Oggi 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Giustizia Insieme ricorda lo stupro di Franca Rame. Si trattò di un episodio emblematico di violenza politica, avvenuto in un’epoca in cui l’emancipazione femminile avanzava con progressi importantissimi eppure era frenata da forti controspinte, a tutt’oggi non esaurite ed allora estremamente pervasive, ad ogni livello. Franca Rame non era una donna in condizioni di fragilità, era invece estremamente forte culturalmente e, grazie alla notorietà, socialmente. Questa forza, purtroppo, non la mise al riparo dal subire l’aggressione e fece anzi di lei un bersaglio particolarmente visibile, più facile di altri. La sua storia oggi ammonisce che la lotta alla violenza deve essere radicale, poiché nessuna delle risorse che una donna potrà mettere in campo le consentirà mai di sottrarsi alla violenza se il contesto sociale e culturale in cui ella vive ed agisce non è a sua volta attrezzato e determinato a tal fine.
Storia di uno stupro. Il corpo e le parole di Franca Rame.
di Sibilla Ottoni
Prendere la parola. Tradurre un pensiero in una forma; individuare un contenuto e portarlo verso l’esterno. Comunicarlo. Se dire è un atto, un’azione umana sorretta da volontà, comunicare è un atto sorretto da precisa intenzione. E tra gli atti comunicativi, sopra tutti si pone il gesto artistico, per cui la scelta della forma è costitutiva. La forma comporta un lavorio sul contenuto, una ponderazione. Ma più oltre, costringe ad un contegno, implica una postura, che è sempre un posizionamento, quindi una scelta di campo, quindi un atto politico. Ancora, il gesto artistico non esiste se non in relazione ad un destinatario astratto, plurale, indefinito: è, sempre, un atto pubblico. Il gesto artistico, che lavora un contenuto fino a dargli una forma e la consegna a un fuori indefinito e potenzialmente illimitato, è dunque il più politico degli atti.
Il progetto artistico e politico di Franca Rame e Dario Fo è emblematico di una concezione di intellettuale impegnato che prende la parola per confrontarsi con la storia. La fase centrale di quell’esperienza coincide con la fase storica segnata dall’inesorabile metamorfosi delle ideologie e dei relativi apparati fino ad allora dominanti, paradigmi che andavano perdendosi e la cui crisi polarizzava lo scontro politico. Da che lato stessero Rame e Fo è noto: dal lato di quella coscienza di classe ormai compiutamente teorizzata e che acquisiva una nuova consapevolezza di sé. Sulla scena artistica, in Europa era arrivato il living theatre, e dal canto suo la compagnia Rame-Fo prediligeva, facendone un manifesto letterario, le case del popolo ai teatri convenzionali, che anzi insieme al popolo si occupavano, come avvenne con la Palazzina liberty.
Il linguaggio scaturito da quel sodalizio è estremamente stratificato e complesso. Non solo la lingua ed i testi; anche i perché, i come e i dove contribuiscono a formare la presa di parola. Attraverso l’esplicita ibridazione dell’attività artistica con l’impegno sociale, indistinguibile a sua volta da quello politico, Rame e Fo radicano la propria libertà in una corrispettiva assunzione di responsabilità: l’adesione piena e dichiarata al sostrato assiologico del proprio agire, una novecentesca autonomia della volontà.
Una complessità culturale che non può essere intesa senza adeguati strumenti, eppure ne è evidente la potenza. E infatti la rappresaglia politica contro quel progetto, nell’incapacità di comprenderlo e rispondere, sferra un colpo bassissimo e mira al bersaglio umano; e all’essere umano donna, nonostante sia solo una parte di quel duo, la parte più invisa, colpevole di uno slancio che con tutta evidenza le si reputa illegittimo, proprio e soltanto a lei; e alla donna nella sua vulnerabilità più fisica e primordiale, annullandone in un sol colpo l’intelletto, il progetto, l’atto, riabbassandola brutalmente a soggetto dominato.
Il 9 marzo 1973, Franca Rame viene presa da cinque paramilitari di estrema destra, caricata su un furgoncino. Sta andando dal parrucchiere, esce dal Cinema-teatro Rossini occupato dalla Comune. Dentro si prova uno spettacolo intitolato Pum pum! Chi è? La polizia.
