deliberativa di pareri con riguardo all'amministrazione della giustizia[5].
Come ha di recente autorevolmente sintetizzato il Capo dello Stato, «attraverso l’esercizio trasparente ed efficiente del governo autonomo il Consiglio Superiore deve garantire, nel modo migliore, l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione; e deve assicurare agli uffici giudiziari il miglior livello di professionalità dei magistrati, che svolgono con impegno e dedizione la loro attività anche in condizioni ambientali complesse e talvolta insidiose»[6].
Per questa vasta congerie di delicate funzioni pubbliche, tale da non essere consentita alcuna assimilazione con altri enti collegiali, i consiglieri sono tenuti ad espletare il loro incarico con disciplina ed onore, come ogni cittadino cui sono «affidate funzioni pubbliche», ai sensi dell'art. 54 della Costituzione. Con disciplina e onore, e «in piena indipendenza e imparzialità», perché è dall'attività del singolo consigliere che passa il prestigio dell'istituzione consiliare.
Può certo essere considerata la vicinanza suggerita dalla stessa norma di nuovo conio, con lo status del magistrato che importa diritti e doveri di particolare rilievo ordinamentale, tanto da scavalcare la funzione giudiziaria e proiettarsi nella vita privata; può essere all'uopo richiamato quel principio, dall'ampia portata, che collega a sanzione disciplinare il magistrato che abbia tenuto «in ufficio o fuori, condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'Ordine giudiziario»[7].
Una indicazione, via via ripresa e aggiornata dalla giurisprudenza disciplinare e costituzionale, volta a preservare quel bene primario che è la fiducia che i cittadini ripongono – o dovrebbero riporre – nel sistema-giustizia: bene di pari rango rispetto al diritto-dovere dell'indipendenza da parte del magistrato, e al diritto-dovere dell'indipendenza del consigliere superiore: che si traduce in un più radicato dovere di imparzialità e terzietà laddove il consigliere eserciti la funzione disciplinare.
Una fiducia che, essa soltanto, è in grado di rendere credibile l'istituzione in cui si opera.
3. Sospensione e decadenza
3.1. La ratio dei due istituti
Rispetto a queste direttrici programmatiche, il legislatore del 1958 ha previsto alcune situazioni in cui il prestigio e il decoro dell'istituzione, la sua credibilità intrinseca, sembrerebbero messe a repentaglio dal comportamento del singolo consigliere, individuando al contempo quegli strumenti volti a ripristinare la piena funzionalità dell'organo in condizioni di autorevolezza. Per questa ragione, gli istituti della sospensione e della decadenza, da un lato possono essere assimilati alle sanzioni disciplinari per i magistrati (che presentano perlopiù un indubbio contenuto punitivo rispetto ad una censurabile condotta posta in essere nell'esercizio della funzione, o che sulla funzione si riverbera), e dall'altro sembrano condividere la ratio di un diverso istituto ordinamentale: il trasferimento per incompatibilità, che si applica ai magistrati «quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità»[8]: di là di un giudizio di responsabilità personale, la norma presenta un contenuto ripristinatorio della piena funzionalità dell'organo giuridizionale e quindi, in una prospettiva più ampia, del prestigio dell'autorità giudiziaria, che non può essere offuscato da situazioni di sostanziale incompatibilità del magistrato.
È in questa cornice sistematica che possono essere illustrati i due istituti, entrambi contemplati all'art. 37 della legge n. 195/1958: norma che, pur dando attuazione al principio di piena e impregiudicata funzionalità del CSM di cui all'art. 108 Cost., è alquanto scarna.
Per tutti i membri del consesso si prevede infatti una sospensione facoltativa («possono essere sospesi dalla carica») ove «sottoposti a procedimento penale per delitto non colposo», e una sospensione di diritto «quando contro di essi sia emesso ordine o mandato di cattura ovvero quando ne sia convalidato l'arresto per qualsiasi reato»; per i soli consiglieri togati vale inoltre la sospensione di diritto dalla carica «se sottoposti a procedimento disciplinare».
Si tratta di una chiara previsione cautelativa, laddove il comportamento del consigliere (nell'esercizio o meno delle sue funzioni) abbia consentito – al di fuori dell'ipotesi estrema dell'arresto – l'apertura di un procedimento, penale o disciplinare: si determina infatti, in questo caso, una situazione di sostanziale incompatibilità, tra il componente dell'organo di governo autonomo della magistratura e la magistratura stessa, chiamata a indagare e giudicare il consigliere sottoposto a procedimento penale; incompatibilità ancora più marcata nel caso in cui il magistrato sia sottoposto a procedimento disciplinare, innanzi allo stesso Consiglio Superiore, che giustifica in quest'ultimo caso una sospensione non facoltativa ma obbligatoria.
Può dirsi a questo punto, a meglio considerare il testo di legge, che il prestigio dell'istituzione è messo in pericolo dal deprecabile comportamento del singolo consigliere solo in via mediata, perché in via immediata – e sotto il profilo procedurale – soccorre l'incompatibilità della funzione consiliare rispetto all'esercizio della funzione giurisdizionale (ordinaria o disciplinare) sulla medesima persona, che può minare alla radice la credibilità del CSM rispetto ai suoi compiti e alle sue prerogative.
In questo senso, l'art. 37 sarebbe da leggere come una estensione delle ipotesi di incompatibilità previste all'art. 33: norma che, pur non indicando espressamente quale conseguenza dell'incompatibilità la decadenza, di fatto la determina; questo, anche a riprova della complementarità tra gli artt. 33 e 37.
Venendo quindi alla decadenza, essa deve in ogni caso pronunciarsi ex lege per quei consiglieri «condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo»; anche qui, per i soli consiglieri togati vale la decadenza di diritto dalla carica «se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento».
La legge non specifica se la decadenza (che logicamente può seguire la sospensione) sia ex tunc o ex nunc: ipotesi, quest'ultima, preferibile perché avvalorata dai principi generali dell'ordinamento, secondo i quali si prediligono in via ordinaria gli effetti giuridici ex nunc, riservando quelli ex tunc a casi eccezionali o a gravi patologie di atti o comportamenti, comunque indicati dalla legge.
Sotto l'aspetto procedurale, all' art. 9 del Regolamento interno del CSM si prevede che «nei casi previsti dall'art. 37 della legge 24 marzo 1958, n. 195, il consiglio delibera in ordine alla declaratoria di sospensione o di decadenza sulla base di una relazione del Comitato di presidenza»[9], completando così il secco enunciato della legge del 1958 («La sospensione e la decadenza sono deliberate dal Consiglio Superiore»), ove però si specifica che (soltanto) la sospensione facoltativa «è deliberata a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi dei componenti». Sono dunque previste, in questo caso, garanzie procedurali forti per il singolo consigliere coinvolto, accentuando così l'importanza di una scelta politica (nel senso di governo dell'organo) in base alla valutazione – in via mediata – di fatti o condotte censurabili realizzate dal consigliere e posti a base di un procedimento (penale o disciplinare) e – in via immediata – della peculiare situazione di incompatibilità che si viene a creare.
Va sottolineato che, oltre quella in commento, l'altra previsione di legge di scrutinio segreto nell'ambito delle deliberazioni consiliari riguarda l'elezione dei componenti della sezione disciplinare: in entrambi i casi, la prassi consiliare che si è fin qui affermata preclude il dibattito, attesa la ristretta composizione dell'organo (che renderebbe palesi le intenzioni di voto) in uno con la delicatezza istituzionale del passaggio deliberativo[10].
In tutti gli altri casi (sospensione e decadenza "di diritto"), in assenza di una previsione di legge, la votazione sarà palese (con facoltà di esprimere le intenzioni di voto), a maggioranza semplice, con la peculiare regola di cui all'art. 5 («Le deliberazioni sono prese a maggioranza di voti e, in caso di parità, prevale quello del Presidente»). Va tuttavia specificato che trattandosi di un effetto ope legis, la deliberazione rappresenterebbe, in questo caso, una mera presa d'atto – imposta dall'ordinamento – della sussistenza dei presupposti indicati dalla legge del 1958.
3.2. La sospensione facoltativa e il problema del «procedimento»
Si è visto che la sospensione facoltativa si basa sul presupposto oggettivo dell’essere sottoposti a procedimento penale per un delitto non colposo. La legge del 1958 rinviava però ad un modello processuale diverso dall’attuale, puramente accusatorio, e in definitiva a un diverso codice di rito: il codice “Rocco” del 1930, soppiantato dall'attuale nel 1988. È dunque opportuno chiedersi se il «procedimento penale» cui fa riferimento l’art. 37 debba intendersi nel senso in cui oggi si intende il procedimento penale, che formalmente si avvia con la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato ai sensi dell’art. 335 cpp.
È indubbio che i due modelli siano profondamente diversi: una diversità palese fin dall’art. 1 del “vecchio” codice di rito, che dovendo individuare il momento di impulso del «procedimento» afferma: «L’azione penale è pubblica e, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o l’istanza è iniziata d’ufficio a seguito a rapporto, a denuncia o ad altra notizia di reato». L’indagato in quanto tale (così come noi oggi lo intendiamo) non esisteva, trovava posto solo la qualità di imputato (sempre sulla scorta delle attuali categorie processuali), la quale, secondo l’autorevole dottrina del tempo, «si conserva fino al termine del procedimento»[11].
Se dunque nel “vecchio” rito il procedimento era unitario e si distingueva solo per fasi che gradualmenteconducevano al giudizio (l’esclusiva azione del pubblico ministero, l’intervento del giudice istruttore, la valutazione delle prove da parte del tribunale), non può negarsi il chiaro intendimento del legislatore storico di “suonare” un campanello d’allarme (creando i presupposti per la sospensione facoltativa) allorquando l’esercizio anche primigenio della giurisdizione penale riguardi un consigliere del Consiglio Superiore; e per la ragione – di sostanziale incompatibilità – sopra esposta.
È vero che l’azione penale si riferiva all’avvio formale del procedimento (e che la qualifica di indagato era in totoassimilata in quella di imputato): a contrario, potrebbe allora dirsi che per «procedimento» si intenda quella fase che oggi definiamo squisitamente processuale, che si avvia con la richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio o l'adozione di provvedimenti d'impulso similari, che fanno dell'indagato un imputato. Ma è altrettanto vero che non si può trasporre il significato di un’azione processuale da un modello all’altro optando per il contenuto semantico più favorevole, a discapito della ratio legis. Il dato di legge rimane chiaro anche dopo l’intervento riformatore del 1988: e si riferisce all’avvio del procedimento, all'inizio delle indagini (il campanello d'allarme), e non alla (attuale) fase processuale avviata con l’esercizio dell’azione penale; atto processuale che d’altronde, nel codice del 1930, aveva un valore radicalmente diverso. Se la legge impone l'adozione di categorie giuridiche settoriali, quali quelle processuali, esse devono necessariamente essere calate nel contesto semantico da cui originano e nel quale si sviluppano; in assenza, s'intende, di qualsiasi interpretazione autentica proveniente dallo stesso legislatore.
Se dunque ai sensi dell’art. 37 si inverano i presupposti oggettivi della sospensione facoltativa allorquando il consigliere sia sottoposto a procedimento penale per un delitto non colposo, a partire quindi dalla formale iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato per una fattispecie dolosa, va svolta un’ulteriore riflessione sulla scorta della regola procedurale, recentemente introdotta dalla “riforma Cartabia”, di cui all’art. 335-bis cpp., con cui si stabilisce che l’iscrizione nel registro degli indagati non può, «da sola», produrre effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa.
Si potrebbe infatti obiettare che tale fattispecie (essendo lex posterior) abbia tacitamente abrogato tutte le norme che fanno discendere, dalla mera iscrizione, diretti effetti pregiudizievoli nella sfera dei diritti soggettivi. L’ordinamento presenta ipotesi di tal fatta, che ipso jure determinano effetti in malam partem: non è però il caso che ci occupa.
L’art. 37, in punto di sospensione facoltativa, non determina in via diretta un effetto pregiudizievole. L’iscrizione conduce invece all’inverarsi dei presupposti della valutazione del plenum in ordine alla sospensione di un suo componente: crea il presupposto rispetto all’esercizio di un potere assegnato dalla legge al Consiglio Superiore nell’ambito della sua autodichia. L’effetto pregiudizievole, piuttosto, è la delibera del CSM, adottata sulla scorta di una valutazione discrezionale, ma limitatamente discrezionale: così definita per le ragioni che tra poco si rimarcheranno.
Non c’è dunque antinomia tra le due fattispecie: da un lato si ha una norma processuale (l’art. 335-bis) che, condivisibilmente, mira ad espungere ogni automatismo pregiudizievole a seguito dell'iscrizione nel registro degli indagati; dall’altro, una norma ordinamentale che mette nelle condizioni il Consiglio Superiore di svolgere una valutazione in ordine all'opportunità di rimuovere una situazione di incompatibilità tra l'esercizio delle funzioni consiliari e quelle giudiziarie esercitate da un diverso organo.
In questa prospettiva si colloca, peraltro, la relazione del Massimario della Corte di Cassazione sulle modifiche processuali introdotte dalla “riforma Cartabia”, secondo cui «se è vero che l’autorità amministrativa o civile non può valorizzare il solo dato dell’iscrizione nell’adozione dei provvedimenti, non è espressamente impedito l’utilizzo autonomo in sede civile o amministrativa degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione»[12]. È evidente, in altri termini, che l'iscrizione è intesa come possibilità di utilizzo a fini diversi di fatti che, per altre finalità rispetto a quelle giudiziarie, possono essere autonomamente valutati.
3.3. (segue) Un giudizio (limitatamente) vincolato
È bene, a questo punto, e per assegnare continuità all’argomentazione svolta, chiarire la principale tesi di questa indagine, volta a lumeggiare istituti mai approfonditi (forse) perché mai applicati.
Come si è detto, la ratio della sospensione non è tanto quella di sanzionare acriticamente quella condotta che ha determinato la (mera) iscrizione, ma quella di “congelare” una funzione potenzialmente incompatibile in un frangente temporale in cui sono in corso le indagini dell’autorità giudiziaria (o, per il consigliere togato, è in corso un procedimento disciplinare).
La decisione del plenum di deliberare la sospensione facoltativa (dacché quella di diritto dovrebbe come detto rappresentare una mera presa d'atto di un effetto voluto dalla legge del 1958) attiene, a ben vedere, a due aspetti: da un lato, alla verifica della – pur astratta – fondatezza della notizia di reato, alla non pretestuosità della stessa, avanzando una valutazione sul fatto che lo ha determinato: e sempre in una prospettiva sistematica, va ricordato che la stessa “riforma Cartabia” è su altro fronte intervenuta (introducendo il co. 1-bis all’art. 335) nell’ottica di evitare il rischio che si proceda a iscrizioni arbitrarie ed eccessive, esclusivamente formali e generiche di fatti, ma soprattutto di soggetti solo "sospettati" e che dall’iscrizione potrebbero subire un grave nocumento[13]; dall’altro alla conseguente verifica dell' inopportunità della prosecuzione dell’esercizio della funzione consiliare in ragione, appunto, di una situazione di incompatibilità venutasi a creare; lesiva – andrebbe aggiunto – del prestigio dell'organo.
Che sia proprio questa la ratio della sospensione di cui all'art. 37 lo segnala un tenore letterale che non parla di censurabilità o meno della condotta posta in essere dal consigliere, ma si limita ad enunciare il dato formale della sottoposizione a procedimento. La valutazione di censurabilità o meno della condotta, imprescindibile sopratutto laddove questa abbia acquisito rilevanza mediatica (con una refluenza sul prestigio e la credibilità dell’istituzione), sarà in ogni caso insita nella valutazione circa la necessarietà dell’avvio delle indagini nei confronti del consigliere coinvolto: che appunto determina la sostanziale incompatibilità con la funzione consiliare.
Ecco perché la valutazione del plenum può definirsi limitatamente discrezionale: una discrezionalità non così ampia, forse, da risultare atto politico, ma che non può, per altro verso, sostanziarsi in una attività decisionale vincolata, poiché il giudizio verte sul fatto e non sull'atto giuridico che presuppone e legittima la procedura. È necessario ribadirlo: questa valutazione si basa sul fatto presupposto all’iscrizione, non sull’iscrizione medesima; mentre l’art. 335-bis è chiaro nello stabilire che l’iscrizione nel registro degli indagati non può, «da sola», produrre effetti pregiudizievoli.
D'altronde, se il Consiglio disponesse “soltanto” della comunicazione dell’iscrizione di una notizia di reato, non disporrebbe di alcun elemento su cui effettuare una valutazione; l’eventuale delibera sospensiva, adottata “in bianco”, sarebbe evidentemente affetta da un grave vizio logico, in quanto nulla, se non una mera comunicazione, sarebbe alla base della valutazione svolta: un vizio logico ma anche – in un'ottica di sistema – un atto contrario alla legge stessa, che impedisce l'esplicarsi di qualsivoglia effetto a seguito della "mera" iscrizione. Vizi che ben si potrebbero far valere in giudizio (sulle cui problematiche ci si è soffermati innanzi).
Per altro verso, la valutazione su cui deve basarsi il Consiglio può vertere su elementi di fatto (che possono essere a base della notitia criminis, ma possono anche non esserlo) acquisiti in ogni modo, anche aliunde rispetto al procedimento penale, purché al fatto che l'ha generato siano in qualche modo afferenti.
Elementi che, in ogni caso, andrebbero indicati nella relazione del Comitato di presidenza sottoposta alla votazione. Questa relazione (per non incorrere nei vizi logico-giuridici anzidetti) dovrebbe insomma non solo dare atto della mera iscrizione, ma anche esporre, pur succintamente, i dati di fatto su cui il plenum deve compiere la sua valutazione.
3.4. Le vicende del procedimento penale
È ancora l’istituto che “congela” la funzione consiliare a generare problemi applicativi di non poco conto, adesso considerati nella fase successiva alla delibera consiliare di sospensione. Oltre ad un primo problema – che si pone nell’immediato – di carattere squisitamente indennitario-retributivo[14], un secondo problema, di portata più generale, è relativo alle possibili vicende del procedimento penale che è risultato presupposto di applicazione dell’art. 37 e quindi della delibera sospensiva. Pochi dubbi su ciò che consegue ad un procedimento penale aperto e concluso con una sentenza di condanna: la legge in questo caso prevede l’automatica decadenza del consigliere, in ragione, come si è detto, non (più) di una situazione di incompatibilità, ma di una vera e propria censura (intrinseca nel dato di legge) rispetto ad una condotta deprecabile (il fatto di reato) che intacca il prestigio dell’istituzione. Il precedente giudizio, cautelativo, eventualmente formulato laddove si sia adottata una delibera di sospensione facoltativa, viene superato da un effetto di legge che presenta una diversa ratio.
Ci si può più fondatamente interrogare se nei confronti del consigliere coinvolto interviene un proscioglimento (anche in sede di udienza preliminare): una declaratoria di non luogo a procedere o, anche, un’assoluzione.
Anche qui il vuoto legislativo è conclamato. L’art. 37 si disinteressa delle successive fasi del procedimento penale; e a ben vedere anche l’organo consiliare potrebbe disinteressarsi di tali vicende perché, come si è detto, il plenumsi sarà pronunciato sulla base di dati di fatto autonomamente valutati, attraverso un utilizzo autonomo degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione, o di altri elementi (sempre connessi a quel fatto) comunque indicati nella relazione del Comitato di presidenza.
Tuttavia, non può negarsi che, sul piano sostanziale, la chiusura del procedimento (senza che sia intervenuta una condanna) fa venire meno quella situazione di incompatibilità tra l’azione giudiziaria e le funzioni consiliari che legittima l'adozione della delibera consiliare; e può dunque senz’altro legittimare una riedizione del potere di autodichia da parte del plenum. Se così, non si può escludere – e sarebbe anzi coerente con la ratio dell’istituto sospensivo – una nuova valutazione, la quale potrà essere fatta attraverso una nuova relazione del Comitato di presidenza (eventualmente sollecitata da uno o più consiglieri, anche dallo stesso consigliere coinvolto, con allegazione dei dati di fatto su cui si dovrebbe basare la riedizione del potere – es. allegando il decreto di archiviazione o la sentenza di assoluzione) che verosimilmente sottoponga al voto del consesso la revoca della precedente determinazione. La sospensione è infatti, dal punto di vista giuridico, un atto di per sé revocabile, mediante un contrarius actus. Lo può essere, a fortiori, in ragione della sua natura, squisitamente cautelativa.
Sulla scorta dei richiamati principi generali, sarebbe consentita la retrattabilità di tale atto giuridico, sulla base di una nuova valutazione. Si tratterebbe di una revoca ex nunc perché realizzata sulla scorta di nuovi ed ulteriori dati di fatto (e il nuovo dato può essere anche il provvedimento che "chiude" il procedimento) e non, s'intende, di un annullamento in autotutela perché ciò presupporrebbe l’illegittimità dell’atto, del tutto legittimo ove adottato in base alle pur scarne indicazioni di cui all'art. 37.
Le successive vicende del procedimento che ne determinano la chiusura, con provvedimento diverso dalla sentenza di condanna, potrebbero, quindi, fungere da impulso per una nuova ed autonoma deliberazione presa in ossequio, da un lato, al principio di autodichia del Consiglio Superiore, e dall’altro guardando alla peculiare ratiodell’istituto della sospensione.
Quale ultimo spunto procedurale, potrebbe dirsi che, non essendo prevista l’ipotesi della revoca della sospensione, questa delibera dovrebbe seguire le regole generali di funzionamento dell’assemblea e, soprattutto, di deliberazione, quali quelle di cui all’art. 5: il voto, a questo punto, sarebbe palese, e il dibattito reso possibile. Sennonché, la riedizione di un medesimo potere di governo, in forma diversa, si mostrerebbe come una inaccettabile incoerenza di sistema: l'esercizio di tale potere non può che replicarsi nelle stesse forme in cui è stato originariamente esercitato.
3.5. (segue) Lo "strano" caso del patteggiamento
Anche alla luce delle recenti modifiche derivate dalla "riforma Cartabia", appare doveroso interrogarsi, in seconda battuta, se una sentenza di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 cpp. determini la decadenza di diritto, al pari di una sentenza di condanna, oppure se si traduce in una vicenda estintiva del procedimento e in quanto tale potenzialmente suscettibile di avviare una nuova, ulteriore valutazione della posizione del consigliere interessato da parte del Consiglio Superiore.
Il legislatore del 2022, al co. 1-bis dell'art. 445, si muove su due diverse piste ermeneutiche. Da un lato, si afferma che «La sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile». Si ara una problematica probatoria che, per il vero, non riguarda né la sospensione – adottata sulla scorta di una valutazione di dati di fatto autonomamente considerati, e a fini cautelativi – né tantomeno la decadenza, che guarda alla statuizione e non al suo contenuto.
Più pertinente invece il successivo disposto: «Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna». L'art. 37 non equipara espressamente la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna (perché l'istituto è, come noto, stato elaborato successivamente al 1958), e se così, delle due l'una: o la norma nel prevedere la decadenza dei consiglieri «se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo» intende riferirsi a qualsivoglia effetto penale di condanna (così implicitamente equiparando la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna), oppure si riferisce in senso stretto alla sentenza penale di condanna, così lasciando fuori dal suo perimetro applicativo quelle sentenze, pur "diverse", che comunque comportano l'effetto penale di condanna.
La prima opzione pare maggiormente condivisibile, poiché è evidente che il legislatore abbia in questo caso voluto rimarcare la censurabilità della condotta, insita in una sentenza di condanna, qualsiasi ne sia la veste – e d'altronde, il legislatore storico avrebbe alquanto faticato ad immaginare un istituto generato e sviluppato dentro un modello processuale radicalmente diverso, di là da venire: squisitamente accusatorio.
Se così, non ci sono ragioni ostative all'applicazione del principio indicato e, per conseguenza, una sentenza di patteggiamento ex art. 444 non potrà ricadere nell'ambito dell'istituto della decadenza disciplinato dall'art. 37 (non produce, questa norma, il suo effetto decadenziale, per espressa previsione di una legge posteriore), «se non sono applicate pene accessorie». Solo in questo caso, infatti, l'equiparazione ad una sentenza penale di condanna sarà preclusa.