Il femminismo di Franca Rame, come per forza avviene con ogni femminismo che possa definirsi tale e quindi basato su un’idea di uguaglianza, non è che una parte delle sue attività, il Soccorso Rosso per i detenuti, l’impegno al fianco di quello che ancora può definirsi proletariato, inteso come un popolo operaio privo degli strumenti, assurti a dominanti, della borghesia capitalista. Una così evidente autocoscienza in capo ad una donna non può esserle ancora perdonata. Peggio, non può esserle perdonato il successo, e con esso l’ampiezza del pubblico che il messaggio raggiunge, da sempre unità di misura per la gravità dei crimini letterari. E il linguaggio di Rame, agli occhi della controparte politica, è tanto più offensivo perché alla spudoratezza della parola libera aggiunge il tono irridente, canzonatorio della commedia. La controparte politica, del resto, non solo è quella che semplifica, ma è anche quella che fa della violenza una bandiera, e non esita a usarla contro Rame.
Ciò che accadde è notorio. La punizione è l’offesa massima al corpo della donna, chiamata a pagare il conto per tutti. Non un banale sfogo di violenza sessuale: una spedizione punitiva che umiliando il corpo intendeva colpire il progetto culturale, intellettuale, politico, di cui Rame tuttavia non era che una singola esponente, insieme a Fo, alla Comune, a tutta la sinistra radicale ed extraparlamentare. A lei, tuttavia, spetta il trattamento speciale. Le sigarette spente sulla pelle, le lamette, lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce, la parola. È a sua volta un gesto politico, un atto sorretto da volontà, attuato con specifica postura. Ma vile, perché non supportato da un’assunzione di responsabilità. Non portato a viso aperto, e quindi privo dell’adesione al proprio sostrato assiologico. Un gesto anonimo, di cui non si individueranno mai con certezza processuale gli autori, sebbene è un dato storicamente verificato che quel 9 marzo il mandato alla banda neofascista venne da ambienti istituzionali[1].
Nel suo vuoto di senso e nella sua povertà estetica e semantica, anzi proprio per questo, quel gesto punitivo indubbiamente riesce nell’intento umiliante, come lo abbiamo appreso dalla viva voce dell’artista, che pochi anni dopo racconterà in un monologo la violenza, e quei primi minuti, le ore successive, ma ne impiegherà ancora molti per confessare che si tratta di autobiografia.
Il monologo si conclude con la scelta di non denunciare. È la presa di coscienza dell’incomunicabilità tra linguaggi troppo diversi: il linguaggio del gesto artistico, la libera presa di parola e di responsabilità; il linguaggio dei picchiatori fascisti, la vigliacca rappresaglia anonima, che attacca il corpo della donna perché non sa attaccare la parola dell’artista e l’azione militante; e un terzo linguaggio, platealmente assente da questa dialettica, che è quello dell’istituzione, cui la vittima non si affida. Questa terza voce dovrebbe elevarsi al di sopra di quelle antitetiche spinte, entrambe naturali, sociali, governando i rapporti tra esse. Dovrebbe parlare un’altra lingua, quella della responsabilità giuridica, del confine, pronunciare una parola capace di dare ordine allo scontro sanguinoso accaduto nella realtà riportandolo, in qualche modo, in termini che rendano tollerabile la prosecuzione di una coesistenza. A casa no, si dice dapprincipio Franca Rame appena scesa dal furgoncino, un istintivo rifiuto di richiudersi intorno alla propria offesa, amplificandola. Ma questo linguaggio istituzionale che dovrebbe essere salvifico viene invece visto come a sua volta potenzialmente lesivo, da chi già è stato troppo oltraggiato, e così si difende. Sto ferma non so per quanto tempo a guardarmi quell’ingresso, appoggiata al muro della casa di fronte. Quest’ambivalenza è storicamente molto significativa, storicamente inteso come ieri e come oggi. Ci dice quanto ancora non fosse risolto il rapporto col corpo della donna, già scelto in un abominevole automatismo come il bersaglio naturale, forse perché il più facile. La donna, che per aver preso la parola è già stata castigata, viene di nuovo punita poiché non ha diritto a una difesa delle istituzioni, o in ogni caso perché vive in un contesto in cui deve esitare, dubitare, chiedersi quale sarebbe la risposta, temere una rinnovata offesa, prefigurarsene l’intollerabilità. A prescindere dalla realtà dei fatti, già solo questa percezione decreta il fallimento dell’istituzione, e già è una punizione per la donna, che infatti se la autoinfligge: rinuncia, non ci prova nemmeno. Penso cosa dovrei subire se dovessi entrare ora. Penso alle domande. Penso ai mezzi sorrisi. Penso…e ci ripenso. Poi mi decido. Vado a casa. Vado a casa. Li denuncerò…domani. La voce di Franca Rame a questo punto è un singhiozzo lentamente trascinato, uno strazio. Il solo pensiero di poter ricevere un mezzo sorriso. E peste colga chi non ha capito.