Su tale versante chiarisce il significato della legge la Relazione illustrativa alla "riforma Cartabia", che nel senso anzidetto legge la norma di nuovo conio: «ogni qual volta, per effetto della sentenza di patteggiamento, non si applichino le pene accessorie [...] vengono meno anche tutti gli altri effetti penali. Per effetti penali si intendono dunque tutti quegli automatismi discendenti ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali»[15]: tra queste, senz'altro rientra l'art. 37 in punto di decadenza.
Ne consegue, indubitabilmente, che se il consigliere nell'ambito del procedimento che funge da presupposto della delibera di sospensione patteggerà una pena che non contempli pene accessorie non potrà aversi l'effetto automatico della decadenza, precluso dal nuovo co. 1-bis dell'art. 444.
Va peraltro specificato che la stessa "riforma Cartabia" agevola a tal punto la possibilità di ricorrere alla definizione del procedimento ex art. 444 consentendo alle parti di chiedere congiuntamente al giudice di non applicare le pene accessorie (art. 444, co. 1), in deroga alle (molte) disposizioni che, sparse nel codice penale e nelle leggi speciali impongono in caso di condanna una pena accessoria. Una considerazione a parte meritano però i reati commessi appunto da pubblici ufficiali, le cui pene accessorie sono governate dal rigoroso disposto di cui all'art. 317-bis[16]: precetto la cui efficacia la "riforma Cartabia" non rimette esclusivamente alle determinazioni delle parti, facendo salvo un ampio margine di valutazione del giudice in ordine all'applicazione delle pene accessorie[17].
L'ipotesi dunque di un patteggiamento che non contempli pene accessorie può considerarsi alquanto frequente; mentre il patteggiamento che le contempli (anche in ragione della disciplina derogatoria di cui al co.1-bis e 1-terdell'art. 444, relativa a specifici reati) sarà considerato alla stregua di una sentenza penale di condanna, ai sensi dell'art. 445, co. 1-bis, ultimo periodo, e come tale – per tornare ai poteri e alle facoltà di autodichia dell'organo consiliare – imporrebbe al plenum l'adozione di una delibera che dichiari la decadenza.
Quel consigliere che sia stato (eventualmente e) precedentemente sospeso e che abbia ottenuto la pronuncia di una sentenza ex art. 444, scevra da pene accessorie, non potrà invece decadere; eppure il procedimento che ha sollecitato la delibera sospensiva si è estinto, non sorreggendo più l'atto consiliare.
Si ricade a questo punto nella già percorsa ipotesi in cui il procedimento si sia estinto in senso maggiormente favorevole all'indagato/imputato, dando la stura ad una diversa valutazione che potrà essere fatta mettendo ai voti una nuova relazione del Comitato di presidenza. Sarebbe in astratto possibile una nuova pronuncia del Consiglio in ordine al mantenimento dell’istituto sospensivo; con una – si immagina – più attenta valutazione dei fatti indicati nella imputazione e nella sentenza, e un focus spostato sulla censurabilità della condotta posta in essere, anziché sulla situazione di incompatibilità venutasi a creare e adesso, con l'estinzione del procedimento, risoltasi.
Ma, si badi: se tale "nuova" delibera fosse adottata in malam partem, e quindi con effetto confermativo della precedente sospensione, potrebbe considerarsi l'ipotesi di essere a questo punto al di fuori del perimetro legale della sospensione (ancora) facoltativa, che pur sempre impone la sussistenza di un procedimento penale, questo estinto con la pronuncia di una sentenza ex art. 444.
E a voler condividere questa tesi, che guarda all'istituto sospensivo come strettamente legato all'esistenza del procedimento penale – simul stabunt, simul cadent – e in quanto tale necessariamente temporaneo, sia in caso di archiviazione o proscioglimento, sia in caso di patteggiamento (senza pene accessorie), dovrebbe procedersi alla revoca della delibera sospensiva per essere venuti meno i presupposti della stessa. Neanche su questo punto la legge fornisce un valido ausilio interpretativo; e da questo vuoto regolamentare emergono conseguenze a tratti paradossali, se è vero che l'istituto della decadenza può attivarsi solo se il patteggiamento contempli nel proprio nomen juris anche la pena accessoria, e qualsiasi essa sia.
3.6. L’impugnativa della delibera
La delibera di sospensione e decadenza adottata ai sensi dell’art. 37, come qualsiasi altro atto del Consiglio Superiore, può essere impugnato innanzi all’autorità giudiziaria.
Una prima e più pressante questione riguarda la giurisdizione, che come noto va individuata in rapporto alla situazione giuridica, di diritto soggettivo o di interesse legittimo, della quale si chiede la tutela.
Si potrebbe adire il giudice amministrativo, affermando che si versa in un’ipotesi di esercizio di poteri autoritativi amministrativi a fronte dei quali sussiste un interesse legittimo, contestando conseguentemente la legittimità del provvedimento e chiedendone l’annullamento.
Va tuttavia sottolineato che le Sezioni Unite, in una pronuncia resa a seguito di regolamento preventivo di giurisdizione[18], hanno affermato che i componenti del CSM acquisiscono «per effetto della scelta compiuta dagli elettori» una posizione soggettiva che si configura come diritto soggettivo perfetto. Con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla vicenda giuridica di tale status. Potrebbe allora dirsi che a seguito della delibera di sospensione si sia implicitamente dichiarato che, almeno temporaneamente e in via cautelativa, non v'è il pre-requisito necessario per mantenere la carica; e al riguardo il Consiglio abbia svolto un’attività di verifica, in punto di fatto. Un’attività di verifica di tale incidenza da riguardare la posizione giuridica stessa del consigliere, tale da non essere idonea a far degradare a interesse legittimo la posizione dell’interessato.
La delibera incide dunque sullo status, previa verifica dei requisiti (che sono di “moralità” – in particolar modo nei casi di decadenza – e di “opportunità”, rispetto alle situazioni di incompatibilità di fatto che si vengono a creare – nei casi di sospensione) di mantenimento della carica. D’altro canto, è pacifico che sia il giudice ordinario ad essere competente delle impugnative delle delibere adottate in sede di verifica dei titoli, come lo è stato allorquando veniva impugnata la delibera che dichiarava la cessazione di un membro togato del Consiglio a seguito del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età[19].
La seconda questione riguarda il perimetro del sindacato del giudice ordinario; il quale, a fronte delle valutazioni (limitatamente) discrezionali di cui si è ampiamente detto, che si traducono in una discrezionalità vincolata laddove si tratti di dichiarare la decadenza ovvero l'esistenza dei requisiti della sospensione obbligatoria, deve contenere il giudizio entro i confini dell'accertamento dei presupposti di legalità dell’atto.
Il “contenuto”, e gli effetti stessi della delibera, non sono sindacabili in sede giurisdizionale, poiché non c’è stata alcuna comparazione di diversi interessi e diverse posizioni; né d’altro canto l’iter della decisione è percorribile: la valutazione è compiuta dai singoli consiglieri a scrutinio segreto, senza alcun previo dibattito, sulla base di una relazione del Comitato di presidenza che può essere tanto stringata da limitarsi a individuare i presupposti di cui all’art. 37. In questo senso, può dirsi che la delibera in quanto tale non è corredata da alcuna motivazione.
Per queste ragioni, il giudice ordinario non può esprimere una valutazione di congruità della sospensione; a fortiori, non può stabilire se e come è stato perseguito l’interesse pubblico. Si tratta dunque di svolgere un (mero) controllo di legalità: se la procedura si è svolta secondo le indicazioni di legge, circa la verifica della sussistenza dei presupposti indicati all’art. 37 e dei requisiti di validità della delibera stessa.
4. È giusto distinguere tra consiglieri laici e togati?
Si è visto che l'art. 37 importa, nella sostanza, una distinzione tra membri laici e membri togati, poiché solo i membri togati sono destinatari dell'ipotesi della sospensione obbligatoria se sottoposti a procedimento disciplinare, e della decadenza obbligatoria dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento, determinando per costoro un ampliamento oggettivo – per l'oggettivo approfondimento dell' incompatibilità tra funzione esercitata e organo di appartenenza, chiamato ad esercitare il potere disciplinare – delle ipotesi di sospensione e decadenza. Ampia infatti è la casistica di quelle situazioni che, senza integrare fattispecie di reato, possono condurre ad un procedimento disciplinare: una casistica, peraltro, in esponenziale aumento, a fronte della recente abrogazione dell'abuso d'ufficio, norma residuale del sistema dei reati commessi dai pubblici ufficiali.
Lo scrimine è dettato dalla provenienza "elettiva" del consigliere: da un lato, il consigliere laico eletto dal Parlamento, dall'altro il consigliere togato eletto dal corpo magistratuale. Vale dunque la pena interrogarsi se sia opportuno distinguere, come la norma distingue sul piano dei rimedi volti a ripristinare prestigio e funzionalità dell'organo consiliare, tra le due diverse categorie elettive.
Invero, una distinzione tra "categorie" trova fondamento nello stesso art. 1 della legge del 1958, come modificata nel 2022 dalla "riforma Cartabia", allorché si introduce il concetto di «categoria di appartenenza»[20], che può meglio essere spiegato in base all'art. 4 che regola la composizione della sezione disciplinare, i cui componenti effettivi sono: il vicepresidente del Consiglio Superiore, che presiede la sezione per l'intera durata della consiliatura; un componente eletto dal Parlamento; un magistrato di Corte di cassazione con esercizio delle funzioni di legittimità; due magistrati che esercitano le funzioni di giudice presso uffici di merito; un magistrato che esercita le funzioni di pubblico ministero presso uffici di merito. Che siano proprio queste le "categorie" indicate lo specifica di seguito l'art. 6: «Il componente che sostituisce il vicepresidente e gli altri componenti effettivi sono sostituiti dai supplenti della medesima categoria. Il componente effettivo eletto dal Parlamento è sostituito dal supplente della stessa categoria».
Quanto invece alla distinzione tra "macro-categorie", e quindi alla distinzione tra appartenenza "laica" e "togata", essa appare più marcata all'art. 5, che dispone sulla validità delle deliberazioni del Consiglio Superiore, per cui «è necessaria la presenza di almeno quattordici magistrati e di almeno sette componenti eletti dal Parlamento».
È sul punto interessante notare che il dato tassonomico della provenienza penetra anche nel quadro dei doveri e dei comportamenti dei componenti del CSM che è stato, da ultimo, ripercorso in una importante delibera consiliare del 20 gennaio 2010, in cui veniva sancito il principio di libera autodeterminazione di ciascun componente del Consiglio, con un accento particolare sulla indipendenza dei consiglieri di nomina parlamentare, ai quali si chiede di non mantenere in vita, anche di fatto, situazioni generatrici di incompatibilità e di attuare una effettiva sospensione delle attività professionali durante la consiliatura.
A questo riguardo si può segnalare che la formula consacrata in Costituzione per l'individuazione della componente "laica" del Consiglio Superiore, le modalità di elezione e la necessità che vi sia ampia convergenza tra le forze politiche, indicano che questa non dovrebbe mai essere espressione di schieramento politico-partitico, ma nell'interesse generale dovrebbe – viceversa – portare nell’organo una sensibilità per l’amministrazione della giustizia, intesa anche come servizio ai cittadini, con la scelta di coloro che, per esperienza accademica e professionale, assicurano il miglior apporto tecnico a questo scopo.
Questo aspetto venne più volte sottolineato in Assemblea Costituente[21]: i "laici" devono essere scelti dal Parlamento non come espressione di una parte politica, ma per la loro qualificata preparazione sui problemi della giustizia da un lato, e dall'altro per la – contestuale – capacità di fornire sufficienti garanzie di indipendenza rispetto al contesto professionale o accademico di provenienza[22].
L'elezione da parte dei magistrati (un corpo elettorale, dunque, "qualificato") della componente "togata" da un lato, l'elezione del Parlamento (un corpo elettorale altrettanto "qualificato"), dall'altro, dovrebbe in definitiva assicurare il medesimo livello di competenze, e racchiudere nello stesso quadro di doveri e responsabilità tutti i consiglieri. Doveri e responsabilità che, in effetti, possono declinarsi diversamente in ragione della "provenienza" e delle "storie" professionali di ciascuno, senza condurre ad un risultato che non sia, per tutti, la tutela dell'autonomia di giudizio e valutazione, quindi del prestigio e della credibilità, dell'organo di governo (appunto, autonomo) della magistratura.
Anche in questo caso, può farsi leva sulla felice sintesi del Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura: «I componenti del CSM si distinguono soltanto per la loro “provenienza”. Hanno le medesime responsabilità nella gestione della complessa attività consiliare e sono chiamati a svolgere il loro mandato senza doversi preoccupare di ricercare consenso per sé o per altri soggetti. Laici e togati interpretano – con doverosa piena indipendenza da ogni vincolo – un ruolo fondamentale nel funzionamento del nostro sistema, sempre seguendo, quindi, il dettato costituzionale»[23].
Venendo alla questione che l'art. 37 solleva, la distinzione tra consiglieri laici e togati, se è vero che trova fondamento nella struttura stessa dell'organo consiliare, non può vedere diversificarsi il perimetro applicativo di sospensione e decadenza, perché, come evidenzia la ricostruzione storico-sistematica svolta, non è di diversa portata il perimetro dei doveri dell'una e dell'altra "categoria". In questo senso, la normativa del 1958 – frutto di una stagione politica che era ancora segnata dall'esperienza di vasto profilo istituzionale dell'Assemblea Costituente, alla quale erano stati chiamati a partecipare, in effetti, cittadini dagli altissimi meriti in ogni campo – dimostra, pur nel quadro di una necessaria distinzione tra consiglieri laici e togati, di non avere adeguatamente considerato, in una prospettiva futura, tutte le possibili situazioni che possono legittimare la sospensione e la decadenza dalla carica di componente del Consiglio Superiore della Magistratura; al punto da far intravedere – oggi – una possibile disparità di trattamento rilevante sul piano dei principi costituzionali e, in ogni caso, auspicare un rapido intervento normativo volto a rendere cogenti le «condizioni di parità»[24], e la parità dei doveri, tra ogni componente del Consiglio Superiore.
5. L'impermeabilità della funzione consiliare: osservazioni conclusive
Il prestigio e il decoro del singolo magistrato, che si riflette sulla credibilità dell'ordine giudiziario nel suo complesso, è un processo osmotico imposto non solo – giuridicamente – dal principio di immedesimazione organica e quindi di imputazione degli atti nell'esercizio della funzione, ma anche – istituzionalmente – dall'indicazione dell'art. 98 della Costituzione, per cui «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione».
I Padri Costituenti, con questa indicazione programmatica intendevano chiaramente riferirsi alla impermeabilità delle decisioni assunte – e comunque delle funzioni esercitate – dai pubblici agenti nell'alveo degli organi che compongono la macchina-Stato: in tutti i gangli della pubblica amministrazione, fino ad arrivare, sensibilmente, agli organi giurisdizionali – che sono caratterizzati da autonomia e indipendenza – e necessariamente all'organo collegiale che attende al buon funzionamento di questa imprescindibile funzione statuale e che, tra l'altro, giudica sul piano disciplinare gli stessi magistrati: il Consiglio Superiore della Magistratura. Anch'esso è, o dovrebbe essere, autonomo e indipendente nelle proprie deliberazioni.
Impermeabilità che si esplica rispetto alle pressioni esterne, d'ogni genere esse siano, a tutela della fiducia che i cittadini devono riporre in coloro che assicurano il buon andamento della giustizia ordinaria nel Paese: perché questa è la più autentica garanzia di genuinità delle decisioni che direttamente influiscono sulla vita delle persone.
Per meglio descrivere il processo osmotico magistratura/governo autonomo della magistratura, cui si è fatto riferimento nel corso dell'indagine, può, anche in questo caso, soccorrere l'autorevole sintesi del Capo dello Stato: «il CSM è chiamato all’impegno di contribuire ad assicurare la massima credibilità alla magistratura, con decisioni sempre assunte con senso delle istituzioni»[25].
Il magistrato agisce «con senso delle istituzioni» quando applica la legge e obbedisce soltanto alla legge, come afferma la Costituzione; questo vuol dire che il magistrato deve saper "disobbedire" ad altri poteri e ad altri comandi che non siano quelli del legislatore. Il Costituente, per altro verso, non ha espressamente sottoposto "soltanto" alla legge anche l'attività del Consiglio Superiore e dei suoi componenti: è nella sua essenza un'attività di alta amministrazione, che beninteso risponde al principio di legalità come – e più di – qualsiasi altra azione amministrativa.
Ma va da sé che l'organo che governa la magistratura non può a sua volta consentire permeabilità e contaminazione dall'esterno, nelle funzioni consiliari e, tra queste in particolar modo, nella funzione para-giudiziaria di giudice disciplinare, ove i doveri assumono una intensità ancora maggiore.
In definitiva, anche le decisioni del Consiglio Superiore, nel suo complesso, devono essere «sempre assunte con senso delle istituzioni».
In caso contrario, ad essere compromesso è il prestigio e l'autorevolezza dell'organo, cui guardano gli istituti della sospensione e della decadenza, sommariamente disciplinati dall'art. 37; e che per tale sommaria disciplina, come si è illustrato nell'indagine svolta, trascinano con sé molteplici problemi applicativi; di cui, in via interpretativa, si è tentato di fornire possibili soluzioni.
Per questo, anche considerando lo scenario in cui già da alcuni anni ci si muove, si potrebbe immaginare di mettere mano ai due istituti elaborati dal legislatore del 1958: che mai, questi scenari, avrebbe potuto immaginare.
[1] Un precedente consiliare – anche piuttosto noto – di votazione di una delibera di sospensione facoltativa ex art. 37 risale al 3 febbraio 1983: sei componenti del Consiglio avevano comunicato di essere indagati dalla Procura di Roma per opinioni espresse nell'ambito di un dibattito consiliare relativo ad una procedura di nomina, a seguito della denuncia del magistrato interessato. In quell'occasione il plenum deliberava all'unanimità, senza la partecipazione al voto degli interessati, la non sospensione, in quanto si era di fronte a fatti relativi a comportamenti espressione del libero convincimento personale formato in ampia e articolata discussione nel plenum. La vicenda è ben illustrata da E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell'Italia repubblicana, Roma-Bari, 2019, p. 137 ss.
[2] Corte Cost., 3 giugno 1983, n. 148.
[3] F. Bonifacio, G. Giacobbe, La Magistratura. Tomo II - Art. 104-107, in AA.VV., Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1986, p. 118.
[4] G. Volpe, Ordinamento giudiziario (voce), in Enc. dir., XXX, 1980, p. 851.
[5] Così recita l'art. 10 della legge n. 195/1958: «Può fare proposte al Ministro per la grazia e giustizia sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Dà pareri al Ministro, sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie».
[6] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della cerimonia di commiato dei componenti il CSM uscenti, Palazzo del Quirinale, 24 gennaio 2023, in quirinale.it.
[7] Art. 18 del r.d.lp. 31 maggio 1946, n. 511.
[8] Art. 2, co. 2, del r.d.lp. 31 maggio 1946, n. 511.
[9] Va specificato che il Regolamento interno del CSM, che prevede tale disposizione, è stato approvato il 26 settembre 2016. Nel precedente del 1982 richiamato, la non sospensione dei consiglieri indagati è avvenuta, alla presenza del Presidente, mediante l'approvazione all’unanimità un "documento" con il quale, preso atto che «il procedimento attiene a comportamenti che sono comunque espressione di convincimento liberamente formatosi all' interno del Consiglio in ampio ed articolato dibattito sui necessari elementi di giudizio», il CSM delibera di non sospendere i sei consiglieri (cfr. verbale della seduta del 3 febbraio 1983 del Consiglio Superiore della Magistratura, rinvenibile in csm.it).
[10] È tuttavia ben legittima la facoltà di contraddittorio, nello stesso plenum chiamato a deliberare la sospensione, da parte del consigliere coinvolto. Sul punto, ancora in chiave storica, appaiono illuminanti le parole pronunciate nella già percorsa seduta del plenum del 3 febbraio 1983 di Salvatore Senese, membro togato indagato e potenzialmente soggetto alla sospensione facoltativa: «Non troverei nulla di men che legittimo nel fatto che, in vista di una delibera che può incidere sullo status dei consiglieri, questi esponga previamente il proprio punto di vista, la propria "verità", direi. Il contraddittorio – è noto – costituisce regola elementare di ogni procedimento che può incidere su situazioni soggettive tutelate dalla legge, pubbliche o private che siano tali situazioni. Nella ipotesi, poi, d'imputazione elevata nei confronti di un membro di quest'assemblea un doveroso riguardo verso i colleghi ed il consiglio tutto suggerirebbe, in astratto, che l'interessato dia delle spiegazioni ai suoi colleghi, a coloro che lo hanno eletto, al Paese»(cfr., ancora, verbale della seduta del 3 febbraio 1983 del Consiglio Superiore della Magistratura, rinvenibile in csm.it).
[11] A. De Marsico, Lezioni di diritto processuale penale, Napoli, 1938, p. 74.
[12] In questi termini si esprime la relazione n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione sulla "Riforma Cartabia", rinvenibile in sistemapenale.it, 10 gennaio 2023, p. 66.
[13] È ancora la relazione n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, cit., p. 60.
[14] Va ricordato che ai componenti del CSM spetta un assegno mensile ai sensi dell’art. 40 della legge del 1958. Si tratta di un assegno legato alla carica, e non invece all’esercizio concreto della funzione, a cui invece sono legate le indennità, quali le indennità di seduta, quelle di missione ecc., almeno in parte disciplinate sempre all’art. 40. Ed è bene precisare che il consigliere, pur a seguito di sospensione, rimane in carica: ciò significa che costui continua ad essere componente del Consiglio Superiore, con relativa facoltà di accesso alla sede e ai propri uffici; quanto invece alla facoltà di disporre della propria segreteria e dei propri collaboratori, è verosimile ipotizzare un "congelamento" di tutte le collaborazioni esterne al Consiglio e una diversa destinazione delle risorse interne al Consiglio originariamente assegnate al consigliere, poi sospeso: sarebbe infatti una inutile spesa (che potrebbe anche avere riflessi contabili) quella relativa all'infruttuoso mantenimento di un apparato di segreteria, che è per sua natura volto a supportare il concreto esercizio della funzione consiliare. Difatti, è precluso, in concreto, l'esercizio delle funzioni consiliari, non potendo per l’effetto il consigliere partecipare alle sedute delle commissioni e del plenum. Se così, l’assegno mensile – legato alla carica – dovrebbe essere comunque dovuto, e nella sua interezza: in particolare laddove il consigliere non abbia un proprio trattamento stipendiale “trascinato” nel quadro del trattamento economico predisposto dal Consiglio Superiore (se, ad es., provenga dalla professione forense, necessariamente interrotta in ragione del mandato consiliare).
[15] Relazione illustrativa aggiornata al testo definitivo del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 pubblicata in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale n. 245 del 19 ottobre 2022 - Suppl. Straordinario n. 5), in sistemapenale.it, 20 ottobre 2022, p. 130.
[16] «La condanna per i reati di cui agli articoli 314, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter(1), 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis importa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici(2) e l'incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. Nondimeno, se viene inflitta la reclusione per un tempo non superiore a due anni o se ricorre la circostanza attenuante prevista dall'articolo 323 bis, primo comma, la condanna importa l'interdizione e il divieto temporanei, per una durata non inferiore a cinque anni né superiore a sette anni».
[17] L'art. 444, co. 1-bis afferma infatti che «L’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis»; disposizione, questa, che prevede: «Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis del codice penale, la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'articolo 317 bis del codice penale ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. In questi casi il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l'estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta».
[18] Così ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 6 aprile 2012 n. 5574.
[19] Cfr. Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sentenza del 13 novembre 2020 n. 11814.
[20] A seguito della riforma l'art. 1 della legge del 1958 contempla il principio per cui «I magistrati eletti si distinguono tra loro solo per categoria di appartenenza».
[21] Si veda sul punto l'interessante ricostruzione di F. Biondi, Il C.S.M.: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione, in giustiziainsieme.it, 17 luglio 2021.
[22] Va per altro verso segnalato che un vasto dibattito si accese sull'opportunità stessa di inserire gli avvocati nel Consiglio Superiore. Veniva sollevato il problema dell'indipendenza, onde «evitare il rischio che la semplice cancellazione dall'albo per la durata della carica di componente del Consiglio Superiore non sia garanzia sufficiente, quale abbiamo diritto di stabilire e di attendere, di indipendenza dei componenti del Consiglio che provengono dall'avvocatura»: e a segnalarlo era proprio un avvocato, Giuseppe Perrone Capano, nella seduta dell'Assemblea del 25 novembre 1947; nella stessa seduta il professore universitario Orazio Condorelli aggiungeva: «Non penso soltanto alla possibilità che gli avvocati continuino ad esercitare la professione, pur non essendo cancellati dall'albo, attraverso sostituti od amici, ma penso anche alla categoria di persone che potrebbero trovarsi nella situazione di eleggibili».
[23] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di intitolazione del Palazzo sede del C.S.M. alla memoria di Vittorio Bachelet, Roma, 16 aprile 2024, in quirinale.it.
[24] Si fa riferimento all'art. 10 del Regolamento interno del CSM. «I componenti partecipano ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio e delle Commissioni in condizioni di parità».
[25] È ancora richiamato l'intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di intitolazione del Palazzo sede del C.S.M. alla memoria di Vittorio Bachelet, cit.
Contributo sottoposto a referaggio anonimo.
L'impugnazione del pignoramento davanti al giudice tributario: molti problemi e poche soluzioni
di Graziella Glendi
Sommario[1]: 1. Come si è passati dall’ “allargamento” della giurisdizione tributaria a un suo vero e proprio “allagamento” - 2. L’atto di pignoramento tra “opposizione” davanti al giudice dell’esecuzione e “impugnazione” davanti al giudice tributario - 3. Le problematiche del giudice tributario sull’impugnazione del pignoramento - 4. Ulteriori profili problematici sul riparto di giurisdizione - 5. Le incerte prospettive di una razionalizzazione.
1. Come si è passati dall’ “allargamento” della giurisdizione tributaria a un suo vero e proprio “allagamento”
L’evoluzione della giurisdizione tributaria, si sa, è avanzata negli anni per vie strette e tortuose, all’origine essendo, invero, assai dubbio che di “giurisdizione” si trattasse, ma, una volta ottenuto tale riconoscimento, è proseguita in crescente espansione, fino ad arrivare all’intervento normativo del 2001, completato nel 2005, dell’estensione al giudice tributario di «tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati», come ancora oggi recita l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992.
Allargate le porte della giurisdizione tributaria, con restringimento di quelle del giudice civile ordinario di cognizione e del giudice amministrativo, l’art. 2, comma 1, nel secondo periodo tutt’ora soggiunge, quanto alle porte del giudice ordinario dell’esecuzione, che «restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’art. 50 del decreto del Presidente delle Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica». Tra esse, l’art. 57 che non ammette, né le opposizioni all’esecuzione regolate dall’art. 615 c.p.c., fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni, almeno fino all’intervento della sentenza della Corte costituzionale 31 maggio 2018, n. 114, né le opposizioni regolate dell’art. 617 c.p.c. relative alla regolarità formale e alla notifica del titolo esecutivo. Tale disposizione è stata, da ultimo, fatta oggetto di direttiva dall’art. 19, comma 1, lett. c), della legge delega per la riforma fiscale 9 agosto 2023, n. 111, sulla cui portata sembra utile qualche riflessione, nonostante il legislatore delegato l’abbia completamente ignorata nel d.lgs. n. 110/2024 in «materia di riordino del sistema nazionale della riscossione», pubblicato in G.U. il 7 agosto 2024.
Se, dunque, gli interventi legislativi del 2001 e 2005 avevano portato a sperare nel finalmente raggiunto assetto di un sistema compiuto della speciale giurisdizione tributaria modellato, a livello processuale, dalle regole dettate dal d.lgs. n. 546/1992, il configurato “allargamento” di cui all’art. 2, è stato, invece, inteso dalla Suprema Corte quale elemento di “rottura” del sistema stesso, ravvisandone uno stretto collegamento con l’individuazione degli atti impugnabili di cui all’art. 19[2], in una sorta di preminenza del “criterio della materia” (i tributi), idoneo a travolgere i confini degli atti impugnabili predeterminati dal legislatore. Consentendosi ai giudici (e non al legislatore) di ritenere impugnabile un atto, se ravvisano l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (e non se rientra nella categoria predeterminata, anche in forza della residuale disposizione di cui all’art. 19, comma 1, lett. i).
Così è stata creata la categoria degli atti “facoltativamente” impugnabili[3], così si è ammessa l’impugnazione di uno degli atti tipici di cui all’art. 19, comma 1, d.lgs. n. 546/1992, non ritualmente notificato, di cui il contribuente abbia avuto conoscenza aliunde[4], così si è ritenuto impugnabile davanti al giudice tributario il pignoramento (primo atto dell’espropriazione forzata ex art. 491 c.p.c.) per il caso di omessa notifica dell’atto tributario esecutivo o dell’avviso di cui all’art. 50, comma 2, d.p.r. n. 602/1973[5].
Il giudice tributario, dunque, si è ritrovato inondato dall’impugnazione di una cascata di atti, in via facoltativa, non notificati, tipicamente propri della fase esecutiva.
A tale “allagamento” è stato necessario porre rimedio.
Per gli atti facoltativamente impugnabili ci ha pensato la stessa Suprema Corte, avvertendo che l’ammessa facoltà di impugnare l’atto anticipatore della pretesa non esclude però l’onere di impugnare l’atto tipico in cui quella pretesa era destinata a formalizzarsi, con sostanziale superfluità, dunque, della riconosciuta facoltà, perché, «se l’atto tipico viene impugnato, l’unico giudizio che rileva è quello avverso quest’atto, mentre, se non viene impugnato, il ricorso antecedentemente proposto avverso l’atto facoltativamente impugnabile si rivela inutile, stante l’avvenuto consolidamento degli effetti proprio dell’atto tipico»[6].
Per gli atti tipici non notificati ci ha pensato il legislatore, almeno con riguardo all’omessa notifica della cartella di pagamento, che evidentemente costituiva il vulnus più rilevante, introducendo, con il d.l. n. 146/2021, nell’art. 12 del d.p.r. n. 602/1973, il comma 4-bis, con limitazione della possibilità di far valere direttamente l’omessa notifica della cartella in sole tre circoscritte ipotesi. Con immediato sostegno della giurisprudenza di vertice che, in verticale cambio di rotta, ha optato per l’applicazione della disposizione ai giudizi pendenti[7]. Da ultimo, a seguito di uno degli ormai frequenti “moniti” al legislatore, ai quali la Corte costituzionale[8] ci ha abituato, con l’art. 12 d.lgs. n. 110/2004, sono state aggiunte altre tre ipotesi di pregiudizio tutelabile, ma in sostanza l’argine è stato tenuto fermo.
Resta ora da vedere che ne è dell’impugnazione del pignoramento davanti al giudice tributario.
2. L’atto di pignoramento tra “opposizione” davanti al giudice dell’esecuzione e “impugnazione” davanti al giudice tributario
L’attribuzione al giudice tributario dell’impugnazione del pignoramento quando venga dedotta l’omessa notifica dell’atto tributario esecutivo presupposto (cartella di pagamento portante il ruolo, accertamento esecutivo, cosiddetto impoesattivo, ingiunzione fiscale, se ancora ratione temporis utilizzata) o dell’intimazione di cui all’art. 50, comma 2, d.p.r. n. 602/19973, è abbastanza recente.
Dopo un primo contrasto interno nella Corte di cassazione, sviluppato nel 2017[9], sempre in base all’idea del riconoscimento di tutela (che, per gli atti facoltativamente impugnabili, e per gli atti tipici non notificati e conosciuti aliunde, si è, alla fine, come visto, rivelato insidioso e fallace), a volte invocandosi, anche in tal caso, l’art. 100 c.p.c., ha prevalso, e, ormai può dirsi consolidato, l’orientamento per cui, ai fini del riparto di giurisdizione, va valorizzata la natura tributaria dell’atto di cui si deduce l’omessa notifica rispetto alla tipologia di atto impugnato (ovvero il pignoramento).
Non è questa la sede per analizzare le motivazioni, non sempre univoche e coerenti, rese a giustificazione di una tale scelta, né per scendere in qualsivoglia valutazione sulla loro bontà, quello che qui interessa è, piuttosto, vederne gli esiti a livello operativo.
Iniziando subito col dire, come i giudici di merito ben sanno, constatandolo continuamente, che, quando il pignorato reagisce all’esecuzione di atto tributario, sia che lo faccia davanti al giudice ordinario, sia che lo faccia davanti al giudice tributario, deduce tutta una serie di motivi di “opposizione” o di “impugnazione” che vanno ben oltre la sola omessa o viziata notifica dell’atto esecutivo o dell’intimazione di pagamento. Con casistica amplissima, di cui, per la frequenza, si possono ricordare: indeterminatezza nell’individuazione dei crediti azionati; omessa motivazione del calcolo degli interessi indicati nell’atto di pignoramento; insufficiente descrizione dei beni pignorati per i pignoramenti immobiliari; mancanza dell’avvertimento che il debitore può sostituire alle cose pignorate una somma di denaro pari al valore del credito e delle spese; contestazione del pignoramento di giacenze su conto corrente cointestato; contestazione di pignoramento di stipendi, salari o indennità inerenti al rapporto di lavoro o dovute a causa del licenziamento nella misura superiore al limite di legge; contestazione di pignoramento di somme per trattamento pensionistico nella misura superiore al limite di legge; prescrizione maturata prima della notifica dell’atto tributario che si assume omesso, o maturata successivamente ad essa, se, invece, la notifica si era ritualmente perfezionata.
E, subito dopo, aggiungere, come parimenti i giudici di merito ben sanno, che il pignoramento dell’agente della riscossione raramente attiene solo a provvedimenti esecutivi tributari, ma assai spesso riguarda anche atti relativi a crediti di natura previdenziale o sanzioni amministrative per violazioni delle norme del Codice della strada.
Va allora osservato che, mentre non vi è problema di riparto, quand’anche è impugnata davanti al giudice tributario un’intimazione di pagamento che porta pretese di natura diversa e venga sindacata l’omessa notifica dei diversi atti esecutivi, posto che il giudice tributario adito declina la propria giurisdizione in relazione a quelli non tributari in favore del giudice ordinario, sezione lavoro, o del giudice di pace, quando, invece, l’atto impugnato è il pignoramento e l’atto di cui si deduce l’omessa notifica è l’intimazione, sebbene il giudice tributario debba parimenti declinare la sua giurisdizione per la parte non tributaria, alla fine, sia il giudice tributario, sia il giudice dell’esecuzione si troveranno a dover decidere sulla stessa identica questione, ovvero la rituale notifica di quell’unico atto che è l’intimazione.
Sicché può ben verificarsi come, infatti si è verificato, questa volta per il caso di opposizione originariamente proposta davanti al giudice dell’esecuzione ex art. 615 c.p.c., che il giudice, nella fase del merito, dopo aver disatteso vizi contenutistici del pignoramento per la dedotta non corrispondenza dei crediti ivi indicati con quanto riportato nell’intimazione, affrontata l’ulteriore questione della notifica dell’intimazione prodromica exart. 140 c.p.c. a mezzo di corriere privato, abbia deciso per il rigetto dell’opposizione, ma solo per i crediti non tributari, declinando, invece, la propria giurisdizione per quelli tributari[10].
Se poi si assommano i due profili sopra evidenziati (deduzione di vizi ulteriori rispetto all’omessa notifica dell’atto presupposto e atto presupposto che riguarda pretese tributarie e non) può accadere, com’è infatti accaduto, che, adito, nel caso, il giudice tributario, esso abbia declinato la propria giurisdizione per le cartelle non riguardanti tributi, abbia vagliato, per le altre cartelle, la prova della notifica offerta dall’agente della riscossione e, per quelle ritenute non notificate, abbia annullato in parte qua l’atto di pignoramento, mentre, per quelle ritenute ben notificate, abbia, sotto altro profilo, ancora declinato la propria giurisdizione, con riguardo agli ulteriori vizi dedotti, nella specie relativi al calcolo degli interessi e alla eccepita prescrizione maturata successivamente all’avvenuta notifica delle cartelle, rimandando al Tribunale ordinario dell’esecuzione[11].
3. Le problematiche del giudice tributario sull’impugnazione del pignoramento
La tipologia dell’atto impugnato (pignoramento) pone, poi, al giudice tributario tutta una serie di problemi che non è abituato a trattare.
Un primo profilo su cui occorre ragionare attiene al fatto che, secondo l’orientamento consolidato della Suprema Corte[12], quando si tratta di pignoramento presso terzi, il terzo pignorato, non è soggetto “indifferente” all’opposizione proposta, in ragione degli obblighi ex lege imposti (art. 545 e 546 c.p.c.), per cui è litisconsorte necessario nel giudizio di opposizione, con l’effetto, in mancanza di sua partecipazione, di rinvio dai gradi superiori al primo.
Secondo la Suprema Corte[13], il litis consortio con il terzo sussiste anche quando si tratta di opposizione al pignoramento ex art. 72-bis d.p.r. n. 602/1973, con ordine diretto di pagamento al terzo. Mezzo prescelto dall’agente della riscossione per la sua rapidità e snellezza, in cui spicca la piena autonomia dell’agire dell’esecuzione tributaria, ancor più delle altre tipologie di pignoramento, per le quali, pur nella speciale disciplina del d.p.r. n. 602/1973, a un certo punto è previsto l’intervento giurisdizionale. Tanto è vero che parte della dottrina ha dubitato che si tratti di un vero e proprio pignoramento[14], mentre la Suprema Corte, opportunamente, lo considera «un'autentica espropriazione presso terzi»[15].
Orbene, se, dunque, invece che di “opposizione” davanti al giudice dell’esecuzione, si tratta di “impugnazione” davanti al giudice tributario, non è peregrino domandarsi se il giudice adito debba dare effetto a tale consolidato principio, curando che sia rispettato il litis consortio con il terzo pignorato, posto che l’eventuale suo provvedimento di sospensione riguarderà anche il terzo, così come la decisione sulla legittimità o meno dell’ordine di pagamento dell’agente della riscossione, con ogni conseguenza che ne deriva.
Tuttavia, salvo i casi in cui il difensore dell’impugnante si premuri di notificare il ricorso anche al terzo pignorato, ad oggi non pare che i giudici tributari, salvo qualche rara eccezione[16], si siano mostrati sensibili al fatto di dover ordinare l’integrazione del contraddittorio. Sarebbe, invece, buona cosa se lo facessero, per evitare il rischio che, stante la nullità della pronuncia resa, rilevabile anche d’ufficio, ne consegua, nei seguenti gradi, un rinvio al primo.
Ulteriore profilo problematico, che del pari coinvolge il terzo, sta nel fatto che l’ordine di pagamento di cui all’art. 72-bis d.p.r. n. 602/1973 ha una durata di sessanta giorni, peraltro corrispondenti al termine per impugnare davanti al giudice tributario (mentre, se si azionasse l’opposizione ex art. 617 c.p.c., il termine per la sua proposizione è di venti giorni).
Termine assai contenuto, sicché può capitare che, pur proposto sollecitamente ricorso, con richiesta di sospensione, fin anche inaudita altera parte o nelle forme ordinarie ex art. 47 d.lgs. n. 546/1992, il terzo, nelle more, abbia già pagato.
Pare, dunque, altrettanto non peregrino domandarsi cosa il giudice tributario debba fare.
Se decidesse in favore del contribuente, con accoglimento del ricorso per il dedotto vizio di omessa notifica dell’atto tributario presupposto, ad esempio, dovrebbe pronunciare, come fa il giudice ordinario, condanna di restituzione di quanto indebitamente versato dal terzo all’agente della riscossione.
Ipotizzando, invece, che il giudice tributario ritenga ritualmente perfezionata la notifica dell’atto tributario presupposto e, quindi, infondato il motivo di impugnazione del pignoramento, ci si domanda se debba anche preoccuparsi di valutare se il pagamento è avvenuto, o meno, alla scadenza dei sessanta giorni dall’ordine.
Più precisamente, nel caso in cui il terzo abbia pagato, ci si chiede se il giudice tributario, oltre al rigetto del ricorso, debba anche pronunciare la liberazione del terzo dal vincolo, cosa non di poco conto per il classico caso di pignoramento delle giacenze sul conto corrente.
Qualora, invece, il terzo non abbia pagato, ci si chiede se il giudice tributario, invece che pronunciare il rigetto del ricorso, debba comportarsi come quello ordinario e dichiarare cessata la materia del contendere, come è stato deciso da attento giudice dell’esecuzione[17], sull’assunto che la scelta dell’Agenzia delle entrate-Riscossione di avvalersi dello strumento esecutivo previsto dall’art. 72-bis d.p.r. n. 602/1973 è una decisione presa dall’ente in via alternativa a quella prevista dall’art. 543 c.p.c. e non può ipotizzarsi alcuna prosecuzione processuale dello strumento utilizzato, nell’ipotesi di mancato adempimento del terzo. Tanto è vero che, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 72-bis, che richiama il comma 4 dell’art. 72, l’agente della riscossione non soddisfatto è tenuto a procedere secondo le modalità ordinarie del pignoramento presso terzi ex art. 543 e ss. c.p.c. ed è tenuto a farlo ex novo[18].
Con riguardo agli assai concreti profili esaminati, dunque, visto che per il pignoramento diretto di cui trattasi non vi è mai un intervento del giudice dell’esecuzione, sostituendosi l’ordine di pagamento del riscossore all’assegnazione del giudice, e il giudice subentra solamente in occasione dell’opposizione/impugnazione, parrebbe, invero, opportuno, quando si tratta del giudice tributario, che tale giudice possa, nel contraddittorio con il terzo debitor debitoris, esaurire ogni questione, in modo da evitare passaggi ad altra giurisdizione solamente per la pronuncia delle disposizioni inerenti all’avvenuto pignoramento consequenziali alla decisione resa sull’omessa notifica o meno dell’atto tributario.
4. Ulteriori profili problematici sul riparto di giurisdizione
Tornando, più in dettaglio, ai frequenti casi in cui i motivi di impugnazione davanti al giudice tributario, siano molteplici e tali da lambire sfere di spettanza del giudice dell’esecuzione, e sempre nella prospettiva delineata dalla Suprema Corte che l’atto impugnabile davanti al giudice tributario sia il pignoramento, occorre, in qualche modo, chiarire cosa spetti alla decisione dell’uno o dell’altro giudice, fermi i limiti di cui all’attuale dettato dell’art. 57 d.p.r. n. 602/1973, per quanto non toccato dalla pronuncia della Consulta 31 maggio 2018, n. 114.
Con riguardo ai più ricorrenti motivi di sindacato, di cui sopra si è fatto cenno, sembra che, ai sensi dell’art. 57, comma 1, d.p.r. n. 602/1973, resti comunque riservato al giudice ordinario discettare sulla pignorabilità dei beni.
Altri motivi, a titolo di esempio, del tipo contestazioni di un pignoramento relativo a stipendi, salari o indennità inerenti al rapporto di lavoro o dovute a causa del licenziamento nella misura superiore al quinto, oppure contestazione di pignoramento relativo a conto corrente in cui siano versati unicamente tali emolumenti, effettuati nella misura superiore ai limiti di legge, con i complessi calcoli ai quali è abituato il giudice dell’esecuzione, paiono anch’essi esulare dalla giurisdizione del giudice tributario, che, una volta verificata la ritualità della notifica dell’atto tributario di cui trattasi, su questi punti dovrà declinare la propria giurisdizione e rimandare al giudice dell’esecuzione.
Per fare altro esempio ancora, non è, invece, chiaro, neppure in seno alla Suprema Corte, se il giudice tributario debba occuparsi dell’eccepita prescrizione maturata dopo la verificata rituale notifica dell’atto tributario, o declinare la propria giurisdizione.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 114/2018, e le Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 7822/2020, avevano deciso in favore del giudice ordinario, per il quale, invero, non è così difficile calcolare se, dall’avvenuta notifica dell’atto tributario alla notifica del pignoramento, siano passati dieci anni per i tributi erariali, cinque anni per sanzioni e interessi, cinque anni per i tributi locali e tre per le tasse automobilistiche. Il tutto senza andare a cercare petizioni di principio sull’idea civilistica dell’“estinzione del credito” (e conseguente problematica a chi spetti pronunciarla), totalmente estranea, non solo a parere di chi scrive, ma anche a parere della Suprema Corte in ambito concorsuale[19], alla questione del confine della giurisdizione delineato dall’art. 2, d.lgs. n. 546/1992.
Certo è, dagli esempi fatti, che in sede di impugnazione del pignoramento, al giudice tributario, secondo l’orientamento della Suprema Corte, spetta solo uno spicchio, più o meno ampio, di cognizione e, per il resto, deve declinare la propria giurisdizione. Sicché ne discende un frazionamento del giudizio sull’atto di pignoramento che non pare semplificare il contenzioso.
Al riguardo, per la dinamica che ne deriva, si segnala, ancora, quanto segue.
Volendo considerare la deduzione da parte del pignorato davanti al giudice tributario di due vizi nettamente appartenenti alle due giurisdizioni, su cui il giudice, per la sua parte ha deciso, e per l’altra parte, di non di spettanza, ha declinato la propria giurisdizione, è noto che la riassunzione davanti al giudice munito di giurisdizione sull’altro motivo di contestazione va incardinata nel termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della decisione ex art. 59 della legge n. 69/2009.
È, tuttavia, possibile che la sentenza del giudice tributario venga impugnata anche in punto giurisdizione e, quindi, non si possa procedere alla riassunzione davanti al giudice dell’esecuzione. In tal caso, poiché gli effetti della sospensione eventualmente disposta ex art. 47 d.lgs. n. 546/1992 cessano alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado, per quanto del pignoramento non è stato annullato in sentenza dal giudice tributario, l’esecuzione andrà avanti, senza potersi incardinare l’opposizione sull’altro motivo.
È, poi, possibile che la sentenza venga impugnata, ma non in punto giurisdizione, allora l’interessato dovrà provvedere, non appena si è formato il giudicato interno, alla riassunzione davanti al giudice dell’esecuzione, ovviamente a mezzo di avvocato. In tale sede dovrà, innanzi tutto, valutarsi se, in ipotesi trattandosi di opposizione, non all’esecuzione, ma agli atti esecutivi, sia stato rispettato fin dal ricorso iniziale davanti al giudice tributario il termine dei venti giorni dalla notifica del pignoramento di cui all’art. 617 c.p.c.
Può, altresì, capitare che la sentenza del giudice tributario venga ribaltata negli ulteriori gradi. Sicché, se in origine l’esecutato aveva vinto, ottenendo l’annullamento del pignoramento per omessa notifica dell’atto tributario, ma non ha coltivato l’altro motivo appartenente alla giurisdizione del giudice ordinario dell’esecuzione, si ritrova irrimediabilmente pregiudicato. Mentre, se l’ha coltivato, si ha un parallelo procedere dei due giudizi, magari relativi alla stessa notifica dell’atto presupposto (quando si tratta della medesima intimazione di pagamento relativa a titoli esecutivi di diversa natura) con esiti che viaggiano autonomamente tra loro.
Non pare, insomma, che un tale sistema di passaggio dall’un giudice all’altro renda snella e agevole la tutela, né giovi all’andamento dell’amministrazione preposta al recupero.
D’altro canto, neppure è ragionevole ipotizzare che sullo stesso atto di pignoramento vengano proposte contemporaneamente due azioni. L’una, di impugnazione davanti al giudice tributario per far valere l’omessa notifica dell’atto tributario presupposto, e l’altra, davanti al giudice ordinario per far valere lo stesso vizio per la parte in cui l’atto presupposto riguarda anche pretese di natura non tributaria e per tutti gli altri motivi di cui si è detto, dato che potrebbero esserci sullo stesso atto esiti diversi e contrastanti. Sebbene, come, sopra visto, un siffatto evento possa realizzarsi quand’anche il pignoramento sia stato originariamente opposto/impugnato davanti ad uno solo dei due giudici.
5. Le incerte prospettive di una razionalizzazione
Come accennato all’inizio, la legge delega, con l’art. 19, comma 1, lett. c), ha incaricato il Governo di modificare l’art. 57, d.p.r. n. 602/1973 « prevedendo che le opposizioni regolate dagli articoli 615, secondo comma, e 617 del codice di procedura civile siano proponibili dinanzi al giudice tributario, con le modalità e le forme previste dal citato decreto legislativo n. 546 del 1992, se il ricorrente assume la mancata o invalida notificazione della cartella di pagamento ovvero dell'intimazione di pagamento di cui all'articolo 50, comma 2, del medesimo decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973».