Quei tre linguaggi così distanti per forza si scontrano in un modo sanguinoso, non c’è un terreno su cui possano intendersi. Sempre antagonisti saranno la libera presa di parola e il colpo basso di chi non assume su di sé la propria azione, né nel contenuto, né nella forma, e il linguaggio dell’istituzione che resta colpevolmente al margine, impotente, quando non è coinvolta nella scelta della forma peggiore.
Ma il gesto politico, come il gesto artistico, ha un doppio fondo. Un’arma di ritorno che può recuperare anche quel torbido, quell’umiliazione, trasformandola anch’essa in un prodotto artistico, un prodotto politico, militante. E non è una rivincita, attenzione, non ne verrà alcuna consolazione. Non esiste risarcimento possibile per la persona lesa nella sua dignità. È un’altra cosa, qualcosa che sta accanto, che non restituisce niente. E nondimeno cura, ma non la vittima, cura qualcos’altro. La dimensione collettiva traspone fuori la ferita di dentro, le mille sputate che mi son presa nel cervello, e le lenisce lì, su un corpo plurale, impersonale, altrimenti vivo. Un apparente artificio che sembra una ricerca di conforto, ma non è altro che un ritorno naturale, un effetto riflesso in una sfera che è stata intaccata tanto quanto quella individuale, che se ne sia coscienti o meno. Poiché il corpo di uno è il corpo di tutti, e soprattutto il corpo dell’artista.
[1] I fatti relativi allo stupro di Franca Rame furono parzialmente accertati nel corso di una inchiesta condotta alla fine degli anni ’90 dal giudice Guido Salvini sugli atti terroristici irrisolti, a partire dai fatti di Piazza Fontana, al fine di ricercare prove documentali delle dichiarazioni che erano state rese da vari estremisti di estrema destra. Dagli atti di quel processo emerse che l’azione contro Franca Rame fu ispirata da ufficiali della caserma dei Carabinieri Pastrengo, col fine di dissuadere Rame nella sua attività di sostegno ai carcerati col Soccorso Rosso. Il reato era tuttavia ormai prescritto. A riguardo, negli atti della Commissione Parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi istituita nel 1992 si legge: “Nel 1997 Angelo Izzo, un estremista di destra condannato per stupro e omicidio (fatti del Circeo), dichiarerà che lo stupro di Franca Rame era stato suggerito dai vertici della 1„ Divisione carabinieri ´Pastrengo a (Milano), allora comandata dal generale Giovanni Battista Palumbo, teste al primo processo e all'inchiesta parlamentare sul Piano Solo e iscritto alla P2. Nel 1998 un pregiudicato per reati comuni, già picchiatore nero, arrestato per traffico di eroina, confermerà la dichiarazione di Izzo accusando dello stupro un neofascista riparato a Londra. Quest'ultimo negherà l'addebito, ricordando di essere ´finito in galera per un anno proprio in seguito a un'indagine del generale Palumbo. Non sarebbe venuto a chiedere proprio a me di stuprargli Franca Rame’. Nell'ambito dell'inchiesta del giudice Salvini, il generale dei carabinieri in congedo Nicolò Bozzo testimonierà che il generale Palumbo avrebbe accolto la notizia dello stupro con una risata e il commento ´era ora’. Il 17 febbraio 1998 il premio Nobel Dario Fo indirizzerà una lettera aperta al presidente Scalfaro”. Da un’intervista a Bozzo pubblicata su L’Espresso il 26 febbraio 1998: “Quel mattino avevo appena ricevuto un fonogramma nel quale veniva data la notizia dell’aggressione della sera prima a Franca Rame. Il fatto era gravissimo e subito avvertii io stesso il mio superiore, il Generale Giovan Battista Palumbo. In quel momento era serissimo, ma quando gli consegnai quel messaggio, gioì: cambiò subito espressione, come a dire ‘Finalmente, era ora’. Approvava quell’operazione punitiva.”.