A parte la dimenticanza, non da poco, quale atto presupposto, dell’accertamento impoesattivo, e nonostante una vaga assonanza nella formulazione con quanto stabilito al comma 4-bis dell’art. 12, d.p.r. n. 602/1973, di cui sopra si è detto, pare che il testo della norma di delega apra le porte a una prospettiva del tutto “nuova”.
Infatti, questa volta, il legislatore ha sottratto tout court (almeno così sembra) dalla giurisdizione del giudice ordinario le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi di cui agli artt. 615, comma 2, e 617 c.p.c., ad esse sostituendo la giurisdizione, modellata sulle regole del d.lgs. n. 546/1992, del giudice tributario, quale “giudice dell’opposizione”, sia per la fase cautelare (che sarebbe di spettanza del giudice dell’esecuzione), sia per il merito dell’opposizione (che sarebbe di spettanza del giudice ordinario del merito dell’opposizione), questa volta non più eventuale (come per il giudizio di opposizione ordinario) ma usuale.
Resta, peraltro, assai discutibile, ai fini di una chiara delimitazione dei confini del riparto, in ragione di tutti i rilievi già sopra svolti, il fatto che il discrimen tra giurisdizioni sia segnato dall’avvenuta deduzione, o meno, a scelta del contribuente, di un vizio di omessa notifica degli atti menzionati (gli stessi di cui all’art. 2, d.lgs. n. 546), che, se dedotto, trascinerebbe con sé l’intera opposizione degli artt. 615, comma 2, e 617 c.p.c. davanti al giudice tributario.
Sta di fatto, come si è, altresì, accennato, che il legislatore delegato ha completamente ignorato tale direttiva.
Tuttavia, se si considera che, nell’espropriazione tributaria, il giudice dell’esecuzione, qualora non vi sia opposizione, interviene (salvo alcuni casi particolari per l’espropriazione immobiliare) solamente quando si tratta di assegnare le somme ricavate all’ente procedente, oppure distribuirle ex art. 84, d.p.r. n. 602/1973, o per eventuale sub procedimento di conversione del pignoramento, potrebbe non essere così destabilizzante che dell’ “opposizione” delineata dalla legge delega (escluse infatti le opposizioni di terzi) se ne occupi tout court il giudice tributario, piuttosto che il giudice dell’esecuzione, quando, per di più, nel processo esecutivo ordinario, la trattazione di quell’“opposizione” spetta al giudice del merito, limitandosi il giudice dell’esecuzione alla fase sommaria e alla sospensiva.
Questo porterebbe il giudice tributario a decidere su tutte le contestazioni sollevate avverso il pignoramento relativo a tributi, che, peraltro, in ragione della speciale configurazione di quell’esecuzione, è atto proprio del solo agente della riscossione, al pari di tutti gli altri suoi atti già appartenenti alla giurisdizione tributaria.
Al momento, però, in attesa di una rimeditazione del legislatore, auspicabilmente con l’apporto della dottrina, e, perché no, con il contributo della voce dei giudici tributari e ordinari dell’esecuzione, impegnati nel reciproco “palleggio” di cui si è detto, altro non resta che vederne l’assai poco entusiasmante prosecuzione.
[1]Il contributo è tratto, in forma sintetica e rielaborata, dalla relazione Spigolature di "opposizioni" e di "impugnazioni" davanti al giudice tributario nell'esecuzione forzata, tenuta al Convegno L'esecuzione forzata tributaria, presso il Dipartimento di giurisprudenza dell'Università di Catania del 24-25 novembre 2023, i cui atti sono in corso di pubblicazione nel volume L'esecuzione forzata tributaria, Wolters Kluwer-Cedam.
[2] A partire da Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, con la puntuale critica a tale ravvisato collegamento di L. Ferlazzo Natoli, Considerazioni critiche sulla impugnazione facoltativa, Postilla allo scritto di G. Ingrao, in Riv. dir. trib., 2007, I, p. 1114, trattandosi «di due piani diversi e di due interessi che meritano autonoma protezione da parte del legislatore: quello di rendere unitaria la giurisdizione tributaria evitando interferenze con essa di quella amministrativa e ordinaria, e quello della certezza degli atti avverso i quali, e nei termini previsti dall’art. 19, è consentito ricorrere al giudice tributario».
[3] Inventata da Cass., sez. trib., n. 21045/2007, proprio per ovviare alle distorsioni e agli allarmi che l’aver attribuito al giudice l’individuazione degli atti impugnabili (a pena di decadenza) aveva ingenerato.
[4] Cass., sez. un., n. 19704/2015.
[5] Cass., sez. un., n. 13913/2017; Id. n. 13916/2017; Id. n. 24965/2017; Id., n. 7822/2020.
[6]Cass., sez. trib., n. 30736/2021, in Dir. prat. trib., 2022, 986, con nota di G. Glendi, La Suprema Corte finalmente chiarisce, e segna, i confini tra l’impugnazione anticipata e l’impugnazione nel termine decadenziale a pena di consolidamento dell’atto. Con giurisprudenza ormai consolidata, v., Cass., sez. trib., n. 11481/2022; Id., n. 1213/2023; Id., n. 16122/2023; Id. n. 14771/2024; Id. n. 22416/2024.
[7] Cass., sez. un., n. 26283/2022.
[8] Corte cost., n. 190/2023.
[9] Le pronunce a favore dell’impugnazione davanti al giudice tributario sono citate a nt. 4. In favore dell’opposizione davanti al giudice dell’esecuzione si era invece espressa Cass., sez. VI-3, n. 20928/2017.
[10] Trib. Palermo, 11 agosto 2023, n. 3840.
[11] CGT I gr. Vicenza, 14 settembre 2023, n. 273.
[12] Cass., sez. III, n. 13533/2021; Id., n. 9000/2022; Id., n., 3520/2023; Id., n. 5476/2023; Id., n. 10034/2023; Id., n. 16004/2024.
[13] Cass., sez. III, n. 16236/2022; Id., n. 36568/2023; Id., n. 9155/2024.
[14] C. Glendi, Quale termine di efficacia del pignoramento per l’esecuzione esattoriale, in GT- Riv. giur. trib., 2020, 746, ma già E. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 562, trattandosi di qualcosa di più di un pignoramento, una vera e propria auto assegnazione del credito.
[15] Cass., sez. III, n. 20294/2011; Cass., sez. VI-3, n. 24541/2014; Cass., sez. III, n. 21258/2016; Id., n. 16236/2022.
[16] CGT I gr. Prato, 16 agosto 2023, n. 71.
[17] Ord. Trib. Lecce, 22 maggio 2019, citata da C. Spalluto e S. Carluccio in ProntoProfessionista.it del 22 luglio 2020.
[18] in tal senso M. R. Giugliano, L’ordine di pagamento diretto ex art. 72-bis d.p.r. n. 602/73: dall’interpretazione evolutiva della giurisprudenza di legittimità alla recente legislazione di urgenza, in inexecutivis.it, 25 luglio 2022, in specie § 7.
[19] Cass., sez. un., n. 34447/2019.
La Strage di Marzabotto 80 anni dopo
Il 29 settembre 1944 alle prime luci dell’alba aveva inizio la più grande strage di civili compiuta dai nazisti in Europa occidentale. Si trattava di un'operazione militare per l'annientamento dei gruppi partigiani e il rastrellamento del territorio nemico. L’eccidio di Montesole non si configura come una rappresaglia bensì come un rastrellamento finalizzato al massacro, parte di una strategia più ampia applicata nel 1944 e nel 1945 dalle truppe tedesche in Italia. L’obiettivo era terrorizzare la popolazione civile al fine di evitare la formazione di qualsiasi forma di resistenza o disperdere gruppi di resistenza già formati.
Sotto il comando del maggiore Walter Reder, più di mille soldati nazisti con elementi italiani appartenenti alla Guardia nazionale repubblicana circondarono una vasta area intorno al Montesole, nei comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Vado in provincia di Bologna, procedendo poi sistematicamente, casa per casa, a rastrellare tutta la popolazione civile con una violenza atroce e inaudita perpetrata anche contro bambini molto piccoli e persone anziane. Incendiarono case e intere borgate, ammazzando anche gli animali.
L'eccidio venne compiuto in 115 luoghi diversi tra paesini, case sparse, chiese, cimiteri.
Tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 i militari della 16a Divisione corazzata granatieri delle SS, con la complicità e il supporto di fascisti italiani, assassinarono circa 800 persone, tra cui 221 bambini di età compresa fra i 14 giorni di vita e i 13 anni. Ai pochi sopravvissuti fu impedito per giorni di seppellire i cadaveri, e molti corpi furono rinvenuti mesi dopo. Le mine disseminate dai tedeschi in ritirata continueranno a uccidere, fino al 1966, altre 55 persone. Nel 1951 il paese di Caprara sopra Panico, già sede comunale, sarà dichiarato "nucleo abitato scomparso".
Il procedimento penale fu istruito dalla Procura Militare di La Spezia e il processo di primo grado, avanti il Tribunale Militare di La Spezia, iniziato nella primavera del 2005, vedeva imputati 17 ufficiali delle SS.
Il 13 gennaio del 2007, dopo 23 udienze dibattimentali, venivano dichiarati responsabili del massacro 10 dei 17 ufficiali a processo. Il 7 maggio 2008 la Corte Militare d'Appello di Roma confermava gli esiti della sentenza di primo grado.
Il Processo di La Spezia è stato possibile grazie al ritrovamento nel 1994 del cosiddetto “armadio della vergogna” nella cancelleria della Corte militare di Appello presso la Procura Generale Militare, a Palazzo Cesi in Roma. Si trattava di un armadio con le ante rivolte verso il muro, chiuso da una catena, con al suo interno vari fascicoli riguardanti crimini nazifascisti in Italia tra cui l’eccidio di Marzabotto.
Un altro responsabile della strage, il maggiore Walter Reder, fu giudicato responsabile del massacro di Marzabotto dal Tribunale militare di Bologna nel 1951.
La memoria è viva anche grazie ai sopravvissuti, che soprattutto a partire dalle testimonianze rese a La Spezia hanno iniziato a parlare pubblicamente e nelle scuole.
Tutto il territorio colpito dalla strage è oggi compreso nel Parco storico di Montesole, i cui principali obiettivi oltre alla tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale sono conservare il patrimonio storico e mantenere aperta la riflessione su quanto accaduto per contribuire alla costruzione di una cultura di pace rivolta soprattutto alle giovani generazioni.
La distruzione del tessuto sociale e la devastazione prodotta a Montesole nel 1944 è ancora testimoniata dalle rovine presenti sul territorio. Sono pietre e mura che parlano, a chi le sa ascoltare. Marzabotto-Monte Sole è uno spazio di riflessione sul nostro tempo e sul rapporto tra diritto alla verità, la memoria, il pericolo dell’oblio, l’urgenza di una educazione alla legalità che significhi anche educazione alla pace.
Epigrafe di Salvatore Quasimodo
Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di von Kesselring
e dai loro soldati di ventura
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.
I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati ed arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto,
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira,
onore invece di libere armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il Lupo e la sua Brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.
La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini di ogni terra
non dimenticano Marzabotto,
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.
Il Tribunale di Firenze, con l’ordinanza che si annota, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 (pubblicata in GU n.187 del 10 agosto 2024 ed entrata in vigore il 25 agosto 2024), nella parte in cui ha abrogato l’art. 323 c.p., per violazione degli articoli 97, 11 e 117, comma 1 Cost. (in relazione agli obblighi discendenti dagli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione - cd. Convenzione di Merida - adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, oggetto di ratifica ed esecuzione in Italia con l. 3 agosto 2009, n. 116.
Il Tribunale, premessa la rilevanza dell’abrogatio criminis, ha affrontato la delicata questione del sindacato in malam partem, rilevando che la preclusione ex art. 25 Cost. di sentenza costituzionale, con effetti penali in malam partem, è ammessa nel caso di specie per “contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, co. 1 Cost.” (come chiarito dalla stessa sentenza Corte Cost. n. 8/2022 e più diffusamente da Corte Cost., n. 236 del 2018, n. 143/2018 e n. 37/2019).La non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma che ha abrogato il reato di cui all’art. 323 c.p. è correlata all’effetto che si determina sul buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione per il venir meno di un presidio penale contro gli abusi dei pubblici ufficiali.
Richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 8/2022, il Tribunale di Firenze ha dunque ritenuto che l’affermazione per cui in astratto le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni, non vale nel caso di specie in quanto il vuoto di tutela determinato dall’abrogazione tout court dell’art.323 c.p. e dalla sostanziale inapplicabilità del novellato art. 346 bis c.p. si pone in contrasto con l’art. 97 Cost.
Secondo il Tribunale di Firenze è dunque affetta da irragionevolezza la norma abrogativa dell’art. 323 c.p. “atteso che: da un lato, non si è tenuto di conto che le ragioni poste a sostegno della spinta riformatrice (la c.d. “paura della firma” o “burocrazia difensiva”) erano di fatto venute meno (sopravvivendo, forse, solo sul piano, del tutto irrilevante, soggettivo e psicologico di singoli funzionari) in ragione delle recenti riforme e del successivo (ed ormai consolidato) orientamento giurisprudenziale di legittimità e dei principi enunciati dalla Corte costituzionale; dall’altro lato, non appare adeguatamente ponderato (e men che meno contenuto o neutralizzato)l’effetto dirompente che può avere la riforma, per il venir meno dell’effetto general-preventivo spiegato dalla presenza nell’ordinamento di una norma di chiusura che -seppur ormai relegata ad operare in casi eccezionali di particolare ed obiettiva gravità- evitava il dilagare di condotte dolosamente arbitrarie e lasciava ai cittadini uno strumento attraverso cui ricorrere alla magistratura”.
Condizioni e limiti del dissenso nella conferenza di servizi: la corsa alla semplificazione non si può arrestare (nota a Tar Campania, Napoli, Sez. I, 11 aprile 2024, n. 2407)
di Roberto Leonardi
Sommario: 1. Il fatto. – 2. La conferenza di servizi come strumento di coordinamento e di semplificazione. - 3. La conferenza di servizi e la disciplina del silenzio assenso ‘orizzontale’. – 4. La conferenza di servizi e la disciplina del dissenso qualificato. 5. La sentenza del Tar Campania.
1. Il fatto.
Il Comune ricorrente ha impugnato la nota del Commissario straordinario del “Governo della ZES Campania” con la quale è stata rilasciata ad una società, a seguito dell’espletamento della conferenza di servizi decisoria asincrona”, disciplinata dall’art. 14 bis, l. n. 241/1990, l’autorizzazione unica relativa alla realizzazione di un insediamento produttivo destinato alla logistica. Il Comune ha impugnato il provvedimento, ritenendolo illegittimo. Di contro, la società controinteressata ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, perché proposto al di fuori del perimetro legislativo delineato dalla l. n. 241/1990 e che la sentenza in commento, in via preliminare, ricostruisce nei termini che seguono.
2. La conferenza di servizi come strumento di coordinamento e di semplificazione.
La conferenza di servizi[1] è diventata nel tempo il principale strumento di semplificazione e di coordinamento tra pubbliche amministrazioni[2], e non un ufficio speciale della pubblica amministrazione[3], in una visione dinamica del procedimento amministrativo[4], nel tentativo di superare le criticità derivanti dalla frammentazione delle competenze, incentivando, nell’unicità temporale e spaziale, il bilanciamento degli interessi coinvolti per far emergere, nell’ambito della conferenza, l’interesse pubblico meritevole di tutela[5].
Solo in un secondo momento, la conferenza di servizi è diventata uno strumento di decisione semplificata, opacizzando l’obbligatorietà della ponderazione degli interessi, sostituendo il criterio della maggioranza, con il rispetto delle posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni partecipanti (art. 14, c. 7, l. n. 241/1990) a quello dell’unanimità, introducendo meccanismi per superare i dissensi qualificati, per lo più delle amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili[6], considerando assenso l’assenza di un’amministrazione e qualificando in modo sempre più stringente il dissenso espresso in conferenza, soprattutto se espresso da amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili. Tant’è che si è messo in dubbio la configurazione della conferenza di servizi come strumento di semplificazione, di contro avvertita, soprattutto dagli operatori economici, come uno strumento di complessità, sede di veti burocratici e momento di deresponsabilizzazione[7].
Nella prassi, quindi, pur in mancanza di dati ufficiali e con il rischio di non inquadrare i problemi effettivi della conferenza[8], l’istituto non ha favorito la semplificazione[9] e non ha ovviato alla frammentazione delle competenze[10], rappresentandone invece solo lo specchio, sia per il ruolo di mero coordinatore formale spesso svolto dal responsabile del procedimento dell’amministrazione procedente, sia per l’atteggiamento autoreferenziale e chiuso alla mediazione e al confronto in generale assunto dalle amministrazioni partecipanti alla conferenza, atteggiamento che ha la sua plastica espressione nell’invio prima della riunione di determinazioni scritte, ma che normalmente non muta anche nei casi non frequenti di presenza fisica alla stessa[11]. E ancor più critica, si ritiene, è stata la collocazione della conferenza di servizi, dal 1990 in poi, sia per prassi, sia per una continua evoluzione legislativa che ne ha progressivamente mutato la fisionomia, in un difficile equilibrio tra coordinamento e semplificazione, tra autorità e consenso, tra pluralismo e unitarietà, che, come sottolineato in dottrina, dovrebbe poter trasformare la conferenza da strumento di coordinamento in strumento di decisione[12], nel rispetto del principio di leale collaborazione istituzionale[13], espressamente richiamato dall’art. 14 quinquies, c. 4, LPA.
Pertanto, da una parte si è riscontrato che non può esistere un reale coordinamento senza una semplificazione, la cui assenza produce uno stallo nella conclusione della conferenza di servizi. Dall’altra, però, la semplificazione applicata alla conferenza di servizi produce dei rischi[14], in parte simili a quelli prodotti dall’art. 17 bis, LPA[15], e soprattutto nella tutela degli interessi sensibili, perché si ritiene che alla compressione di quanto sia necessario prima (una giustizia procedimentale[16]), corrisponda spesso ‘l’esplosione di un dopo’ (una opposizione o un processo)[17].
Così, la conferenza di servizi, dopo la Riforma Madia[18], ha introdotto il silenzio assenso per sanzionare l’inerzia ovvero l’assenza delle amministrazioni convocate, con l’evidente rischio di far diventare il tempo un valore assoluto e guida principale dell’azione amministrativa e la celerità dell’azione amministrativa, un generico e astratto interesse, a giudizio di chi scrive in violazione dell’art. 97 Cost. e dell’art. 41 della Carta di Nizza, per perseguire il quale si è persino omessa qualunque forma di partecipazione del privato alla conferenza di servizi[19].
Così, il silenzio assenso entra con tutta la sua problematicità proprio in uno strumento di coordinamento tipico ad esempio della materia ambientale, la quale, almeno fino alla riforma del 2015, aveva relegato ai margini forme di silenzio accoglimento, almeno come istituto tipico e generalizzato, facendo salve, invece, specifiche e ben ponderate previsioni[20].
Si può, così, affermare, in una prima riflessione generale, che anche la conferenza di servizi ha voluto superare il ruolo privilegiato in cui per anni si sono trovati i cd. interessi sensibili, in un loro progressivo indebolimento valoriale[21], parificandoli ad altri interessi nei meccanismi decisionali, e anzi, per certi versi, ritenendoli persino d’intralcio per la celerità delle procedure ritenuta erroneamente unica garanzia per lo sviluppo economico.
Inoltre, sempre in questo approccio di semplificazione, nella ‘nuova’ conferenza di servizi è stata prevista la partecipazione del rappresentante unico per ogni livello di governo, costringendo all’unità il fisiologico pluralismo di alcune materie, tra cui l’ambiente o l’urbanistica per fare solo due esempi. Sono stati ancora affidati ampi poteri all’amministrazione procedente[22], la quale potrà superare i dissensi anche di amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, la cui tutela può passare, con procedure caratterizzate da tempi molto brevi e con un non condivisibile ruolo di un organo politico.
Difatti, il Consiglio dei ministri è chiamato a decidere, ad esempio, su questioni inerenti alla protezione dell’ambiente, notoriamente fatta di soglie e di standard di protezione e di valutazioni per lo più tecniche e, quindi, esercitando funzioni che non trovano un fondamento costituzionale e, forse, proprio in palese violazione del principio della separazione della politica dall’amministrazione. Su questo, si ritiene, bisognerebbe riflettere, sostenendo che, in materia ambientale, non si possa surrogare con un organo politico puro una struttura tecnica preposta ad accertamenti e valutazioni, la cui attività sia sottoposta a un sindacato giurisdizionale, mentre la deliberazione del Consiglio dei ministri, definita atto di alta amministrazione (art. 25, c. 1, lett. b), l. n. 164/2014), è dotata di un’ampia discrezionalità e può essere oggetto di sindacato solo nei limiti del riscontro dell’esistenza dei presupposti e della congruità della motivazione, nonché dell’esistenza del nesso logico di consequenzialità fra presupposti e conclusioni[23].
Quanto detto fin qui è parte del percorso evolutivo dell’istituto voluto da d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127, Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’art. 2 della l. 7 agosto 2015, n. 124[24], il quale contiene una completa riformulazione della disciplina della conferenza di servizi, artt. 14-14 quinquies, LPA. Molti dubbi permangono nei riguardi di scelte legislative forse non compatibili con i princìpi di legalità, d’imparzialità e del buon andamento, ovvero con il principio di leale collaborazione e della competenza, o ancora con i princìpi europei in materia ambientale di cui si è parlato fin qui[25], se ci riferiamo all’applicazione del silenzio assenso anche nell’ambito della conferenza di servizi che allo stato attuale non sembra costituire il punto di equilibrio tra interessi costituzionalmente rilevanti[26]. Probabilmente, la nuova impostazione della conferenza di servizi, come il silenzio assenso tra amministrazioni, sono gli strumenti meno adeguati, in termini di effettività, per risolvere il reale problema della complessità di procedure pluristrutturate in relazione a una volontà dell’incremento del tasso di performance dell’attività amministrativa. Si vorrebbe imporre una unitarietà decisionale dove tale unitarietà non può esistere per il fisiologico pluralismo funzionale democratico, per la complessità degli interessi coinvolti che faticano a coniugarsi con procedure che seguono misurazioni quantitative[27] e per la necessaria autonomia che deve mantenere ogni amministrazione coinvolta[28], escludendo, invece, perché più complessa nella realizzazione, anche politica, una preliminare unitarietà o quantomeno una semplificazione strutturale e delle relative competenze[29], oltre a una diversa formazione culturale di chi opera in tali strutture[30], da cui forse bisognerebbe partire[31].
3. La conferenza di servizi e la disciplina del silenzio assenso ‘orizzontale’
L’art. 14 bis, LPA, dispone che la conferenza di servizi decisoria, art. 14, c. 2, LPA, si svolge in forma semplificata e in modalità asincrona, secondo le modalità previste dall’art. 47 del decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82[32]. La conferenza semplificata è considerata in dottrina[33] un ossimoro o una contraddizione in termini, mancando l’esame contestuale degli interessi coinvolti, vero tratto caratterizzante della conferenza di servizi, oltre alla certezza della decisione finale, superando il dissenso, che ha contraddistinto la conferenza di servizi fin dalla l. 24 novembre 2000, n. 340, con la quale il principio dell’unanimità del consenso è stato sostituito con il principio maggioritario.
A conferma di quanto appena detto potremmo considerare quanto disposto dalla legge delega e dal successivo decreto delegato, per poter affermare che anche il legislatore non consideri la conferenza simultanea come la vera conferenza di servizi decisoria. Infatti, l’art. 2, c. 1, lett. a), della legge delega, tra i criteri direttivi, fa riferimento alla ridefinizione e riduzione dei casi in cui la convocazione della conferenza dei servizi è obbligatoria, anche in base alla complessità del procedimento. L’art. 14 bis, c. 2, LPA, dispone che la conferenza simultanea è indetta dall’amministrazione procedente entro cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte. Al contempo, il previgente art. 14, c. 2, LPA, prevedeva che la conferenza di servizi fosse sempre indetta qualora l’amministrazione procedente dovesse acquisire atti di assenso da parte di altre amministrazioni e non li avesse ottenuti nel termine di 30 giorni dalla richiesta. Pertanto, una volta ricevuti gli atti di assenso, la conferenza di servizi non era più necessaria. Secondo il dettato attuale, la conferenza semplificata è obbligatoria, ma non è la vera conferenza di servizi, mentre quella simultanea, la vera conferenza di servizi, nel rispetto del criterio di riduzione della legge delega, è diventata residuale e, quindi, limitata ai casi in cui l’amministrazione procedente debba superare il dissenso espresso da un’altra amministrazione nel corso della conferenza semplificata, ovvero, qualora sia necessaria per la complessità del provvedimento da adottare.
Sembra di poter dire, pertanto, che la nuova conferenza di servizi abbia perso il tratto caratterizzante di essere la sede per l’ordinaria composizione degli interessi[34], sostituito dalla necessità di una sua convocazione per superare i dissensi o in caso di una complessità procedurale tale da richiedere un istituto di mediazione contestuale degli interessi[35].
Un primo profilo critico è il rapporto tra la conferenza di servizi semplificata e il silenzio assenso tra amministrazioni e tra un’amministrazione e un gestore di beni o servizi, art. 17 bis, LPA. La legge delega prevede, tra i criteri guida, il coordinamento delle norme inerenti ai due istituti, mentre la relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo ha sintetizzato il tema osservando che “la formulazione della disposizione, art. 14 bis, LPA, che fa riferimento a più atti di assenso, chiarisce che ove sia necessario un solo atto di assenso, si applica l’art. 17 bis della stessa l. n. 241/1990”[36]. In realtà, il Cons. Stato, Comm. Spec., n. 1640/2016, nel parere reso in riferimento ad alcuni profili critici dell’art. 17 bis, LPA, ha osservato che “la tesi secondo cui l’art. 17 bis, LPA, trova applicazione nel caso in cui l’amministrazione procedente debba acquisire l’assenso di una sola amministrazione, mentre nel caso di assensi di più amministrazioni opera la conferenza di servizi, rappresenta, in effetti, quella che fornisce il criterio più semplice per la risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa (…). In alternativa, per estendere l’ambito applicativo dell’art. 17 bis, LPA, in modo che appaia, comunque, compatibile con il suo tenore letterale, si potrebbe sostenere che il silenzio assenso di cui all’art. 17 bis, LPA, opera sempre, anche nel caso in cui siano previsti assensi di più amministrazioni e, se si forma, previene la necessità di convocare la conferenza di servizi. Quest’ultima andrebbe convocata, quindi, nei casi in cui il silenzio assenso non si è formato a causa del dissenso espresso dalle amministrazioni interpellate e avrebbe lo scopo di superare quel dissenso nell’ambito della conferenza appositamente convocata”.
Il Consiglio di Stato sembra, così, voler superare la conferenza semplificata, la quale, invece, viene confermata nel testo definitivo e applicata qualora gli atti di assenso siano più di uno, escludendo in questo caso l’applicazione dell’art. 17 bis, LPA. Infatti, l’art. 14, c. 2, LPA, dispone che “la conferenza di servizi decisoria è sempre indetta dall’amministrazione procedente quando la conclusione positiva del procedimento è subordinata all’acquisizione di più pareri, intese, concerti, nulla osta o altri atti di assenso comunque denominati, resi da diverse amministrazioni, inclusi i gestori di beni o servizi pubblici”.
In definitiva, come osservato in dottrina, seguendo un mero criterio quantitativo che pare comunque non soddisfare, gli istituti della conferenza di servizi semplificata e quello dell’art. 17 bis non verrebbero a sovrapporsi, seguendo una modulazione della procedura in relazione alle questioni sostanziali da affrontare: per gli affari più semplici, il silenzio assenso ex art. 17 bis; per quelli leggermente più complessi, la conferenza semplificata; per quelli di una certa complessità, la conferenza simultanea[37]. Tuttavia, il criterio quantitativo non pare essere l’unico alla base di una netta distinzione tra i due istituti. Si pensi, ad esempio, al differente ambito oggettivo di applicazione. L’art. 17 bis, LPA, si applica anche all’adozione di provvedimenti amministrativi e provvedimenti normativi, mentre la conferenza di servizi ai soli provvedimenti amministrativi. Inoltre, l’art. 14, c. 2, LPA, tra gli assensi da acquisire, menziona i pareri e le intese, esclusi dall’art. 17 bis[38]. Come si dirà più diffusamente in seguito, la conferenza di servizi e il silenzio assenso tra amministrazioni troveranno spazio nell’acquisizione di pareri vincolanti per la loro natura decisoria. Al contempo non si applica l’art. 17 bis ai pareri non vincolanti, per i quali, come del resto per le valutazioni tecniche, continuano ad applicarsi le procedure di cui agli artt. 16 e 17, LPA.
L’art. 17 bis, LPA, opera, quindi, solo nella fase decisoria, nella fase in cui l’amministrazione procedente, completata l’istruttoria e nella quale operano anche gli artt. 16 e 17, LPA, propone uno schema di provvedimento a un’altra amministrazione, anche preposta alla cura degli interessi sensibili, alla cui inerzia, nei termini di 30 o 90 giorni, segue il silenzio assenso. Invece, la conferenza simultanea, essendo obbligatoria per l’acquisizione di più atti di assenso e dovendo essere convocata nel termine di cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal deposito dell’istanza di parte, deve effettuare un’istruttoria completa e in questa devono essere acquisiti anche i pareri meramente consultivi e non vincolanti, oltre alle valutazioni tecniche. Un altro tratto distintivo della conferenza di servizi semplificata (art. 14 bis, LPA) e del silenzio assenso (art. 17 bis, LPA) è dato dalla disciplina della qualificazione dell’assenso implicito e dalla modalità di superamento del dissenso. Nel primo caso, l’art. 14 bis, c. 3, LPA, introduce i requisiti necessari per far valere il dissenso e in assenza dei quali si ha un assenso implicito[39], mentre l’art. 17 bis, LPA, non menziona qualità specifiche del dissenso, operando così in caso d’inerzia dell’amministrazione. Inoltre, in riferimento al superamento del dissenso, l’art. 17 bis, c. 2, LPA, stando alla lettera della norma, ritiene superabile solo il dissenso tra amministrazioni statali, nel quale caso, il Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle eventuali modifiche da apportare allo schema di provvedimento presentato dall’amministrazione procedente. Non pare, così, condivisibile che non venga fatta menzione dei possibili e frequenti dissensi tra amministrazioni non statali ovvero tra un’amministrazione statale e una non statale, facendo diventare così uno strumento di semplificazione in uno di veto burocratico.
Un ulteriore tratto distintivo dei due istituti è dato dal profilo soggettivo della conferenza di servizi simultanea e del silenzio assenso tra amministrazioni. Difatti, l’art. 14 fa riferimento a tutte le amministrazioni pubbliche, compresi i gestori dei beni e dei servizi pubblici, mentre l’art. 17 bis, LPA, individuerebbe, come amministrazioni procedenti, le sole amministrazioni pubbliche, mentre le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sarebbero i soggetti a cui chiedere gli atti di assenso comunque denominati.
4. La conferenza di servizi e la disciplina del dissenso qualificato.
L’art. 14 quinquies, LPA, disciplina l’opposizione alla determinazione motivata di conclusione della conferenza da parte di amministrazioni che abbiano espresso un dissenso qualificato e motivato prima della sua conclusione[40], dissenso che non può essere annullato in autotutela[41], a meno che non si convochi un’altra conferenza[42].
È qualificato il dissenso proveniente dalle amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili, quali la tutela dell’ambiente, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali, della salute e della pubblica incolumità dei cittadini, oltre ai dissensi espressi dalle regioni e province autonome nelle proprie materie di competenza[43].
La conferma del silenzio assenso nell’ambito della conferenza di servizi è da ricondursi anche alla nuova disciplina del cd. dissenso imperfetto, che si configura equiparandolo alla mancata partecipazione alla conferenza se il dissenso non è motivato o non è costruttivo nella conferenza asincrona (art. 14 bis, c. 3 e 4, LPA), ovvero se non è motivato o non pertinente e chiaro nella conferenza simultanea (art. 14 ter, c. 3, LPA). Il dissenso imperfetto, quindi, è equiparato a un assenso e viene considerato alla stessa stregua di un’amministrazione che non abbia espresso la propria posizione. Sul punto, si concorda con la dottrina che ha sollevato dubbi su tale previsione, considerando che anche in caso di motivazione non chiara e univoca, l’amministrazione ha comunque manifestato una volontà contraria rispetto a quella condivisa dalla maggioranza dei partecipanti alla conferenza di servizi. Considerare tale manifestazione tamquam non esset e disporne l’equiparazione a un assenso senza condizioni denota la priorità attribuita alla decisione positiva e rapida della conferenza rispetto alla cura degli interessi sottesi al dissenso imperfetto. Quelli che sarebbero vizi d’illegittimità dell’atto espressivo del dissenso, lo rendono invero nella conferenza irrilevante (anche come materiale istruttorio), con conseguente assimilazione, in chiave evidentemente sanzionatoria, all’ipotesi dell’inerzia[44].
In presenza del dissenso perfetto, ossia chiaro e univoco, modificando con il d.lgs. n. 127/2016, la precedente disciplina che si presentava a maggiore tutela per gli interessi sensibili[45], l’amministrazione procedente assume comunque la determinazione conclusiva sulla base delle posizioni prevalenti[46], rafforzando così il ruolo dell’amministrazione procedente e del responsabile del procedimento[47], ma, a seguito del dissenso, vengono sospesi, per un termine breve di 10 giorni, gli effetti della determinazione, la quale potrà assumere definitivamente efficacia, qualora non venga proposta opposizione, ipotesi improbabile[48], nel termine breve citato da parte dell’amministrazione dissenziente[49]. Che l’opposizione, poi, per le amministrazioni statali venga proposta dal Ministro competente pone dubbi di legittimità costituzionale, artt. 95 e 97 Cost., introducendo una figura politica a far valere un dissenso di un’amministrazione, per di più in materie sensibili connotate, come si è detto, da un alto tasso di discrezionalità tecnica[50]. Scelta che pare ancor più grave dell’altrettanto non condivisibile previsione di rimettere la decisione della conferenza di servizi all’intero Consiglio dei Ministri, scelta non infrequente già, ad esempio, nell’ambito del Codice dell’ambiente[51], anche se da considerare una extrema ratio, dopo un tentativo di mediazione e di condivisione che ancora non produce uno spostamento del livello di decisione.
Infatti, in entrambi in casi, l’art. 14 quinquies, c. 1, LPA, non pare compatibile con il principio della separazione dei poteri, separazione, quindi, tra la funzione di indirizzo politico-amministrativo e la funzione gestionale, ben distinte dall’art. 4, d.lgs. n. 165/2001, ma nel caso della presentazione dell’opposizione, il Ministro diventa portavoce e quindi fa proprio il dissenso qualificato, condividendone le valutazioni politiche e amministrative e rivendicando una potenziale lesione dell’interesse sensibile, che pare esorbitare dai limiti delle funzioni costituzionali dei ministri di cui all’art. 95 Cost.[52].
Questo almeno in linea teorica, perché, poi, di fatto il termine breve per l’opposizione, di soli 10 giorni, e l’obbligatorietà del ministro per la proposizione dell’opposizione costituiscono un forte deterrente per la stessa proposizione dell’opposizione con una ulteriore riduzione della tutela degli interessi sensibili, tra cui la materia ambientale di cui in modo specifico ci stiamo occupando. Allo stesso tempo, in caso di ricorso, il Consiglio dei ministri, come sostenuto in giurisprudenza, “per il superamento dei dissensi insorti in conferenza di servizi e per il raggiungimento delle intese, non può che rifarsi (ove si constati il permanere di un dissenso) alle valutazioni tecniche in precedenza emerse (salve ipotesi riposanti nella emergenza di un fatto-dato nuovo e prima non preso in esame o di radicale carenza di istruttoria), senza per questo doversi pretendere la reiterazione di argomentazioni già esplorate, ben potendo la motivazione essere espressa per relationem”[53].
In definitiva, il meccanismo così delineato non pare assicurare agli interessi primari quella garanzia minima richiesta anche dalla Corte costituzionale di salvaguardia del nucleo essenziale dell’interesse sensibile, la cui essenza va individuata caso per caso[54]. È stato osservato[55] che tale sistema muove nella direzione del proceduralismo avalutativo (contro l’assunzione di impegni etico-valoriali nella legge amministrativa) e del ridimensionamento dell’intangibilità delle valutazioni, spesso di natura tecnico-scientifica, delle amministrazioni statali preposte alla tutela di interessi primari. I diversi interessi coinvolti nel singolo affare amministrativo si confrontano tutti, senza distinzioni, senza pesi ponderali prestabiliti e assegnati dalla legge, nel bilanciamento demandato all’amministrazione procedente, ed espressione di discrezionalità amministrativa. Gli esiti della valutazione dell’amministrazione preposta alla tutela di interessi sensibili diventano, nella nuova disciplina della conferenza, elementi di conoscenza istruttoria, di valutazioni e di decisione, mentre il potere decisionale sostanziale spetta, anche solo per un profilo formale, quale la convocazione della conferenza, all’amministrazione procedente, indipendentemente dal tipo di interesse tutelato[56].
Dubbi di costituzionalità vengono, inoltre, sollevati in riferimento alla procedura del dissenso espresso dalle regioni e province autonome di Trento e Bolzano, art. 14 quinquies, c. 5, LPA.
Sul tema, in riferimento alla previgente disciplina, era intervenuta la Corte costituzionale, con la sentenza n. 179/2012[57], la quale aveva sottolineato la necessità di un’intesa tra organi statali e organi regionali, qualora una disciplina statale incida su materie di competenza regionale. La Corte, pertanto, affermava che “la previsione dell’intesa, imposta dal principio di leale collaborazione, implica che non sia legittima una norma contenente una ‘drastica previsione’ della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso, ma che siano necessarie ‘idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze’. Solo nell’ipotesi di ulteriore esito negativo di tali procedure mirate all’accordo, può essere rimessa al Governo una decisione unilaterale”.
Il d.lgs. n. 127/2016, in tema di conferenza di servizi, in realtà non pare seguire le indicazioni della Corte costituzionale. Infatti, l’art. 14 quinquies, c. 5, LPA, afferma che “qualora alla conferenza di servizi abbiano partecipato amministrazioni delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, e l’intesa non venga raggiunta nella riunione di cui al comma 4, può essere indetta, entro i successivi quindici giorni, una seconda riunione, che si svolge con le medesime modalità e allo stesso fine”. Se, poi, all’esito di tali riunioni l’intesa non viene raggiunta, la questione è rimessa al Consiglio dei Ministri, alla cui riunione possono partecipare i Presidenti delle regioni e delle province autonome interessate. Tale previsione non pare, quindi, conforme con la più recente giurisprudenza costituzionale, la quale non ritiene sufficiente un generico richiamo al principio di leale collaborazione, ma indica la necessità di “procedure di reiterazione delle trattative, con l’impiego di specifici strumenti di mediazione”[58].
L’attuale disciplina, invece, non contempla la previsione di reiterate trattative e la questione è rinviata al Consiglio dei ministri in un termine di 30 giorni, ritenuto inadeguato dalla Corte cost. n. 179/2012[59]. La decisione del Consiglio dei ministri, calendarizzata alla prima riunione del Consiglio dei ministri successiva alla scadenza del termine per raggiungere l’intesa, è un atto di alta amministrazione, il quale, in caso di contrasto con il dissenso qualificato proposto dall’amministrazione preposta alla tutela di un interesse sensibile, dovrà fondarsi su una motivazione che dia conto della necessità di superare le valutazioni effettuate dall’amministrazione dissenziente. Si tratta di una valutazione che non può disapplicare i parametri del giudizio tecnico, che non può prescindere dalla medesima natura tecnica di quella di base confutata, ma che nemmeno si esaurisce in un giudizio tecnico com’è per l’atto di base, perché comporta l’adozione, in deroga a quel dissenso, di un apprezzamento che è di alta amministrazione[60].
Inoltre, dal dettato letterale dell’art. 14 quinquies, c. 6, LPA, non pare si possa applicare, proprio per la primarietà degli interessi coinvolti e per la natura stessa della conferenza di servizi, come strumento di coordinamento in una nuova auspicata cultura dell’amministrazione pubblica[61], una qualunque forma di silenzio da parte del Consiglio dei ministri: sia che non accolga il dissenso delle amministrazioni, acquisendo definitivamente efficacia la determinazione conclusiva della conferenza di servizi, sia, a maggior ragione, in caso di accoglimento del dissenso a cui segue la modifica anche parziale del contenuto della determinazione, dovendo dare espressamente conto degli esiti delle riunioni preliminari di cui ai c. 4 e 5 dell’art. 14 quinquies, LPA.
5. La sentenza del Tar Campania.
La sentenza del Tar Campania, Napoli, Sez. I, n. 2007/2024, è il risultato di tale quadro normativo di riferimento. La ricostruzione dell’istituto della conferenza di servizi, in modo particolare in riferimento al tema del dissenso e a quello dell’autotutela, fa emergere che le amministrazioni coinvolte nella conferenza di servizi, al di fuori dai casi del dissenso riguardanti i cd. interessi sensibili, possono contestare la conclusione di tale istituto, esercitando solamente un potere sollecitatorio nei confronti dell’amministrazione procedente, la quale potrà esercitare un potere di autotutela, ai sensi dell’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, nell’ambito della sua discrezionalità. Andrebbe contro la ratio semplificatoria di tale istituto, e il costrutto organizzativo ad essa sotteso, il potere di impugnare la decisione finale della conferenza di servizi, rendendo, altresì, superfluo l’art. 14 quater, l. n. 241/1990, che ha introdotto un modello semplificato per giungere nel minor tempo possibile alla decisione finale. In definitiva, a seguito della Riforma Madia, sulla base del principio, enunciato nella legge delega, di garantire la possibilità per le pubbliche amministrazioni di chiedere all’amministrazione procedente di assumere determinazioni in via di autotutela, purché abbiano partecipato alla conferenza di servizi o si siano espresse nei termini, l’art. 14 quater, c. 2, l. n. 241/1990, consente alle amministrazioni, i cui atti siano stati sostituiti dalla determinazione motivata di conclusione della conferenza, la possibilità di sollecitare, con congrua motivazione, l’amministrazione procedente ad assumere determinazioni in autotutela, ai sensi dell’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, previa convocazione di una nuova conferenza di servizi. Allo stesso modo, le stesse amministrazioni possono sollecitare l’amministrazione procedente ad assumere determinazioni in autotutela, ai sensi dell’art. 21 quinquies, l. n. 241/1990, purché abbiano partecipato alla conferenza di servizi o si siano espresse nei termini. Sul punto, il Consiglio di Stato, pronunciandosi sullo schema di decreto legislativo per il riordino della disciplina della conferenza di servizi (parere n. 860/2019), ha rimarcato la necessità della distinzione tra le ipotesi di revoca, nella quale si presuppone una diversa valutazione dell’interesse pubblico, e quella dell’annullamento d’ufficio per motivi di legittimità, considerando che in questo secondo caso l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo deve prevalere sul consolidamento delle posizioni giuridiche, nei limiti in cui l’annullamento d’ufficio è consentito, ai sensi dell’art. 21 nonies, l. n. 241/1990[62].
Ancora, sempre secondo il giudice campano, riconoscere il potere di impugnazione della determinazione di finale a favore di chi ha deciso di non partecipare alla conferenza stessa, contrasterebbe con i principi di buona fede e di leale collaborazione, previsti dall’art. 1, c. 2 bis, l. n. 241/1990. Difatti, chi non partecipa accetta consapevolmente la formazione del silenzio assenso, come previsto dall’art. 14 bis, c. 4, l. n. 241/1990. Tale istituto, per quanto controverso e non esente da profili di criticità, è stato oggetto del parere n. 1640/2016 della commissione speciale del Consiglio di Stato che ha fortemente criticato l’inerzia della pubblica amministrazione, vedendo nella formazione del silenzio assenso e, quindi, nella perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento la più grave delle sanzioni e il più efficace dei rimedi e questo con ancora di più se il dissenso proviene da un ente locale non a tutela di interessi sensibili come argomentato nel parere del Consiglio di Stato n. 2534/2019[63].
Da quanto detto, dunque, il ricorso proposto dal comune avverso la determinazione conclusiva della conferenza di servizi è giudicato, nella sentenza in esame, inammissibile, per l’attuale quadro normativo nella materia de qua. Infatti, il Comune non ha partecipato alla conferenza di servizi, restando inerte, e per queste ragioni non gli è consentito impugnare in sede giurisdizionale il provvedimento conclusivo della conferenza di servizi.
[1] Nell’ampia bibliografia sul tema, si rinvia a S. Tranquilli, G.B. Conte, La conferenza di servizi, in M.A. Sandulli, a cura di, Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2023, 511 ss., e dottrina e giurisprudenza ivi citata. Con riferimento specifico ai poteri di autotutela esercitabili nella conferenza di servizi si veda M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria (artt. 21 quinquies e 21 nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i.), ivi, 574.
Inoltre, ex multis, v. E. Sticchi Damiani, Conferenza di servizi, in Diritto online 2015, www.treccani.it; G. Pagliari, La conferenza di servizi, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., 705 ss., e dottrina e giurisprudenza ivi citata; G.B. Conte, I lavori della conferenza di servizi, ivi, 758 ss.; E. Scotti, La conferenza di servizi, in Alb. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, cit., 457 ss.; Id., La nuova disciplina della conferenza di servizi tra semplificazione e pluralismo, in www.federalismi.it, 2016; G. Vesperini, La nuova conferenza di servizi, in Gior. dir. amm., 2016, 5, 578 ss.; M. Cocconi, La nuova conferenza di servizi, in www.giustamm.it, 2016; L. De Lucia, La conferenza di servizi nel d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127, in Riv. giur. urb., 2016, 1, 12 ss.; R. Dipace, La resistenza degli interessi sensibili nella nuova disciplina della conferenza di servizi, in www.federalismi.it, 2016; Id., Procedure di approvazione dei progetti e conferenza di servizi, in Fonti e principi ambito programmazione e progettazione, in M.A. Sandulli, R. De Nictolis (diretto da), Trattato sui contratti pubblici, cit., I, 1353 ss.; F. Scalia, Prospettive e profili problematici della nuova conferenza di servizi, in Riv. giur. edil., 2016, 6, II, 625 ss.; G.B. Conte, S. De Paolis, La conferenza di servizi, in M.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, cit., 285, e dottrina e giurisprudenza ivi citata; M.P. Vipiana Perpetua, Il procedimento amministrativo nella legge n. 241 del 1990 riformata dalla legge n. 69 del 2009, Padova, 2010, 143 ss.; F. Bassanini, L. Carbone, La conferenza di servizi. Il modello e i princìpi, in V. Cerulli Irelli (a cura di), La nuova disciplina generale dell’azione amministrativa, Napoli, 2006; D. D’Orsogna, La Conferenza di servizi, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto Amministrativo, Torino, 2017, 253; G. Soricelli, Profili problematici e ricostruttivi della natura giuridica della Conferenza di servizi dopo la riforma Madia, cit., passim.
[2] F. Fracchia, Recensione a G. Soricelli. Contributo in tema di conferenza di servizi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2002, 252, rileva che “l’obiettivo primario della conferenza di servizi più che nella semplificazione o nello snellimento del procedimento, è nel coordinamento dei poteri, nel momento del loro esercizio, strumentale alla composizione dei vari interessi pubblici, ottenuta attraverso la loro valutazione complessiva e contestuale”.
[3] In questi termini, v. Cons. Stato, Sez. VI, 23 giugno 2012, n 3039, in www.giustizia-amministrativa.it; Corte cost, n. 9/2019; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 22 luglio 2019, n. 1057, in Foro amm., 2019, 7-8, 1361, in cui si afferma che “in merito alla questione della partecipazione fisica alle sedute della conferenza di servizi, deve ammettersi la possibilità di esprimere valutazioni anche attraverso la trasmissione di note scritte. Ciò, in quanto la conferenza di servizi non è un organo collegiale, bensì un modello di semplificazione amministrativa”.
[4] In questi termini, v. Cons. Stato, Comm. Spec., 17 aprile 2016, n. 890, cit., osserva che “la logica della conferenza di servizi è quella di valorizzare la valenza dinamica del procedimento rispetto a quella statica dei singoli provvedimenti in successione tra loro, di sostituire ad una serie di valutazioni separate di singoli interessi pubblici – in cui ciascuna amministrazione tende ad ‘assolutizzare’ quella per il quale è preposta, ponendo se stessa al centro del problema – un ‘dialogo tra amministrazioni’ che conduce ad una valutazione unica, globale e contestuale di tutti gli aspetti coinvolti. Poiché unico è il risultato finale cui si mira, unico è il tessuto di interessi su cui si incide, unica è, spesso, la pretesa sostanziale del privato o dell’impresa che ha richiesto l’articolato, se non frammentato, intervento pubblico”.
Cons. Stato, Sez. IV, 1° dicembre 2016, n. 5044, nota di S. Bucello, Riflessioni a margine della sentenza del Consiglio di Stato n. 5044/2016 per un corretto inquadramento della conferenza di servizi semplificata, in www.federalismi.it, 2018, 8.
[5] F.G. Scoca, Analisi giuridica della conferenza di servizi, in Dir. amm., 1999, 259, osserva che la “la conferenza di servizi costituisce un rimedio idoneo a fronteggiare e rendere meno dannoso sotto il profilo dell’efficienza, questo policentrismo imperfetto, riannodando le competenze nel momento in cui i diversi poteri vengono concretamente esercitati”.
S. Cassese, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo Stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 601 ss., rileva che la finalità della conferenza di servizi è quella di “coniugare l’unità della decisione con il policentrismo dell’organizzazione”.
Sulla necessità del coordinamento tra amministrazioni, v. F. Cortese, Il coordinamento amministrativo. Dinamiche e interpretazioni, Milano, 2012, passim.
Cfr., altresì, Cons. Stato, Comm. Spec., 17 aprile 2016, n. 890, cit., osserva che “il meccanismo di valutazione contestuale degli interessi pubblici coinvolti nel medesimo procedimento avrebbe dovuto indurre il titolare di ciascun interesse pubblico settoriale a farsi carico, nel momento in cui esprime il suo punto di vista, degli ulteriori interessi pubblici che vengono contestualmente in rilievo ai fini dell’emanazione dell’atto finale”.
Sul tema si veda, anche, Corte cost. 11 luglio 2002, n. 179, in www.giurcost.org, in cui si osserva che “questa Corte ha già avuto occasione di confermare che tale istituto - introdotto dalla legge non tanto per eliminare uno o più atti del procedimento, quanto per rendere contestuale quell’esame da parte di amministrazioni diverse che, nella procedura ordinaria sarebbe destinato a svolgersi secondo una sequenza temporale scomposta in fasi distinte – è orientato alla realizzazione del principio del buon andamento, ex art. 97 Cost., in quanto assume, nell’intento della semplificazione e accelerazione dell’azione amministrativa, la funzione di coordinamento e mediazione degli interessi in gioco al fine di individuare, mediante il contestuale confronto degli interessi dei soggetti che li rappresentano, l’interesse pubblico primario e prevalente. Esso realizza, quindi, un giusto contemperamento fra la necessità della concentrazione delle funzioni in un’istanza unitaria e le esigenze connesse alla distribuzione delle competenze fra gli enti che paritariamente vi partecipano con propri rappresentanti, senza che ciò implichi un’attenuazione delle rispettive attribuzioni”.
[6] Sul tema, si rinvia all’approfondita analisi di R. Dipace, La resistenza degli interessi sensibili, cit., 226 ss.; G. Pagliari, La conferenza di servizi, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., 608 ss.; E. Scotti, La conferenza di servizi, in Alb. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, cit., 458; Id., Il coordinamento degli interessi nella nuova disciplina della VIA: il procedimento unico, in R. Dipace, A. Rallo, A. Scognamiglio (a cura di), Impatto ambientale e bilanciamento degli interessi, cit., 83 ss.; M. Santini, La conferenza di servizi dopo la riforma Madia: questioni di (ulteriori) nome o di cultura?, in Urb. app., 2016, 126; M. Calabrò, Semplificazione procedimentale e esigenze di tutela dell’ambiente: l’autorizzazione integrata ambientale, in Riv. giur. edil., 2010, 5, II, 255 ss.; D. D’Orsogna, Conferenza di servizi e amministrazione della complessità, Torino, 2002, passim.
[7] M. Clarich, Tempi degli uffici, cit., 20, osserva che “la l. n. 69 ha introdotto aggiustamenti utili per acquisire uno spettro più ampio di punti di vista, ma che non risolvono la questione principale: come rendere celere nei fatti la conclusione dei lavori e come superare i possibili veti incrociati. In effetti il criterio secondo il quale la decisione finale tiene conto delle posizioni prevalenti introdotto nel 2005 è assai ambiguo”; S. Paparo, Le nuove soluzioni alla luce dell’esperienza applicativa, in S. Battini (a cura di), La nuova disciplina della conferenza di servizi, cit., 159, rileva che “uno degli aspetti più rilevanti emerso dalla ricognizione svolta dal Dipartimento della funzione pubblica è rappresentato dalla scarsa applicazione della disposizione di cui al previgente art. 14 ter, c. 7, che prevedeva si considerasse acquisito l’assenso delle amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili, il cui rappresentante, all’esito dei lavori della conferenza, non avesse espresso la volontà dell’amministrazione rappresentata. Alla base di questa criticità vi è la difficoltà, da parte del responsabile del procedimento, ad assumere la responsabilità di decidere in caso d’inerzia delle amministrazioni competenti e in particolare di quelle preposte alla tutela degli interessi sensibili”.
[8] In questi termini, L. De Lucia, La conferenza di servizi, cit., il quale “mette in guardia nei confronti di ‘narrative’ semplificanti sull’amministrazione”. Anche il parere del Cons. Stato, Comm. Spec., n. 890/2016, cit., ha sottolineato la mancanza di dati ufficiali sulla conferenza di servizi.
[9] R. Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo, cit., 186, osserva che la disciplina caotica e complessa della conferenza di servizi sembra entrare in rotta di collisione con il dichiarato fine della semplificazione.
[10] M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, cit., 262, osserva che “molte difficoltà che ha incontrato in questi anni la conferenza di servizi decisoria dipendono dall’indisponibilità di tante amministrazioni a cogestire con altre amministrazioni le proprie competenze”.
Diversi sono gli studi in tema di conferenza di servizi. Da ultimo, v. i casi di studio esaminati in L. Torchia (a cura di), I nodi della pubblica amministrazione, Napoli, 2016, 209 ss., nonché la ricerca di Aspen Institute, I maggiori vincoli amministrativi alle attività d’impresa. Dai casi specifici alle soluzioni, Roma, 11 febbraio 2016. Si v. anche l’indagine svolta da Confindustria-Ref, Iterautorizzativi e semplificazione: la conferenza di servizi. Analisi empirica e indagine sul campo, Roma, giugno 2015; Italiadecide, Rapporto 2015. Semplificare è possibile: come le pubbliche amministrazioni potrebbero fare pace con le imprese, Bologna, 2015; M. Conticelli, La conferenza dei servizi, in SNA - IRPA, Il procedimento amministrativo a venti anni dalla legge n. 241 del 1990, ottobre 2013, 112 ss.; L. Bobbio, D. Barella, M. Sartoni, La Conferenza di servizi: analisi empirica ed esperienze a confronto, aprile 2009; L. Torchia (a cura di), Il sistema amministrativo italiano, Bologna, 2009, 275.
[11] In questi termini, si esprime, F. Scalia, Prospettive e profili problematici della nuova conferenza di servizi, cit., 628 s.; L. De Lucia, La conferenza di servizi nel d.lgs. 30 giugno 2016 n. 127, cit., parla di pluralismo distruttivo; L. Torchia, Il sistema amministrativo e le attività produttive: le barriere, gli ostacoli, i nodi. Studi di caso per uscire dal labirinto, in L. Torchia (a cura di), I nodi della pubblica amministrazione, cit., 16, rileva che “la conferenza di servizi è più spesso il luogo nel quale i nodi emergono e si aggrovigliano, che non quelli che si risolvono”.
Anche il Cons. Stato, Comm. Spec., 7 aprile 2016, n. 890, cit., ha sollecitato “l’adozione di misure non normative di sostegno alla riforma, tra le quali uno specifico piano di formazione sulla conferenza che ben potrebbe essere affidato alla supervisione della riformata Scuola nazionale dell’amministrazione nel suo ruolo di ente unico di eccellenza preposto alla formazione dei dipendenti pubblici”.
[12] In questi termini, v. L. Torchia, Introduzione, in L. Torchia (a cura di), I nodi della pubblica amministrazione, cit., 24, la quale osserva che “la riforma dovrebbe poter trasformare la conferenza da strumento di coordinamento in strumento di decisione, attraverso una drastica semplificazione e un rafforzamento dell’unilateralismo dell’amministrazione procedente; mentre dovrebbe del tutto sfumare ogni proposito di raccordo e di mediazione degli interessi e, con essa, ogni dimensione pluralista dell’istituto”.
[13] Per un’approfondita analisi del rapporto tra la ‘nuova’ conferenza di servizi e il principio di leale collaborazione, v. P. Marzaro, Leale collaborazione e raccordo tra amministrazioni, cit., passim; M. Cafagno, Princìpi e strumenti di tutela dell’ambiente, cit., 303.
In giurisprudenza, v. Cons. Stato, Sez. VI, 5 marzo 2014, n. 1059, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “la partecipazione effettiva alla conferenza si basa sul principio della leale collaborazione istituzionale, di cui costituisce un’espressione per ben procedere all’esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti e le amministrazioni preposte alla cura di valori e interessi sensibili hanno l’onere di ritualmente esprimere all’interno della conferenza di servizi, proprio per il valore aggiunto del confronto dialettico”.
[14] Si condivide l’analisi di E. Scotti, Semplificazioni ambientali tra politica e caos, cit., 372, la quale afferma che “la conferenza di servizi come tale e nel suo insieme è divenuta oggi un’arena pubblica esposta alle logiche del caos. Non riesce più in altri termini a garantire un’adeguata considerazione e un corretto bilanciamento degli interessi coinvolti, e in primis di quelli ambientali, particolarmente depotenziati nelle ultime riforme. Né riesce ad assicurare razionalità degli esiti decisionali, che risultano indeboliti, nella loro autorevolezza, nella loro legalità (penale oltre che amministrativa) e nella loro stabilità, con un esito di dubbia compatibilità con le stesse indicazioni della direttiva 2014/52/UE. È questo un profilo che appare discutibile non solo avendo riguardo alla tutela dell’ambiente, ma anche nella diversa prospettiva del mercato, cui tendenzialmente si rivolge il legislatore laddove sacrifica le ragioni della legalità e dell’ambiente in nome dell’efficienza e della crescita economica. Il modello di coordinamento prescelto non appare infatti adeguato all’importanza degli interessi (anche economici) in gioco nei procedimenti di VIA: i quali non tollerano il rischio semplificazione e la relativa precarietà che in tal modo si genera, e che tendenzialmente induce l’operatore a prediligere i più sicuri modelli ordinari. Non è un caso se il legislatore ha lasciato aperta l’alternativa del procedimento separato proprio per i progetti più importanti, quelli sottoposti a VIA statale: sembra questo un chiaro segnale della consapevolezza della criticità di fondo insite nel modello di autorizzazione unica prescelto. È una via di fuga per una decisione dotata di maggiore stabilità”.
[15] Sul tema sia consentito rinviare a R. Leonardi, La tutela dell’interesse ambientale, tra procedimenti, dissensi e silenzi, Torino, 2020, passim; G. Mari, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi ai silenzi provvedimentali e procedimentali della P.A., in M.A. Sandulli, a cura di, Principi e regole dell’azione amministrativa, 2023, 283.
[16] Espressione utilizzata da E. Scotti, La semplificazione della conferenza di servizi, cit., 226.
[17] Si condivide quanto affermato da L. Torchia, Introduzione, cit., 26, secondo la quale “l’eccessiva compressione di questioni complesse, che non spariscono, ma riemergono in forma di contenzioso o di successivi ripensamenti, o di pura e semplice opposizione da parte dei soggetti ai quali è stato negato lo spazio di espressione e di partecipazione. È più utile, allora, disegnare attentamente questo spazio, consentendo e strutturando la partecipazione prima che questa si traduca in opposizione”.
M.R. Spasiano, La semplificazione amministrativa e la garanzia di effettività dell’esercizio del potere pubblico, in Riv. giur. urb., 2012, 38, afferma, in riferimento alla legittima aspettativa di semplificazione, che “va coniugata con l’imprescindibile presa in considerazione di tutti gli interessi coinvolti nell’azione dei poteri pubblici, giammai potendosi risolvere in forme di elusione della cura di taluni di quegli interessi, magari a seguito della mancata attivazione procedimentale dei soggetti istituzionali preposti alla loro cura (…). Il processo di semplificazione, laddove, incida sulla cura degli interessi pubblici, non può legittimare forme di ‘decadenza’ della tutela di taluni interessi, in ragione della riduzione dei tempi; semmai esso impone il ricorso a modelli sanzionatori e/o di commissariamento a carico di soggetti istituzionali eventualmente inadempienti o ritardatari”.
[18] Per un inquadramento generale della cd. Riforma Madia, v. B.G. Mattarella, Il contesto e gli obiettivi della riforma. La riforma della Pubblica Amministrazione (legge 7 agosto 2015, n. 124), in Gior. dir. amm., 2015, 5, 621 ss.; E. Follieri, La riforma della pubblica amministrazione nella L. 7 agosto 2015, n. 124 ed il ruolo della dottrina, in www.giustamm.it, 2015, 11; M. Savino, Le riforme amministrative: la parabola della modernizzazione dello Stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 2, 641; M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della legge 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in www.federalismi.it, 2015, 17; D.U. Galetta, La trasparenza per un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione: un’analisi storico-evolutiva in una prospettiva di diritto comparato ed europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2016, 1019 ss.; F. de Leonardis, I principi generali dell’azione amministrativa, in Alb. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, cit., 2 ss.; S. Foà, La nuova trasparenza amministrativa, in Dir. amm., 2017, 65.
Sui risultati derivanti dall’applicazione della conferenza di servizi dopo la riforma Madia si richiama il sito www.italiasemplice.gov.it, creato dal Dipartimento della funzione pubblica, nel quale si trovano pubblicate tutte le richieste formulate e le problematiche proposte dalle amministrazioni pubbliche tramite un apposito help desk. In merito G. Vesperini, in Gior. dir. amm., 2017, 6, 697. Sul punto si richiama l’Analisi di impatto della regolazione (A.I.R.) relativa al decreto legislativo di riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi ai sensi dell’art. 2 della l. 7 agosto 2015, n. 124 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” (che richiama l’importante contributo della Regione Piemonte in Osservatorio sulla riforma amministrativa “La Conferenza di servizi – analisi empirica ed esperienze a confronto – aprile 2009”).
[19] La legge delega n. 124/2015 si era espressa a favore della partecipazione, indicando tra i princìpi e i criteri direttivi “modelli di istruttoria pubblica per garantire la partecipazione anche telematica degli interessati al procedimento, limitatamente alle ipotesi di adozione di provvedimenti di interesse generale, in alternativa a quanto previsto dall’art. 10, l. n. 241/1990”.
Sull’importanza della partecipazione nella conferenza di servizi, v. M. Conticelli, M. Gnes, C. Notarmuzzi, I micro-problemi dei procedimenti ovvero della difficoltà di decidere, in I nodi della pubblica amministrazione, cit., 229 ss.; M. Bombardelli, Le novità della riforma Madia – La nuova disciplina della conferenza di servizi, in Giur. it., 2016, 12, 2793. L’A. evidenzia che tale assenza è “troppo importante nel quadro delle modifiche previste dalla legge delega per pensare che il legislatore delegato non ci debba tornare”.
Sull’importanza della partecipazione, v. M. Nigro, Il nodo della partecipazione, in Scritti giuridici, II, Milano, 1996, rileva “la sempre più diffusa consapevolezza della insufficienza “democratica” della democrazia “costituita”, “organizzata” e la avvertita necessità di contrastare l’inesorabile processo verso la centralizzazione delle grandi scelte, anzitutto di quelle economiche e la connessa progressiva burocratizzazione e tecnicizzazione degli apparati (…) tentando di reintrodurre, nella macchina collettiva, l’uomo nella sua singolarità o nelle aggregazioni sociali immediate”; R. Chieppa, Mario Nigro e la disciplina del procedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubb., 2010, 667. Sulla democrazia partecipata F. Patroni Griffi, Autonomie locali e nuove forme di democrazia: ovvero, del recupero della partecipazione, relazione al Convegno su “Principio di sussidiarietà, servizi pubblici, procedure di democrazia partecipativa e deliberativa”, tenutosi in occasione della IX settimana di studi sulle autonomie locali, Università del Piemonte Orientale, Alessandria 8-9 maggio 2017, in www.giustizia-amministrativa.it. L’A. rileva che “può sembrare, e in gran parte lo è, che la partecipazione al procedimento amministrativo nei suoi termini classici sia qualcosa di distante dall’idea di partecipazione come forma di una nuova democrazia (…). Ma se si tiene presente che la partecipazione nel procedimento è stata vista, al di là del dato garantista del contraddittorio, come “partecipazione collaborativa” finalizzata alla ponderazione degli interessi pubblici e dei privati, mi sembra che le acquisizioni teoriche, con ricadute pratiche, dei più recenti studi sul procedimento e la stessa disciplina positiva che dal 1990 ha avuto grande impulso, possano avere risvolti utili nel dibattito sul recupero di partecipazione in una visione moderna di democrazia non a caso definitiva partecipativa o deliberativa”.
R. Dipace, La resistenza degli interessi sensibili, cit., 229, rileva che “i continui innesti normativi, nel creare una disciplina sovrabbondante dell’istituto, stanno trasformando quello che doveva essere il paradigma di un nuovo modo di concepire i rapporti tra i pubblici poteri in chiave di semplificazione e di coordinamento tra interessi e non di ‘complicazione’; la conferenza doveva servire a rispondere alle sfide della complessità, ma la sua attuale disciplina dimostra che a tale sfida si stenta a dare una risposta adeguata”.
[20] F. de Leonardis F., Il silenzio assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull’art 17 bis introdotto dalla cd. riforma Madia, in www.federalismi.it, 2015.
[21] R. Ferrara, Introduzione, in R. Ferrara (a cura di), La valutazione di impatto ambientale, cit., 28.
[22] Sulla centralità dell’amministrazione procedente, v. S. Civitarese Matteucci, Conferenza di servizi, in Enc. dir., Annali, II, Agg., Milano, 2009, 271.
[23] M. Brocca, Interessi ambientali e decisioni amministrative. Profili critici e nuove dinamiche, Torino, 2018, 296, il quale rileva che “la devoluzione al Consiglio dei ministri è configurata come extrema ratio e, peraltro, anche in questa sede l’organo non è chiamato a una valutazione risolutiva netta, incentrata sulla mera alternativa di accoglimento o meno dell’opposizione, perché sono possibili soluzioni intermedie, come l’accoglimento parziale dell’opposizione con modifica diretta del contenuto della determinazione di conclusione della conferenza”.
[24] S. De Paolis, Il d.lgs. n. 127/2016. La nuova disciplina generale della conferenza di servizi, in M.A. Sandulli (a cura di), Le nuove regole della semplificazione amministrativa, Milano, 2016, 56.
[25] Sui dubbi di una semplificazione in materia ambientale, V. Parisio, Tutela dei valori ambientali, paesaggistico territoriali e semplificazione dell’azione amministrativa alla luce della l. 7 agosto 1990 n. 241, 1991, 26; G. Cugurra, La semplificazione del procedimento amministrativo nell’art. 17 della l. 15 maggio 1997 n. 127, in Dir. amm., 1998, 479; F. Merusi, V. Giomi, Silenzio della pubblica amministrazione, in V. Italia (a cura di), L’azione amministrativa, Milano, 2005, 716; G. Sciullo, ‘Interessi differenziati’ e procedimento amministrativo, in Riv. giur. urb., 2016, 58.
Diverso è stato, invece, l’orientamento della prevalente dottrina per la quale si v. G. Vesperini, Celerità dell’azione amministrativa, tutela di interessi ambientali e regole di utilizzazione del silenzio assenso: alcune osservazioni in margine ad una recente decisione della corte di giustizia delle comunità europee, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1992, 909; G. Morbidelli, Il silenzio assenso, in V. Cerulli Irelli (a cura di), La disciplina generale dell’azione amministrativa. Saggi ordinati in sistema, Napoli, 267; Id., Il regime amministrativo speciale dell’ambiente, in Scritti in onore di Alberto Predieri, II, Milano, 1996, 1122; M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente. Come sistema complesso, adattativo, comune, cit., 252; F. Fonderico, voce Ambiente (tutela dell’), in Enc. Giur. Treccani, Agg. Vol. XVI, Roma, 2007, 8; F. de Leonardis, Semplificazioni e ambiente, in Aa.Vv., Rapporto 2015 di Italia decide. Semplificare è possibile: come le pubbliche amministrazioni potrebbero fare pace con le imprese, Bologna, 2015, 432.
[26] Si condivide quanto affermato da E. Scotti, La semplificazione della conferenza di servizi, cit., 213, la quale osserva che “è comunque evidente che le regole del procedimento divengono fondamentali; ed esse dovrebbero assicurare non solo la rapidità delle decisioni, ma anche una corretta definizione del concreto assetto degli interessi. Dovrebbero, cioè, garantire un ambiente adeguato al bilanciamento tra opposti interessi. È qui che si manifesta il lato più debole della conferenza: il meccanismo è nel tempo diventato assai complesso, volto a comprimere l’autonomia dell’amministrazione e la razionalità del procedimento attraverso misure di semplificazione fatte di automatismi, quali il silenzio assenso, decadenze, inammissibilità, requisiti formali per l’espressione di dissensi rilevanti, pesi non specificati di maggioranze e minoranze, non chiare posizioni di primazia dell’amministrazione procedente, selezionata sulla base di un criterio puramente formale e non di una posizione di legittimazione sostanziale”.
In giurisprudenza, sul necessario bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, v. Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85, in Giur. cost., 2013, 1494, nota di V. Onida, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente.
[27] Per una riflessione su questo tema, v. R. Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo, cit., 149.
[28] Sulle funzioni della conferenza di servizi, v. L. De Lucia, F. Luciani, Contributo allo studio della conferenza di servizi decisoria, in Studi in onore di G. Guarino, Padova, 1998, II, 61 ss.; F.G. Scoca, Analisi giuridica della conferenza di servizi, in Dir. amm., 1999, 255.
[29] R. Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo, cit., 185, osserva che “ogni problema relativo alla semplificazione amministrativa, in vista dell’incremento del tasso delle performance dell’attività amministrativa, è intimamente implicato e connesso con il più generale problema della revisione della forma di Stato, al punto che la riforma della pubblica amministrazione in senso proprio ne costituisce un profilo peculiare, e comunque fondamentale: non solo a una certa data fissa, ma, per così dire, dinamicamente e continuativamente, nel senso che ogni intervento sulla forma dello Stato si riflette sull’organizzazione – e dunque sulla struttura e sulle funzioni degli apparati amministrativi – così come, le riforme puramente amministrative possono postulare, per il loro compimento, ritocchi e/o aggiustamenti della forma costituzionale dello Stato”.
[30] F. Risso, La conferenza di servizi: strumento di composizione dei conflitti?, in www.giustizia-amministrativa.it, osserva, in modo condivisibile, che l’amministrazione che indice la conferenza, inoltre, non sempre è capace di contemperare gli interessi coinvolti e quindi di comporre il conflitto. A tale proposito sarebbe auspicabile l’introduzione di percorsi di formazione obbligatoria per i dipendenti pubblici che debbono gestire le conferenze di servizi, non solo in tema di procedimento amministrativo, ma anche di gestione delle dinamiche organizzative e di negoziazione pubblica. Spesso poi l’Amministrazione che indice la conferenza ha paura di decidere: teme le possibili eventuali azioni giudiziarie con le connesse richieste risarcitorie, teme possibili interventi della Corte dei Conti, della Procura della Repubblica, dell’ANAC e delle altre autorità indipendenti eventualmente coinvolte. Sullo sfondo, infine, il non soddisfacente funzionamento della conferenza di servizi trova la sua causa in un problema di ordine generale, la crisi del processo di decisione pubblica”.
M. Santini, La nuova conferenza di servizi dopo la Riforma Madia, Roma, 2016, 149. L’A. nella premessa evidenzia la necessità di un “processo di riconversione dei modelli culturali che attualmente dominano la pubblica amministrazione del nostro paese. Riconversione che dovrà pertanto appuntarsi non più soltanto su operazioni di tipo normativo ma anche – e soprattutto – su interventi (pure di tipo formativo) che possano contribuire a sviluppare nuovi e diversi modi e capacità di decidere in capo ai pubblici funzionari”.
Sul punto S. Foà, La perdita di credibilità dell’apparato amministrativo come valore costituzionale e riferimento per il dibattito sulle riforme istituzionali, in www.federalismi.it, 2018, 1.
[31] Emblematica pare la pronuncia del Cons. Stato, Sez. V, 6 novembre 2018, n. 6273, in www.giustizia-amministrativa.iti, in cui si afferma che“l’ARPA, non essendo un soggetto pubblico con competenze proprie da esprimere nella conferenza di servizi decisoria, convocata dalla Regione, non è titolare di una posizione qualificata nel procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione unica, prevista dall’art. 12, d.lgs. n. 387/2003, per la realizzazione di impianti energetici alimentati da fonti rinnovabili”.
Allo stesso tempo, v. Cons. Stato, Comm. Spec., 27 aprile 2018, n. 1127, in Foro amm., 2018, 4, 653, in cui si afferma che “per quanto riguarda l’ambito di applicazione dell’istituto della conferenza di servizi e più in particolare del rappresentante unico nel caso previsto dall’art. 29 quater, decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ed in relazione al quesito se l’ISPRA debba partecipare alla conferenza di servizi ovvero se la ‘proposta’di tale istituto debba essere, invece, considerata come preesistente e costituire dunque l’oggetto della conferenza stessa, deve ritenersi che oggetto della conferenza di servizi è l’originaria domanda dell’interessato al rilascio dell’AIA, mentre la ‘proposta’ dell’ISPRA rappresenta uno degli apporti istruttori necessari per decidere, e non come tale l’oggetto della conferenza stessa. Il termine ‘proposta’, riferito ad un atto di avviso qualificato e contrapposto a quello di ‘parere’, utilizzato per l’apporto dell’Agenzia regionale ovvero provinciale, può trovare giustificazione in base alla diversa natura dei soggetti coinvolti, dato che l’ISPRA è un ente non economico statale, mentre le agenzie sono articolazioni degli enti locali di rispettivo riferimento. Ne consegue che l’ISPRA ha pieno titolo per partecipare alla conferenza con un proprio rappresentante, distinto dal rappresentante unico delle amministrazioni statali”. La medesima Comm. Spec. osserva che “con riguardo all’ambito di applicazione dell’espressione ‘amministrazioni statali’ contenuta nel c. 4 dell’art. 14 ter della l. 7 agosto 1990, n. 241 ed in riferimento a quale sia, nel caso in cui siano coinvolti enti pubblici non economici nazionali, che sono vigilati da amministrazioni dello Stato, l’ambito di rappresentatività da attribuire al rappresentante unico delle amministrazioni dello Stato, risulta coerente con la logica del sistema che l’ente in questione e l’amministrazione vigilante siano rappresentati da soggetti diversi: l’obiettivo di semplificazione perseguito dalle norme sulla conferenza di servizi non può essere perseguito in modo tale da confondere interessi distinti”.
In dottrina, si condivide quanto osservato da M. Bombardelli, Il silenzio assenso tra amministrazioni e il rischio di eccesso di velocità nelle accelerazioni procedimentali, cit., 10, il quale rileva che “la riorganizzazione deve derivare da un intervento complessivo rivolto in modo specifico a modificare sia le relazioni tra amministrazioni diverse, sia quelle tra amministrazione e privati. Nei rapporti fra amministrazioni, in particolare, occorre superare le difficoltà del dialogo e annullare in radice quella sorta di ‘potere di veto’ che sulla base della distribuzione formale delle competenze ogni amministrazione è in grado di esercitare rispetto al flusso complessivo dell’attività, introducendo in essa rilevanti fenomeni di complicazione. Per questo, ad esempio, occorre cominciare a prendere finalmente sul serio i criteri organizzativi già previsti dall’art. 2, d.lgs. n. 165/2001 - vale a dire il dovere di comunicazione interna ed esterna, l’interconnessione, l’ampia flessibilità e la funzionalità rispetto ai compiti - imponendo all’amministrazione di metterli in pratica anche quando questo richiede di superare la distinzione verticale delle competenze. Dall’altro lato, invece, occorre operare per migliorare la capacità del privato di interagire con la P.A., favorendo un percorso di ‘capacitazione’ dei cittadini e delle imprese, rivolto a renderli consapevoli di come è articolata e come si svolge l’attività dell’amministrazione e di porsi quindi di fronte ad essa su un piano maggiormente paritario, con capacità propositiva e con un atteggiamento collaborativo, idoneo come tale a ridurre la complicazione”.
Sul punto v. ancora F. de Leonardis, Il silenzio-assenso in materia ambientale, cit., 9 ss., secondo il quale si deve considerare, in particolare che sel’amministrazione non viene dotata di strutture, personale e mezzi effettivamente idonei a svolgere i propri compiti entro i termini fissati dallalegge, questa di fatto si trova ad essere una legge “che chiede l’impossibile” e che dunque risulta criticabile nella sua stessa natura di fonte del diritto. Sull’esigenza di fondare il rapporto fra privato e amministrazione puntando anche sulla ‘capacitazione’ del primo, v. G. Arena, Valori costituzionali e ruolo dell’amministrazione, in Studi in onore di Vittorio Ottaviano, 1993, I, 3 ss.; U. Allegretti, Valori costituzionali e pubblica amministrazione: un nuovo inizio, in U. Allegretti (a cura di), Amministrazione pubblica e Costituzione, Padova, 1996, 218 ss.; Id.,L’amministrazione dall’attuazione costituzionale alla democrazia partecipativa, Milano, 2009, 324.
[32] Ai sensi dell’art. 47, d.lgs. n. 85/2005, Trasmissione dei documenti tra le pubbliche amministrazioni. 1. Le comunicazioni di documenti tra le pubbliche amministrazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta elettronica o in cooperazione applicativa; esse sono valide ai fini del procedimento amministrativo una volta che ne sia verificata la provenienza. Il documento può essere, altresì, reso disponibile previa comunicazione delle modalità di accesso telematico allo stesso. 1 bis. L’inosservanza della disposizione di cui al comma 1, ferma restando l’eventuale responsabilità per danno erariale, comporta responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare. 2. Ai fini della verifica della provenienza le comunicazioni sono valide se: a) sono sottoscritte con firma digitale o altro tipo di firma elettronica qualificata; b) ovvero sono dotate di segnatura di protocollo di cui all’art. 55 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445; c) ovvero è comunque possibile accertarne altrimenti la provenienza, secondo quanto previsto dalla normativa vigente o dalle Linee guida. È in ogni caso esclusa la trasmissione di documenti a mezzo fax; d) ovvero trasmesse attraverso sistemi di posta elettronica certificata di cui al d.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68. 3. I soggetti di cui all’art. 2, c. 2, lett. a) e b), provvedono ad istituire e pubblicare nell’Indice dei domicili digitali delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi almeno una casella di posta elettronica certificata per ciascun registro di protocollo. Le pubbliche amministrazioni utilizzano per le comunicazioni tra l’amministrazione ed i propri dipendenti la posta elettronica o altri strumenti informatici di comunicazione nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali e previa informativa agli interessati in merito al grado di riservatezza degli strumenti utilizzati.
[33] In questi termini, L. De Lucia, La conferenza di servizi nel d.lgs. 30 giugno 2016 n. 127, cit., 21. Contra, S. Battini, La trasformazione della conferenza di servizi e il sogno di Chuange-Tzu, in S. Battini (a cura di), La nuova conferenza di servizi, cit., rileva che “la conferenza semplificata risponde allo scopo di distinguere, secondo il principio di adeguatezza, tipi di conferenze diversi per categorie di decisioni differenti. Per le decisioni più semplici, la conferenza con riunione può rappresentare perfino una soluzione di complicazione, mentre può risultare utile come strumento che della conferenza di servizi tradizionale presenta alcuni tratti, come le istruttorie parallele e il dialogo telematico, ma non la riunione contestuale”.
[34] S. Cassese, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo Stato, cit., 601, osserva che “la conferenza di servizi non è solo il luogo nel quale si giustappongono volontà che si manifesterebbero, altrimenti, in sequenza, con la conseguenza, quindi, soltanto di rendere più rapida l’azione amministrativa. La conferenza è molto di più: è il luogo dello scambio, dove, con concessioni reciproche, si può raggiungere una conclusione”.
[35] P. Marzaro, Leale collaborazione e raccordo tra amministrazioni, cit., 926, osserva che “visto sotto il profilo della leale collaborazione tra amministrazioni, peraltro, questo meccanismo non può dirsi a priori confliggente: ma a patto che, nel rispetto dei canoni tipici di questo principio, i termini fissati appaiano adeguati, e a questo proposito si devono rilevare alcune zone d’ombra nella disciplina dettata dall’art. 14 bis, LPA, che si muove tra spazi di discrezionalità e limiti normativamente previsti”.
[36] Il criterio strettamente quantitativo è stato sostenuto da P. Marzaro, Il coordinamento orizzontale tra amministrazioni, cit., 25. Contra, L. De Lucia, La conferenza di servizi nel d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127, 21, il quale considera tale distinzione fondarsi “su un labilissimo dato testuale”. Si veda, altresì, il parere del Cons. Stato, Comm. Spec., n. 890/2016, cit., con il quale s’invita il governo a chiarire il rapporto tra la conferenza di servizi e l’art. 17 bis, LPA, “il quale risulta a propria volta finalizzato ad acquisire secondo una particolare modalità ulteriormente semplificata per silentium i medesimi atti di assenso”.
[37] In questi termini, L. De Lucia, La conferenza di servizi, cit., 22. Cfr., altresì, P. Marzaro, Silenzio assenso tra amministrazioni, cit., 28, in cui si afferma che “il coordinamento orizzontale tra amministrazioni si muoverà, dunque, lungo una linea che va dalla decisione pluristrutturata più semplice a quella più complessa; dall’art. 17 bis, quando il provvedimento richiede l’acquisizione di un solo atto di consenso, e dunque vi sia una sola amministrazione co-decidente, all’art. 14, quando sia coinvolta una pluralità di amministrazioni, accanto a quella procedente”. S. Battini, La trasformazione della conferenza di servizi, cit., 21, osserva che “la disciplina della conferenza semplificata assorbe e persino sopravanza quella del silenzio assenso fra amministrazioni, introdotto dall’art. 3 della stessa l. n. 124/2015: i due istituti sono sovrapponibili e si coordinano nel senso che l’uno si applica in casi di decisione pluristrutturata con due amministrazioni, l’altro nei casi di decisioni pluristrutturate complesse, che coinvolgono un numero più elevato di amministrazioni”.
[38] Sulla necessità di considerare anche le intese tra gli atti di assenso comunque denominati e acquisibili sia con la conferenza di servizi, sia con il silenzio assenso, v. F. Scalia, Prospettive e profili problematici della nuova conferenza di servizi, cit., 634, il quale osserva che “non si vedono difficoltà nel comprendere anche le intese tra gli assensi comunque denominati acquisibili con entrambi gli strumenti. Se il silenzio amministrativo è, al pari della conferenza di servizi, uno strumento di coordinamento orizzontale tra amministrazioni codecidenti, esso deve poter operare anche nei rapporti tra Stato e regione e anche quando la norma imponga l’acquisizione dell’intesa di quest’ultima. Ciò salvo che la norma stessa preveda l’unanimità dei consensi (è il caso, ad esempio, dell’accordo di programma disciplinato dall’art. 34 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), ipotesi in cui l’intesa non è acquisibile tacitamente neanche in sede di conferenza di servizi”. Contra, L. De Lucia, La conferenza di servizi, cit., 21, il quale rileva che per evidenti ragioni costituzionali, l’art. 17 bis non menzioni le intese. Ancora, F. Scalia, Prospettive e profili problematici della nuova conferenza di servizi, cit., 634, rileva che “non paiono condivisibili i rilievi di una possibile illegittimità costituzionale della norma per la sua applicabilità anche a materie di competenza regionale. Invero, a tacer del fatto che tale profilo non è stato colto dalle stesse Regioni, che non hanno impugnato la norma dinanzi alla Corte costituzionale, la legittimità dell’estensione del suo ambito di applicazione alle Regioni ed enti locali è garantita dall’art. 117, c. 2, lett. m), Cost., che attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. L’art. 29, c. 2 ter, della l. n. 241/1990 riferisce ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, c. 2, lett. m) Cost. le disposizioni della legge concernenti la dichiarazione di inizio attività e il silenzio assenso. Il generico richiamo al silenzio assenso non è da ritenersi riferito al solo istituto operante su istanza del privato e disciplinato dall’art. 20 della legge, quanto anche al nuovo istituto operante tra amministrazioni, e ciò sia per il dato letterale (la norma non distingue le due ipotesi oggi disciplinate, sia per il profilo logico-sistematico, essendo entrambi gli istituti informati ai medesimi obiettivi di semplificazione ed accelerazione”. Di avviso diverso, E. Scotti, Il silenzio assenso tra amministrazioni, cit., 570, la quale rileva “nell’estensione dell’applicazione del nuovo istituto alle amministrazioni regionali e locali un profilo di illegittimità costituzionale, in quanto si determinerebbe così una disciplina generale delle decisioni complesse che supera lo stesso autolimite posto dall’art. 29, c. 1, all’ambito della disciplina della l. n. 241/1990 e che vorrebbe applicarsi universalmente, a prescindere dall’amministrazione coinvolta e a prescindere dalla materia (e dunque, dalla competenza legislativa, statale o regionale coinvolta)”. P. Marzaro, Silenzio assenso tra amministrazioni, cit., 13, individua il fondamento costituzionale dell’art. 17 bis non tanto nell’art. 117, c. 2, lett. m) Cost., tramite l’art. 29, c. 2 ter, ma piuttosto “direttamente nella giurisprudenza costituzionale in materia di semplificazione, da cui si possono trarre innumerevoli segni circa l’applicabilità dei regimi di semplificazione alla generalità delle amministrazioni pubbliche in quanto attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni di cui alla lett. m) dell’art. 117, c. 2, Cost.”.
[39] Ai sensi dell’art. 14 bis, c. 3, LPA, “entro il termine di cui al c. 2, lett. c), le amministrazioni coinvolte rendono le proprie determinazioni, relative alla decisione oggetto della conferenza. Tali determinazioni, congruamente motivate, sono formulate in termini di assenso o dissenso e indicano, ove possibile, le modifiche eventualmente necessarie ai fini dell’assenso. Le prescrizioni o condizioni eventualmente indicate ai fini dell’assenso o del superamento del dissenso sono espresse in modo chiaro e analitico e specificano se sono relative a un vincolo derivante da una disposizione normativa o da un atto amministrativo generale ovvero discrezionalmente apposte per la migliore tutela dell’interesse pubblico”.
Cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 22 gennaio 2019, n. 38, in Foro amm., 2019, 1, 186, in cui si afferma che “l’espressione — attraverso la relazione dell’’autorità (regionale o, in subdelega, comunale) chiamata ex art. 146, c. 5, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 alla cogestione della tutela paesaggistica delle aree soggetta a tutela — di un motivato parere negativo, in ordine alla possibilità del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, implica l’impossibilità di qualificare come silenzio assenso la mancata partecipazione del Ministero alla conferenza di servizi convocata per definire la domanda autorizzatoria”.
[40] In dottrina, P. Marzaro, Leale collaborazione e raccordo tra amministrazioni, cit., 929, rileva che “si può certo affermare che la disciplina del dissenso costruttivo, ulteriormente affinata dal d.lgs. n. 126/2016, faccia di questo istituto il principale segno dell’applicazione dei canoni di leale collaborazione e gli istituti di raccordo tra amministrazioni disciplinati dalla l. n. 241/1990”.
Sui dissensi espressi all’esterno della conferenza di servizi, v. Cons. Stato, Sez. V, 18 dicembre 2015, n. 5749, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “ritiene legittimo un dissenso manifestato in modo chiaro e motivato, anche a mezzo di note scritte, in ragione del carattere imprescindibile dell’apporto istruttorio di competenza delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili di rilievo costituzionale nei confronti di provvedimenti autorizzatori di opere aventi un impatto sulla collettività, nonché, laddove queste siano sovraordinate rispetto all’amministrazione procedente, dell’effetto impeditivo della decisione finale (…) e conseguente devoluzione dell’affare al vertice dell’organizzazione amministrativa nazionale”.
Sul dissenso postumo, v. C. Carrera, Interessi sensibili e dissenso espresso fuori dalla conferenza di servizi, in Urb. app., 2016, 577.
In giurisprudenza, v. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 22 ottobre 2019, n. 12125, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “la mancata partecipazione alla Conferenza di Servizi di un ente fa sì che il parere espresso dopo la definizione del procedimento sia tardivo e che si sia formato il silenzio assenso”; Cons. Stato, Sez. V, 9 maggio 2018, n. 2790, ivi, afferma che “in sede di conferenza di servizi le amministrazioni convocate sono obbligate ad esprimere il proprio motivato dissenso rispetto all’oggetto dell’iniziativa procedimentale; nel caso in cui il dissenso è espresso da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico -territoriale, del patrimonio storico-artistico (da convocare a pena di invalidità del procedimento, ove si faccia comunque questione di interessi da loro istituzionalmente curati), l’eventuale superamento del dissenso deve seguire le specifiche norme procedimentali appositamente stabilite dallo stesso art. 14 quater”.
Cfr. TAR Umbria, Sez. I, 20 febbraio 2019, n. 79, in Riv. giur. edil., 2019, 3, I, 741, afferma che “il dissenso espresso da una amministrazione in sede di conferenza di servizi ex art. 14 quater, l. n. 241/1990, deve rispondere ai princìpi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, predicati dall’art. 97 Cost., non potendo limitarsi ad una mera sterile opposizione al progetto in esame, ma dovendo essere ‘costruttivo’; in altri termini, esso deve essere congruamente motivato, non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscono oggetto della conferenza medesima e deve recare le specifiche indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell’assenso”.
Cfr., altresì, Cons. Stato, Comm. Spec., 27 aprile 2018, n. 1127, in Foro amm., 2018, 4, 653, in cui si afferma che “per quanto riguarda la possibilità che il rappresentante unico dello Stato, dopo aver reso il proprio parere, lo modifichi, all’interrogativo se il rappresentante unico possa, sino a chiusura della conferenza, rivedere la propria posizione si deve rispondere senz’altro affermativamente. È, però, del tutto possibile che si verifichi l’ulteriore caso in cui nel corso della conferenza stessa altre amministrazioni presenti rendano noti elementi nuovi, che rendono necessaria una valutazione ulteriore. In tal caso, il rappresentante dovrà, eventualmente richiedendo a tal fine un breve rinvio della discussione, comunicare quanto emerso alle amministrazioni interessate, consultandole velocemente, e tener conto dei rilievi ulteriori che esse dovessero formulare. In questo caso, però, non si avrebbe un «nuovo parere», ma semplicemente una modalità ulteriore di giungere all’unico atto di assenso rilevante, ovvero quello che risulta dal verbale conclusivo della conferenza, che in ipotesi si chiuderebbe solo dopo aver dato al rappresentante unico la possibilità di consultarsi ulteriormente con le amministrazioni rappresentate. Tuttavia, nel caso in cui queste modalità non fossero rispettate, ovvero nel caso in cui il rappresentante unico si esprimesse nella conferenza senza alcun previo raccordo con le amministrazioni rappresentate, fatta salva la eventuale responsabilità personale, amministrativa o disciplinare, del rappresentante stesso, non si addiverrebbe per ciò solo all’invalidità della determinazione conclusiva della conferenza, essendo i rapporti interni fra rappresentato e rappresentante inopponibili a chi entra in relazione giuridica con questi”.
[41] TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 5 giugno 2019, n. 1502, in Foro amm., 2019, 6, 1120, in cui si afferma che “le amministrazioni che hanno adottato atti endoprocedimentali in seno alla conferenza non possono operare in autotutela per far venire meno l’assenso espresso, in quanto la conferenza di servizi rappresenta un modulo procedimentale che conduce all’adozione di un provvedimento che assorbe gli atti riconducibili alle amministrazioni che hanno partecipato alla conferenza o che, regolarmente invitate, avrebbero dovuto prendervi parte. Diversamente opinando del resto si porrebbe nel nulla la disciplina dettata in tema di dissenso o di mancata partecipazione all’interno della conferenza di servizi. Spetta, quindi, all’amministrazione procedente valutare se indire una nuova conferenza di servizi avente ad oggetto il riesame dell’atto adottato secondo le modalità già seguite in occasione dell’adozione del provvedimento di primo grado”.
[42] TAR Umbria, Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 106, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si osserva che “ove un provvedimento amministrativo sia stato emanato a seguito di conferenza di servizi, l’eventuale esercizio del potere di riesame in autotutela deve seguire il medesimo procedimento di emanazione degli atti che si intende rimuovere o modificare, dovendosi pertanto convocare nuovamente la conferenza, alla quale dovranno partecipare tutte le Amministrazioni precedentemente intervenute, in base al principio del contrarius actus”.
[43] Cass., Sez. Un., 16 aprile 2018, n. 9338, in Riv. giur. edil., 2018, 4, I, 958, afferma che “l’espressione — in seno alla conferenza di servizi — di un dissenso motivato da parte di un’amministrazione preposta alla tutela di un interesse sensibile, quale quello paesaggistico, impedisce alla conferenza di servizi di procedere ulteriormente e rende doverosa, ai fini del superamento del dissenso espresso, la rimessione della decisione al Consiglio dei ministri, pena il difetto assoluto di attribuzione dell’amministrazione procedente ai fini dell’esercizio del potere provvedimentale”.
Cfr., altresì, TAR Molise, Sez. I, 7 ottobre 2019, n. 316, in Foro amm., 2019, 10, 1731, in cui si afferma che “nell’ipotesi in cui un’amministrazione titolare della tutela di interessi qualificati esprima il proprio dissenso in linea con un orientamento prevalente dello stesso tenore (cioè, come nella specie, negativo), la conferenza di servizi si conclude con l’adozione da parte dell’autorità procedente della determinazione motivata di conclusione del procedimento come previsto dal citato articolo 14 ter, c. 6 bis, senza attivare la rimessione al Consiglio dei Ministri. La ratio della norma speciale posta dall’art. 14 quater, c. 3, è, in altri termini, di rimettere la questione al Consiglio dei Ministri al fine di evitare che la conferenza di servizi, in presenza di interessi particolarmente rilevanti, si concluda in base al criterio della prevalenza con possibile pregiudizio di valori quali l’ambiente, il paesaggio, il patrimonio storico-artistico, la salute e la pubblica incolumità”.
[44] Si esprime in questi termini, G. Mari, Primarietà’ degli interessi sensibili e relativa garanzia nel silenzio assenso tra PP.AA. e nella conferenza di servizi, cit., 306 ss., la quale, in modo condivisibile, considerandolo un elemento chiave nell’analisi dell’art. 17 bis, LPA, afferma che “la disciplina del ‘dissenso imperfetto/assenso’ applicata alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale e del patrimonio culturale risulta incoerente con quanto prescritto dall’art. 3 quater, c. 2, del Codice, principio dello sviluppo sostenibile, ai sensi del quale ‘anche l’attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell’ambito della scolta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità degli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione’. La disposizione sancisce che in qualsiasi procedimento amministrativo, che comporti il bilanciamento di istanze e interessi pubblici e privati contrapposti, l’interesse alla tutela ambientale e del patrimonio culturale (comprensivo come noto di beni culturali e beni paesaggistici) deve essere tenuto in prioritaria considerazione nella ponderazione e comparazione degli interessi in gioco”.
[45] Nella disciplina precedente al d.lgs. n. 127/2016, il dissenso qualificato, proprio perché ricondotto a interessi sensibili, poteva essere superato, demandando la decisione al Consiglio dei Ministri. In questo caso, il dissenso dell’amministrazione potatrice di un interesse sensibile, se pur minoritaria, faceva sostituire, ai sensi dell’art. 120 Cost., l’amministrazione procedente con il Consiglio dei Ministri, cui era attribuito il potere di valutare gli interessi confliggenti, risolvendo la questione con un atto di alta amministrazione, dotato della più ampia discrezionalità. Un atto che da una parte non poteva non applicare le valutazioni tecniche, ma dall’altra non poteva la decisione esaurirsi nel giudizio tecnico stesso.
[46] Cfr., sul tema, le Linee guida operative del 10 gennaio 2013 del Consiglio dei Ministri.
[47] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 agosto 2014, n. 4374, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “spetta al responsabile del procedimento esercitare un potere discrezionale bilanciando le ragioni manifestate in seno alla conferenza, verificando in che termini si delinei la prevalenza del soddisfacimento degli interessi in gioco. Pertanto, il ruolo assunto dall’amministrazione procedente non è meramente notarile, ma di sintesi delle ragioni emerse, dovendone ponderare l’effettiva rilevanza per come sono state in concreto prospettate, al fine di esprimere un giudizio di prevalenza”.
[48] R. Dipace, La resistenza degli interessi sensibili, cit., 14, considera l’opposizione un atto dovuto, anche ai fini di responsabilità individuali, anche se “ciò sconfesserebbe, però, la ratio della soluzione adottata che si fonda sulla semplificazione e sulla celerità del provvedimento”.
[49] Secondo S. Battini, La trasformazione della conferenza di servizi, cit., 25, tale meccanismo introdotto dall’art. 14 quinquies, c. 1, LPA, “sposta gli equilibri non solo dopo la conferenza, ma anche nel corso di essa, modificando le dinamiche e i poteri negoziali degli attori. Ne esce rafforzata la posizione dell’amministrazione procedente: quanto più i potenziali dissenzienti sanno che l’eventuale ‘decisione’ adottata senza il loro consenso può essere ribaltata solo con l’esperimento vittorioso del rimedio oppositivo, tanto più essi saranno indotti ad accettare il compromesso per raggiungere una decisione unanime in sede di conferenza di servizi”.
G. Rossi, Funzioni e procedimenti, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, cit., 99, osserva che “la conferenza di servizi ha subìto rilevanti modifiche, che, nell’ottica di realizzare una semplificazione dell’azione amministrativa, hanno avuto l’effetto di rendere meno pervasiva la tutela dell’interesse ambientale. Il d.lgs. n. 127/2016, riformulando per intero la disciplina dell’istituto in esame, ha modificato il funzionamento dei meccanismi di superamento del dissenso”.
[50] R. Dipace, La logica della prevenzione nella disciplina della programmazione e progettazione di lavori pubblici, in Impatto ambientale e bilanciamento di interessi, cit., 302, il quale osserva che “per quanto la decisione di opposizione possa essere rimessa all’organo politico si ritiene che il dissenso qualificato, prima di essere espresso, debba essere frutto di un’attenta valutazione non solo tecnica in sede ministeriale e che, una volta espresso porterà nella maggior parte dei casi alla proposizione di un atto di opposizione. Sarebbe, infatti, ben difficile anche per il Ministro sconfessare l’indirizzo tecnico amministrativo dichiarato in seno alla conferenza di servizi. Inoltre, il Ministro nel decidere se proporre opposizione pone in essere valutazioni che riguardano esclusivamente il dissenso proposto dalla sua amministrazione e non pone in essere alcun filtro politico relativo a ulteriori interessi coinvolti. Il luogo deputato per operare valutazioni sia tecniche sia politiche in relazione alla risoluzione delle controversie rimane sempre il Consiglio dei ministri; si ritiene, pertanto, che tali valutazioni non possono essere anticipate alla fase di decisione in ordine alla proposizione della opposizione. Un eventuale nuovo indirizzo radicalmente difforme da quanto espresso in seno alla conferenza di servizi dovrebbe essere adeguatamente motivato dal Ministro ‘dissenziente del dissenso’, così come accade tutte le volte in cui l’organo della pubblica amministrazione competente ad adottare il provvedimento finale ritiene di non dover seguire le risultanze istruttorie raggiunte da responsabile del procedimento amministrativo. Ciò, peraltro, comporta che il diniego di proporre opposizione potrebbe essere oggetto di impugnazione dinanzi al giudice amministrativo per palese contraddittorietà con il provvedimento di dissenso espresso solo dieci giorni prima. Al di là di queste considerazioni, la soluzione legislativa sembra aver individuato un buon punto di equilibrio. Infatti, una volta proposta opposizione viene, come in passato, garantita un’adeguata e accurata valutazione delle ragioni del dissenso evidenziate da amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili e al tempo stesso rappresenta una soluzione che potrebbe comportare una semplificazione delle decisioni. Infatti, il rimedio oppositivo, eventuale e successivo, consente da un lato di semplificare la procedura, poiché interviene a deliberazione già acquisita e dall’altro, comunque, di valutare in sede ‘politica’ le ragioni degli interessi delle amministrazioni dissenzienti se l’intesa con le amministrazioni dissenzienti non viene trovata”.
[51] Si pensi, a titolo esemplificativo, all’art. 26, c. 2, il quale, in materia di valutazione di impatto ambientale, prevede l’esercizio del potere sostitutivo da parte del Consiglio dei ministri, in caso di ritardo dell’Autorità competente alla conclusione del procedimento di VIA. Si pensi ai poteri sostitutivi che può esercitare il Presidente del Consiglio dei ministri o il Consiglio dei Ministri, in tema di piani di bacino e di tutela delle acque e del suolo (artt. 66, c. 4, art. 67, c. 2, art. 75, c. 2, d.lgs. n. 152/2006). Si pensi all’art. 132 e art. 158, c. 2, d.lgs. n. 152/2006, sui poteri sostitutivi del Ministero dell’ambiente in tema di controlli degli scarichi e delle opere per il trasferimento di acqua.
Sul rapporto tra valutazioni politiche e valutazioni tecniche, v. Corte conti, Sez. controllo, 22 giugno 2010, n. 13, in Riv. corte conti, 2010, 3, 12, in cui si afferma che “non risponde ai dettami normativi, e quindi va ricusato il visto nell’ipotesi in cui - dati i compiti di coordinamento e vigilanza sull’attività del Ministero che l’art. 6, d.lgs. n. 300/1999 attribuisce al Segretario generale e che definiscono una dinamica di raccordo tra l’Autorità di vertice politico e l’organizzazione attiva, cui è attribuita l’azione amministrativa - non sia osservata la intrinseca diversità della natura delle competenze del Segretario generale rispetto ai compiti di gestione amministrativa attribuiti ai Direttori generali; non è consentito quindi lo svolgimento di compiti di direzione, sia pure ad interim, da parte del Segretario generale, attuata tramite il conferimento di un incarico di tale tipologia, avente funzione secondaria e latamente strumental-accessiva rispetto alle precipue funzioni di cui questi è titolare, non potendosi allora obliterare la procedura fissata dal d.lgs. n. 165/2001 e recepita dal d.m. n. 115/2009”.
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 9 ottobre 2009, n. 1738, in Ragiusan, 2009, 307, in cui si afferma che “gli atti del procedimento di bonifica dei siti d’interesse nazionale, compresi quelli conclusivi, rientrano nella competenza tecnico-gestionale degli organi esecutivi (dirigenti) poiché non contengono elementi di indirizzo politico-amministrativo che possono attrarre detta competenza nella sfera riservata agli organi di governo (i quali ultimi definiscono solo gli obiettivi e programmi da attuare, verificandone i risultati, il cui raggiungimento è riservato alla responsabilità dirigenziale). Ciò in forza del generale principio di distinzione tra attività di governo e attività di gestione che presiede l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni. L’applicazione di tale principio va del resto coordinata con quanto dispone l’art. 4, c. 3, d.lgs. n. 165/2001, secondo cui “le attribuzioni dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”. Detta conclusione è valida sia con riguardo allo schema procedimentale di cui all’art. 15 d.m. n. 471/1999 (precedente al richiamato d.lgs. n. 165/2001 e non avente natura legislativa), ancorché stabilisca che il progetto definitivo della bonifica venga approvato dal Ministro dell’ambiente (di concerto con i ministri dell’industria, del commercio e dell’artigianato e della sanità), sia nello schema procedimentale di cui all’art. 252, d.lgs. n. 152/2006, che attribuisce genericamente la competenza per la procedura di bonifica al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio (sentito il Ministero delle attività produttive)”.
[52] Sul punto, nella giurisprudenza costituzionale, v. Corte cost. 3 maggio 2013, n. 81, in www.giurcost.org, la quale ritiene non irragionevole, e compatibile con l’art. 97 Cost., l’attribuzione alla Giunta regionale, da parte della legge regionale sarda, del potere di decidere sulla VIA di interesse provinciale o regionale, considerato che tale potere, per espressa previsione legislativa, deve tenero conto dell’istruttoria compiuta dagli organi di gestione. Ciò risulta coerente, ad avviso della Consulta, con la particolare complessità della procedura, nella quale a verifiche di natura tecnica possono affiancarsi e intrecciarsi complesse valutazioni che, nel bilanciare fra loro una pluralità di interessi quali la tutela dell’ambiente, il governo del territorio e lo sviluppo economico, assumono indubbiamente un particolare rilievo politico”.
In dottrina, v. P. Marzaro, Leale collaborazione e raccordo tra amministrazioni, cit., osserva che “l’attribuzione al Ministro del potere di proporre opposizione, potere che, stando alla giurisprudenza della Consulta in materia di separazione tra politica e amministrazione, nel caso di specie dovrebbe collocarsi su quella “esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa”, la cui individuazione spetta al legislatore nel rispetto dei princìpi di cui all’art. 97 Cost., va ad affondare le proprie radici in quel ‘superprincipio’ di semplificazione, inteso come principio che ispira , e soprattutto conforma trasversalmente tutti i procedimenti (e a maggior ragione tutti quelli che reggono le decisioni complesse), sulla scia di un percorso argomentativo che il giudice costituzionale va ormai da tempo tracciando in modo sempre più netto nel corso degli ultimi anni e alla cui stregua la soluzione adottata con la riforma della conferenza di servizi potrebbe superare lo scrutinio di ragionevolezza richiesto dalla Corte, quando, appunto, si ponesse la questione della violazione del sopraricordato principio di separazione”.
A tal proposito, in modo condivisibile, L. De Lucia, La conferenza di servizi, cit., parla di potenziale rottura del sistema; P. Marzaro, Leale collaborazione e raccordo tra amministrazioni, cit., 944, in modo condivisibile, osserva che “questa scelta non può che sollevare molti dubbi, perché si presenta come incrinatura del principio costituzionale della separazione dei poteri, tra funzione di indirizzo politico e funzione di gestione, per di più aggravato, per un particolare settore dell’amministrazione, dall’esistenza di un dovere di neutralità dell’organo di indirizzo politico rispetto alla tutela del patrimonio culturale che la dottrina più attenta ricava dall’art. 9 Cost., riservando la funzione di gestione all’amministrazione, intesa come corpo tecnico e autonomo rispetto al governo”. Così, G. Vesperini, La tutela costituzionale del paesaggio (art 9 Cost.), in S. Battini, L. Casini, Gasperini, Vitale (a cura di), Codice di edilizia e urbanistica. I codici commentati, Milano, 2013, 8, secondo il quale l’art. 9 Cost., collocato all’interno dei princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, comporta la sottrazione della materia, per l’importanza e per la caratterizzazione essenziale alla Nazione e alla convivenza civile, alla disponibilità della contingente maggioranza politica e alla sua espressione legislativa. L’opzione per una salvaguardia che prescinda dagli indirizzi politici costituisce la base per il primato, nella valutazione pratica e concreta, delle valutazioni tecnico-professionali su quelle comparative di interessi. Su questo tema, v., inoltre, P. Marzaro, Epistemologie del paesaggio: natura e limiti del potere di valutazione delle amministrazioni, in Dir. pub., 2014, 843.
In giurisprudenza, v. Cons. Stato, Sez. VI, 23 luglio 2015, n. 3652, in www.giustizia-amministrativa.it.
[53] In questi termini, v. Cons. Stato, Sez. IV, 27 marzo 2017, n. 1392, in www.giustizia-amministrativa.it.
In dottrina, si ritiene di condividere l’analisi sul ruolo della politica in materia ambientale di G.L. Conti, La tutela dell’ambiente: prospettive di diritto pubblico della transizione, cit., il quale ha osservato che “la rappresentanza politica in campo ambientale si trova a dover dialogare con questioni che hanno bisogno di un sapere specialistico per essere oggetto di decisioni consapevoli e corrette, ma che sono nello stesso tempo anche oggetto di forti tensioni sociali, di grandi emozioni e di diffuse paure da parte della collettività. La ricerca di un valore su cui fondare la decisione pubblica e con il quale condividere la decisione in modo che essa stessa sia accettabile da parte dei cittadini sfugge al metodo parlamentare e sembra essere orientata verso diversi modelli di informazione, partecipazione e democrazia. (…). Nel diritto dell’ambiente ciò che essenzialmente si manifesta è la crisi della rappresentanza politica e dei partiti come strumento di legittimazione di scelte la cui razionalità non può dipendere esclusivamente dal principio di maggioranza e l’emergere di nuovi modelli di partecipazione dei cittadini allo Stato. Alla base dei problemi ambientali, spesso, molto spesso, vi sono dei timori non chiaramente percepiti e non esattamente comprensibili da parte dei cittadini, timori che hanno la consistenza di paure collettive e spingono i cittadini ad affidarsi a persone competenti e, per questo, in grado di gestire queste emergenze: lo scenario del principio di precauzione. Questi timori rappresentano il bisogno di normazione che il diritto dell’ambiente è chiamato a risolvere e si tratta di un bisogno per il quale la rappresentanza politica espressa dal Parlamento e dalle sue procedure o dal governo appare inadeguata e sta cedendo il passo a un insieme di soggetti accomunati da competenze tecniche e da saperi specialistici, i quali operano – nella coscienza della collettività – non troppo diversamente da antichi sciamani o moderni dentisti. Sono chiamati a risolvere problemi avvertiti come particolarmente gravi e si accetta tutto quello che ritengono corretto fare sulla base della fiducia nella loro capacità e non della comprensione delle loro spiegazioni. Dinanzi a questi autocrati, la funzione della rappresentanza politica cessa di essere quella di elaborare norme in base a un dialogo fra maggioranza e minoranze e con l’ausilio delle diverse informazioni che le procedure parlamentari possono acquisire ma diventa il controllo su chi effettivamente esercita il potere al di fuori di una diretta legittimazione democratica”.
[54] Così, G. Mari, Primarietà’ degli interessi sensibili e relativa garanzia nel silenzio assenso tra PP.AA. e nella conferenza di servizi, cit., 329.
[55] P. Carpentieri, La tutela dei beni culturali, cit., 14.
[56] Orientamento confermato in giurisprudenza. Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23 luglio 2015, n. 3652, in www.aedon.it, 2016, nota di F. Cortese, Le amministrazioni e il paesaggio, tra discorso di verità e discorso di volontà; G. Sigismondi, Valutazione paesaggistica e discrezionalità tecnica: il Consiglio di Stato pone alcuni punti fermi, in www.aedon.it, 2016; G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in www.aedon.it, 2016.
[57] Corte cost. 11 luglio 2012, n. 179, in Riv. giur. edil., 2012, 3, 576 ss., in cui si afferma che “è costituzionalmente illegittimo l’art. 49, c. 3, lett. b) d.l. 31 maggio 2010 n. 78, conv., con modif., in l. 30 luglio 2010 n. 122, nella parte in cui prevede che, in caso di dissenso espresso in sede di conferenza di servizi da una Regione o da una Provincia autonoma, in una delle materie di propria competenza, ove non sia stata raggiunta, entro il breve termine di trenta giorni, l’intesa, il Consiglio dei ministri delibera in esercizio del proprio potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle regioni o delle province autonome interessate’. Premesso che l’esistenza di un’esigenza unitaria che legittima l’intervento del legislatore statale anche in ordine alla disciplina di procedimenti complessi estranei alle sfere di competenza esclusiva statale affidati alla conferenza di servizi, in vista dell’obiettivo della accelerazione e semplificazione dell’azione amministrativa, non comporta che l’intera disciplina della conferenza di servizi, e dunque anche la disciplina del superamento del dissenso all’interno di essa, sia riconducibile ad una materia di competenza statale esclusiva, tenuto conto della varietà dei settori coinvolti, molti dei quali sono innegabilmente relativi anche a competenze regionali, dovendosi avere riguardo, al fine della individuazione delle materie, non alla qualificazione che di esse abbia dato il legislatore, ma all’oggetto ed alla disciplina delle medesime, la previsione dell’intervento unilaterale dello Stato, come mera conseguenza automatica del mancato raggiungimento dell’intesa, costituisce una violazione del principio di leale collaborazione con conseguente sacrificio delle sfere di competenza regionale, tanto più che la previsione di un termine così esiguo rende oltremodo complesso e difficoltoso lo svolgimento di una qualsivoglia trattativa, attribuendo automaticamente al Governo il potere di deliberare, senza che siano previste le necessarie idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze (sentt. n. 62, 348 del 1993, 339, 383 del 2005, 24 del 2007, 121, 313 del 2010, 33, 165, 248 del 2011)”.
[58] Ex multis, v. Corte cost. 14 gennaio 2016, n. 1, in Riv. giur. edil., 2016, 1-2, I, 26, in cui si afferma che “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, gli strumenti di cooperazione di diversi enti debbono prevedere meccanismi per il superamento delle divergenze, basati sulla reiterazione delle trattative o di specifici strumenti di mediazione. Se, da un lato, il superamento del dissenso deve essere reso possibile, anche con il prevalere della volontà di uno dei soggetti coinvolti, per evitare che l’inerzia di una delle parti determini un blocco procedimentale, impedendo ogni deliberazione, dall’altro, il principio di leale collaborazione non consente che l’assunzione unilaterale dell’atto da parte dell’autorità centrale sia mera conseguenza automatica del mancato raggiungimento dell’intesa entro un determinato periodo di tempo, specie quando il termine previsto è, come nel caso, alquanto breve, o dell’urgenza del provvedere. Il principio di leale collaborazione esige che le procedure volte a raggiungere l’intesa siano configurate in modo da consentire l’adeguato sviluppo delle trattative al fine di superare le divergenze”.
Cfr., altresì, Corte cost. 4 maggio 2016, n. 142, in www.giurcost.org, in riferimento al previgente art. 14 quater, LPA, e alle sue fasi di trattative preliminari per concordare interventi di mediazione per risolvere gli elementi del dissenso, afferma che “il meccanismo così descritto individua ‘idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze’, come questa Corte ha in più occasioni richiesto. Esso, infatti, impegna le parti secondo il modulo della leale collaborazione nella conduzione delle trattative, esigendo un motivato confronto sulle ragioni del reciproco dissenso, e, alla luce di questo, una progressiva contrazione della distanza che le separa. L’obbligo di formulare specifiche proposte di mediazione corrisponde all’obbligo dell’altra parte di prenderle in considerazione e di indicare le ragioni che ostano a un loro accoglimento. Nella progressione delle trattative la leale collaborazione, precludendo un ostinato rifiuto di soluzione di compromesso, è diretta a definire il contenuto della decisione in termini maggiormente condivisi. Risultato cui in qualche misura dovrebbe pervenirsi anche nell’ipotesi ultima che l’intesa non sia raggiunta e lo Stato debba perciò assumere la determinazione finale, che può basarsi sugli eventuali punti di contatto emersi nel corso delle trattative e sui quali un parziale consenso può reputarsi conseguito”.
[59] G. D’Amico, La composizione del dissenso di amministrazioni ad autonomia qualificata, cit., 129, ritiene l’attuale disciplina della conferenza di servizi conforme a Costituzione, dal momento che “nonostante l’evidente e significativa riduzione dei termini, il complessivo meccanismo delineato non fa venir meno la qualità del confronto. Da questo punto di vista, l’aver condizionato la proposizione dell’opposizione alla previa manifestazione di un dissenso motivato in seno alla conferenza contribuisce, non poco, a chiarire i termini della questione da definire e le diverse posizioni in campo, consentendo per questa via di annullare i potenziali effetti lesivi di un termine assai breve (dieci giorni) per lo svolgimento delle riunioni”.
[60] In questi termini si esprime F. Scalia, Prospettive e profili problematici della nuova conferenza di servizi, cit., 658; G. Sciullo, Interessi differenziati e procedimento amministrativo, cit., 20, rileva che “gli esiti della ponderazione non possono mai comportare il completo sacrificio dei ‘valori primari’. Il loro ‘nucleo essenziale’ richiede di essere in ogni caso salvaguardato. In questo senso la ‘primarietà’ si atteggia come ‘clausola di salvaguardia’ di tali valori nel confronto dialettico con altri interessi, pubblici o privati, confliggenti”.
In giurisprudenza, sul ‘sindacato debole’ sugli atti di alta amministrazione, v. Cons. Stato, Sez. VI, 4 febbraio 2014, n. 505, in Foro amm., 2014, 2, 441, in cui si afferma che “con tale suggestivo concetto di ‘sindacato debole’, come ben noto, si intende il giudizio espresso dal giudice amministrativo su provvedimenti che esprimono una discrezionalità tecnica riconosciuta in determinate materie della pubblica amministrazione, ponendo, in tal modo un limite alla statuizione finale resa dal giudice medesimo, il quale, dopo aver accertato in modo pieno i fatti ed aver verificato il processo logico valutativo svolto dall’autorità in base a regole tecniche o del buon agire amministrativo, anch’esse sindacabili, se ritiene le valutazioni dell’autorità corrette, ragionevoli, proporzionate e attendibili, non deve spingersi oltre fino ad esprimere proprie autonome scelte, perché, altrimenti, assumerebbe egli la titolarità del potere; ossia, in sostanza, il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve soltanto stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della conformità a parametri tecnici che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato”.
In dottrina, v. V. Cerulli Irelli, Sugli atti di ‘alta amministrazione’, in Giur. cost., 2013, 3, 1377.
[61] Sul punto, da tempo, M.R. Spasiano, La semplificazione amministrativa e la garanzia di effettività dell’esercizio del potere pubblico, cit., 44, rileva “che gli strumenti di raccordo devono accompagnarsi ad una nuova cultura dell’amministrazione pubblica, soprattutto un nuovo senso della relativa responsabilità, con una chiara percezione delle conseguenze dei comportamenti”.
Interessante anche la riflessione del Cons. Stato, Comm. Spec., n. 1640/2016, cit., in riferimento alla conferenza di servizi, il quale rileva che “il meccanismo costruito dalla legge non è sufficiente senza il ‘fattore umano’. L’amministrazione (rectius, l’amministratore) procedente deve infatti anche essere ‘capace’, da un punto di vista organizzativo-procedimentale, di condurre la conferenza di servizi verso la tempestiva assunzione della decisione finale – positiva o negativa che sia – conoscendo nel dettaglio e utilizzando tutti gli strumenti procedimentali che la legge gli offre (e che meglio gli offrirà in futuro). Deve essere ‘capace’, da un punto di vista professionale, di preferire, alla ricerca del compromesso tra amministrazioni, la soluzione, positiva o negativa che sia, del problema dei cittadini (soluzione che passa attraverso un efficace sintesi degli interessi pubblici in ciascuna fattispecie). Deve essere ‘capace’, da un punto di vista giuridico, di assumersi le sue responsabilità senza timori piuttosto che preferire soluzioni più prudenti, ma meno efficaci o addirittura inutili. Deve essere ‘capace’, da un punto di vista tecnico, di non limitarsi all’analisi dei profili giuridico-amministrativi nella valutazione dei diversi interessi pubblici, ma di considerare anche gli aspetti economici delle problematiche all’esame, misurando e quantificando l’impatto delle misure amministrative da adottare”.
[62] Sul tema, v. G. Pagliari, La decisione della conferenza di servizi, in M.A. Sandulli, a cura di, Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 772.
[63] Il tema è sviluppato da S. Tranquilli, cit., 532.
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